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3. Arte e sistema dell’arte. Il museo

All’interno del sistema dell’arte, come abbiamo visto, il museo riveste un ruolo importante,
secondo solo a quello del mercato. Tutti gli artisti noti al grande pubblico sono passati per il museo,
anche se non è sempre vero il contrario. Grazie al prestigio di cui gode, derivante dall’associazione
con la venerata arte del passato, e alla sua capacità di decontestualizzare l’opera, qualsiasi cosa entri
in questo sacro recinto viene subito ad acquistare un’aura artistica, fosse anche spazzatura o
escremento (e sappiamo che questi materiali sono stati tutt’altro che trascurati dall’arte degli ultimi
cinquant’anni). Non è solo la separatezza dal mondo a produrre questo effetto, ma tutta una serie di
altri elementi: la luce, che conferisce un’aria di preziosità agli oggetti esposti, le barriere che
separano le opere dal pubblico rendendole intoccabili e manifestando la loro inutilità pratica, ecc.
Le opere sono esposte nel museo per effetto di una scelta; la storia che raccontano non è l’unica che
si potrebbe raccontare. Il museo tuttavia si adopera per far apparire la loro presenza come naturale e
inevitabile, per cancellare le tracce di quella scelta.
La decontestualizzazione è stata molto criticata recentemente nell’ambito museale. Gli esponenti
della cosiddetta New Museology, nata negli anni Ottanta, rifiutavano le strategie di
decontestualizzazione perché queste congelavano e ingessavano gli oggetti, a svantaggio della loro
comprensibilità da parte del pubblico. Ma quelle strategie, come abbiamo visto, sono invece
essenziali per la legittimazione delle opere d’arte contemporanea. C’è chi, come William Rubin, già
direttore del MoMA, aveva a suo tempo affermato che il museo non sarebbe riuscito a far fronte
all’irruzione delle nuove forme d’arte sperimentali, transitorie, non fondate sulla creazione di
oggetti degli anni Sessanta e Settanta.
Richard Serra, Casting, 1969
Robert Morris, Continuous project altered daily, 1969
Ma il museo c’è riuscito benissimo, inglobando anche le installazioni più gigantesche e gli
interventi più effimeri. I tentativi di superare i limiti del museo non hanno avuto maggior successo
di quelli di trasgredire i limiti del decoro e della decenza, a partire dalla famosa Fountain di
Duchamp; ed è anzi ironico che proprio a quest’opera, nata dall’intento di sottoporre a critica il
contesto istituzionale, si debba l’inizio di una tradizione di pensiero che basa l’attribuzione dello
status artistico sul consenso istituzionale.
Chiaramente ci sono anche aspetti economici collegati a questo stato di cose. I musei sono per l’arte
contemporanea quello che sono le banche per il sistema del credito: dei garanti che, dopo la caduta
del tallone aureo (la corrispondenza della moneta a una determinata quantità di oro nelle casse dello
stato; nel caso dell’arte, la qualità estetica e tecnica cosiddetta oggettiva), assicurano il valore. Visto
che l’arte contemporanea spesso non è visivamente attraente, nessuno la comprerebbe senza la
sanzione del museo e del sistema dell’arte.

Più il valore artistico è indipendente da fattori oggettivi, più il museo è costretto ad enfatizzare la
cornice che offre alle opere. Gli ultimi decenni hanno visto moltiplicarsi imponenti strutture
museali, che spesso competono visivamente con le opere d’arte. Un antesignano su questa strada era
stato negli anni Cinquanta il
Guggenheim Museum di Frank Lloyd Wright (1956-59)
Poi è venuto il
Beaubourg (Cetre Pompidou) di Renzo Piano e Richard Rogers, 1977
Beaubourg, interno, con la mostra Africa Remix, 2005

Museum fur moderne kunst di Francoforte, di Hans Hollein, 1991


Interno con opera di Katharina Fritsch del 1988

Guggenheim Bilbao di Frank Gehry, 1997


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Tate Modern di Herzog e De Meuron, 2000


