Sei sulla pagina 1di 14

STORIA DELLA MENTALITA; PITOCCO

LUCIEN FEBVRE, le origini della Riforma in Francia e il problema delle cause della Riforma
I primi che si dedicarono a ritrovare le cause, a rintracciare le vicende, a caratterizzare gli inizi della Riforma francese,
non furono storici, ma uomini di Chiesa, sacerdoti o ministri. Per loro non si trattava certamente di studiare la genesi
di uno stato d'animo nuovo: essi volevano prima di tutto difendere le loro Chiese contro i rivali. Quindi, ciò che li
colpiva della Riforma non era il fatto religioso, ma quello ecclesiastico: la rottura con Roma, la nascita di nuove Chiese.

Così il problema delle origini diveniva secondario, o meglio: non interessava la vicenda e le motivazioni della rivolta di
Lutero  la Riforma era uno scisma, e come scisma riconosceva come propria causa la rivolta > nata da una rivolta
contro gli ABUSI della Chiesa la Riforma riconosceva come propria causa questi stessi abusi, e come autore Martin
Lutero (articolando così la storia religiosa di oltre un secolo intorno al monaco) = questo emblematico momento
storico andava a ridursi a due elementi ben scarni: quello ecclesiastico e quello politico.

Al di là di questo, dal 1517 inizia una nuova età, una Historia nova, nata con Lutero, così come la Historia medii aevi
era nata con Cristo. Martin Lutero, professando pubblicamente dottrine giudicate da Roma eretiche, si mise in lotta
contro l'autorità della Santa Sede, finché nel 1521, con un atto solenne, si vide espellere dalla comunità dei fedeli.
Quindi, nata da una rivolta contro gli abusi della Chiesa, la Riforma riconosceva come propria causa questi stessi abusi,
e come autore Martin Lutero.

Oggi non si tratta più di fare storia ecclesiastica, ma storia religiosa. Porsi, per esaminare e comprendere, non più
fuori, ma all'interno delle persone e delle opere umane.

Dalla metà del XIX secolo entrarono in scena gli storici, anche se il loro intervento non determinò un reale progresso
da un momento all’altro: questo perché l’interesse degli storici inizialmente era proiettato esclusivamente a studiare
la Riforma tedesca ed in particolare alla figura di Lutero > ad esempio Madame de Stael dedicava a Lutero alcune frasi
importanti come “una rivoluzione compiuta per mezzo delle idee” ed affermava che “ sia il protestantesimo sia il
cattolicesimo esistono nei cuori umani, sono potenze morali che si sviluppano nelle nazioni”: scrivere ciò era
annunciare un profondo rinnovamento degli studi applicati ai problemi delle religioni.

Solo successivamente nei pressi della Facoltà di teologia di Strasburgo venne rimesso in luce il nome di LEFEVRE
D’ETAPLES, verificando che già nel 1512 l’autore francese aveva pubblicato un commento alle epistole del grande
santo della riforma, san Paolo, in cui si trovavano affermazioni assai ardite. > affermando così che nel 1512, cinque
anni prima di Lutero, si possono vedere brillare i primi raggi di sole della Riforma (sostenendo in fine che la Riforma
francese ha le sue origini in Francia, quel che sarebbe avvenuto senza Lutero lo ignoriamo, ma quel che è certo è che
la riforma francese è indipendente da quella in Germani: il protestantesimo fabriano).

Inoltre proprio grazie allo studio più approfondito di Lefevre ci poniamo differentemente nei confronti della
definizione di origine della Riforma  nessuno precedentemente si era posto il problema di definire la nozione stessa
di abusi e di ricercare gli aspetti più profondi che animavano i sentimenti degli uomini contemporanei: ovviamente da
un lato bisogna sempre incriminare la decadenza del clero, l’ignoranza e l’immoralità dei preti, gli abusi della Chiesa
romana, ma dall’altra parte bisogna assolutamente prendere in considerazione che vi è una cornice storica molto più
complessa.

Infatti con Lefevre non abbiamo documentazioni che portano come argomentazione principale la teoria degli abusi;
egli invece approfondisce una serie di problemi che sono assai lontani dalle consuete declamazioni contro gli abusi,
che si delineano come un complesso di sentimenti di un umanista e contemporaneamente di un devoto.

All'inizio del Cinquecento, la Riforma fu il segnale di una profonda rivoluzione del sentire religioso. Migliaia di cristiani
d'Europa non fecero loro le dottrine della Riforma soltanto per creare Chiese distinte dalla Chiesa romana. Separarsi
dalla Chiesa non era né la volontà né il fine di uomini, che erano mossi dal solo desiderio di restaurarla sul modello di
una Chiesa primitiva. Più che restaurazione, volevano un'innovazione. Ciò che compì la Riforma fu dotare gli uomini
del Cinquecento di una religione più adatta ai loro nuovi bisogni, più conforme alle condizioni mutate della loro vita
sociale. La sua caratteristica essenziale fu di aver saputo trovare per i turbamenti di coscienza di cui soffriva gran parte
della cristianità, una soluzione realmente adatta ai bisogni e allo stato d'animo di masse inquiete, che aspiravano ad

1
una religione semplice, chiara e pienamente efficace  ogni Chiesa invisibile si andava a trasformare in una Chiesa
visibile. Parole chiavi sono quindi: restaurazione e chiesa primitiva.

Infatti si intravede che alla fine del Quattrocento e all'inizio del Cinquecento, in un paese come la Francia, non soltanto
rimane intatta la fedeltà alle vecchie credenze, ma la devozione tradizionale si manifesta con un fervore speciale. Di
ciò ci avvertono la moltitudine di nuove chiese, di cappelle laterali, di oratori isolati.

Vediamo ruotare quest'epoca intorno a due poli: il dolore e la tenerezza, il Cristo della Passione e la Vergine del
rosario. Si organizzava una nuova forma di devozione: la Via Crucis, che ricordava la serie commovente delle stazione
della Via dolorosa che i sacerdoti facevano percorrere ai gruppi di fedeli dal luogo dove Cristo si caricò sulle spalle la
croce, fino al sommo del Calvario. La devozione della Via Crucis aveva conquistato tanti fedeli perché si appoggiava a
tutta una serie di pratiche, di idee, di sentimenti. Parallelamente a questa devozione, si diffondeva quella del rosario,
un modo per onorare e pregare la Vergine attraverso la recita di 150 Ave Maria, intercalate ogni 10 da un Pater.

Inoltre le idee e i sentimenti religiosi beneficiavano adesso di un mezzo di diffusione che ne centuplicava l'irradiazione:
la stampa. Essa non si limitò a divulgare quei testi più dotti, opere dei Padri e trattati della Scolastica: divulgò scritti
redatti in volgare e stampati in caratteri gotici, più familiari agli occhi degli umili, per lo più tradotti dal latino, altre
volte direttamente scritti in francese e diretti alla media borghesia. Scritti di pietà e di pellegrinaggi, orazioni di tutti i
tipi, per tutte le circostanze e tutti i pericoli.

Ma in particolare Due cose hanno assicurato il successo della Riforma, due cose che essa offrì agli uomini: la Bibbia
in volgare e la giustificazione per la fede. 

La Bibbia venne tradotta in linguaggio familiare e messa in mano a tutti i fedeli, senza tagli o censure. In questo dono i
cristiani trovarono ciò che perseguivano con desiderio: un Dio vivente, fraterno e umano verso le loro debolezze; poi
la trasformazione radicale del clero e del sacerdozio. Ed altra novità fondamentale fu che nel dialogo diretto tra il
credente e il Redentore il sacerdote non interviene: tutto quello che rappresentava mediazione, intercessione irritava i
fedeli. Lutero afferma: “ogni credente è sacerdote di se stesso”: grazie ad una nuova coscienza del valore proprio, di
sentirsi figli delle proprie opere, il nuovo uomo viene irritato da tutto ciò che rappresenta mediazione, intercessione.

