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ART NOUVEAU

Gli ultimi anni dell’800 e i primi del 900 sono un periodo di relativa pace fra le potenze europee,
tanto da essere indicati genericamente come la Belle Èpoque. Tuttavia questi anni sono
contrassegnati anche da una profonda crisi di cui si vedono le conseguenze in quasi tutti gli artisti.
Da un lato prosegue l’ottimistica fede nel progresso scientifico, che appare inarrestabile e tale da
portare a soluzione ogni problema umano, dall’altro ci si rende conto che questa “felicità”
universale è solo apparente: la borghesia si arricchisce sfruttando i lavoratori, la cui spiritualità è
uccisa dalla meccanizzazione. Il Decadentismo è la risposta: per evadere la materialità volgare della
realtà ci si rifugia in un mondo immaginario intimo e raffinato. È in questo clima «decadente» che
nasce in Europa un movimento con caratteristiche simili ma diverse denominazioni in ogni nazione:
- Art Nouveau in Francia
- Modern Style in Inghilterra
- Modernismo in Spagna
- Jugendstil in Germania
- Secessione in Austria
- Liberty o floreale in Italia
La prima definizione italiana fa riferimento al nome dell’inglese Arthur Liberty il quale, fin dal
1875, aveva fondato a Londra una ditta che commerciava arredi di alto livello qualitativo, ma nel
contempo destinati ad un vasto pubblico. Una delle caratteristiche comuni a tutti i filoni dell’Art
Nouveau è proprio quella di voler rendere esteticamente validi gli oggetti di uso comune che le
industrie diffondono, per salvaguardarli dall’appiattimento e dalla
banalizzazione della produzione in serie. Non è una novità in quanto, già nella
metà dell’Ottocento il prussiano Michael Thonet aveva prodotto la sua famosa
sedia in legno curvato n.14.La Thonet 14, brevettata nel 1859 e venduta in
decine di milioni di pezzi, era un perfetto mix di tecnica ed estetica: realizzata
con 6 soli pezzi da unire con 10 viti era robusta, essenziale ed economica. Tra
l’altro, con la curvatura dei suoi elementi anticipa straordinariamente il
linguaggio tipico del Liberty. Gli elementi caratterizzanti l’Art Nouveau sono:
- l’uso della linea curva
- l’uso del colore piatto
- il decorativismo
- l’aspirazione alla modernità
- il riferimento al mondo vegetale
- la ricerca di una nuova bellezza nei prodotti industriali
- l’applicazione di questo stile in ogni forma di produzione artistica (architettura, pittura,
scultura, arredi, monili, oggetti d’uso, abbigliamento, pubblicità, grafica)
- la stilizzazione dei motivi ornamentali
- l’insistenza sulla figura femminile e sulla sua eleganza
L’Art Nouveau trovò alcune delle sue espressioni più significative nel campo dell’architettura. In
Belgio si trovano le prime opere liberty dove opera Victor Horta (1861-1947) Nei suoi palazzi
Solvay e Tassel gli elementi strutturali a vista (in ghisa o ferro) divengono contemporaneamente
elementi decorativi. Prevalgono le superfici vetrate che creano un dialogo tra interno ed esterno, la
linea curva che flette le pareti e informa anche il più piccolo dettaglio.
In Francia Hector Guimard (1867-1942) ridisegna le entrate della metropolitana (ancora oggi
esistenti) con elementi in ghisa ondulati come fiori, conferendo loro un aspetto organico e vitale. In
Spagna operò Antoni Gaudì (1852-1926), una delle personalità più indipendenti, estrose e creative.
La sua figura è difficilmente riconducibile alle principali correnti europee ma è coerente con lo
sviluppo culturale spagnolo nel quale, nel corso dei secoli, sono confluiti elementi islamici e
zingareschi su un substrato popolare ricco di colore. Gaudì plasma le forme in modo indipendente
dalle geometrie obbligate dalla struttura architettonica ottenendo degli oggetti quasi scultorei e
fantasiosi.

Antoni Gaudì
L'architetto catalano Antoni Gaudí realizzò, tra fine Ottocento e primi Novecento, i suoi progetti
rifacendosi alle forme della natura, con invenzioni di spazi e decorazioni che avrebbero costituito
uno stile unico e irripetibile. Forme plastiche e ondulate, rivestimenti colorati in ceramica,
decorazioni in ferro battuto: queste le caratteristiche dei suoi principali edifici, come il parco Güell,
le case Batlló e Milá, la cattedrale della Sagrada Familia, simboli della Barcellona moderna.

Parc Guell
Parc Guell è probabilmente il progetto più complesso ed ambizioso concepito dal geniale estro di
Antoni Gaudì per la città di Barcellona. La creazione del parco fu commissionata all’architetto più
famoso dell’epoca ai primi del 1900, da parte dell’industriale Eusebi Guell, intenzionato a
realizzare nella zona nord-orientale della capitale catalana un eccezionale centro abitativo; il
programma originario – infatti – prevedeva la creazione di una sorta di città-giardino sullo stile di
quelle inglesi, in cui le abitazioni facessero tutt’uno con i paesaggi naturali del luogo. Gaudì lavorò
a quest’imponente opera dal 1900 al 1914, ed avvalendosi della collaborazione di altri artisti ed
architetti – tra cui Josep Maria Juiol – generò un capolavoro originale, riuscendo a costruire
magnificamente il parco e le infrastrutture.
Tuttavia, il progetto dovette essere necessariamente
abbandonato a causa dello scarso entusiasmo
dimostrato dagli abitanti della città: dei 60 lotti
previsti, solo 2 furono acquistati (in una delle2 ville
costruite ci si trasferì – per qualche anno – proprio
Gaudì con la famiglia). Nel 1922, il comune di
Barcellona prese la decisione di convertire
l’originario progetto di città-giardino in uno che
prevedesse la costruzione di un parco pubblico: i
lavori furono affidati allo stesso Gaudì. Anche nella
realizzazione finale di Parc Guell è possibile notare
il gusto bizzarro e moderno di Gaudì, a partire dal
suo tipico stile caratterizzato dalla mancanza di
linee rette, linee che invece si mostrano – come
sempre – morbide e sinuose; la natura non viene stravolta e piegata dalle necessità di pianificazione
umana, ma assecondata e valorizzata, come mostrano i viadotti e percorsi che seguono il profilo
naturale della montagna. Pietra grezza coperta di ceramiche e vetro, calcestruzzo e cemento armato
vennero usati per creare ed incantare, in modo da dare la sensazione che tutto fosse scaturito dalla
roccia stessa. Molte furono – inoltre – le intuizioni e gli elementi architettonici nuovi che
anticiparono i futuri movimenti artistici dell’epoca (come Cubismo e Dadaismo) Il grande architetto
lasciò campo libero alla propria immaginazione nell’arricchire l’opera di forme e figure fantastiche:
panchine serpeggianti tempestate di coloratissimi mosaici, statue a forma di drago, colonne ad
albero o stalattiti ed archi artificiali fanno da cornice alla passeggiata nel parco, una incredibile
fontana a forma di salamandra (noto simbolo alchemico) campeggia in cima ad una splendida
scalinata, mentre i bassi muri laterali sono adornati da maioliche colorate (trencadìs). La sala
principale del Parc Guell è situata al di sotto della piazza (percorsa anch’essa da una sinuosa panca
“serpentina”): si tratta della Sala Hipostilia, composta da 85 colonne doriche che sostengono un
soffitto ondulato e decorato da ceramiche policrome. La sensazione è davvero quella di trovarsi in
un grande tempio greco. Nella parte est si trova l’abitazione dove visse l’architetto per diversi anni,
l’attuale Casa-Museo Antoni Gaudì, costruita dal suo allievo Francesc Berenguer; l’interno
dell’abitazione è ancora arredato da mobili disegnati dal celebre architetto o provenienti da altre sue
opere. Al piano superiore di questo edificio vi sono lo studio e la camera da letto di Gaudì, mentre
nel giardino si possono ammirare le particolarissime strutture in ferro battuto. L’altra abitazione
edificata è la Casa Trìas, dal nome del suo proprietario (amico di Gaudì e Guell); questa casa fu
creata dall’architetto Batllevell nel 1906. Alla sommità del Parc Guell c’è una terrazza che permette
di ammirare una veduta di questa meravigliosa e fiabesca opera ed un bellissimo scorcio della città
di Barcellona.

Casa Milà
Casa Milà, costruita per Roser Segimon de Mila fra il 1905 e il 1910, è caratterizzata dall'audacia
innovativa tipica dello stile di Antoni Gaudì. Le superfici ondulate e scabre sembrano dovute ad
antichissimi eventi geologici, come se si trattasse di una formazione rocciosa sagomata e consumata
dall'erosione di mari preistorici e di altri agenti atmosferici. Proprio per via di questo aspetto è
conosciuta come «La Pedrera», che significa: «la cava di pietra». Anche dal punto di vista
compositivo e planimetrico Gaudì segue un criterio "organiforme". La pianta, infatti, ha una forma
dal profilo curvilineo. Attorno ai due cortili interni, di forma rotondeggiante si articolano tutti gli
ambienti della costruzione, sviluppati su cinque
piani. L'imponente edificio, soprattutto se visto da
lontano, sembra un grande roccione di pietra. Anche
i balconi rispecchiano la visione naturalistica,
poichè le ringhiere in ferro battuto sembrano
ispirarsi a forme vegetali o a intrecci di alghe.
Seguendo una simbologia mistico-religiosa, Gaudì
decide di utilizzare esclusivamente linee curve,
secondo la convinzione che esprime lui stesso: «La
retta è la linea degli uomini e la curva è la linea di
Dio». Esiste una notevole differenza rispetto alla
precedente Casa Vicens, nella quale prevalevano le
linee rette, soprattutto verticali e una ricca
policromia dovuta alla decorazione in ceramica. La
facciata è tutta percorsa da linee ondulate, che fanno risaltare gli intervalli dei solai tra un piano e
l'altro. Le finestre si conformano all'aspetto generale e alludono a grotte e aperture naturali. Per
aumentare l'effetto dinamico e naturalistico, i balconi sono volutamente inseriti fuori dell'asse di
simmetria. Per sostenere il tetto, Gaudì ha progettato archi paraboloidi di dimensioni e altezze
differenti, costruiti con mattoni inseriti in profondità e che con uno spessore minimo sono in grado
di sviluppare la massima forma portante. Grande attenzione è stata riservata alla lavorazione dei
materiali: sulla superficie dei muri esterni, un raffinatissimo lavoro artigianale ha permesso di
realizzare l'effetto di scabrosità e porosità tipica della superficie della pietra. Dietro l'impressione di
apparente arbitrarietà e di irrazionale abbandono alla decorazione e alla stravaganza, ogni più
piccolo dettaglio è studiato e progettato con cura, risponde a un sapere scientifico e tecnico di
altissimo livello e a una logica altamente razionale.

Gustav Klimt
Gustav Klimt (Baumgarten, 14 luglio 1862 – Vienna, 6 febbraio 1918) è stato un pittore austriaco,
uno dei più significativi artisti della secessione viennese.

