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Doumergue nel suo Jean Calvin sosteneva ancora una volta la tesi
oltranzista di un Lefevre D’Etaple creatore del primo movimento
protestante. Ma nel 1913 Vienot, in un articolo del Bullettin, confutava
l’argomentazione del decano di Montauban: non esiste una Riforma
francese indipendente da quella luterana e ad essa anteriore. In che
modo, per quali vie personali di psicologia religiosa, sotto l’impero di quali
meditazioni, di quali dottrine, Lutero era pervenuto a tanto? Questo non
interessava. La Riforma era uno scisma, nient’altro, e uno scisma
riconosceva come propria causa una rivolta. Andare al di là di questo?
Come e perché? Dal 1517, s’inizia una nuova età; quella data fatidica
indicava il punto di partenza di una Historia Nova, nata con Lutero. Lutero
era l’autore, nella pienezza del significato di questa potente parola: la
storia religiosa di un secolo si articolava intorno al monaco, poi al
riformatore di Wittenberg. E gli uomini che prima di lui si erano curati di
problemi religiosi? Suoi precursori, nient’altro. Alcuni fatti difficili da
incasellare o interpretare, li spinsero a poco a poco a mettere in forse che
Lutero fosse il padre comune di tutte le Riforme. In ogni caso per lungo
tempo non vi fu questione di priorità tra francesi e tedeschi. O per lo
meno, se un tale dibattito sorgeva, ciò avveniva per tramite e per mezzo
di Zwingli. Chi fu il primo? Il sassone o lo zurighese? Ma i nostri riformati
del XVII non hanno più alcuna esitazione. Come calvinisti, ci tenevano a
rivendicare la loro piena autonomia nei confronti di Lutero e dei luterani.
Poiché ancora non pensavano a rivendicare come uno dei loro Lefevre, si
ricollegavano a Zwingli da loro proclamato vero autore della rifrma. I
nostri storici non si interessano a una riforma tedesca, distinta dalle
riforme che si battezzano svizzere, o francesi. Studiano la Riforma, senza
curarsi di nazionalità. Se con Madame de Stael essi notano che fra tutti gli
uomini generati dalla Germania, Lutero fu quelli che ebbe il carattere più
tedesco, nondimeno vedono in lui soprattutto l’uomo che gettò su tutta
l’Europa in generale e in particolare sulla Francia, i semi della riforma.
Solo dunque, relativamente tardi, dopo che alcuni seri lavori intrapresi
nella Facoltà di teologia protestante di Strasburgo ne rimisero in luce il
nome e l’opera, cominciò a essere posto seriamente il problema di
Lefevre. Quell’uomo timido, autore di opere austere dalla scrittura
tediosa, non si era ufficialmente separato dalla Chiesa cattolica. Dei suoi
discepoli alcuni erano rimasti cattolici e si erano levati risoluti contro
Lutero. Altri, pur manifestando qualche simpatia per gli innovatori, erano
tuttavia restati membri e addirittura dignitari della Chiesa. Centro vivente
di uomini tanto diversi, Lefevre aveva personalmente subito le più diverse
influenze. Cercate prendendo da ognuna solo quello che più conveniva al
suo temperamento. Non possiamo definirlo comunque luterano o
zwingliano. Nessuna etichetta del genere è adatta per questo originale
piccardo, solitario e circondato da discepoli. Tuttavia 5 anni prima che
Lutero elevasse la sua protesta contro Tetzel, aveva pubblicato un
commento alle epistole del grande santo della Riforma, Paolo, in cui si
trovano affermazioni indubbiamente assai ardite.
