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MASSIMO NEGRI
1. EVERY MUSEUM IS A MUSEUM OF SOCIAL HISTORY
Questa frase del museologo Kenneth Hudson propone una lettura del museo come luogo in primis della rappresentazione storica
nella sua dimensione politica, sociale, scientifica ed esistenziale. L’esposizione di una collezione è sempre interpretazione di una
storia umana, sia collettiva o individuale, e dietro al gesto espositivo, cioè la creazione di un ambiente museale, stanno le idee, le
fantasie, le culture di altri uomini che gli oggetti e gli spazi del museo interpretano e mettono in scena. Nella visione di Hudson
hanno svolto un ruolo emblematico quei musei che fanno della loro principale linea narrativa la storia dell’industria, del lavoro, e
della società, fino ai riti di massa contemporanea: del resto è doveroso ricordare che è proprio in queste variegate tipologie che si
sono registrate le trasformazioni più incisive e diffuse che hanno cambiato a loro volta i volti del museo, soprattutto in termini di
comunicazione, con un programma museo logico che rende comprensibile nel modo più efficace i diversi possibili significati.
Questo processo, che chiameremo provvisoriamente di interpretazione è il motore della modernizzazione di molti ambienti museali
in Europa ed è stato generato da uno stato di necessità in cui il museo si è trovato sotto la convergente pressione di una domanda
nuova di conoscenza da parte del pubblico.
Riassunto emblematico è la TATE MODERN DI LONDRA: pur non essendo un edificio di una nuova concezione, è assurta a icona del
paesaggio urbano con il ridisegno di Herzog & De Meuron, e ha inoltre proposto un’interpretazione delle collezione per temi, di tipo
radicalmente nuovo rispetto alla sia pur recente tradizione. I quattro nuclei tematici con cui la Tate Modern si presentò: storia/
memoria/ società, nudo/azione/corpo, paesaggio/materia/ambiente e natura morta/oggetti/vita reale: modello che ha l’obiettivo
di ridefinire il rapporto tra manifestazione artistica e contesto storico-sociale, come pure quello tra curatori-artisti-pubblico. Questo
slancio, che ha inserito la Tate nella top list dei musei mondiali, si deve al suo direttore-fondatore Lars Nittve.
Dello stesso periodo e ispirati a principi simili, ma soprattutto prodotti dallo stesso humus culturale, sono il Beamish a Durham
(1971) e il Black Country Museum di Dudley (1978); il primo è il tipico museo open air nella versione inglese fortemente
caratterizzato da una certa nostalgia per l’epoca vittoriana. Il secondo conta oggi 150 edifici, in gran parte provenienti da altri luoghi
e ricostruiti sul sito: Si autodefinisce un museo immersivo, la cui principale forma di interpretazione del patrimonio è quella di attori
figuranti che animano questa sorta di palcoscenico della storia industriale, soprattutto del memorabile sciopero delle operai
impegnate nella produzione di catene. Dall’altra parte le collezioni e gli oggetti mobili sono autentici, tranne appunto l’elemento
umano, interpretato con tale convinzione da lasciare pochi dubbi sulla comunità di una cultura.
Tappa successiva di questo itinerario full british è il MUSEUM OF SCIENCE AND INDUSTRY DI MANCHESTER (1983), che comprende
una porzione di tessuto urbano nel quartiere di Castlefield, centro della storia industriale della città, passato attraverso un processo
di grave e prolungato degrado e recuperato alla vita urbana contemporanea con uno stringente programma di ripristino: il museo
include la più antica stazione ferroviaria al mondo oggi visitabile, infatti la stazione è stata restaurata e convertita in museo per
presentare la storia di questa città che è considerata il primo caso di città fabbrica.
Dello stesso humus culturale e storico provengono diversi degli oggetti esposti nella Britisch galleries (2001) del Victoria and Albert
museum, reinterpretazioni di una grande collezione di aperti applicate riletta come documento di storia del design e di storia dei
comportamenti sociali e antropologici nell’Inghilterra degli ultimi quattro secoli.