1) IL BACIO
Il bacio è un dipinto ad olio su tela di cm 180 x 180 realizzato nel 1907-08 dal pittore autriaco
Gustav Klimt attualmente esposto alla Galleria del Belvedere di Vienna. In accordo con i canoni
dello stile Liberty presenta eleganti decorazioni d’oro applicate a foglia sulla tela in grande
abbondanza, con effetto a mosaico (evidente l’influenza dell’arte bizantina). La tecnica pittorica
risente dell’influenza dei mosaici bizantini di Ravenna tanto cari a Klimt. Nel 1903 l’artista
viennese si recò nella città italiana per ben due volte restando incantato dall’oro dei mosaici
bizantini, che userà per trasfigurare la realtà e per
modulare le parti piatte e plastiche con passaggi da opaco
a brillante. In alcuni casi (fregi di palazzo Steclet) utilizzò
realmente materiali diversi (oro, argento, smalti e pietre
dure), nel caso del Bacio unì la pittura a d olio con la
foglia d’oro creando motivi geometrici differenti per
l’uomo e la donna. Nel Bacio è ripreso il tema
dell’abbraccio tra due amanti affrontato più volte
dall’artista (Fregio di Beethoven e fregio di Palazzo
Stoclet). Avvolta in un’aureola dorata e luminosa come
un’apparizione divina, la coppia domina il centro del
quadrato, inginocchiata su un prato fiorito che richiama
l’iconografia dell’hortus conclusus, il giardino sacro in
cui nella pittura medievale veniva rappresentata la
Madonna con il bambino. L’abbigliamento dei due amanti
ricorda le tuniche che Klimt usava indossare e quelle che creava per la sua compagna Emilie Flöge.
Emilie, una delle prime donne ad abolire l’uso costrittivo del corsetto, amava indossare queste
creazioni morbide e innovative posando come modella nelle istantanee scattate dal pittore. Lo stile è
quello del cosiddetto periodo “aureo” della produzione di Klimt, così definito per l’intenso uso del
colore oro. Qui l’autore contrappone il realismo dei dettagli dei corpi (volti, mani e piedi della
donna) con la bidimensionalità dell’abbigliamento reso con elementi geometrici e spigolosi per
l’uomo, circolari e variopinti per la donna. L’eleganza formale e il delicato erotismo del quadro
sono gli aspetti che maggiormente sintetizzano il gusto dell’epoca (la “belle epoque”) e il
movimento della Secessione Viennese (l’Art Nouveau). Il linguaggio pittorico di Klimt si esprime
attraverso l’uso della linea di contorno che definisce le parti delcorpo scoperte. Tutto il resto è
definito da campiture piatte e dorate.
- Il colore dell’insieme è caldo e luminoso per via dell’oro usato in foglia e delle colorazioni
rosse molto frequenti. Il prato verde (colore complementare del rosso) dona risalto agli
elementi rossi del quadro.
- La luce non è direzionale ma emanata dalla stessa coppia.
- Lo spazio è privo di profondità, ideale.
- La composizione presenta una distribuzione equilibrata e statica con una tripartizione della
scena.
-
2) GIUDITTA
Giuditta è una figura femminile che fa riferimenti agli testi dell’Antico
Testamento. Qui la donna incarna i panni di una giovane eroina ebrea che, per
salvare la città di Betulla, sua terra di origine, dall’assedio degli Assiri, sedusse
il generale nemico Oloferne. Una volta conquistato Giuditta fece ubriacare
Oloferne per poi ucciderlo tagliandogli la testa. La protagonista è una
bellissima donna sensuale; indossa un abito trasparente che lascia intravedere il
seducente corpo eburneo (avario), accanto a lei la presenza della testa di
Oloferne che si vede solo per metà. Il dipinto rappresenta una donna ambigua,
quasi demoniaca, una donna crudele, seduttrice e fredda calcolatrice, capace di
portare il proprio amante alla rovina. La cornice dorata che racchiude il dipinto
è stata realizzata dal fratello di Klimt. La protagonista ha una folta capigliatura,
il volto truccato, gli occhi socchiusi e la bocca semi aperta che lascia
intravedere i denti. Il paesaggio ci appare piatto ed è reso in maniera stilizzata.
Il collare indossato da Giuditta sembra che riproduca un gioiello molto di moda
all’epoca. Vengono messi in rilievo la gola e le mani, per dare il tocco di
sensualità. I lembi dell’abito trasparente si aprono scoprendo il petto e il ventre
di Giuditta.

3) LA NUDA VERITÀ
In questa sua opera del 1899, Gustav Klimt affronta uno dei temi più antichi della storia
dell'arte, quello della verità nuda, ma lo fa dotando la sua figura di una nudità ritenuta
scandalosa per l'epoca: una provocatorietà, sottolineata soprattutto dalla veritiera
raffigurazione del pelo pubico, che mal si adattava a un concetto come quello della "Nuda
Veritas" e che pertanto destò parecchio scalpore al tempo. Nella parte alta dell'opera, sul
fondo oro tanto amato da Klimt, leggiamo una citazione in tedesco di Schiller: "Kannst du
nicht gefallen durch deine That und dein Kunstwerk. Mach es wenigen recht. Vielen
gefallen ist Schlimm" (Non puoi piacere a tutti attraverso la tua azione e la tua arte. Fa' in
modo di piacere a pochi. È male piacere a tutti). Il senso della frase è da ricondursi alla
netta opposizione di Klimt nei confronti degli ambienti più conservatori dell'arte e della
società viennese (tanto che il movimento di cui fece parte si chiamava "Secessione
viennese", e l'opera fu esposta per la prima volta proprio in occasione della quarta mostra
della Secessione viennese). La donna si staglia su uno sfondo azzurro, che sembra uno
specchio d'acqua, tiene in mano un vero specchio, da secoli simbolo della verità, ha
proporzioni allungate ed espressione inquietante che saranno poi ricorrenti nell'ideale femminile di
Klimt, un'ideale femminile che non conosce censure o edulcorazioni. La donna ha il capo decorato
di fiori, e ad aumentare la provocazione dell'insieme contribuiscono le forme che notiamo vicino ai
piedi della donna, simili a spermatozoi (e uno spermatozoo sembra anche il serpente, simbolo della
falsità vinta dalla verità e da sembre ricorrente in rappresentazioni sul tema), forma ricordata anche
nei lunghi fiori che si stagliano sul cielo blu nello sfondo. L'opera oggi si trova all'Österreichisches
Theatermuseum di Vienna.

ESPRESSIONISMO FRANCESE
Quando, nel 1905, si apre a Parigi l’annuale Salon d’Automne, una mostra che raccoglieva opere
degli artisti più disparati, un gruppo suscita uno scalpore paragonabile a quello che gli
Impressionisti provocarono nel 1874. L’uso del colore, violento e provocatorio era stato paragonato
al lancio di un barattolo di vernice in faccia al pubblico e una statua classicheggiante presente nella
sala era stata descritta come un “Donatello chez les fauves” (Donatello in mezzo alle belve...). E da
quel momento “belve” divenne la definizione di quegli artisti che fecero un uso nuovo della pittura
e della tendenza, contrapposta all’impressionismo, di esprimersi in modo soggettivo proiettando il
proprio io sulla tela. I temi però non sono angosciati o inquieti ma solari ed equilibrati, ed espressi
con il colore.

MATISSE
Uno dei pittori più rappresentativi dei Fauves è Matisse. La sua originalità sta nell’aver raggiunto
l’espressione attraverso la sintesi della forma campita dal disegno e rivestita di colori puri. Matisse,
pur nascendo dall’impressionismo, riesce presto a liberarsi dall’imitazione della natura per
esprimere ciò che vede e sente per mezzo della stessa materia pittorica. Si avvicina alle lezioni di
Cézanne (da cui impara il senso della composizione) e di Signac (che gli insegna il luminismo
derivante dall’accostamento di colori puri). Il Pointillisme portò Matisse ad usare i colori
giustapposti, prima in trattini e poi per larghe zone.
1) LA DANZA
Quando nel 1907 la corrente fauve si disgrega, Matisse continua il suo percorso di sintesi
dell’immagine e di espressione di gioia e bellezza. Una delle
opere più significative è La danza, un girotondo di figure nude
danzanti. Attraverso il colore e la composizione, Matisse
esprime il prorompere inarrestabile della vita, il suo
rinnovamento continuo e quello slancio vitale che, secondo ciò
che il filosofo Henri Bergson affermava in quegli anni,
costituisce il fondamento della realtà. La composizione e le
proporzioni sono perfettamente studiate per creare un chiaro
equilibrio e un’armonia tra le parti. I tre colori primari (nella sintesi additiva), il blu, il rosso e il
verde caratterizzano i corpi e creano lo spazio ideale in cui questi si muovono.

2) LA TAVOLA IMBANDITA
La tela rappresenta un interno di sala da pranzo con una cameriera che sta mettendo in ordine la
frutta su di una alzata. In una seconda alzata sono contenuti altri frutti e dei fiori, altri sono
sparpagliati sul tavolo. Si notano anche due panini e due bottiglie che contengono,
rispettivamente, vino bianco e vino rosso. Poiché la disposizione degli oggetti sembra causale, si
può pensare che poco prima si sia tenuto un pranzo. Tuttavia pare che la frutta non sia stata
consumata e, d’altra parte, non c’è nemmeno traccia, né di piatti, né di stoviglie. Potrebbe darsi
che la cameriera sia il simbolo del pittore che sta riordinando gli oggetti da dipingere. Il tavolo è
ricoperto da una tovaglia rossa dello stesso rosso
dello sfondo della carta da parati. Inoltre i fiori
dipinti sulla tappezzeria richiamano per la forma ed il
colore i fiori sistemati sul tavolo. Sulla parete di
fondo è ritagliata una finestra, un artificio molto
frequente nell’arte rinascimentale. Attraverso la
finestra si intravede un paesaggio primaverile con un
valore puramente decorativo perché non invia alcuna
luce all’interno sulla stanza. Il quadro riproduce
quattro elementi cari a Matisse: il paesaggio, la
figura, l’interno, la natura morta che, però, in questo
caso acquistano un doppio valore: realista ed astratto-
decorativo. L’interno della stanza risulta appiattita
perché manca la terza dimensione, tanto è vero che la tovaglia rossa si espande sulla parte e
sembra fare con essa un tutt’uno. Tuttavia la tridimensionalità non è del tutto assente: la testa
della donna proietta un’ombra sul collo, la prospettiva posta in modo diagonale tavolo, sedie e
finestra e rende più piccoli gli alberi più lontani. Quindi si può affermare che lo spazio realista
non è del tutto assente anzi ad esso viene sovrapposto uno spazio decorativo. Quest’ultimo
deriva dai motivi ornamentali blu sulla tovaglia che si ripetono sulla tappezzeria. Il conflitto fra
realismo e aspetto astratto-decorativo è superato da tutto un gioco di richiami e di
corrispondenze: muro rosso e prato verde, fiori del giardino e frutta sul tavolo. Questi contrasti
trovano però un momento rispondenza a volte nelle forme, a volte nei colori. La cameriera si
piega in avanti come si piega in avanti l’albero fiorito, le volute della sua capigliatura
riproducono quelle del fogliame e le macchie gialle della frutta richiamano quelle create dai
fiori di cui è cosparso il prato. Inoltre, le linee della casa che si scorge in fondo al giardino
riprendono quelle dello schienale della sedia ed i rami degli alberi riprendono il motivo della
carta stampata o dei motivi ricamati sulla tovaglia. Matisse stesso ha scritto di non dipingere
cose, ma di dipingere solo i rapporti che le collegano e questa è un esempio molto significativo
di tale affermazione. L’opera, un olio su tela della misura 180x220 cm è esposta all’Ermitage di
San Pietroburgo.

