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1. Arte e sistema dell’arte. La teoria istituzionale dell’arte

Per sistema dell’arte contemporanea si intende oggi il complesso dei luoghi e canali in cui l’arte
viene prodotta, venduta, esposta al pubblico, e delle figure che provvedono alla sua produzione e
messa in circolazione; vale a dire l’artista, il mercante, il collezionista, il critico, il curatore e
direttore di museo, il giornalista e l’editore d’arte. L’insieme di queste figure e canali compone
quello che viene oggi definito il “sistema dell’arte”. Il senso dell’espressione ‘sistema dell’arte’
coincide per alcuni versi con quello di ‘mondo dell’arte’, ed esiste quindi in un certo senso - in
qualche forma - fin da quando esiste l’arte: quando Michelangelo dipingeva la cappella Sistina
aveva a che fare per lo meno con il papa suo committente e con il complesso degli artisti e degli
amatori d’arte della Roma cinquecentesca, e volendo potremmo dire che quello era il sistema
dell’arte di quel tempo. Ma alcune figure all’epoca di Michelangelo non esistevano: non esisteva
una figura fondamentale come è oggi quella del gallerista, perché le opere venivano direttamente
commissionate all’artista, gli artisti non avevano uno stock di opere già pronte nello studio. Il
critico era tutt’al più un amatore-collezionista, o un artista: prendiamo Giorgio Vasari, che con le
sue Vite scritte a metà del Cinquecento si può considerare il primo storico dell’arte, se non il primo
critico, e che era a sua volta un pittore. Non esistevano i direttori di musei perché non esistevano i
musei, non c’erano curatori perché non c’erano le mostre, ecc.

Le origini del sistema dell’arte


Un primo cambiamento importante si verifica nel corso dell’Ottocento: è in questo secolo che i
musei, apparsi nella loro forma attuale nel Settecento, cominciano a consolidarsi, che nasce il
mercato privato come lo intendiamo oggi, che fanno la loro apparizione la mostra personale (che
comprende opere recenti) l’antologica (scelta di opere di vari periodi) e la retrospettiva
(ricostruzione della carriera). In precedenza in Francia, nazione guida per l’arte dal Settecento fino
al 1940 circa, le uniche mostre pubbliche erano i Salon, grandi rassegne annuali di carattere statale,
cui si accedeva passando attraverso una giuria, a sua volta controllata dai maggiori esponenti
dell’Académie des Beaux Arts. Quest’ultima era una scuola, come le nostre accademie, ma aveva
un ruolo molto più ampio, funzionava come una specie di organizzazione di categoria degli artisti,
ne tutelava e ne difendeva il prestigio sociale e culturale. Gli artisti più anziani e famosi
dell’Accademia formavano la giuria del Salon, decidevano delle ammissioni, dell’allestimento, dei
premi. Non solo: siccome si trattava di un’istituzione statale, dipendente dalla monarchia,
controllavano anche le commissioni pubbliche.
Le accademie, nate nel Rinascimento, avevano a loro volta preso il posto delle corporazioni,
organizzazioni di mestiere che dal medioevo controllavano l’attività di pittori, scultori e architetti.
Il predominio dell’Accademia viene messo in crisi nella seconda metà dell’Ottocento dall’emergere
degli Impressionisti.
Claude Monet, La Grenouillère, 1869
Rifiutati dai Salon, gli Impressionisti cominciano a esporre per conto loro. Un antecedente era stato
quello di Courbet, pittore realista che nel 1855, escluso dall’Exposition Universelle di Parigi, si era
costruito un proprio padiglione indipendente fuori dalla mostra ufficiale, in cui espose
Gustave Courbet, L’atelier, 1855
Orgogliosa rivendicazione dello studio dell’artista come luogo cruciale di elaborazione culturale, in
opposizione alla gestione ufficiale della cultura rappresentata dai Salon.
Un’altra mostra personale farà più tardi Edouard Manet. Contemporaneamente, contribuisce alla
crisi delle Accademie e delle associazioni artistiche ufficiali (ce n’erano in molte città, dalle
Kunstverein in Germania all’Associazione degli Amatori e Cultori di Belle Arti a Roma, alla
Famiglia Artistica milanese) il fenomeno delle Secessioni.
Josef Maria Olbrich, palazzo della Secessione a Vienna, 1898
Gli artisti più giovani e/o più anticonvenzionali, che non riescono a trovare spazi nelle mostre e
nelle associazioni ufficiali escono da queste ultime e ne fondano di proprie. Equivoci da sfatare: 1.
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Che le Secessioni raccogliessero solo le frange più avanzate della ricerca. Accanto agli innovatori
c’era anche un buon numero di artisti mediocri che le giurie dei Salon scartavano per l’insufficienza
oggettiva delle loro opere. 2. Che fossero sempre avversate dall’establishment politico e culturale.
Questo accadeva a Parigi, ma a Vienna per esempio la Secessione poté contare da subito su un forte
sostegno istituzionale, come prova il fatto che già l’anno dopo la sua fondazione (1897) la nuova
associazione riusciva a dotarsi di una imponente e costosa sede progettata da J. M. Olbrich.
E’ invece vero che le varie secessioni contribuirono molto alla diffusione in Europa delle nuove
ricerche, a partire all’Impressionismo e dal Postimpressionismo. Organizzavano infatti a loro volta
delle mostre internazionali in cui queste tendenze venivano rappresentate.
Parete alla Secessione romana del 1913 con I pesci rossi di Matisse
Dato che non possono contare sulle commesse pubbliche (lo stato francese arriverà addirittura a
rifiutare a fine secolo la donazione Caillebotte, collezione di quadri lasciata dal pittore omonimo, in
cui figuravano pezzi che oggi farebbero venire l’acquolina in bocca a qualsiasi museo: da Cézanne
a Monet, da Renoir a Degas), gli impressionisti francesi cercano altrove i loro acquirenti.
L’impressionismo favorisce così la nascita delle gallerie private, che cominciano ora a differenziarsi
dai negozi di cornici dove in precedenza i quadri passavano di mano.
Paul Durand Ruel
Ambrose Vollard
Cézanne, Ritratto di Vollard, 1899
Renoir, Ritratto di Vollard, 1908
Picasso, Ritratto di Vollard, 1910
Ambrose Vollard, mitico mercante degli anni a cavallo del secolo, segue prima Cézanne e gli
Impressionisti, quindi l’avanguardia cubista.
La pittura impressionista viene dapprima comprata solo all’estero, da una classe avventurosa di
imprenditori americani e dai collezionisti tedeschi; ma già alla fine dell’Ottocento la vittoria degli
Impressionisti è completa. Al sistema di selezione dell’accademia è succeduto il sistema di
selezione messo in atto dall’accoppiata mercante-critico (con il primo in posizione dominante).
Se l’Impressionismo ne ha gettato le basi, il sistema dell’arte nella sua configurazione odierna è un
fenomeno molto recente, non più vecchio di una trentina d’anni. Oggi tutti gli attori del sistema
hanno cambiato almeno in parte il proprio ruolo; i ruoli a volte si sono sovrapposti e identificati:
l’artista per esempio è talvolta anche curatore (vedi Maurizio Cattelan alla Biennale di Berlino
2006)
Maurizio Cattelan
il curatore tende ad assumere un ruolo creativo che sconfina in quello dell’artista
Achille Bonito Oliva.
Il mercante può diventare critico
Philippe Daverio,
l’editore può diventare curatore o almeno organizzatore di mostre
Giancarlo Politi
e di Fiere
Ingresso della Frieze Art Fair e la Flash Art Fair.
Il collezionista può fondare il suo museo
Charles Saatchi