La riforma ebbe questa forza: di recare nello stato d’animo tanta soddisfazione.

La fede che all'inizio del Cinquecento i dottori insegnano ai fedeli è la fede che sola giustifica, che Lutero definisce
come una formula morta: ben altra cosa che un'adesione di cuore e di spirito > Infatti a causa di questa concezione i
fedeli si domanderanno ansiosi se Dio sarà loro misericordioso: il punto in questione era la sicurezza davanti la morte.
Gli uomini del tempo sanno che la morte è il termine fatale dell'esistenza umana, non vogliono che essa proietti
sull'intera esistenza la propria ombra: la Riforma tiene conto di tali sentimenti.

ROBERT MANDROU – ambiente e mentalità rurali della fine del XV all’inizio del XVIII secolo
In Francia vi è una separazione tra città e campagne, indispensabili reciprocamente e legate tra loro: ma mentre le
città si evolvono molto in fretta, le campagne restano a lungo ferme. Durante i primi due secoli della Francia moderna,
l'eredità rurale del Medioevo si conserva quasi immutabile: sopravvive nell'organizzazione sociale, ed ecco la comunità
di villaggio dominata dal signore; sopravvive nell'organizzazione economica, ed ecco i contadini alimentare le città
vicine e animare il grande commercio, almeno attraverso i borghesi che hanno acquistato le terre.

Il villaggio vive ripiegato su se stesso, ha una vita a parte, lontano dalla vita urbana, dallo spazio reale dell’epoca della
vita urbana.

La base di questa precarietà è l’economia naturale o di sussistenza:

La principale preoccupazione è di assicurare la sussistenza e i bisogni di ogni comunità ed inoltre l'insicurezza


fondamentale, quella della vita di ogni giorno, crea una tonalità media di vita rurale. > Il piccolo contadino, oppresso
da pesi di ogni genere, non ha che un'ambizione: produrre quello di cui necessita, innanzitutto grano, poi orzo e
avena, anche un po' di vino. Non dipendere che da se stessi, o da qualche vicino prossimo. La stabilità della piccola
azienda agricola, soprattutto cerealicola, basterebbe a spiegare la mediocrità della condizione contadina; in realtà essa
è strettamente legata alla vita collettiva. La terra di ogni contadino è integrata in un terreno comune, dove le colture
sono le stesse di anno in anno: il contadino non dispone dunque delle proprie parcelle, ma solo in accordo con il resto
2
del villaggio. L'esiguità della proprietà rende necessario l'aiuto reciproco: tutti i lavori vengono fatti in comune,
durante settimane di vita collettiva, in cui tutti i partecipanti si aiutano di mese in mese.

La realtà della comunità di parrocchia spiega così la lentezza con la quale le tecniche e colture nuove si sono diffuse in
quelle campagne: il mais e il fagiolo non si sono propagati nella Francia meridionale che dopo lunghi decenni, e così il
tabacco, la patata. Il contadino coltiva sempre secondo le stesse abitudini e con gli stessi attrezzi di legno, perché il
ferro è caro; dunque la maggior parte degli attrezzi sono di legno e il rendimento è scarso. La concimazione dei terreni
non è assicurata innanzitutto per scarsità di bestiame.

I piccoli contadini non possono migliorare le loro colture acquistando sementi selezionate, adatte ai terreni e ai climi:
mancano sia i selezionatori che il denaro. Inoltre l'uomo è preso in una rete di abitudini ricevute, accettate fin
dall'infanzia dall'autorità familiare, conservate senza sforzo. Sono vittime essi stessi di questa precarietà. In una vita
così chiusa il piccolo contadino non ha denaro: e ciò spiega tanti piccoli mestieri artigianali che, intorno alle città
commerciali, possono portare, utilizzando gli ozi forzati dell'inverno. Del suo raccolto, il contadino del XVI secolo,
praticamente non vende nulla: non che egli produce solo quanto gli serve per vivere, ma l'agente del padrone e quello
del vescovo gli prendono buona parte della produzione. Ogni volta viene versato un diritto in natura: lo stesso per
utilizzare il frantoio signorile o per pigiare la canapa. Ed a questo si aggiungono i diritti in moneta. Quando il contadino
ha versato la decima, quando ha soddisfatto i diversi diritti signorili e ha provveduto alle bannalità, quando ha messo
da parte la semente, gli rimane nel granaio ciò di cui sfamarsi.

Persuaso che questi oneri opprimenti siano la principale causa della propria miseria, il contadino è spesso pronto a
prendere le armi, fucile o forcone, per proteggersi dai collettori. In tali condizioni perciò la vita materiale delle
campagne francesi è difficile: un cattivo raccolto, una forte gelata in aprile, un temporale in luglio sul suo campo, ed
ecco che il raccolto diminuito. E raccolto più scarso, cattiva mietitura, significa anzitutto diritti più pesanti, dal
momento che essi rappresentano una percentuale; e anche perché decimatori e intendenti dei nobili diventano tanto
più esigenti quanto più cattive sono le entrate, e quindi l'insieme della rendita diminuisce.

Altro problema centrale è l’insicurezza sociale:

Il quadro sociale comprende: il signore castellano, padrone delle terre, che è il protettore in titolo del villaggio, anche
se è più oppressore che protettore; il curato, altro protettore nel campo spirituale, dal quale il contadino aspetta
molto. Ma questo basso clero delle campagne non da ai contadini una protezione efficace perché non è ricco, vivendo
altrettanto miseramente del suo gregge e spogliato della decima dei vescovi. Infine l'insicurezza si misura anche dai
rapporti esterni: la vita sociale del villaggio non è meno chiusa di quella economica. I contadini conoscono qualche
altro esemplare dei loro contemporanei: gli agenti del re, riscossori dell'imposta; sulla strada passa talvolta un corteggi
reale, talvolta alcuni cittadini che amano i viaggi in campagna. Ma i più temibili visitatori del villaggio sono i soldati e i
briganti. I soldati devastano i villaggi, rovistando e saccheggiando tutti i beni. Raccolti ancora non mietuti, granai,
bestiame e donne sono anche minacciati dai briganti. Senza dubbio ci sono delle varianti regionali; ma al di là di
questo è possibile ricostruire atteggiamenti sentimentali dominanti ed evocare così un'atmosfera mentale.

Le paure paniche dominavano ogni cosa e spiegano molti aspetti della vita del villaggio: vi è la credenza radicata che
una minaccia pesa costantemente sulla vita degli uomini, del bestiame, sui raccolti . Dunque un'atmosfera in cui tutto è
oggetto di timore, in cui tutto è possibile. È un mondo in cui nessuno distingue naturale e soprannaturale, razionale e
irrazionale. Inoltre la fede rurale, che presenta caratteri originali, lontani da ogni ortodossia cristiana: il culto dei santi
si mescola a pratiche di superstizione.

La credenza dell'onnipotenza di streghe e stregoni: il diavolo è presente almeno quanto Dio. Infine dobbiamo
sottolineare la fede politica: la fede nella bontà reale, esagerata, cieca, vive sempre, appoggiata su una credenza
religiosa; da qui la fede nel potere miracoloso, taumaturgico dei re di Francia. È quindi la fede religiosa che fonda la
fede politica. All'interno di questo complesso le trasformazioni avvengono per piccoli colpi insensibili. Quel che si può
sentire è un rafforzamento della fede religiosa, attestata dalla comparsa del pastore protestante: uomo di solida fede
che porta ovunque passa la sua lettura diretta del Vangelo e quella presenza di spirito che lo rende così temibile per il
basso clero cattolico, per nulla abituato alle discussioni teologiche. Dopo la seconda metà del XVII secolo, il pastore
non passa ma si ferma, e i cambiamenti sono rapidi: ognuno deve possedere e saper leggere la Bibbia; rapido
arretramento delle superstizioni, spirito aperto alla vita esterna, alle relazioni con il mondo francese e anche straniero.

