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INTERAZIONI TRA MODA E ARTE

Boldini,Poiret,Genoni

Introduzione:
Il 14 aprile 1900 fu inaugurata a Parigi l’Exposition Universelle 🡪 la manifestazione
celebrava la modernità fondata sul progresso, la scienza e la tecnica, ma soprattutto le sue
origini in quell’Ottocento che aveva visto il trionfo della borghesia. Questo enorme evento
contò 51 milioni di visitatori provenienti da tutto il mondo. Furono selezionate una ventina
di maison de haute couture per l’evento.
Ad accoglierli, sopra la Porte monumentale in Place de la Concorde, la statua Parisienne:
un’elegante figura femminile che lo scultore Vauthier decise di vestire all’ultima moda.
Il programma iconografico della porta culminava in quella figura femminile di cui veniva
riconosciuto il moderno ruolo di consumatrice con il compito di guidare la produzione. La
scelta di eleggere a simbolo dell’esposizione una giovane donna elegantissima era poco
convenzionale, ma perfetta per comunicare la posizione della Francia nell’industria del lusso
e della moda.

In quegli anni, l’haute couture francese era un fenomeno di immenso successo mediatico,
culturale e commerciale. All’Esposizione Universale di Parigi, l’industria dell’haute couture
aveva fatto il proprio ingresso ufficiale e Jeanne Paquin, autrice del vestito della
Parisienne, era una delle più famose couturière della capitale, ma anche presidente della
sezione moda dell’Esposizione stessa.

La Parisienne raccontava però anche un’altra storia: quella di un artista che ricorreva alla
moda contemporanea per raccontare la propria idea di modernità.
La Parigi di fine secolo era infatti il luogo in cui la moda vedeva il proprio trionfo, ma anche
dove si riconosceva un indiscutibile primato nell’arte. La varietà dei linguaggi (dal
naturalismo al simbolismo e all’impressionismo) componeva un panorama artistico
cosmopolita di enorme attrazione.
Inoltre, all’ufficialità dell’annuale Salon si erano affiancate le gallerie private che
assicuravano la promozione di nuovi talenti.

In questo contesto, i protagonisti dei settori più sensibili al cambiamento e alla modernità
(come editori, creatori di moda, artisti, fotografi, mercanti d’arte, critici e letterati) cercavano
di inventare vere e proprie forme di collaborazioni tra arte e moda, capaci di far
dialogare i due mondi.

Le donne ebbero un ruolo importante nell’Exposition; a Parigi produssero esperimenti di


grande interesse, come raccontano due microstorie trattate in questo libro.
1. La prima riguarda il mercato dell’arte, o come avrebbe detto Walter Benjamin il
mercato della riproduzione tecnica delle opere d’arte, che si accorse delle potenzialità
del target delle donne, ma allo stesso tempo capì che doveva allearsi con la moda.
2. Il secondo analizza le collaborazioni che Paul Poiret ricercò nella comunità artistica
parigina.

Anche l’Italia aveva partecipato all’Exposition universelle del 1900 con un proprio
padiglione in cui sono stati esposti sculture di gesso, mosaici e citazioni dell’architettura
gotica veneziana. Quest’ultimo revival non era casuale: le antiche glorie artistiche erano uno
dei temi aggreganti su cui il Regno d’Italia stava costruendo la propria identità nazionale.
Tutto ciò era presente nella proposta di una moda italiana che traesse ispirazione dalla
grande arte del passato che Rosa Genoni presentò a un’altra Expo, quella milanese del
1906, di cui tratta la terza microstoria. Si era resa conto del valore che l’estro creativo aveva
nella determinazione degli andamenti del sistema della moda, ma nei primi decenni del ‘900
il suo progetto non ebbe seguito, si svilupperà successivamente.

Donne, editoria, arte e moda: Boldini


Nel gennaio 1901 uscì il primo numero della rivista “Les Modes”. Era un mensile in cui si
parlava di moda, mondanità, ma anche di arte, di arredamento, di arti applicate e di altre
raffinatezze.
Il sottotitolo, Arts Décoratifs appliquée à la Femme, era esplicito: non si trattava di una
semplice rivista di moda, ma di uno strumento d’informazione sulle novità nel campo delle
arti applicate destinato a donne colte, moderne e di altissima estrazione sociale.
Fra gli articoli del primo numero, ce n’era uno dedicato ai mobili e un altro ai gioielli. In
generale, le notizie mondane erano trattate con indiscrezione, ma soprattutto fu il modo di
comunicare la moda a subire una vera rivoluzione 🡪 per la prima volta fu usata quasi
esclusivamente la fotografia, abbandonando quasi del tutto i figurini disegnati.

La fotografia aveva fatto una sua prima comparsa nel 1880 su “L’art et la mode”. Nel
decennio successivo, “La mode pratique” (rivista nata nel 1891) cominciò a utilizzarla in
modo regolare.
Diversi disegnatori si servirono della fotografia in modo strumentale per le loro illustrazioni.
Questo presentava inizialmente due problemi, ben presto superati: da un lato la difficoltà di
riprodurre l’immagine su un giornale, dall’altro la necessità di disporre dell’abito finito, di
una modella, di uno studio fotografico e di un fotografo specializzato.

Nel primo numero di “Les Modes”, la gran parte delle immagini connesse alla moda erano in
realtà ritratti di attrici famose firmati da Nadar o Reutlinger. Le foto erano scattate in
studio, su sfondi neutri o poco appariscenti ed erano pubblicate sia in bianco e nero, sia a
colori.
Inoltre, al contrario del figurino disegnato che proponeva un’immagine stereotipata della
donna, la fotografia consentiva di presentare una resa molto realistica di entrambe. La moda
fotografata era quindi una moda indossata e la scelta delle modelle rispondeva a un preciso
progetto culturale, sociale e mediatico.

Nella rivista, da un lato c’erano le grandi dame dell’aristocrazia internazionale, proposte


come supremi esempi di eleganza e a cui venivano spesso dedicate le copertine. Al lato
opposto c’erano le indossatrici anonime chiamate apposta per le novità delle case di moda.
Fra questi due estremi si collocavano le dive del palcoscenico, che spesso indossavano gli
abiti di scena del loro ultimo spettacolo e che venivano considerate trendsetters, nonché
esempi di moda, bellezza giovanile, eleganza e femminilità moderna. 🡪 Presto le maison de
couture identificarono il palcoscenico come luogo privilegiato per anticipare e lanciare le
novità.

Già nell’ottobre 1901, la rivista aveva avuto un tale successo che si decise di incrementare
la distribuzione, diventando presto il giornale mondano per eccellenza. Era diventata
un’ambita vetrina per il bel mondo e per le celebrità dello spettacolo, ma soprattutto per un
grande numero di case di moda.
Nel primo numero le maison che presentarono i propri modelli erano solo due: Laferrière e
Redfern, ma nei mesi successivi se ne aggiunsero molte altre (tra cui Doucet…).
Nel tempo molte altre si aggregarono: da Lanvin a Worth, fino a Chanel e Poiret:
praticamente tutte le aziende di moda parigine pubblicarono i propri modelli su “Les Modes”
🡪 idea della rivista anche come spazio pubblicitario.
Giovanni Boldini e “Les Modes”:
“Les Modes” era anche una rivista d’arte. Nel primo numero fu pubblicato un articolo
dedicato a “Jean” Boldini, scritto da Robert de Montesquiou e illustrato con quattro
ritratti.
De Montesquiou affrontava l’arte del ritratto e il complesso rapporto fra pittore e modello:
Boldini era a suo parere l’esempio perfetto del ritrattista moderno, un vero pittore di donne,
capace di trasferire sulla tela la “vivacità della Parigina”. L’autore estendeva il concetto a
tutto il cosmopolita universo di Boldini, affermando che “Parisianisme” non indicava
l'appartenenza a un luogo, ma una cultura, uno stile di vita. Il Parisianisme di Boldini era
sinonimo di modernità, ma soprattutto di Modernità al femminile.
Le donne raffinate e colte, interessate i nuovi modelli delle più famose sartorie parigine, ai
gioielli, ai mobili, cui si rivolgeva la rivista erano le stesse che Boldini ritraeva.
Questo artista fu riproposto più volte nei numeri successivi della rivista, ad esempio in
ottobre la copertina e una pagina interna furono dedicati a due ritratti di Boldini e oltre a
questo, ne seguirono molti altri.

L’ormai famoso Giovanni Boldini non fu però l’unico artista proposto dalle pagine di “Les
Modes”.
L’articolo dedicato a lui faceva parte di una rubrica dal titolo “Les peintres de la femme” e nei
mesi successivi fu dedicata ad altri artisti, scelti per la loro particolare attenzione nei
confronti del mondo femminile e per l’abilità nel ritrarre “la donna contemporanea”.
Tutte le numerose illustrazioni delle copertine e degli articoli erano fotografie o riproduzioni
fotografiche di opere d’arte. Era la prima volta che tutto questo accadeva in un giornale
femminile.

Goupil & Cie:


la domanda sorge spontanea: come mai una rivista di moda si dedicava con tanto impegno
all’arte e sceglieva come medium la fotografia?
🡪Perché la rivista era edita da Goupil & Cie ed era diretta da Michel Manzi. Queste erano
due vere ‘autorità’ nel mondo dell’arte e della riproduzione di immagini di quel tempo.
Adolphe Goupil fu uno dei protagonisti della rivoluzione industriale delle immagini che
avvenne nell’Ottocento.
Storia cronologica di questa società:
● Nel 1831, la società Rittner & Goupil produceva e vendeva stampe singole ed edizioni
di stampe originali o d’interpretazione nel proprio negozio in Boulevard Montmartre
a Parigi. Alla morte di Rittner, Goupil fondò una nuova società con Vibert e
cominciò ad espandersi all’estero.
● Debuttò a New York come grossista, trasformandosi presto in un negozio al dettaglio.
● Nel 1850, fu fondata la Goupil & Cie, specializzata nella riproduzione di opere d’arte
con metodi tradizionali, ma ben presto anche con la fotografia.
● Nel 1867, acquistò l'esclusiva per la Francia del brevetto Woodbury che permetteva
di stampare velocemente fotografie inalterabili e nel 1873 mise a punto nei suoi
ateliers il processo di fotoincisione 🡪 procedimenti che consentivano di ottenere
stampe di ottima qualità a prezzi contenuti.
L’espansione sui mercati esteri aveva infatti assunto un ritmo inarrestabile. Furono
aperte negli anni seguenti alcune succursali e fu creata anche una rete di punti vendita
nel mondo.