Il museo d’arte contemporanea: il white cube

Anche il museo è profondamente cambiato. Un secolo fa, l’idea di un museo d’arte contemporanea
pareva quasi una contraddizione in termini: quando Picasso disse a Gertrude Stein che stava per fare
una personale al Museo d’arte moderna di Parigi, pare che lei gli abbia risposto che nessun museo
poteva essere moderno. Il museo per definizione era un luogo dedicato alla conservazione del
passato, che niente aveva a che spartire con quella che all’epoca si chiamava l’art vivant, l’arte viva
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ed attuale. Oggi le cose sono cambiate. Lungi dall’essere visti come istituzioni in contrasto con
l’arte prodotta dal sorgere del modernismo in poi, i musei sono diventati chiaramente funzionali alla
sua sopravvivenza.
Nel 1976, Brian O’Doherty, artista e teorico dell’arte, pubblicava un saggio fondamentale, Inside
the white cube. Cos’è il white cube? È lo spazio espositivo della modernità, uno spazio bianco e
immacolato, da cui viene accuratamente espunta qualunque cosa che possa interferire con le opere
d’arte. Da New York alla Malesia, gli spazi d’arte contemporanea (quelli al disopra di un certo
standard) hanno pressoché tutti le stesse caratteristiche: muri bianchi, pavimenti in tinta unita (con
una preferenza per il cemento nelle gallerie private, per il legno nei musei), illuminazione con
semplici faretti scorrevoli entro un binario incassato nel soffitto. Dotato di “qualcosa della santità
della chiesa, della formalità dell’aula di tribunale, della mistica del laboratorio per esperimenti”, il
white cube è uno spazio neutro, rarefatto, sterilizzato, che spoglia le opere di ogni loro connessione
con il mondo esterno e le fa entrare in quel regno a parte che è il mondo dell’arte.
Il White Cube 2 a Londra
Gagosian NY, mostra di David Salle, 1998
Kunsthalle Berna
Stedelijk Museum di Amsterdam, installazione sonora di Germaine Kruip, “” seconds”, 2002
Questo tipo di spazio, in auge da circa un secolo, è nato con la galleria commerciale. Nell’800 i
musei erano pesantemente tappezzati,
Il primo allestimento della National Gallery nella casa del banchiere Julius Angerstein sul
Mall, dal 1834
Il Louvre oggi
le stanze erano ornate da piante in vaso, da divani e tappeti, le opere venivano appese in più file e
dovevano competere per i posti migliori. Tra la fine dell’800 e i primi del 900, anche per merito
della Secessione di Vienna, si comincia ad alleggerire lo stile espositivo, anche se le sale
continuano ad essere decorate, questa volta con fregi e panche disegnati dagli artisti.
Secessione di Vienna, sala di Beethoven, 1902
Secessione di Roma, sala degli Impressionisti, 1913
Ma il vero trionfo delle pareti bianche arriva con l’affermarsi del modernismo.