La Turbine Hall della Tate Modern
Sono solo alcuni degli esempi più noti: musei voluti dai governi per motivi di grandeur nazionale
(Francia), per l’esigenza di riscrivere la storia nazionale (Germania) o di promuovere la
rigenerazione urbana (Spagna). La tendenza a privilegiare i contenitori museali spettacolari è
diffusa anche in altri ambiti disciplinari, ma nell’arte contemporanea acquista un significato
particolare: la novità del contenitore sta per la novità dell’arte che contiene. (Il fenomeno non
risparmia le realtà periferiche: anche la Sardegna progetta di dotarsi del suo mega-museo,
commissionato all’archistar di turno, l’israeliana Zaha Hadid, e destinato a ospitare un mix di arte
contemporanea e scultura nuragica).
Gli artisti si lamentano della concorrenza sleale fatta loro dall’architettura, mentre gli architetti
vedono nelle commissioni di musei l’ultima oasi di libertà creativa, un mezzo di realizzazione delle
proprie aspirazioni artistiche piuttosto che un edificio con una destinazione pratica. Non a caso i
musei sono uno dei temi favoriti di quella che Charles Jencks ha definito ecstatic architecture,
un’esperienza quasi di superamento dei limiti corporei generata da opere che sono in realtà delle
gesamtkunstwerke, delle opere d’arte totali in cui tutti gli elementi concorrono all’effetto finale.
Il Guggenheim Bilbao di Gehry è indubbiamente il capolavoro del genere, un capolavoro che si è
dimostrato anche un grande successo commerciale - anche se pare che ora, dopo alcuni anni, le
cifre dei visitatori abbiano cominciato a scendere.
L’esterno, avvolto da una luccicante cortina di titanio, è una struttura dinamica, sfaccettata e
curvilinea, che dà l’impressione di essere una cosa viva. Benché non manchi di riferimenti storici (a
Boccioni, al Barocco)
U. Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio, 1913
F. Borromini, facciata di San Carlo alle Quattro Fontane, Roma
non ci sono dubbi sulla sua travolgente modernità. Da lontano il Guggenheim Bilbao è un punto di
riferimento nel paesaggio, da vicino letteralmente sovrasta lo spettatore. Alla sua apparizione fu
accolto da una salva di osanna. I critici non avevano metafore abbastanza per dar voce al loro
entusiasmo: esultante esplosione, fioritura congelata, volumi tempestosi, tentacoli di titanio, e via in
crescendo su questo tono. Innegabilmente, l’esterno ha un tale effetto sui visitatori che niente
all’interno può competere con esso, tanto meno la collezione che il Guggenheim di New York ha
prestato alla sua sede staccata (e per la quale viene pagato annualmente un affitto molto salato),
tutta piuttosto banale, da Warhol a Serra, da Rosenquist a Schnabel e Basquiat. Le opere, per poter
reggere il confronto con la scala dimensionale delle sale, debbono essere necessariamente
gigantesche. Gli interni, in contrasto col fiammeggiante esterno, seguono il modello classico del
white cube. Tre gallerie su ogni piano hanno spazi contenuti (riservate agli artisti morti, che non
possono controbilanciare l’imponenza dell’architettura gonfiando la scala dell’opera). I problemi
emergono invece nelle gallerie più grandi rettilinee e soprattutto in quelle curvilinee, in particolare
nella più grande di tutte, nota come “la barca”: un ambiente delle dimensioni di un campo di calcio,
in cui anche le opere più ingombranti finiscono per scomparire.
Sculture di Richard Serra al Guggenheim Bilbao
(Da notare che non necessariamente lavori grandi richiedono grandi spazi, ma possono talvolta
avvantaggiarsi di spazi più ristretti). Inoltre, per evitare le cacofonie visive create dall’accostamento
di moltissimi pezzi disparati, pareti così immense richiedono un allestimento basato su poche
enormi opere o installazioni monografiche di pezzi simili. E’ lecito sospettare che la dimensione del
museo abbia influenzato la scelta delle opere, portando a privilegiare le più gonfie e enfatiche.
La cesura tra l’esterno e l’interno segnala come il Guggenheim Bilbao sia un’architettura di
superficie: all’opposto del suo predecessore, il Beaubourg, che programmaticamente esibisce il
proprio interno come ganglio di condotti, tubi, scale mobili e impianti colorati che ne avvolgono le
pareti vetrate. Queste differenze hanno il loro corrispettivo sul piano del comportamento simbolico.
Secondo Jean Baudrillard (L’effet Beaubourg, 1977), il Beaubourg è una macchina che risucchia
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cultura nel supermercato dell’arte, un meccanismo di implosione. Bilbao trasforma invece il


paesaggio degradato della cultura di massa, per pura forza trascinante dell’architettura, in energia
grezza per l’immaginazione. Prende la spazzatura e ne fa materiale per l’arte. Ma questo vale solo a
livello architettonico; è un’osservazione che si applica se noi consideriamo l’edificio come opera
d’arte. Le cose stanno diversamente quando si passa a considerare il suo funzionamento come
contenitore espositivo.

