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CONTRO LE MOSTRE

TOMASO MONTANARI E VICENZO TRIONE


BUSINESS ART

Andy Warhol scriveva “La Business Art è il gradino subito dopo l’arte”. Si tratta di un giudizio di straordinaria attualità:
ci consente di riflettere sul pervasivo fenomeno del ‘mostrismo’ di cui l’Italia è diventata la patria.
In Italia prevalgono leggerezza, approssimazione, ignoranza, populismo. Una deregulation pericolosa. Tra i promotori
di questa situazione, Marco Goldin, che ha inventato un format fortunato che ha esportato in diverse città del Nord
Italia. La ricetta: organizzare mostre non elitarie, rivolte a un pubblico di famiglie, dedicate ad alcune delle star
dell’arte moderna e a movimenti iperpop, concentrandosi su tematiche facili, presentando opere di non eccelso livello
prelevate da importanti musei internazionale, in cambio di fees elevati.
Le BLOCKBUSTER, mostre all inclusive.
Si propongono soprattutto i maestri universalmente più noti e mediaticamente più efficaci, per soddisfare i bisogni di
‘masse acculturate’ si promuovono quindi ‘pleaiadi di mostre e mostriciattole, spesso insignificanti, a base
commerciale e promozionale, sempre costone’. Nella maggior parte dei casi, generiche, pretestuose, superficiali, prive
di contenuti, fondate sull’esibizione di qualche ‘trofeo’ conosciuto da tutti, che viene trasformato in vuoto idolo: in
icona-simbolo. Vediamo quindi che quadri che un tempo avevano avuto la capacità di esprimere un preciso significato
perdono il loro spessore semantico e simbolico: vengono ridotti a oggetti che possono procurare (al massimo) una
vaga soddisfazione visiva: una nefasta epidemia (riprendendo le parole di cesare Brandi).
Nel nostro paese, si sta sempre più diffondendo la filosofia di mostre occasionali e semplici: capaci di assecondare un
desiderio esteso di intrattenimento pseucolto; poco conta se aggiungano qualcosa alla conoscenza di un pittore o di
uno scultore. Non viene assegnata nessuna centralità al metodo adoperato dai curatori, ai criteri storiografici adottati,
agli sforzi interpretativi o attributivi, alla sapienza impiegata per disegnare le scritture espositive.
Le esposizioni non sono più pensate come un medium privilegiato per aiutare a conoscere in maniera approfondita e
critica l’itinerario di un artista, né sono l’esito di un lungo e libero processo di ricerca. Inoltre, non sono più uno
strumento, ma un fine (addirittura in serie).
Si organizzano mostre blochbuster per conquistare nuovi visitatori; anche se poi, non le si dota di apparati didattico-
esplicitativi ben curati: molto spesso si forniscono informazioni generiche e devianti, si annulla così ogni nobile finalità
informativa. Il botteghino è la misura della riuscita o meno di un progetto espositivo. Il rischio è stato colto da
Salvatore Settis “provocare improvvise accensioni di interesse e addensamenti di visite, seguite dal deserto e dal
silenzio”.
 Il mostrismo italiano è figlio di una precisa idea di storia dell’arte, fondata sull’indifferenza nei confronti di
tutto ciò che è traspersonale, lo stile, il contesto economico e sociale, l’istituzione, la struttura. Ci si
sottomette al potere delle celebrities, assecondando quella che il critico statunitense ha definito l’estetica del
nome proprio.
Tanti i colpevoli di questa anomalia. Innanzitutto, coloro che rivestono ruoli di responsabilità pubblica e
amministrativa, e che sovente tendono ad assecondare iniziative estemporanee, affidando a società for profit non solo
i servizi aggiuntivi, ma anche le funzioni strettamente scientifiche (di assoluta gravità). Sorretta da evidenti interessi
speculativi, questa rete si fa carico di precise responsabilità nelle opzioni critiche: quale artista proporre, quale
curatore nominare, quale allestimento progettare. Con la complicità di politici di diverso orientamento, società private
organizzano un po’ ovunque eventi effimeri, occasionali, di modesta qualità: senza nessun rigore, con poca attenzione
nei confronti degli aspetti conservativi e museografici.
 Quello che si sta affermando è il culturale, inteso come trionfo della quantità sulla qualità: il culturale
disperde, sparpaglia, degrada, squalifica, ci fa ripiombare nei numeri, con la pesantezza del quantitativo.
Dunque, emancipatasi dai suoi fini essenziali, la cultura è ridotta a insegna ufficiale del turismo, del
divertimento, dello shopping. Si trattano i musei e gli spazi espositivi pubblici non come snodi decisivi del
nostro patrimonio, né come cattedrali del sapere della meditazione e dello studio, ma come luoghi di un
tempo libero da occupare seguendo le spietate leggi del mercato. Riti consacrati alla dea Vanità, dove ci si
nutre degli ‘spiccioli dell’Assoluto’.
Le mostre quindi non devono far riflettere, educare, ma devono essere spettacolo (spettacolarizzazione), distrarre, far
divertire. Ed in tale orizzonte si collocano le mostre blockbuster, che si basano su suntuosi allestimenti ed incuranti di
ogni logica critica, gli organizzatori di queste quasi-mostre si affidano alla pratica dell’ostensione dell’immagine
miracolosa, scelta perché già ampiamente riconosciuta a livello popolare.
Il fine nobile di questi show: farci precipitare dentro complesse composizioni di icone e di colori.