ESPRESSIONISMO TEDESCO
Il termine “espressionismo” è entrato ormai nell’uso comune della critica d’arte in relazione a
quelle opere che intendono “esprimere” fortemente il sentimento individuale dell’artista
piuttosto che rappresentare oggettivamente la realtà; in tal senso esse deformano
consapevolmente quest’ultima affinché risulti evidente che ciò che noi vediamo sulla tela non è
la riproduzione di un oggetto così come appare, ma come lo «sente» l’autore che proietta in esso
la propria vita interiore. “Espressionismo”, insomma, è qualcosa di diverso da “espressione”. Se
è vero che ogni artista “esprime” i propri sentimenti, è solo l’espressionista che costringe lo
spettatore a vivere questi sentimenti con immediatezza: lo coinvolge e lo emoziona, provocando
in lui reazioni psicologiche violente. Storicamente il termine “espressionismo” trova la sua
applicazione più esatta soltanto per quegli artisti che, a partire dagli inizi del Novecento,
(soprattutto in Germania) sostengono assoluta priorità dell’espressione del sentimento
individuale sull’imitazione della natura. L’espressionismo si oppone perciò a ogni forma di
naturalismo. Anzi il nome stesso è polemico perfino nei confronti dell’impressionismo, l’uno
indicando la proiezione dei sentimenti dall’interno verso l’eterno (“ex-primere”), l’altro la
ricezione dell’esterno nell’interno (“in-primere”). La critica all’impressionismo non è tuttavia
corretta, perché quella corrente, che è alla base di tutta l’arte moderna, aveva già posto l’accento
sulla relatività della percezione umana, sulla transitorietà di tutte le cose, sul soggettivismo;
l’espressionismo però crede di vedervi ancora almeno un residuo di rapporto con la realtà
oggettiva, ritenendo che la differente resa di questa sia dovuta - come diceva Degas - non tanto a
uno «stato d’animo», quanto a uno «stato d’occhio».

DIE BRÜCKE
Il movimento Die Brücke, in italiano il ponte, nacque nel 1905 dal lavoro di quattro studenti di
architettura, arrivati alla pittura come autodidatti, nella Technische Hochschule di Dresda. Alla
pittura si dedicarono poi solo tre di essi: Ernest Ludwig Kirchner (1880-1938), Erich Heckel (1883-
1970) e Karl Schmidt-Rottluff (1884-1976). Al nucleo originario si unirono presto Emil Nolde
(1867-1956), Max Pechstein (1881-1955), Otto Mueller (1874-1930) e altri artisti minori. Si tratta
quindi di un gruppo di artisti espressionisti tedeschi il cui nome intendeva esprimere la fede dei suoi
membri nell’arte del futuro, verso la quale le loro opere costituivano un ponte. Il nome Die Brücke
abbiamo visto che tradotto significa proprio ponte. I loro soggetti consistevano principalmente in
paesaggi e composizioni di figure, soprattutto nudi all’aperto. Lo stile pittorico con cui erano trattati
era molto carico, si serviva di colori forti e spesso non naturalistici e di forme semplificate,
energiche e spigolose. C’è un senso di ansia e inquietudine che traspare nelle opere di questi pittori
che spesso erano quasi privi di una formazione pittorica accademica e professionale. Furono
influenzati non solo dall’arte tardo-medievale tedesca, ma anche dall’arte dei popoli primitivi.
Ottennero presto i primi riconoscimenti, ma iniziarono a perdere l’identità di gruppo mano mano
che gli stili individuali si facevano più evidenti e, come vedremo, questo aspetto sarà fondamentale
per lo scioglimento del gruppo. I temi principali affrontati da questi pittori furono molti. La vita
nella metropoli, l’erotismo, la violenza militare. L’emozione e la fede religiosa, l’angoscia
psicologica causata dal disagio sociale. La xilografia diventò una delle tecniche predilette al gruppo,
perché particolarmente adatta nella resa dei forti contrasti cromatici e dei tratti deformati tipici
dell’arte di questi pittori.

EDVARD MUNCH
Precedenti diretti dell’espressionismo sono stati Gauguin, Van Gogh, Ensor e soprattutto
Munch. Il norvegese Edvard Munch (1863-1944) esercitò una forte influenza
sull’espressionismo tedesco con il quale era stato in contatto diretto da quando il suo Fregio
della vita (una sequenza di dipinti sulle fasi della vita umana) esposto a Berlino nel 1892, aveva
provocato uno scandalo tale che la mostra era stata chiusa dopo appena otto giorni. Ciò aveva
determinato, da parte degli artisti locali che ne avevano difeso il valore, la costituzione della
“Secessione di Berlino”, ossia di un’associazione che voleva polemicamente separarsi dalla
cultura ufficiale retriva per avviarsi verso un’arte nuova: un’arte che non copiasse il mondo
esterno, ma sapesse scoprire l’interiorità umana.: Sin dall’infanzia Munch si trova a dover
convivere con le immagini della malattia, del dolore, della morte. La madre del pittore è infatti
gravemente malata di tubercolosi, e muore quando Edvard ha solamente cinque anni; pochi anni
dopo anche la sorella Sophie che si era occupata di lui in assenza della madre, muore all’età di
sedici anni. Ma la malattia non è per Munch solamente come un evento che colpisce le persone
che lo circondano: varie infermità gli impediscono di frequentare regolarmente l’accademia di
disegno. Il disegnare, il dipingere, si rivelano da subito per il giovane Edvard strumenti
estremamente efficaci per ricordare, per portare di nuovo in vita quei morti che hanno riempito
la sua vita e per permettergli di convivere con questi fantasmi, con l’angoscia ed il dolore che
essi gli procurano. Centro dell’interesse di Munch è dunque l’uomo, il dramma del suo esistere,
del suo essere solo di fronte a tutto ciò che lo circonda: con i propri conflitti psichici e le proprie
paure. Tutto ciò non può essere disgiunto dalla formazione nordica del pittore, per quanto
riguarda sia l’antica tradizione popolare, sia i rapporti con la cultura a lui contemporanea, in
modo particolare lbsen, Strindberg e Kierkegaard.

1) L’URLO
Il dipinto noto come L’urlo, o anche Il grido, fu realizzato dal grande pittore norvegese Edvard
Munch (1863-1944) nel 1893. È certamente l’opera più celebre dell’artista e forse uno dei quadri
più famosi al mondo. Fa parte del Fregio della vita, un insieme di tele riunite secondo quattro temi
fondamentali: Nascita dell’amore, Sviluppo e dissoluzione dell’amore,
Angoscia di vivere (cui appartiene L’urlo) e Morte. Il Fregio della vita
fu esposto per la prima volta nel 1902, in occasione della quinta edizione
della Secessione di Berlino. Come altre opere di Munch, fu realizzato in
più versioni, quattro per l’esattezza. Il protagonista del quadro si trova
su un sentiero delimitato da una staccionata, senza inizio né fine, che si
affaccia sul mare. L’uomo è solo, seguito a breve distanza da due figure
oscure che sembrano quasi pedinarlo. Interrompendo il suo cammino,
quest’uomo si ferma in preda a un attacco di panico e grida con tutte le
sue forze, tenendosi le mani strette sulle orecchie per non ascoltare il
suono della propria voce. La figura dell’uomo urlante è proiettata in
primo piano. In questo dipinto, Munch portò la deformazione
dell’immagine a livelli sconosciuti per l’epoca. Il suono lacerante
prodotto dall’urlo distorce la faccia del protagonista, che diventa un
teschio privo di capelli (ispirato, sembra, da una mummia che l’artista aveva visto al Musée de
l’Homme di Parigi). Le narici sono ridotte a due fori; gli occhi, sbarrati, sembrano aver visto
qualcosa di spaventoso; le labbra, nere, ricordano quelle dei cadaveri. Allo stesso modo, il corpo del
personaggio appare serpentiforme, quasi senza scheletro o colonna vertebrale, ridotto a una misera
parvenza ondeggiante. Anche l’uso della luce contribuisce ad accentuare l’espressività dell’opera:
infatti, essa colpisce l’uomo urlante di fronte e in maniera violenta, come un flash, e conferisce
all’evento rappresentato un senso di immediatezza. Chi è il misterioso protagonista di questo
quadro? E soprattutto, perché urla? Né uomo né donna, esso incarna l’essenza stessa dell’umanità
sofferente e insicura. Alla fine, altri non è che l’artista medesimo, che si presenta a noi con un
tragico autoritratto dai valori fortemente simbolici.
2) IL BACIO CON LA FINESTRA
Il dipinto rappresenta due figure, decentrate alla destra del quadro, che si baciano all’interno di un
locale. Sono vicine ad una finestra da cui si intravede una via con vetrine illuminate e qualche
passante. Probabilmente la giornata volge alla sera perché i colori sono piuttosto scuri. A dispetto
del titolo, il quadro più che tenerezza, trasmette inquietudine.
Le due figure sono indefinite, nascoste, quasi furtive e i colori
scuri richiamano un’atmosfera fredda. Le due persone danno
l’idea di amanti clandestini, vista l’ambiguità dell’ambiente e
dell’atmosfera. I protagonisti del quadro sono chiaramente i
due amanti, anche se sono ritratti in posizione molto
decentrata. L’uomo è rappresentato di profilo con il braccio
destro allungato in avanti in un abbraccio. Indossa un abito blu
e l’orecchio destro è l’unico particolare ad essere più accurato,
mentre il resto dei tratti (naso, mento) è abbastanza indistinto.
La donna, invece, è rappresentata in posizione frontale, ma ha
il volto totalmente coperto, il busto è tutto proteso verso il corpo dell’uomo. La coppia è posta
accanto ad una finestra, ma non sono visibili dall’esterno, coperta da una tenda bianca che riflette i
colori freddi dell’atmosfera generale. Dell’interno si vede poco, ma sembra comunque un ambiente
spoglio, sicuramente non romantico. Dai vetri della finestra, invece, si vede qualche accenno di vita:
una via con delle vetrine illuminate di un edificio con finestre buie e una gialla e quattro passanti. Il
quadro è caratterizzato da colori freddi che richiamano le atmosfere del nord ed è stato realizzato
con pennellate spesse, quasi frettolose. Infatti, Munch adotta un tratto sommario, sia per l’ambiente
che per le figure, sotto una specie di impulso espressionista che gli permette di esprimersi senza il
filtro della razionalità.