Così come la diffusione dell’architettura museale spettacolare, anche il meccanismo che porta il
museo-contenitore architettonico a entrare in competizione con le opere d’arte si estende alle
situazioni più lontane dai grandi centri. Un esempio recente lo offre ancora una volta la Sardegna,
con la ventilata modifica di un’opera d’arte ambientale dello scultore Costantino Nivola (Orani,
1913-New York 1989), piazza Satta a Nuoro, per far posto al nuovo ingresso del museo Man, che
per ampliare la sua sede ha acquisito alcuni fabbricati prospicienti la piazza. L’opera di Nivola
è dedicata al poeta primonovecentesco nuorese Sebastiano Satta, che è raffigurato nei suoi vari
ruoli pubblici e privati in una serie di sculturine in bronzo inserite dentro grandi massi grezzi.
L’opera comprende anche la pavimentazione, disegnata dall’artista e dalla quale “crescono” le
panchine, e le facciate delle case circostanti, che Nivola voleva semplici e dipinte di bianco.
C. Nivola, piazza Satta a Nuoro, 1966
Studio Filindeu (Oristano), progetto per l’ingresso del Man in piazza Satta, 2008
Il vero tema dell’opera è infatti la Nuoro di una volta, e al di là di essa, la comunità paesana ai cui
valori di calore e solidarietà umana l’artista (nato a Orani ma emigrato negli USA nel 1938) si
sentiva fortemente legato. L’intervento di modifica vorrebbe trasformare una delle case che danno
sulla piazza in un cubo bianco senza finestre, con un ingresso vetrato lungo sette metri. In questo
modo, l’opera d’arte diventerebbe arredo urbano, premessa agli spazi del museo, la cui
pavimentazione dovrebbe continuare al suo interno. Si avrebbe una soluzione architettonica
gradevole e alla moda per il museo, ma il significato della piazza (che non risiede solo nelle sculture
ma nel rapporto tra le sculture, la piazza e le modeste case che fanno loro corona) sarebbe
irrimediabilmente distrutto. Anche in questo caso, il museo-contenitore architettonico punta alla
spettacolarità (per Nuoro e per la Sardegna l’ampliamento previsto è un intervento spettacolare) e
tende ad affermarsi a spese dell’arte che dovrebbe salvaguardare. Non sorprende che a favore della
modifica di piazza Satta si siano schierati in modo compatto una serie di architetti impegnati a
livello internazionale nelle grandi commissioni museali, richiamati nell’isola in occasione del
festival dell’Architettura di Cagliari.

Il Bilbaoismo è solo un aspetto di una situazione generalizzata, una sfaccettatura del più ampio
fenomeno della commercializzazione e popolarizzazione dei musei. Nei decenni passati c’è stata
una corsa, ancora in atto, all’adozione da parte delle istituzioni museali di nuove procedure di
marketing e sponsorizzazione. Primi in questo i musei americani, che non sono finanziati dallo
stato, anche se beneficiano di sistemi di tassazione favorevoli alle donazioni private. Negli anni
Sessanta il Metropolitan Museum di New York (Met) sotto la guida di Thomas Hoving; tra i
Settanta e i Novanta il Whitney. Oggi il Met è invece sullo schieramento opposto, contro la
commercializzazione, e il suo posto l’ha preso il Guggenheim - diretto fino a poco tempo fa da
Thomas Krens - che è diventato una vera multinazionale (Bilbao, New York, Berlino, Venezia, Las
Vegas) e ha intrapreso una aggressiva politica di marketing con mostre come The Art of Motorcycle
o Giorgio Armani.
Thomas Krens, direttore del Guggenheim, a The Art of the Motorcycle, Guggenheim NY,
1998
Mostra di Giorgio Armani al Guggenheim NY, 2000
Per quanto riguarda la politica di espansione in vere e proprie “catene”, l’Europa segue a ruota:
nell’UK la Tate Gallery ha generato la Tate Modern e la Tate Liverpool.
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Alla commercializzazione si lega la spettacolarizzazione. C’è bisogno di blockbuster, ovvero