3
JEAN DELUMEAU – I miracoli
I miracoli hanno costituito un altro metodo per sensibilizzare le folle al dogma cattolico: non è un caso che molti di essi
fioriscano nel bel mezzo della polemica che, nel XVI secolo, divide i cristiani tra loro.

Ne è un esempio il caso di una ragazza posseduta, NICOLE DI VERBINS 1565-66: le circostanze di questa possessione e
della sua guarigione costituirono altrettanti argomenti a favore del purgatorio, della confessione e della presenza reale
nell'eucarestia, rifiutati dai riformati. La credenza cattolica nei miracoli si collega al bisogno delle popolazioni di
ottenere aiuto e protezione nei pericoli concreti dell'esistenza terrena. Per non permettere alla religione popolare di
andare fuori strada, la chiesa, dopo il concilio di Trento, si è sforzata di incanalare la sete del miracoloso delle folle, di
controllare i racconti di miracoli e persino di imporre dei modelli di miracolo basandosi sui racconti evangelici.

Gli archivi della basilica di Sainte-Anne-d'Auray custodiscono un eccezionale dossier di miracoli del XVII secolo. Il
procedimento è normalmente il seguente: una persona, sia perché malata, sia perché in pericolo o per qualunque
altro motivo, prega Sant'Anna di intervenire e fa un voto, promette cioè, se il miracolo si verificherà, di andare in
pellegrinaggio al santuario. Una volta ottenuta l'assistenza divina, il miracolato va a sciogliere il voto a Sant'Anna:
dunque il pellegrinaggio è nella maggior parte dei casi un pellegrinaggio di ringraziamento. Il miracolato va poi a
riferire il favore di cui è stato oggetto al monaco, che si incarica di trascrivere le dichiarazioni. Per i miracoli più
significativi, i carmelitani richiedevano addirittura degli attestati, rilasciati da medici o sacerdoti, oppure facevano fare
delle inchieste.

PHILIPPE ARIÈS – L’uomo davanti alla morte


Come molti fatti di mentalità che si collocano nella lunga durata, l’atteggiamento di fronte alla morte può sembrare
quasi immobile attraverso lunghissimi periodi di tempo. Sembra acronico. E tuttavia, in certi momenti; sopravvengono
dei mutamenti, quasi sempre lenti, e talvolta inavvertiti, oggi più rapidi e più coscenti.

Questo preambolo serve a spiegare con quale spirito Aries ha scelto i temi di questi seguenti quattro relazioni:

MORTE ADDOMESTICATA 

Come morivano i cavalieri della chanson de geste o dei più antichi romanzi medievali?

In primo luogo, non si muore senza aver avuto il tempo di sapere che si sta per morire; l'avviso era dato da segnali
naturali o più spesso da un'intima convinzione: il riconoscimento spontaneo. Sapendo prossima la sua fine, il
moribondo prendeva le sue disposizioni, e tutto avviene molto semplicemente.

In un mondo imbevuto di meraviglioso come quello dei Romanzi della Tavola Rotonda, la morte era una cosa
semplicissima: quando Lancillotto, ferito e sperduto, si accorge, nel bosco deserto, di essere in punto di morte, che
cosa fa? Si spoglia delle armi, si sdraia tranquillamente per terra in modo che la testa sia rivolta verso Oriente, verso
Gerusalemme. O anche, quando Isotta trova Tristano morto, sa che anche la sua morte è vicina; allora si sdraia
accanto a lui, si gira verso Oriente. Così atteggiato, il morente può compiere gli ultimi atti del cerimoniale tradizionale:
il rimpianto della vita, un breve richiamo agli esseri e alle cose amate; il perdono dei compagni, degli astanti che
circondano il letto del moribondo; la preghiera (composta da due parti: mea culpa e commendatio animae) e
dopodiché l'assoluzione, impartita dal prete che leggeva i salmi, incensava il corpo e lo spargeva di acqua benedetta >
Quindi la morte era una cerimonia pubblica e organizzata. La caratteristica più importante è la semplicità con cui i riti
mortuari venivano accettati e compiuti, in modo cerimonioso ma senza carattere drammatico, senza eccessiva
emozione.

Una morte familiare, vicina e indifferente, per questo una morte addomesticata. Nonostante la loro familiarità con la
morte, gli antichi temevano la vicinanza dei morti e li tenevano in disparte. Onoravano le sepolture, ma uno degli scopi
dei culti funebri era quello di impedire ai defunti di tornare a turbare i vivi. Il mondo dei vivi doveva essere separato da
quello dei morti: per questo a Roma, la legge delle Dodici Tavole, proibiva di sotterrare in urbe, all'interno della città.

4
Nonostante la denuncia di san Giovanni Crisostomo siamo a conoscenza dell’ingresso dei morti nella città,
probabilmente attraverso il culto dei martiri (molto spesso sulla confessione del santo fu costruita una basilica, servita
ad monaci, intorno alla quale i cristiani volevano essere sepolti) > nel linguaggio medievale, la parola chiesa non
designava soltanto gli edifici della chiesa, ma tutto lo spazio che circondava la chiesa: il termine cimitero finì per
indicare lo spazio che circondava la chiesa, ovvero l’atrio.  la conclusione è che, attraverso queste fonti, notiamo che
gli uomini erano perfettamente a proprio agio in questa promiscuità fra i vivi e i morti: lo spettacolo dei morti, le cui
ossa affioravano alla superficie, non impressionava i vivi più dell’idea della propria morte. Avevano tanta familiartità
con i morti, quanto con la propria morte.

LA MORTE DI SÉ 

A partire dall'XI-XII secolo ci saranno sottili modificazioni che, a poco a poco, daranno un senso drammatico e
personale alla tradizionale familiarità dell'uomo e della morte. Occorre tener presente che tale familiarità tradizionale
implicava una concezione collettiva del destino: la familiarità con la morte non è altro che una forma di accettazione
dell'ordine naturale. L'uomo subiva, con la morte, una delle grandi leggi della specie e non pensava a sottrarvisi, ma
l'accettava.

Subentreranno una serie di fenomeni nuovi che introdurranno, all'interno dell'idea del destino collettivo della specie,
la preoccupazione per la particolarità di ogni individuo: 1. la rappresentazione del Giudizio Universale, alla fine dei
tempi; 2. lo spostamento del Giudizio alla fine di ogni vita, nel momento della morte; 3. i temi macabri e l'interesse
nutrito per le immagini della decomposizione fisica; 4. il ritorno all'epigrafia funeraria e a un principio di
personalizzazione delle sepolture.