KIRCHNER
Ernst Ludwig Kirchner (1880- 1938) fu uno dei fondatori del gruppo di artisti del Die Brücke (Il
Ponte) nel 1905, uno dei primi nuclei dell’Espressionismo tedesco.

CINQUE DONNE PER STRADA


Il quadro Cinque donne per strada, dipinto a Berlino nel 1913, mostra una
stesura uniforme dei colori acidi e stridenti che l'artista sceglie per la
rappresentazione del soggetto urbano, e di queste cinque donne che
appaiono come prostitute. Le figure appaiono esageratamente deformate:
questa è una forma di primitivismo (tendenza dell'arte del '900 a
semplificare le forme e deformarle come nelle sculture dei popoli
extraeuropei ad esempio Africa del nord e sud). I cappelli piumati
sembrano uccelli che conferiscono alle figure l'aspetto di corvi neri, esse
contrastano con uno sfondo giallo/verde che allude alla luce innaturale di
un lampione. Queste prostitute sono ritratte in una realtà bidimensionale.
Esprimono il disagio e la degradazione contemporanea.
CUBISMO
Nel momento in cui il Fauvismo volge al termine, in Francia due grandi artisti, Pablo Picasso
(1881-1973) e Georges Braque, fondano un’altra corrente di avanguardia: il Cubismo. Il termine
che definisce il movimento è occasionale. Nel 1908 Matisse aveva giudicato negativamente alcune
opere di Braque, definendole composte da “piccoli cubi” e l’anno successivo Louis Vauxcelles, lo
stesso critico al quale è dovuto l’appellativo fauves, parlo di “bizzarrìe cubiste”.Da allora le tele
dipinte in quegli anni da Picasso, da Braque e da altri vennero chiamate cubiste. Il cubismo, un
movimento rivoluzionario, era nato ufficialmente. Per la prima volta nella storia della pittura
occidentale si cerca di rappresentare i soggetti nella loro totalità. Il punto di partenza era ancora
quello di opporsi alla meccanica riproduzione del reale e alla presunta superficialità di osservazione
dell’impressionismo, per rendere invece il proprio modo di interpretare il mondo esterno. Questo
doveva essere “capito”, non soltanto “visto”: all’impressionismo si rimproverava, quindi, di aver
usato soltanto la rètina e non il cervello. I cubisti partono, così, dallo studio della realtà per
scomporla e ricomporla in un nuovo ordine che cancella la distinzione tra gli oggetti e lo spazio che
li circonda. Un medesimo soggetto viene colto da diverse angolazioni che poi vengono sovrapposte
nella rappresentazione. Le vedute successive di uno stesso oggetto e dello spazio circostante sono
fuse insieme, con l’intento di comunicare la totalità delle percezioni in maniera simultanea, come se
l’osservatore potesse girare intorno al soggetto rappresentato, osservandolo da tutti i punti di vista.
Anche per i Cubisti l’opera d’arte non deve rappresentare la realtà, ma interpretarla: l’arte diventa
uno strumento conoscitivo. Il processo di scomposizione in piani e di successiva ricomposizione
disintegra le forme, elimina la distinzione tra figura e sfondo, rinuncia definitivamente all’uso della
prospettiva rendendo difficile anche l’individuazione del soggetto di un’opera cubista. In effetti i
soggetti preferiti dai Cubisti (ritratti e nature morte) ben si prestano ad essere “smontati” e
“rimontati” attraverso il ribaltamento dei piani osservati contemporaneamente da più punti vista.
Dunque, per la prima volta, viene mostrata la “quarta dimensione”, il fattore tempo. La
contemporaneità dei due fenomeni rimane tuttavia casuale, senza un reale nesso di dipendenza
reciproca. Appare tuttavia singolare come, in due campi diversissimi tra loro, si avverta la
medesima necessità di andare oltre la conoscenza empirica della realtà per giungere a nuovi modelli
di descrizione e rappresentazione del reale. Einstein e Picasso postulano contemporaneamente che
la conoscenza dello spazio e del tempo sono relativi al punto di osservazione. Il primo formula una
legge matematica, il secondo una visualizzazione artistica. Sulla nascita del cubismo influiscono
profondamente la conoscenza dell’arte primitiva dell’Africa e dell’Oceania con le sue forme
schematiche, deformate e geometrizzate. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento e fino ai primi
decenni del Novecento, infatti, era maturata in tutta Europa una forte insoddisfazione nei confronti
della cultura occidentale: entra in crisi il concetto stesso di cultura, intesa come sapere nozionistico,
libresco e tradizionale. Rinasce l’interesse per il “primitivismo” (che include anche l’arte infantile,
arcaica, popolare e quella di malati ed emarginati), per le sue capacità espressive, per la libertà dalle
leggi prospettiche tradizionali, per la sensibilità deformante, per la sua forte spiritualità e per la
creatività istintiva. Il Cubismo nasce e si sviluppa a partire dal 1908 fino all’inizio della Prima
Guerra Mondiale. In questo breve arco di tempo si distunguono due fasi: il Cubismo “Analitico”
(1908-1912) caratterizzato da un’accentuata frammentazione delle forme e dall’uso di colori spenti,
spesso di un solo tono cromatico (monocromo), e il Cubismo “sintetico” (1912-1914), che attua un
parziale recupero del colore e delle forme, ormai però completamente svincolate dalla concezione
spaziale tradizionale. È in questa seconda fase che inizia l’uso di incollare sulla tela parti ritagliate
da giornali, libri, spartiti musicali (i papiers collés) e altri svariati tipi di materiale. I cubisti
recuperano alcuni temi di ricerca dei Fauves - come l’abolizione della prospettiva e della profondità
e sviluppano nuove tecniche, dette “polimateriche”, perché prevedono l’impiego di molti materiali
diversi: colori densi, talvolta mischiati a sabbia, collage realizzati con carta, legno e stoffa che
possono trasmettere all’osservatore sensazioni tattili oltre che visive. Da un lato, quindi, i Cubisti
scompongono la realtà, rappresentandola in forme geometriche e schematiche, ma dall’altro usano
tecniche che riportano l’osservatore alla percezione della realtà nella sua “materialità” vera. I
materiali che costituiscono un oggetto non sono solo rappresentati: sono incollati direttamente sulla
tela. Il Cubismo suscita grande interesse tra gli artisti del tempo e molti aderiscono al movimento.

PABLO PICASSO
Picasso (Malaga 1881 - Mougins 1973) è considerato il massimo artista del XX secolo e uno dei
maggiori artisti di tutti i tempi. I motivi sono diversi. È un artista dalle capacità tecniche
straordinarie, particolarmente versatile. Non si dedica solo al disegno e alla pittura tradizionali, ma
sperimenta metodi nuovi come il collage, l’uso di materiali insoliti, la grafica, la stampa, la scultura,
la ceramica, la scenografia. Tutta la sua carriera artistica è segnata da una continua spinta
all’autosuperamento. Picasso non si ferma mai, passa da una corrente all’altra e si immerge
completamente in ogni esperienza. La sua produzione artistica è particolarmente vasta e complessa,
non può racchiudersi in una ‘maniera’. Picasso ha provocato nell’arte una svolta così definitiva, così
totale, aprendo una strada nuova all’espressione. Per quanto risulti difficile delineare degli elementi
costanti nello stile di un artista così prolifico e pieno di rivolgimenti stilistici, alcune caratteristiche
fondamentali del suo stile sono:
• chiarezza ed equilibrio nelle composizioni
• forme e volumi solidi
• grande senso del colore
• potenza espressiva e immediatezza dell’immagine

1) DEMOISELLES D’AVIGNON - olio su tela - 2,33 x 2,43 - MOMA,


New York

Il dipinto di Picasso, una delle prime opere del Cubismo, fu dipinto tra il 1906 e il 1907 a Parigi. È
collocato presso il Museo di Arte Moderna di New York, ed è considerato da tutti gli esperti d’ arte,
come uno dei più importanti dipinti di tutto il XX secolo. Picasso usa la tecnica a olio con Iibertà.
Con il pennello traccia il disegno di base, realizza campiture uniformi, sovrappone tratteggi,
ridisegna parzialmente i contorni delle figure. I colori sono stemperati sulla tavolozza o impastati
direttamente sulla tela. In base ai numerosi studi che ci sono rimasti, alle analisi condotte con l’uso
di raggi X e alle testimonianze dei contemporanei, sappiamo che è stato più volte rielaborato e
ridipinto, perché l’artista, affascinato da Cézanne e dalla scultura africana, provava e riprovava sulla
medesima tela le nuove idee che stava maturando (oggi lo chiameremmo “wok in progress”). Il
quadro non rappresenta perciò un risultato definitivo: a un certo punto Picasso semplicemente
smette di lavorarci e lo lascia nel suo studio per molti anni fino a quando, nel 1920, viene acquistato
da un collezionista francese. Il dipinto, raffigura cinque giovani donne nude: quattro
apparentemente in piedi, poste di fronte, di tre quarti e di profilo, e una seduta. Originariamente il
quadro doveva intitolarsi Le bordel d’Avignon e, in una prima stesura, erano previste anche due
figure maschili, uno studente con un pacchetto sotto il braccio e un uomo seduto al centro con un
teschio in mano, poi scomparse nelle modifiche successive. È rimasta la tenda rossa aperta come un
sipario dalla figura posta sulla sinistra. La composizione del gruppo è influenzata dalle opere di
Cézanne, del quale fu aperta una retrospettiva nel 1907 a
Parigi, e in particolare dal quadro “Cinque bagnanti” del
1885. Ciascuna delle donne ha un diverso atteggiamento,
alcune indossano un drappo, un velo, un lenzuolo. Le figure
centrali sono rimaste simili ai primi schizzi, i loro volti
spagnoleggianti appaiono disegnati con estrema chiarezza,
benché stilizzati. La compresenza di occhi frontali e nasi di
profilo, soprattutto nella figura a sinistra, richiama i canoni
rappresentativi dell’antico Egitto. Picasso utilizza anche
modelli iconografici classici e rinascimentali: la figura
centrale riprende la posa della Venere di Milo, con la gamba
nuda protesa in avanti e le spalle inclinate a completare
l’equilibrio. Un altro riferimento è allo “Schiavo morente” di
Michelangelo. Le donne con braccia dietro la testa e la
presenza, in primo piano, di una donna di schiena ricordano
anche “Il bagno turco” e “La sorgente” di Ingres. Le due figure a destra sono influenzate
dall’incontro dell’artista con la scultura africana. Il pittore fu conquistato dal carattere razionale di
tale scultura, dal suo esprimere mediante convenzioni figurative concetti spirituali pregnanti. L’arte
africana parve dunque come un’arte della mente e non degli occhi: come il cubismo essa esprime
ciò che sa, non ciò che appare ai sensi. Picasso riprende dal alcune maschere africane anche la
scarificazione del legno con tratteggi obliqui sui volti. Nei primi schizzi era già presente la frutta in
primo piano, un piccolo frammento di natura morta posto su un tavolino che prosegue verso lo
spettatore. La natura morta era un tema molto congeniale ai cubisti perché permetteva di ridurre a
forme geometriche semplici gli oggetti rappresentati, secondo la lezione di Cézanne. Qui sono
rappresentati una mela (storicamente simbolo del peccato), una pera, un grappolo d’uva (simbolo di
immortalità) e una fetta d’anguria. Un ultimo elemento iconograficamente rilevante è la tenda rossa:
unico residuo, insieme al tavolino in primo piano, di un’ambientazione tridimensionale è uno
stratagemma pittorico di vecchia data che, nei secoli, è servito per dare maestosità, teatralità o
intimità ad una scena di interni. La linea è più che un contorno: spesso dipinta sopra le campiture
costruisce i volumi e rende solido lo spazio. I colori utilizzati sono essenzialmente l’arancione e
l’azzurro. Essendo complementari si rafforzano a vicenda apparendo più corposi e squillanti. La
composizione ha un asse centrale verso cui convergono le membra delle donne.