Tutto il secolo, con Calvino, professa che un monaco che non lavora mai
con le sue mani deve essere reputato alla stregua di un brigante. E
quando un monaco tenta di tener testa alla corrente, riprende
timidamente l’antico argomento secolare: Io son colui che prega Dio per
voi, molti rispondono in tono tagliente Niente meno! Sembra finita
un’epoca. Il sacrificio del monaco che sopporta i rigori e le privazioni della
regola per assicurare la salute ai propri fratelli non appare più una
devozione meritoria, ma una grossolana importunità. E i primi apologeti
del cattolicesimo contro Lutero vedono giustamente il grande pericolo di
tale rimprovero. La riforma ebbe questa forza, infatti, questa grande forza
fra le altre: di arrecare a tale stato d’animo larga soddisfazione. Già col
restituire ai laici, nella sua integrità, il Verbo, il messaggio divino, essa
portò testimonianza del suo fondamentale anticlericalismo; un
anticlericalismo così forte nel voto delle masse, così popolare e
desiderato che numerosi suoi partigiani, trovando che i loro capi, le guide
degli inizi, non li spingevano abbastanza avanti, insorsero contro la loro
timidezza, contro quell’avanzo di sacerdotalismo che essi – e soprattutto
Lutero – si ostinavano a conservare nel pubblico culto.
Quanto più sentivano rovinare le basi secolari su cui poggiava la vita dei
loro avi, la Rif apportava anche qualcos’altro, capace di accontentare i
loro spiriti positivi, tesi verso la sincerità e la semplicità. Proclamando che
la sola fede giustifica, dava a tendenze profonde una nuova e potente
soddisfazione. La fede per il cattolico, oggi come allora, non è un
sentimento personale della misericordia divina, ma un’adesione al
messaggio divino della Rivelazione, quale la Chiesa lo presenta e
l’interpreta. La Chiesa diceva: la salvezza sta, prima di tutto e soprattutto,
nell’essere nella Chiesa. Nell’avere la fede, nel senso cattolico della
Parola. Nel credere a ciò che il prete insegna e a nient’altro che a ciò che
insegna. Poi quando si ha peccato, dacché si uomini, nel confessarsi al
prete e, dopo il pentimento, ottenere l’assoluzione liberatrice. Infine, nel
compiere opere meritorie, opere buone. Una dottrina assai semplice, in
apparenza, ma che in realtà presentava alle coscienze scrupolose una
serie di problemi veramente terribili.
Confessare i propri peccati: nulla di più facile. Ma la confessione, per
avere valore, doveva essere completa. Primo motivo d’ansia per un
cristiano veramente pio, e quindi ossessionato dalla paura del castigo
eterno. Quale mortale avrebbe potuto vantarsi di poter ottenere la
remissione dei suoi peccati, prima di rendere l’estremo respiro e
comparire innanzi al suo giudice? Quale nuovo motivo di tormento, quale
crudele prospettiva: per chi muoia in stato di peccato mortale, la
dannazione eterna nell’inferno; per gli altri l’espiazione in purgatorio.
Ecco quel che significava il grande rivolgimento, tanto desiderato da tanti
uomini alle soglie dei tempi moderni. La vita cessava di cercare nella
morte il proprio punto prospettico, ed i viventi, impazienti di usare le
gioie e le risorse del mondo, si rallegravano trovando nell’insegnamento
del tempio una ragione decisiva per scuotere il peso dei morti.
Delumeau – I Miracoli
I miracoli di Sainte-Anne-Auray.
stata, nel suo campo di Bocenno, una cappella dedicata alla madre della
Vergine. Il vescovo di Vannes, dopo un lungo interrogatorio di Nic ad
opera dei cappuccini, il vescovo riconosce l’autenticità delle apparizioni e
dà il consenso alla costruzione di una cappella. Questa sarà condotta a
termine da Nicolazic che morirà nel 1645. I cappuccini, incaricati
dell’organizzazione dei primi pellegrinaggi, avevano fatto restaurare la
statua: subito alcuni malati vengono guariti bevendo dell’acqua in cui
sono stati immersi frammenti della statua: sono i primi miracolati. Dal
1625, dai primi miracoli, i carmelitani si sono messi a trascrivere i racconti
dei pellegrini. I registri dei miracoli del XVII sono fortunatamente
sopravvissuti alla Rivoluzione. Il più importante è “Le Premier livre des
Miracles Faits” per l’Intercession de la Glorieus saint Anne. Per lo più i
miracoli riferiti non sono avvenuti a Sainte-Anne d’Auray. Il procedimento
è normalmente il seguente: una persona, malata o in pericolo, prega
Sant’Anna di intervenire e fa un voto, promette cioè, se il miracolo si
verificherà, di andare in pellegrinaggio al santuario. Una volta ottenuta
l’assistenza divina il miracolato in persona va a sciogliere il voto, oppure
manda qualcuno della famiglia o della parrocchia al posto suo. Il
pellegrinaggio è quindi di ringraziamento. Incontriamo tuttavia alcuni casi
di pellegrinaggi di richiesta, e allora il miracolo avviene o lungo il
cammino, o nel santuario stesso.