1) Il primo fenomeno è costituito dal fatto che nel XIII secolo, l'idea del Giudizio prende il sopravvento, e quella
che viene rappresentata è una vera e propria corte di giustizia: Cristo è assiso sul trono del giudice,
circondato dalla sua corte (gli apostoli). Due azioni assumono una sempre maggiore importanza, la pesatura
delle anime e l'intercessione della Vergine e di San Giovanni, ai due lati del Cristo giudice. Ogni uomo è
giudicato secondo il bilancio della sua vita, le buone e le cattive azioni sono separate sui due piatti della
bilancia. Il momento in cui questo bilancio si chiude non è il momento della morte, ma l'ultimo giorno del
mondo alla fine dei tempi. Qui si nota il rifiuto di assimilare la fine dell'essere alla dissoluzione fisica: si
credeva in un aldilà della morte che costituiva un prolungamento fra la morte e la fine dei tempi.
2) Il secondo fenomeno è consistito nel collocare il Giudizio non più nell'etere del Grande Giorno, bensì nella
camera, intorno al letto del moribondo. Troviamo questa nuovo iconografia in xilografie diffusa attraverso la
stampa. Il moribondo è a letto, circondato dai suoi amici e parenti, e sta eseguendo i riti tradizionali; ma
succede qualcosa che turba la semplicità della cerimonia e che i presenti non vedono, uno spettacolo
riservato solo al morente: degli esseri soprannaturali hanno invaso la camera, da una parte la Trinità, la
Vergine e tutta la corte celeste, dall'altra Satana e l'esercito dei demoni.
Dio e la sua corte sono la per constatare come si comporterà il morente durante la prova che gli viene
proposta prima di morire, e che determinerà la sua sorte nell'eternità; questa prova consiste in un'ultima
tentazione: il moribondo rivedrà tutta la sua vita e sarà tentato sia dalla disperazione per i suoi errori, sia
dalla gloria delle sue buone azioni, sia dall'amore appassionato per gli esseri e le cose.
Il suo atteggiamento in quell'attimo fugace cancellerà di colpo i peccati di tutta la sua vita, se respinge la
tentazione, o, al contrario, annullerà tutte le sue buone azioni, se vi cede. L'ultima prova ha sostituito il
Giudizio finale.  Si verifica un accostamento tra la rappresentazione tradizionale della morte nel proprio
letto e quella del giudizio individuale di ogni vita: viene riunita la sicurezza del rito collettivo e l'inquietudine
di un interrogativo personale.
Inoltre il rapporto tra la morte e la biografia di ogni singola vita si fa più stretto: si crede che l'atteggiamento
del morente in quell'attimo darà alla sua biografia un senso definitivo; comprendiamo allora come il rituale
della morte nel proprio letto abbia preso un carattere drammatico, una nuova carica emotiva.
3) Il terzo fenomeno è l'apparizione del cadavere nell'arte e nella letteratura. Vi si è riconosciuto, in quest'orrore
della morte fisica, il segno dell'amore per la vita e lo sconvolgimento dello schema cristiano. La
decomposizione è il segno del fallimento dell'uomo, e questo è senza dubbio il senso profondo del macabro.
L'ultimo fenomeno riguarda l'individualizzazione delle sepolture.
L'arte funeraria si è evoluta verso una maggiore personalizzazione fino ai primi del XVII secolo: dalle iscrizioni
funerarie all'effige sempre più realistica, alle importantissime targhe che venivano applicate contro il muro

5
della chiesa o contro un pilastro, che esprimono la volontà di individuare il luogo della sepoltura e di
perpetuarvi il ricordo del defunto, della sua identità.
La conclusione è che, a partire dall'XI secolo, si è stabilito un rapporto tra la morte del singolo e la
coscienza che egli assumeva della sua individualità. L'uomo riconosce se stesso nella propria morte: ha
scoperto, appunto, la morte di sé.
4) L’ultimo fenomeno che ci resta da esaminare conferma questa tendenza generale. Riguarda le tombe o
l’individualizzazione delle sepolture.
Con l’iscrizione funerarie (che ricompaiono dal XII secolo), ricompaiono sulle tombe dei personaggi illustri,
ovvero santi, ed anche, in minor casi, l’effigie, che tuttavia non è realmente un ritratto, poiché esso evoca il
beato e l’eletto che riposa nell’attesa del Paradiso.

LA MORTE DELL'ALTRO 

A partire dal XVIII secolo, l'uomo delle società occidentali tende a dare alla morte un senso nuovo. L'esalta, la
drammatizza, ma al tempo stesso, già si occupa meno della propria morte, e la morte romantica è innanzitutto la
morte dell'altro. A partire dal XVI secolo vediamo i temi della morte caricarsi di un senso erotico: innumerevoli scene,
nell'arte e nella letteratura, associano la morte all'amore. Come l'atto sessuale, la morte è considerata ormai come
una trasgressione che strappa l'uomo alla sua vita quotidiana e gettarlo in un mondo irrazionale, violento e crudele.

La morte è una rottura. Questa nozione di rottura, del tutto nuova, è nata e si è sviluppata nel mondo dei fantasmi
erotici, dell'immaginazione. Nel XIX secolo una passione nuova si impadronisce degli astanti: l'emozione li agita,
piangono, pregano, gesticolano; sono gesti spontanei, ispirati da appassionato dolore.  L'espressione del dolore dei
sopravvissuti è dovuta ad un'intolleranza nuova per la separazione: la sola idea della morte commuove. Questo
sentimento è all'origine del moderno culto delle tombe e dei cimiteri: le tombe dei morti divenivano il segno della loro
presenza oltre la morte; e questa presenza era una risposta all'affetto dei sopravvissuti e alla loro nuova ripugnanza ad
accettare la scomparsa della persona cara. Ci si attaccava ai suoi resti.

LA MORTE PROIBITA 

Assistiamo ad una rivoluzione delle idee e dei sentimenti tradizionali: la morte si cancella e scompare, diventa oggetto
di vergogna e divieto. Questa rivoluzione è avvenuta in un'area culturale ben definita, là dove il culto dei morti e dei
cimiteri non ha conosciuto il grande sviluppo (America, Inghilterra, Paesi Bassi).

Lo scopo è evitare alla società, ai familiari stessi, il turbamento e l'emozione troppo forte, insostenibile, causata
dall'orrore della morte nel pieno della vita felice. Le manifestazioni esteriori del lutto sono condannate e vanno
scomparendo: non si portano più abiti scuri, non si adotta più un atteggiamento diverso da quello di tutti gli altri
giorni. Un dolore troppo visibile ispira ripugnanza, è segno di cattiva educazione. Non si usa più visitare la tomba del
morto: in Inghilterra, ad esempio, la cremazione diventa il più diffuso sistema di sepoltura, perché interpretato come il
mezzo più radicale per far scomparire e dimenticare tutto ciò che può restare del corpo. > Tutto ciò è nato dalla
necessità di essere felici, l'obbligo sociale di contribuire alla felicità collettiva evitando ogni causa di tristezza, dandosi
l'aria di essere sempre felici. E sembra proprio che l'atteggiamento moderno davanti la morte, cioè il divieto della
morte per salvaguardare la felicità, sia nato negli Stati Uniti all'inizio del XX secolo.

6
GEORGES LEFEBVRE
Attiva partecipazione alla lotta politica: si schierò negli anni Trenta con il Fronte popolare contro la minaccia nazista; fu
socialista molto vicino al Partito comunista francese

Scoprì nella Rivoluzione una realtà complessa, risultato di una molteplicità di rivoluzioni.

Nella sua ricerca prevale l’attenzione per i processi che sorgono dal basso, sentì profondamente i problemi delle classi
subalterne che studiò in tutta la varietà delle loro articolazioni. Fu storico della società contadina anzi capostipite in
questo filone di ricerche. I processi dal basso non sono però solamente quelli che sorgono dagli stati umili della società
ma anche quelli che muovono dalle inesplorate profondità della sensibilità umana. All’origine della vicenda
rivoluzionaria non potevano esservi soltanto le motivazioni della vita economica e sociale ma anche quella psicologica
delle masse che Lefebvre ricostruì nell’affresco de La Grande Paura

CARATTERI DELLA GRANDE PAURA


La paura dei briganti nata alla fine dell’inverno attinse il parossismo a fine luglio e si estese, più o meno, a tutta la
Francia. Se essa generò la grande paura, occorre tuttavia distinguerla da questa. La grande paura ha caratteristiche sue
proprie. L’arrivo dei briganti era possibile e temuto: ora esso diviene una certezza, essi sono presenti, si vedono o si
sentono, generalmente ne nasce un panico, ma non sempre: qualche volta ci si accontenta di mettersi in stato di
difesa

Tuttavia questi allarmi non costituiscono un fatto del tutto nuovo: la caratteristica peculiare della grande paura è che
questi allarmi anziché restare locali, si propagano molto lontano e con grandissima rapidità. Essi generano a loro volta
nuove prove dell’esistenza dei briganti, oltrechè torbidi i quali rinforzano la corrente o meglio alimentano e le servono
da relais.