● Nel 1869 furono realizzati ad Asnières gli stabilimenti industriali in cui fu


concentrata la produzione e la distribuzione delle stampe.
● L’anno seguente, fu aperto un altro negozio a Parigi a Place de l’Opéra.

Goupil offrì a un pubblico avido di immagini le riproduzioni di tutta la cultura figurativa


passata e contemporanea e questo, come scrisse Benjamin, rivoluzionò l’immaginario
ottocentesco e il concetto stesso di autenticità.
Fu con l’arte contemporanea che instaurò il rapporto più interessante. La riproduzione a
stampa era un modo per garantire agli artisti una fonte di guadagno aggiuntiva alle vendite
delle opere originali, ma era anche uno strumento per farli conoscere a un pubblico ampio e
internazionale.

● Nel 1846, la Goupil, Vibert & Cie era entrata nel mercato dei dipinti e dei disegni
originali, inaugurando a Parigi una galleria d’arte. Due anni dopo, venne aperta a
New York un’altra galleria.
● Nel 1861, fu creata la società con Vincent van Gogh (zio omonimo del pittore) che
aveva una galleria a L’Aja (Olanda).

Le gallerie Goupil esponevano i vendevano opere di pittori più o meno affermati, ma


soprattutto le acquistavano o le commissionavano per poterle riprodurre. Con l'atto di
vendita, l'artista cedeva Groupil il copyright; una volta terminato il lavoro di produzione, gli
originali potevano essere venduti nelle gallerie di proprietà dell'editore, ma anche
direttamente agli autori.
La Groupil creò presto anche una propria scuderia di pittori specializzati.

Il metodo provocò molte reazioni critiche, tra cui quella di Zola, ma il lavoro di divulgazione
fatto da Groupil fu così importante per la diffusione di una nuova cultura delle immagini. Le
stampe non venivano più conservate come rarità preziose, ma incorniciate e appese ai muri
di casa.
Groupil proponeva diverse edizioni: alcune più costose e lussuose, altre accessibili per tutti
gli altri.
🡪l’arte di tutti i tempi è a disposizione di tutti! Certamente non si tratta degli
originali, ma l’immagine più vicina all’originale che la tecnica consentiva.
Come avrebbe detto anche Benjamin, quelle immagini non possedevano più l’aura degli
originali, ma permisero alla borghesia di fine secolo di conoscere l’arte antica e moderna, di
studiarla e di circondarsene.

Nel 1884, Adolphe Groupil si ritirò lasciando l’azienda nelle mani dei soci Léon Boussod e
René Valadon (Boussod, Valadon & Cie) e Michel Manzi diventò direttore degli ateliers
di Asnières.
Quest’ultimo aveva iniziato a fare ricerca su un procedimento di tipoincisione. In pochi anni
furono perfezionati i metodi di fotoincisione e si arrivò alla scoperta della tipoincisione in
bianco e nero e della cromotipoincisione a colori che potevano essere usate nella stampa di
libri e riviste 🡪 era l’inizio del libro illustrato.

Boussod, Valadon & Cie cominciò a proporre lussuosi volumi ricchi di immagini, a volte
ripubblicati a prezzi più accessibili.
Il nuovo sistema non poteva passare inosservato agli editori della stampa periodica. Fu così
che la collaborazione cominciò ad essere richiesta da importanti testate come “L’Illustration”
e “Le Figaro Illustré”. Successivamente, anche gli eredi di Groupil incominciarono a
pubblicare riviste proprie.
Il primo fu “Le Figaro Salon” (un notiziario del Salon), cui seguirono “Les Lettres et Les
Arts” e “Paris Illustré”.
Cambiamenti: Adolphe Groupil, che aveva conservato il ruolo di socio finanziatore, era
morto nel 1893 e qualche anno dopo era venuto a mancare anche Léon Boussod. La società
fu divisa in due parti, ognuna con specializzazioni diverse, ma entrambe con il titolo di
“Successeurs de Goupil & Cie”:
1. La Boussod, Valadon & Cie, che si dedicò al commercio di quadri e oggetti d’arte;
2. J.Boussod, Manzi, Joyant & Cie, che continuò l’attività di mercanti di stampe.

Manzi e Joyant volevano distaccarsi dalla tradizione accademica di Adolphe, ma


soprattutto avevano chiaro che il pubblico era sempre meno interessato alle stampe di
riproduzione. La nuova società diversificò l'offerta proponendo:
- produzione corrente
- acqueforti originali a tiratura limitata di alta qualità
- pubblicazioni d’arte dedicate a pittori contemporanei
- nuove proposte editoriali
Furono infatti create riviste specializzate in temi di grande interesse per i raffinati lettori del
gran mondo cui si rivolgevano, ad esempio “Le Théatre”, “Les Sports Modernes”…
● Nel 1901, uscì il primo numero di “Les Modes” e l’anno successivo quello di “Les
Arts” (un giornale d’arte antica e contemporanea, di musei e collezioni private).
● Nel 1909 fu inventata l’ultima testata “L’Hygiène”, dedicata a tematiche scientifiche
e mediche.

Fra le iniziative editoriali di Manzi e Joyant, furono certamente quelle dedicate al teatro,
all’arte e alla moda a incontrare maggiormente gli interessi del pubblico, in particolare “Les
Modes”.
Era ovvio che Giovanni Boldini fosse chiamato a partecipare all’impresa e ottenne grande
successo con quadri di piccolo formato che rappresentavano salotti o parchi popolati di
sculture e di personaggi in abiti d’epoca. La moda di quella pittura di genere, però, passò e la
collaborazione tra Boldrini e Goupil s’interruppe, ma probabilmente non del tutto. Il pittore
ferrarese cambiò soggetti e si costituì una nuova popolarità, dedicandosi ai ritratti.

Michel Manzi acquistò da lui sette ritratti femminili raffiguranti celebrità del tempo o di
sconosciute e decise di lanciarli attraverso le pagine della rivista di moda con l’aiuto dello
stesso Robert de Montesquiou.
I ritratti furono riprodotti in fotoincisioni a colori che furono pubblicate su “Les Modes” ed
elencate con titoli generici nei cataloghi di vendita della Maison Goupil, precisando le
tirature e i prezzi.
Ma… il rapporto commerciale fra il pittore e gli eredi Goupil non si limitò ai sette ritratti.
L’operazione Boldini faceva parte di una più ampia strategia della Manzi, Joyant & Cie,
consapevole del fatto che il mercato delle stampe era cambiato e che era quindi necessario
trovare altri pubblici, differenziare l’offerta e inventare nuove forme di comunicazione e di
promozioni.

L’Hotel des Modes:


Alla metà del primo decennio del Novecento, Michel Manzi ebbe l'idea di realizzare una
galleria dedicata alle arti della donna e alle arti della casa. Con questo scopo al 15 di rue de la
Ville-l’Eveque, fu acquistato un vecchio immobile che fu completamente ristrutturato.
All'interno, furono ricavati un piccolo vestibolo, un grande salone illuminato da un
lucernario e alcune sale affacciate sul cortile interno.
L'Hotel des Modes fu inaugurato nel giugno 1907 con una mostra contenente: mobili,
tappeti orientali, tessuti d'arredo, gioielli, ventagli, volumi, pettorine di corpetti
settecenteschi, merletti della compagnia des Indes e poi vasi Tiffany, porcellane cinesi,
cappelli…

Per cinque anni, offrirono al pubblico un calendario che comprendeva conferenze, concerti,
esposizioni e spettacoli teatrali recensiti da “La Théatre”. Per esempio, ci fu una mostra sui
fiori artificiali, una sugli arazzi antichi…
Nell’autunno 1907, si riuscì a esporre il sontuoso corredo di nozze della principessa Marie
Bonaparte, futura sposa del principe Giorgio di Grecia (figura in quel momento al centro
di molti pettegolezzi della cronaca). Sicuramente la direzione era consapevole del fatto che la
curiosità suscitata dai media attorno a questo corredo avrebbe contribuito al successo della
mostra e alla popolarità dell’Hotel des Modes.

Fin dalla sua inaugurazione il segno distintivo dell'Hotel des Modes fu però l'arte. Vennero
create una galleria di stampe inglesi e una galleria di ritratti femminili che iniziava con i
“Peintres de la femme” e si completava nelle sale più piccole con incisioni da Saint-Aubin e
dai maestri del XVIII secolo.
Un’intera sala era dedicata alle stampe tratte dalle opere di Giovanni Boldini🡪 perfetto
amalgama tra arte, bellezza femminile e moda.

La moda dipinta:
in occasione della mostra inaugurale, fu tentato un esperimento: la moda della stagione fu
presentata attraverso quadri di alcuni pittori, incaricati da Michel Manzi di rappresentare
sulla tela i modelli di griffes famosissime, sempre con l’obiettivo di unire strettamente arte e
moda.
Anche Giovanni Boldini fece parte del progetto: scelse come modelle due celebrità del
teatro contemporaneo, Geneviève Lantelme e Marthe Règnier, vestite rispettivamente
da Doucet e Paquin.
Non fu però il solo pittore parigino a rispondere all’appello di Manzi, ci furono anche:
Antonio de la Gandara, Gaston de La Touche…

All’inaugurazione dell’Hotel des Modes, i sei grandi dipinti sulle pareti del salone centrale
davano una straordinaria rappresentazione delle ultime tendenze della moda, destinata a
colpire l’immaginario delle visitatrici.
L'esperimento era ambizioso, ma il suo risultato dimostrava che solo la sensibilità estetica
degli artisti era adeguata a comunicare la moda di lusso (haute couture). Importante da
sottolineare, però, che questo richiedeva un’inusuale disponibilità da parte degli artisti che
avrebbero dovuto dedicare il proprio tempo e la propria creatività alla moda. Infatti, Boldini
all'inaugurazione presentò un ritratto realizzato due anni prima. La fama dei pittori non era
un fattore secondario per raggiungere l'obiettivo di attirare l'attenzione delle signore.