Nel XII la scena cambia. Nei timpani scolpiti delle chiese romaniche, la
gloria del Cristo, ispirata alla visione dell’Apocalisse, domina ancora. Ma
al di sotto appare un’iconografia nuova, ispirata a Matteo, la resurrezione
dei morti, la separazione fra i giusti e i dannati: il giudizio, san Michele
arcangelo che pesa le anime. Nel XIII l’ispirazione apocalittica,
l’evocazione del grande ritorno sono stati quasi cancellati. L’idea del
giudizio ha avuto il sopravvento, e quella che viene rappresentata è una
vera e propria corte di giustizia. Così l’idea del Giudizio universale è legata
a mio avviso a quella di biografia individuale, ma questa biografia termina
solo alla fine dei tempi e non ancora nell’ora della morte. Il secondo
fenomeno che propongo alla vostra osservazione è consistito nel
sopprimere il tempo escatologico fra la morte e la fine dei tempi, e nel
collocare il Giudizio non più nell’etere del Grande Giorno, bensì nella
camera, intorno al letto del moribondo. Quest’iconografia ci riconduce
quindi al modello tradizionale della morte nel proprio letto, che abbiamo
studiato nel precedente capitolo. Il moribondo è a letto, circondato dai
suoi amici e parenti. Sta eseguendo i riti che ben conosciamo. Ma succede
qualcosa che turba la semplicità della cerimonia e che i presenti non
vedono, uno spettacolo riservato solo al morente, il quale lo contempla
con un po’ d’inquietudine e molta indifferenza. Degli esseri soprannaturali
hanno invaso la camera e si affollano al capezzale del giacente. Da una
parte la Trinità, la Vergine, tutta la corte celeste, e dall’altra Satana. Dio e
la sua corte sono là per constatare come si comporterà il morente
durante la prova che gli viene proposta prima di esalare l’ultimo respiro, e
che determinerà la sua sorte nell’eternità. Questa prova consiste in
un’ultima tentazione. Il moribondo rivedrà tutta la sua vita, la quale è
contenuta nel libro, e sarà tentato sia dalla disperazione per i suoi errori,
sia dalla vanagloria delle sue azioni.
Il cadavere.
Sepolture.
La morte dell’altro.
A partire dal XVIII l’uomo delle società occidentali tende a dare alla
morte un senso nuovo. L’esalta, la drammatizza. Ma ci si occupa meno
della propria morte. E’ la morte dell’altro! Il cui ricordo e rimpianto
ispireranno nel XIX e XX il nuovo culto delle tombe e dei cimiteri. Nel XVI
vediamo i temi della morte caricarsi di un senso erotico. Nelle danze
macabre più antiche, era già molto se la morte toccava il vivo per
avvertirlo e designarlo. Nella nuova iconografia del XVI, gli fa violenza.