Questa propagazione si spiega parimenti con la paura dei briganti: si è creduto facilmente che arrivassero perchè li si
aspettava. Le correnti della paura non sono state molto numerose ma hanno coperto la maggior parte del regno

I rivoluzionari ci videro immediatamente una nuova prova della “cospirazione aristocratica”: si seminò lo spavento tra
le popolazioni per ricondurle al vecchio regime o per spingerle a disordini

• oggi possiamo tuttavia giungere al nostro scopo perchè ci è possibile riunire e paragonare un grandissimo numero di
documenti di cui l’autorità contemporanea, in mezzo agli avvenimenti che si succedevano rapidamente, non ebbe il
tempo di costituire un dossier: noi possiamo risalire, almeno in parecchie regioni, sino all’incidente che fu all’origine
del panico, accertare come si propagò e ricostruirne l’itinerario

Si disse già sin dal 1789 che la grande paura fu universale perchè venne confusa con la paura dei briganti. Ammettere
che i briganti esistessero e potessero comparire era una cosa; immaginarsi che fossero presenti era un’altra. Era facile
passare dal primo stadio al secondo, altrimenti la grande paura non si spiegherebbe; ma non era obbligatorio e se
tutta la Francia ha creduto ai briganti, la grande paura non si ritrova in tutta la Francia. La Fiandra quasi intera, il
Hainaut e il Cambresis, l’Ardenne, non l’hanno conosciuta; la Lorena ne è stata solo sfiorata; la maggior parte della
Normandia non l’ha sperimentata e in Bretagna se ne trovano appena tracce, in alcuni luoghi solo qualche allarme
locale.

Siccome la paura dei briganti provenne per buona parte dalla capitale, gli studiosi hanno concluso che anche la grande
paura proveniva da lì e non si sono preoccupati di ricercare l’incidente locale che la generò.

Per la stessa ragione, molti storici si rappresentano la grande paura come un’ondata propagatasi concentricamente da
Parigi, mentre essa ebbe vari punti di origine, il suo corso fu talvolta capriccioso e verso la stessa Parigi si diressero da
nord la paura del Clermontois e del Soissonnais e da sud quella del Gatinais, prolungamento della paura della
Sciampagna.

7
Grazie ai documenti che oggi possediamo possiamo dire che: la grande paura dei Mauges e del Poitou cominciò a
Nantes il 20 luglio, quella del Maine il 20 e 21, quella della Franca Contea che mise in fiamme l’est e il sud-est il 22,
nella Sciampagna meridionale il 24, nel Clermontois e nel Soissonnais il 26, nel sud-ovest a Ruffec il 28, in Provenza
giunse il 4 agosto e a Lourdes il 6 dello stesso mese.

L’argomento fondamentale che in fondo ha ispirato l’idea della cospirazione è che la grande paura doveva favorire la
controrivoluzione, secondo gli uni e l’armamento delle milizie e le rivolte agrarie secondo gli altri. È evidente che essa
non fece comodo all’aristocrazia ma benchè abbia certamente favorito i progressi dell’armamento e suscitato nuove
agitazioni agrarie, non è esatto che fosse loro indispensabile

• si annoverano cinque correnti di paura, una delle quali, quella del Clermontois, dev’essere forse divisa in due.
Conosciamo bene l’origine di tre. Per altre due manchiamo di documenti sufficientemente espliciti ma possiamo farci
un’idea altamente probabile della loro causa. Quanto a quella del Maine si riesce solo a localizzarne
approssimativamente il punto di partenza:

- Nell’Est la paura nacque dalla rivolta dei contadini della Franca Contea; La città di Nantes si era sollevata
appena giunta la notizia che dei dragoni stavano giungendo in città.
Gli abitanti presero subito le armi, il ponte di Pirmil fu messo in stato di difesa; la cavalleria borghese uscì e
battè il paese fino al lago di Grandlieu. Furono questi movimenti a provocare il panico, come attesta la
“Correspondance de Nantes” del 25 luglio
- Nelle altre regioni, alle origini dei fenomeni di panico troviamo la situazione economica e la paura dei
vagabondi. Quello del Clermontois ebbe per causa l’inquietudine che si risentiva riguardo al raccolto e un
conflitto di bracconieri e di guardie, la cui tumultuosa adunata, scorta da lontano, spaventò gli abitanti di
Estrees-Saint-Denis
- Nella Sciampagna meridionale la paura nacque il 24 luglio a sud di Romilly, a Origny e altre adiacenze.
Correva voce che i briganti si erano fatti vedere nel cantone: li si è visti entrare nei boschi
- Al panico di Ruffec, che si comunicò al Poitou, al Massiccio Centrale e all’intera Aquitania, si riconduce alla
paura dei vagabondi: esso fu provocato dall’apparizione di quattro o cinque uomini vestiti da monaci e che
dicevano di questuare per la redenzione dei prigionieri. Si erano presentati in diverse case che non li avevano
accolti tutte egualmente bene. Malcontenti della loro questua avevano lasciato la città minacciando di
ritornarci presto in gran numero ma non erano stati rivisti > aveva causato lo spavento
- Quanto alla paura del Maine, non possiamo dire quale fu l’incidente che la provocò ma essa deve esser nata
verso La Fertè-Bernard: là vicino si trova Montmirail la cui forensta alimentava una vetreria e che dal 1789 al
1792 fu perciò un focolaio permanente di torbidi, ogni volta che il pane rincarava. È molto probabile che la
paura nascesse da un’incursione di operai
 Le più attive di queste cause erano di ordine economico e sociale, quelle che avevano sempre allarmato le
campagne e che la crisi del 1789 non aveva che esasperato
• panico fu speso diffuso da individui senza mandato. Alcuni credevano di adempiere un dovere civico sollecitando
l’invio dei soccorsi, altri volevano mettere in guardia i loro parenti e amici; certi viaggiatori raccontavano quel che
avevano visto o sentito; numerosi soprattutto erano i fuggiaschi tanto più assidui nell’esagerare il pericolo in quanto
temevano di essere accusati di codardia

Ma il panico fu egualmente propagato se non a sangue freddo, almeno con metodo da persone di credito e dalle
stesse autorità

Si mandavano servitori che a cavallo attraversavano i villaggi, diffondendo l’allarme. I contadini non sempre li
conoscevano ecco perchè vari racconti parlano di corrieri sconosciuti o misteriosi

La parte più singolare fu sicuramente quella svolta dalle autorità, mandavano di solito esploratori e incaricavano la
cavalleria e la gendarmeria di battere la campagna. Ma sapeva che sarebbe passato molto tempo prima che la
faccenda fosse chiarita e perciò sembrava loro savio prender subito le loro precauzioni, avvisare le parrocchie e
domandar loro soccorso. Le municipalità e i comitati mandarono dunque espressi e persino circolari a stampa

Un fatto dà tuttavia a credere che certe autorità costituite, sfidando i rischi si siano astenute dal propagare il panico e
siano riuscite a fermarne la diffusione. Un certo numero di regioni non conobbero la grande paura. Le distanze, la
difficoltà delle comunicazioni, le differenze della lingua, la scarsa densità del popolamento, tutto ciò ha potuto
contribuire a salvaguardare da essa. Tuttavia questi fattori esercitavano egualmente la loro azione in paesi che la

8
paura non risparmiò ed è più probabile che certe autorità abbiano saputo imporsi con il loro sangue freddo e il
prestigio che esercitavano sulla popolazione

• panico da annunci: la notizia che i briganti sono alle viste determina generalmente un panico ma non sempre  si
comincia a suonare a martello, i rintocchi non tardano a estendersi per ore e ore su interi cantoni. Le donne vedendosi
già violate, poi massacrate con i loro bimbi in mezzo ai villaggi in fiamme, piangono e si lamentano, fuggono per i
boschi o lungo le strade con qualche provvista di cibo e indumenti raccolti a caso. Più di una volta gli uomini le
seguono dopo aver seppellito quel che hanno di più prezioso e dato il largo al bestiame per la campagna. Ma di solito
sia rispetto umano, sia coraggio reale, sia infine timore dell’autorità tradizionale, si radunano alla chiamata del
sindaco, del parroco o del signore stesso o anche di un ex militare. Ci si arma come si può, si mettono sentinelle, si fa
una barricata all’ingresso del villaggio o sul ponte, si mandano distaccamenti in avanscoperta. Venuta la notte,
pattuglie circolano e tutti restano all’erta.