Per comprendere il significato evolutivo delle British Galleries occorre fare un passo indietro: il 1 maggio 1851 la regina Vittoria e il
principe Alberto inaugurano la Grande esposizione al Crystal Palace i Hyde Park; nel 1899 la regina Vittoria pone la prima pietra
dell’attuale grande edificio e completato nel 1909: il Victoria and Albert Museum, ribattezzato V&A. bisogna sottolineare che senza
il febbrile spirito di iniziativa di Alberto e la sua totale dedizione alla causa dello sviluppo economico britannico, non ci sarebbe
probabilmente stata la Great Exhibition nel Crystal Palace, nucleo primogenito del South Kensington Museum (1857), da cui
gemmerà il V&A di oggi: il legame tra la Great Exhibition e il V&A è particolarmente profondo, poiché l’Esposizione è stata anche
un elaborato esercizio di comunicazione incentrato sugli infiniti modi di presentare oggetti della civiltà moderna.
Possiamo sicuramente affermare che l’ambivalenza del V&A come luogo topico della cultura britannica moderna e insieme luogo
sacrale del divenire del gusto a livello mondiale è sicuramente una delle chiavi della sua autorevolezza e della sua capacità di
attrazione.
Ma torniamo alla British Galleries, inaugurata nel 2001 dopo circa cinque anni di lavoro sotto la guida di Gwyn Miles, nel periodo di
direzione del museo di Alan Borg, è subito diventata un classico esempio della museologia e museografia contemporanea: è
sicuramente inusuale, nei grandi musei di tradizione, un tale coraggio di sperimentazione delle collezioni. La British Galleries sono
spazi dove non solo si contempla, ma si può sperimentare l’uso dei diversi materiali costruttivi e dei modi di vestire nei secoli, o
simulare la costruzione di architetture e mobili nelle famose e imitattissime Discovery Rooms (queste stanze sono integrate nelle
esposizioni permanenti e caratterizzate da un ordinamento degli oggetti estremamente chiaro, visivamente nitido, che
miracolosamente evita quell’effetto magazzino tipico di molti musei di arti applicate).
Dal punto di vista strettamente concettuale l’ordinamento è stato pianificato in base a quattro temi che ritroviamo esplicitati nei
testi all’inizio di ogni sala: lo stile. Chi orientava il gusto? Vita alla moda. Cosa c’era di nuovo? È evidente la ricerca di un equilibrio
tra componenti di storia dell’arte e di storia sociale secondo una articolazione chiara, semplice e stimolante, sia per il visitatore
esperto sia per il profano. In essa si dimostra la capacità di divulgazione, frutto di una completa padronanza della materia e della
necessaria autorevolezza del comunicatore (anche la dimensione digitale del v&a è esemplare, per l’intensità, la completezza e
l’efficacia delle postazioni multimediali che accompagnano il visitatore. Il database della collezioni offre a tutti infinite possibilità di
scoperta prima e dopo la visita, la web tv del museo è un esempio eccellente di edutainment tra cronaca culturale e analisi critica
dei fenomeni artistici).
Per un museo caduto, ce ne è uno che sta ancora in piedi, costruito a dividere la capitale di Cipro dopo l’invasione nel Nord
dell’isola da parte delle truppe turche negli anni settanta. Nicosia è così l’unica capitale dell’Unione europea attualmente soggetta a
una divisione. Qui, a poche centinaia di metri dall’unico varco delle persone da un settore all’altro, è stato rinnovato il locale museo
della città Levantis: un palazzetto del xix secolo, il primo ospedale provato trasformato in museo con il supporto della Fondazione
Levantis, uomo di affari greco cipriota. Il cuore della città di Nicosia si trova all’interno delle mura costruita dai veneziani nel xvi
secolo, ma dal 1963 la città è stata divisa dalla cosiddetta Green Line. All’interno del museo vi si ripercorre tutta la storia urbana
fino ai nostri giorni, trattando con prudenza il tema delle lacerazioni e dei possibili sviluppi futuri, che in un certo senso tende a
fornire una immagine rassicurante di normalità.
Ma parlare delle divisioni è sempre difficile e controverso e porta inevitabilmente a discutere delle potenzialità manipolatorie del
museo anche nella sua narrazione politica. Questo avviene specialmente quando si arriva al momento del bilancio storico e
ideologico alla fine di un processo di separazioni, sia esso geopolitico o tra le diverse anime della società, come succede nei regimi
dittatoriali. Piuttosto grande ed importante a questo riguardo è la Casa del Terrore di Budapest, molto controversia in patria per la
tesi che sostiene la continuità degli apparati repressivi tra il fascismo ungherese e il regime poliziesco comunista. Maria Schmidt,
anima del progetto, non ha avuto esitazioni nel rendere il più possibile esplicito questo succedersi di funzioni poliziesche di regime
dittatoriali tra loro diversi, ma accumunati dalla stessa brutalità nei confronti di ogni oppositore. La ricostruzione del labirinto di
celle in cui venivano interrogati e torturati i prigionieri si trova a culmine di un percorso in cui la tecnica di comunicazione è quella
di un coinvolgimento emotivo del visitatore, attraverso installazioni spesso ispirate al linguaggio dell’arte contemporanea. Non
meno scioccante è l’aspetto informativo, nella documentazione sia delle commuoventi storie personali delle vittime sia dei
persecutori. Per la sua franchezza nell’indicare i nomi e i cognomi dei responsabili di diversi programmi di repressione politica, il
museo è stato accusato di essere di parte e questa discussione dura ancora oggi.