Come l’atto sessuale, la morte è ormai sempre più considerata come una
trasgressione che strappa l’uomo alla sua vita quotidiana, alla sua società
ragionevole, al suo lavoro monotono, per assoggettarlo a un parossismo e
gettarlo in un mondo irrazionale, violento e crudele. Il morto non sarà
desiderabile, come nei romanzi noir, ma sarà ammirevole per la sua
bellezza: è la morte che chiameremo romantica, di Mark Twain in
America. Abbiamo molte testimonianze letterarie. Ma abbiamo anche
molte lettere e memorie. L’espressione del dolore dei sopravvissuti è
dovuta a un’intolleranza nuova per la separazione. Ma il turbamento non
sopravviene solo al capezzale degli agonizzanti o al ricordo degli
scomparsi. La sola idea della morte commuove. Sua moglie, una tedesca
protestante, racconta così il suo ultimo respiro: Sentii che la morte era la
felicità. Nell’America di oggi, non si ha quasi il coraggio di leggere un
simile testo. Come deve sembrarle morbosa la famiglia La Ferronays!
Il compiacimento verso l’idea della morte.
Culto privato dunque, ma anche, fin dalle origini, culto pubblico. Il culto
della memoria si è subito esteso dall’individuo alla società, in seguito a
una medesima tendenza della sensibilità. Gli autori dei progetti di
cimiteri, nel XVIII, si augurano che i cimiteri siano insieme dei parchi
organizzati per la visita familiare, e dei musei di uomini illustri, come la
cattedrale di Saint Paul a Londra. Si sente che la società è composta
insieme dai morti e dai vivi, e che i morti sono altrettanto significativi e
necessari dei vivi. La città dei morti è l’inverso della società dei vivi, la sua
immagini. Dall’inizio del secolo XIX si progettava di sopprimere i cimiteri
parigini raggiunti dall’espansione urbana, e di trasferirli fuori città. Ma,
nella seconda metà del XIX, la mentalità era cambiata: tutta l’opinione
pubblica insorse contro i progetti sacrileghi dell’amministrazione,
un’opinione unanime in cui i cattolici si univano ai loro nemici positivisti.
La presenza del cimitero sembrava ormai necessaria alla comunità
cittadina. Si può dire che i fenomeni che studiamo sono stati pressappoco
gli stessi in tutta la civiltà occidentale. La differenza la si può costatare nei
cimiteri e nell’arte funeraria.
La morte proibita.
La paura dei briganti, nata alla fine dell’inverno, attinse il parossismo nella
seconda quindicina di luglio e si estese più o meno a tutta la Francia. Se
essa generò la grande paura, occorre tuttavia distinguerla da questa. La
grande paura ha caratteristiche sue proprie. Finora, l’arrivo dei briganti
era possibile e temuto: ora esso diviene una certezza. La caratteristica
peculiare della grande paura è che questi allarmi, anziché restare locali, si
propagano molto lontano e con grandissima rapidità. Cammin facendo,
essi generano a loro volta nuove prove dell’esistenza dei briganti,
oltreché torbidi i quali rinforzano la corrente o, meglio, l’alimentano e le
servono da relais. Questa propagazione si spiega parimenti con la paura
dei briganti: se è creduto facilmente che arrivassero perché li si aspettava.
Avendo ammesso che il panico si manifestò dappertutto
contemporaneamente, se ne è dedotto in maniera alquanto sbrigativa
che venne trasmesso da agenti e che la paura fu il risultato di una
cospirazione. I rivoluzionari ci videro immediatamente una nuova prova
della cospirazione aristocratica: si seminò lo spavento tra le popolazioni
per ricondurle al vecchio regime o per spingerle a disordini. La grande
paura aveva mortificato l’armamento del popolo e suscitato nuove rivolte
agrarie. Oggi possiamo tuttavia giungere al nostro scopo perché ci è
possibile riunire e paragonare un grandissimo numero di documenti di cui
l’autorità contemporanea, in mezzo agli avvenimenti che si succedevano
rapidamente, non ebbe il tempo di costruire un dossier: noi possiamo
risalire, almeno in parecchie regioni, sino all’incidente che fu all’origine
del panico, accertare come si propagò e ricostruirne l’itinerario. Si disse
già dal 1789, e si è ripetuto ai giorni nostri, che la grande paura fu
universale perché venne confusa con la paura dei briganti. Ammettere
