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Storia del Design - De Fusco

Design
Università degli Studi di Roma La Sapienza
23 pag.

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IL DESIGN DELL’ARTIGIANATO
L’VIII mostra della secessione si aprì il 4 novembre del 1900, e vide riunirsi i più importanti
artisti dell’opposizione antiaccademica europea, alcune sale erano allestite da mobili disegnati
da Joseph Hoffman architetto e promotore della mostra. Erano mobili dalle linee semplici e
pulite, realizzate con asticelle di legno incastrate a vista. L’ambiente era dominato dal
bianco ,colore che fa risaltare l’originalità dei mobili scuri inseriti nei pannelli geometrici delle
pareti. Degli arredi si è invertito il ruolo: i mobili si ritirano ai confini x diradare lo spazio
mentre un portafiori, oggetto tradizionalmente destinato a svolgere funzione di soprammobile
occupa il centro della stanza.

Il gusto per la semplicità e il geometrismo intanto circolava già a Vienna attraverso vari canali
tra cui: la svolta impressa al linguaggio figurativo astratto-geometrica di Gustav Klimt, le
suggestioni dell’arte bizantina di città come Ravenna e Venezia, l’innovazione del metodo
d’insegnamento accademico promosso da Wagner. Altri impulsi verso la semplicità provenivano
poi dall’architettura d’arredamento inglese, conosciuta attraverso le pagine della rivista “The
Studio”.

Come se ciò non bastasse, Adolf Loos aveva intrapreso una vera e propria crociata volta a far
conoscere la semplicità, l’eleganza e la funzionalità, il titolo del suo più celebre scritto
“Ornamento e delitto” era nato probabilmente dalla conoscenza dei mobili degli Shaker per i
quali l’ornamento era sicuramente peccato. Seguendo tale linea di gusto, Loos avrebbe
progettato interni ricercatamente spogli, tra cui il negozio di moda x uomo Goldman&Salatsch
e il Cafè Museum.

A Glasgow, Mackintosh si era fatto conoscere fin dal 1986 per la sua partecipazione
all’esposizione della Art and Crafts di Londra con quello che sarà riconosciuto il suo capolavoro,
la Scuola d’arte di Renfrew Street. Tuttavia il successo arriverà soprattutto all’estero in una
serie di fortunali appuntamenti espositivi fra cui la Biennale di Venezia, l’VIII mostra della
Secessione, e l’esposizione internazionale delle arti decorative di Torino. Mackintosh affretta la
nascita di quella tipica versione viennese dell’Art Nouveau viennese, nota come “stile
secessione”.

Una delle prime conseguenze della svolta linguistica viennese non si verifica in Austria bensì in
Germania. Nel 1899, il principe Von Hessen per risollevare le sorti economiche del suo
Granducato, aveva progettato la creazione di una sorta di villaggio avrebbero vissuto e
lavorato artisti e artigiani intenti a realizzare oggetti di alta qualità in una mostra
perennemente esposta al pubblico.

Joseph Maria Olbrich era uno dei sette artisti chiamati a realizzare l’iniziativa ma in breve ne
divenne il regista assoluto. Dal manifesto che raffigura il palazzo espositivo appariva quanto
mai evidente che per Olbrich i riflessi dorati della cupola della casa della secessione, e i motivi
floreali della Majolikahause appartenevano a un universo estetico ormai superato.
Allontanandosi sempre di più dal decorativismo dell’art Nouveau egli elaborava ormai in
architettura, interni e oggetti la lezione di geometrismo appresa a Vienna.

1903-1932 La Wiener Werkstatte


Come abbiamo detto L’VIII mostra della secessione era stata promossa da Hoffman, l’obiettivo
di questa esposizione era avvicinare gli artisti e gli artigiani, ovvero il tavolo da disegno e i
laboratori, eppure l’ampia collaborazione che Hoffman auspicava tra progettisti e manifatture
viennesi era ancora molto lontana da venire, e fu l’insoddisfazione per questo stato di cose che
fece maturare in lui l’idea di creare dei laboratori in proprio.

Il 9 giugno 1903 viene fondata quindi la Wiener Wekstatte che tra varie vicende resterà attiva
per circa trent’anni inseguendo il difficile miraggio dell’arte totale. Gli oggetti prodotti
raggiunsero presto altissimi livelli di diffusione grazie anche a un’attenta azione promozionale,
le sedie del Cabaret Fledermaus e alcuni arredi del sanatorio di Purkersdorf come la celebre

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sedia a dondolo sono solo alcuni dei più noti pezzi usciti dai laboratori del mobile della Wiener
Werkstatte.

Con Palazzo Stoclet, Hoffman realizza il più completo progetto di arte totale. La sala da pranzo
prende a modello quella disegnata da Mackintosh per la Casa di un amatore d’arte, marmi a
scacchi bianchi e neri formavano il pavimento, mentre sulle pareti Klimt realizza uno
straordinario mosaico con pietre preziose, oro e perle. Per esprimersi al meglio Hoffman aveva
bisogno di clienti facoltosi e disposti a non badare a spese, ma nonostante gli altissimi livelli di
diffusione e l’attenta azione promozionale, vi furono momenti difficili, in particolare durante e
dopo la prima guerra mondiale, e fu così che nel pieno della sua espansione nel 1932 la Wiener
Werkstatte fu costretta a chiudere.

Edoardo Persico imputò la sconfitta non tanto alla crisi del 1929, quanto piuttosto al fatto di
essere un organo che non era mai riuscito a produrre cose generalmente utili, “cose utili prima
che belle” mentre forse sarebbe stato il caso di chiedersi il perché di un successo tanto
duraturo. A tale domanda possiamo trovare una risposta considerando che il pezzo unico,
l’artigianato e “quel qualcosa in più”(magari l’ornamento) che diversifica un prodotto da un
altro malgrado le tante battaglie x affermare la serialità, hanno invece continuato ad
affascinare il pubblico.

IL DESIGN DELL’INDUSTRIA
Il fordismo a Detroit
Poco dopo l’Esposizione Universale di Londra del 1851 l’Inghilterra vittoriana avrebbe
riconosciuto la necessità di accendere un dibattito sulla riforma delle arti applicate, che
avrebbe imboccato due strade: quello del rifiuto della macchina avanzato da Ruskin e Morris
che si schierava a favore dell’artigianato, e quello del consenso verso la macchina avanzato da
Henry Cole.

Intanto gli Stati Uniti avrebbero assunto il ruolo guida dell’era della “meccanizzazione”, infatti
a differenza degli stati europei gli Stati Uniti fin dall’inizio, aveva meccanizzato attività più
complesse grazie all’introduzione della catena di montaggio, che nasce tra il 1860 e 1880
nell’industria conserviera. L’ulteriore passo in avanti per l’ottimizzazione del lavoro fu la teoria
dell’organizzazione scientifica dell’industria di Frederick Taylor , secondo la quale nel
procedimento produttivo andavano eliminati i tempi morti e le operazioni lente tramite
interventi mirati e rapidi.

Il problema dell’organizzazione scientifica del lavoro in realtà era già stato posto negli Stati
Uniti alla fine degli anni sessanta dell’Ottocento, e pensando all’ambiente domestico piuttosto
che alla fabbrica, l’emancipazione della donna dalla schiavitù dei lavori domestici infatti era
stata avviata dalle sorelle Beecher. Coniugando le esigenze pratiche dell’economia domestica
con i temi della parità dei sessi, il loro libro prendeva in considerazione la nascita di un nuovo
tipo di abitazione, più piccola e perciò più pratica da gestire.

In tale ambito, la cucina aveva un ruolo fondamentale. Limitando gli sprechi, le sorelle
Beecher proposero un più razionale sfruttamento dello spazio e del tempo destinando precise
zone a precise funzioni, in pratica era nata la prima idea di cucina “all’americana”. Il lavoro
femminile negli Stati Uniti era stato alleggerito inoltre dalle macchine per cucire, ferri da stiro,
nonché da lavatrici e aspirapolvere. Cominciavano ad apparire anche gli elettrodomestici da
salotto: il telefono di Bell, il fonografo a cilindro di Edison. Le case degli americani
quindi ,specialmente quelle del ceto medio, si andavano affollando di nuove invenzioni
meccaniche x il comfort.

Nelle strade intanto, nuovi mezzi di trasporto meccanici avevano sostituito le carrozze, il tram
e l’automobile elettrica avevano fatto il loro ingresso negli Stati Uniti rispettivamente nel 1884
e nel 1892, quest’ultima raggiunse lo stato di prodotto accessibile alla massa solo nel 1903,

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quando Henry Ford fonda a Detroit la Ford Motor Company. Si trattò di un evento che attraverso
la vendita e il consumo, favorì la nascita del primo vero e proprio “oggetto del desiderio”
dell’uomo del XX secolo.

Ford era convinto che se un articolo è ben studiato, i cambiamenti saranno molto rari e che si
verificheranno solo nelle grosse parti di giunzione, e che ogni buona automobile dovrebbe
durare quanto un buon orologio. Su questi pochi ma chiari principi, dunque, concepisce l’idea di
produrre un modello “universale”, concretizzandolo nella Ford T, un’utilitaria ridotta agli
elementi essenziali ma comunque solida e comoda.

Introdotta nel 1913, la catena di montaggio delle officine Ford passò attraverso successivi stadi
sempre più perfezionanti, si passò quindi dal montaggio di un solo esemplare all’assemblaggio
di tutta una serie di vetture. In questo modo in soli due anni ,il tempo di montaggio di una Ford
T divenne di un’ora e mezza x vettura, permettendo di produrre un milione di pezzi all’anno. Il
governo per far circolare la piccola utilitaria, che ormai aveva conquistato tutti i ceti, fu spinto
ad ampliare l rete stradale nazionale con la costruzione di nuove autostrade.

Le vendite del modello T, rimasto in produzione dal 1908 al 1927, procedevano al ritmo di più
di un milione di esemplari l’anno, circa tre volte di più rispetto alla Chevrolet prodotta dalla
General Motor, la diretta rivale della Ford. Fu così che tra le due case si ingaggiò una gara per
superare gli incassi. Ford lancia sul mercato la più raffinata Ford A, primo esemplare di una
serie di modelli rinnovati ogni anno nello stile e nella forma.

Di lì a poco questo atteggiamento sarebbe diventato l’espediente adottato dallo Styling per
superare la crisi del 1929 se è vero come sostiene Maldonado che:” mentre prima della crisi
l’industria americana risulta prevalentemente orientata verso una politica di pochi modelli per
una lunga durata, dopo la crisi si orienta verso una politica di molti modelli per una breve
durata”. Questa politica si è dimostrata vincente e lungimirante, e potremmo pensare che sia
stato perdente il primo atteggiamento di Ford, ma non è così perché il fordismo fu vincente nel
momento storico in cui si presentò e tenne testa alla concorrenza incarnando i principi basilari
del design moderno.

Il Deutsher Werkbund a Monaco


All’Esposizione Universale di Londra del 1851 a eccezione dei cannoni di acciaio della Krupp e
delle porcellane , i prodotti tedeschi non erano stati degni di attirare l’attenzione dei visitatori,
ed anche all’Esposizione di Filadelfia del 1876 la produzione tedesca si distingue ancora x le
funeste macchine da guerra della Krupp mentre il resto della produzione industriale procede
all’insegna del buon prezzo e cattiva qualità. Gli Stati Uniti appaiono ormai come i detentori
della supremazia nel campo della fabbricazione di macchinari e prodotti industriali.

Prima che i problemi legati al passaggio dall’artigianato all’industria maturassero nel Werkbund
verso la metà dell’Ottocento l’ebanista prussiano Michael Thonet aveva avuta una precoce
intuizione del design moderno. Egli arriva all’idea di restituire flessibilità al legno
umidificandolo con il vapore acqueo, di conferirgli la curvature in forme di metallo e infine di
renderlo di nuovo rigido essiccandolo nei forni. Ottenuto il brevetto x tale procedimento nel
1841, Thonet organizza un processo produttivo basato sulla divisione del lavoro, dando così
avvio a una lavorazione in serie. Mobili dalle linee sinuose, anticipazioni della morfologia
dell’Art Nouveau, vengono esposti alla fiera di Coblenza dove riscuotono l’ammirazione del
principe Metternich che invita il loro autore a trasferirsi in Austria, questa circostanza
determina il salto di qualità di Thonet.

La produzione di quest’ultimo abbraccia ogni tipo di mobili, ma viene ricordata specialmente


per la cosiddetta “sedia di Vienna”. Thonet realizza decine e decine di modelli di sedie che
sono tutte in sostanza ispirate al modello più intelligente e moderno scaturito dalla sua mente:
la sedia n. 14; nata nel 1859 questa sedia si componeva di sole sei parti assemblabili con dieci
viti : facile da smontare imballare e trasportare. Grazie a tali caratteristiche e a una rete di
punti vendita, l sedia n.14 invase l’Europa e l’America.