Da ciascuno dei fatti di panico originari ne derivano altri che si possono chiamare fenomeni di panico da annunci

LA FESTA RIVOLUZIONARIA – MICHEL VOVELLE


In Provenza è stato proposto un nuovo modello della festa, diverso, per parecchi versi da quello preesistente.

Per alcune feste principalmente per quelle urbane, disponiamo di un dossier completo che va dall’annuncio della
festa, con ordine di parata, al rendiconto, passando attraverso le impressioni che se ne riportano

Ci sono state ben più di settecento feste rivoluzionarie in Provenza e nell’ex Contado venosino. La selezione, dovuta al
silenzio o alla perdita dei documenti, riguarda soprattutto le feste dei borghi e dei villaggi, il che avvantaggia le feste
rubane. La diligenza delle autorità nel trasmettere o reclamare i verbali non è stata costante, il che designa l’epoca del
Direttorio come momento privilegiato. Infine ci sono feste senza verbali, le fonti su cui ci fondiamo ci informano sulla
festa ufficiale o convenzionale ma misconoscono la festa “selvaggia” o semplicemente spontanea;

flusso reale del numero delle feste sotto la Rivoluzione: bisogna innanzitutto tener conto di alcune sfumature ed in
particolare della distinzione fra feste descritte = conosciute attraverso i loro verbali, e le feste semplicemente
segnalate, come pure la distinzione tra le feste urbane e quelle dei borghi o dei villaggi. Occorreva una frontiera tra i
due gruppi: il fortissimo tasso di urbanizzazione della Provenza rendeva difficile fissarla, a rischio di gonfiare
all’estremo la prima categoria. Il limite è stato dunque collocato in alto, al livello delle città con più di 10.000 abitanti o
almeno dei capoluoghi di dipartimento o di distretto

feste urbane si concentravano nelle dieci città più importanti e più popolose, da Marsiglia a Nizza

festa rivoluzionaria presenta subito, nel suo radicarsi, un volto assai diverso dalla festa tradizionale, per l’importanza
che essa riserva a questi centri esemplari che sono le città

• tipologie delle feste > analizzare i tipi di feste rivoluzionarie: celebrazioni occasionali, prodotte dalla Rivoluzione nel
corso stesso degli avvenimenti che ne punteggiano l’evoluzione: vittorie, lutti, e allo stesso modo sanzione di tappe
raggiunte, come in occasione della proclamazione dei testi costituzionali. Fra queste feste dobbiamo distinguere le
celebrazioni che si possono chiamare spontanee o in modo più adeguato, semi-improvvisate e che riflettono
un’iniziativa generalmente a carattere locale: è quanto accade nel momento in cui vengono piantati gli alberi della
libertà e durante le manifestazioni decristianizzatrici; a questi primi tipi di feste si aggiungono le cerimonie
commemorative o della ripetizione: pratica che comincia fin dal 14 luglio del 1790 nel quadro delle federazioni e con la
quale la Rivoluzione celebra la propria storia + feste morali con le quali la Repubblica doveva celebrare i valori sui quali
si fondava: la festa dell’Essere Superiore ne è la prima e spettacolare espressione; le feste della Gioventù, dei Vecchi e
degli Sposi, sotto il Direttorio, le sostituirono in termini diversi. Questo sistema festivo ha avuto le sue monete
spicciole: ad esempio, le feste dei decadi, che si sono proposte di scandire in modo nuovo i ritmi della vita collettiva

Le prime feste provenzali del 1790-1791 testimoniamo questa ricerca: quelle che in mancanza di meglio, abbiamo
chiamato feste all’antica, esprimono in un quadro formale generalmente già sperimentato, una serie di aspirazioni
nuove: benedizione di bandiere, insediamento di corpi costituiti. In questo primo modello la festa funebre fa la sua

9
comparsa con la celebrazione dei morti di Nancy e soprattutto con quella della morte di Mirabeau; la festa funebre
conserverà nel corso del periodo un’importanza limitata ed insieme mai smentita

• sotto il Direttorio > da un punto di vista generale, quello che sparisce, talvolta quasi completamente, è la festa
puntuale o occasionale: la Rivoluzione non inventa più e comincia a ripiegarsi sul passato.

Durante il corso degli anni alcune festa scompaiono come le feste morali e altre prendono il sopravvento come le feste
commemorative: il fatto è che nel clima di ormai trionfante controrivoluzione che domina in Provenza queste serene
liturgie non trovano più posto e ci si limita essenzialmente alle feste che potremmo chiamare di precetto, ricordo del
passato ma anche delle conquiste rivoluzionarie

Se si tenta un bilancio più globale del modo in cui queste feste del Direttorio sono state accolte in Provenza solo
alcune assumono una identità effettiva: il 21 gennaio, il 1° vendemmiaio e in ventoso, la festa della sovranità del
popolo.

L’evocazione delle feste dell’Ancien Regime ci ha lasciato con la constatazione di un ritmo regolare ben scandito,
frutto dell’equilibrio modellato lungo i secolo fra calendario liturgico e lavorativo. La rivoluzione vi aggiunge la sua
cronologia di cui non è affatto padrona, dal momento che la riceve dal flusso degli avvenimenti da cui è essa stessa
prodotta

Nel corso delle stagioni sembra che il cammino della Rivoluzione imponga la sua propria dinamica, disorganizzando gli
equilibrati ritmi del passato. Conviene senza dubbio distinguere una prima fase che va fino al 1794 in cui le feste
rispondono a sollecitazioni che si rinnovano rispetto a quella che si instaurarono precedentemente

• articolazione delle feste > in due sequenze, nel corso della giornata: al mattino i riti ufficiali, al pomeriggio i giochi e
le corse o come dicono i testi “le manifestazioni di gioia allo stato puro e i divertimenti”

• in campagna, più ancora che in città, la festa del Direttorio ha ritrovato la dicotomia, tipica del romerage all’antica,
tra la sua parte sacra e a sua parte profana.

Le cose non sono sempre andate cosi, anche se assai presto i divertimenti hanno segnato il momento conclusivo delle
feste. Nei primi tentativi festivi del 1790 e del 1791, del tipo celebrazione o federazione, si pratica assai poco la
mescolanza dei generi e si preferisce limitarsi strettamente alla sequenza precisa del loro svolgimento

Nel 1792 e fino alla fine del 1794, le cose vanno diversamente; la festa, divenuta continua, si chiude difficilmente nel
quadro della giornata. Essa invade la notte, dura fino all’alba ed è allora che le autorità municipali, che non hanno
paura della notte, rilevano con soddisfazione che la festa si è prolungata fino al mattino. Se invade la notte questa
festa carnevalesca non si accontenta di un solo giorno. La festa che dura e si prolunga nei quartieri, è un’invenzione
dell’estate 1792. È fra giugno e soprattutto fra luglio e agosto che questa festa ininterrotta e divenuta quasi cronica si
installa nelle città

• la festa a luogo fisso > affrontata per prima come la forma più elementare ha potuto assumere aspetti diversi. Quello
di una festa che si svolge al chiuso, e che può avere luogo, sebbene ciò accada raramente, in municipio, più spesso
utilizzato come luogo di riferimento. Più frequentemente si tratta della cerimonia religiosa in Chiesa che nei primi anni
della Rivoluzione conserva un ruolo incontestato. Ma la festa a luogo fisso poteva anche svolgersi all’esterno, sebbene
in un luogo chiuso: si tratta ancora una volta di una risorsa adottata in periodi che evitano o temevano gli
inconvenienti del contatto pubblico o che volevano nascondere le miserie di una festa disertata. All’esterno si ma
comunque doveva trattarsi di un luogo intraurbano: una piazza, ben presto dotata di un altare della Patria o adornata
di un albero della Libertà e quando il bisogno lo richiedeva, uno spazio più esteso, corso o campo di Marte.