che i briganti esistessero e potessero comparire era una cosa;
immaginarsi che fossero presenti era un’altra. Era facile passare dal primo
stadio al secondo, altrimenti la grande paura non si spiegherebbe; ma
non era obbligatorio e, se tutta la Francia avesse creduto ai briganti, la
grande paura non si sarebbe diffusa in tutto il paese: Cambresis e
l’Ardenna non l’hanno conosciuta e in Bretagna se ne trovano appena
tracce. Che si continui ad affermare che la grande paura scoppiò
dappertutto simultaneamente, è più difficile comprenderlo. I
contemporanei erano scusabili perché mancavano di informazioni, ma noi
ne possediamo di abbastanza numerose e precise perché non ci siano
dubbi. La grande paur, dunque, cominciò a Nantes il 20 Luglio; Franca
Contea nel 22; Provenza, 4 agosto, Lourdes 6. La tesi della cospirazione
non resiste ad uno studio attento dell’origine. Infine, l’argomento
fondamentale che, in fondo, ha ispirato l’idea della cospirazione è che la
grande paura dovesse favorire la controrivoluzione, secondo gli uni,
l’armamento delle milizie e le rivolte agrarie, secondo gli altri. E’ evidente
che essa non fece comodo all’aristocrazia; ma, nuove agitazioni agrarie,
non è esatto che fosse loro indispensabile. L'armamento quindi cominciò
quando si prese ad aver paura dei vagabondi; s’intensificò quando si
credette alla cospirazione aristocratica, ben prima della grande paura;
non entrava nelle mire della borghesia estenderla ai contadini. La paura
dei briganti e degli aristocratici, la rivolta dei contadini, l’armamento e la
grande paura sono dunque 4 fatti distinti, sebbene tra essi ci siano nessi
evidenti.
Nell’est la paura nacque dalla rivolta dei contadini della Franca Contea:
non possono sussistere dubbi in proposito, e tutto l’interesse del
problema riguarda solo il meccanismo di propagazione. Nelle altre
regioni, alle origini dei fenomeni di panico troviamo la situazione
economica e la paura dei vagabondi. Quello del Clermontois ebbe per
causa l’inquietudine che si risentiva riguardo al raccolto e un conflitto di
bracconieri e di guardie, la cui tumultuosa adunata, scorta da lontano,
spaventò di abitanti di Saint-Denis.
Il Panico da annunci.
Le tappe.
Circuiti chiusi e festa aperta. Un’altra variante della festa aperta è quella
che resta tale, se così si può dire, nel tempo: vogliamo dire che essa non
comporta né partenza né ritorno, anche si svolge in punti diversi. Si
delinea tutta una gradazione, dalla festa che è essenzialmente
passeggiata civica, le cui tappe non sono che soste, alla festa di interno
che si esteriorizza momentaneamente in pubblico: ad esempio, per citare
un caso, l’inaugurazione di un tempio della Ragione che ‘esplode’
letteralmente sulla pubblica piazza in autodafé e mascherate. C’è un
ultima dinamica da seguire: quella della festa chiusa, che ritorna al suo
punto di partenza, e della festa che esplode. La coalizione spontanea dei
quartieri, che organizzano feste e danno vita poi a farandole, si incontra
essenzialmente nelle fiammate rivoluzionarie festive dell’estate del 1792.
Tra i luogi dove le feste tendono ad arcorarsi il municipio resta sempre
uno dei luoghi più costantemente coinvolti: si potrebbe credere che sia il
punto di partenza obbligato del corteo. Tuttavia questo fatto è tutt’altro
che privo di sfumature: nella prima parte della Rivoluzione, il municipio
non appare come luogo della festa nella metà dei casi ed il punto più
basso della curva si ha nel 1793.
Sociologia della festa. Chi partecipa alle feste? Non ne sappiamo niente o
ben poco. Non disponiamo, per la festa, di fonti equivalenti a quelle che
offrono gli archivi giudiziari per l’analisi delle folle rivoluzionarie, come
quelle che ha studiato, per esempio, Rudé. Vi si troverà menzione di un
certo numero di partecipanti il cui carattere ufficiale fa sì che ne rilevi la
presenza: autorità amministrative, truppe di linea, guardie nazionali,
clero, società popolari… Si entra nel vago allorché si tratta della massa
anonima della popolazione: del popolo o dei cittadini. Ma in questo caso
si può ancora barare e tentare di andare oltre.