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In Germania alla fine degli anni novanta compare lo Jugendstil, versione tedesca dell’Art
Nouveau ,quest’ultimo fu importato dagli stranieri tra cui Olbrich e Van De Velde. Grazie al
successo riscosso dai suoi mobili all’esposizione di Dresda del 1897, Van De Velde si stabilisce
in Germania. Di lì a poco la sua posizione teorico-formale darà corpo a una delle due anime del
Werkbund: quella volta a potenziare la creatività artistica e l’artigianato.

Nell’ottobre del 1907 a Monaco di Baviera viene fondato il Deutsher Werkbund, associazione di
artisti, artigiani e industriali accomunati dall’obiettivo di migliorare la produzione industriale.
Hermann Mutheius viene ritenuto uno dei principali fautori della nascita dell’associazione. Nel
1907 nella scuola superiore di commercio di Berlino, Mutheius aveva tenuto una conferenza sul
tema dell’importanza delle arti applicate che va considerata come la più diretta premessa della
fondazione del Werkbund. Accomunati dal consenso verso gli stessi valori, aderirono a
quest’associazione personaggi di diversa provenienza: politici, industriali e architetti tra i quali
Olbrich, Hoffman e Behrens.

Il Werkbund eseguirà una selezione delle forze migliori nell’arte, nell’industria, e


nell’artigianato. Esso rappresenta il centro di raccolta per tutti coloro che sono disposti e capaci
a svolgere un lavoro di qualità. Ben presto l’attività del Deutsher Werkbund comincia a
esercitare la sua influenza sull’Europa intera: nel 1910 viene fondato il Werkbund austriaco; nel
1913 quello svizzero e nel 1915 in Inghilterra nasce la Design and Industries Association, con
scopi analoghi all’assaciazione tedesca.

Il momento più alto del dibattito culturale animato dal Werkbund fu quello della controversia
sollevata all’esposizione di Colonia del 1914 dove si confrontarono Van De Velde difensore
della libera creatività, e di Mutheius convinto sostenitore della tipizzazione. In definitiva
quest’associazione fu destinata a diventare la più importante interprete dell’oggettività,
conseguenza necessaria e inevitabile di qualsiasi processo di industrializzazione.

1907. l’AEG a Berlino


Nel 1881 l’industriale tedesco Emile Rathenau visita l’esposizione internazionale di elettricità di
Parigi e intuisce le prospettive economiche offerte da questo settore ancora vergine, così si
assicura l’esclusiva del brevetto di Thomas Alva Edison che ne aveva messo a punto una delle
versioni più perfezionate. Rathenau fonda dapprima nel 1882 a Berlino una società di ricerca
sperimentale per il settore elettronico per poi impiantare l’anno successivo la Deg piccola
fabbrica specializzata nella produzione di lampadine. Incoraggiato dalla crescente domanda di
mercato amplia il settore produttivo e la Deg si trasforma nella Aeg con obiettivi di ampio
raggio.

Agli inizi del Novecento, L’aeg è una delle fabbriche più progredite del paese, ciononostante si
trova a dover fronteggiare un’acuta crisi concorrenziale dovuto all’alto livello tecnologico
raggiunto dalle industrie nazionali e straniere. In tale clima Peter Behrens viene convocato
dall’Aeg per organizzare un azione promozionale di nuovo tipo, consigliandogli di avvalersi
dell’estetica coma arma concorrenziale, ovvero di portare l’arte alla tecnica. Behrens era
certamente la persona giusta per accogliere e concretizzare questo suggerimento, e fondendo
quindi il miraggio dell’arte totale con l’aspirazione a un’armonia totale, egli riorganizza
l’immagine dell’Aeg passando dalla grafica pubblicitaria al disegno dei prodotti. Il suo
contributo rappresenta la più riuscita applicazione dei principi del Werkbund, realizza la
tipizzazione invocata da Mutheius, traduce in forme nuove prodotti totalmente industriali e
colloca per la prima volta la Germania alla guida della produzione industriale.

IL DESIGN DELL’AVANGUARDIA FIGURATIVA


Il Cubismo Cecoslovacco
I primi anni del novecento sono interessati da due fenomeni: l’industrializzazione che preme
con i suoi progressi tecnologici, e il design che è uno degli indicatori più sensibili del

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cambiamento, perché mostra come il mondo della macchina e non più quello della natura stia
diventando il nuovo referente.

Ogni avanguardia figurativa si qualifica scegliendo i propri temi: il Cubismo elabora una nuova
plastica formale, il Futurismo esalta la velocità , l’Astrattismo si impegna a tradurre la
musicalità in colore e il Dadaismo cerca di sbalordire con atteggiamenti ironici e dissacratori. Il
cubismo è il movimento che più ha influito sul design, spazzando via secoli di simmetria e
regolarità. Proprio agli inizi del 900 infatti, il clima culturale dei paesi centrorientali subisce
delle significative modificazioni. Tra gli artisti in grado di operare questa trasformazione della
mappa artistica europea va ricordato Josip Plecnik che fu uno dei più importanti protagonisti di
quella stagione artistica.

Il cubismo viene accolto e sviluppato a Praga nel 1910 dal gruppo degli artisti figurativi. Per
offrire una concreta prassi dell’arredo cubista, nel 1912 Pavel Janak fonda le Officine Artistiche
Praghesi; finalità delle Pud era la creazione di interni moderni arredati con mobili artistici la cui
espressione attingeva al Cubismo di Picasso, il gruppo praghese tuttavia fondava le sue teorie
anche sull’affermazione della supremazia dello spirito sulla materia e sull’accentuazione della
forma come principio creatore. Infatti secondo quanto esposto da Pavel Janak in Prisma e
Piramide i membri delle Pud, accentuando gli aspetti formali più che la funzionalità ,
progettano mobili dai quali vengono bandite le linee rette e le composizioni simmetriche.

La continuità della linea formale praghese venne infranta dall’invasione nazista, a cui seguì la
lunga occupazione sovietica durante la quale il design si limitò a una produzione utile ma non
certo esaltante. È solo con la caduta del muro che il design ha potuto riprendere il discorso
interrotto. Una delle prime iniziative della nuova realtà politica fu quella di richiamare in patria
intellettuali e personalità creative emigrate o espulse dal paese x dissapori con il vecchio
regime, fra questi Borek Sipeck, il quale diventa l’iniziatore di una nuova fase del design ceco
che riprende e aggiorna antichi temi.

1915. La ricostruzione futurista dell’universo

Il futurismo, principale compagno di strada del cubismo esprime con atteggiamenti provocatori
il culto della velocità, del moderno, appunto del futuro. Nel 1909 il Manifesto redatto da
Marinetti fissa gli aspetti generali del movimento, mentre il Manifesto dell’architettura futurista
viene redatto nel 1914 come rielaborazione di un precedente documento di Sant’Elia.
L’architettura futurista stando al manifesto di quest’ultimo traduceva le istanze del movimento
puntando sugli effetti di negazione e critica. Forme architettoniche dalle accentuate linee
dinamiche venivano esaltate dal movimento degli ascensori, dallo sfrecciare dei treni e dalle
strutture ardite dei ponti.

L’11 maggio 1915 Giacomo Balla e Fortunato Depero pubblicano La ricostruzione futurista
dell’universo , manifesto con il quale si impegnano a estendere anche il settore delle arti
applicate le istanze dell’avanguardia figurativa. Balla e Depero, dichiaravano di voler
trasformare l’ambiente umano rintracciando gli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli
elementi dell’universo per ricrearli insieme secondo la loro ispirazione.

I mobili creati da Balla soddisfacevano soprattutto l’aspetto ludico presente nell’idea di arredo
futurista, mentre invece gli oggetti disegnati da Depero si caratterizzavano per una spiccata
attenzione alla semplicità e alla tecnica artigianale.

Nel 1919 venne aperta a Rovereto la Casa d’arte futurista Depero con lo scopo di promuovere
contatti con l’avanguardia internazionale e ospitare esposizioni d’arte. All’inizio l’artista vi
produsse solo cuscini per i salotti borghesi, più tardi prese a creare anche giocattolo in legno e
mobili dalle strutture dinamiche e vivacemente colorate.

Sul tema del mobile e dell’ambientazione un posto a parte spetta poi a Cangiullo, egli
proponeva di ispirare la progettazione dei mobili agli enunciati dei manifesti marinettiani
Tavole parolibere e Alfabeto a sorpresa. Cangiullo definiva i suoi mobili “parlanti e allegri”.
Oltre a Rovereto, poi anche a Roma e Torino furono altri importanti centri della poetica
neofuturista. A Torino Fillia e Bracci nel 1923 fondano il movimento futurista torinese, mentre

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nella capitale Ivo Pannaggi e Vinicio Paladini redigono, nel 1922 il manifesto futurista della arte
meccanica, i cui principi verranno applicati in interni caratterizzati da forme geometriche
regolare unite al dinamismo tipico della corrente futurista.

1917. De Stijl: dal quadro al mobile


In Olanda il rinnovamento artistico inizia nel 1917 con il neoplasticismo, tale tendenza derivata
x via diretta dal cubismo mira al raggiungimento di un’arte che sia universalmente oggettiva,
utilitaria, astratta ed essenziale: la composizione neoplastica rifiutando il referente
naturalistico, si serve unicamente di forme geometriche e pura fantasia.

Le principali tesi del movimento sono basate sulla lotta all’individualismo e sul rifiuto del
mimetismo: di qui l’uso dell’angolo retto e dei colori primari che nella loro qualità di elementi
obiettivi per eccellenza, servono a sopprimere ogni slancio creativo individuale, infine un altro
punto importante della poetica neoplastica è l’aspirazione all’unità fra pittura, scultura,
architettura e design.

Il design venne a far parte del nuovo spirito figurativo grazie al contributo dell’ebanista e
architetto Thomas Rietveld il cui merito fu quello di far diventare la sua sedia rosso-blu una
sorta di manifesto del neoplasticismo. I principi vi erano applicati tutti: scomposizione del
volume in piani, adozione di equilibri dinamici, e impiego di angoli reotti.

Realizzata inizialmente in edizione monocroma, nel 1923 la sedia avrebbe esibito anche i colori
che l’hanno resa famosa: giallo, rosso e blu, ovvero i colori primari associata al nero che
insieme al bianco venne definito dai neoplastici un non colore. Tali colori con la loro artificialità
avrebbero coperto le venature del legno eliminando ogni riferimento naturalistico.

Dei mobili di Rietveld si è detto più volte che fossero scomodi e raccoglievano polvere, tuttavia
i poche arredi neoplastici continuano ad affascinarci perché tentano l’impresa di collegare
l’utile all’artistico, un’impresa che verrà ricordata tra gli eventi fondanti del moderno
specialmente grazie alle ripercussione sul programma del Bauhaus.

IL DESIGN TRA PEDAGOGIA E IDEOLOGIA


All’indomani del primo conflitto mondiale la Repubblica di Weimar manifesta prima del principio
tanto l’instabilità politica, quanto il vitalismo degli eventi culturali che l’avrebbero
accompagnata.

Nel 1919 Walter Gropius succedendo ad Henry Van de Velde nella direzione della scuola di
artigianato artistico di Weimar, unifica con questa scuola, a carattere artigianale, con
l’Accademia delle belle arti dando vita al Bauhaus. L’operazione didattica avviene all’insegna di
tre parole: integrazione, collaborazione e coordinamento. L’integrazione va intesa come
equilibrio tra pensiero e azione, tra le esigenze della manualità e quelle dell’artisticità.

Quanto alla collaborazione, fra artisti e artigiani era certamente una pratica di antica data, a
cui il Bauhaus aggiungeva la novità di un metodo didattico bipolare. Gropius era dell’avviso che
bisogna apprendere sotto la guida di due insegnanti diversi, poiché gli artigiani non avevano
sufficiente fantasia, mentre gli artisti non possedevano una sufficiente preparazione tecnica.
Infine il coordinamento s’intendeva la coordinazione di forma e tecnica: muovere
dall’osservazione del processo tecnico per dedurre la forma più idonea nel prodotto.