Ultimo tipo di festa a luogo fisso: quella in cui la concentrazione avviene fuori città, che si tratti della montagna vicina,
o di un campo in cui i partecipanti alle feste dell’Agricoltura sotto il Direttorio si recavano per tracciare un solco

+ festa-corteo: ci spinge a prende in considerazione gli elementi come il luogo di appuntamento (municipio), la meta
del corteo (montagna o tempio della Ragione) o semplicemente le tappe lungo un percorso. Ma queste sfilate sono al
limite, tanto poco frequentate quando lo sono le feste strettamente a luogo fisso: prevale di gran lunga il tipo misto, in
cui un corteo urbano si svolge con soste obbligate.

10
In tutte le feste il municipio resta sempre uno dei luoghi più costantemente coinvolti nella festa: si potrebbe credere
che sia il punto di partenza obbligato del corteo. Nella prima parte della Rivoluzione, il municipio non appare come
luogo della festa nella metà dei casi ed il punto più basso della curva si ha nel 1793: si può pensare a una concorrenza
della chiesa e dell’altare della Patria  la chiesa occupa un posto notevole fino al 1791 poiché in quell’anno, il 75%
delle feste vi si tengono o vi transitano ancora. Il suo ruolo non è del tutto inesistente nel 1792 ed anche nel 1793,
soprattutto in campagna. Il tempo della Ragione manifesta la sua importanza nel corso degli anni, in cui offre un
comodo rifugio alla festa; negli anni seguenti le cerimonie lo abbandonano in parte a vantaggio dei cortei all’aria
aperta.

La festa sulla piazza sembra aver trovato presto i suoi punti di ancoraggio: altari della Patria fin dal 1790, alberi della
Libertà a partire dal 1792, in Provenza. L’Altare della Patria, l’appuntamento più costante dei cortei itineranti, almeno
in città, sparisce molto spesso in campagna.

I destini degli alberi della Libertà sono più contrastanti: appuntamento costante dal 1792, quando vengono piantati. Il
paesaggio della festa si è dunque modificato nel corso della storia rivoluzionaria. È ora il momento di volgerci, in
questo nostro approccio che segue passo passo le vicende alla festa, verso coloro che ne sono stati gli attori

• chi partecipa alle feste? Autorità amministrative, truppe di linea, guardie nazionali, clero, società popolare;
promotori della festa > nel 1792 il ruolo più importante è assunto dalle società popolari la cui iniziativa si ritrova
all’origine di una festa su tre, espressione, soprattutto in città, tanto dell’importanza quanto dell’abbondanza di
queste istanze nell’ambiente meridionale.

Partecipanti: si rileva la presenza della municipalità e secondo i casi, del distretto o del dipartimento, poi degli altri
copri secondo un ordine che si fissa fin dai primi anni;

il bambino appare relativamente spesso nelle feste, certamente più della donna, come vedremo fra poco e non
secondo i medesimi ritmi. Durante il Direttorio si nota poi un’invasione progressiva della festa da parte dei bambini
sulla quale dovremo interrogarci; c’è il bambino-eroe protagonista delle feste in onore degli eroi adulti o giovanili. Ma
il punto culminante di questa prima lettura del ruolo dei bambini è certo la festività dell’Essere Supremo: la minuzia
del cerimoniale è estrema: la figura del bambino viene presa in considerazione fin dalla culla poi è il padre che lo
guida, prendendolo per mano, ma già armato di una sciabola al servizio della patria

nell’epoca del Direttorio: riaffermazione dell’idea che nel bambino si profila il cittadino, eventualmente in armi; ed
infatti le feste della gioventù comportano un rituale in cui i giovani di sedici anni ricevono le armi. Parallelamente, il
bambino diventa sempre più scolaro. A questo titolo entra in un rapporto di complementarietà deferente e
sottomessa nella dialettica che lo associa al vecchio, in molte feste. È messo praticamente in tutte le salse, ed è forse
questa la ragione più banale che spiega la sua onnipresenza

donne > attraverso la storia della festa in Provenza l’immagine della donna seguita lungo le varie cerimonie, assume
volti diversi. Su questo punto la festa è un buon test per valutare il ruolo e l’immagine della donna. Essa partecipava
alla festa profana o semplicemente alla danza del romerage. Nelle grandi cerimonie-corteo non aveva che un ruolo
secondario, cioè in una società dominata dagli uomini un ruolo che risultava più spesso nullo.

Le donne si affermano soprattutto a partire dal 1792 e nel corso degli anni le si vede apparire discretamente nei
momenti di grazia della festa del Direttorio.

La festa rivoluzionaria, nelle sue prime forme, è festa dal carattere molto marcatamente maschile: le federazione del
1790 ce ne danno un modello decisamente militare. Ma è in questo contesto che si fa luce una prima reazione
femminile, urbana. Volendo associarsi a questo giuramento e manifestare il loro impegno rivoluzionario le “signore”
marsigliesi, sotto la guida della moglie del sindaco, si recavano a loro volta in corteo all’altare della Patria per prestare
giuramento.

Portavano abiti bianchi con cinture tricolori.

11
LA RIFORMA: JEAN DELUMEAU
1. LE CAUSE DELLA RIFORMA

Il protestantesimo mise l’accento su tre questioni dottrinali di capitale importanza: 1. La giustificazione attraverso la
fede 2. Il sacerdozio universale 2. Infallibilità attribuita alla sola Scrittura > questa teologia rispondeva senza alcun
dubbio ai bisogni religiosi del tempo.

Ma la spiegazione secondo la quale i riformatori avrebbero abbandonato la Chiesa di Roma perchè piena di macchie e
di colpe non è sufficiente: ai temi di Gregorio VII e di san Bernardo , con tutta probabilità, non si verificavano nella
Chiesa meno abusi di quelli che potevano constatare all’epoca della Riforma, e tuttavia non ne derivò alcune frattura
paragonabile a quella del protestantesimo. Vi è un indizio che ci illumina: ERASMO, che nell’Elogio della Follia 1511,
era stato così duro nei confronti di preti, monaci, vescovi e papi del suo tempo non aderì alla Riforma > come
controprova quando nel secolo XVII la Chiesa cattolica corresse ed eliminò la maggior parte delle debolezze e
mancanze disciplinari, le varie Chiese riformate non fecero alcun passo per rientrare in comune con Roma.  le cause
della Riforma erano dunque più profonde.

È chiaro che i disordini disciplinari avevano preso proporzioni scandalose, ma questi sono solo un aspetto di contesto
di più profonda e generale lacerazione e crisi delle coscienze individuali e delle strutture tradizionali.

A. IL PECCATO PERSONALE. VERSO LA GIUSTIFICAZIONE ATTRAVERSO LA FEDE

PRESENZA DELLA MORTE E SENSO DI COLPA:

Se tante persone in Europa, di diversa classe sociale, aderirono alla Riforma, la ragione è che questa fu prima di tutto
una risposta religiosa a una grande angoscia collettiva. In persone e popoli germinarono il senso di colpa e la cattiva
coscienza: solo il peccato poteva spiegare tante sventure e tanti mali (negli ultimi anni del Quattrocento si diffuse la
credenza che nessuna era più andato in paradiso dal tempo del grande scisma > predicatori e teologi misero l’accento
con insistenza sulla gravità ontologica del peccato). Gerson riteneva che il mondo fosse vicino alla sua fine, e lo
paragonava ad un vecchio in delirio che non sappia cosa fare, in preda a ogni visione illusorie: vi era la credenza
popolare che poneva vicina la fine del mondo ed il Giudizio Universale.