mostre di cassetta con temi di larga attrattiva, tipo l’oro dei Maya, i tesori dell’antico Egitto ecc. Per
quanto riguarda l’ambito che ci interessa, mentre fino a pochi anni fa il blockbuster puntava su
nomi molto noti del modernismo, Impressionisti in testa, oggi anche l’arte contemporanea in senso
stretto comincia a farsi strada. Ha fatto epoca da questo punto di vista la mostra Sensation. New
British Art from the Saatchi Collection curata da Norman Rosenthal alla Royal Academy di Londra
(1997) e poi al Brooklyn Museum di New York. La mostra, che presentava lavori scelti dalla
collezione di Charles Saatchi, ha rappresentato un succès de scandale largamente preparato in
anticipo (la stampa era stata informata molto prima dell’inaugurazione circa i pezzi più controversi),
e di cui la Royal Academy aveva grande bisogno, visto che era in guai finanziari per cattiva
gestione e corruzione.
Marcus Harvey, Myra, 1995
Un gigantesco ritratto di una serial killer di bambini, realizzato da Marcus Harvey con centinaia di
impronte di manine, fece inorridire le famiglie delle piccole vittime dell’assassina.
Chris Ofili, Holy Virgin Mary, 1999
Un quadro raffigurante una madonna nera, opera dell’artista nero Chris Ofili, provocò scalpore per
via dell’uso –ritenuto offensivo – dello sterco di elefante, cui l’artista affermava di attribuire il
valore consacrante che ha presso certe culture africane.
Le opere esposte a Sensation in buona misura rispecchiavano i gusti da pubblicitario di Saatchi, che
ama gli one-off shockers (le opere che hanno un forte impatto la prima volta che le si vede, dovuto
all’effetto sorpresa) e ha una certa predilezione per il realismo, le statue di cera e gli animali
conservati.
Sensation è diventata il prototipo della mostra blockbuster di arte contemporanea. Nel 2000 la
Royal Academy ha ritentato il colpo con Apocalypse. Beauty and horror in contemporary art,
sempre a cura di Rosenthal e Max Wigram, dove tra l’altro figuravano
La nona ora di Cattelan
(il papa, o la sua effigie in cera, abbattuto da un meteorite)
Hell dei Chapman (una serie di teche contenenti migliaia di figurine impegnate in scene di inaudita
violenza, nelle quali era impossibile distinguere le vittime dai carnefici).una pagoda-navicella di
Mariko Mori (Dream temple, 1991),
Darren Almond, Bus Stop, 1999
Ricostruzione della fermata degli autobus di Auschwitz, compresa la temperatura sottozero
Gregor Schneider, The cellar, 2000
Ricostruzione della cantina della casa-labirinto dell’artista a Rheydt, in Germania, casa da lui
modificata incessantemente con la costruzione di muri, alterazione di soffitti, stanze girevoli,
finestre da cui penetra una luce del sole che in realtà è illuminazione artificiale, o un vento che in
realtà è prodotto da un ventilatore ecc.
In teoria la mostra doveva esplorare il modo in cui l’arte risponde agli estremi di bellezza e orrore
nella vita contemporanea, domandarsi se il suo compito sia di rispecchiare l’armonia o dar voce alle
paure, angoscia ecc. Ma la pubblicità rivolta al largo pubblico prometteva temi di genocidio,
violenza, sesso, un papa morto, giocattoli fatti di escrementi (Mike Kelley), lavori che la gente
poteva trovare orrendi e inaccettabili di un fotografo specializzato in foto omoerotiche (il povero
inoffensivo Wolfgang Tillmans). Lo shock annunciato e preparato da questo tipo di pubblicità
ovviamente non ci fu, e da questo punto di vista la mostra si può considerare un fallimento.

La commercializzazione dei musei e la corsa al blockbuster non fanno bene all’arte, ma nemmeno
alla critica. Quest’ultima, sempre più legata al mercato, si trasforma in pura prosa pubblicitaria,
tanto è vero che raramente si leggono stroncature. Quando non si approva qualcosa ci si limita a non
pubblicare recensioni in proposito. Dalle riviste scompaiono i saggi argomentati, rimpiazzati dalle
interviste; scompaiono gli articoli che tentano visioni complessive, a favore di profili di singoli
artisti; è sorprendentemente frequente l’ignoranza della storia dell’arte anche nei critici più attenti.
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L’agenda delle riviste è dettata dai mercanti, che comprando la pubblicità consentono loro di
sopravvivere. Chi ha pagato degli inserti pubblicitari ottiene anche recensioni e articoli non pagati
sulle mostre che organizza e gli artisti che sostiene. La banalizzazione della critica dipende
ovviamente dal fatto che l’arte è diventata sempre più una componente dello stile di vita, come la
moda, il design, la musica o la pubblicità. Ma dipende anche dall’esistenza di un sistema basato sul
consenso, che richiede unanimità e non discussione.
La spettacolarizzazione del museo esercita i suoi effetti anche direttamente sulla qualità dell’arte.
Visto che i musei sempre più spesso commissionano opere, e che spesso hanno fondi considerevoli
per farlo, tendono a richiedere lavori di forte impatto e grande scala; sono i responsabili di una
tendenza al gigantismo, di cui un esempio eclatante è la Unilever Series, serie di interventi destinati
all’imponente spazio della Turbine Hall nella Tate Modern di Londra, sponsorizzati dalla Unilever,
una multinazionale proprietaria di molti marchi, dai prodotti alimentari all’igiene.
Louise Bourgeois, Maman, 1999 (installato nel 2000)
Anish Kapoor, Marsyas, 2002
Olafur Eliasson, The Weather Project, 2003
Rachel Whiteread, Embankment, 2005
Anche la Tate Britain non scherza: l’intervento da lei commissionato di
Michael Landy, Semi-detached, Tate Britain, 2004
è la riproduzione in scala 1:1 di una casa operaia dei sobborghi inglesi, per l’esattezza quella dei
genitori dell’artista.
Queste opere sono per il museo contemporaneo ciò che erano le grandes machines, le monumentali
scene storiche della pittura ottocentesca, per i Salon del XIX secolo. Opere espressamente create per
attirare l’attenzione, la cui spettacolarità spesso cela la mancanza di significato.