I primi collaboratori di Gropius furono il pittore Johannes Itten e lo scultore Gerard Marcks. Lo
svizzero Itten, cui si deve l’idea del corso propedeutico, fu certamente la figura più complessa
e carismatica del Bauhaus di Weimar, fra i suoi insegnamenti vi era la sensibilizzazione nei
riguardi di ogni genere di contrasto (ruvido-liscio, duro-morbido, chiaro-scuro). Per la prima
volta, contrariamente a quanto avveniva nelle altre scuole, gli allievi non erano costretti a

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riprodurre fedelmente dei modelli, ma sotto la guida di Itten, venivano spronati a cogliere i
principi fondamentali delle formi e dei colori e a trasferirli nella composizione artistica.

Il Bauhaus superò la fase espressionista grazie a Theo Van Doesburg, che avendo avuto
un’impressione molto positiva da una visita al Bauhaus, nel 1920, nell’anno successivo decise
di trasferirsi a Weimar. Qui da vita ad un corso privato impostato sui principi di De Stijl.

L’influsso del movimento neoplastico non tardi a farsi sentire nella scuola di Gropius,
imprimendo una forte spinta alla produzione degli oggetti, depurati da qualsiasi pathos
soggettivo, la svolta impressa da De Stijl coincise quindi anche con il diverso orientamento
produttivo dato da Gropius ai laboratori, grazie infatti, alla nuova organizzazione produttiva, nei
laboratori vennero studiati prototipi di oggetti tipo da rivendere alle industrie, mentre una
società a responsabilità limitata si occupava della commercializzazione.

Nel 1924 i prodotti delle officine, vennero esposti alla fiera di Lipsia, ma già un anno prima era
stata allestita una mostra destinata a fornire al pubblico, un nuovo modello abitativo, tra gli
arredi particolare interesse destavano le sedie della camera da pranzo, l’armadio per il
soggiorno e la toilette nella camera della padrona di casa, con specchi rotanti e piano
scorrevole, l’elemento più significativo era tuttavia l’armadio per i giocattoli nella camera dei
bambini progettato da Alma Busher, i bambini ne potevano smontare gli elementi per usarli
come sgabelli e tavoli. Erano tutti mobili con palesi riferimenti all’estetica e al neoclassicismo.

All’indomani dell’elezione del 1924, Gropius dati i contrasti con il nuovo governo, pensò a un
trasferimento a Dessau, molti degli allievi formatosi a Weimar, essendo ormai in grado di
assolvere sia i compiti artistici che tecnici, assunsero essi stessi la direzione di alcuni
laboratori. Il caso più rilevante fu quello di Marcel Breuer, che innovò al tal punto l’officina di
falegnameria da farle meritare il nuovo appellativo di “officina del mobile”. Le forme progettate
da questi tendevano a realizzarsi non più in legno, tradizionalmente legato alla pratica
artigianale bensì in metallo.

Nel 1925 progetta e mette in produzione la poltrona B3 usando tubi nichelati e trafilati a
freddo, alla prima versione della B3 fece seguito il più innovativo modello a sbalzo con la
struttura del sedile dello schienale e dei sostegni formata da un unico tubolare metallico
curvato. Le sedie di Breuer, nel 1926 arredarono l’aula magna del Bauhaus di Dessau mentre la
famosa Barcellona in fascia di acciaio cromato arredò il padiglione tedesco all’esposizione di
Barcellona del 1929.

Con gli arredi in tubolare metallico si chiudeva il circolo formato dai tre più innovativi esempi di
mobili moderni: quelli di Thonet, partendo un’invenzione tecnologica avevano dato avvio a una
produzione di massa, quelli di Rietveld avevano puntato su una componente figurativa, capace
di anticipare di parecchi decenni l’attuale design d’artista. Le nuove “macchine per sedere”
non hanno né venature né colori e le loro superfici lucide, riflettono i colori e le luci
dell’ambiente circostante. Nei laboratori dei metalli, intanto, venivano creati anche apparecchi
per l’illuminazione, in particolare Marianne Brandt progettò la lampada da soffitto a globo,
quella a parete con braccio orientabile, e quella saliscendi.

La crisi prevalentemente finanziaria del 1928 portò alle dimissioni di Gropius, se questi aveva
volutamente evitato i legami con il mondo politico, Hannes Meyer che lo sostituì ne fece invece
il perno e il sostegno. Egli puntava in particolare alla sociologia, all’economia e alla psicologia,
infatti, riorganizza le officine del Bauhaus per produrre oggetti il cui design rispondesse a
esigenze unicamente funzionali. Alla lunga però le sue posizioni politiche benché condivise da
molti docenti e studenti, lo costrinsero alle dimissioni. Alla direzione del Bauhaus gli succedette
Mies van de Rohe, che sospende l’impegno sociale per trasformare il Bauhaus in una scuola di
architettura pura, cui erano semplicemente annessi alcuni laboratori. Ma in tutti i casi questa
scuola aveva ormai esaurito la propria spinta innovativa e l’istituto venne definitivamente
chiuso nel 1933 dalle autorità naziste.

All’indomani della rivoluzione di Ottobre le avanguardie artistiche si assumono il compito di dar


vita ad un arte libera, rivoluzionaria e socialista. Ma, come era già avvenuto per tutte le riforme
artistiche dell’Ottocento anche questa volta si profila la difficoltà di risolvere il vecchio

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contrasto fra arte pura e applicata, ovvero tra i valori dell’accademia e quelli dell’ingegneria. Il
tentativo di superare e integrare tra loro queste due culture è la spinta che porta nel 1920 alla
fondazione del Vchutemas.

Quella del Vchutemas, fu senz’altro una grande esperienza didattica fondata su tre innovazioni:
l’introduzione di una sezione di insegnamento preliminare, l’abolizione della pratica
accademica della copia del vero, lo studio delle leggi della percezione e degli elementi della
composizione artistica. Nei primi anni di vita del Vchutemas sono le facoltà artistiche ad
attirare il maggior numero di studenti, mentre dalla metà degli anni ‘20 in poi la facoltà di
Architettura e le cosiddette facoltà di produzione acquistano un peso crescente.

Il confronto tra la riforma artistica sovietica e la struttura didattica del Bauhaus è d’obbligo:
l’Unione Sovietica guardava all’Occidente come al modello di un mondo tecnologicamente più
avanzato, mentre il Bauhaus considerava la rivoluzione d’Ottobre il trampolino di lancio per la
nascita di un’arte al servizio del proletariato. Un confronto tra Bauhaus e Vchutemas può
risultare rivelatore non tanto della fondatezza di un presunto primato culturale quanto della
vocazione didattica del costruttivismo contrapposto all’atteggiamento sperimentale del
razionalismo gropusiano. Il design razionale-funzionalista del Bauhaus aveva infatti puntato sul
miraggio di una nuova proposta didattica completamente riformata e sulla speranza di una
nuova società di uguali.

Infine il tema dell’utilità sociale del prodotto troverà un’ulteriore formulazione nella Germania
del dopoguerra grazie alla HFG. L’istituto entra in funzione nel 1955 in memoria dei fratelli e
Hans e Sophie uccisi dai nazisti nel 1943. Progettista e primo direttore è l’architetto svizzero
Max Bill, ex allievo del Bauhaus.

Non mancheranno neanche in questa ulteriore riproduzione del Bauhaus le polemiche e le


discordie che avevano già caratterizzato il modello di riferimento, infatti i contrasti
sull’impostazione della didattica porteranno Bill a dimettersi dalla carica di direttore nel 1956.
Le innovazione riguarderanno in primo luogo una graduale trasformazione del corso inziale
comune a tutti i rami di specializzazione in un altro che fosse capace di orientare fin dal
principio verso i diversi tipi di laboratori e officine, un’ulteriore innovazione sarà l’introduzione
di discipline nuove (cibernetica, teoria dell’informazione, semiotica ed ecc.) rispetto a quelle
tradizionalmente tecniche del Bauhaus. Infine connessa a queste innovazioni è la divisione
della scuola in due grandi filoni: quella della progettazione dei prodotti e quella della
comunicazione.

Il rapporto di collaborazione instituito con la grande industria divenne il tavolo sul quale si
giocò il destino del HFG, infatti in una Germania che organizzava la sua ricostruzione sul
modello produttivistico americano, l’orientamento ideologico di sinistra della scuola appariva
anacronistico. Ciò che l’industria tedesca voleva da questo istituto non era molto diverso da
quanto aveva preteso quattro decenni prima dal Bauhaus: contribuire a creare un alibi
culturale al programma produttivistico, dal momento che questa scuola se ne rese conto e
adottò un atteggiamento di rinuncia e rivolta il suo destino fu segnato.

Vi è l’esistenza di una profonda analogia tra le caratteristiche e vicende dei tre istituti:
Bauhaus, Vcuthemas e HFG esse si sono situate nel punto d’incontro tra pensiero e azione, tra
profitto individuale e interesse pubblico, sono state scuole in continue movimento e siccome
non cessavano di trasformarsi non era mai chiaro cosa fossero e ne cosa volessero, non più
scuole decorative, ne istituti tecnici, ne accademie delle belle arti, esse apparivano impossibili
da inquadrarsi. Ciò spiega perché ci si ostinava tanto su due punti: che queste scuole anormali
fossero annesse a degli organismi già esistenti oppure che fossero semplicemente chiuse per
evitare qualsiasi doppione.

IL DESIGN TRA NOSTALGIA E MODERNISMO

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La Francia, pur essendo la più progressista delle nazioni europee ha sempre stranamente
esitato ad accogliere le tendenze venute dall’estero. Non deve quindi meravigliare che la
parigina Esposizione Internazionale delle Arti Decorative e Industriali Moderne del 1925, abbia
sottolineato ancora una volta il ritorno del “grande gusto”.

Le arti applicate francesi soffrivano da tempo di complessi di inferiorità specialmente nei


confronti della Germania, all’indomani del primo conflitto mondiale dunque nutrivano speranze
di rivincita: non solo quelle di un concreto aumento dell’esportazioni ma anche quelle della
nascita di un nuovo stile, in grado di reggere il confronto con il passato. Si erano quindi formati
almeno due schieramenti: quello che insieme al Loos equiparava l’ornamento al delitto e quello
che considerava l’ornamento un piacere e il nuovo come l’ultima fase della tradizione. Dato
che entrambi gli schieramenti si consideravano moderni, i critici del tempo definirono gli uni
modernisti a oltranza e gli altri neotradizionalisti, quest’ultimo indirizzo si ispirava quel gusto
che verrà definito “Art Deco”.

Fu subito chiaro che l’ Art Deco era la sintesi di differenti settori della cultura e del costume.
Nel 1905 al Salon d’Automne, Henry Matisse, e i giovani artisti definiti fauve inaugurarono una
nuova tavolozza di colori accesi e violenti, il cubismo infatti aveva dischiuso l’orizzonte della
riduzione delle immagini e degli oggetti alla geometria, mentre il futurismo invitava ad
indagare sulle tracce lasciate dagli oggetti in movimento. Questo legame con le avanguardie
figurative era ciò che avvicinava e allo stesso tempo allontanava i modernisti e i tradizionalisti,
li avvicinava per una comune partecipazione dello spirito del tempo, ma li allontanava per una
differente elaborazione dei medesimi contenuti. Inoltre grazie alla filiale parigina della Wiener
Werkstatte, il gusto di Hoffman e della secessione viennese si era profondamente radicato a
Parigi. Ben presto molti elementi distintivi dell’architettura secessionista vennero elaborati e
inclusi nello stile Deco: ad esempio la corbeille di Palazzo Stoclet si trasforma nella Rosa
cubista di Iribe e nel Cesto di fiori e frutta di Sue e Mare.

Gli arredi che popolavano i padiglioni francesi dell’esposizione coniugavano motivi del presente
con altri del passato, il senso del decoro era ora interpretato in più di una sfumatura: come arte
dell’arredatore, come attitudine a combinare i colori, come capacità di riprendere antiche
tecniche tradizionali. Tra queste ultime venivano predilette l’arte dell’ impiallacciatura e della
laccatura.

Nella prima eccelse Jacques Emile Ruhlmann, il più celebre designer di mobili in stile Deco. Da
un punto di vista tecnico i suoi arredi si distinguevano per un solido schema portante costituito
da legni molto resistenti, tale ossatura veniva ricoperta con un primo rivestimento di sottili
strisce di legno dalle venature discoste in direzione contraria a quelle dei legni sottostanti,
questa tecnica era usata per preservare i mobili dalle variazioni di temperatura dell’umidità.
Invece da un punto di vista formale i mobili di Ruhlmann si distinguevano in esemplari
generalmente sollevati da terra mediante uno zoccolo, oppure in mobili leggeri, slanciati
d’inspirazione settecentesca con piedi sottili e allungati.

L’arte orientale della laccatura ebbe invece il più interessante interprete Jean Dunand, egli
preferiva volumi elementari e levigati, sicché l’attualità delle sue opere si rivelava attraverso
mobili e oggetti assolutamente monocromi come la toilette rosso bruna a cassetti ruotanti.