In secondo luogo, il mezzo scelto non era concorrenziale con la fotografia che invece aveva
tempi di realizzazione molto più rapidi, era facile da riprodurre e da stampare sui giornali e i
costi non erano paragonabili a quelli del dipinto. Inoltre, attraverso disegni e fotografie si
poteva far conoscere a un vasto pubblico la gran parte dei modelli, mentre la loro
rappresentazione pittorica concentrava la comunicazione su pochissimi capi.
In realtà il procedimento era sempre lo stesso: fare indossare i propri modelli alle dive del
palcoscenico e poi diffonderne le fotografie attraverso le riviste.

🡪L’esperimento dell’Hotel des Modes non ebbe seguito.


Proprio i grandi fotografi e disegnatori assunsero il compito di dare una forma estetica alta
alle immagini di moda. Inoltre, i couturier e le riviste di moda di élite si resero conto che per
avere un’immagine rinnovata ed efficace era ormai indispensabile rivolgersi agli artisti della
fotografia.

Michel Manzi non abbandonò l’idea di fare della moda il tema forte dell’attività espositiva
dell’Hotel des Modes. L’Exposition des Toilettes dello stesso anno (1907) ne riempì gli
spazi di manichini vestiti con le ultime creazioni. La mostra era organizzata in due parti,
rispettivamente curate dalla rivista “Le Théatre” e da “Les Modes”. Avevano aderito
all'evento quasi la totalità delle sartorie di lusso a Parigi.
Da un lato, c'erano le toilette di scena indossate dalle attrici del momento; dall'altro, una
scelta dei modelli di stagione raggruppati per casa di moda.
Solo le clienti abituali della maison de couture potevano vedere i nuovi modelli dal vero,
mentre tutte le altre li scoprivano disegnati o fotografati sui giornali o indossati dalle attrici
sul palcoscenico. Nessuno, comunque, poteva avere una visione complessiva della moda di
stagione dal vero, se non facendo il giro di tutte le sartorie (!).
Quest'ultima iniziativa ebbe grande successo.

L'obiettivo commerciale di Manzi e Joyant prefissatosi con l'apertura dell'Hotel des Modes
non è mai esplicitato sulla rivista. Queste sono alcune delle possibili motivazioni:
- Certamente era un modo per sostenere il nome e il lavoro delle riviste di proprietà
della società e per creare una sorta di comunità di stile e di gusto intorno ai due
giornali;
- era anche un modo per offrire a tutte le aziende di moda parigine che pubblicavano i
propri modelli su “Les Modes” un modo alternativo per far conoscere a potenziali
clienti le proprie creazioni;
- poteva essere considerato anche un modo per conquistare un nuovo pubblico: quello
delle donne;
L'idea di fondo era quella di rimettersi nella tradizione di Adolphe Goupil aprendo
una galleria d'arte, ma solo a patto di non entrare in aperta concorrenza con gli altri
“Successori di Goupil & Cie”.
I dipinti originali esposti all'Hotel des Modes erano quindi destinati a essere riprodotti e
venduti in forma di stampa. Quasi tutti i quadri che avevano fatto parte della mostra
inaugurale entrarono a far parte dell’arredo dell'Hotel, al pari di molti degli oggetti ancora
presenti.
Il caso di Boldini è emblematico: vennero esposte sino alla fine le sue opere, ad esempio le
due grandi tele, i ritratti…
L'ultima esposizione, nell'autunno 1913, li vide ancora al loro posto.

La fine di un esperimento:
dopo qualche anno, le dame del bel mondo chiedevano alla moda nuovi modelli di gusto e
nuovi capi. Albert Flament, nel delineare i tipi ideali di donna che caratterizzavano l’opera
di alcuni “peintres de la femme” (pittori della donna) contemporanei scrisse l’ironico
epitaffio della donna di Boldini.
Ormai si poteva riderne, perché era già stata sostituita dalla “ragazza moderna”.
Anche la formula della rivista entrò in crisi nello stesso periodo. La fotografia aveva ormai
fatto il suo ingresso in tutte le redazioni e il pubblico si era abituato, non rappresentava più
una novità.

Nel 1912, l’editore Lucien Vogel fece uscire il primo numero della “Gazette du Bon Ton”,
un mensile destinato a un pubblico esclusivo che scelse di comunicare la moda solo
attraverso il disegno🡪 ritorno alle origini settecentesche della stampa di moda.
L’Hotel di rue de la Ville-l’Eveque (Hotel des Modes) cominciò ad alternare le sempre meno
frequenti esposizioni di moda con un numero crescente di manifestazioni.
Assunto il nome di Galerie Manzi-Joyant, cominciò a organizzare mostre d’arte
contemporanea in cui furono esposte opere di Monet, Degas, Pissarro, Cezanne e tanti altri,
ma vennero fatte anche mostre personali e retrospettive di grandi artisti, come
Toulouse-Lautrec, vendite all’asta di importantissime collezioni…

La morte di Michel Manzi nell’aprile 1915 e lo scoppio della Prima guerra mondiale
provocarono la crisi definitiva della società Manzi, Joyant & Cie, che fu sciolta nell’ottobre
1917 e messa in liquidazione.
Le opere di Boldini erano già state messe in vendita.
Comunicazione e mecenatismo. Paul Poiret e gli artisti
Molti dei grandi couturier parigini ebbero legami con l’arte: Dior, ad esempio, esercitò la
professione di gallerista molti anni prima di affermarsi nella moda e per tutta la sua vita
coltivò l'amicizia con gli artisti con cui aveva condiviso la giovinezza.
Paul poiret aprì la sua prima sartoria nei primi anni del Novecento, quando si stava ancora
discutendo intorno al dilemma se considerare la moda o meno una forma di arte applicata.
Il giovane aspirante couturier era un innovatore, consapevole che la società in cui viveva
stava cambiando e che la moda doveva cogliere e anticipare il mutamento. Le
donne cui voleva rivolgersi non erano quelle che frequentavano le esclusive case di moda in
cerca di lusso e affermazione, ma giovani sicure della propria ricchezza e del proprio fascino;
donne che stavano affinando armi di seduzione molto diverse da quelle ottocentesche; donne
che non avevano più bisogno di farsi guidare ciecamente dalla tirannia di un couturier.
Poiret aveva capito che la modernità che stava esplodendo intorno a lui non poteva lasciare
intatto il modo di vestire femminile e apriva le strade impreviste per l’industria della moda.
Cominciò a inventare nuove silhouette, nuovi immaginari, nuovi modelli di gusto da
proporre alle giovani donne della Belle Epoque.
Probabilmente fu proprio la ricerca del nuovo e delle forme della modernità che
lo avvicinò agli artisti. “ I pittori mi sono sempre piaciuti, mi sento alla pari con loro. Mi
sembra che facciamo lo stesso mestiere e che possiamo dirci colleghi”.
Così come molti pittori cercavano nuovi linguaggi nelle sculture africane(Picasso), Poiret era
attratto dall abbigliamento etnico: i costumi tradizionali, ma soprattutto le culture
extraeuropee. Lo affascinavano le forme ampie e geometriche del kimono e delle vesti arabe,
i leggeri tessuti indiani dai colori accesi. E fu lo studio del colore il primo
collegamento con i pittori d’avanguardia.

Li aveva conosciuti a Chatou, dove lui andava per fare canottaggio e loro per dipingere, in
particolare erano Maurice de Vlaminck e André Derain, quelli che al Salon d’Automne
del 1905 Louis Vauxcelles avrebbe definito “Fauves” per il loro modo di usare il colore.
Nel 1941 Matisse avrebbe dichiarato “Per me il colore è una forza. I miei dipinti si
compongono di quattro o cinque colori che si cozzano l'uno contro l’altro, che comunicano
una sensazione di energia”.
Gli artisti divennero punti di riferimento e compagni di viaggio sia nella sua vita privata sia
nella sua avventura nella moda. Di Matisse acquistò opere; Andrè Derain lo ritrasse negli
anni difficili del servizio militare.
Il suo interesse per i giovani che stavano rivoluzionando il linguaggio artistico dell’Occidente
non si fermò qui: era amico di Picabia e di sua moglie Gabrielle; conobbe inoltre Picasso,
Braque, Apollinaire e tanti altri, che invitò alle sue cene e alle sue feste.
Fu proprio ad una sua festa, “La Milleduesima notte” del 24 giugno 1911, che conobbe Kees
van Dongen, con il quale scoprì di avere in comune l’amore per l’Oriente e per le feste in
costume.
Da quel momento Poiret acquistò diverse opere del pittore olandese e van Dongen ritrasse
modelle con abiti del couturier e si fece decorare la casa dall’atelier Martine. Nel 1931
pubblicarono insieme un libro su Deauville.