Il white cube e il modernismo

Modernismo: con questo termine non si intende la modernità o la modernizzazione, ma il


complesso delle tendenze artistiche che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e fino agli anni
Sessanta del Novecento, hanno risposto alla modernità. O meglio, chiamiamo Modernismo
l’interpretazione che di queste è stata data dalla critica (soprattutto quella statunitense) tra gli anni
Trenta e i Cinquanta-Sessanta del Novecento.
Tra i maggiori responsabili dell’affermazione del modernismo sono Clement Greenberg e Alfred
Barr; il primo è stato forse il critico più influente del Novecento, il secondo il primo direttore del
MOMA (Museum of Modern Art) di New York, a partire dalla sua fondazione nel 1929 e fino ai
primi anni Quaranta.
Greenberg vedeva l’arte del Modernismo come un’arte dal significato esclusivamente formale, che
doveva realizzare delle modalità di percezione puramente ottiche ed era totalmente indipendente
dalla realtà, era autonoma e autoreferenziale. L’opera si identificava con la sua apparenza visiva,
con ciò che dava a vedere: dimensione estetica e dimensione ontologica del fatto artistico venivano
a coincidere. Inoltre, l’arte era concepita come un fenomeno dal significato universale,
comprensibile in ogni tempo e in ogni luogo. Chiaramente, le tendenze che meglio riflettevano
questa visione erano quelle astratte; ogni illusionismo era bandito, e perfino ogni resa della
profondità spaziale (con la ricerca a oltranza delle qualità di flatness, bidimensionalità della
superficie pittorica, e allover omogeneità delle stesure non illusionistiche e virtualmente estensibili
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oltre i limiti della tela). Greenberg fu il maggior sostenitore di Pollock e dell’espressionismo


astratto, e in seguito di quella che battezzò Post-painterly Abstraction o Color Field painting.
Kenneth Noland
Morris Louis

Jules Olitski

Non meraviglia allora che alcuni abbiano visto un particolare legame tra l’arte modernista e
formalista alla Greenberg e il white cube. Lo spazio neutro, ragionano questi critici, valorizza al
massimo le qualità formali delle opere: opere concepite come oggetti visivi autonomi, lontani
dall’esperienza quotidiana, si trovano perfettamente a proprio agio in un ambiente che con la
dimensione della realtà quotidiana non ha niente a che vedere.
Il Moma oggi
Mostra dei bronzi degli anni 70 di Mirò, Galerie Lelong, Parigi
Mostra di Frank Stella

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L’arte post-duchampiana e il ready made

In realtà, però, è l’arte concettuale dopo Duchamp quella che ha più bisogno del white cube. Per
questo tipo di arte, il museo costituisce il mezzo essenziale di convalida, di legittimazione. Come
sappiamo, tutto cominciò col ready made, inventato da Duchamp nel lontano 1913.
Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta, 1913
Duchamp, Fountain, 1917
La scelta di oggetti comuni da parte di Duchamp si basa su una completa indifferenza visiva:
l’artista non è attratto, come poi saranno i surrealisti, dalle qualità suggestive, allusive o evocative
dell’oggetto (non a caso sceglie per lo più oggetti nuovi e banali, non oggetti curiosi ed esotici
trovati al mercato delle pulci). Nel caso di Fountain, il suo ready made più celebre, non intende
nobilitare l’orinatoio o mostrarne la bellezza (anche se ci fu, tra i difensori, chi vide nelle sue linee
curve la grazia di un Buddha) ma sottoporre a verifica il contesto istituzionale in cui veniva
esposto, quello della mostra della Society of Independent Artists di New York, in cui lo stesso
artista era presidente del comitato di allestimento. L’opera fu rifiutata, anche se in realtà non c’era
una giuria e tutte le opere presentate (circa 2000) vennero esposte – tutte, tranne questa.
Duchamp aveva trovato il modo di spostare il discorso da questioni estetiche o di gusto (“è buona o
cattiva pittura?”) a questioni ontologiche (“cos’è l’arte?”), epistemologiche (“come la
conosciamo?”) e istituzionali (“chi la determina?”).
Opere come Fountain aprirono la strada a un nuovo modo di considerare l’arte, abbattendo
virtualmente i confini tra l’arte e la realtà. La loro influenza è stata incalcolabile.
Sherrie Levine, Fountain, 1989
Qui il readymade duchampiano è proposto in versione oro (più esattamente, di bronzo dorato:
quindi uno dei materiali classici dell’arte, a significare la sua promozione a oggetto artistico
tradizionale, soggetto alle leggi del mercato): come a dire che l’eredità di Duchamp non ha sottratto
l’arte alla vertigine della merce, al contrario. Duchamp si incrocia con Brancusi attraverso il
trattamento ultralevigato della superficie bronzea.
Levine non è la sola a essersi interessata agli orinatoi negli anni Ottanta e Novanta.
David Hammons, Public Toilets, 1990
Un’installazione di svariati orinatoi appesi agli alberi di un parco proponeva una riflessione ironica
sulle convenzioni della nostra cultura, che destinano una funzione corporea naturale come l’orinare
a spazi appositamente costruiti.
Robert Gober, Tre orinatoi, 1988
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Gober è un artista omosessuale che a partire dagli anni Ottanta ha spesso usato lavandini e altri
sanitari come metafore del corpo. Per esempio i lavandini, evocano dei torsi amputati (i fori
circolari nei punti in cui dovrebbero andare i rubinetti ‘stanno per’ le braccia troncate), le
guarnizioni metalliche dello scolo indicano il fluire dei liquidi corporei, ecc. Gli orinatoi affissi in
fila nello spazio espositivo ricordano la tipica sistemazione dei gabinetti pubblici: un riferimento
che rimanda alla comunità gay (per la quale i gabinetti pubblici sono un classico luogo di ritrovo) e
indirettamente alla tragedia dell’AIDS che nei primi anni Ottanta produsse una vera strage tra i
ranghi degli omosessuali, colpendo drammaticamente anche l’ambiente artistico.
Ciascuno di questi artisti, Levine, Hammons e Gober, ha usato l’orinatoio in modo diverso, lo ha
ricontestualizzato a seconda dei significati cui intendeva piegarlo; per es. Levine affermava di aver
concepito il suo come un oggetto ‘femminile’, in contrasto con le connotazioni di quelli di Gober.
Nel riposizionare l’oggetto in funzione del proprio discorso, ciascun artista ha rivendicato rispetto
ad esso un ruolo di autore, senza tuttavia cancellare quello originario di Duchamp.
L’oggetto diventa così un oggetto complesso, denso di stratificazioni culturali che vanno dalla
normale cultura di massa (il mondo della merce) alla cultura alta rappresentata dall’avanguardia
primonovecentesca (Duchamp) al gioco di riferimenti contemporanei (ciascuno di questi artisti era
consapevole di quello che gli altri facevano).