L’Art Deco almeno in Europa non durò a lungo, a Parigi nel 1925 aveva raggiunto il suo punto
più alto e non poteva che iniziare quindi la fase calante, inoltre sarebbe poi sopraggiunta la
crisi del 1929 a dare il colpo di grazia ad ogni lusso. Tuttavia proprio negli Stati Uniti, la nazione
in cui si verificò il tracollo finanziario, il Deco fu invece accolto e rilanciato. In una società
attenta al mondo dell’immagine come quella statunitense si comprese infatti che occorreva
conquistare il consumatore attraverso la forma seducente dei prodotti. Dunque se la strategia
economica del New Deal fu la risposta alla crisi del 1929, lo styling fu certamente una delle più
riuscite iniziative. Con il termine styling si intende la tendenza a dare ad ogni oggetto una
forma aereodinamica così che la bella forma decorata venuta da Parigi, possa sposarsi
perfettamente con quella a goccia o a cometa prescritta dagli studi di aereodinamica.

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Tuttavia è stata più volta messa in dubbio l’appartenenza del Deco al mondo del Design, le
accuse si basano sull’incapacità di tradursi in produzione di massa, sullo sguardo rivolto al
passato e specialmente sull’eccesso di decorazione. In realtà che si sia trattato solo di un
fenomeno di lusso è smentito dal fatto che parallelamente all’offerta di costosissimi oggetti per
pochi, ne esistessero altri a buon mercato accessibili a molti nei grandi magazzini.

Infine quanto all’accusa di essere uno stile inattuale ciò è dovuto al fatto che la storia essendo
scritta dai vincitori una volta decretata la vittoria del razionalismo, il Deco è stato volutamente
ignorato.

Parigi: un Modernismo integrale


Quello che veniva definito Modernismo Integrale risaliva a molto prima della metà degli anni
20, “Ornamento e delitto” di Adolf Loos era già stato tradotto sul secondo numero L’Esprit
Noveau. Francis Jourdain può essere considerato il capofila del Design Moderno Francese, con
molto anticipo sui tempi e sulle iniziative di altri architetti europei, nel 1902 egli concepisce
una linea di arredi per la casa basata sui prodotti di serie. Fedele a questi principi, al Salon
d’Automne del 1913 Jourdain espone gli arredi ideati per il proprio appartamento parigino,
tuttavia una parte della critica non gli risparmia giudizi severi, bollandolo persino come
costruttore di bare. In realtà altri ambivano a raggiungere obbiettivi analoghi a quelli di
Jourdain: Mallet-Stevens nell’ispirare i suoi arredi alla semplicità di quelli giapponesi, Djo
Bourgeois con la sua costante ricerca di arredi che facessero corpo con la struttura muraria,
per non parlare infine di Le Corbusier che grazie all’invenzione delle casiers standard del
Padiglione dell’ Esprit Noveau finirà con l’occupare un posto di primo piano nella storia del
design.

Il padiglione di Le Corbusier riassumeva tre anni di studio stesi nel definire quella cellula che
nata come casa Citrohan, era stata via via perfezionata in Immeblue Villa ossia in una tipologia
standard riproducibile industrialmente e destinata in definire il modulo abitativo della villa
contemporanea. Nel padiglione, Le Corbusier aveva tradotto in pratica le sue idee,
l’arredamento stesso della cellula duplex rappresentava una parte del programma espositivo,
egli aveva svuotato il soggiorno al piano terra eliminando la maggior parte dei mobili
tradizionali e lasciandovi solo alcune sedie Tonet, un tavolo, alcuni quadri puristi alle pareti e
tappeti orientali sul pavimento, per il resto l’arredamento era formato dalla casiers standard
con la quale la battaglia anti-decorativa di Loos segnava un’altra vittoria. I casiers standard
grazie alla loro modularità e alla loro variabilità funzionale (potevano avere cassetti, ripiani,
ante) offrivano una più ampia gamma di destinazione fino a fungere essi stessi come pareti
divisorie, non si trattava più di mobili ma di attrezzature.

Egli intendeva ridefinire il concetto stesso di arte decorativa, infatti si chiedeva “non sarà che il
fatto che questa attività è talmente priva di esattezza che come tale è impossibile definirla?”.
In definitiva ogni epoca artistica ha maturato una certa idea sull’argomento, quindi ora toccava
a Le Corbusier imbattersi in ciò che considerava il paradosso del proprio tempo: definire arte
decorativa quell’universo di oggetti utili che invece a suo dire sarebbe stato più logico
considerare alla stregua di attrezzi.

Dal momento che molti sono i modi di sedersi egli pensava sono necessarie forme di sedie
differenti, così come differenti devono essere i tavoli che corrispondo alla forma di appoggiare.
In quest’ottica dal 1927 in collaborazione con Pierre Jeannarette egli inizierà a progettare
macchine da riposo e tavoli, tutti questi oggetti verranno presentati al Salon des artistes
decorateurs del 1929 mentre il Salon del 1930 ospiterà la sezione del Wekbund organizzata da
Gropius. Strutture metalliche, perni, cerniere accomunavano i mobili razionalisti francesi ai
mille oggetti meccanici, grandi e piccoli, che ormai facevano parte della quotidianità a pieno
titolo.

Tramontato il referente naturalistico, lo spirito della macchina era diventato il simbolo di un


epoca da esprimere con forme e materiali tanto attuali da indurre a considerare tutta la casa,
come dice Le Corbusier, una macchina da abitare. La lamiera stampata, l’acciaio e in
particolare il vetro, materiale resistente ed elegante, divennero un’ulteriore punto di forza dei

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modernisti. Sul versante della sperimentazione di questi materiali antitradizionali, la Francia
poteva contare specialmente sui fratelli Adnet. Un ruolo significativo nel panorama del
modernismo francese è quello di Eileen Gray, l’artista la cui portata innovativa è apprezzata
più oggi che allora, verso il 1925 da avvio ad una personale linea di mobile metallico, ispirata
alle carrozzerie di Bugatti. Dal 1927 la sua famosa chaise lounge realizzata in legno, cuoio e
cerniere d’acciaio, da considerare in assoluto la prima chaise lounge moderna. Soluzioni
rispondenti ai problemi di soluzioni di vita, in ambienti ristretti, come la cabina di una nave,
sembravano essere il contributo più rilevante degli arredi di Eileen Gray che per la propria casa
E-1027 disegna il famoso armadio di alluminio, funzionante da separazione tra l’angolo toilette
e la camera da letto.

Anche Jeane Prouvè fin dal 1923 aveva avviato una ricerca sulla tecnica dello stampaggio e
della piegatura della lamiera metallica per mobili, con modalità molto simili a quelle
dell’industrie automobilistiche. Tutti questi artisti daranno vita alla Uam (Unione degli artisti
moderni). Quasi a scopo dimostrativo nel 1934 la Uam in collaborazione con l’Otua (Officina
tecnica per l’utilizzazione dell’acciaio) presenta al Salon d’Automne alcune arredamenti di
cabine navali, realizzati in acciaio cromato. Fu forse in tale occasione che venne coniato
l’appellativo di stile “transatlantico” che bollò prima i mobili del gruppo, per poi essere esteso
al mobile razionalista in generale.

1920-30: Italia delle Biennali tradizionaliste alle Triennali razionaliste


Nell’Italia degli anni ’20 l’eco del Weirkbund e del Bauhaus, così come anche l’Art Deco (Stile
1925) risultavano affievoliti. Il nostro paese non aveva mai intrapreso una riforma dell’arte
applicate, lontanamente paragonabile a quelle inglese o tedesca. Tuttavia nel 1907 era stata
varata una riforma per gli istituti professionali basata sulla centralità dell’insegnamento
artistico. Seguendo gli esempi di Londra, Vienna e Berlino a tali istituti erano stati anche
affiancati alcuni musei di arte industriale. La società umanitaria fondata a Milano nel 1899
movendo da un riferimento dell’Arts and Crafts inglesi, divenne uno dei primi centri di
divulgazione dello stile Liberty.

A Torino con la prima esposizione di arte decorativa moderna, si respirava finalmente un aria
di internazionalismo: Carlo Bugatti, Eugenio Quarti, Ernesto Basile potevano confrontarsi fra gli
altri con Behrens, Mackintosh e Olbrich. Ma in questa occasione vennero anche alla luce i
contrasti culturali, fra i sostenitori e gli oppositori della moda proveniente da fuori: i sostenitori
guidati da Camillo Boito e Alfredo Melani diffondevano il linguaggio floreale, mentre il partito
del dissenso schierato per la difesa del tradizionalismo era invece guidato dalla figura di Ugo
Ojetti che nel Liberty vedeva il pericolo di un’invadenza culturale straniera.

Malgrado il fervore del dibattito, la ventata di rinnovamento fu costretta ben presto a


smozzarsi. Neppure i movimenti d’avanguardia figurativa potranno scalfire la venerazione per
le radici artistiche soprattutto quelle rinascimentali. Quindi quello che potremmo definire il
neotradizionalismo italiano finì per seguire in sostanza due indirizzi: l’uno basato sulla ripresa
delle forme artistiche regionali, l’altro incanalato nel rilancio delle varie stagioni del
classicismo, rispetto a tali indirizzi le primi Biennali di Monza registrarono consensi e
opposizioni.

Nel 1923 Marangoni darà vita alla prima Biennale internazionale di arti decorative di Monza,
malgrado lo statuto espositivo escludesse la copia dei modelli antichi e la ripresa dell’arte
rustica popolare, la proposta di un rinnovamento non veniva neanche presa in considerazione,
preferendo piuttosto le produzioni regionali di artigianato. A Parigi l’Italia aveva dato il peggio
di se con il padiglione di Brasini, un ingombrante parallelepipedo classicheggiante tra il romano
e il cinquecentista sproporzionato e di sgradevole aspetto.

A Monza tanto nella Biennale del 1923 quanto in quella del 1925, Duilio Cambellotti si era
dimostrato capace di sprovincializzare il tema del recupero della tradizione popolare. L’artista
romano infatti aveva riconosciuto nell’arredo contadino laziale la sintesi tra arte e società a cui
aspirava il movimento di Morris da lui molto ammirato. Accanto ai consueti mobili laccati e ai

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virtuosissimi roccocò soffiati nel vetro si distingueva la ripresa dell’arte muranese. L’arte
vetraria muranese non tradiva la propria tradizionale inventiva.

Nel 1928 Napoleone Martinuzzi inventa il vetro Pulegoso, opaco di aspetto pesante e costellato
di bollicine iridescenti, mentre dalla ricerca Venini escono i vetri Sommersi e i Diamantati.
Inoltre alla Biennale di Venezia del 1930 Ercole Barovier presenta il vetro Rostrato e quello
Primavera. Infine nelle fornaci dei fratelli Toso si mette appunto la tecnica della mezza filigrana
e quelle dei vetri colorati sommersi in limpido cristallo.

Tornando alle Biennali monzesi, la manifestazione del 1927 sottrae spazio all’artigianato
artistico e all’arte contadina per concederne alla creatività degli allestitori. Il programma della
mostra era volto a valorizzare non solo l’oggetto ma anche la sua cornice espositiva, è in tale
occasione che emerge la figura di Gio Ponti, progettista di arredi, egli seguiva il modello
francese e quello viennese anzi seguiva soprattutto quello francese con il suo doppio indirizzo
dell’arredo di lusso e dell’arredo a buon mercato studiato per i grandi magazzini. Al primo
indirizzo era improntato l’allestimento della sala del labirinto. Il labirinto interpretava il gusto
dell’alta borghesia lombarda per la quale Ponti progettava palazzi e ville decorati da timpani
allungati e da obelischi.

Sotto il marchio domus nova, Ponti e Emilio Lancia, presentavano invece un modello abitativo
destinato alla media borghesia, venivano perciò proposti ambienti di semplice decoro e
soprattutto così completi da evitare ai compratori incertezza dell’accostamento tra un arredo
ed un altro, quelli della domus nova venivano pubblicizzati come mobili economici ed estetici
allo stesso tempo.

La svolta si configura finalmente nel 1930 quando l’esposizione monzese, divenuta istituzione
permanente, acquista una scadenza triennale configurandosi come la prima in cui si parla
esplicitamente di arti decorative e industriali moderne. Alla IV Triennale 1930 accanto al salone
allestito da Munzio, con sfoggio di marmi intarsiati, accanto alla casa di Ponti e Lancia, arredata
con mobili della Domus Nova, la Casa Elettrica e la Sala 130 sembravano introdurre una nota
insolita. La Casa Elettrica si distingueva per l’allestimento dell’ambiente cucina, dove il tema
dell’elettrificazione aveva consentito di applicare i criteri sull’organizzazione razionalizzata del
lavoro domestico. La Sala 130 invece era stata realizzata per ospitare alcuni oggetti in metallo.