Disegnatori e fotografi
Nel 1906 P. si rivolse a Bernard Naudin per disegnare la comunicazione integrata(=carta
intestata, inviti alle sfilate, comunicati alle clienti)della rinnovata e ingrandita maison.
Voleva cambiare il modo di vestire delle donne, ma anche le regole dell’industria della moda,
a cominciare dall’informazione, ma era necessario trovare un linguaggio moderno e adeguato
alla moda. Poiret quindi non guardò all’ infinito numero di figurinisti che lavoravano per le
riviste o per gli atelier, ma si rivolse ad un disegnatore che sapeva cogliere lo spirito di quei
tempi.
All’epoca Nudin collaborava con prestigiose testate satiriche e Poiret capì che poteva essere
adatto al suo scopo, così gli chiese di disegnare delle intestazioni di lettere.
Due anni dopo fece lo stesso con Paul Iribe, disegnatore satirico, nel momento in cui decise
di presentare una collezione d'avanguardia e cambiare l’immagine della propria griffe.
I pochoir di Iribe ricordavano da un lato le tavole del “Journal des dames et des modes” della
fine del XVIII sec, e dall’altro le stampe giapponesi. Se il figurino tradizionale suggeriva gli
elementi essenziali di un modello e la fotografia ne rendeva sia la realtà materica sia la
vestibilità, i pochoir di Iribe offrivano la sostanza immateriale della moda di Poiret, suggerita
soprattutto dalle longilinee modelle con gli occhi a mandorla.
Poi fu la volta di Lepape, artista meno conosciuto rispetto ai primi due. Il couturier decise di
ribaltare l’approccio: non erano la fama o lo stile dell’artista a dare lustro alla moda, ma la
griffe del grande couturier che, attraverso la propria immagine e la propria fama, dava spazio
all’espressione artistica.
Anche con la fotografia Poiret si mosse con lo stesso principio. Nel 1911, sulla prestigiosa
rivista “Art et Décorations”, egli venne illustrato con disegni di Lepape e con un servizio
fotografico.
Lucien Vogel, capo redattore, insieme a Poiret,scelse come fotografo Edward Steichen che
in quegli anni era a Parigi per un progetto sull’arte contemporanea. Non era un fotografo di
moda(lo sarebbe diventato negli anni 20) e il suo approccio era libero da tutte le regole che i
professionisti di quel settore avevano messo a punto. Steichen faceva muovere le modelle
liberamente negli spazi della nuova maison in Avenue d’antin e fissò le loro movenze e i loro
gesti in immagini che da un lato danno l’idea della normale attività un atelier(l’allacciatura di
un vestito,il controllo allo specchio, l’apertura di una porta), dall’altra propongono tagli
fotografici inediti che a volte costruiscono geometrie particolari o ritratti di gruppo pittorici.
Molto più casuale fu l’incontro con Man Ray, un giovane artista americano arrivato a Parigi
nel 1921 che gli fu presentato da Gabrielle Picabia. In quel momento Poiret necessitava di
fotografie originali delle indossatrici e delle sue creazioni, qualcosa d’insolito, diverso dalla
banalità esibite dai comuni fotografi di moda. Nello scatto più famoso di quelle giornate,
Man Ray mise in posa la modella davanti ad una delle prime versioni di Maiastra di
Constantin Brancusi, che il couturier aveva acquistato dall’artista stesso. Il risultato fu
l’immagine di un abbigliamento opulento e raffinato che ormai non era più moda.
Quelle poche fotografie gli portarono fortuna e furono anche la causa involontaria della
scoperta delle rayografie di cui il couturier fu il primo acquirente.

Raoul Dufy e La Petite Usine


Poiret e Raoul Dufy si conobbero alla fine del primo decennio del Novecento, quando il
giovane pittore, in cerca di una nuova strada e vessato dalle difficoltà economiche, cominciò
a dedicarsi alla xilografia, una tecnica che altri artisti d’avanguardia stavano
sperimentando negli stessi anni.
Poiret vide i suoi lavori e ne rimase colpito. Gli commissionò la decorazione delle porte del
Pavillon du Butard che stava ristrutturando, la progettazione di carta intestata, di etichette di
profumi, di decorazioni, di inviti e molte altre cose. Fu però di fronte alle sue incisioni
che si rese conto che avrebbe potuto rappresentare una rivoluzione nella
stampa tessile: avevano la stessa forza dei selvaggi colori dei Fauves e l’antica tecnica
artigianale di stampa le rendeva modernissime.
Nel 1911 Poiret finanziò l'apertura de La Petite Usine, un atelier artigianale di stampa su tela,
in cui Dufy preparava i disegni, incideva le matrici di legno e studiava. All’inizio i grandi
motivi d’ispirazione naturalistica erano in bianco e nero, ma poisi aggiunse il colore. La
bellezza dei tessuti presentati in sfilata nei modelli di Poiret colpì nel segno. Dufy firmò un
contratto con una delle più importanti industrie seriche di Lione, la Atuyer-Bianchini Ferier,
di cui divenne artista-disegnatore.

I colleghi artisti
Nel 1930 Poiret scrisse che si sentiva collega degli artisti e infatti con i pittori e i fotografi non
erano semplici committenze, ma modalità inusuali per portare nella moda lo spirito dell’arte
e contemporaneamente per mettere a disposizione dell’arte uno spazio nuovo per
l'invenzione e la sperimentazione. Poiret però si sentiva anche un mecenate, non solo perché
acquistava opere per la propria collezione, ma perché offriva agli artisti una possibilità per
esprimersi e per trarre vantaggio dalla visibilità di cui la moda disponeva. Il supporto
attivo che egli offrì agli artisti per tutta la sua vita fu importante come la sua
attività di collezionista. Ebbe la sensazione di conoscerli a fondo e soprattutto fece in
modo che il loro lavoro avesse il giusto riconoscimento e un'adeguata notorietà, che
avrebbero, di conseguenza, riverberato su di lui e sulla sua maison un’aria di cultura e
mecenatismo impossibile da ottenere con il solo lavoro nella moda.

La Galerie Barbazanges
Nell’Ottobre del 1909 Poiret aveva trasferito la propria maison de couture nell’antico Hotel
du Gouverneur des Pages del XVIII sec.
La proprietà comprendeva diversi immobili e un grande giardino.Lo spazio a disposizione
era immenso e il couturier utilizzò il palazzo principale per le attività dell’atelier, ma anche
per tutte le iniziative che inventò in quegli anni per differenziare la propria offerta di moda.
Aveva un ingresso al 107, Rue de Faubourg Saint Honoré, riservato ai fornitori.
Per il secondo immobile, al 109, Poiret ebbe un’ispirazione originale: aprirvi una galleria
d’arte. Gli spazi erano adatti:un grande ingresso che dava l’accesso ad alcune piccole stanze e
ad un mezzanino, ma soprattutto a un immenso salone senza finestre coperto con una
vetrata. Li affittò a Henri Barbazanges conservando il diritto di organizzare una o due
mostre l’anno.
La galleria inaugurò nel 1910 con una mostra dedicata a Jean-Louis Boussingault, André
Dunoyer de Segonzac e Luc- Albert Moreau, tre giovani pittori realisti che Poiret apprezzava
ed evidentemente voleva lanciare.
Fu poi la volta dei disegnatori. Nel 1911, infatti fu dedicata una mostra a Bernard Boutet de
Monvel, Georges Lepape, Jacques e Pierre Brissaud, tutti collaboratori di Poiret, di cui
furono esposti sia dipinti che tavole di moda.
Nel programma della galleria non mancarono però i grandi nomi dell’avanguardia. Nel 1912
Poiret invitò Robert Delaunay e Marie Laurencin a condividere la galleria con due mostre
personali. Delaunay espose una quarantina di opere fra cui vedute di monumenti gotici alla
maniera di Cézanne e le serie delle Torre Eiffel.
Uno degli obiettivi della mostra era di mostrare la superiorità internazionale
dell’avanguardia parigina, minacciata dai futuristi italiani che nello stesso periodo
esponevano alla Galleria Bernheim-Jeune.
Nel 1919 la Galerie Barbazanges propose un’esposizione dei lavori teatrali di due artisti:
Natalia Goncharova e Michail Larionov, all'epoca già molto noti a Parigi. Per l’occasione
venne organizzato un Gran Gala durante il quale venne messo in scena un atto unico di Max
Jacob.
Pittura, musica,danza,teatro: in quegli anni, gli spazi della Galleria assunsero il ruolo di
vetrina di un progetto di arte globale in cui Poiret era coinvolto in prima persona.
Nel marzo 1920 la galleria ospitò la prima esecuzione de La musique d’ameublement di Satie
e Milhaud. Il concerto comprendeva sia musiche di igor Stravinskij e del gruppo Les Six, sia
la messa in scena di Ruffian toujours, truand jamais di Max Jacob.
C'era però anche una novità assoluta: la musica tappezzeria=era l’intuizione di una
musica che facesse da piacevole sfondo alla vita normale nei luoghi pubblici. L’idea era però
estranea all’esperienza musicale dei primi decenni del Novecento e il tentativo non riuscì.
La Galerie Barbazanges seguì un percorso prevalentemente dedicato all'arte contemporanea,
con qualche digressione nell’arte antica; non mancarono però esposizioni eccezionali che per
motivi diversi hanno lasciato il segno nella storia dell'arte.
Nel 1919 ci fu Paul Gauguin: Exposition d’Oeuvres inconnues, in cui furono esposte e
messe in vendita una trentina di opere inedite della fine del periodo detto di Pont-Aven.

Il Salon d’Antin
Nessuna delle mostre organizzate dalla Galerie fu però importante come quella che si svolse
nei suoi locali dal 16 al 31 Luglio 1916.
All’inizio della guerra Poiret era stato richiamato, la sua famiglia si era rifugiata in
Normandia e la maison de couture era stata chiusa. Passata però la prima ondata di slancio
patriottico erano state riaperte le boutique del profumo e della linea Martine, mentre gli
atelier avevano ricominciato a lavorare. Si dovette aspettare la fine del 1915 perchè l’attività
mostrasse i primi segni di ripresa.
Fu in quel periodo che il critico d’arte André Salmon ottenne da Paul Poiret lo spazio per
organizzare una manifestazione di avanguardia dedicata alla pittura, alla poesia e alla
musica.
La mostra ebbe un'importanza eccezionale, dato che fu “l’unica collettiva disponibile,
dall'inizio della guerra, per gli artisti d’avanguardia.”
Vi parteciprono tutti, da Modigliani a Derain, da Kisling a Leger, da Matisse a Rouault, da
Lhote a van Dongen a de Waroquier.
L’intera manifestazione però passò alla storia per un altro motivo: per la prima volta vi fu
esposto al pubblico Les demoiselles d’Avignon di Picasso, che fece scandalo nonostante
fosse stato realizzato nove anni prima.
Quando, successivamente, la critica decise di trasformare quest’opera nel punto d’origine
dell’arte figurativa del 900, il Salon d’Antin assunse un ruolo chiave nella storia dell’arte
contemporanea, dimenticandosi delle numerose presenze di altri artisti, sia il ruolo di
Poiret.
Qual’era stato questo ruolo?
Nel 1923, nella prefazione al catalogo dell'esposizione dedicata alla collezione del couturier, il
critico precisò l'informazione che aveva fornito nel 1916 al momento dell’inaugurazione della
mostra, quando si era limitato ad elogiare “colui senza il quale non ci sarebbe stato il Salon
d'Antin.
Ma scorrendo il catalogo delle opere esposte è possibile cogliere il ruolo che il couturier ebbe
nell’organizzazione della manifestazione: fra gli artisti presenti figurano molti di quelli che
facevano parte del suo entourage e alcune opere hanno uno stretto legame con lui. Persino la
presenza di Picasso potrebbe essere stata favorita dalla sua liaison con Paquerette, una delle
indossatrici della Maison.
Poiret si considerava un collega degli artisti e non un semplice mecenate. Nella sua attività
aveva sempre cercato di avere una parte attiva e non si era mai accontentato di giocare il
ruolo del semplice finanziatore.
Fino a quel momento Poiret aveva collaborato con artisti nella sua attività professionale, li
aveva frequentati, aveva comprato le loro opere, ma in quegli anni di guerra probabilmente
voleva offrire il proprio contributo, materiale e teorico, alla ripresa della cultura artistica
parigina.