La tendenza alla spettacolarizzazione è favorita anche dai nuovi orientamenti della museologia, che
rifiutano l’allestimento cronologico, visto come espressione della visione modernista basata sulla
fede nel progresso. Secondo questa visione, la storia dell’arte era intesa come successione di stili,
movimenti e individui che si superavano l’un l’altro (il modello “biblico”: Manet che generò
Cézanne che generò Picasso…). L’allestimento cronologico per movimenti si era imposto dopo il
1929 con la fondazione del MoMA di New York.
Thomas Struth, National Gallery I, 1990
Struth, Art Institute of Chicago II, 1990
La sala di Pollock al MoMA di New York
Alla National Gallery di Londra, l’allestimento è di tipo didattico: presenta diverse opere di uno
stesso periodo e scuola, con cartelli e abbondante luce naturale. Idem all’Art Institute di Chicago
per gli Impressionisti. Al MoMA (allestimento del 1992 di Kirk Varnedoe), la luce artificiale isola i
quadri drammatizzandoli e eliminando qualsiasi distrazione per lo spettatore.
Dalla fine degli anni Ottanta, la sequenza cronologica è stata sostituita da due tipi di allestimento:
tematico e per sale o installazioni individuali (queste ultime a volte richieste dalla natura degli
spazi, come a Bilbao). Secondo Nicholas Serota, direttore della Tate (e autore di un notevole saggio
sull’argomento, Experience or interpretation. The dilemma of museums of modern art, 1996),
l’allestimento monografico esalta l’esperienza emozionale a dispetto dell’analisi, e svaluta il ruolo
del curatore, che perde il suo potere di scrivere la storia mediante accostamenti e paragoni. Ma il
problema non è tutto qui. Con questo tipo di allestimento si esalta l’aspetto puramente visuale dei
lavori e si incoraggia una fruizione rapida. Di fronte a una stanza piena di opere simili, ci si
accontenta di scorrere rapidamente l’insieme invece di esaminare ciascun lavoro singolarmente. Lo
stesso vale per l’installazione individuale, con un unico ambiente-opera.
Sala di Sol le Witt alle Hallen fur Neue Kunst, Sciaffusa
Opere di Donald Judd alla Chinati Foundation, Marfa, Texas
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Judd ha creato questo museo (insediato in una serie di edifici militari nel 1979) in programmatica
contrapposizione agli allestimenti temporanei. L’esposizione, che comprende vaste sale di sue opere
e allestimenti scelti di opere altrui, è fissa.
L’allestimento tematico (adottato e poi lasciato perdere dalla Tate Britain, ma presente anche in altri
musei in Europa e in America) va a discapito della didattica, perché fa perdere una chiara visione
della successione dei fenomeni. In teoria aiuta a superare l’approccio estetico, ma in effetti lo
reintegra, perché il visitatore non addetto ai lavori, non cogliendo i nessi sottintesi dal curatori tra
opere appartenenti a periodi disparati, si limita a fruirle unicamente dal punto di vista estetico.
A parte l’allestimento, incoraggiano una fruizione rapida anche altri dettagli, ad es. l’assenza di
panchine.
Visitatori seduti alla National Gallery del Canada nel 1959
Eliminate negli anni Sessanta-Settanta, in omaggio all’idea del visitatore come partecipante attivo
(lo spettatore non si doveva rilassare nella contemplazione), le panchine sono riapparse negli anni
Novanta, ma in spazi separati dedicati ai cataloghi. Si suppone che il visitatore stia in piedi anche
davanti a lunghi video (che nelle grandi mostre ben pochi guardano per intero, sicché finiscono per
avere un valore più che altro simbolico, come emblema di modernità).

C’è di più. I musei incoraggiano l’uniformità della ricerca con l’ospitare sempre la stessa serie di
artisti internazionali, un gruppo relativamente piccolo che figura in tutte le grandi mostre. In questo
modo si favorisce l’uniformità della scena artistica, l’adozione di un linguaggio diffuso ovunque nel
globo, da Lima a Berlino, da Calcutta a New York.
I critici conservatori parlano della solita mafia, ma in realtà si tratta del normale funzionamento del
sistema. I musei sono gatekeepers e devono regolare l’ingresso al sistema. (Tra l’altro va notato
che, siccome la selezione dipende dal consenso dei membri del sistema, e dunque dai contatti che
gli artisti riescono a stabilire, il lavoro perde importanza rispetto all’artista. Abbiamo già visto come
la figura dell’artista sia in molti casi centrale nell’arte dagli anni Novanta in poi: lo attestano
personaggi come Koons, Hirst, Emin, Cattelan ecc., la cui arte rispecchia le loro immaginarie
biografie, e non si sa che cosa sia venuto prima, cosa sia stato costruito ad hoc, se l’arte o la
biografia.)