Tra Duchamp e Levine, però, intercorre una serie di passaggi intermedi:


Jasper Johns, Bronzo dipinto, 1960
Due lattine di birra fuse in bronzo, con l’etichetta dipinta. Circola un aneddoto sull’origine
dell’opera: Willem De Kooning, uno dei protagonisti dell’Espressionismo astratto americano,
avrebbe commentato acidamente, a proposito del gallerista Leo Castelli (che in quel periodo stava
cominciando a lanciare gli artisti New Dada): “Quel figlio di puttana, gli puoi dare due lattine di
birra che lui riesce a venderle.” Al che Johns avrebbe pensato: “due lattine – che scultura! Mi
sembrò perfettamente in sintonia con quello che stavo facendo, così le feci – e Leo le vendette.” Nel
caso di Bronzo dipinto, come in quello successivo dell’opera di Levine, al centro del lavoro è
l’unione tra l’oggetto banale e la tecnica tradizionale, propria dell’arte aulica. Inoltre l’oggetto non è
anonimo, ha una marca, il che riflette una nuova consapevolezza circa l’evolversi del mondo della
merce, dominato dal brand, dal packaging: un aspetto, questo, che avrebbe caratterizzato la nuova
scena artistica a partire dagli anni Sessanta.
Il New Dada di cui Johns è una delle figure chiave introduce direttamente, con l’aprirsi degli anni
Sessanta, al contesto della Pop Art. Andy Warhol, leader indiscusso di questa situazione, costituisce
un’altra tappa importante negli sviluppi del rapporto tra l’arte e la realtà, sviluppi destinati a mettere
ulteriormente in crisi le metodologie di valutazione e legittimazione del prodotto artistico.
Negli anni Sessanta Warhol recupera sul piano estetico gli oggetti di consumo, annette a pieno titolo
l’universo della merce al territorio dell’arte.
Andy Warhol, Varie scatole, 1964
Le sue scatole non sono dei veri ready made, dal momento che non si tratta di vere scatole di
cartone piene di lattine di ketchup o di zuppa precotta, trasformate dall’artista in opere d’arte con un
semplice atto di scelta e rinominazione; sono invece strutture di legno appositamente costruite e poi
serigrafate. Ma l’effetto è assolutamente lo stesso delle merci autentiche. Tra la scatola vera e quella
rifatta da Warhol non c’è differenza apparente. Come sapremmo che una scatola di detersivo Brillo
è un’opera d’arte, se la incontrassimo sugli scaffali di un supermercato? Se tra la realtà e l’arte non
c’è più differenza visibile, come si fa a dire che cosa è arte e cosa no? Cosa distingue dalla realtà
un’opera d’arte che volutamente punta a confondersi con essa? Il problema è stato segnalato da
Arthur Danto, un teorico dell’arte americano. Per lui, le Scatole di Warhol segnano un punto di non
ritorno, un punto oltre il quale l’arte si trasforma in filosofia.
Sul prelievo della merce e il suo trasferimento in un contesto artistico si basa anche tutto un filone
di scultura americana degli anni Ottanta, la cosiddetta “commodity sculpture” (nota anche come
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appropriazionismo, Neo-geo o simulationism), che esplode nel 1986 con la mostra Endgame
all’ICA di Boston. Protagonisti, Jeff Koons e Haim Steinbach.
Jeff Koons, new hoover de luxe shampoo polishers, 1980
Koons, Two ball 50/50 tank, 1985
Il punto di partenza è il readymade, ma con una differenza sostanziale. Duchamp non viveva in un
mondo in cui il consumo aveva raggiunto un ritmo così convulso: il suo scolabottiglie era appunto
uno scolabottiglie e basta, mentre Koons non espone un aspirapolvere ma uno Shelton, così come
Warhol esponeva non una zuppa qualsiasi ma una zuppa Campbell’s. La merce con Duchamp non
era ancora diventata merce-segno. Ancor più significativamente, Duchamp fin quasi alla fine della
sua vita non usava vendere i readymade, li regalava.
Così come è stato alla base della commodity sculture degli anni Ottanta, il readymade è alla base di
molta arte prodotta oggi. Non solo il readymade puro e semplice è una pratica onnipresente nell’arte
degli ultimi decenni; lo è anche il suo spostamento dal un luogo all’altro, per generare sorpresa o
comunque dare un twist, una connotazione diversa alla cosa. Ad esempio
Paola Pivi, 100 cinesi, 1998
Paola Pivi, Senza titolo (aereo), 1999
Tutto il senso di questi lavori sta nel loro spostamento di luogo: non ci aspettiamo 100 cinesi in una
galleria, né un aereo alla Biennale (per dir la verità ormai ci aspettiamo di tutto, ma fa lo stesso).
Né ci aspettiamo uno squalo in formaldeide:
Hirst, The impossibility of Death in the mind of someone living, 1991
O la scritta al neon Hollywood in una discarica presso Palermo
Cattelan, Hollywood, 2001
Cattelan fa un uso anche scanzonato del readymade: in occasione della sua prima personale a New
York espone un asino vivo, il che – commentò un critico senz’ombra di ironia, “costituiva la
risposta alla tensione vissuta nell’affrontare una simile prova” (G. Verzotti). La stessa performance
venne proposta dall’artista in occasione della laurea ad honorem conferitagli dall’Università di
Trento.
Nel caso dell’aereo della Pivi, per aggiungere un qualcosina in più l’artista l’ha rovesciato e tinto in
color oro. La doratura è una strategia che funziona sempre. Abbiamo visto come la Levine avesse
dorato (o meglio, realizzato in bronzo color oro) la Fountain di Duchamp.
Sylvie Fleury, Serie ELA 75/K (Easy, Breezy, Beautiful), 2000
Carrello da supermercato dorato. L’opera si inserisce all’interno di una ricerca sulla merce e
sull’ossessione femminile del consumismo: la Fleury è famosa per i lavori consistenti
nell’esposizione in galleria delle buste dei suoi acquisti da Prada o da Vuitton,
Fleury, Agent Provocateur, 1995
con dentro gli abiti non aperti e non indossati. Ulteriore readymade.
Un altro twist consiste nel modificare leggermente l’oggetto. Cattelan prende anche lui il carrello da
supermercato, ma invece di dorarlo, lo allunga
Cattelan, Meno di 10 cose, 1997
Allungato è anche il suo biliardino in
Cattelan, Ac Forniture sud, 1991
Su cui possono giocare 11 persone per parte, come due vere squadre. Lui ci fece giocare una partita
con tanto di arbitro a una squadra di italiani e a una di senegalesi.
Orozco taglia in due una Citroen DS, ne tira via la parte centrale e riattacca le due laterali
Gabriel Orozco, La DS, 1993
Non a caso alla Biennale del 2003 Orozco ha curato una mostra intitolata “Il quotidiano alterato”, in
cui oggetti quotidiani erano stati riutilizzati trasformandoli. Tra gli invitati c’era
Damien Ortega, Cosmic Thing, 2002
Una Volkswagen completamente smontata con i singoli pezzi appesi a fili di nylon. Per certi versi
analogo il lavoro di Cornelia Parker
Cornelia Parker, Breatheless, 2001, installazione al Victoria & Albert Museum di Londra
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Lo spiazzamento è una tecnica pubblicitaria, e molta arte recente, dagli anni 90 a oggi, assomiglia
alla pubblicità nel suo confidare sull’effetto immediato, sulla battuta visiva, su immagini che
colpiscono per le loro associazioni inattese.
Si può dire allora che buona parte dell’arte contemporanea sia ossessionata dall’oggetto merce,
instancabilmente ricorrente tanto in forma pura quanto in forma modificata o rielaborata.
Così come le scatole di Warhol potenzialmente possono essere prese per “the real thing”, per la
merce vera, anche alcuni di questi oggetti possono essere scambiati per i loro omologhi nel mondo
reale. E anche quando è presente una modifica rispetto all’originale, la sua intenzione estetica a
rigore non è necessariamente chiara.
Da tutto questo consegue che, con l’invenzione del readymade, recentemente seguita dalle varie
strategie di appropriazione, dire che cosa è arte è diventato difficilissimo.