Dopo il Salon d’Antin. L’Almanach des lettres et des arts


Pochi mesi dopo la fondazione del gruppo Art et Libertè e l’inaugurazione del Salon d’Antin,
Poiret pubblicò Almanach des lettres et des arts: calendrier pour 1917:poésies,contes et
nouvelles:essais sur les idées et les moeurs d’aujourd’hui et sur l'état présent des beaux-art
en France, curato dal poeta André Mary per la parte letteraria e Dufy per quella artistica.
Il risultato fu un'opera ibrida in cui si mescolarono in modo quasi inestricabile gli aspetti
culturali e quelli pubblicitari. Il corpo centrale era diviso in due parti: il calendario del 1917 e
un’antologia di testi contemporanei. Ogni mese era illustrato con una xilografia originale di
Raoul Dufy e accompagnato da brevi scritti e poesie di autori antichi e moderni, ricette di
cucina,annotazioni sui lavori dell’orto e del giardino, come era nella tradizione degli
almanacchi.
Il Recueil de Pièces Nouvelles.Prose & verse racchiude invece testi letterari, poesie e brevi
saggi di vari autori su temi diversi ed era illustrato con decide di riproduzioni di opere d’arte,
antica e moderna. Per quanto riguarda i testi, in quell’estate del 1916 l’argomento del giorno
era la guerra, cui furono dedicate riflessioni, testimonianze, e meditazioni di Paul Bourdin,
Andrè Salmone d'altri letterati.
In sintesi era un’antologia di arte, letteratura e saggistica in cui il nome di André
Salmon era accostato a quello di Sebastien Voirol, quelli degli artisti che avevano esposto al
Salon d’Antin erano accomunati a quelli che facevano parte di Art et Liberté e a quelli che
avevano rapporti con Poiret. Come se il couturier avesse voluto offrire a tutti un’occasione di
pubblicazione e contemporaneamente rivendicasse il proprio ruolo di promotore della più
ampia modernità artistica.
C’era poi un saggio intitolato De l'art moderne firmato da un ignoto “amateur” una
qualifica che poteva celare lo stesso Poiret o qualcuno che ne condivideva le idee.
L’articolo si soffermava sull anarchia dell'arte contemporanea, caratterizzata da un lato da
rivolta contro l’arte ufficiale, contro tutti i luoghi comuni e tutti i tipi banalizzati di bellezza e
dall'altro dalla mancanza di un carattere generale e di leggi condivise. La parte finale del
testo era dedicata al rapporto tra arte e architettura e al ruolo delle arti decorative: il
problema era la decadenza dell’arte applicata in Francia, per cui il couturier credeva
molto( progetto Martine).
L'amateur proponeva come soluzione una specie di felice sintesi tra avanguardia artistica,
architettura e arti decorative, in cui la prima assumeva un ruolo di guida.

Il dopoguerra
Poiret nel 1917 fu costretto a ipotecare alcune proprietà e a venderne altre. Egli si rese conto
che le vendite non erano state sufficienti a compensare né le spese nè i mancati guadagni
degli anni di guerra e che la sua attuale situazione finanziaria non era in grado di garantirgli
una rapida ripresa dell’attività.
Segnato dal trauma bellico e dalla morte dei due figli, partì per una vacanza in Marocco e
solo al ritorno si dedicò al rilancio della propria azienda.
Fu ridiscusso inoltre il suo coinvolgimento economico nella galleria: Henti Barbazanges
trovò un nuovo socio in Louis-Cesar Hodebert, con il quale fondò la Barbazanges-Hodebert
et Cie. Successivamente, nel 1923, quando ormai la decadenza divenne evidente, anche la
galleria cambiò regime societario: Henri si ritirò dall'impresa e e hodebert continuò da solo.
Il mutamento fu però celebrato in grande stile con una mostra in cui era esposta una parte
della collezione del couturier, in modo da creare grande attenzione intorno all’evento.
La situazione professionale di Poiret era però ormai giunta ad un punto molto prossimo al
dissesto definitivo. L’anno dopo fu costretto a vendere tutte le sue proprietà e a trovare
un'altra sede per la casa di moda.
Per partecipare alla Exposition International del 1925 egli vendette l'Atelier Martine, ma
anche quel tentativo di rilanciare la propria maison non andò a buon fine. Fu anzi a rovina
finanziaria.
Nel novembre dello stesso anno l’intera collezione d’arte del couturier venne messa all’asta.
Fu la fine anche del suo ruolo di mecenate, ma non di amante dell’arte.Ormai ridotto in
miseria, non potendo più finanziare si mise a dipingere.
Trent’anni dopo,nel 1974, il Musée Jacquemart André organizzò la mostra Poiret le
Magnifique: era la prima volta che un museo rendeva omaggio ad un creatore di moda
dedicandogli una mostra.
La documentazione dell’avventura professionale di Poiret fu affiancata e quasi surclassata
dalle testimonianze di quel mondo artistico con cui aveva coltivato rapporti e di cui si era
sentito collega.