VIE DI USCITE dunque come depurarci dall’eccitazione tossica che ci sta contagiando, dalle speculazioni e
dall’imperante cialtroneria di cui siamo vittime? Nell’epoca dell’entratainment forzato, occorrerebbe avviare un
radicale ripensamento delle grandi mostre. Ricominciando a considerare le opere d’arte non come comparse di costosi
show, ma come magnifici strumenti per interrogarci sulle nostre inquietudini, sul nostro modo di guardare il mondo.
Non dobbiamo dire basta a Caravaggio, ma abbiamo il dovere di continuare a rileggerli e a riscriverli, affrontando le
incognite nascoste nei loro quadri e nelle loro sculture. Dobbiamo portarci al di là di ogni riduzionismo culturale,
evitando di proporre il già-detto.
Inoltre abbiamo bisogno di istituzioni che, adeguatamente sostenute dal punto di vista economico, sappiano orientare
con autorevolezza le strategie, acquisiscano una rinnovata dignità culturale, abbiano il coraggio di fare scelte non
legate al consenso immediato, non si facciano dettare i palinsesti dai produttori privati e ricomincino a scommettere
su rassegne programmate con largo anticipo. E ancora: c’è bisogno di mostre ordinate non da curatori collusi, ma da
studiosi con una salda formazione storico-artistica e uno spiccato talento critico, i quali sappiamo riconquistare il
passato a partire dal presente.
Attraverso il medium della mostra, si propongano di leggere l’itinerario di un determinato artista, illuminandone
angoli talvolta oscuri e segmenti ancora poco frequentati.
ROMPERE LA GABBIA