Vista l’importanza assunta dal museo per l’arte contemporanea, non può sorprendere che sia
divenuto un tema ricorrente della ricerca degli artisti. In un certo senso potremmo vedere questa
tendenza come espansione dell’oggetto dell’arte. Se con il modernismo l’opera conduceva
un’analisi dei mezzi particolari a ciascuna arte, in seguito ha spostato il suo interesse sull’ambiente
fisico (col minimalismo e la land art) e quindi su quello istituzionale, lo studio, la galleria, il museo.
Anche qui, Duchamp è un battistrada.
Marcel Duchamp, Etant Donnés: 1. La chute d’eau 2. le gaz d’éclairage, 1938-66
Realizzata perché fosse esposta nel Philadelphia Museum nel 1969, l’anno dopo la sua morte,
l’opera lasciò sconvolti gli studiosi. Si tratta di un peep show: attraverso i buchi di una porta di
legno rustica, da fienile, lo spettatore è ammesso alla visione di un assemblaggio in cui un nudo
femminile a gambe aperte è disteso sull’erba, con una lampada a gas in mano, contro uno sfondo di
campagna.
Duchamp era noto come un artista concettuale, ma questo è un diorama sorprendentemente
realistico, una messa in scena erotica esplicita. Inoltre, se il ready made aveva svalutato la
manualità, Etant donnés è minuziosamente artigianale. Eppure è un lavoro profondamente
innovativo. Pensato per un museo, chiama in causa direttamente questo luogo cruciale per la
legittimazione dell’arte contemporanea, compiendone una critica devastante. Secondo l’estetica
kantiana (Critica del Giudizio, 1790), il giudizio estetico è disinteressato (privo di legami con la
dimensione dell’utile o con quella della conoscenza) e al tempo stesso universale, valido per tutti.
Questi due aspetti venivano (e vengono) rispecchiati dall’istituzione museo: un luogo la cui e
neutralità e separatezza dalla vita quotidiana mette in evidenza l’autonomia dell’esperienza
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estetica, e che al tempo stesso ne esalta la dimensione pubblica (lo spettatore partecipa di
un’esperienza collettiva, condivisa con il resto della comunità dei fruitori). Qui però il lavoro può
essere visto solo da un individuo per volta; una persona che nell’atto del guardarlo si espone a sua
volta allo sguardo altrui, è colta sul fatto e –dato il carattere dello spettacolo cui è ammessa – anche
in fallo. L’esperienza visiva qui non trascende il corpo ma lo mette in gioco nella sua carnalità.
Così Duchamp porta avanti quella “critica dell’istituzione” che aveva già cominciato con Fountain
(1917): lì interrogava i meccanismi di legittimazione dell’opera, qui interroga le sue condizioni di
fruizione e la sua pretesa autonomia.