Creatività e ispirazione. Il sogno di una moda italiana. Rosa Genoni


Nel 1906 si tenne a Milano l’Esposizione Internazionale, dove Rosa Genoni presentò la
sua idea di moda. Allestì a proprie spese una vetrina nella sezione Abbigliamenti del
Padiglione delle Arti Decorative, in cui erano esposti sette abiti il cui significato era spiegato
in un opuscolo distribuito ai visitatori. Quei modelli erano la sua proposta di moda italiana,
alternativa a quella francese spesso copiata da molti.
Era una iniziativa singolare e per molti aspetti curiosa:
-nei primi anni del ‘900 nessuno in Italia aveva osato avere dubbi sulla moda parigina o
pensare ad una possibile centralità della moda italiana;
- l’esposizione del 1906 era stata pensata per celebrare l’apertura del traforo del Sempione e
quindi con un tema centrale: trasporti, apertura di frontiere e delle nuove prospettive
dell’Italia nei mercati esteri;
- Rosa Genoni era una sconosciuta per il grande pubblico. Il suo nome era noto a Milano per
il suo coinvolgimento nell’ambito socialista e femminista.
Sartoria e politica
Rosa Genoni era nata nel 1867 nella Valtellina (zona povera della montagna lombarda).
Prima di diciotto fratelli era stata mandata a Milano da una zia a 10 anni per imparare il
mestiere di sarta, un lavoro che non la accontentava.
Infatti colse ogni occasione che Milano poteva offrirle: ottenne la licenza di quinta
elementare grazie a dei corsi serali, poi si iscrisse a un corso di francese (lingua della moda).
Nel 1884 ricevette la qualifica di maestra nella sartoria Dell’Oro, ma anche questo non le
basto. Andò a Parigi grazie al suo impegno politico, non tornò in Italia fino al 1888 quando
rientrò a Milano dove ricevette un contratto con la casa di Bellotti. Nel 1893 si batte contro lo
sfruttamento del lavoro femminile, entrando nella Lega Promotrice degli Interessi
Femminili. Venne a contatto con i nomi più illustri del femminismo di sinistra tra cui: Anna
Maria Mozzoni, giornalista e attivista dei diritti civili, che nel 1893 la invita al Congresso
Internazionale Socialista-Laburista di Zurigo. Questo diede inizio alla sua vita da femminista
di sinistra e conobbe anche Andrea Costa. Nel 1898, lavora con H. Haardt e Figli e grazie al
suo contributo diventa una delle sartorie più importanti di lusso a Milano. Con la casa di
moda Ventura in Corso Vittorio Emanuele lavora con una clientela composta dalla alta
società e da famose attrici. Qui Rosa Genoni raggiunse i suoi obiettivi: diventò première e poi
direttrice della maison.
Gli anni a cavallo tra XIX e XX secolo furono altrettanto importanti per la vita privata:
conobbe l’avvocato Alfredo Podreider, che divenne il suo compagno per la vita anche se
non si sposarono (consuetudine delle coppie politicamente impegnate).
La Scuola professionale femminile della Società Umanitaria
Il 4 novembre 1905 il Consiglio della Società Umanitaria conferì a Rosa Genoni il
posto di Dirigente della Sezione Sartoria nella Scuola professionale femminile.
La Società Umanitaria, una delle istituzioni più nobili di Milano, fu fondata nel 1893 da
Prospero Moisè Loria con lo scopo riportato nell’Articolo 2 dello Statuto Albertino.
Agli inizi del ‘900 le attività dell’Umanitaria furono principalmente a disposizione delle
categorie di operai che possono trovare un “istrumento di elevazione economica e morale e
una difesa contro la disoccupazione” proprio all’interno delle scuole. Diverse erano rivolte
solo a uomini, come la Scuola di elettronica.
Nel 1905 lo sguardo si rivolse alle lavoratrici presenti e future, si cominciò a parlare di Scuola
professionale femminile “per sottrarre le fanciulle del popolo al duro e infecondo tirocinio
nella fabbrica, per impedire loro la triste e pesante via della piscinina”.
Nel 1907 il settimanale per bambini “Il giornalino della Domenica” in un articolo parlò della
sorte a cui erano state sottratte le allieve della scuola. Il progetto fu preparato con cura, fino
ad avere cicli “quotidiani” di formazione dedicati alle ragazzine che avevano terminato
l’obbligo scolastico e volevano avviarsi “alle professioni di sarta, lavorante di biancheria,
ricamatrice e stiratrice”.
Come scrisse Claudio Colombo: «Probabilmente la parola che riassume meglio la storia
della Società Umanitaria è una sola: modernità».
La novità del progetto politico dell’Umanitaria era unire la filantropia con l’idea di progresso
e di modernità che guidava le scelte milanesi di quegli anni di intenso sviluppo economico. Il
tema del rinnovamento delle arti decorative e della formazione di una nuova leva di artigiani
e operai era strategico, questo si capì durante la Grande Esposizione di Londra del 1851: la
borghesia emergente rappresentava un immenso mercato per i prodotti industriali, ma per
conquistarlo era necessario creare nuove forme e nuovi decori.
Nel 1881 Giuseppe Colombo disse che accanto alla grande industria esisteva in città “un’altra
classe d’industrie” ovvero quelli che soddisfano le esigenze del resto del popolo per vivere.
Non si parla solo di oggetti di lusso ma degli oggetti di prima necessità e d’uso comune. Per
rendere concorrenziale la produzione di queste manifatture era fondamentale promuovere il
senso di intelligenza del bello; e questo si trasmette da generazione all’altra come anche la
bravura nel fare questo lavoro.
Nel progettare e creare le scuole l’Umanitaria scelse anche di avere docenti con mentalità
moderne. Per la Scuola di Arte Applicata all’industria non ci si rivolge solo ad artisti e
professionisti (Alessandro Mazzucotelli, Eugenio Quarti, Enrico Monti, etc.) ma anche un
corpo docenti selezionato che voleva rinnovare e modernizzare. Tutta questa teoria poi andrà
ad affermare quella che è L’Art Nouveau.
La nuova didattica voleva mettere a confronto la creatività dell’allievo con il grande modello
della natura. Il liberty che si affermò all’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa
Moderna di Torino nel 1902, che un anno dopo divenne l’idea base di formazione dei futuri
artigiani. Vennero poste le basi del design italiano.
Per le Scuole professionali femminili, ci fu la stessa ricerca accurata per i docenti. A dirigere
fu chiamata Adele Ghirelli Tosatti. Il corso di disegno era affidata a un pittore, Edgardo
Calori, per i ricami invece Adele Sottili e per l’insegnamento di sartoria vennero chiamate le
più note e stimate dirigenti di case di confezione, come Rosa Genoni.
Ella da quel novembre lavorò su tre fronti: la sartoria di Haardt, l’impegno politico e la
scuola. La moda e la cultura sartoriale in quei anni non erano al centri di un momento di
particolare vivacità inventiva. La moda parigina proponeva raffinatissimi e lussuosi
manufatti in riferimento a un modello estetico che si era consolidato negli anni. Poteva
essere per questo motivo oppure per portare modernità anche nel settore della moda, che
Rosa Genoni decise che era l’ora che l’abito femminile partecipasse al progetto di
rinnovamento del gusto estetico del paese. Non si sa se l’idea di moda italiana ispirata all’arte
fosse nata in quel periodo oppure come disse la figlia Fanny si era resa conto di come a Parigi
“i disegnatori e artisti si ispirassero ai grandi Albums di riproduzione di fogge antiche per
le loro stoffe e ricami”.
L’Esposizione Internazionale del Sempione
Per questo progetto di rinnovamento colse l’occasione dell’Esposizione internazionale del
Sempione (1906). L’anno prima la Società aveva deliberato la costruzione di un proprio
padiglione per far conoscere le iniziative. Tra le esposizioni c’erano anche due abiti da giorno
decorati con ricami a foglie d’edera e libellule di gusti liberty, premiate con il diploma
d’onore.
Per la Genoni non fu sufficiente: nel Padiglione dell’Arte Decorativa Italiana allestì una
vetrina individuale, in cui espose otto modelli ispirati ad opere d’arte del ‘400 e del ‘500.
L’ospucolo-guida, intitolato Al lettore, spiegava che “la moda attuale bandita imperialmente
da Parigi non ammanta artisticamente la donna come potrebbe vagheggiare la fantasia
d’un artista o semplicemente il buon gusto d’un italiano”.
Il suo obiettivo era l’affermazione dell’Italia nel campo della moda. Due erano i principi
guida delle sue creazioni: l’italianità del gusto e il riferimento all’arte. La sua idea era
patriottica e artistica insieme.
L’iniziativa della Genoni, però, passò quasi inosservata per diversi mesi fino a quando la
notte del 3 agosto il Padiglione delle Arti Decorative fu distrutto da un incendio.
Rosa Genoni fu tra quelli che nei quaranta giorni necessari al ripristino preparò sei nuovi
modelli diversi, tranne l’abito ispirato alla Primavera di Botticelli.
Iniziò ad essere notata. L’Italia del 1906 non era più quella di una volta e la Francia era in
mano alle grandi sarte. C’erano tutte le condizioni per una ribellione da parte delle donne
italiane.
Ugo Ojetti la pensò diversamente dalla Genoni, lui pensava che il suo tentativo derivasse da
un errore teorico, anche se gli abiti erano stati ispirati da opere d’arte essi avevano solo tinte
e una vaga nobiltà di stile. Dopo l’incendio e molti critiche, la seconda mostra non fu allo
stesso livello della prima per via della propria delusione. Le riviste andarono avanti a parlare
delle due vetrine tra cui la rivista femminile più importante dell’epoca “Margherita”. Un caso
a parte fu quello di Ida Baroffio Bertolotti, che sembrava avesse intervistato Rosa Genoni. Lei
infatti scrive con sicurezza che la sarta non ha consultato figurini inglesi o francesi ma che le
signore più eleganti potevano trovare tutte le abilità nelle sartorie italiane. Precisa inoltre che
per le sue ispirazioni visitò molte pinacoteche e gallerie, dove poteva consultare disegni e le
storie del tempo per raggiungere “ il nobile scopo”. Questo nobile scopo non era che l’idea di
una supremazia italiana sulle mode.
Il ruolo e l’autonomia del creatore di moda
Dopo la fine della manifestazione l’argomento sembrò dimenticato. La Genoni riprese la sua
vita con una promozione a première e poi a direttrice della sartoria Haardt che
comportavano più viaggi, specialmente a Parigi.
Volle avere sempre più autonomia nella progettazione di moda e quest’idea fu all’origine di
un metodo di insegnamento differente da quello con cui aveva iniziato la scuola. Agli inizi del
1907 provocò un conflitto con l'insegnante di disegno, Edgardo Calori, che aveva intenzione
di arginarla con pretese intellettuali cercando di sottrarsi alla sua guida. La causa di questa
lite fu banale, lo si può vedere in una lettera inviata da lei a Augusto Osimo, Segretario
generale della Società Umanitaria.
È semplicemente una guerra delle camicette, che metteva a confronto due principi didattici
opposti e la posta in gioco era la parità di dignità degli insegnamenti. La Genoni ribadisce la
centralità della creazione del vestito dicendo che spettava a lei insegnare a fare abiti, mentre