“Proposito per i fine-settimana, il tempo libero, le vacanze: non visitare nemmeno una mostra”.
Per boicottare l’industria del trasloco delle opere d’arte, ma soprattutto per il gusto e la gioia di sprofondare nel
‘contesto’: che è quello inestricabile groviglio di paesaggio e arte, memoria e storia, bellezza e conoscenza che da
senso al rapporto tra presente, passato e futuro.
Per esempio: in Toscana la pieve di san Giovanni Battista. Solo la facciata romanica resta a ricordare l’antichità di
questo tempio, fondata su una necropoli etrusca. Una volta dentro, ci si accorge del rifacimento ottocentesco non ha
cancellato i segni di una lunga vicenda artistica.
Vi è ancora la pieve di Pomarance: ciò che di più è commovente conserva la pieve non è un’opera d’arte, ma è una
tomba di Michele Marullo, detto il Tarcaniota dalla stirpe di sua madre, imparentata con la casa imperiale dei
Paleologi. Questi sono solo esempidi ciò che proviamo a chiamare contesto: quel vortice di passato, presente, futuro,
di conoscenza e bellezza, di storie e incontri, quell’insieme indescrivibile di nessi e collegamenti che si sprigiona
quando decidiamo di vedere, di conoscere, di amare anche il più piccolo frammento di quel corpo unico che è il
paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione.
Se c’è un motivo per essere contro le mostre è che le mostre sono contro il contesto: sono le mostre il più grande
fenomeno di rimozione e oscuramento dei contesti, insieme a guerre e a catastrofi naturali.
È per questo che, nell’estate del 2015, l’orgia consumistica della mostra delle mostre, l’Expo di Milano, spinse gli
storici dell’arte a dire basta: il padiglione fieristico di Expo Eataly è il culmine di due processi che si intrecciano
inesorabilmente: la mercificazione e la privatizzazione del patrimonio culturale e la distruzione materiale e
intellettuale del contesto.
Ma la di là del repentaglio cui vengono sottoposte le opere, preoccupa il radicarsi di un atteggiamento diffuso: nel
perseguire l’evento a tutti i costi,si dimenticano le vere sfide poste dalla manutenzione e dalla salvaguardia del nostro
inestimabile patrimonio, ovvero l’aumento e la redistribuzione di una vera conoscenza fondata sull’innovazione del
sapere, cioè sulla ricerca.
Si dimentica che solo dalla conoscenza critica può nascere una vera crescita civile, quel pieno sviluppo della persona
umana che la Costituzione segna come obiettivo finale della tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione.
Vediamo che le mostre si stanno imponendo come orizzonte sempre più esclusivo del consumo delle opere d’arte, per
la fame di eventi che governa la società dello spettacolo: ma non è di queste mostre-zoo che abbiamo bisogno.
Lo sradicamento selvaggio dal contesto delle opere d’arte, considerate alla stregua di meri prodotti da
commercializzare, si è fatto sempre più frenetico e irragionevole, e promette sviluppi anche più sconsiderati, su scala
globale.
Inoltre non dimentichiamo i gravi danni causati dallo spostamento delle opere: ma il peso degli interessi commerciali e
politici che ormai muovono il circo equestre delle mostre è tale che nessuno è disposto a parlarne in pubblico.

Dato che è inutile sperare in qualche tipo di cura o sollecitudine da parte delle pubbliche autorità dell’Italia di oggi,
sarebbe vitale che almeno gli studiosi si dessero una sorta di codice etico, un codice di autoregolamentazione che
permettesse di certificare le mostre che aspirano ad essere virtuose:
- La mostra deve essere concepita come un mezzo per l’avanzamento della ricerca e non come un fine in sé.
Una mostra scientifica ha senso solo se è progettata e guidata da coloro che da anni si occupano
dell’argomento. Ciò significa che gli storici dell’arte devono proporre loro le mostre, invece di accettare il
ruolo passivo di autore del saggio in catalogo
- Deve essere davvero necessaria
- Deve presentare un’idea, una visione storiografica o anche la ricostruzione di un nodo storico o stilistico
- Se si allestisce in un museo, non deve danneggiarlo, svilirlo o disturbarlo in alcun modo
- La mostra deve impegnarsi a documentare tutto ciò scrupolosamente
- La mostra deve impegnarsi formalmente a non ricorrere ad alcun tipo di pressione politica, amministrativa,
economica o comunque extraintellettuale
- Deve essere dotata di un allestimento e di un apparato didattico: da questi test si devono poter evincere
chiaramente lo scopo, le tesi e i vantaggi scientifici e culturali della mostra stessa
- La mostra deve prevedere le condizioni più agevoli per la visita privata e collettiva degli studiosi e degli
studenti, e per ospitare, facilitare e promuovere il dibattito critico più libero ed esteso