Nel 1933 la V Triennale si rinnova completamente. Lasciata Monza per Milano si insedia nel
palazzo d’arte progettato da Giovanni Munzio. L’edificio è circondato da ampio parco dove gli
organizzatori propongono una rassegna di un architettura moderna internazionale attraverso la
realizzazione di 33 modelli abitativi. Solo l’edificio di Griffini e Bottoni affrontava i problemi
della casa popolare, negli altri padiglioni invece erano studiati per l’artista, lo sportivo,
insomma gli stereotipi. Un discorso a parte merita la casa a struttura d’acciaio, la costruzione
era un saggio dimostrativo delle libertà compositive ottenibili grazie ai nuovi materiali e alle
nuove tecniche, in particolare negli arredi venivano accostati materiali tradizionali e materiali
lussuosi.

La promozione di una produzione seriale e l’elaborazione di nuovi modelli abitativi sarà


l’obbiettivo principale a cui il comitato organizzativo cercherà di tener fede nella VI Triennale.
Questa volta contrariamente all’edizione precedente gli alloggi tipo coprivano una gamma
abbastanza completa della composizione sociale del momento. La trasformabilità,
l’intercambiabilità e la scomponibilità dell’arredamento, ottenute grazie ad elementi modulari
rappresentavano i punti di forza, tanto per gli appartamenti per il ceto borghese quanto per
l’alloggio popolare.

Infine la VII Triennale si apre nel 1940 poco prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Si tratta di
una sorta di ritorno all’ordine, che per i giovani architetti innovatori equivale a veder sfumare il
mito di un fascismo rivoluzionario per il quale progettare un nuovo ambiente di vita, tuttavia se
l’architettura appare compressa e mortificata, il design ne uscirà invece avvantaggiato. E’ il
caso della sezione dedicata alla produzione in serie in cui Pagano aveva riunito i migliori
prodotti dell’industria nazionale da quelle pesanti (Fiat e Caproni) a quelle leggere (Borletti e
Olivetti). Il caso Olivetti merita un discorso a parte.

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Negli anni 30 questa fabbrica aveva conosciuto una svolta per così dire internazionale, per
contrastare le conseguenze della crisi del 1929, Adriano Olivetti riorganizza l’azienda
concentrato ormai sulla produzione di macchine per ufficio, ma la novità più importante
introdotta da quest’ultimo è la fondazione di un ufficio progetti e studi centrato sulla
collaborazione fra artisti, architetti e tecnici. Da questo momento la Olivetti guadagna un posto
privilegiato nella storia del design italiano, grazie ad una serie di macchine per ufficio: nel 1931
entra in produzione la M40, nel 1932 Alberto Magnelli progettando la MP1 inaugura la serie di
macchine da scrivere a sviluppo orizzontale.

Mentre l’efficienza e la funzionalità restavano le parole d’ordine degli oggetti tecnologici


all’interno degli uffici, la casa degli italiani soffriva invece di inerzia. Il mobile pratico
smontabile e imballabile lasciava indifferente la borghesia pronta a relegare le novità
tecnologiche nel bagno e nella cucina per continuare a preferire il decoro della tradizione negli
ambienti di rappresentanza.

In tale ottica acquista maggior rilievo lo sforzo compiuto alla triennale del 1940 nella mostra
dell’apparecchio radio, nella manifestazione milanese, il radioricevitore modello 547 si
distingueva per la sua portata straordinaria. I progettisti avevano infatti ridotto l’involucro ad
una semplice scocca protettiva nera su cui venivano evidenziati l’altoparlante e la tastiera con
il sintonizzatore. Date le ridotte dimensioni, l’apparecchio radio era diventato mobile anche in
un altro senso: facilmente spostabile aveva conquistato un posto sulle scrivanie insieme al
telefono e alla macchina da scrivere.

L’ultima Triennale prima della censura bellica costituiva un tassello essenziale nella
maturazione del design nel nostro paese. Le Biennali e le Triennali si erano configurate come
una palestra per tenere allenati, quei nomi che avevano scelto il modernismo internazionale
contro il tradizionalismo nazionale e che avrebbero trovato nel dopoguerra il ruolo centrale di
designer.

LA COSTELLAZIONE SCANDINAVA
Per gli oggetti fabbricati in Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia si corre sempre il rischio di
sbagliare data: infatti appaiono talmente familiare da indurre a pensare che siano sempre stati
nelle nostre case e sotto i nostri occhi, visto che i paesi nordici hanno costantemente nutrito un
vero e proprio culto per il calore dell’ambiente domestico. In Svezia nel 1845, in Finlandia nel
1875, in Danimarca nel 1907 e in Norvegia nel 1908 erano nate varie organizzazioni con la
finalità di portare avanti esperimenti sulla produzione artigianale in collaborazione con le forze
artistiche del paese.

Agli inizi del ‘900 gli Scandinavi guardavano specialmente alla Wiener Werkstatte, infatti con
la cultura austriaca essi condividevano l’amore per l’arte nazionale, il culto per il classicismo e
la permanenza di un artigianato di alto livello. Mediatore fra le culture dei due mondi era Josef
Frank. Per quest’ultimo i mobili non potevano essere ridotti al semplice dominio della funzione
ma dovevano restituire all’abitare i legami con la propria storia. Tale atteggiamenti furono
evidenti nell’Esposizione Parigina del 1925. Anche se il Bauhaus andava diffondendo la visione
estetico-ideologica in tutt’Europa, Svezia e Danimarca non sentirono la necessità di accogliere
i rivoluzionari modelli di vita suggeriti dalla scuola di Gropius ma avanzarono invece proposte
più moderate e comunicative.

Il contributo più significativo era rappresentato dalla chaise lounge Senna con la quale Gunnar
Asplund si rifaceva al rigore dello stile direttorio. Il maestro del neoclassicismo nordico in quel
momento aveva già preso le distanze dalla cultura contadina, ispiratrice dei mobili progettati
nel 1917, e stava per approdare a quel razionalismo che avrebbe caratterizzato tutta la sua
produzione a partire dagli anni ’30.

All’Esposizione di Parigi del 1925 Kay Fisker, il progettista del padiglione della Danimarca,
dimostrò come il culto del passato classico potesse legarsi con quel del passato nazionale. In

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quel occasione fu chiaro che tra le caratteristiche del passato nazionale vi era una sorta di
orgoglio della modestia, infatti già nell’Ottocento compensando la povertà del paese con
l’inventiva dei suoi artisti, la Danimarca si era distinta per aver creato la versione nazionale
dello stile Impero.

Kaare Klint è ritenuto il capofila del designer danese, tra i tanti periodi storici da cui trarre
ispirazione egli preferì quello del comfort . Klint esaminò e confrontò innumerevoli modelli del
passato e del presente, dai mobili degli Shaker a quelli dell’Ottocento inglese, così la sua
poltroncina Safari prendendo spunto da un modello di età coloniale, riuscì a emulare la N. 14 di
Thonet per la linea sobria e pulita e per la smontabilità dei suoi elementi.

Wegner pur non essendo stato diretto allievo di Klint, ne adottò la lezione perfezionando alcuni
esempi sedimentari nella memoria e nell’uso collettivo. La sedia rotonda è certamente
l’esemplare più noto infatti si tratta di un modello cinese che si distingue per l’armoniosa
fusione di schienale e braccioli, altri modelli progettati da Wegner sono: la sedia Pavone, la
sedia sdraio 512 e la sedia Y.

Nel secondo dopoguerra la ditta Hansen si specializzò nella lavorazione di serie in legno
curvato sul modello Thonet con l’introduzione di alcune novità rispetto ai modelli viennesi, ma
la vera rivoluzione della ditta Hansen avvenne dopo l’incontro con Jacobsen. Da questo
sodalizio nacquero arredi destinati a rompere radicalmente con la tradizione del mobile danese
di origine artigianale.

Con la sedia Myren a tre gambe e con la sua variante 3107 a quattro gambe, si ebbero per la
prima volta arredi compatibili con le tecniche di produzione industriale su larga scala. Le sedie
di Jacobsen hanno conosciuto successo e diffusione pari solo alla n.14 di Thonet. Gli arredi di
Jaccobsen caratterizzati dagli insoliti accostamenti (acciaio e materiali naturali) divennero ben
presto un’immagine inconfondibile degli anni’50, a conferire al design scandinavo un carattere
in equilibrio fra il nazionalismo e l’internazionalismo fu infine l’esperienza progettuale di Alvar
Aalto.

L’incontro più significativo di Aalto con i problemi del design prese definitivamente l’avvio con
la costruzione del sanatorio di Paimio per il quale progettò il “lavabo silenzioso” (posizionato a
45 gradi rispetto alla parete per evitare rumore e schizzi d’acqua), l’armadio a doppia valva, le
maniglie alle quali non potevano impigliarsi i camici dell’infermiere, e soprattutto, una varietà
di poltroncine e sedie dapprima realizzate con struttura in metallo e seduta in legno e poi
totalmente in legno ed elastici fogli di compensato curvato.

la prima poltrona elastica in legno, si ispirava concettualmente alla Wassily (B3) di Marcel
Breuer, la seduta in compensato curvato a S la rendevano molto più confortevole grazie al
molleggio in grado di assecondare i movimenti del corpo. Con la sua sagoma sinuosa dava
inoltre l’avvio a quella linea formale irregolarmente organica che Aalto tenderà a riproporre in
ogni materiale mutuandola. Ispirandosi quindi ai mobili di Thonet, Aalto abbandona del tutto
l’uso dell’acciaio per preferire quello del legno di betulla. Riabilitando così un materiale messo
un po’ in crisi dall’acciaio, egli compie decisive esperienze grazie alla collaborazione con la
fabbrcica di Otto Khoronen.

Aalto fonda la ditta Artek per la produzione e distribuzione dei suoi arredi, usciti oramai dalla
fase prettamente sperimentale. Generalmente si usa classificare la produzione di Aalto
secondo tre periodi fondamentali ruotanti rispettivamente intorno al 1929, 1947 e al 1954. Tali
epoche corrispondono a tre differenti tipi di piegatura a L o a “ginocchio” a Y o “binata” a X o
a “ventaglio”. Il sistema a “ginocchio” garantiva, dunque la lavorazione più semplice da esso
derivarono gli altri e a esso furono improntati tutti i modelli d’arredo progettati fino al 1939.

Aalto sosteneva che il legno è il più antico materiale da costruzione utilizzato dall’uomo e una
struttura di legno nella quale il legno perde il suo carattere è inaccettabile. Tali parole rischiano
oggi di rendere inattuale tutta la ricerca di Aalto, dal momento che la difesa della natura è
diventato uno degli obiettivi prioritari dei nostri tempi. A tal proposito va anche ricordato che
malgrado le sue preferenze per la naturalità del legno, Aalto non esitava a sottoporlo ancora
fresco ad una seria di trattamenti chimici per ottimizzarne la resistenza.

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I designer scandinavi nell’eleggere la natura a referente delle proprie forme espressive, si sono
spinti ben aldilà degli artisti del Art Noveau. I vasi Savoy disegnati da Aalto e da Aino Marsio
nel 1936 sembrano riflettere i profili e i colori dei laghi e delle foreste finlandesi, non a caso
infatti “Finlandia” è il nome scelto tra Timo Sarpaneva per una seria di oggetti che grazie ad
una tecnica assolutamente innovativa rendono la superfice del vetro del tutto simile ad un
blocco di ghiaccio. Il paese delle lunghe notti ha saputo far tesoro tanto della luce naturale
quanto di quella artificiale. Nel 1926 il designer danese Poul Henningsen diede avvio ad una
linea di lampade anticonvenzionale, pensata per esaltare e sfruttare al massimo la fonte
luminosa. Le lampade PH di Henningsen economiche, scientificamente ineccepibili e
soprattutto belle ancora oggi prodotte ben presto invasero tutta l’Europa.

Il design Scandinavo, grazie alla sua capacità di attraversare tempi senza risultare ne datato ne
alla moda, conquistò rapidamente l’Europa ma fu ancor più apprezzato negli USA. Dopo il
successo delle due esposizione internazionale nel 1954 la mostra Design in Scandinavia
percorse per 3 anni tutto il Nord America, a riprova del favore incontrato dal Danish Modern e
Swedish Modern. Nel 1960 le sedie di Wegner furono persino scelte per arredare lo studio
televisivo della CBS.