Del resto, la polemica politica innescata da un programma museale non è rara: come ad esempio il caso dell’esposizione della
fusoliera del bombardiere americano Enola Gay, da cui fu sganciata la bomba atomica su Hirsoshima: ne seguì un lungo ed acceso
dibattito tra chi sosteneva che venisse data troppa attenzione alle vittime e non ai motivi dell’utilizzo dell’arma atomica. Alla fine
l’esposizione fu chiusa e il reparto rimosso e collocato in altra sede.
Il muro, il ponte, due immagini che possiamo porre agli estremi di una successione di episodi che attraversa costantemente la
storia politica: il primo come elemento di separazione, il secondo come fattore di collegamento e scambio.
Soprattutto per la storia europea del Novecento, il muro per antonomasia è stato quello di Berlino; il ponte, forse più carico di
valori simbolici, a causa della sua distruzione nel 1993 e ricostruzione nel 2004, è stato quello di Mostar in Bosnia, un paese
teatro della più sanguinosa guerra europea dal 1945, dove è stata realizzata nel 2005 la Sbrebrenica Memorial Room: il museo
di Srebremica è collocato nella fabbrica abbandonata che in parte fu sede delle truppe olandesi dell’onu, il cui onore è stato
macchiato dall’atteggiamento passivo tenuto durante il massacro; avvenuto nel luglio del 1995, di settemila bosniaci
musulmani a opera dei bosniaci serbi. Due torri neri ospitano rispettivamente documentari e una raccolta dei pochi oggetti
personali recuperati dalle fosse comuni, che sono presentati per raccontare la storia degli ultimi giorni delle vittime in questo
terribile episodio di pulizia etnica.
La recente revisione radicale di alcuni modelli che avevano seguito un loro status indiscusso è comune anche ad altri musei che si
collocano nei dintorni delle vicende militari in senso stretto; se sono esempi significativi i rinnovamenti succedutisi nel tempo nella
Casa di Anna Frank ad Amsterdam. Oltre che un museo, la Casa di Anne Franck può essere considerata anche un memorial, come lo
sono molti altri situati in campi di battaglia o in luoghi legati ad eventi storici particolarmente famosi. È questa l’occasione per
ricordare che anche i memorial hanno subito in alcuni casi un processo di contaminazione da parte della forma del museo, quindi
dove i reperti assumono i ruolo secondario rispetto alle potenzialità evocative.
Ma la guerra, i totalitarismi e tutto quanto sta loro intorno lasciano intorno una eredità che ha effetti deflagranti duraturi nel
tempo. Da un lato il succedersi dei diversi revisionismi storici, che propongono interpretazioni spesso opposte agli stessi materiali
documentari; dalla’altro, l’irrisolvibile complessità del rapporto tra memoria e storia mette il museo in serio imbarazzo: esso svolge,
per tradizione, una funzione di mediazione tra il visitatore e l’interpretazione curatoriale proposta, ma quanto più il museo si apre
alla società e alle diverse correnti di pensiero e alle differenti sensibilità che l’attraversano, tanto più l’eredità di questi grandi
processi storici e i musei che li rappresentano in pubblico, diventano dissonanti o almeno corrono il rischio di diventarlo.
Dall’altra parte, il documento principale della storia del Novecento e cioè la fotografia può essere a sua volta fonte di infinite
querelles, non solo per l’eventuale manipolazione di cui può essere oggetto in sede di esposizione, ma per le falsificazioni che
possono intervenire nella sua stessa fase di realizzazione come documento obiettivo.
A volte non è neppure necessario che il museo prenda posizione ma è invece indispensabile che dia pienamente conto di tutte le
informazioni che rendono un documento più o meno plausibile. Al semplice gesto espositivo vieni così riconosciuta una intesa forza
di rievocazione, temibile e ritenuta capace di influenzare potentemente il pubblico. Trattare temi e le collezioni che riguardano idee
politiche, fatti storici e umani che evidentemente hanno segnato in profondità il corso degli eventi e della società contemporanea, è
e resterà per il museo un obiettivo a cui mirare, seppure con tutte le difficoltà a cui va incontro.