Di fronte a queste obiezioni i grandi mostrificatori, si pensi al sullodato Marco Goldin, rispondono che si tratta di
preoccupazioni elitarie e radical chic, e che le mostre blockbuster sarebbero invece intimamente democratiche. Una
giustificazione al limite del razzismo culturale e sociale: perché presume che al popolo bue si possa ammannire solo
merce intellettualmente scadente, o avariata.
Viceversa, le uniche mostre che hanno davvero diritto di esistere sono quelle che parlano contemporaneamente agli
specialisti e al grande pubblico. La sfida è davvero appassionante: tenere insieme i due destinatari senza tradirne
nessuno.
Facciamo un esempio concreto: nel 2010 a Casole d’Elsa, tra Siena e Volterra, si è tenuta la mostra su Marco Romano
e il contesto artistico senese tra Duecento e Trecento. L’avventura artistica dello scultore: la mostra riuniva
praticamente tutte le opere trasportabili di questo singolare e misterioso artista. In questo caso, al contrario, la
mostra ricreava il contesto figurativo nel quale nacque il monumento più illustre di Casole: una mostra era al servizio
della comprensione del tessuto artistico permanente, e il visitatore che usciva dalle sale ed entrava nella chiesa si
sentiva a buon diritto il testimone di una singolare resurrezione storica. Chi dunque nel 2010 ebbe la pazienza di
arrivare fino a Casole venne ampiamente ricompensato e ne potè uscire colmo di gratitudine per l’ideatore e curatore,
Alessandro Bagnoli, valente storico dell’arte ed esemplare funzionario della sovraintendenza di Siena, che era riuscito
a ricordarci a cosa servono le mostre e la stessa storia dell’arte: a ricostruire, a far parlare, a illuminare il contesto.
Ecco il punto: il contesto.
Dove finisce il passaggio della natura, dove inizia l’arte dell’uomo? È una domanda senza risposta. Anzi: la risposta è
che questa fusione, questa comunione sono il vero capolavoro della nostra storia. è esattamente quello che
chiamiamo contesto.
LA BIENNALIZZAZIONE DELL’ARTE

Mario Vargas Llosa ha dedicato alcune pagine de La civiltà dello spettacolo alla Biennale di Venezia: ha ricordato che
per molto tempo la Biennale è stata una vetrina di prestigio, di modernità, di sperimentazione, ma da qualche anno,
accoglie ‘molta più frode e imbroglio che serenità, che profondità’ e inoltre diviene ‘come uno spettacolo talvolta
noioso, addirittura farsesco e desolato’, rivelando, sotto la maschera della ricerca di nuovi mezzi espressivi ‘la terribile
orfanità di idee’.
Certo, esistono alcune eccezioni. Che tuttavia, non sempre emergono in maniera chiara e distinta, per dirla con le
parole di Hughes “è sempre più difficile distinguere le aquile dai tacchini”: un vuoto edonismo.
La Biennale di Venezia, sin dalla sua fondazione, si propone come luogo dove i maggiori Paesi del mondo presentano i
loro ‘prodotti artistici’ più interessanti all’interno di specifici padiglioni; negli anni, questa formula è stata ampiamente
rimodulata.
In una prima fase, la Biennale si è ‘limitata’ a documentare voci ed esperienza varie. Dagli anni Settanta, è diventata
altro. Uno spazio critico, nel quale ogni curatore generale sceglie un determinato topic, per riattraversare le geografie
dell’arte. e ancora: un’occasione straordinaria per radunare opere diverse in un unico contesto affidandosi a precisi
punti di vista.
Sorretta dall’obiettivo di essere a tutti i costi up to date, la prestigiosa istituzione veneziana, però, rende ancora a
riproporre nette suddivisioni tra linguaggi (arte, architettura, cinema, teatro, danza, musica), che appaiono oggi in
larga misura superate. Si muove, quindi, all’interno di una ottica multidisciplinare e non interdisciplinare, come
esigerebbero gli scenari della contemporaneità.
Questo format è stato adottato un po’ ovunque, ottenendo larga fortuna su scala internazionale. Al punto che
potremmo parlare di una sorta di “biennalizzazione” delle mostre di arte contemporanea. Tale fenomeno si è imposto
seguendo due traiettorie principali: per un verso, nel mondo, abbiamo assistito alla proliferazione di eventi d’arte con
cadenza periodica. Per un altro verso, molti musei sempre più spesso ospitano collezioni permanenti proprio sulle
orme di modello-Venezia: siamo come dinnanzi ad un brand di vasto successo. Un marchio ubiquo, che ormai appare
debole sul piano critico e progettuale. Ci si serve di questo ‘nome’ facile da comunicare con l’obiettivo di favorire il
rilancio di una città, inserendola nei circuiti del turismo culturale.
Ogni Biennale si propone come laboratorio di quello che sta avvenendo: ritratto irrisolto della contemporaneità.
Megaistallazione elaborata da un curatore che accoglie opere realizzate da tanti artisti: palinsesto.