2) GUERNICA - 1937 - tempera su tela - 3,5 x 7,82 m - Madrid, Museo Nacional


Reina Sofia
È l’opera che meglio di ogni altra testimonia
la partecipazione appassionata di Picasso
alla sofferenza umana e il suo furente
giudizio morale sulla violenza sanguinaria.
La grande tela fu ispirata al tragico
bombardamento (26/4/’37) dell’omonima
cittadina basca durante la guerra civile
spagnola (1936-1939) ad opera
dell’aviazione nazi-fascista. Come Goya
nella “Fucilazione del 3 maggio 1808” anche Picasso si schiera dalla parte degli oppressi perché
“davanti a un conflitto che mette in gioco i più alti valori dell’umanità, gli artisti non possono e non
devono restare indifferenti”. Sei giorni dopo il bombardamento di Guernica Picasso iniziò a
lavorare sul murale per il padiglione spagnolo della Mostra Internazionale di Parigi, prevista per
l’estate del 1937. Picasso aveva accettato la commissione del Governo spagnolo nel gennaio del
1937 per realizzare un grande murale per il padiglione spagnolo ma nessun argomento era stato
deciso. I bombardamenti in aprile gli fornirono lo spunto. Il pittore, in appena un mese e mezzo,
spinto quasi da furore creativo, realizzò una cinquantina tra schizzi e bozzetti. La tecnica, olio su
tela, stavolta non è un work in progress in quanto Picasso aveva una scadenza da rispettare e lavorò
in modo febbrile completando in due mesi l’opera e terminandola il 4 giugno 1937. Il lavoro di
Picasso è documentato da una serie eccezionale di fotografie scattate dalla ua compagna Dora Maar,
che seguono tutti i mutamenti del progetto fino alla redazione finale. Gli elementi della
composizione, intensamente intrisi di valenze simboliche, sono studiati singolarmente e poi
assemblati. La scena si svolge al buio in uno spazio aperto, la piazza della città circondata da edifici
in fiamme e presenta diversi elementi concatenati:
1) Toro, donna e bambino morto
2) Cavallo e lampada
3) Combattente caduto (a sinistra)
4) Braccio del combattente
5) Donna in fuga
6) Testa del cavallo
7) Donna con la lampada
8) Donna caduta
9) Particolare del fiore
Picasso, nel dipingere ogni figura reinterpreta opere del passato come l’Incendio di Borgo di
Raffaello, la Strage degli innocenti di Guido Reni e La fucilazione del 3 maggio 1808di Goya, e,
secondo l’opinione di alcuni studiosi, nella figura del cavallo, denuncerebbe persino la memoria del
Trionfo della morte di Palazzo Sclafani, oggi conservata a Palazzo Abatellis a Palermo (nel 1917 il
pittore aveva fatto un viaggio in Italia, comprendente questa città). “A me la pittura piace tutta”, ha
dichiarato Picasso e numerose nella sua produzione sono le opere in cui egli reinterpreta soggetti di
suoi illustri predecessori, ma in Guernica, attraverso il recupero dell’arte del passato, pare che il
pittore ci abbia voluto lasciare anche questo messaggio: tutta la cultura dell’Occidente, viene
violentata con quell’atto brutale, con la barbarie della guerra. Torna straordinariamente attuale
l’insegnamento di Goya, verso il quale l’artista catalano non ha mai cessato di sentirsi intimamente
debitore “Il sonno della ragione genera mostri”. I corpi sono scomposti, semplificati, lo spazio
deflagra con essi. Uno degli elementi linguistici più evidenti in Guernica è l’assenza di colore,
l’impiego esclusivo di toni di grigio: solo bianchi gessosi, nero-catrame e grigio-ferro. Qualcuno
suppone che tale soluzione sarebbe stata suggerita a Picasso dalle fotografie in bianco e nero che
documentavano l’infame impresa bellica. Non è da escludere. Ma la scelta dell’artista è legata ad
altre ragioni. La varietà dei colori è, nella consuetudine naturalistica, indizio di vitalità, di contro il
non-colore evoca la morte. La luce è artificiale, proviene solo dal lampadario che domina la scena e
si riversa creando un taglio obliquo che attraversa il quadro. Alla luce della lampada elettrica fa da
contrappunto la lampada a petrolio tenuta in mano da una donna. Lo spazio, dietro è assente,
avvolto nel buio. La scena è contemporaneamente interna (il lampadario è un arredo interno) ed
esterna (si vedono palazzi in fiamme) Questa contemporaneità di visione non è solo cubista, ma
vuole rendere con violento realismo la tragedia del bombardamento che all’improvviso sventra e
demolisce interi palazzi sparpagliando impietosamente all’aperto anche gli oggetti più intimi di ogni
famiglia. Lo spazio stesso sembra frantumarsi in schegge che s’incuneano tra figura e figura. In
questo spazio caotico e indifferenziato, uomini, donne e animali fuggono e urlano come impazziti,
sovrapponendosi e compenetrandosi, accomunati dallo stesso dolore e dalla stessa violenza.
“Guernica è la visione della morte in atto: il pittore non assiste al fatto con terrore e pietà, ma è
dentro il fatto, non commemora o commisera le vittime, ma è tra le vittime” (Argan), donne,
bambini, animali. All’estrema sinistra una madre lancia al cielo il suo grido straziante mentre
stringe fra le mani il cadavere del figlioletto. A destra le fa eco l’urlo disperato di un altro
personaggio che tende le mani al cielo. Al centro un cavallo ferito, simbolo del popolo spagnolo,
nitrisce dolorosamente protendendo verso l’alto una lingua aguzza come una scheggia di vetro.
Ovunque sono morte e distruzione, sottolineate da un disegno duro e quasi tagliente. Chi può cerca
di fuggire, come la donna che, dall’angolo inferiore destro, si slancia diagonalmente. Il toro,
all’angolo superiore sinistro, è simbolo di violenza e bestialità. Un’altra donna si affaccia
disperatamente a una finestra reggendo una lampada a petrolio, un’allusione alla regressione alla
quale la guerra inevitabilmente conduce. Al suolo, tra le macerie, si assiste all’orrore dei cadaveri
straziati. A sinistra una mano protesa, con la linea della vita simbolicamente spezzata in minuti
segmenti. Esattamente al centro del dipinto un’altra mano serra ancora una spada spezzata, sullo
sfondo di un fiore intatto: simbolo della vita e della speranza che, nonostante tutto, avrà comunque
la meglio sulla morte e sulla barbarie.

IL FUTURISMO
A differenza di tutte le altre avanguardie artistiche il Futurismo è il primo movimento che si dà un
programma preventivo rompendo volutamente con tutto il passato e collocandosi in aperta polemica
verso ogni oppositore. Il movimento si riconosce nelle idee che il suo fondatore Filippo Tommaso
Marinetti (1876-1944) elabora nel Manifesto del Futurismo, pubblicato a Parigi il 20 febbraio 1909
nel quale viene esaltata la velocità, il progresso, la macchina in corsa, l’avvento dell’energia
elettrica, la nuova bellezza del movimento (anche quello della rissa e della violenza). La volontà
vitalistica e violenta del Futurismo, malgrado l’accenno a valori libertari, portò il movimento, unico
caso tra le avanguardie del primo Novecento, a schierarsi politicamente con la destra nazionalista e
interventista, confluendo infine nel fascismo. Marinetti, apparentemente rivoluzionario, finirà con
l’accettare da Mussolini onori e prebende lasciandosi “imbalsamare” tra i membri dell’Accademia
d’Italia e aderendo perfino alla Repubblica di Salò. Si spiegano così l’agghiacciante glorificazione
della “guerra, sola igiene del mondo”, il dominio dell’uomo sulla donna, la volontà di distruggere
musei, biblioteche e città d’arte. L’ideologia futurista, così come enunciata da Marinetti nel 1909 è
contraddittoria, confusa e redatta con un linguaggio irritante: linguaggio che, con virulenza ancora
maggiore, veniva usato nelle “serate futuriste” organizzate in sale e teatri dove volavano schiaffi e
pugni e assalti verbali polemici e provocatori come quello intonato da Marinetti nel 1913 al Teatro
la Fenice di Venezia. Tuttavia occorre sottolineare l’importante ruolo di svecchiamento dell’arte
italiana messo in atto dal Futurismo e il suo pieno inserimento nel vivo delle più moderne correnti
internazionali. Al di là delle ideologie politiche e dell’aggressività degli enunciati il Futurismo ha
un valore artistico innegabile e tra i suoi membri si contano alcuni dei maggiori artisti del
Novecento italiano: Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini, Luigi Rùssolo,
Antonio Sant’Elia, Gerardo Dottori, Fortunato Depero. Furono i futuristi i primi a intuire e
sviluppare i potenziali visivi inespressi del linguaggio, quelli alla base della nostra pubblicità e della
comunicazione di massa. Li sperimentarono in opere per i tempi rivoluzionarie come il
Bombardamento di Adrianopoli, un testo d’avanguardia scritto dal poeta Filippo Tommaso
Marinetti (1876-1944), in cui lo scrittore faceva ricorso a frasi come questa: “5 secondi cannoni da
assedio sventrrrare spazio con un accordo ZZZANG TUMB TUM ammutinamento”. L’idea, in
questo caso, era trasformare i colpi di mitragliatrice in “parola-suono”: taratatatatata. E gli schiaffi e
i pugni in pic-pac-pum-tumb. Proprio come nelle onomatopee dei fumetti.
UMBERTO BOCCIONI
Il maggior artista del Futurismo e uno dei maggiori del Novecento italiano è semza dubbio Umberto
Boccioni (1882-1916). Di origini calabresi si trasferisce nel 1907 a Milano, città del “nostro tempo
industriale”. Qui conosce la pittura divisionista di Previati (tecnica che gli consentirà di
frammentare la realtà e renderne il moto continuo) e lancia con Marinetti il manifesto del Futurismo
il 20 febbraio 1909.