Ma, come dice David Lowenthal, heritage is not history… history is a record of the past heritage is a celebration of the past, e il
museo si trova nel mezzo. Da un lato è garante dell’attendibilità di quanto racconta e dall’altro inevitabilmente manipola le prove di
questa narrazione attraverso l’esposizione e la ricontestualizzazione dell’oggetto. Sicchè heritage e history vengono a confondersi in
una potenziale babele linguistica dove celebrazione, testimonianza, informazione e pathos coesistono secondo ricette diverse e
secondo le molteplici possibili percezioni dell’utente finale. Dall’altra parte, è legittimo chiedersi come sia possibile che proprio al
museo, in certa misura luogo esemplare della manipolazione della cosa vera, venga richiesto in maniera pressante di contribuire
alla costruzione di una memoria condivisa. Forse sarebbero più intellettualmente onesto chiedergli semplicemente di prendersi la
responsabilità esplicita di quanto afferma per il tramite dell’esposizione.
Si colloca lontano da questo problema un museo totalmente politico e quindi probabilmente in futuro completamente dissonante,
come il Museo della Lotta macedone per la sovranità e l’indipendenza aperto nel 2011 a Skopje. In sostanza il museo si applica in
una rilettura della storia recente del paese attraverso l’identificazione dell’Imro (una organizzazione indipendentista che arrivò a
essere definita Stato nello Stato9, come protagonista della lotta per l’indipendenza a partire dalla metà dell’Ottocento, e la
ricostruzione di diversi episodi della dittatura comunista. È un museo unico nel suo genere, realizzato in un edificio di nuova
costruzione, affollato tra l’altro di enormi statue di scadente fattura dedicate a eroi più o meno macedoni, a cominciare da
Alessandro Magno. Tutte le sale sono state realizzate seguendo un preciso schema, una scena teatrale o una sorta di set
cinematografico in cui vengono collocate state di cera prodotte in Ucraina raffiguranti i diversi protagonisti degli episodi storici via
via narrati, sullo sfondo di enormi dipinti realizzati prevalentemente da pittori russi di origine accademica ispirati allo stile del più
ortodosso realismo socialista. Se aggiungiamo a questo la presenza di figuranti in costume collocati strategicamente luogo il
percorso, ne risulta un bizzarro mix di spettacolo e rievocazione storica dove il kitsch e teatralità si mescolano in un risultato
sconcertante, ma sicuramente non banale. Invece gli oggetti autentici, documenti, fotografie e militaria, sono conservati in vetrine
inserite nell’arredamento delle diverse scenografie. Quanto di museale ci sia in questa tecnica espositiva non è chiaro, senz’altro
risulta confermata l’importanza che si attribuisce alla forma museo in un paese per ridefinire la propria identità.
Tutta questa casistica evidenzia un grande processo di riedificazione dei significati in cui tale particolare categoria dei musei è
impegnata per i temi scottanti che chiama in causa. È legittimi aspettarsi una certa disponibilità alla contaminazione, alla migrazione
di oggetti in contesti nuovi rispetto a quelli per cui sono stati concepiti.
Paradossale allora risulta un episodio occorso durante la preparazione della mostra Bombe sulla città, Milano in guerra 1942-1944,
allestita nel 2004 dal Museo del Risorgimento di Milano. È stata richiesta in prestito l’opera di Boltanki (che ha interpretato l’evento
del 1938 a Venezia nel momento della inaugurazione della Biennale di Venezia, a cui sono presenti tutti i gerarchi del regime
fascista, destinata a finire alle 4,45 di mattina del 1 settembre 1939 quando le truppe naziste invadono la Polonia) che ha cercato di
interpretare questa vicenda, così indicativa del rapporto tra arte e politica nell’Italia fascista, con una opera in cui allinea 193
fotografie tratte da diverse fonti dell’epoca: l’artista adotta un metodo di lavoro artistico da lui definito raccolta delle prove, usando
fotografie, documenti e oggetti, assemblati in grandi installazioni di quelle che chiama piccole memorie, distinte dalle grandi
memorie, riportate dai libri di storia.