Il problema del giudizio di valore

Il problema del giudizio di valore è ormai un problema che dura da 100 anni. Abbiamo detto che
nell’800 erano le Accademie le garanti del valore artistico, che valutavano sulla base di standard di
qualità tecnica, estetica e formale. Prima ancora, erano le corporazioni che valutavano le capacità
tecniche dell’apprendista promuovendolo, se il caso, allo status di maestro.
Con l’Impressionismo, un duro colpo fu inflitto alla tecnica come criterio di valutazione dell’opera
d’arte. Gli Impressionisti cominciarono a demolire il sofisticato edificio della tecnica tradizionale
(niente più complicato procedimento di schizzi preliminari, modelli in posa, luci accuratamente
disposte, niente più pittura a velature, chiaroscuro, prospettiva….).
La differenza tra il levigato stile accademico e la rivoluzione impressionista salta agli occhi nel
paragone tra
William Bouguereau, La nascita di Venere, 1879
Auguste Renoir, nudo al sole, 1880
Con Duchamp, dopo la tecnica fu la volta dell’estetica.
Duchamp, Fountain, 1917
Il suo orinale, come abbiamo già detto, non ha niente di bello, per quanto, spinti dal desiderio di
difenderlo, all’epoca alcuni si fossero sforzati di trovarci chissà quali qualità di armonia formale.