1) LA CITTÀ CHE SALE


La città che sale, del 1910, è considerato il primo
capolavoro pienamente futurista di Boccioni.
Preceduto da una serie di bozzetti, e inizialmente
intitolato Il lavoro, rappresenta unA riflessione sul
tema del mondo urbano. Per dipingere quest’opera,
Boccioni prese spunto dal cantiere di una centrale
termoelettrica di Milano e visitò diverse zone
industriali della città, dove realizzò disegni e schizzi a
penna e matita. Il vero soggetto del quadro non è
dunque la raffigurazione in sé di una qualunque
giornata di cantiere ma più in generale la celebrazione
della modernità, legata al progresso industriale, e della frenetica crescita delle città, in un vortice di
movimento e di luce. La città che sale rappresenta una periferia urbana in costruzione. Si notano in
primo piano alcuni cavalli, impegnati a trascinare carichi pesanti, con l’aiuto di un gruppo di
uomini, in uno sforzo spasmodico. Se ne distinguono nettamente cinque, quattro dei quali hanno
colorazione rossa. I profili blu sulle loro groppe assomigliano ad ali. Tra gli animali, gli operai
(privi di contorni e quasi trasparenti) sembrano fluttuare, trascinati da un vortice potentissimo. Sullo
sfondo si scorgono i cantieri di alcuni palazzi, un palese omaggio alle conquiste della tecnica, e
ancora più in lontananza delle ciminiere fumanti, simboli dello sviluppo industriale. In questo
dipinto, fremono colori esasperati, stesi puri e frammentati in pennellate oblique e filamentose che
creano un vortice di movimento e luce. Le pennellate, contribuiscono a evidenziare il movimento
delle figure.

2) FORME UNICHE DELLA CONTINUITÀ DELLO SPAZIO


Forme uniche della continuità nello spazio è una celebre scultura
futurista di Umberto Boccioni. Rappresenta simbolicamente il
movimento e la fluidità. Boccioni respinge la scultura tradizionale per
creare questo pezzo, considerato uno dei capolavori del Futurismo. La
figura appare per un verso come uno "scorticato" anatomico (si
riconoscono distintamente alcuni muscoli, come i polpacci, e
l’articolazione del ginocchio), per un altro come una "macchina",
come un ingranaggio in movimento. Inoltre si sviluppa mediante
l’alternarsi di cavità, rilievi, piani e vuoti che generano un
frammentato e discontinuo chiaroscuro fatto di frequenti e repentini
passaggi dalla luce all'ombra. Osservando la figura da destra, il torso
ad esempio pare essere pieno ma se si gira intorno alla statua e la si
osserva da sinistra esso si trasforma in una cavità vuota. In tale modo
sembra che la figura si modelli a seconda dello spazio circostante. Anche la linea di contorno si
sviluppa come una sequenza di curve ora concave, ora convesse: in tal modo i contorni irregolari
non limitano la figura come di consueto ma la dilatano espandendola nello spazio. L’interno stesso
di Forme uniche della continuità nello spazio è attraversato da solchi e spigoli che "tagliano" i piani,
come se le figure fossero più di una e si sovrapponessero di continuo. Se vista lateralmente, la
statua dà l’impressione di un movimento avanzante che si proietta energicamente in avanti. Tuttavia
se la si guarda frontalmente o a tre quarti si può notare una torsione o avvitamento delle forme nello
spazio: più di una linea infatti si avvolge attorno alla figura in un moto a spirale, coinvolgendo i
diversi piani in una rotazione che suggerisce un’ulteriore espansione delle forme. L'opera originale
di Boccioni è in gesso, e non è mai stata prodotta la rispettiva copia in bronzo nel corso della vita
dell'autore.

ANTONIO SANT’ELIA
Nel 1914, tra i tanti manifesti pubblicati dal movimento futurista, emerge il Manifesto
dell’architettura futurista a firma di Antonio Sant’Elia (1888-1916) che, combattendo giustamente
contro l’eclettismo dell’architettura italiana del primo ‘900, ripetitiva e vuota, propone di “creare di
sana pianta la casa futurista, di costruirla con ogni risorsa della scienza e della tecnica” evitando
monumentalità e decorativismo e mettendo
in evidenza ferro, cemento armato e le
moderne tecniche dell’edilizia. Di grande
interesse è la proposta per la Città Nuova di
far scorrere il traffico sotto terra per
restituire le strade all’uso pedonale ed
evitare rumori ed inquinamento. Purtroppo
neanche uno dei suoi progetti futuristi è stato
realizzato per la prematura scomparsa in
guerra del giovane architetto (28 anni). Ma
dalle parole del Manifesto si evince
chiaramente quale sarebbe stata la nuova
estetica.

DADAISMO
Il Dadaismo è un movimento nato in Svizzera, a Zurigo, il 5 febbraio 1916 che si svilupperò anche
a Berlino, Parigi e New York. A differenza delle altre avanguardie del primo Novecento nasce nel
corso della Prima Guerra Mondiale, quando un gruppo di intellettuali europei si erano rifugiati in
Svizzera, paese neutrale, per sfuggire alla guerra. I fondatori sono Hans Arp, Tristan Tzara, Marcel
Janco, Richard Huelsenbeck e Hans Richter. L’evento che segna la nascita del Dadaismo (ma è più
opportuno chiamarlo DADA) è l’inaugurazione del Cabaret Voltaire ideato dal regista Hugo Ball. Il
movimento si conclude nel 1922 quando na-sce il Surrealismo movimento che può essere
considerato la pars construens dopo la pars destruens costituita da Dada. Le serate al Cabaret
Voltaire somigliano a quelle dei futuristi per l’intento di provocare con spettacoli assurdi. La parola
d’ordine era “épater le bourgeois”, cioè scandalizzare il borghese. Se Futurismo e Dadaismo hanno
in comune l’intento dissacratorio e la ricerca di nuove forme d’arte differiscono molto nel diverso
atteggiamento verso la guerra. I futuristi sono interventisti, militaristi (e per questo, con l’ascesa del
fascismo si collocheranno a destra) mentre i dadaisti sono dichiaratamente contrari alla guerra,
aspetto che li colloca politicamente a sinistra. Il movimento vuole azzerare l’arte, come i Futuristi,
ma non propone forme alternative. Per questo motivo è anche contro i significati tradizionalmente
attribuiti alle parole. La scelta del termine “dada”, nell’idea dei fondatori, non ha alcun significato.
Tristan Tzara racconta di aver trovato il termine aprendo a caso un vocabolario francese. Altri
esponenti del gruppo, nel tentativo di annullare ogni chiara definizione, hanno sottolineato che in
russo vuol dire due volte sì; in tedesco due volte qui; in italiano e francese è il suono prodotto dai
bambini piccoli con cui indicano ogni cosa. Allo stesso modo è casuale anche la “poesia” dadaista.
Dada, dunque, è contro la letteratura, la poesia, l’arte e i concetti di eterno, bello e perfetto. È anche
contro le il cubismo, l’espressionismo e il futurismo, perché questi movimenti, nel tentativo di
liberarsi dalle maglie del passato ne avrebbero create di nuove. Dada è libertà: e quindi è anche
contro dada. Per il dada tutto può essere arte: dai pezzi di legno inchiodati casualmente come la
Trusse d’un Da di Hans Arp, ai collage fatti assemblando ritagli in modo casuale. Qualunque
prodotto umano, essendo frutto della creatività, è arte.

MARCEL DUCHAMP
Marcel Duchamp (1887-1968) è il maggiore esponente di Dada, sebbene abbia sempre rifiutato
l’appartenenza al movimento. Già nel 1913 aveva montato una ruota di bicicletta capovolta su uno
sgabello. Due oggetti la cui unione produce un non-sense dato che entrambi sono inutilizzabili.
Stessa cosa per il gomitolo di spago posto tra due lamine di ottone tenute assieme da quattro
bulloni. Nel caso dello scolabottiglie non compie addirittura nessuna alterazione. Duchamp
definisce queste “sculture” READY-MADE, cioè oggetti comuni estratti dal loro contesto d’uso, ed
elevati ad opere d’arte.

1) FONTANA
Dirompente fu l’invio da parte di Duchamp, sotto lo pseudonimo di
Richard Mutt, di una scultura intitolata Fontana a una mostra organizzata
nel 1917. Era un orinatoio maschile in maiolica bianca, capovolto e
collocato su un piedistallo di legno. Lo scandalo fu immenso; la
“scultura” venne rifiutata e Duchamp (che faceva parte del comitato
organizzatore e l’aveva inviata sotto falso nome per mettere alla prova
l’apertura mentale dei colleghi) si dimise clamorosamente. Nonostante
l’estrema semplicità di realizzazione dell’opera – che, in effetti, era per il
99% già pronta – la Fontana di Duchamp è considerata tra i principali
capolavori del Novecento. Come mai questo successo di critica? Perché si
tratta di un’opera fortemente provocatoria, che fa a pezzi uno degli assiomi del mondo dell’arte:
l’idea che l’artista, per definizione, crei qualcosa di unico. Duchamp non fece nulla di straordinario
e, soprattutto, in sé l’opera non ha niente di speciale, anzi: si tratta di un orinatoio prodotto in serie.
È proprio qui la rivoluzione, nell’idea che tutto possa diventare un capolavoro. Basta solo che il
pubblico riconosca il ruolo dell’artista e, di riflesso, il valore della sua opera. Per la
prima volta, è il pubblico il vero protagonista. Se l’opinione pubblica ne riconosce il
valore, perfino un banale orinatoio può elevarsi a opera d’arte, sembra dirci
Duchamp. L’originale della fontana non esiste più perché durante un trasloco gli
operai lo gettarono erroneamente via.

2) GIOCONDA CON I BAFFI


È un ready-made rettificato realizzato nel 1919 dall'artista dadaista Marcel
Duchamp. Si tratta di una riproduzione fotografica della Gioconda di Leonardo da
Vinci alla quale sono stati aggiunti provocatoriamente dei baffi e un pizzetto. Il
titolo è sostanzialmente un gioco di parole, infatti le lettere L.H.O.O.Q. pronunciate in francese
suonano come la frase “Elle a chaud au cul”, letteralmente "Lei ha caldo al culo", che significa "Lei
si concede facilmente". Può essere letto anche come la parola inglese "look" (guarda). Come nel
caso di altri ready-made, Duchamp ne ha realizzato diverse versioni. L'opera può essere considerata
un manifesto contro il conformismo. Dissacrando uno dei miti artistici più consolidati, Duchamp
non intende negare l'arte di Leonardo ma onorarla, a modo suo, mettendo in ridicolo gli estimatori
superficiali e ignoranti che apprezzano la Gioconda solo perché tutti dicono che è bella,
conformandosi acriticamente così al gusto della maggioranza delle persone.