Un posto del tutto particolare occupa in questo complesso di musei delle idee e delle idealità un gruppo incentrato sulla storia
dell’ideale europeo, indagata e comunicata attraverso la vicenda personale dei suoi protagonisti. Tutte queste realtà rappresentano
un interessante modello di museo, che, seppure con declinazioni differenti applicate alle diverse personalità, si impegna a ricordare
la vita e le gesta di queste personalità politiche (de Gasperi stesso afferma uno Stato ideale sarà raggiunto quando sarà possibile
mantenere appositi organi di trasmissione delle esperienze e dei risultati ottenuti da una generazione all’altra): a tale significativo
messaggio possiamo riferirci per comprendere le idee fondamentali alla base del progetto di realizzazione di tali musei come luoghi
di memoria, spazi dove gli ideali, i valori, le esperienze e i fatti storici hanno modo di raccontarsi e di veicolare il passato attraverso
le generazioni future. Il musei Casa de Gasperi, inaugurato nell’agosto 2006, nasce a Pieve Tesino in seguito al progetto di recupero
della casa natale e della sua conversione in spazio espositivo. Il concept museale si è sviluppato attorno a un primo livello evocativo
con l’intento di ricostruire i momenti più significativi della vita pubblica e privata di de Gasperi, e un secondo livello informativo
costituito dalla realizzazione di un’area di consultazione chiamata Laboratorio de Gasperi. Le sale del museo vengono distribuite su
quattro piani, in cui il modello espositivo cambia oggetti carichi di storia e testimonianze dell’epoca, disposti secondo la tecnica
narrativa del flashback, e una serie di totem disposti lungo il percorso e dotati di un sistema di navigazione toch screen, contributi
sonori e proiezioni video. All’ultimo piano sono posizionati il laboratorio didattico, la biblioteca e la videoteca, dove vien rese
accessibile un ricco patrimonio di dati e notizie che rende possibile l’approfondimento dei temi storici e biografici affrontati durante
il percorso > formula casa-museo.
2. NUOVI PARADMI DELL’INTEPRETAZIONE DEI PATRIMONI
ARCHEOLOGIE
Dagli anni cinquanta è andata emergendo una più marcata distinzione tra le diverse archeologie, i cui risultati sono in mostra nei
musei. Archeologia preistorica, classica, medievale, fino alla archeologia industriale, ciascuna con i suoi metodi di lavoro e anche
con i suoi modi di rappresentarsi e di guidare il visitatore nella comprensione della sua storia. in particolare è stata l’archeologia
industriale a sovvertire gerarchie culturali consolidate e a richiedere una riformulazione radicale dei modelli museali relativi
all’esposizione di collezioni archeologiche. Potremmo quindi parlare di una vera e propria irruzione dell’archeologia industriale nel
mondo dei musei. Ma torniamo alle archeologie più tradizionali, che pure hanno progressivamente definito in maniera più
articolata il loro approccio all’interpretazione degli oggetti e dei siti. L’approccio formale ed estetico che ha caratterizzato per molto
tempo le esposizioni, pur innestando in genere su una rigida sequenza cronologica, è a mano a mano evoluto verso fome più
narrative in cui la storia sociale, delle singole personalità, delle tecniche e delle idee si sono fuse nello sforzo di restituire una
visione globale dei mondi di provenienza dei reperti. A questo si è aggiunto un crescente interesse per il racconto dell’archeologia
come procedura di ricerca scientifica, ma anche come avventura che ha molto spesso alimentato la fantasia media e dell’industria
dell’intrattenimento.
Le collezioni archeologiche sono indissolubilmente collegate ai luoghi di origine delle scoperte. Ciò ci riporta a una delle
problematiche più spinose in merito a come preservare e presentare i risultati degli scavi all’interno del paesaggio urbano
contemporaneo:quando non si voglia percorrere la strada della sottrazione del sito alla vista della folla urbana attraverso il suo
occultamento in una struttura museale visivamente impenetrabile, le cose si fanno complicate. La Spagna è stata luogo
particolarmente fecondo di sperimentazione, nel tentativo di mantenere nella città una presenza scenica delle rovine
archeologiche, integrata però dagli apparati interpretativi tipici di un museo moderno.
Nel 2010 a Toledo si è tenuto il sesto congresso internazionale di musealizzazione dei giacimenti: i sentieri archeologici in questi
casi svolgono un po lo stesso ruolo delle vetrine del museo: delizia dei curatori e degli architetti nel tentativo di conciliare
conservazione, accessibilità e qualità del design. Il problema della sostenibilità a lungo termine di un programma di accesso a siti
particolarmente fragili e allo stesso tempo capaci di attrarre grandi numeri, ha dato vita alla sperimentazione dei cossidetti centri
di interpretazioni in cui vengono utilizzati diversi dispositivi per una interpretazione cognitiva, che è resa più efficace da una forte
componente visuale ed esperienziale.