Sintomi di un disagio degli artisti nei confronti del museo affiorano negli anni Settanta. Robert
Morris nel 1971 ha uno scontro con la Tate Gallery di Londra in merito alla sicurezza dei fruitori
rispetto a un suo lavoro; uno scontro forte col museo ha anche Hans Haacke, a proposito dell’opera
Shapolsky et alii (1971)
Hans Haacke, Shapolsky et alii, Manhattan Real Estate Holdings, 1971
Presentato a un’antologica che doveva tenersi al Guggenheim di New York, fu causa della
cancellazione della mostra e del licenziamento del curatore Edward Fry, che con l’artista aveva
rifiutato di aderire alla richiesta del direttore Thomas Messer di ritirare alcuni pezzi
dall’esposizione. L’opera consisteva unicamente dei risultati di una ricerca documentaria svolta da
Haacke in biblioteca circa la proprietà di una serie di slums (abitazioni popolari degradate e a basso
costo) newyorchesi. Una serie di pannelli accompagnati da foto mettevano in luce, in modo
obbiettivo e senza toni polemici, le relazioni occulte tra i vari proprietari, aziende e cordate. Il
lavoro attirava così l’attenzione sulla miseria del mondo reale contrapposta all’ambiente lussuoso e
ovattato del museo.
Nel 1974, Haacke attacca ancora l’istituzione museo con Solomon R. Guggenheim Museum Board
of Trustees, in cui analizza la composizione del consiglio di amministrazione del museo, rivelando
la presenza al suo interno di una corporation del rame coinvolta nel colpo di stato in Cile. Nel 1970
con Moma poll crea un’opera-sondaggio, in cui chiede ai visitatori se il fatto di sapere che il
governatore Rockefeller non avesse denunciato la politica di Nixon in Indocina era un motivo
sufficiente per non votarlo alle elezioni. La maggioranza risponde di sì.
Haacke, MoMA Poll, 1970
Nel 1972 Marcel Broodthaers litiga con Joseph Beuys perché questo non si era ritirato da una
mostra al Guggenheim malgrado il museo avesse cancellato Shapolsky ert alii e licenziato il
curatore responsabile della mostra. Episodi di questo genere rivelano una tensione tra artisti e
museo che all’epoca del modernismo non esisteva. A riflettere sul tema è Daniel Buren, uno dei
protagonisti dell’arte concettuale, che nel 1973 scrive su Artforum un articolo, La funzione del
museo, in cui mette in luce i meccanismi di decontestualizzazione, isolamento e sacralizzazione
dell’opera. Poiché nel museo le opere sono diverse l’una dall’altra, mentre i musei su per giù sono
tutti uguali, la gente è portata a guardare le opere e non il museo che le contiene. Buren col suo
lavoro ribalta la situazione: l’opera (una serie di strisce sempre identiche, in formato standard) resta
uguale, ma il contesto cambia di volta in volta, cosicché l’attenzione della gente è attirata da
quest’ultimo. Il suo lavoro (che lo mette al riparo dalla corsa allo sviluppo stilistico imposta dal
mercato) è site specific, ovvero fatto apposta per un determinato contesto, e lui lo considera
temporaneo (redige dei precisi contratti che specificano quanto tempo il lavoro deve durare).
Daniel Buren, Peinture-sculpture, Guggenheim New York, 1971
L’enorme stendardo a strisce installato nella hall del museo in occasione della sesta mostra
internazionale del Guggenheim contraddice con un oggetto a scala ambientale l’aggressiva
architettura di Wright e la sua totale indifferenza verso l’arte che deve contenere. L’opera suscitò la
protesta di un gruppo di artisti (Judd, Flavin, Kosuth e Long), i quali sostennero che occultasse i
loro lavori. Cosa assurda perché, essendo un tendone, non era sempre visibile di piatto al visitatore
che saliva la rampa del museo.
Buren, The Eye of the Storm, 2005
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Dopo 35 anni Buren torna al Guggenheim con un lavoro che ancora una volta chiama in causa lo
spazio del museo, benché in modo diverso. The Eye of the Storm, l’occhio del ciclone, è appunto
l’architettura di Wright, che l’artista vede come un grande occhio la cui pupilla è la vasca in basso
nell’atrio. L’intero museo ti guarda, sicché è impossibile al visitatore non guardarlo a sua volta.
Buren ha collocato una gigantesca struttura (come se fosse un lato di un cubo più grande del museo
stesso) all’interno dell’atrio. Da una parte c’è una superficie specchiante, dall’altra, dal lato
dell’ingresso, una struttura che richiama le impalcature degli edifici in costruzione (Buren dice di
essere stato ispirato dal ricordo del museo in costruzione, da lui visto nel 1957). Chi entra non è
immediatamente attratto come al solito dall’architettura, ma, per una volta, dall’opera d’arte, che al
tempo stesso distorce, deforma, destabilizza l’architettura e la esalta rendendola ancora più
grandiosa. Se precedentemente Buren usava collocare elementi delle sue opere anche all’esterno (in
genere sotto forma di stendardi: anche nel 1971 erano previsti fuori dal Guggenheim), ora il
richiamo allo spazio urbano è diventato meno letterale e più indiretto, come riferimento alla griglia
specchiante dei grattacieli di New York.
Buren, Up and down, in and out, step by step. A sculpture, 1977
All’Art Institute di Chicago. Tappezzando i gradini con le sue strisce mette in luce il fatto che il
museo, in quanto istituzione, è governato in ogni suo spazio (e non solo nelle gallerie) dagli stessi
assunti ideologici di base.