SURREALISMO
Nel 1924 lo scrittore francese André Breton pubblica il primo Manifesto del Surrealismo dove
esplicita la definizione del nome del movimento: “SURREALISMO, s.m. Automatismo psichico
puro, mediante il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per iscritto o in altri modi, il
funzionamento reale del pensiero; è il dettato del pensiero, con assenza di ogni controllo esercitato
dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica e morale”. Il surrealismo, dunque, intende
dare voce all’io interiore senza l’intervento dei meccanismi inibitori legati alla ragione e alla
razionalità che tendono a reprimere gli istinti naturali. Per conquistare questa libertà bisogna farsi
guidare dall’inconscio, come avviene nei sogni quando le immagini si alternano senza apparenti
legami, svelando i pensieri e le pulsioni reali, spesso sconosciuti a noi stessi. Questo è il metodo
adottato dalla psicanalisi, la disciplina ideata da Sigmund Freud di vui Breton era un sostenitore
(“La psicologia è un argomento sul quale non sono disposto a scherzare”, dichiarava). Ma
Surrealismo non è solo la trascrizione dei sogni. Piuttosto è il tentativo di scoprire il meccanismo
con cui funziona l’inconscio, svelando il processo interiore durante la fase della veglia attraverso
l’automatismo psichico, cioè la libera associazione di idee. Il Dadaismo, che precede il Surrealismo
e ne costituisce la pars destruens, ha liberato l’uomo azzerando tutte le convenzioni sociali. Tuttavia
si tratta di un’azione negativa, che non propone espressioni alternative, legata alla tragedia della
Grande Guerra. Con la fine del conflitto, il Surrealismo recupera il concetto della libertà totale dai
condizionamenti esterni, ma alla distruzione dadaista oppone la ricostruzione, basata sull’interiorità
dell’uomo. Un precedente importante per il Surrealismo è la pittura metafisica di De Chirico che
cerca di cogliere l’essenza intima delle cose al di là della loro apparenza sensibile. Questo lo porta
ad accostare oggetti tra loro incompatibili creando situazioni inquietanti. Tuttavia la metafisica non
cerca di portare alla luce l’interiorità dell’individuo ma l’enigma già presente nelle cose. Per questa
sostanziale differenza De Chirico rifiuterà di aderire al nuovo movimento. A differenza delle altre
avanguardie il Surrealismo non si è esaurita rapidamente ma ha continuato a influenzare la pittura di
tutto il Novecento, nonché il cinema e le altre arti visive. Fra i principali esponenti vanno ricordati
Duchamp, Arp, Man Ray, Joan Mirò, René Magritte e Salvador Dalì. Anche Picasso attraversò un
periodo surrealista tanto che spesso, nelle mostre dedicate al Surrealismo, si usa esporre la terna
spagnola Dalì-Mirò-Picasso. Si tratta di artisti molto differenti raggruppabili in due filoni: quelli che
utilizzano immagini “realistiche”, come Magritte, e quelli che giungono a forme mostruose e irreali
come Dalì.

RENÈ MAGRITTE
René François Ghislain Magritte (Lessines, 21 novembre 1898 – Bruxelles, 15 agosto 1967) è uno
dei principali rappresentanti della corrente artistica del novecento, il Surrealismo. Il suo stile è
definito illusionismo onirico e cerca in ogni modo di rappresentare il lato misterioso e oscuro della
realtà. Per stupire e incantare l’osservatore, cerca inoltre di disporre gli oggetti comuni e quotidiani
in contesti impensabili e fuori dal comune.
1) L’IMPERO DELLE LUCI
L’impero delle luci (in originale, L’Empire des Lumières) è un’opera di
René Magritte del 1953-54 conservata nella Collezione Peggy Guggenheim
di Venezia. Realizzata a colori a olio, raffigura un paesaggio costituito da
pochi elementi: un piccolo specchio d’acqua in primo piano e una casa con
un grande albero a dominare la scena, cielo e vegetazione a fare da sfondo.
Magritte divise il quadro in due scenari opposti: la notte e il giorno. Infatti,
dipinse nella parte alta del quadro un cielo azzurro e limpido, attraversato da
numerose nuvole bianche, mentre nella parte inferiore la casa, l’albergo e il
lago sono immersi nel buio cupo della notte. Nonostante la realizzazione
totalmente realistica e minuziosa, l’opera produce un senso di stupefazione
nell’animo dello spettatore: il disorientamento è dovuto all’unione di due
momenti come la luce e il buio che, nella realtà non possono coesistere. Ad
accentuare l’effetto spiazzante è il contrasto fra la luce serena del cielo e le
luci artificiali provenienti dall’interno della casa. Magritte, senza
abbandonare le tipiche tecniche convenzionali riesce a mettere in dubbio la
percezione di come vediamo le cose e il mondo. In quest’opera utilizza, infatti, la figura retorica
dell’ossimoro, ossia, l’accostamento di elementi che esprimono concetti opposti: il giorno e la notte,
il sole e la luna, la luce e il buio.

2) L’INGANNO DELLE IMMAGINI


Il rapporto tra linguaggio ed immagine, ovvero tra rappresentazioni
logiche ed analogiche, è un tema sul quale Magritte gioca con grande
intelligenza ed ironia. In questo caso, guardando l’immagine di una
pipa e leggendo la scritta sottostante che dice: “questa non è una pipa”,
la prima reazione è di chiedersi: “ma allora, cosa è?”. Il sottile inganno
si svela ben presto, se si riflette che si sta guardando solo
un’immagine, non l’oggetto reale che noi chiamiamo “pipa”. Magritte,
anche in questo caso, tende a giocare con la confusione tra realtà e
rappresentazione, per proporci una nuova riflessione sul confine, non sempre coscientemente
chiaro, tra i due termini. In proposito scrisse “La famosa pipa...? Sono stato rimproverato
abbastanza in merito. Tuttavia la si può riempire? No, non è vero, è solo una rappresentazione: se
avessi scritto sotto il mio quadro: “Questa è una pipa”, avrei mentito.”

SALVATOR DALÌ
Artista catalano (1904-1989), come altri surrealisti rappresenta con minuzia ossessiva ogni oggetto
entro spazi conclusi dalla linea d’orizzonte. Come Magritte non inventa forme nuove ma compone
immagini reali, collocandole in posizioni irreali e spesso deformandole innaturalisticamente. Il suo
è un autentico surrealismo, la trascrizione poetica della realtà interiore. Gli oggetti presenti nelle
tele alludono ai segreti dell’inconscio: cassetti da aprire per sondare il profondo della psiche, occhi
scrutatori, stampelle che sorreggono una traballante figura onirica. Rotti i freni inibitori della
coscienza razionale, la sua arte portava in superficie tutte le pulsioni e i desideri inconsci, dando
loro l’immagine di allucinazioni iperrealistiche. In Dalì non esiste limite o senso della misura, così
che la sua sfrenata fantasia, unita ad un virtuosismo tecnico notevole, ne fecero il più intenso ed
eccessivo dei surrealisti al punto che nel 1934 fu espulso dal gruppo dallo stesso Breton. Ciò
tuttavia non scalfì minimamente la produzione artistica di Dalì.
LA PERSISTENZA DELLA MEMORIA

La persistenza della memoria è un dipinto eseguito nel 1931 dall’artista catalano Salvador Dalí. La
scena è ambientata in riva al mare, sulla costa catalana. La spiaggia appare deserta. Non vi sono
presenze umane riconoscibili, se si esclude la strana forma stesa a terra al centro dell’opera, che
riproduce il profilo dell’artista. I protagonisti di questo dipinto sono alcuni orologi molli, che
sembrano fatti di materia fluida. Il primo orologio pende dal
bordo di un volume squadrato appoggiato sul terreno in primo
piano a sinistra. Il secondo è appeso a un ramo d’ulivo che
sorge dal parallelepipedo. Il terzo si adagia sopra una
inquietante sagoma biomorfa, una sorta di figura “cigliata”,
simbolico autoritratto dell’artista. Un quarto orologio, che
diversamente dagli altri è chiuso e mantiene la sua forma
tradizionale, è assalito da un gruppo di formiche brulicanti,
insetti per i quali l’artista nutre una fobia che risale
all’infanzia. Sullo sfondo della tela, si scorgono le scogliere
della costa catalana, dove Dalí trascorre gran parte delle sue estati. Il contrasto tra forme molli e
forme dure è da sempre motivo d’interesse per Dalí. L’artista dichiara di aver realizzato il quadro
dopo una cena a base di camembert. Assopitosi dopo cena, tra sonno e veglia ha concepito
l’immagine degli orologi molli, suggerita alla sua mente dalla consistenza del formaggio che aveva
appena mangiato. Così, ha inserito gli orologi molli nel paesaggio che stava dipingendo in quei
giorni. Ma il dipinto si presta anche ad altre interpretazioni. L’immagine degli orologi che si
sciolgono evoca una riflessione sul tempo. L’orologio, strumento che pretende di misurare il tempo
in modo oggettivo, cede di fronte alla soggettività della percezione, e ai meccanismi incontrollabili
della memoria. Anche per questo motivo, il dipinto è diventato un’icona del Novecento: secolo
iniziato con scoperte come la relatività in fisica e l’inconscio in psicologia, che scardinano le
certezze dell’Ottocento. La persistenza della memoria si trova al Museum of Modern Art di New
York.

ASTRATTISMO
L’astrattismo è una delle più dirompenti correnti artistiche del Novecento poiché capovolse la
millenaria concezione dell’arte come “imitatrice della realtà”. Tuttavia l’astrattismo non è che la
naturale conseguenza di un lungo processo, iniziato nel Romanticismo, che ha negato via via
all’arte il compito di descrivere la realtà esterna per attribuirle quello di esprimere il sentimento
interiore dell’artista. Questo avveniva con l’espressionismo attraverso la proiezione di immagini
interiori con riferimenti al mondo reale, mentre con l’astrattismo si supera quest’ultimo legame e i
sentimenti dell’artista vengono visualizzati
solo attraverso forme, linee e colori.
L’astrattismo ha forti analogie con la
musica, capace Di comunicare sensazioni
nell’ascoltatore senza fare ricorso a
imitazioni naturalistiche. Allo stesso modo
la pittura può servirsi del linguaggio visivo
svincolandosi da ogni riferimento alla
realtà. La parentela tra musica e arte è così
forte che i termini specifici delle due forme
espressive si sono scambiati: si parla di suoni chiari o scuri, di colori squillanti etc. Alcuni musicisti
sono arrivati oltre: Alexandr Skrjabin (1871-1915) ha immaginato una precisa relazione tra suoni e
colori (sensazioni coloristiche musicali) tanto da immaginare un’opera, il “Prometeo, il poema del
fuoco” (1911) per suoni e luci colorate (sinestesie) da eseguire con il “clavier a lumière”.