I principali interpreti di questa drammaturgia sono curatori e artisti.

Ma chi è il Curator? Sovente sono dilettati di rara incultura, sprovvisti di specifiche conoscenze, che però rivendicano il
diritto di parlare e di scrivere sulle esperienze artistiche di oggi. Talvolta, autori di testi esili e confusi, inclini a rifugiarsi
in vaghi riferimenti estetologici. Non di rado, nei loro interventi, pronunciano giudizi poco controllati, poiché sono
sprovvisti di conoscenze storico-filologiche, attratti esclusivamente dallo choc trasmesso da opere, da perfomance e
da installazioni, appaiono incapaci di promuovere indirizzi e di orientare cambiamenti linguistici. Ma si rivelano
soprattutto incapaci di elaborare un pensiero forte, per provare a cogliere il senso del divenire delle arti nell’età
dell’ansia.

Desiderio di autonomia degli indipendentcurators viene sfidato dalla maggior parte degli artisti invitati alla Biennale,
poiché questi propongono non forme, ma formazioni, che si sottraggono alla contemplazione, imponendosi con forza,
come stupore pellicolare. Creazioni non “condannate” a rimanere, ma effimere, che verranno distrutte. Testimoni di
una idea liquida del tempo, inteso come nostro coinquilino essenziale, che interroghiamo ininterrottamente, senza
ricevere risposte: non sappiamo se lo stiamo attraversando o se è lui ad attraversarci.
Per secoli, gli artisti hanno provato a sconfiggere Cronos: dipingere un quadro o scolpire una scultura era innanzitutto
un modo per sottrarsi all’inesorabile finire delle cose. Sorretti da una sorta di cupio dissolvi, gli autori di installazioni,
invece, si sottraggono alla fascinazione del “respiro lungo”. Realizzano opere destinate a svanire, a sfumarsi nel nulla.
Vogliono parlare da sole, spettacolarizzandosi ed estetizzandosi. Dunque, non vogliono farci abbandonare le
circostanze immediate che ci troviamo a vivere, non mirano a portarci altrove.

Non senza ironia, Scarpa riesce a cogliere i limiti sottesi del pervasivo fenomeno della “biennalizzazione”. Che oscilla
tra mondanità effimera ed elitarismo concettuale.
Mondanità, innanzitutto.
Le Biennali organizzate un po' ovunque mostrano una tendenza sempre più diffusa nel mondo dell’arte: la scelta di
adeguarsi ai riti del sistema della moda. Vi dominano: celebrity culture. Si ha la sensazione di attraversa autentici circhi
della postmodernità.
L’altra faccia della superficialità trionfante nelle Biennali è rappresentata da una certa inclinazione all’elitarismo: da un
anticonformismo programmato e prevedibile.
Le Biennali sono diventate il regno di un’arte che si professa estrema e radicale, ma appare profondamente
istituzionale: si dichiara eversiva, ma è intimamente integrata nel sistema. A Venezia e altrove si celebrano le
mitologie declinanti dell’avanguardia debole, ormai diventata parodia di se stessa.
La ricerca di un anticonformismo programmato si manifesta innanzitutto nella scelta compiuta dagli
indipendentcuratorsdi disegnare percorsi espositivi autoreferenziali e labirintici. Per timore di apparire troppo chiari e
didascalici, essi spesso non forniscono ai visitatori significativi “accompagnamenti” critici o comunque informativi.
Guidati dall’idea secondo cui una mostra debba essere in grado di autolegittimarsi, tendono ad amplificare
l’esotericità di installazioni già chiuse in se stesse, suscitando negli spettatori disorientamento, disagio.Inoltre molto
frequentemente i curatori delle Biennali si affidano a testi introduttivi vaghi, approssimativi, aggrovigliati, scritti in
gergo intellettualistico, ingenuamente ambiziosi, con citazioni tratte dai “soliti” Heiddeger, Foucault, Deleuze, Deridda
e altri. Si tratta di testi che quasi mai si riferiscono in maniera puntuale alle opere esposte. Incapaci di svelarne il senso
e i significati simbolico-culturali. Inadeguati a far comprendere le ragioni culturali, storiche e antropologiche dalle quali
sono nate quelle opere.
Sono, questi, vizi che possiamo ritrovare in molte mostre ospitate nelle fondazioni e nei musei d’arte contemporanea
italiani.