L’invenzione del readymade aprì la strada all’inarrestabile erosione dei confini tra dimensione
artistica e esperienza comune, che ebbe inizio tra gli anni 50 e i 60. Nel 1963, più o meno quando
Warhol esponeva le sue scatole di Brillo e di Campbell’s, un altro artista americano, Robert Morris,
realizzava
Robert Morris, Statement of aesthetic withdrawal, 1963
(dichiarazione di ritrattazione estetica) con cui “ritirava” ogni valore artistico da un’opera da lui
precedentemente venduta a Philip Johnson, dal momento che questi non si decideva a pagargliela.
Poiché l’opera (Litanies, 1963), consisteva in un mazzo di chiavi pendente da una tavoletta di legno
ricoperta di piombo (ogni chiave recava incisa una parola tratta dalle note incluse da Duchamp nella
sua Green Box), e il suo valore estetico era unicamente concettuale, Morris ne trasse le dovute
conclusioni. Di fatto la sua Dichiarazione è diventata molto più famosa dell’opera cui si riferiva,
quest’ultima essendo in fin dei conti una creazione esoterica, molto per addetti ai lavori, il tipico
esempio di arte fatta a partire da altra arte. Se Duchamp aveva trasformato in opera d’arte gli oggetti
comuni con un semplice gesto, anche l’inverso diventava possibile. Il valore artistico è ormai
qualcosa di indipendente dalle qualità e caratteristiche intrinseche dell’opera, è un fatto
squisitamente concettuale.
Con gli anni Sessanta, il clima artistico rendeva ormai possibili gesti come questi. Il Minimalismo
americano, nel cui ambito Morris si muoveva, aveva eliminato dall’opera ogni traccia del “tocco”
espressivo dell’artista, e aveva reso comune l’utilizzo nella scultura di materiali industriali
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impiegati senza interventi supplementari da parte dell’autore, come mattoni, piastrelle di metallo o
tubi al neon (opere di Carl Andre, Donald Judd, Dan Flavin). Opere del genere potevano essere
realizzate da altri dietro istruzioni dell’artista e spesso lo erano; situazione che accomuna il
Minimalismo all’arte concettuale, in cui l’esecuzione materiale diventa un fatto del tutto secondario,
visto che ciò che conta è l’idea.
Tutto ciò sembrerebbe diminuire l’importanza dell’autore, il concetto di autografia, ma in realtà è
vero l’opposto. Perché, in assenza di visibili indizi di “autenticità” e “artisticità” dell’opera, si
resero necessarie nuove procedure e convenzioni per veicolare lo status artistico; allo stesso modo,
nel Trecento, erano solo i quadri in cui la mano di Giotto non era chiaramente visibile, eseguiti in
tutto o in parte dai suoi allievi, quelli che necessitavano di una vistosa firma a garanzia
dell’autenticità.
Un nuovo contesto interpretativo dovette quindi sorgere per permettere l’identificazione dei neon,
delle piastrelle o dei mattoncini non come materiali industriali qualsiasi ma come “Judd”, “Andre”
o “Flavin”. Il collezionista italiano Giuseppe Panza di Biumo acquistò un gran numero di lavori di
Donald Judd, Dan Flavin, Carl Andre, Sol LeWitt e altri minimalisti sotto forma di progetti,
riservandosi di farli eseguire in seguito, una volta che avesse fondato un museo privato dove
ospitare le opere. Questa pratica solleva tutta una serie di interrogativi. Chi ha facoltà di realizzare
un’opera sulla base di progetti? Può essere realizzata una sola volta, oppure la vendita include la
facoltà di realizzarla ripetutamente? Le risposte variano da artista ad artista, e la cosa diventa ancora
più problematica quanto più tempo passa tra la progettazione e la realizzazione dell’opera (che forse
sarà meglio chiamare, in queste circostanze, fabbricazione o produzione).
Nel 1990 Donald Judd pubblicò sulla rivista Art in America un annuncio che si può considerare
analogo alla “dichiarazione” di Morris del 1963, anche se a differenza di quella era del tutto
sprovvisto di ironia: “La mostra di scultura dell’autunno 1989 alla Ace gallery di Los Angeles ha
esposto un’installazione erroneamente attribuita a Donald Judd. La fabbricazione dell’opera è stata
autorizzata da Giuseppe Panza senza l’approvazione o il permesso di Donald Judd”. L’opera in
questione era una fila di placche di ferro galvanizzato affisse al muro, attaccate a dei bracci nascosti
in modo da formare su tre pareti un muro parallelo a quello della stanza, e che sembrava fluttuare
all’interno dell’ambiente. L’opera era stata chiesta in prestito dalla Ace Gallery a Panza, e questi
invece di spedirla dall’Italia aveva autorizzato la galleria a rifabbricarla in America, risparmiando le
spese di spedizione. Lo stesso fu fatto con un’opera di Andre, e nessuno dei due artisti venne
avvisato. Entrambi sconfessarono le opere esposte a Los Angeles.