Il successo del design Scandinavo durò almeno fino alla fine degli anni ’60 e non mancò di
influenzare le forme di Eames ed Eero Saarinen, i due più importanti designer americani.
L’impostazione democratica della società Scandinava, facendo convergere, l’attenzione su beni
primari, come la casa e i suoi arredi, facilitò un design a basso costo e dai buoni standard
qualitativi. Ciò spiega oggi un fenomeno come IKEA l’ultimo erede dello stile svedese.

IL DESIGN MADE IN USA


1940. Una svolta ne furniture design

Il concorso “Organic Design in Home Furnishing” è un evento giustamente ricordato come


segno di svolta nel design statunitense, fu bandito nel 1940 dal Dipartimento di Industria
Design del Moma, la giuria includeva nomi dello spessore di Alvar Aalto, Marcel Breur e Frank
Parrish. I vincitori furono Charles Eames ed Eero Saarinen per i progetti di ben due categorie:
sedute, e mobili per ambienti di soggiorno. Il modello più famoso è la poltrona di
conversazione, la sua sagoma avvolgente fonde in un'unica scocca la seduta, i braccioli e lo
schienale, fatto in modo da funzionare anche come poggiatesta. La novità sostanziale consiste
nella ricerca di un prodotto dal costo di fabbricazione assai contenuto e quindi dal basso prezzo
di vendita.

Molti dei maestri del Bauhaus si erano trasferiti negli USA a seguito dell’avvento del regime
hitleriano, tra questi il viennese Frederik Kiesler, egli si cimenta in più di un ambito creativo
(scenografia, scultura, pittura) e affida la sua testimonianza progettuale agli spazi
plasticamente modellati della Endless House (Casa Infinita). A sua volta Richard Neutra emigra
negli USA nel 1923, il suo merito è quello di aver saputo unire i principi architettonici con le
caratteristiche della tradizione americana, infatti ben presto assieme al connazionale Rudolf
Michael Schindler, diventa uno dei principali esponenti della cosiddetta scuola californiana,
tendenza grazie alla quale le sue ville raggiungono in sintesi, fra artificio e natura.

Infine il caso di Eliel Sarinen merita un discorso a parte, fondatore del romanticismo nazionale
finlandese, nel 1922 vince il secondo premio del concorso per il progetto della sede del Chicago
Tribune. Il successo ottenuto in quest’occasione lo spinse a trasferirsi negli USA, qui egli crea
case, laboratori, scuole e studi in cui artisti e artigiani possono esprimere la loro creatività nello
spirito dell’ Arts e Crafts inglesi e della Wiener Werkestatte viennese. In questo istituto si
formerà la generazione di designer attiva nel secondo dopoguerra, tra cui Eero Saarinen e
Charles Eames. Nel 1932 fu organizzata l’ International Exhibition of Modern Architecture,
dedicata all’architettura europea ed americana del decennio 1922-32, questa manifestazione
avrebbe prolungato l’eco del suo successo grazie al libro “The International Style”: l’aggettivo
International derivava dal titolo del primo libro del Bauhaus pubblicato da Gropius, mentre il
termine Style era invece il contributo con il quale gli autori intendevano dimostrare come la

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produzione architettonica dell’ultimo decennio avesse ormai raggiunto lo status di tendenza
riconosciuta, così come il gotico, il rinascimento, il barocco ed ecc.

Allora fra gli architetti più importanti dell’ International Style ricordiamo Le Corbusier, Pier
Jeannerette e Mies Van de Rohe. Dal novero degli architetti più rappresentativi dell’Internationa
Style erano stati esclusi quelli della prima generazione (Loos Hoofmann, Bahrensm, Van de
Velde, Perret), l’esclusione più clamorosa riguardava Wright scartato con la motivazione che fin
da quanto era un discepolo di Sullivan era ed è rimasto un individualista, egli invece di
sviluppare qualcuna delle maniere da lui stesse avviato, ha sempre ricominciato da capo con
un materiale nuovo o con un diverso problema. Nel suo rifiuto di vincolarsi di stile ben definito,
egli ha creato un illusione di infiniti possibili stili. Eppure proprio l’individualismo di Wright è
l’elemento che caratterizza la sua produzione, ciò che infatti colpisce, fra i primi e gli ultimi
interni di Wright è la difficoltà di distinguere il mondo degli arredi da quelli degli involucri
murari. Si può dire che i mobili di Wright denunciano il loro essere progettate solo per le case di
Wright, anzi ciascuna di essi mostra di essere stato progettato per quella casa in particolare. In
tale visione l’idea di design e di arredamento del maestro americano si rivelato certamente
estranea ai requisiti dell’internazionalismo, inteso come estetica egualitaria e ideologica da
estendere alle masse.

L’organicismo proponendosi come una sorta di reazione allo styling della frase precedente fu
uno dei tempi portanti del design americano degli anni ’40 e ’50. Per organico, la cultura
americana, intendeva quel principio di una sana democrazia professato da Sullivan, Wright e
da scrittori come Emerson. Un design può essere definito organico se vi è in esso una armonica
organizzazione delle parti nel tutto secondo la struttura, il materiale e l’uso. In ambito critico, il
concetto di organicità ha orbitato intorno a due parametri: formale e ideologico esistenziale,
entrambi in opposizione al razionale. Il concetto di organicità ha finito quindi per essere il
modello in grado di fornire una chiave interpretativa per una fenomenologia il più delle volte
senza confini ben definiti, e che ciò sia vero lo testimonia proprio la linea International Style
degli arredi di Eames e Saarinen. Infatti dopo l’esordio al Moma, in cui riuscirono a fondere
l’organicità di Aalto con il razionalismo di Breuer, sia Saarinen che Eames proseguono con la
ricerca negli elementi dei mobili, ma interpretandola secondo il proprio pensiero. La linea
concava di Eames sfrutta lo sviluppo della tecnologia dei materiali plastici che rendono
possibile la creazione di poltrone e sedie dalla tipica forma a conchiglia. Tuttavia egli non
trascura neanche l’utilizzo del compensato curvato per realizzare altri arredi, fra cui Dining
Chair e l’ancora più famosa Upholstered Lounge Chair in legno di rosa laminato. Infine nel caso
della celebre Wire Mesh Chair tutta in metallo, interverrà il disegno dell’imbottitura a introdurre
una nota di discontinuità, inoltre mentre gli sbalzi in tubolare d’acciaio tendevano a dare
l’impressione che le sedie razionaliste levitassero nell’ambiente, il sistema strutturale dei
mobili di Eames funziona, invece da soldo ancoraggio visivo al pavimento.

Saarinen fu invece l’inventore della celebre tipologia di arredi ad una sola gamba. Sulla base di
idee e schizzi risalenti agli anni ’50 egli realizzo nel 1957 la serie Tulipano in cui, sedie, poltrone
e tavoli, poggiavano su pavimento grazie ad un sostegno svasato. Lo scopo di Saarinen
consisteva nel recuperare la continuità delle parti del singolo arredo e l’equilibrio dell’intero
ambiente dove i sobri elementi dall’unico appoggio avrebbero sgombrato lo spazio dalla
chiassosa folla delle gambe dei tavoli e delle sedie.

Il Furniture Design in ragione di queste componenti culturali e dell’assetto produttivo


statunitense conquistò un nuovo status. I mobili di Gropius, Breuer e Mies Van de Rohe
verranno si prodotti negli USA ma con un cambiamento di destinatario. Non saranno più i
quartieri operai ne l’accogliente casa scandinava a ospitare il tubolare metallico e il legno
curvato, ora sono le case degli intellettuali e gli uffici dei grandi manager ad accoglierli insieme
ai nuovi arredi progettati dai designer americani. Una volta elaborata dalla fantasia e dalla
matita dei designer statunitensi, la linea europea si sarebbe trasformata nel Furniture Design,
lussuoso e costoso negli anni ’60.

Tra le industrie che seguirono questa linea rivestivano un ruolo speciale la Knoll International e
la Herman Miller Furniture Company. La prima nacque con la dimensione di un modesto
laboratorio avviato nel 1928 dal tedesco Hans Knoll, successivamente nel 1951 nascerà la Knoll

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International, l’azienda produrrà mobili di Eero Saarinen e di Henry Bertoia senza trascurare
quelli di Mies Van de Rohe e Marcel Breuer. La Herman Miller era stata fondata nel 1905 e si era
specializzata nella produzione degli arredi in stile ma ben presto grazie al contributo del
designer Gilbert Rodhe prese a puntare su prodotti di alto livello destinati agli uffici, ma sarà
George Nelson il personaggio destinato a imprimere una svolta decisiva alla produzione della
Herman Miller. Grazie al Gran Prix de Rome vinto nel 1932 egli divenne designer-director della
Herman Miller. Egli ritenne definitivamente superata la lavorazione semiartigianale di arredi in
legno dell’azienda su una linea progettuale orientata al successo commerciale, una linea volta
ad esaltare la responsabilità del designer come avveniva negli USA fin dagli anni ’30.

Riprendendo il discorso dei mobili di Eames, egli durante il conflitto bellico aveva acquistato
una notevole esperienza nella lavorazione del legno compensato, in particolare egli accolse
suggerimenti da tecniche messe a punto dall’azienda automobilistica Chrysler, grazie alla
quale sperimentò speciale sistemi di incollaggio a impulsi elettronici, e servendosi di dischetti
di neoprene per conferire elasticità ai componenti delle sedie in legno. Presto furono messe
appunto altre materie plastiche: l’americano John W. Hayt nel 1869 inventò la celluloide mentre
nel 1909 il chimico belga Leo Hendrik Backeland arrivò all’invenzione della materia plastica
interamente sintetica che venne battezzata bachelite. Con l’avanzare degli studi dalla fine
degli anni ’20 alla metà degli anni ’40 la ricerca sui materiali plastici progredì rapidamente: il
neoprene sostituì la gomma naturale, poi vennero il plexiglass, il nylon, il polistirolo ed ecc.,
tutti materiali destinati a trovare ampie applicazione nell’architettura e nell’arredamento.

Negli anni ’50 il materiale venne invaso dalla plastica, non tardò quindi ad entrare nelle case,
sia sotto forma di oggetti sia di arredi. Tuttavia essa suscitò anche violente antipatie, tanto che
Roland Barthes la definì un materiale sgraziato, un ibrido fra la gomma e il metallo. Eppure
basterebbe considerare gli arredi di Eames e Saarinen per concludere che la plastica era invece
un materiale pari al legno e al marmo. Si era inoltre rivelata come materiale più idoneo a una
lavorazione del tutto industrializzata. Oltre ad entrare nei living di lusso sotto forma di tavoli,
divani e poltrone, la plastica invase anche la cucina, il regno delle casalinghe americane,
attratte dal miraggio del consumismo e del progresso del comfort. Questo materiale allegro e
colorato si armonizzava benissimo con i nuovi elettrodomestici dell’industria americana, in
particolare, a metà degli anni ’50 la Whirpool e la General Motors lanciarono la Miracle Kitchen
e la Kitchen of Tomorrow.

L’antagonismo rispetto ai materiali naturali era stato fin dall’inizio il vero problema della
plastica, ma l’esposizione Plastic as Plastic tenutasi nel 1968 mise finalmente in risalto la
conquistata autonomia di questo materiale liberato dalla schiavitù imitativa. Appariva ormai
chiaro che la plastica poteva funzionare come incentivo per indurre le aziende a convertire i
propri impianti adeguandoli ad una produzione industriale. In seguito nonostante le periodiche
crisi dovute ai rincari del petrolio, la plastica non ha conosciuto tramonto, tanto è vero che in
anni recenti sono stati proprio i materiali plastici ad attirare la maggior attenzione di progettisti
e industrie. Quindi concludendo a 50 anni di distanza si può dire che le critiche di Roland
Barthes nei confronti della plastica appaiono dunque ribaltate.

L’ITALIAN STYLE
1946-1980 Il recupero del tempo perduto

Nel 1946 la Rima (Riunione italiana per le mostre di arredamento) celebra l’apertura del
palazzo delle triennali con il tema dell’alloggio popolare, nel 1947 riprendono anche le
manifestazione di quest’ultima la cui VIII edizione celebra il valori dell’arredo popolare e
dell’industrializzazione edilizia. Tuttavia questi valori devono scontrarsi con la cultura borghese
e tradizionalista la quale rifiuta di accettare forme avvertite come estranee e imposte dall’alto.
Questa tensione ideologia tuttavia sarà presto destinata a smorzarsi nel 1948.