al dirigente spetta insegnare a disegnare. L’insegnamento impartito da Calori riguardava le
decorazioni, che nella moda erano un ornamento subordinato al modello e alla costruzione
sartoriale del vestito. Rosa pretendeva la piena autonomia nella loro utilizzazione. Inoltre,
solo imparando a progettare abiti le allieve avrebbero potuto capire che anche nella moda
c’era spazio per la creatività individuale.
Camillo Boito scrisse un articolo dal titolo In proposito di una scuoletta femminile,
pubblicato su “Arte italiana decorativa e industriale” in cui osserva che “era troppo presto
per giudicare i prodotti dei laboratori”. Sempre nell’articolo si lancia in una lode del
“maestro di disegno che accompagna e aiuta i diversi insegnamenti” e che era riuscito a fare
in modo che gli esercizi proposti alle allieve rimanessero “entro ai confini delle arti
femminili”. Successivamente fa riferimento alle leggi della moda, “leggi mutevoli, facili a
modificarsi o a cangiarsi, ma tiranniche finché durano”. Boito esprime anche una velata
critica a Genoni affermando che “per ora […] dobbiamo rispettarle (le leggi della moda) con
buona grazia, interpretandole talvolta un poco a modo nostro: ecco tutto”.
Boito termina l’articolo con una citazione da una pubblicazione della Società Umanitaria:
“fondamento di tutti gli insegnamenti professionali è lo studio del disegno, il quale è
l’alfabeto del lavoro”.
Nel rivendicare il suo ruolo di creatrice di moda Rosa Genoni non era disposta ad accettare
questo dogma e si appella ad Augusto Osimo. Il 18 febbraio in una lettera comunica le
proprie “irrevocabili dimissioni”.
La moda italiana al I Congresso nazionale delle donne italiane
Nella lettera in cui annunciava di aver ritirato le dimissioni chiese un incontro con Cosimo
per parlare del Congresso che si terrà a Roma nel mese di aprile.
Al Primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane che si aprì a Roma il 23 aprile
1908 Rosa Genoni intervenne come delegato della Società Umanitaria.
La seduta inaugurale cui parteciparono 1400 donne avvenne nella sala degli Orazi e Curiazi
in Campidoglio con la presenza della regina Elena e la principessa Letizia e fu aperta dai
saluti ufficiali del sindaco di Roma Ernesto Nathan. Durante questo si toccarono diversi temi
dell'educazione al diritto di voto, dalla ricerca della paternità all'igiene, dalle donne scrittrici
all'autorizzazione maritale, dal divorzio alla bellezza delle città italiane.
Rosa Genoni scrisse la sua relazione dal titolo “Per una moda italiana” dove inizia con una
dichiarazione forte ma condivisa: “l’arredamento della casa e l'abbigliamento femminile
sono i due rami essenziali dell'arte decorativa”. Nel 1884 a Londra i magazzini Liberty
avevano aperto un reparto di abbigliamento affidandolo a un architetto William Godwin. Nel
1910 a Vienna la Wiener Werkstätte ho aperto il settore moda che da anni di artisti della
Secessione collaboravano con le sartorie di avanguardia. All'Esposizione Universale di Parigi
del 1900 la moda era stata rappresentata insieme a tutte le arti maggiori e minori.
Da questa premessa la Genoni discese la conseguenza che la moda dovesse partecipare al
progresso delle arti decorative per tre motivi:
1. il bisogno di reagire con il conforto e il godimento al dominante spirito di mercantilismo e
di speculazione che dà l’Arta;
2. c’era la nuova realtà italiana grazie alla consolidazione della libertà e dell’indipendenza
nazionale, politica ed economica;
3. c’era il mondo moderno e lo sviluppo che contribuì in maniera fondamentale.
In questa interpretazione le idee socialiste della Genoni di mescolano con utopie estetiche di
altra origine e in cui l’arte aveva un ruolo fondamentale.
Citando l’introduzione a Le costume en France di Ary Renan, secondo cui “il vestito è in
apparenza un involucro, ma in realtà è il più sicuro simbolo della qualità più nascosti e
inafferrabili di un individuo, di una nazione, di un’epoca”; affrontava il tema difficile e
controverso di caratteri ereditari di un popolo. A parere suo rinunciare ai caratteri del
proprio costume significava rinunciare a una piccola parte della propria psiche e talvolta si
assumono le caratteristiche dei più forti, le razze più barbare adottano sempre quelle delle
razze civili. Ed era quello che stava succedendo in Italia con le diverse mode estere, ma
secondo la Genoni bisognava mettere a punto tutto ciò e creare una linea pura di moda
italiana. Era un compito difficile ma l’occasione del Congresso delle donne poteva essere un
buon momento per lanciare un invito a tutte le signore italiane affinché diventassero
propagandisti della nuova moda italiana. Le signore dovevano guidare le proprie sarte, anche
per evitare che un giorno le più brave tra quelle artigiane potessero rimpiangere di essere
rimaste “la macchina che esegue materialmente e che copia”.
Alle sarte italiane fornì anche fonti d’ispirazione, alternative ai modelli francesi, per
esercitare la propria fantasia:
- opere d’arte (storicismo), perché Rosa aveva capito a Parigi la funzione che potevano avere i
repertori d’immagini;
- i costumi popolari antichi e moderni (etnografia), perché permettevano di comprendere le
tradizioni presenti nel paese;
- la natura (Art Nouveau), che riprende dai colleghi artisti liberty dell’Umanitaria.
La fonte d’ispirazione preferita della Genoni rimanevano le opere d’arte.
La relazione fu un successo. Il discorso letto da Rosa Genoni fu un’appassionata arringa in
cui le colte e originali argomentazioni trovavano perfetta collocazione in un impianto logico
stringente ed erano sostenute da un uso impeccabile della lingua. La relazione piacque
immensamente a Sofia Bisi Albini, fondatrice della rivista “Vita femminile italiana”, che
pubblicò un testo integrale dove riprese e approfondì gli argomenti portati al Congresso.
L’obiettivo non era coinvolgere le signore italiane , ma inserire il progetto nel quadro
generale della modernità e nel futuro della nuova Italia, in cui arte, scienza e industria erano
chiamati a collaborare in nome del progresso. Genoni disse che era ormai evidente che i
nuovi trovati della scienza dell'industria avevano bisogno dei pratici dell’arte e già si
vedevano i primi risultati di questa collaborazione: un esempio è la macchina del fonografo
che servirebbe a ben poco se metallico congegno non fosse avvivato dei capolavori della
musica e della voce dei cantanti, anche il cinema si rivolgeva al grande D'Annunzio in
Italia”. Quelle che una volta erano nemiche con l'arte oggi appaiono strettamente collegate.
Spostò il suo discorso sull'abbigliamento femminile che doveva concorrere a questo rifiorire
di vita. La moda italiana richiama alle stoffe e dai tessuti, alle trine e ai ricami, alla
passamaneria e alle guarnizioni d'ogni genere una finezza di stile di disegno, il buon gusto
italiano. Nella visione utopica di Rosa Genoni l'industria aveva un ruolo fondamentale,
produceva i tessuti e materiali in serie questo avrebbe anche portato alla democratizzazione
della moda.
Dopo il Congresso: le riviste
Rosa Genoni dopo il Congresso di Roma ottenne maggiore notorietà tanto da essere
contattata da importanti giornali, chiedendole di pubblicare i suoi articoli sulla moda. Questa
fu una grande occasione per lei di poter far conoscere le proprie idee e il proprio progetto.
Iniziò quindi a scrivere per più giornali:
1. Vita femminile italiana : qui suggerì un articolo sulle Scuole professionali femminili
(Rosa Genoni collabora con la loro rivista continuò per un anno)
2. Vita d’arte: iniziò a scrivere per il periodico senese diretto da Fabio Bargagli Petrucci e
Pier Ludovico Occhini, prima sporadicamente, poi dal 1910 con una sua rubrica fissa “Nel
Libro d’Oro della Moda Italiana”
3. Il Marzocco che dava spazio alla letteratura femminili e dibattiti femministi.
I suoi articoli trattavano soprattutto dei suoi progetti, in Vita d’arte li presentò pure
affiancati da disegni e fotografie. Le sue proposte erano le sempre medesime, me
venivano presentate in modi differenti:
• Proposta politica: ogni volta si arricchiva di di temi e argomenti nuovi, ad esempio la
recensione La moda: figure e costumi del XIX secolo, pubblicata nel luglio del 1909 su
Il Marzocco e poi su la Vita femminile, si trasformò in un ragionamento su ciò che
sarebbe necessario per favorire la nascita di una vera cultura della moda anche in Italia
• Aneddotico-demografica: ad esempio nei sua scritti I precursori della moda italiana in
Vita femminile italiana (1909) analizza sia i tentativi risorgimentali di una moda
nazionale, sia l’occasione persa del 1870, quando Parigi, assediata dai prussiani,
sembrava non essere più il centro della moda internazionale. Tema ulteriormente
approfondito nel suo primo intervento su Vita d’arte, ripercorrendo la storia industriale
della moda francese dell’ultimo secolo, mettendola a confronto con il Rinascimento
italiano. (polemica contro moda parigina spesso presente)
• Proposte di moda: i suoi progetti di moda,presentati nelle riviste, vengono riconosciuti
dalla casa di moda Haardt (1908) che creò per lei un “nuovo reparto moda italiana”.Si
dimette così come insegnante dall’Umanitaria, ma riuscirono a convincerla a restare
attraverso una lettera.
Il mondo della moda italiano fu l’unico a non restare affascinato dal progetto di moda di
Rosa Genoni. Poche riviste italiane mostrarono interesse: - Ci sono pochi articoli e fotografie
dei suoi modelli, ma è importante da evidenziare come la promozione della sua nuova
prodotta fosse sempre gestita dalla Genoni stessa, utilizzando a volte pseudonimi o piccoli
pezzi non firmati. Margherita breve e sporadico interesse, Virginia Treves Tedeschi,
direttrice del giornale, (giornale interesse verso mondo femminile e femminista) pubblicò nel
giugno 1908 un articolo firmato R., dove venivano riassunti: l’intervento della Genoni al
congresso romano e i modelli indossati da Lyda Borelli.
La moda di Rosa Genoni
Osservando i due unici modelli conservati della Genoni (il modello Primavera e il manto
Pisanello) e quelli pubblicati su riviste e libri, possiamo notare che risalta la maestria che
consentì la trasformazione della Haardt e Figli in una delle più importanti ditte sartoriali di
Milano. Evidente era anche il sapiente uso del ricamo nei suoi modelli come strumento di
traduzione della fonte pittorica in moda. Importante precisare che Rosa Genoni fece una sola
proposta di moda riassumibile nel desiderio di trasformare le opere d’arte in abiti. Nel suo
intervento del 1908 al Congresso spiegò il proprio metodo di lavoro, un sistema
apparentemente semplice: «È necessario innanzitutto sorprenderne e divinarne la linea
dominante e la nota sovrana, che caratterizza ed esalta il lavoro: tradurla poi nel vestito, il
quale nel suo assieme ne riproduca il significato d’arte, e dia la sensazione di bellezza del
modello, a cui si è ispirato».