Unico modo per distinguere tra arte e non arte diventava allora il contesto.
La cosiddetta “teoria istituzionale dell’opera d’arte”, formulata negli anni 70 da autori come George
Dickie e Arthur Danto, sostiene proprio questo. A legittimare l’opera non sono le sue qualità
essenziali, formali e contenutistiche, o i tratti della psiche del suo autore, ma il contesto teorico e
istituzionale in cui si colloca. Il valore dell’opera dipende dal consenso degli attori del sistema
dell’arte che abbiamo elencato all’inizio: artisti, mercanti, collezionisti, critici, curatori, direttori di
musei, direttori di riviste, ecc. E’ quindi estremamente importante per gli artisti stabilire rapporti
sociali con tutti costoro, acquisire il capitale relazionale che permetterà loro di essere riconosciuti
come artisti. Oggi, per definizione, la figura dell’artista sconosciuto non esiste. Se sei un artista, lo
sei nella misura in cui vieni riconosciuto dagli altri membri del mondo dell’arte, a cominciare dai
tuoi colleghi.
In un certo senso questa teoria non faceva che sancire a livello teorico quel che già avveniva di
fatto normalmente. Si tratta di un argomento circolare: infatti, chi legittima i legittimatori? La
legittimazione degli esperti dipendeva a sua volta da altri esperti. Paradossalmente, l’arte nata per
contrastare l’autonomia del modernismo, la sua voluta separatezza dal mondo, finiva per
rinchiudersi a sua volta nel recinto di un’altra autonomia. La logica della pura forma, che rimanda
solo a se stessa, veniva sostituita dalla logica del mondo dell’arte (e del mercato) altrettanto
autosufficiente.
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La teoria istituzionale dell’opera d’arte ha una sua indubbia efficacia pratica, che l’ha portata ad
essere subito accolta e altrettanto rapidamente dimenticata. Nessuno mai fa riferimento, per lodare o
demolire un artista, al fatto che ha esposto in certi musei, con determinati curatori, che è venduto da
date gallerie ed è stato recensito da certi critici su certi giornali; queste sono cose che più
discretamente vanno nel curriculum alla fine del catalogo. Per lodarlo si trovano motivi più nobili,
nei quali del resto i critici soggettivamente credono (almeno la maggior parte delle volte). Ma questi
motivi non offrono un terreno stabile per poter legittimare l’opera d’arte; un terreno che è invece
offerto dal consenso collettivo dei membri del sistema dell’arte.