In Italia a partire dal secondo dopoguerra si è avuta infatti una intensa accelerazione
produttiva e uno dei primi settori ad essere interessato è stato quello dei trasporti. Tra le tante

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novità importate dagli USA all’indomani della liberazione, vi fu un nuovo tipo di veicolo: lo
scooter. L’esperienza accumulata dalla Piaggio nel settore aereonautico fu sfruttato da
Corradino d’Ascanio per creare la Vespa un veicolo riconoscibile per la sagoma da insetto
risolta in curve riconducibile allo styling americano, mentre la produzione di tubi in metallo
della Innocenti suggerì a Cesare Pallavicino e a Pierluigi Torre la linea della Lambretta, una
moto in cui prevaleva l’idea strutturale dello scheletro portante, formato da un grosso tubo
curvato. La Vespa e la Lambretta per la particolarità di promuovere una posizione di guida
prossima alla seduta si rivelavano assai più comode della motocicletta adattandosi sia alla
conduzione maschile e sia quella femminile. Dalle 2500 unità prodotte dalla Pioggia e dalla
Innocenti nel 1946 in meno in un decennio si arrivò alla quota di centinaia di migliaia di
esemplari. In definitiva nel settore dei veicoli si trattò un successo paragonabile forse solo a
quella della Ford T.

Il piano Marshall aveva consentito la ricostruzione e il rinnovamento di molte industrie italiane


tra cui la FIAT. Nel 1955 al salone di Ginevra fu quindi presentata la 600 diretta erede della
piccolissima 500 Topolino a due posti. Progettata dall’ingegnere Dante Giacosa la 600 fu
pubblicizzata come la prima utilitaria italiana a 4 posti e rimase in produzione fino al 1970. Ma
la più famosa resta la sempre la nuova 500 progettata dallo stesso Giacosa, rimasta
praticamente insuperata fu lanciata nel 1957 e resistette sul mercato fino al 1975. Per
l’armoniosa sagoma, per le notevoli doti di prestazione e la buona abitabilità la 500 riuscì a
rendere la vita difficile alla Isetta la piccola utilitaria prodotta dalla Iso di Bresso nel 1953.

Dal punto di vista progettuale la grande industria italiana non faceva troppe distinzioni tra il
design e l’ingegnerizzazione del prodotto, specialmente nel settore ferroviario si era rivelata
determinante la cooperazione fra lo staff tecnico e il designer. Nel 1947 la Breda, molto
danneggiata dalla guerra, lancia l’elettrotreno ETR300, meglio conosciuto con il nome di
Settebello. Il Settebello sfrecciò per la prima volta sulla linea Roma-Milano in occasione
dell’inaugurazione dell’anno santo del 1950.

Gli anni ’50-60 vengono ricordati come quelli del miracolo economico. I risultati erano evidenti
nell’incremento del volume dell’esportazioni e in quello della produzione industriale che tra il
1958 e il 1963 risultò più che raddoppiata: i settori degli elettrodomestici riuscì addirittura a
detronizzare gli USA. La macchina per cucire BBU della Necchi comparsa agli esordi degli anni
’50 offrì alle casalinghe alcune prestazioni tipiche dei macchinari di uso industriale, un intera
epoca fu contrassegnata poi dall’apparecchio radio a doppia valva TS502 e dai televisori
ALGOL 11 disegnati da Marzo Zanuso. Intanto nel mondo del lavoro, facevano il loro ingresso,
macchine per scrivere e calcolatrici di nuova linea. La calcolatrice NC4S, disegnata da Nizzoli
può essere considerata la capostipite di una seria di fortunati modelli (Elettrosumma 14,
Divisumma 14 e Summa 15) sfociati nella famosa Divisumma 24.

L’Italian Style deve la sua fama soprattutto a quella forza collettiva a metà strada fra
artigianato e industria che ha trovato il suo campo di applicazione specialmente nel settore
dell’arredo, tale modalità di produzione pure essendo animata da un orientamento verso la
serialità ne ha tuttavia trasformato il concetto grazie ai mezzi di lavorazione di cui si serve, le
prestazione di tali macchinari infatti consentono di programmare serie di prodotti anche molti
differenziati tra loro. Le condizioni favorevoli al suo sviluppo di delinearono nel secondo
dopoguerra quando per la maggior parte delle aziende il passaggio da un sistema artigianale
ad uno industrializzato fu favorito dall’incontro di un produttore con un designer oppure
dall’intraprendenza di un produttore-designer postosi a capo di un equipe specializzata.

In quest’ultimo raggruppamento troviamo la Tecno, fondata nel 1952 da Osvaldo Borsali, l’Arte
Luce di Gino Sarfatti, L’Azucena riconoscibile per la produzione di arredi di alta qualità e di alto
costo. Invece per quanto riguarda l’incontro di un produttore con un designer solo per ricordare
qualche nome possiamo certamente includere la Cassina il cui incontro con Poggi è stato il
primo di una seria di fortunati appuntamenti con i nomi dei più prestigiosi del design italiano e
l’Arflex che insieme con Zanuso ha sperimentato nuovi materiali quali la gomma piuma. La
poltrona Lady e la poltrona Martingala, arredi disegnati da Zanuso e prodotti dall’Arflex
segnano non solo un importante passaggio nell’evoluzione produttiva del mobile artigianale a
quello di serie, ma con la loro sagoma mobile e avvolgente configurano anche un immagine

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inconfondibile del gusto italiano di quegli anni. Queste collaborazione artistiche industriali
diedero vita fin agli anni ’50 a interessanti soluzioni progettuali, il design divenne in poco
tempo una realtà emergente soprattutto a Milano dove i giovani designer trovarono il modo per
farsi conoscere negli appuntamenti espositivi della Triennale. Inoltre come riconoscimento di
lunghi sforzi del design italiano nella ricerca della qualità fu celebrato con l’istituzione nel 1954
del premio Compasso d’Oro.

Il Good Design Italiano includeva nella continuità con la tradizione l’uso dei materiali naturali,
primo fra tutti il legno, che malgrado la concorrenza dei materiali sintetici non aveva mai
conosciuto delle vere crisi. In tale contesto rimangono memorabile la Superleggera di Ponti, la
poltrona Conca progettata da Roberto Mango, il tavolo di Alvini. Tuttavia dagli inizi degli anni
’60 fino alla crisi energetica del 1973 la plastica trionfò in modo assoluto nel design italiano,
tavoli, librerie componibili e televisori recavano tra le altre le firme di Mario Bellini, Ignazio
Gardella e Marco Zanuso.

All’apice della proprio evoluzione e del proprio successo il Good Design Italiano fu costretto a
scontrarsi con una nuova realtà progettuale. Le prime reazioni si fecero sentire attraverso la
rivalutazione della storia e il recupero dell’ornamento. Qualche progettista cominciò allora a
trarre ispirazione da un passato più o meno prossimo: riferimenti molto discreti che nulla o
quasi avevano a che fare con quanto più tardi sarà etichettato con il nome di Postmoderno. La
lampada Taccia rimandava ad un decantato gusto Neoclassico mentre la cosiddetta tradizione
dell’uomo appartenevano la poltrona San Luca e la poltrona Cavour. La vera e propria crisi si
sarebbe però verificata alla fine degli anni ’60 quando la linea del design italiano tesa ad
interpretare la continuità con il moderno dovette subire gli attacchi della controparte. Ambasz
mise a confronto le due realtà progettuali operanti in quegli anni nel nostro paese: il design
della generazione dei maestri è quella della generazione emergente. Inoltre distinse tre
atteggiamenti di fondo nel design italiano: quello conformista, quello riformista e quello di
contestazione.

Quest’ultimo era nato qualche anno primo a opera di giovani architetti, battezzato contro
design o radical design, si presentava con una articolata varietà di atteggiamenti provocatori,
riassumibili nella rivendicazione di un aerea di esercizio della libera creatività. Il mondo
apparve sotto una luce diversa: le certezze del razionalismo si dimostrarono troppo limitative
rispetto all’emozioni e all’irrazionalità che costituivano parte integrante della realtà. All’inizio si
cominciò con atteggiamenti eversivi: si progettavano mobili dall’uso impossibile e dalla chiara
discendenza dadaista (sedie zoppe, tavoli inginocchiati, letti chiodati) divulgati specialmente
dalla rivista Casabella. Verso la metà degli anni ’70 però, i radical designer, avrebbero
abbandonato l’atteggiamento gratuito dell’avanguardia per imboccare la strada di una
collaborazione con il mondo produttivo. Così con qualche compromesso in più il design da
radicale diventa commerciale, dando vita al cosiddetto Neo-modernismo degli anni ’80.

Il Neo-modernismo riempì le pagine patinate delle riviste, le mostre di settore e i negozi di


arredamento con tavoli dai piani sorretti da gambe contorte, con centrotavola in celluloide dai
colori sfacciati, con letti a forma di ring ed ecc. Le proposte del Neo-modernismo hanno trovato
la loro giustificazione nella aver smosso le acque troppo tranquille del Good Design, nell’aver
generato uno svecchiamento di quest’ultimo e infine nell’essere state capaci di venire incontro
all’esigenze del decorativo.

IL CASO DEL GIAPPONE

Dal 1854 a oggi: un postmoderno dal cuore antico

Come spesso accade, le idee più fortunate nascono per caso. Si dice infatti che nel 1979 un
giovane tecnico della Sony, per riuscire ad ascoltare la musica durante l'ora di pausa, abbia
costruito un piccolo apparecchio per uso personale modificando un precedente modello di
registratore. Nasceva così il walkman, un oggetto destinato a incontrare un successo davvero

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clamoroso se si pensa che dopo soli quattro anni ne erano già stati venduti quattro milioni di
esemplari; ma anche un oggetto in grado di cambiare molte nostre abitudini consentendoci un
piacevole e temporaneo isolamento dal mondo grazie a un ascolto individuale e "tascabile".
Nel 1957 la stessa casa aveva lanciato la prima radiolina portatile a transistor facendo seguito
alla produzione di apparecchi televisivi e anticipando quella di stereo, videogiochi e
videoregistratori. È innegabile, quindi, che se oggi riusciamo ad ascoltare musica ad alta
fedeltà con la stessa resa acustica dei migliori teatri del mondo, se ci è permesso di assistere a
spettacoli cinematografici esclusivi senza spostarci dalla nostra poltrona, se siamo in grado di
viaggiare su auto di provata sicurezza e di prezzo accessibile, se fotografiamo rapidamente con
gli effetti dei grandi professionisti dell'obiettivo; se comunichiamo con il telefono cellulare a
livelli sempre più apprezzabili, lo dobbiamo in gran parte al design giapponese.

Ma se l'indiscutibile successo di quest'ultimo è sotto gli occhi di tutti, meno evidente appare
invece la natura di tale successo, tant'è che talvolta gli è stato mosso il rimprovero di essere
più denso di problemi che di soluzioni. Tuttavia, a noi sembra che quella del Sol levante si
collochi tra le esperienze di design più interessanti del nostro tempo, in quanto il Giappone è
riuscito a sfruttare positivamente quella che Sartre definiva «l'unità contraddittoria delle
culture di origine e storia diversa».

Per individuare l'inizio dell'occidentalizzazione del Giappone (o della giapponesizzazione


dell'Occidente?) non bisogna andare troppo indietro nel tempo: basta fermarsi al 1854, anno
dello sbarco del commodoro Matthew Calbraith Perry nella baia di Uraga. Quest'azione di forza
degli Stati Uniti nasceva principalmente dalla necessità di ottenere scali di rifornimento a metà
rotta tra la California e la Cina, apertasi alle relazioni con l'estero dopo la "guerra
dell'oppio" (1840-42). Ma anche al Giappone conveniva avviare rapporti commerciali con gli
Stati Uniti, visto che secoli di ostinato isolamento avevano condannato il paese all'arretratezza
materiale e al pericolo della perdita di indipendenza. Cause così determinanti spinsero il
principe Mutsuhito a intraprendere, nel 1868, un'opera di modernizzazione a tutto campo
ponendo termine, in primo luogo, al dominio dei capi militari locali (shogun). Nell'epoca definita
Meiji (illuminata) e durata fino al 1912, la capitale viene spostata da Kyoto all'antichissima città
di Yedo ribattezzata, per l'occasione, Tokyo. E mentre il rapido sviluppo demografico e
industriale spingeva il Giappone ad accarezzare mire espansionistiche nei confronti del resto
dell'Asia, il processo di mimetizzazione con l'Occidente diventava l'obiettivo principale di tutto
un popolo. Nel settore economico si adottava il sistema capitalistico, in quello politico venivano
promulgate costituzioni sui modelli di quella francese prima (1869), e di quella prussiana poi
(1889); in politica estera si perseguiva una penetrazione politica e commerciale nel continente.
Ben presto fu inevitabile che anche la cultura seguisse lo stesso indirizzo, anzi, in questo
campo, fra Oriente e Occidente si avviò un singolare processo di osmosi.