Per reagire a questa deriva, occorre, secondo Eco, ricominciare a fare critica d’arte “all’antica, alla Vasari per
intenderci”.
Ritorno a Vasari, dunque.
Significa riaffermare, in una prospettiva contemporanea, la centralità della critica d’arte, ponendosi sulla soglia tra
iconoclastia e iconofilia. Ma significa anche reagire alla rapidità della fruizione distratta imperante al tempo del web. E
non temere di proporre itinerari espositivi audaci e originali, ma aiutare i visitatori a orientarsi dentro i percorsi
disegnati.
E ancora: ritornare a Vasari, per un critico di oggi, vuol dire non trattare le opere come ‘cose’ da spostare liberamente,
senza tener conto di nessi storici e culturali; né usarle come parti di autoreferenziali installazioni. Non si invita più lo
spettatore alla contemplazione; si fanno sempre più critiche; non posseggono più la vitalità e l’energia necessaria per
darsi a noi senza accompagnamenti; non riescono ad attivare un’esperienza intersoggettiva, né a stabilire un dialogo
immediato con gli spettatori.
Infine, ritornare a Vasari vuol dure in usare le opere d’arte solo come mattoni di astratti edifici teorici. Ma sceglierle,
studiarle, accostarle, collegarle tra loro.
RIPRENDIAMOCI I MUSEI

Questa profonda riscrittura dell’assetto governativo del patrimonio culturale pubblico italiano ruota intorno alla
separazione radicale e violenta tra tutela e valorizzazione: la prima lasciata a soprintendenza in via di smantellamento,
la seconda prospettata come unica missione dei musei. Ciò deriva dalla convinzione che la valorizzazione non sia
finalizzata all’aumento della cultura, ma invece sia da intendere come messa a reddito del patrimonio.
Infatti dalla riforma Franceschini leggiamo il sempre più evidente primato della valorizzazione in cui è evidente
l’imprinting della biennalizzazione del patrimonio: si è scommesso non su una comunità scientifica residente nel
musei, ma sulla figura monocratica del direttore.
È tutto il contrario di ciò che si sarebbe dovuto fare, poiché i luoghi di cultura, in particolare i musei, sono diventati
grandi mostre permanenti affidate a un curatore demiurgo che rispondesse alla politica e guardasse al botteghino.

Questo esito sconcertante è il traguardo di una serie di errori. Uno è aver messo il bando prima di aver reso ben chiari
e fermi il potere sostanziali dei direttori, i finanziamenti dei musei, i rapporti futuri con i concessionari for profit. Un
altro è aver sommato in un unico bando venti musei diversissimi tra loro, con il ben risultato che la commissione ha
avuto (nella miglior ipotesi) nove minuti per leggere e valutare ogni curriculum e quindi minuti per il colloquio che ha
deciso la sorte degli Uffizi o di Capodimonte. Un terzo passo falso è aver attribuito un enorme potere discrezionale al
ministero.
Queste considerazioni introducono a quello che è un altro errore radicale che ha fatto sprofondare i musei nella notte
attuale: che è appunto la lottizzazione politica dei loro organismi scientifici, e dunque la connessa prefigurazione di
una loro sostanziale devoluzione agli enti locali attraverso la trasformazione in fondazioni di partecipazioni.
vediamo quindi che i direttori-curatori hanno preferito la spettacolarizzazione alla produzione della conoscenza,
arrivando a sacrificare alla mostrificazione anche la tutela stessa di un patrimonio ormai senza tutori. Due esempi
eccellenti sono gli Uffizi e Brera.
Per invece vedere buone riuscite museali bisogna andare a guardare alle piccole istituzioni culturali che innervano la
Penisola. E guardare alle microstorie del patrimonio significa trovare, lontano dai riflettori, storie di successo: buone
pratiche del tutto trascurate dalla macchina politica-mediatica, ma non dai visitatori. Esempi brillanti sono il Parco
archeologico di Baratti e Populonia.