Due anni dopo, ad esporre nello stesso museo è Michael Asher, la cui ricerca ha sempre riguardato
gli spazi istituzionali.
Michael Asher, installazione al Chicago Institute, 1979
Sposta la statua di Washington dall’esterno alla sala del XVIII secolo. La statua era una copia in
bronzo (una di una serie) di un marmo settecentesco di Houdon, fatta nel 1917, in un momento in
cui, nel contesto della prima guerra mondiale, le preoccupazioni di identità nazionale avevano un
peso particolare. Messa all’interno, la scultura sembrava fuori posto, perché si vedeva chiaramente
che era un pezzo “da esterno”, per via della consunzione delle superfici, a lungo rimaste esposte agli
agenti naturali. Inoltre si trattava di una replica moderna in un materiale diverso da quello della
scultura originale. Tuttavia per certi versi la nuova collocazione era appropriata, dato che il marmo
originale non era un monumento esterno, e la sua scala a misura d’uomo era più adatta a una visione
ravvicinata che non a quella da lontano (quindi riportare all’interno la scultura equivaleva a
restituirla alla sua destinazione originaria). Il senso dell’operazione era far riflettere sui
cambiamenti di status e di percezione di un’opera che la collocazione in un dato contesto può
creare. Ciò che è monumento in un posto diventa scultura in un altro. Inoltre, un altro dato di
riflessione era l’aspettativa che porta a legare alla data di realizzazione di un lavoro certi codici
espressivi che sono tipici di quel periodo. Asher è uno scultore contemporaneo, ma in questo caso lo
spettatore lo vedeva rappresentato da un’opera in stile settecentesco (realizzata però nel 1917).
Parallelamente, al Museum of Contemporary Art di Chicago, Asher rimosse alcuni pannelli del
rivestimento in alluminio dell’esterno del museo e li collocò all’interno nelle sale espositive, dove
venivano visti come opere d’arte, data anche la loro somiglianza con sculture minimaliste. Anche
qui al centro del lavoro era il discorso del contesto, di come il museo funzioni come una macchina
per l’attribuzione di senso, che trasforma un semplice materiale da costruzione in opera d’arte.
Joseph Kosuth, The play of unmentionable, 1990
Intervento di Kosuth, noto artista concettuale, al Brooklyn Museum di New York: il gioco
dell’innominabile. Innominabile era tutto ciò che era suscettibile di censura per motivi sessuali o
politici. La mostra si tenne alla vigilia del processo, a Cincinnati, originato da una mostra –
considerata oscena per il modo esplicito in cui rappresentava corpi nudi in contesti dalla forte
connotazione sessuale - del fotografo Robert Mapplethorpe. L’evento fornì l’occasione al senatore
Jessie Helms di tagliare i fondi al NEA (National Endowment for the Arts, un’agenzia governativa
per il sostegno alle arti) che aveva finanziato la mostra. Tra le immagini scelte da Kosuth ce n’erano
alcune che avrebbero fatto inorridire Helms, ad es. una miniatura persiana che raffigurava un uomo
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che orinava nella bocca di un altro uomo (una delle foto di Mapplethorpe incriminate rappresentava
proprio una scena analoga).
In un certo senso, la tendenza profilatasi negli anni Novanta a identificare i ruoli dell’artista e del
curatore è all’origine di questo interesse per il museo. The museum as a muse è stato anche il titolo
di una mostra di quegli anni; e c’è chi ha ironizzato sul fenomeno, osservando che il Museismo
potrebbe diventare l’ultimo movimento artistico.
Fred Wilson, Mining the museum, Historical Society of Baltimore, 1993
L’artista fruga nei depositi del museo e vi scopre oggetti che contrastano con la narrazione ufficiale
proposta nelle sue sale. Ne riscrive il racconto inserendovi la presenza dei neri. Ad es. sedie
settecentesche accanto a un palco per frustare gli schiavi, manette nella vetrina dell’argenteria, ecc.
Se Wilson interviene sul museo per immettervi narrazioni storiche precedentemente non incluse,
censurate, altri vi immettono invece contenuti personali. E’ il caso di Christian Boltanski che,
invitato dal Musée d’Art Moderne de la ville de Paris nel 1989, riempie uno spazio nei sotterranei di
vecchi vestiti, allusivi alle memorie di coloro che li avevano indossati. Sua moglie
Annette Messager, Mes petites effigies, sculptures africaines, 1988
colloca nello stesso museo dei pupazzetti di stoffa in mezzo alle sculture africane che i curatori del
avevano messo vicino ai quadri cubisti per illuminare l’influenza esercitata su di essi dall’arte
negra.
Gabriel Orozco, Home run, 1993
Il titolo vuol dire “conduzione familiare”. Per la sua mostra al MoMA, Orozco chiede ai proprietari
degli appartamenti e degli uffici che fronteggiano il museo di mettere delle arance nelle loro
finestre. Il museo provvede a fornire arance fresche ogni settimana, e la gente è libera di mangiarle
e sostituirle con altre. I curatori del museo assicurano che “professional supervision is not required”
(non è richiesta una supervisione professionale, dello staff del museo, s’intende: potevano mettere e
togliere le arance anche da soli!). Meno male. L’opera metteva in contatto il museo e i residenti,
così come gli spazi pubblici e quelli privati: critica istituzionale con un tocco poetico, come molti
lavori di Orozco.

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