A partire dall'apertura delle frontiere nipponiche, in Europa il japanisme soppianta nel gusto
degli europei la predilezione per le chinoiseries di moda fin dal Seicento. Lanterne di carta,
mobiletti bassi, paraventi laccati, stuoie e ventagli affollano le dimore più alla moda mentre il
culto del Sol levante è alimentato da libri sull'arte nipponica quali Utamaro (1891) e Hokusai
(1896), di Edmond de Goncourt, o da romanzi come Madame Chrysanthème (1887) di Pierre
Loti.

Con più probabilità, invece, quello giapponese è stato un Good design ante litteram, e per varie
ragioni: il legame con la tradizione non è mai degenerato in forme dialettali, come dimostra il
celebre sgabello Butterfly di Sori Yanagi (1915), premiato alla Triennale di Milano del 1957; il
rapporto con la storia non è mai scaduto in soggezione verso la cultura alta e, quindi, è stato
vissuto con serenità e distacco – si pensi che il disegno delle imposte in legno e quello dei
pannelli scorrevoli della villa imperiale Katsura hanno ispirato il fronte della radio da tavolo
National (1953) di Zenichi Mano; il rispetto per il lavoro artigianale ha consentito di apprezzare
come altrettanti pregi l'imperfezione, l'irregolarità e l'asimmetria e, d'altra parte, ha evitato il
complesso d'inferiorità nei confronti della lavorazione meccanica, come dimostra il fiorente
settore del migliore japanisme attuale. Infine, una naturale predisposizione alla decorazione e
all'uso del colore, assieme all'utilizzo della citazione, si è rivelata valida nella manipolazione di
forme di varia estrazione, tant'è che negli anni ottanta, i designer giapponesi poterono
conquistare la Milano capitale del Neomodern interpretando tale tendenza meglio dei designer

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italiani che l'avevano inventata. Lo conferma la poltrona Wink (1980) progettata da Toshiyuki
Kita, con una seduta bassa per ricordare l'uso giapponese di sedere sul pavimento e uno
schienale all'occidentale, per di più rallegrato da orecchie colorate piegabili in varie posizioni.
Per queste e altre ragioni si può azzardare che il design giapponese, in fin dei conti, abbia dato
da sempre lezioni di modernità all'Occidente, motivo per cui, a differenza di quest'ultimo, non
ha neppure avuto il bisogno di mettere in crisi il moderno: a ben vedere, infatti, era fin troppo
chiaro che esso conteneva in sé anche i germi di quello che verrà definito postmoderno.

Infine, se uno dei punti di forza del design giapponese è stato proprio il rapporto con la
tradizione, c'è da chiedersi se e come sia riuscito a utilizzarla anche per oggetti nati dall'alta
tecnologia, che con la tradizione non avevano invece alcun rapporto. Come è stato
recentemente osservato: In un'economia interamente proiettata verso l'esportazione, e per
contro il più possibile chiusa alle importazioni, il problema della forma dei prodotti industriali si
è posto come individuazione di modelli capaci di interpretare un generico gusto "moderno" che
non è frutto della cultura d'origine, ma solo una strategia di mercato. La forma che ne è
derivata, garantita dall'azzeramento delle differenze, è stata legittimata unicamente dalla
prepotente identità tecnica degli oggetti. Si potrebbe addirittura parlare di una "forma della
tecnica", rimasta però espressione della struttura economica giapponese, non della cultura del
Giappone."

Tale giudizio è certamente condivisibile, anche se con qualche riserva. Maneggiamo di continuo
calcolatrici, cineprese, computer, macchine fotografiche su cui spiccano i marchi Sharp, Canon,
Nikon, Olympus, Sony. Con le loro forme compatte, pulite ed essenziali, questi oggetti sono
entrati a far parte della nostra vita; non li sentiamo assolutamente estranei: anzi, li cerchiamo
come presenze amiche. Forse perché – come asseriscono i componenti del gruppo di design
GK, fondato negli anni cinquanta –, per i giapponesi immettere il "cuore" e lo "spirito" nei dogu
(attrezzi) non è che la creazione di una relazione intimamente profonda fra l'uomo e gli oggetti.

Ma, al di là di sensibilità e filosofie orientali, probabilmente gli oggetti tecnologici giapponesi ci


piacciono per quel carattere di minimalismo che pure è parte integrante della tradizione
nipponica e che, anche in campo architettonico, fornisce prove apprezzabili come la più
recente produzione di Tadao Ando. Grazie a questo aspetto, il design nipponico non solo è
riuscito a conquistare quell'"orgoglio della modestia" tanto caro al moderno europeo, ma
soprattutto quella "internazionalizzazione del gusto" che è forse il risvolto più positivo
dell'odierna globalizzazione.

EPILOGO
Fine 1900-inizio 2000: cosa è cambiato?

A metà degli anni ottanta, anche per il design parve essere giunto il momento di mettere in
discussione alcune delle incrollabili certezze che lo avevano guidato per gran parte del secolo.
Una delle occasioni di verifica fu posta dalla mostra tenuta al Centre Pompidou di Parigi nella
primavera del 1985. Il materiale espositivo era stato scelto da Jean-Frannois Lyotard che, sotto
il titolo Les Immateriaux, aveva raccolto pitture luminose, audiovisivi, ricerche di computer
graphics, ologrammi e videogame, ovvero tutti quei fenomeni di smaterializzazione, di
superficializzazione dell'esperienza e di trasformazione del rapporto dei soggetti con il mondo
recentemente trasformati dalla tecnoscienza in sofisticati strumenti di comunicazione:
sarebbero state queste, dunque, le nuove entità materiche con cui la postmodernità avrebbe
dovuto confrontarsi.
Qualche anno prima, lo stesso Lyotard aveva alimentato il dibattito sulla fine della modernità
distinguendo la sua posizione da quella del pensatore tedesco Jurgen Habermas: infatti, mentre
quest'ultimo riteneva che il progetto moderno nato con l'Illuminismo avesse ancora qualche
possibilità di attuazione, Lyotard, per converso, giudicava definitivamente archiviata la pretesa
universalità di tale progetto e dei sistemi filosofici che lo avevano sostenuto. In altri termini,
stimava tramontato il disegno di una logica lineare e globalizzante che, tendendo
all'emancipazione dell'umanità, contemplasse lo sviluppo razionale delle scienze e delle arti in
equilibrio con i fondamenti della morale, del diritto e della cultura. E se, in campo filosofico, la

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fine delle "grandi narrazioni" - non a caso gli anni ottanta avrebbero assistito al crollo dei
grandi sistemi ideologici e politici, al prevalere dell'individualismo sulla collettività, alla
frammentazione del reale con conseguente moltiplicazione dei punti di vista - veniva sostituita
dal "pensiero debole", dall'ermeneutica e dallo sperimentalismo, in campo artistico, come
proponeva Lyotard, andava esaltato specialmente il ruolo dirompente di quelle avanguardie
decise a contrastare il sapere ufficiale della società dell'informatizzazione. Come scriveva
infatti il pensatore francese: Il tema della postmodernità era strettamente connesso con quello
della condizione postindustriale, anche se la prospettiva di un ritorno al modello agrario tipico
delle società preindustriali appariva, ovviamente, debole e anacronistica. Più convincente,
invece, risultava l'atteggiamento che identificava questa condizione con l'avanzare spedito
delle nuove tecnologie — l'elettronica, l'informatica e la telematica — ormai avviate al sorpasso
di quelle della tradizione meccanica.
Sorretto dal grande racconto di un'ideologia etico-estetica e dalla fiducia nel progresso della
meccanizzazione, anche il design moderno aveva coltivato i suoi miti, riassunti in quella più
volte ricordata logica lineare che, puntando sulla diffusione dei prodotti alle masse, si poneva
come obiettivi primari la qualificazione, la quantificazione, il basso costo di produzione e, più di
tutti, il basso prezzo di vendita.
Per una serie di cause, tale programma è rimasto irrealizzato; tuttavia, sebbene siano mancate
linearità e compattezza in tutte le proposte successive, i suoi argomenti vanno ancora tenuti
presenti come altrettanti termini di paragone rispetto ai quali valutare le trasformazioni (eventi
e relative conseguenze) dell'attuale design.
Anche le brillanti riflessioni socio-semiologiche di Barthes e di Baudrillard hanno contribuito alla
pars destruens della critica ai consumi. Nondimeno, gli stessi critici della società eterodiretta
non mancavano di notare come la forza persuasiva della pubblicità, in definitiva, fosse meno
potente di quanto si pensasse, come le varie propagande finissero con il neutralizzarsi
reciprocamente, come il comando o la persuasione provocassero resistenze, contro motivazioni
e reazioni alla ridondanza dei messaggi. Sia come sia, con il passare degli anni la critica al
consumismo è passata a più miti consigli acquistando la consapevolezza che, a meno di non
aggravare i problemi della disoccupazione che affligge gran parte del globo, i consumi non
possono essere ridotti, ma al più ricondotti nell'alveo del sostenibile, e che l'etero direzione va
piuttosto incanalata in una dialettica criticamente avvertita fra produttori e consumatori. Da
più parti, infatti, si è fatto strada il convincimento che la critica al mondo delle merci è tutto
sommato un discorso da ventre sazio, visto che il vero male del consumismo sta nel fatto che
solo una piccola parte del mondo ne gode, mentre tutte le altre ne rimangono escluse."

La quantificazione, altro caposaldo del design moderno, puntava su un prodotto dai costi tanto
equilibrati da renderne accessibile il prezzo senza caduta della qualità. Oltre a quelle politiche
ed economiche, una delle principali cause per cui questo programma è rimasto irrealizzato è
certamente il fatto che ormai si può considerare tramontata l'idea stessa di massa. Con buona
pace dei sociologi della scuola di Francoforte, la massa non è più l'oceano uniforme che si
supponeva bensì un variegato arcipelago battuto da disordinate componenti comportamentali.
Per cui oggi, paradossalmente, dobbiamo fronteggiare un magma di prodotti capricciosamente
diversificati piuttosto che fruire di quelli attentamente studiati per la "massa" tradizionalmente
intesa. Tuttavia, anche se grazie alle nuove tecniche ciascuno può giovarsi di varietà mai
conosciute prima, è pur vero che bisogna scontrarsi con livelli di uniformità mai raggiunti
prima. Il mondo delle automobili ci offre esempi sintomatici: tutti i modelli di marche differenti
si somigliano in maniera impressionante, anche se ogni fabbrica si affanna a proporre al
consumatore una personalizzazione del colore della carrozzeria e dell'interno.
Nondimeno, di fronte al proliferare dei prodotti e degli "ismi" con i quali essi vengono
etichettati, di fronte alla perdita della massa come destinatario privilegiato, è spontaneo
chiedersi a chi sia destinato tanto design. E, per rispondere a tale domanda, conviene porsi
nell'ottica di quel variegato arcipelago di fruitori che ha sostituito la massa. Design
funzionalista, organico, Radical design, Neomodern, Ecodesign, linea hard o linea soft, sono
tutti soggetti e nomi agitati dagli addetti ai lavori ma che lasciano totalmente indifferente il
pubblico dei disinformati. Termini quali antropocentrismo e società, tanto invocati da designer
e critici, si risolvono solitamente in mere astrazioni, che non tengono conto delle reali esigenze
di comunità condizionate storicamente da tradizioni, economie e specifici usi e consumi. Il
consumatore medio, infatti, percepisce il "fenomeno design" non come la presunta e globale
esperienza cui si è teso in lunghi anni di battaglie, bensì come un valore aggiunto pertinente a
ogni specifico campo: quello della carrozzeria quando acquista un'automobile; quello
dell'arredamento quando acquista un mobile; quello degli elettrodomestici quando acquista
una lavatrice, e così via.

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Rispetto all'evoluzione del gusto, il pubblico ha percepito essenzialmente come fenomeno di
moda il Razional-Funzionalismo, il successivo diffondersi dell'organico mobile svedese, i
prodotti della società opulenta degli anni sessanta, le ironie del design Neomodern, la linea,
infine, degli oggetti nati dalle nuove tecnologie, dei quali non coglie le costose difficoltà
produttive ma solo l'alto costo al consumo e, in fondo, la viltà dei materiali. L'informazione,
peraltro, non dirada minimamente le nebbie della sua confusione: chi apre una qualsiasi rivista
di design, prima del corpus dedicato agli specialisti si imbatte in una ridda di pagine
pubblicitarie che, illustrando indistintamente di tutto – dal prodotto autentico a quello
compromesso con la commerciabilità più esplicita.

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