CROSSOVER SENZA SENSO

Mostre diverse. Di qualità diseguale. Accomunate proprio dal ricorso a ingenui crossover. Una consuetudine molto
italiana, dietro cui vi sono ragioni differenti. Alcune buone intenzioni tante furbizie e facili soluzioni.
ASPETTI POSITIVI
Questa proposta espositiva rivela l’esigenza di ripensare l’identità tradizionale dell’istituzione museale, che aveva
qualcosa di anacronistico. Sembra evocare in noi oggetti con i quali l’osservatore non ha più un rapporto vivo e diretto.
Dunque, occorre ripensare al museo. Trasformandolo in agente attivo. Uno spazio mobile e ubiquo, in grado di
uniformare l’eterogeneità del mondo.

Accanto a queste ragioni istituzionali, ve ne sono altre di carattere più strettamente artistico. Affidandosi al crossover,
artisti di diverse generazioni esprimono la volontà di portarsi al di là di certi dogmi sottesi alla filosofia
dell’avanguardismo novecentesco: gli artisti marcano una netta distanza dal gusto e dalla sensibilità dei fruitori.
L’arte tende a diventare una pratica elitaria, non sempre capace di comunicare e di sedurre; da analoghe esigenze è
nata la scelta di ricorrere al crossover da parte di molti artisti contemporanei. Che vogliono spingersi al di là dell’idea
della modernità come epoca dell’identificazione dell’essere come il novum. Si misurano quindi con momenti ed
episodi storici, adottando prospettive inedite.
Decisiva è la strategia della distanza: gli artisti del corssover si sottraggono alla dittatura del presente. La memoria
diviene un topos che indica un divenire.
Grazie al crossover, molti artisti contemporanei si propongono di donare alle pratiche della postavanguardia
prospettive inedite.
In questa linea viene ridisegnato il rapporto classicità-contemporaneità.
Allora viva il crossover? Niente affatto: si tratta di un fenomeno che nasconde aspetti perturbanti e motivazioni
culturali più ampie. Una mania che potrebbe essere letta come il sintomo della nostra epoca, segnata da un
progressivo indebolimento della sua potenza creatrice.
Quella che Jean Clair he definito l’età del decalè. Termine che allude al desiderio di togliere le zeppe di qualcosa,
rendendola instabile. I musei sono usati come agenti, come promotori, come impresari.
Questa confusione tra piani rischia di incidere in maniera irreversibile sulla nostra stessa idea di cultura. Che, ha scritto
Mario Vergas Llosa, non appare più come reversione critica costante e profonda di tutte le certezze, le convinzioni, le
teorie e le credenze. La cultura non viene più considerata come mezzo che sostiene e guida la conoscenza,
imprimendole una funzionalità precisa, una sorta di disegno morale.
Il frequente e generico ricorso al metodo del crossover rischia di eliminare timbri, inclinazioni, sfumature. Si
perseguono ingiustificati pareggiamenti: esperienze artistiche di diversa qualità smarriscono la propria identità:
vengono equiparate, rischiando di indebolire così sia l’antico sia il moderno.
Ci si misura con la Storia con superficialità e leggerezza. Se ne eliminano le inquietudini, le domande, le ansie: se ne
trasformano alcune tracce decisive in momenti di intrattenimento leggero.
Alcune opere, non pensate come site specific, vengono esposte dentro cornici legittimanti: come oggetti di design.
Senza nessuna relazione culturale, formale o simbolica con il contesto circostante e con il patrimonio in esso ospitato.
In rari casi, i crossover possono avere un valore espositivo: questo avviene quando si configurano come l’esito di
un’approfondita concentrazione tra artisti contemporanei, critici, sovraintendenti, conservatori, urbanisti, comunità
locali. E quando rappresentano il risultato di un confronto consapevole e misurato degli stessi artisti con il patrimonio
storico, che porta alla creazione di opere concepite ad hoc.
Alcuni rari episodi felici: 1. 2016, Firenze: Ai Weiwei sistema sulle facciate di Palazzo Strozzi un’installazione di
straordinaria efficacia, che ne rispecchia l’architettura rinascimentale. Una sequenza di gommoni arancioni incastonati
nelle finestre: un modo sofisticato e insieme immediato per alludere alle tragedie dei migranti.
Le Nozze di Cana, al Louvre dal 1798, è stato ‘allestito’ nella sua originali destinazione, la parete di fondo del refettorio
dell’Isola di san Giorgio, progettato da Palladio: è la riproduzione che, grazie alla perfezione tecnica, restituisce
all’immagine deteriorata e snaturata un’aurea nel luogo stesso dove e per il quale era stata concepita. Nascono così
originali crossover. Lo spettatore non deve limitarsi a guardare: accompagnate anche da musiche, da suoni, da parole
e immagini, permettono allo spettatore non solo di guardare, ma anche di entrare dentro ambienti avvolgenti. La
meta ultima, l’interattività.
Queste esperienze espositive ci consegnano sguardi che salvaguardano il volto delle opere storiche: si tratti di sguardi
che non si adeguano alle spietate e furbe logiche della comunicazione e del marketing: rifiutano la sindrome
dell’arredamento. Infine, evocano confronti rispettosi e mai pacificati tra ora e ieri, basati su un’attenta, controllata e
credibile ricerca di rapporti storici, formali, simbolici.
SERVIZI PUBLICI INTELLETTUALI