CORPORATE LANDS
A Marmunsk nel 2015 si è tenuto il secondo incontro promosso da Icom Russia sul tema dei musei di impresa. È interessante notare
che anche in un paese per settant’anni lontani dai dinamismi occidentali, rinasca oggi una attenzione verso un patrimonio molto
particolare, ovvero quello aziendale. Questo a sua volta può essere distinto in due grandi categorie: l’insieme degli oggetti, delle
architetture, dei documenti che si è venuto a formare nel corso del tempo a seconda delle diverse vicende aziendali oppure il non
frequente di collezioni acquisite da imprese per costruire un museo, incentrato sì sui prodotti del mercato, ma non
necessariamente realizzati dalla azienda stessa.
Discorso a parte meritano le collezioni d’arte create e sviluppate da aziende: collezioni di arte generate dallo spirito collezionistico
di imprenditori e utilizzate sia per finalità strettamente culturali, sia a scopo di immagine e di posizionamento del marchio aziendale
in un ambito culturale ritenuto coerente con l’orientamento estetico e creativo del brand. Caso emblematico è la Fondazione Prada
di recente aperta a Milano in una ex distilleria ristrutturata su progetto dello studio Oma guidato da Remment Koolhass.
Sebbene la storia di questa categoria di musei conta su poco più di un secolo di vita, possiamo vedere che le formule adottate,
soprattutto quelle più sperimentali, hanno fatto registrare una convergenza con alcune delle più recenti evoluzioni dei modelli
museali di cui abbiamo appena parlato, specialmente in&out. Come il museo di Swarowski a Wattens (austria) che è il risultato dei
prodotti aziendali e arte contemporanea che si sviluppa in un percorso opern air di notevole impatto visivo, capace di attrarre
milioni di visitatori e che può essere interpretato come un punto di incontro con la Land art e allestimento di una cossi detta
Corporate Land. Con questo termine si intende uno spazio totalmente ispirato ai valori e all’identità di un’azienda, sia esso un sito
produttivo oppure un edificio di rappresentanza o magari un allestimento temporaneo come quello di uno spazio fieristico.
L’elemento caratterizzante di questi musei è dunque il loro rapporto inscindibile con gli sviluppi della vita aziendale.
3. MUSEI PER ASCOLTARE E MUSEI PER LEGGERE
La sacralizzazione del luogo in cui si è svolta la vita, o una parte di essa, di una personalità illustre, ha ispirato il modello della casa
museo, di cui abbiamo già richiamato l’idea a proposito dei padri fondatori dell’Unione europea. Ciò che accomuna questi luoghi
così diversi per la collezione geografica e per caratteristiche del protagonista è l’intento di conservare l’atmosfera originale, sia dal
punto di vista dell’architettura sia degli arredamenti. È quanto avvenuto, per citare solo in Italia, nel Museo di casa Pascoli, nel
Vittoriale di d’Annunzio, in Casa del Manzoni, nella casa di Carducci o in quella di Leopardi. Ma questo modello, che ha avuto molte
varianti nel tempo, tanto da motivare la nascita di un comitato internazionale che ne va classicando un sempre più vasto repertorio,
è oggi soggetto a una radicaòe messa in discussione per il cambiamento del suo pubblico e del suo status nella percezione
collettiva. Il pellegrinaggio verso le case museo è molto cambiato negli ultimi decenni. E ciò ha fatto emergere alcuni tentativi di
modifica di questo modello basati sulla contaminazione con linguaggi museali non più unicamente fondati sulla suggestione del
luogo e della sua autenticità.
In questa area, un campo di indagine particolarmente istruttivo può essere quello dei musei che definiamo per ascoltare e per
leggere. È una definizione di comodo che ci è utile per richiamare la peculiarità di musei nei quali l’esperienza visiva, che sta a
fondamento della quasi totalità dei musei del mondo, assume una connotazione particolare in quanto inserita in un contesto
narrativo e informativo in cui la sfera sonora oppure quella letteraria costituiscono l’elemento centrale del messaggio museale.