Dei problemi che abbiamo descritto gli artisti sono acutamente consapevoli, e alcuni di loro ne
hanno fatto il centro del proprio lavoro.
Un caso esemplare è quello di Tino Sehgal (Londra, 1976), 32enne metà indiano e metà tedesco
formatosi (significativamente) nel campo dell’economia e della danza, prima di darsi all’arte.
Sehgal non crea opere intese come oggetti materiali, ma assume lo spazio espositivo e le regole del
sistema dell’arte come oggetto e soggetto della sua ricerca. I suoi lavori sono azioni formalizzate
compiute da persone istruite dall’artista; lui però rifiuta di chiamarli performance, dice che sono
piuttosto una specie di installazioni, e sottolinea che, a differenza delle performance, appartengono
di diritto allo spazio del museo. In effetti si tratta di opere che sarebbero impensabili se non
esistessero il sistema dell’arte e i suoi spazi privilegiati.
T. Sehgal, Le plein, galleria Jan Mot, Bruxelles, 2003
Sehgal svuotò completamente la galleria; quando un visitatore entrava, il gallerista usciva dal suo
ufficio e gli andava incontro dandogli le spalle, parlando a voce bassa, in modo tale da non rendere
chiaro se stesse parlando dell’opera di Sehgal o se lui stesso fosse l’opera di Sehgal; ogni volta che
si cercava di guardarlo in faccia girava su se stesso, continuando a parlare e dicendo “Tino Sehgal,
this is good, 2001, courtesy the artist” (questo è buono, 2001, per gentile concessione dell’artista).
A volte pare dicesse anche “Ceci n’est pas le vide” (questo non è il vuoto), con un riferimento
simultaneo a Magritte (Il tradimento delle immagini, 1928-29, meglio noto come Ceci n’est pas une
pipe) e alla mostra Le vide (il vuoto) di Yves Klein alla galleria di Iris Clert nel 1958 (mentre il
titolo era tratto dalla mostra Le plein con cui Arman replicò a Klein nel 1960, nella stessa galleria).
Ma il vuoto di Klein aveva delle connotazioni vagamente spiritualistiche che sconfinavano nel
misticismo. Il vuoto di Sehgal è il vuoto del white cube, dello spazio sterilizzato e convenzionale
che consente all’arte contemporanea di esistere. Sembra che la sua preoccupazione centrale sia
come dare statuto di esistenza a qualcosa che non si vede, che non c’è, ma su cui si discute, e che
viene comprato e venduto.
T. Sehgal, This objective of that object, 2005, all’Istitute of Contemporary Art (ICA) di
Londra
Non appena un visitatore arrivava, si trovava circondato da 5 persone che si avvicinavano dandogli
le spalle, e in coro dicevano dapprima a voce bassa, quindi con forza e volume crescenti, scandendo
ritmicamente: “L’obiettivo di quest’opera è diventare oggetto della discussione”. Il tutto sempre
senza voltarsi e quindi evitando un confronto diretto Se il visitatore non rispondeva, i cinque
scivolavano a terra e “spiravano” esalando un rantolo, mettendo così fine al lavoro. Ma se quello
azzardava una domanda, ecco di nuovo il coro: “We have a question, we have a question” (abbiamo
una domanda); e i cinque si lanciavano in una discussione intellettuale, a base di frasi mandate a
memoria (difficili da memorizzare anche perché l’artista non permette registrazioni), spaziando tra
gli argomenti più vari. Con l’arrivo di un nuovo visitatore, la cosa ricominciava come in un loop.
La discussione così diventava l’opera, il cui scopo era a sua volta diventare oggetto della
discussione. Qui Sehgal faceva abile uso della tautologia, una strategia a suo tempo impiegata dagli
artisti concettuali.
Nel suo lavoro c’è, come si intuisce da questa descrizione una componente gioiosa e perfino
umoristica, ancora più evidente in
T. Sehgal, This is so contemporary, Biennale di Venezia 2005 (già a Parigi 2003)
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Sehgal condivideva il padiglione tedesco con le opere di Thomas Scheibitz. Si veniva accolti da tre
custodi in divisa, che saltellando-danzando ti circondavano e cantilenavano: “this is so
contemporary, contemporary, contemporary” (questo è così contemporaneo), creando ambiguità
riguardo a cosa la frase si riferisse: era la loro danza a essere contemporanea, o stavano facendosi
beffe delle opere di Scheibitz? Vedere delle persone di mezza età, in divisa, inscenare questa
pantomima aveva un effetto irresistibilmente buffo; ma le reazioni comunque variavano. Alcuni
erano imbarazzati, altri così divertiti da entrare e uscire più volte di seguito per vedere la
pantomima ricominciare da capo.
“Questo è” è la frase sottintesa dai readymade duchampiani e dal white cube, in cui il compito di
pronunciarla è affidato alle caratteristiche dello spazio espositivo e alle didascalie, ai cataloghi, ai
manifesti: questo è un’opera arte. Qui a pronunciarla sono i custodi, che diventano così quasi
incarnazioni del white cube e del sistema dell’arte.
T. Sehgal, Exchange, Biennale di Venezia, 2005
Sempre alla Biennale del 2005, in un’altra sala completamente vuota, lo spettatore era interpellato
da degli attori (sempre in divisa) che gli offrivano metà del prezzo del biglietto pagato per entrare
alla Biennale, in cambio della sua disponibilità a discutere per cinque minuti di economia. Il tema è
lo scambio: il visitatore vende qualcosa che non sapeva di avere. Se cambia discorso, spostando il
tema della discussione sull’arte, o sulla guerra in Iraq o su quello che gli pare, alla fine non viene
pagato: “spiacenti, non avete fornito quanto promesso, quindi niente soldi”. La mostra diventa una
pratica dimostrazione del meccanismo del mercato, in cui la merce scambiata è un’opinione
sull’economia di mercato.
T. Sehgal, The Kiss, 2004
Due ballerini mimano dei baci, replicando le posizioni di diverse opere d’arte (Rodin, Kimt,
Brancusi, Jeff Koons). Ogni volta che qualche nuovo visitatore fa il suo ingresso, si fermano e uno
di loro dice: Tino Sehgal, The kiss, 2004. Cortesy of Jan Mot gallery, Bruxelles (Per gentile
concessione di…). Come la Boite en valise di Duchamp, l’opera è un condensato portatile di altre
opere, con il quale fare di ogni contesto un museo.
T. Sehgal, This Success/This failure, ICA, Londra, 2007-2008
Una ventina di bambini accompagnati da due adulti giocano nella galleria vuota. Quando qualcuno
entra, uno di loro interrompe il gioco e gli si avvicina dicendo “questo è un successo”, o “questo è
un fallimento”: affermazione riferibile, ancora una volta ambiguamente, al gioco o all’opera, o a
entrambi. Dopodiché lo spettatore viene invitato a unirsi al gruppo dei giocatori. Chiaramente
l’effetto dipende molto dall’atmosfera che si instaura, e da elementi stranianti come le impronte
delle manine sporche sui muri immacolati del white cube. Da un lato sembra contestare l’autorità
costituita, trasformando la mostra in campo di giochi, dall’altro i bambini hanno a disposizione solo
due alternative di giudizio, anch’esse precostituite, e quella che sembra libertà in realtà ha come
presupposto delle regole rigide. E ancora: i bambini simboleggiano la speranza nel futuro, ma è un
futuro da cui lo spettatore adulto è escluso. E’ come se Sehgal ci stesse dicendo che quest’arte non
appartiene già più al nostro mondo.

Va sottolineato che non esistono immagini fotografiche o filmati delle opere dell’artista, perché
questi ne vieta la riproduzione. Le gallerie non distribuiscono nemmeno comunicati stampa, né sono
consentite didascalie delle opere, sicché al pubblico non viene offerta alcuna chiave che gli
permetta di confrontarsi con quanto sta accadendo. Tuttavia le opere vengono vendute, ma – a
differenza di quanto avveniva con le opere minimaliste - senza contratti o istruzioni scritte per
riprodurle; la vendita avviene tramite un contratto orale registrato alla presenza di un notaio (ancora
un ricordo dei certificati di sensibilità pittorica immateriale di Klein, sottoscritti e poi bruciati in
modo che nessuna traccia restasse della transazione condotta intorno a un’opera a sua volta
invisibile). I collezionisti che le comprano vengono addestrati dall’artista a ricrearle. Inoltre costano
parecchio anche ai musei o gallerie che intendono ospitarle, perché Sehgal insiste sul fatto che gli
attori siano pagati profumatamente, affermando che questo fa parte del concetto dell’opera.
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Nonostante il presupposto del lavoro di Sehgal siano il white cube, il sistema dell’arte e le sue
regole, l’intento non è quello di formulare una critica, di combattere il sistema (l’artista sottolinea
che la critica è una trappola, in quanto afferma ciò che critica, contribuendo a rafforzarlo). Piuttosto
sembra che voglia renderlo visibile e scoprire al suo interno delle possibilità insospettate.

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