Quasi sempre le opere di oggi non sono state pensate per i contesti storici in cui vengono schiaffate, ma sono invece
nate per essere autosufficienti: e solo un solerne curatore ha poi pensato di farle dialogare con la location che è
riuscito a ottenere in concessione.
Nell’autunno del 2016 il Comune di Firenze decise di esporre sul sagrato di Santa Maria Novella un’opera di Gaetano
Pesce: nessuna delle tre opere era site specific, tutte anzi erano state realizzate anni prima. Il copione è chiarissimo:
un’opera contemporanea viene inserita in un luogo monumentale e celeberrimo della città. Fine. Seguono la
autocelebrazione e sulla coraggiosa e audace scelta di far dialogare antico e moderno: noi sì che siamo
contemporanei.
Ma nel caso dell’opera di Pesce una circostanza ha svelato l’estrema fragilità culturale dell’operazione. Una fuga di
notizie di qualche mese prima aveva rilevato che già esisteva il progetto di esporre lo stesso oggetto in piazza della
Signoria, e solo dopo si era ripiegata su un’altra piazza storica. A quel punto un solerte scriba si inventò un nesso tra la
Maestà tradita di Pesce e la Maestà Rucellai di Duccio. Il punto è che la poltrona di Pesce aveva già lo stesso titolo
anche quando avrebbe dovuto andare nella prestigiosa cornice di piazza della Signoria.
Morale: se il passato è un testo vivo da interpretare i frutti possono essere vitali, ma se invece diventa un set, quei
frutti rischiano di essere avvelenati.
Questo accade specialmente in Italia. La mostra che la Francia ha dedicato ad Alaia non si è tenuta al Louvre, ma al
Palais Galliera, cioè nel mirabile museo della moda. A New York i suoi abiti sono stati esposti non al Metropolitan, ma
in un museo della contemporaneità come il Guggenheim.
Se invece in Italia li portiamo ala Borghese è per una duplice incapacità: non sappiamo più come usare il nostro
patrimonio culturale, e non riusciamo ancora a costruire veri luoghi del contemporaneo. Ma se utilizziamo la Galleria
Borghese come un amplificatore del presente, e delle sue effimere mode, rischiamo di concludere che Alaia è davvero
uguale a Bernini. E invece, abbiamo un enorme bisogno di distinguerli per comprenderli, entrambi.
Questo è il punto. Vogliamo arrogarci il diritto di proclamare che pezzi del nostro presente sono già diventati classici. E
siccome non abbiamo la pazienza di aspettare l’unico giudice possibile (il tempo), trucchiamo le forze le carte forzando
i luoghi dei classici (i musei) a consacrare con il crisma dell’artisticità marchi altrimenti destinati a un veloce consumo.
Se Alessandro Michele è come Michelangelo, vuol dire che di fronte alla Sagrestia Nuova posso reagire come di fronte
all’ultimo paio di scarpe di Gucci cioè dicendo semplicemente mi piace o non mi piace: senza sapere il perché.
Nella prospettiva gramsciana l’accesso di massa alla conoscenza ha uno scopo diametralmente opposto a quello degli
eventi di cui stiamo parlando: quello scopo è la costruzione di una critica del presente, non di una santificazione.

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