Nei musei dedicati a personalità della musica, la sfida è quella di rappresentare una biografia, ma anche le creazioni sonore. Diversa
la problematica quando trattiamo di musei degli strumenti musicali, dove in genere è prevalente l’aspetto strettamente
collezionistico e tecnico degli oggetti: si tratta in genere di raccolte ordinate per tipologie o disposte cronologicamente che ben
poco si discostano da modalità espositive convenzionali, pur avvalendosi di dispositivi vegetali che danno voce ai reperti. Un caso
particolare è la collezione del maestro Tagliavini esposta nell’ex chiesa di san Colombano, uno dei siti del percorso museale Genus
Bononiae. Qui tre fattori, difficilmente ripetibili, concorrono al felice risultato finale: la qualità dell’architettura, la qualità della
collezione ed infine le quotidiane performance dei curatori coinvolgono il visitatore alla scoperta degli aspetti tecnici e artistici che
caratterizzano i diversi strumenti di questa raccolta di valore mondiale, circa 90 pezzi scelti con estrema attenzione dal maestro
Tagliavini, il quale sovente si intrattiene con il pubblico e generosamente offre esempi della sua grandissima competenza.
Altro esempio da citare è il museo di Chopin a Varsavia: nel 2010, in occasione del bicentenario dalla nascita del musicista, il museo
è stato oggetto di un profondo progetto di restauro, che rende alla città quello che senza dubbio si può considerare uno dei più
moderni musei del paese. La collezione viene distribuita su quattro piani e il percorso espositivo prevede che in ogni livello venga
rappresentato un tema legato alla vita o alla produzione artistica del compositore. A una interpretazione classica, cje prevede
l’esposizione di fotografie, documenti, manoscritti e spartiti originali attraverso i quali vengono ripercorse le tappe della cita di
Chopin musicista, si affianca a una lettura più intima, che pone l’accento sulla sfera affettiva e di relazione con il mondo femminile,
attraverso i luoghi da lui visitati o le abitazioni in cui visse. Il piano interrato, nasconde un vero e proprio gioiello, specialmente per
gli amanti della musica classica: vi si trovano numerose scrivanie, ciascuna delle quali corrispondente a un genere musicale
praticato dal compositore e corredate da spartiti multimediali fruibili con touch screen.
Dai musei da ascoltare ai musei da leggere, dove protagonista è la parola scritta, la biografia dell’autore e l’evocazione dei suoi
personaggi: in altri termini, musei dove coesistono, e a volte configgono, la sfera personale e il prodotto creativo, ciascuno con la
sua specifica storia. Questa distinzione tra dimensione letteraria e mondo reale dello scrittore si concretizza nella differenza tra le
case museo di letterati e musei specificamente interpreti di un’opera o di un personaggio della letteratura.
Dallo scrittore ai suoi personaggi: la fortunata globale di alcune saghe letterarie ha determinato la nascita di un format, che
probabilmente di museale ha ben poco, ma che dal museo a volte usa il linguaggio e ha a che fare comunque con i celebri scrittori
che hanno creato personaggio e nuovi mondi, diventati autentiche icone contemporanee. Alla scrittrice inglese Rowling si deve la
saga dedicata ad Harry Potter: e così, a coronare il sogno dei fan della saga magica, nel 2012 viene realizzato dalla Warner Bros ai
Leavesden Studios, sito nelle vicinanze di Londra, il museo The Making of harry Potter: questi spettacolari musei set si propongono
come luoghi dove l’occhio e la mente del visitatore vengono soddisfatti, non più dalla parola scritta, dal documento, dalla
fotografia, bensì da una realtà finta, in quanto costruita, ma simbolicamente atta a rappresentare tutto quello che nella mente del
lettore è stato elaborato attraverso la fantasia e che in questa visita si può vedere concretizzato.
4. MUSEO DIGITALE E DINTORNI
Jamie Mckenzie afferma un museo virtuale è un insieme di risorse elettroniche e informative di tutto ciò che può essere
digitalizzato. La collezione può includere dipinti, disegni, fotografie, diagrammi, registrazioni, video, articoli di giornale, trascrizioni
delle interviste, database numerici e una serie di altri elementi che possono essere sul server del museo internazionale > il fatto che
nella parole appena scritte non vi sia neppure menzionato internet è un segnale delle originarie concezioni del museo virtuale come
semplice copie digitale del patrimonio collezionistico e informativo del museo. Questo aspetto resta ovviamente la precondizione
per qualunque discorso evolutivo sul museo virtuale. Con la modellazione 3D, la webcam, la realtà aumentata e i virtual tour in
QuickTime ci si avvicina progressivamente all’obiettivo di una sorta di calco digitale del museo. L’approdo del museo virtuale
novecentesco su internet ha ovviamente cambiato radicalmente i termini dei possibili sviluppi nel secolo successivo. Ma ci troviamo
tuttora in una fase di transizione.