Possiamo individuare tre fasi:


- identificare con cura i capolavori che rispondessero all’idea di bellezza italiana che si voleva
promuovere. Questa scelta può essere compiuta in modo diretto (visitando musei,
pinacoteche, etc. in modo da avere una conoscenza materica dell’oggetto, analizzandone
particolari e colori). Si servì anche di pubblicazioni illustrate, sia per la storia dell’arte che
per le fogge degli abiti del passato;
- studio dell’autore e dell’opera stessa, in modo da approfondire il “significato d’arte” e la
“sensazione di bellezza”;
- progettazione dei particolari che dovevano caratterizzare il modello, come il ricamo.
In alcuni casi il risultato è una rielaborazione dell’abito dipinto dall’antico pittore, in altri la
traduzione è più complessa (es. Primavera - commistione fra la veste di Flora, quella di
Venere e delle due Grazie).
Una cura minuziosa era dedicata alla progettazione dei particolari, come il ricamo: decine di
motivi, filati, applicazione esemplificano il lavoro di ricerca e di elaborazione che la Genoni
dovette fare per scegliere i tipi di fiori primaverili, i modi di combinarli, i colori e i materiali.
Rosa fu aiutata da un ricamatore sartoriale di grandissima perizia, del quale non rimane
notizia. Nella fase progettuale e nel risultato finale si combinano riferimenti al modello
botticelliano con le teoria dell’Art Nouveau di cui l’Umanitaria si era fatta portavoce.
Ogni modello raccontava un pezzo di storia e metteva chi lo indossava nelle
condizioni di “far rivivere” quel quadro e quel momento del passato in forma moderna.
Anche tenendo conto di questa particolarità il metodo non era nuovo: dalla seconda metà del
‘700 la moda e la cultura avevano rivolto lo sguardo all’indietro come anche l’architettura dei
nuovi Parlamenti; l’800 fu caratterizzato dai revival con le signore della ricca borghesia che
si vestivano come le antenate che volevano far credere di aver avuto; nei primi anni del ‘900 i
riferimenti al Settecento andavano ancora per la maggiore.
Tornando al secolo precedente, Worth fu un maestro in questo gioco, insieme a lui le sartorie
più famose facevano a gara per proporre alle signore modelli ispirati ad antiche fogge riprese
da antiche opere d’arte. In tutto ciò fondamentale fu la pubblicazione de Le costume
historique di Racinet, che offrì gli strumenti per citare modelli del passato nella nuova moda.
Rosa Genoni non aveva l’intenzione di proporre tendenza: ognuno dei suoi modelli era
concepito come la narrazione di un’opera d’arte ed era un unicum. Inoltre, i suoi abiti non
tenevano conto dei tempi e della naturale caducità delle mode.
Per quanto riguarda la linea e la modellistica, Genoni si adeguò alla moda corrente e
significativo fu l’accenno alla forma “princesse”. Questa fu reinterpretata con decori
particolari, maniche a strascico e colletti trecenteschi. Nel 1906 Ugo Ojetti aveva osservato
che “le donne per le quali ha lavorato la signora Genoni, portano tutte […] il più parigino
dei busti”. Qualche anno dopo Rosa avrebbe scritto su “Margherita”: «L’abbigliamento
femminile in certe epoche non ha esitato a falsare l’anatomia della donna, esagerando o
smorzando le forme della persona […] e così si è potuto vedere in quei tempi, che non era il
vestito che si modellava al corpo, ma bensì il corpo che si modellava sul vestito,» ma
evidentemente non annoverava il busto tra questi artifici.
Tutte le fotografie dei suoi modelli mostrano silhouette sagomato dal busto. Ma proprio
questo artificio aveva cominciato a trovare oppositori già nella seconda metà dell’Ottocento,
anche perché la couture parigina sperimentò soluzioni alternative che la Genoni non prese in
considerazione nemmeno dove possibile. Nelle diverse varianti indossate da Lyda Borelli
l’aderente abito di raso a vita alta, completato da pannelli da drappeggiare, era
evidentemente infilato su un busto.
Le statuette di Tanagra erano diventate una specie di simbolo di quel modo di vestire estetico
e riformato che doveva liberare le donne dal busto restituendo loro la bellezza naturale e la
facilità di movimento.
Nel 1908 venne lanciata la robe tanagréenne da portare senza busto e concepita in modo
innovativo.
Le fotografie di Lyda Borelli con i modelli della Genoni su “Margherita” il 14 giugno non
furono all’origine di tutto questo. La verità era che Rosa Genoni aveva preso ispirazione dallo
stesso soggetto, ma ne aveva fatto un’utilizzazione tradizionale, di retroguardia, limitandosi a
drappeggiare pannelli di stoffa su una princesse. Probabilmente si ispirò allo scialle Knossos
di Mariano Fortuny e alla moda che aveva scatenato.
Creatrice di moda?
Rosa Genoni disse che la moda deve operare a seconda del contesto ed orientamento sociale,
economico ed estetico, ma anche dallo spirito, dal pensiero e buon gusto del periodo. Quindi
il creatore di moda è colui in grado di tradurre questo aspetti in un’aspirazione di bellezza,
che in quel determinato momento era nella coscienza universale. Questo era l’atteggiamento
dei couturier parigini, il cui obiettivo era interpretare lo spirito del tempo. Ma la vera verifica
della coerenza tra nuova moda e società è il mercato: il destino di sarti e maison dipendevano
da questo e non c’erano successi stabili.
Rosa Genoni aveva queste qualità? Difficile dirlo dato che le testimonianze del suo lavoro
sono limitate e consistono in articoli scritti da lei. L’insistenza sull’idea di una moda ispirata
all’arte e ai costumi del passato fa sorgere dei dubbi. Inoltre, il fatto che lavorasse a Milano e
non a Parigi ebbe un peso rilevante nella sua possibilità di sperimentare nuove strade.
Amelia Rosselli nel 1914, quando la moda parigina si stava sospendendo, a causa della
guerra, analizzò quanto fosse importante creare una moda italiana ed il progetto ormai
tramontato della Genoni, evidenziandone le debolezze: l’indifferenza e il preconcetto ostile
delle signore; l’industria italiana non era pronta ad un progetto di autonomia; infine,
l’estraneità dei modelli della Genoni al modo di vestire dell’epoca (i suoi capi erano più vicini
a costumi teatrali). Genoni voleva ispirarsi ad opere d’arte del passato, ma molto spesso i
suoi modelli erano più adatti ai balli in costume, più che alla vita quotidiana. La moda ogni
volta che si pone come obiettivo quello di creare opere d’arte, dimentica o sottovaluta il
compito di vestire le donne reali per le vita della loro contemporaneità. Probabilmente
Genoni non aveva colto i cambiamenti avvenuti negli anni ’10.
Comunque l’obiettivo della Genoni non era cambiare la moda, bensì rivoluzionare il lavoro
delle sartorie italiane, che solo attraverso lo sviluppo delle capacità creative delle sarte si
sarebbero potute rendere autonome dalla suddittanza alla moda francese.
L’Italia e la moda di Rosa Genoni
Maison Haardt fu l’unica a dare spazio al progetto di Rosa Genoni, accanto comunque alle
novità provenienti da Parigi. Alcune donne fecero da “testimonial” ai modelli della Genoni:
Lyda Borelli, qualche amica femminista e signore della buona società milanese, anche
qualche attrice, ma importante da citare fu la baronessa Marie von Liebenberg, che accettò di
posare coi suoi modelli. Genoni organizzò numerose campagne fotografiche, utilizzando
come indossatrici alcune clienti disponibili e note nel mondo cittadino; campagne che
vennero pubblicate su “Vita d’arte”, rivista destinata ad un pubblico di storici, critici,
collezionisti etc., che probabilmente guardarono le immagini cercando di capire a quale
opera d’arte si fosse ispirata e magari giudicando la fedeltà alla fonte. Probabilmente non si
trattava della migliore scelta, ma era l’unica, in quanto la stampa italiana non la sostenne.
Il Congresso di Roma aveva attirato su di lei l’interesse e il sostegno di femministe, di
associazioni femminili progressiste e di donne impegnate politicamente, accendendone la
curiosità ma nient’altro. Nel 1908 Genoni si rese conto della freddezza del mondo della moda
nei suoi confronti e cercò di capirne le cause: ipotizzò che le riviste italiane non
appoggiassero progetti italiani per timore di fare pubblicità indiretta; inoltre, Milano e
l’Italia non erano in grado di sostenere la nascita di una moda nazionale.
Genoni si concentrò sulle carenze italiane:
- le clienti italiane erano convinte che il modello presentato da Parigi fosse il migliore, quindi
non consideravano progetti italiani (tema presentato anche nel Congresso);
- il mercato, paragonato a quello parigino, era desolante: a Parigi venivano ad acquistare da
tutto il mondo, mentre in Italia le sartorie artigiane avevano un consistenza commerciale che
non andava oltre le dirette clienti finali, in questo modo nessuna casa di moda poteva avere
una vera influenza sulle altre;
- la diffidenza dei colleghi, in quanto gli italiani non sostengono gli artisti della moda al
contrario dei francesi, che si aiutavano.
Nel 1909 si convinse di essere “un sognatore solitario”, questo perché Milano non era Parigi e
i colleghi della moda non assecondarono il suo sogno sia per malevolenze, sia perché
rischiava di intralciare gli affari.
Un altro problema era sicuramente il fatto che in Italia si era soliti a trasformare in un mare
di chiacchiere anche le idee migliori.
Nello stesso anno anche la “moda italiana” subì questa sorte. Si trattava del progetto lanciato
dal Comitato promotore della Moda di pura arte italiana, presieduto dal conte Giuseppe
Visconti di Modrone, che aveva visto l’adesione “di signore aristocratiche ed eleganti, di
artisti e di proprietari di grandi industrie tessili”. Quotidiani, riviste femminili, periodici
alimentarono una controversia cui parteciparono artisti e intellettuali di ogni tipo.
“Margherita” si mostrò entusiasta del fatto che “il sogno di Rosa Genoni, la nostra valente
collaboratrice” andasse “facendosi strada”. Ma in tutto questo non era stata coinvolta.
In un irritato editoriale del luglio 1909 Sofia Bisi Albini precisava “che tanto Rosa Genoni
come Sofia Bisi Albini ignorano affatto chi ora abbia organizzato questo Comitato per la
Moda di pura arte italiana; nessuna delle due ne ricevette comunicazione”.
Poi le acque si placarono e nell’articolo che uscì il 12 settembre su “Il Marzocco” in cui si
parlata del fatto che tanta pubblicità aveva giovato all’idea di tutti gli italiani, non solo delle
signore, ma anche dei lavoratori e degli artefici. Quando nel gennaio 1910 Sofia Bisi Albini
riprese l’argomento, avvallò la tesi che il mancato coinvolgimento di Rosa Genoni fosse stato
semplicemente frutto di un equivoco: i promotori non erano a conoscenza del suo progetto e
del suo lavoro.
A quella data il Comitato aveva già cercato di rimediare alla gaffe richiedendo una
collaborazione ufficiale con la Genoni, che rifiutò per motivi incerti.
Certo è che in quello stesso anno realizzò un libro dal titolo Per una moda italiana, modelli
saggi schizzi di abbigliamento femminile: 1906-1909. Era una sorta di catalogo dei modelli
che raccontavano quattro anni del suo lavoro, era probabilmente anche un modo per ridare
ordine cronologico agli avvenimento in modo da ribadire la propria paternità del progetto
moda italiana, ma anche per spiegare la sua idea del possibile rapporto tra arte e moda. La
campagna mediatica trasformò presto il tema in un fenomeno culturale di massa e le
iniziative che dovevano promuoverlo non ebbero alcun esito dal punto di vista
imprenditoriale.
La moda italiana continuò per la sua strada.
La storia della moda
Rosa Genoni pubblicò il suo ultimo articolo su “Vita d’arte” nell’aprile 1912, poi per un
paio d’anni si concentrò sul proprio lavoro di direttrice della casa di moda Haardt e Figli.
Continuò anche la collaborazione con le Scuole professionali femminili della Società
Umanitaria, anche se nel 1916 scelse di insegnare Storia del costume. Da questo
cambiamento nel 1918 nacque una raccolta di 200 diapositive edita dall’Istituto Minerva e
nel 1925 il primo manuale di storia della moda scritto e pubblicato in Italia a disposizione
delle scuole professionali ma anche delle donne emancipate. Soprattutto affidò alla sua storia
della moda l’obiettivo che si era prefissata vent’anni prima (vedi cit. pag. 160-161).
Arrivò alla conclusione che ciò che non era riuscita a fare con l’esempio poteva ottenerlo con
la cultura. Il suo progetto rimase incompiuto. De La storia della moda attraverso i secoli uscì
solo il primo volume, decisione editoriale motivata dagli elevati costi e dall’interferenza del
regime fascista, che controllava Rosa per la sua militanza socialista, femminista e pacifista.
Nei primi anni ’30 le stesse ragioni politiche troncarono anche il suo insegnamento
all’Umanitaria.

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