Oltre ad essere una credenza popolare, si andava diffondendo a livello rappresentativo, attraverso opere letterari e
figurative questa angoscia: più ancora del Giudizio finale e dell’inferno, è la morte il grande tema dell’iconografia della
fine del Medioevo > la morte diviene il grande personaggio del tempo, negli affreschi, nella letteratura, nelle immagini
dipinte sui libri di preghiera. Nel XV si moltiplicano le danze macabre, che all’inizio sono danze dei defunti, poi danze
della morte.  la Chiesa perciò, in quella società oppressa dal timore della morte, si sforzò di porre l’accento sul
momento in cui si combatte l’ultima battaglia della vita di questo mondo, e in cui si decide la sorte dell’anima per
l’eternità = si spiegano così le numerosissime edizioni dell’Ars Moriendi.

Alla fine del Medioevo, ogni fedele si domandava angosciosamente come egli potesse riuscire ad evitare la
dannazione eterna.

DIFESA CONTRO LA MORTE FISICA E CONTRO LA MORTE ETERNA:

In questa epoca di sciagure, parve più necessario che mai, sia contro i mali di questa vita sia contro il pericolo
dell’Inferno, cercare un rifugio presso la dolce Madre del Salvatore: la raccolta di Jean Mielot (segretario di Filippo il
Buono) contribuì moltissimo a diffondere il culto della Vergine della Misericordia. Ma fu diffusissimo anche il culto
verso i santi, che non solo proteggevano contro la malattia e la morte, ma anche fornivano assicurazioni per l’aldilà. La
Chiesa insegnava senza incertezze che, per ottenere indulgenze, era necessario confessarsi e comunicarsi, e inoltre
non aveva subordinato in modo assoluto il conseguimento di una indulgenza al versamento di una offerta > la
popolazione, ridotta al limite della disperazione, ha potuto credere possibile comprare la propria salvezza, o più
probabilmente abbia voluto credere possibile tale acquisto.

Ma nonostante ciò era rimasto il dubbio, e questo dubbio è al centro della angoscia del Medioevo  è questo che
spiega il successo di Lutero.

12
B. VERSO IL SACERDOZIO UNIVERSALE

IL PROGRESSIVO AUMENTO DELL’INDIVIDUALISMO E DELLO SPIRITO LAICO e SVALUTAZIONE DEL SACERDOZIO:

è quindi spiegabile che il peccatore si sentisse solo di fronte a Dio, in un’epoca in cui l’individualismo era in via di
rapido sviluppo; e la Chiesa si manifestò diffidente, dimostrando così che i canali gerarchici e liturgici non erano
sufficienti. > in una atmosfera in cui si confondevano le gerarchie e i valori, i fedeli non percepirono più così
chiaramente come in passato la distinzione tra sacro e profano, tra prete e laico (il campo della fede si trovò invaso da
una ondata di elementi profani); tanto che nella vita quotidiana si era giunti a trattare Dio con una tale familiarità, che
il protestantesimo reagirà con vigore contro ciò.

I LAICI VENGONO IN AIUTO ALLA CHIESA

I frequenti conflitti che negli ultimi secoli del Medioevo hanno opposto la società civile alla società ecclesiastica non
sono in contraddizione con quanto è stato fino ad ora affermato a proposito della crescente confusione tra il sacro e il
profano e la ma sempre maggiore compenetrazione dei due ambiti: il religioso ed il civile. > ora la Chiesa tentava di
sottomettere alla propria legge il potere civile, ora il contrario = fu Sigismondo, re dei Romani, che, con la propria
insistenza, ottenne la riunione del concilio che mise fine allo scisma : egli apparve come il salvatore della cristianità.

Da tutti questi segni si faceva ogni giorno più evidente che lo stato si andava come impadronendo della Chiesa; i
cristiani quindi si abituavano a vedere nei propri api civili delle guide anche nel campo spirituale e di fronte
all’indebolimento della Chiesa, e in un tempo in cui i papi si comportavano spesso come principi, le autorità civili
avevano preso sempre più coscienza delle proprie responsabilità religiose.

E quindi la domanda si pone ovviamente: il dialogo tra l’uomo e Dio e la salvezza delle singole anime doveva passare
proprio necessariamente attraverso questa istituzione elefantiaca? Questi problemi e queste tensioni scoppiarono
tutte insieme con forza dirompente nell’epoca della Riforma (ma erano stati preparati da lungo tempo, dalla crescita
dell’elemento laico nella società del tempo, del grande sviluppo dell’individualismo, dalla lenta degradazione del
sacerdozio e dalla concomitante svalutazione dei sacramenti).

Nel giugno del 1519, in occasione della disputa di Lipsia, Lutero ruppe con il cattolicesimo.

C. LA BIBBIA. UMANESIMO E RIFORMA

LA COMPARSA DEL LIBRO A STAMPA:

In questa epoca di sconcerto, i fedeli avevano più che mai bisogno di appoggiarsi ad una autorità infallibile. Ma dove si
trova questa autorità quando si dubita del sacerdote? La risposta poteva solo essere: in Dio. E la BIBBIA era diventata
così l’ultimo rifugio, ma anche una roccia che nessuna tempesta umana avrebbe sommerso.

 E la comparsa del libro a stampa determinò una vera e propria rivoluzione, naturalmente in stretto legame
con i bisogni spirituali del tempo: nella produzione tipografica del periodo 1445-1520 la proporzione dei libri
a contenuto religioso è valutata al 75%.

Grazie alla stampa così la Bibbia potè conoscere maggiore diffusione nel pubblico colto, e ciò prima della rivoluzione
luterana.  l’influenza della stampa giocava nell’individualismo, per quanto riguarda la pietà. L’opera a stampa
rendeva meno necessario il prete, consentiva una meditazione personale: ciascuno poteva ascoltare la voce di Dio e
poteva anche accadere che interpretasse a modo suo il messaggio divino.

LA SOLUZIONE DATA DALL’UMANESIMO AI PROBLEMI DELLA CHIESA:

L’Umanesimo volle emendare, purgare, la lingua con cui è trasmessa la Parola eterna; spazzare la Scrittura dalla scorie
che la inquinano, e presentarla sotto una nuova luce. Con ciò, contribuì la Riforma ponendo in discussione
l’autorevolezza della Vulgata > l’Umanesimo introdusse il metodo critico nelle scienze religiose.

Infatti la passione per il greco e per l’ebraico condusse i dotti a guardare con diffidenza e con senso critico alla
traduzione che fino ad allora si era usata. Inoltre grazie anche allo studio dell’antichità si scoprì una aspirazione
naturale a Dio, e in ogni religione seppero individuare una manifestazione di questo slancio divino, che aveva almeno
una parte di validità.

13
Ma va sottolineato che gli umanisti avevano troppo credito nell’uomo per abbracciare la dottrina protestante del
servo arbitrio; inoltre essendo araldi di una dottrina di pace, in molte occasioni disapprovavano la violenza e lo scisma
(il luteranesimo ed il calvinismo nella loro sostanza dottrinale furono un antiumanesimo).

l’Umanesimo ha così preparato il terreno per la Riforma secondo due direzioni: ha contribuito a operare il ritorno
della Bibbia e ha posto l’accento sulla religione interiore, screditando la gerarchia, il culto dei santi e le cerimonie. La
sua concezione dell’uomo tuttavia era più consona al cattolicesimo che non al pessimismo luterano e calvinista.

Ad esempio nella Bibbia molti umanisti cercavano e trovavano un codice morale; ma i cristiani angosciati dei primi
anni del XVI secolo avevano bisogno sopratutto di una fede

14

Potrebbero piacerti anche