Mentre anche grandi compagnie internazionali conservano il sito ormai per motivi istituzionali, ma fondamentalmente comunicano
e fanno marketing tramite i social network, per molti musei la presenza in internet è ancora una vetrina statica o poco più. Se
osserviamo i siti web di alcuni grandi musei, quelli che possono permettersi risorse e personale dedicato, possiamo rilevare che
l’aspetto promozionale, l’accento sugli highlights della collezione, le immagini accattivanti, le animazioni grafiche contano molto
meno che in passato, a favore di una molteplicità di servizi, di un’enorme massa di materiali non necessariamente collegati alla
vista del musei. Persone che non avrebbero mai avuto la possibilità non solo di accesso, ma anche di dialogo con un determinato
museo per i più diversi motivi, compresi quelli geografici, che vengono disinvoltamente sottovalutati a causa dell’esplosione della
mobilità low cost, si lasciano coinvolgere e manifestano in diversi modi i loro interessi (ad esempio il Louvre nel 2013 ha avuto 9,3
milioni di visitatori, il suo sito 14 milioni).
Possiamo dire che la dimensione digitale del museo in rete abbia acquisito una sua autonomia di linguaggio, di organizzazione e, in
parte, anche di contenuti, che fanno della nozione di musei virtuale qualcosa di molto più complesso e attraente di quella che ci ha
accompagnato fino a pochi anni fa, quando era inteso come una sorta di sottoprodotto del museo tangibile. Naturalmente questo
va di pari passo con l’emergere di nuovi modi di essere degli utenti, come abbiamo già detto sempre più multitasking. Possiamo
dire che un primo effetto importante delle due rivoluzioni comunicative del nostro tema, cioè quella della digitalizzazione e quella
di internet, consiste nella convergenza tra l’esperienza fisica del museo e quella virtuale, anche grazie ai dispositivi mobili in misura
crescente proposti al pubblico come strumento per la visita in situ o a distanza: ne consegue un cambiamento radicale nei termini
della fruizione dell’esposizione.
Per esempio, ne deriva un ruolo interessante del museo come motore di ricerca territoriale, come hub del patrimonio territoriale e
della sua storia concettualmente o fisicamente ricollegabile ai contenuti del museo stesso. Un esempio stimolante è fornito da
Orbis, un modello della Stanford University per sperimentare la rete di comunicazione in epoca romana, che riflette la situazione
nell’anno 200 d.C. e che, posto in relazione a una collezione archeologica musealizzata e a siti visitabili, costituisce uno strumento
di contestualizzazione storica dell’osservazione territoriale di notevole efficacia informativa.
In questa situazione la padronanza dei meccanismi concettuali, se non operativi, della comunicazione multimediale digitale non è
più una semplice scelta. Il vasto menu delle esperienze digitali non è più una semplice scelta. Il vasto menu delle esperienze digitali
che possono essere proposte all’interno dello spazio espositivo in diretta relazione con gli oggetti è uno dei rari casi di mix tra
virtuale e tangibile nell’esperienza quotidiana del pubblico, dove, invece, i due momenti sono generalmente distinti temporalmente
e spazialmente.
Dal punto di vista strettamente metodologico, l’ormai ridondante riferimento allo storytelling nel gergo museale non è di per sé
garanzie della qualità dell’informazione, dell’emozione e del coinvolgimento. Resta il fatto che questa sete di storie ha due chiavi
di interpretazioni ugualmente valide. Da un lato, nella società di massa soprattutto opulente la pervasità della comunicazione
narrativa sembra una comprensibile aspirazione a una medicina lenitiva per la folla solitaria; dall’altro, nelle società in via di
sviluppo e che oggi sono ugualmente digitalmente alfabetizzate, la dimensione narrativa mantiene la sua importanza rituale,
magica e di trasmissione delle tecniche e da dei narratori dei detentori di saperi anche complessi.
Il ruolo del museo qui ha fondamentalmente a che fare con la questione dell’autorevolezza delle fonti, della loro tracciabilità, delle
competenze comunicative del museo e della potenza della web-narrazione rispetto all’autenticità dell’esperienza di scoperta
dentro e fuori il museo.