Kandinskij
Kandinskij è il pittore russo che, fra Ottocento e Novecento, ha aperto la strada alla pittura astratta.
Con i suoi dipinti e con l’attività di teorico e di insegnante al Bauhaus, ha dimostrato come i colori
associati a forme astratte abbiano il potere di suscitare emozioni nello spettatore e facciano
riscoprire, in un’epoca in cui dominano valori materiali, una dimensione spirituale dimenticata.
Nato a Mosca nel 1866, Vasilij V. Kandinskij studia legge e suona il pianoforte e il violoncello. Ma
la sua passione più grande è la pittura, al punto che per dipingere rinuncia alla carriera di professore
universitario. Inventa un nuovo linguaggio artistico, uno stile astratto, solo all’apparenza
disordinato, in cui macchie di colore e linee sono accostate secondo un ritmo musicale. Intitolando
le sue opere come brani musicali (molte le Improvvisazioni o le Composizioni), Kandinskij crede
che gli accordi di colori e forme infondano nell’animo dello spettatore la stessa armonia dei suoni.I
suoi primi dipinti descrivono la Russia come un mondo incantato, una fiaba medievale popolata di
cavalieri, dame e paesi in lontananza. Kandinskij dispone le pennellate sulla tela come tessere di
mosaico, con uno stile che ricorda la pittura fatta di punti di colore degli artisti del pointillisme,
l’ultima fase dell’impressionismo. Accosta colori vivaci come blu e rossi, gialli e viola, descrive i
costumi della tradizione popolare russa, le acconciature delle dame, i tetti e le nuvole, immergendo
ogni scena in un’atmosfera magica. Il colore è il vero protagonista delle tele, poiché l’artista non
disegna i contorni, ma evoca le figure attraverso le pennellate.

il Cavaliere azzurro
Der Blaue Reiter, tradotto in italiano Il cavaliere azzurro è
forse il più importante dipinto di Kandinskij realizzato nei
primi anni del Novecento. L’opera fa ancora parte del
periodo figurativo dell’artista che poi cominciò a sviluppare
il suo stile astratto unendo suoni, colori e pittura. Il dipinto
rappresenta un cavaliere con un mantello blu in sella al suo
bianco destriero, lanciato in una folle corsa attraverso un
prato verde. L’opera non può definirsi astratta perché sono
ancora ben identificabili la figura del cavallo e il paesaggio
che fa da sfondo, ma la pennellata non è precisa e abbiamo
l’impressione di trovarci di fronte a uno schizzo veloce o a
un semplice abbozzo. Questa incompiutezza dell’immagine
permette sicuramente a noi spettatori di proiettare le nostre
fantasie e i nostri pensieri sulla figura rappresentata, consentendoci di fantasticare su chi possa
essere il misterioso cavaliere e su quale sia la sua destinazione. Questo dipinto quindi ci coinvolge e
ci rende un po’ partecipi del processo creativo perché cerchiamo in esso una storia. Si tratta di una
tecnica per catturare l’attenzione di noi spettatori che Kandinskij utilizzò spesso nelle sue opere
successive. Quest’opera è datata 1903 per la precisione e risale al periodo durante il quale l’artista
russo visse a Monaco di Baviera. Quando a una mostra impressionista osserva, senza riconoscerlo,
un pagliaio di grano dipinto da Claude Monet, Kandinskij si rende conto che un quadro può
esprimere intense emozioni anche senza avere un soggetto riconoscibile. A Monaco di Baviera
frequenta circoli di intellettuali, poi si rifugia sulle Alpi Bavaresi, a Murnau, a dipingere le
montagne e le case del paese con una tavolozza di colori accesi e gioiosi come quelli dei pittori
francesi chiamati fauves. I quadri diventano più sintetici, il pittore descrive pochi dettagli e si
concentra sul colore, che inizia a occupare spazi sempre più ampi e autonomi rispetto alle forme. È
il 1910 quando dipinge un acquerello in cui macchie colorate sembrano galleggiare sullo sfondo
chiaro: la strada all’astrattismo è così aperta.Dall’incontro di Kandinskij con il pittore tedesco Franz
Marc e dalle comuni passioni per l’azzurro e per i cavalli nasce il gruppo Der blaue Reiter («Il
cavaliere azzurro»). Insieme realizzano quadri in cui linee e macchie di colore convivono sulla tela
con elementi ancora riconoscibili: campanili, cavalieri, animali, barche. La loro pittura non è
ornamentale, ma è lo strumento per risvegliare la spiritualità in chi osserva, come spiega Kandinskij
nel suo libro Lo spirituale nell’arte (1910).

ASTRATTISMO GEOMETRICO
La pittura astratta geometrica si sviluppa all’interno del movimento artistico del Neoplaticismo,
nato nel 1917 nei Paesi Bassi insieme alla rivista De Stijl. Infatti Il termine neoplasticismo
comparve per la prima volta con la pubblicazione del primo numero della rivista e venne utilizzato
poi da Piet Mondrian e Theo van Doesburg per descrivere il loro modo di dipingere: in modo
astratto, essenziale e geometrico. L’astrattismo geometrico dei neoplaticisti era infatti basato sulla
creazione di forme pure e bidimensionali. I principi dell'astrattismo geometrico sono:
• Abolizione della terza dimensione;
• Indipendenza dai valori emotivi, al contrario di quanto afferma Vasilij Kandinskij, la pittura
non deve esprimere sentimenti;
• I mezzi espressivi sono la linea e il colore;
• La forma ideale è il rettangolo perché in esso la linea è retta senza l'ambiguità della curva;
• Uso dei colori primari: giallo, blu, rosso.
Nell’astrattismo geometrico i punti di riferimento irrinunciabili e protagonisti delle opere dei pittori
che seguono questa corrente sono la matematica e la geometria, intesi come lo studio dei rapporti
numerici e l’indagine delle proporzioni e delle misure tra sagome e colori. I quadri dei pittori
geometrici furono dominati dal rigore e dal controllo estremamente razionale dell’espressione. Vi è
quindi un ritorno all’uso della linea geometrica e a quello dei colori primari, che raccontavano come
la pittura potesse rappresentare astrattamente ciò che l’artista volesse comunicare, senza la necessità
di aggiungere elementi o paesaggi particolari, ma facendo ricorso solo a ciò che è basilare.

IL FUNZIONALISMO (RAZIONALISMO)
In aperta e cosciente polemica con il Romanticismo, l’irrazionalismo dell’Art Nouveau e con le
Accademie, l’architettura razionalista o funzionalista (o anche Movimento Moderno) ha creato
forme la cui determinazione è affidata all’analisi delle funzioni alle quali l’organismo architettonico
o l’oggetto d’uso è destinato e alla scelta delle più idonee tecniche costruttive o industriali,
attraverso l’eliminazione di ogni componente emotiva ed estetizzante e la “purificazione” della
forma da ogni apparato decorativo. Detto in poche parole i razionalisti sostengono che la forma (di
un edificio, di un oggetto) derivi dalla sua funzione e quindi debba rispondere a criteri di
ergonomia, semplificazione e razionalizzazione. Tutto ciò che è aggiunto, decorativo, è superfluo e
dannoso. Il movimento, alla cui formulazione hanno contribuito gli apporti del materialismo storico,
del positivismo e le sollecitazioni della moderna cultura figurativa, dal cubismo al neoplasticismo,
ha raggiunto la sua fase di massima vitalità negli anni tra i due conflitti mondiali, da un lato
nell’opera teorico didattica di Walter Gropius al Bauhaus e nell’attività di Mies van der Rohe,
dall’altro nell’opera teorica e pratica di Le Corbusier, assumendo la fisionomia di una corrente di
importanza internazionale e determinante per gli sviluppi dell’architettura occidentale.

IL BAUHAUS DI GROPIUS
Il Bauhaus (= casa della costruzione) fu fondato nel 1919 a
Weimar, in Germania, da Gropius(1883-1969). Furono
chiamati ad insegnare alcuni degli artisti più significativi del
panorama europeo: Mies van der Rohe, Kandinsky, Klee,
Feininger, Schlemmer, Moholy-Nagy, Albers, Itten, Breuer,
Oud, Van Doesburg, ed altri. Tante personalità costituirono
un clima particolarmente fecondo per la definizione di una
nuova metodologia progettuale. La Bauhaus, infatti, non era
solo una scuola d’architettura, ma anche una scuola d’arte
applicata. In essa si cercava un metodo che consentisse di
arrivare al progetto e al design, tramite una rigorosa analisi
funzionale degli oggetti e degli edifici. Il Bauhaus fu innanzitutto scuola di democrazia, in un
mutato rapporto tra docente e allievo, un rapporto collaborativo e paritetico. Tale impostazione,
sebbene basata essenzialmente sul piano artistico, allarmò i conservatori e nel 1925 il Bauhaus di
Weimar fu chiuso. La municipalità di Dessau si offrì allora di ospitare un nuovo Bauhaus e Gropius
progettò e costruì quell’edificio che ne divenne la sede fino al 1931, realizzando sicuramente il più
significativo progetto della sua carriera, in una sintesi funzionale che interessò tutta l’architettura
successiva. Ma il nazismo stava ormai conquistando la Germania. Il 30 gennaio 1933 Hitler saliva
al potere e nel luglio dello stesso anno il LBauhaus, accusato di essere un “covo del bolscevismo” e
privato dei fondi, fu costretto a chiudere definitivamente. L’edificio può essere considerato una
realizzazione programmatica, nel senso che In esso possono essere rintracciati tutti gli elementi
teorici che Gropius considerava di fondamentale importanza per l’avvio di una nuova era per
l’architettura. Il complesso è concepito sulla base dell’individuazione delle diverse funzioni
attraverso la suddivisione dell’edificio in volumi articolati tra loro e i differenti trattamenti dei
volumi con destinazioni d’uso diverse. La mutevole combinazione di materiali - cemento armato
per la struttura, mattoni per il tamponamento, intonaco bianco per le finiture esterne, telai in ferro
per le superfici trasparenti - genera di volta in volta un differente rapporto tra pieni e vuoti
dichiarando la destinazione dei singoli blocchi. L’edificio è privo di “facciata”, ha una pianta a
doppia L nella quale nessuna parte è più importante delle altre: ogni lato è un nuovo prospetto ma
non esiste più il concetto di facciata principale. È una constatazione di grande importanza perché
qualunque edificio precedente, a qualunque epoca appartenga, ha sempre posseduto una “facciata”;
nel Bauhaus, invece, tale gerarchia non esiste più: la forma segue la funzione. Un altro aspetto
importante è la grande trasparenza, per via delle vaste superfici vetrate: funzionali all’illuminazione
dei locali ma anche simboleggianti una fluidità esterno-interno, una società trasparente e
democratica.

LE CORBUSIER
Il Razionalismo in Francia trova la sua massima espressione nelle opere di Le Corbusier
(pseudonimo di Charles-Eduard Jeanneret, 1887-1965), architetto, urbanista, scultore, pittore e
teorico dell’architettura. Conscio della necessità di ripensare la città contemporanea per la nuova
civiltà industriale Le Corbusier elabora grandi progetti urbanistici sia teorici che concreti. Per Parigi
immagina una precisa zonizzazione della città: come una grande macchina ogni parte ha la sua
funzione e le attività si concentrano in grattacieli cruciformi immersi nel verde. Per Le Corbusier la
casa è una “macchina per abitare” e nell’operazione di razionalizzazione dell’edificio abitativo
elenca i famosi 5 punti:
1) Pilotis - la casa deve essere sollevata dal terreno su piloni in cemento armato
2) Tetto-giardino - con il cemento armato il tetto diventa piano e la sua coibentazione è
assicurata
1. dalla vegetazione piantumata su di esso.
3) Pianta libera - i muri non sono più portanti e possono essere disposti liberamente.
4) Facciata libera - per lo stesso motivo la facciata può essere aggettante rispetto alla struttura.
5) Finestre a nastro - la facciata può essere interamente attraversata da una finestratura
orizzontale che illumina gli interni e li collega agli esterni.
Questi canoni esposti da Le Corbusier verranno applicati in una delle sue più celebri realizzazioni,
la Villa Savoye a Poissy (1929), vicino Parigi

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