I promotori della festa. Mettendosi alla ricerca dei partecipanti alla festa,
sembra naturale incominciare con quelli che ne assumono l’iniziativa,
almeno localmente. Se la festa del 1790 resta festa municipale, affidata
alla diligenza delle autorità, i quattro anni seguenti vedono moltiplicarsi le
iniziative che riducono il ruolo delle municipalità, senza entrare
veramente in concorrenza con esse, poiché le iniziative particolari sono
spesso riprese dalle autorità locali per l’esecuzione. Il ruolo più
importante è assunto dalle società popolari, la cui iniziativa si ritrova
all’origine di una festa su 3, espressione tanto dell’importanza quanto
dell’abbondanza di queste istanze nell’ambiente meridionale.
Ricchi e poveri. Tra i partecipanti alla festa ci sono sia ricchi che poveri?
Forse sì, in tutte le prime tappe della sua storia. Il banchetto a
pagamento, che festeggia l’avvenimento, lascia gli ultimi posti della
tavolata a coloro che, per mancanza di denaro, possono portare con sé il
cibo; poi la cerimonia si chiude con distribuzione dirette, ai poveri, in
forma di elemosine o di avanzi del pranzo. Ben poco traspare delle
tensioni talvolta assai vive che accompagnano la festa di quest’epoca, e
che sono tensioni di classe oltre che politiche.
Artigiani e contadini. Alla fine del 1793 i cortei urbani concedono uno
spazio notevole ai gruppi dei produttori: in Provenza è Arles a dare
l’esempio, mescolando agli altri carri, all’epoca della festa in onore di
Marat, una carretta carica di persone che recano gli attributi delle arti e
dei mestier e inoltre un frantoio e poi un carro pieno di lavoratori.
I simboli dell’età. Fra gli attori che la festa rivoluzionaria è stata indotta
ad inventarsi, con classificazioni al tempo stesso mistificatrici ed
espressive delle rappresentazioni collettive, le classi di età rappresentano
una parte che non possiamo misconoscere. Cogliere la nascita e lo
sviluppo di quelle rappresentazioni, anche prima che il Direttorio ne fissi
le norme nel suo sistema di feste codificate. Alla vigilia della festa
dell’Essere Supremo, il 30 pratile dell’anno II, che rappresenta, qui come
altrove, un punto di svolta in questa storia, la festa provenzale fa ricorso
ampiamente, almeno nelle città, a questo simbolismo legato alle classi di
età: ma i gruppi di cui abbiamo ora parlato restano inseriti in un corteo
composito e semi-improvvisato. E’ proprio in pratile che lo sforzo di dare
una forma precisa a tale simbolismo si fa più chiara; nelle grandi città le
prescrizioni dello schema davidiano della festa vengono applicate alla
lettera, e talvolta con eccessivo zelo. Ad Aix sfilano sul corso le due
colonne dei padri e delle madri con i loro figli, ciascuno con un simbolo
appropriato: ramo di quercia per i capifamiglia, mazzo di rose per le
madri, di fiori per le ragazze… e sciabola per i giovani cittadini. I 4 gruppi
dell’infanzia, dell’adolescenza, della virilità e infine della vecchiaia, la
distinzione fra persone sposate e celibi: tutto contribuisce qui a rafforzare
l’impressione di una classificazione puntigliosa e minuziosamente
stabilita. In quale misura è stato percepito questo simbolismo, in quale
misura questi cerimoniali sono stati rispettati? E’ già noto l’ineguale
successo di tali feste in Provenza.
La dea Ragione. Il caso più generale resta quello della donna innalzata a
statua vivente: dea Libertà, dea Ragione, Vittoria; a Entrevaux, la Vittoria,
è portata in giro su un carro, mentre la dea Libertà avanza sotto il
baldacchino. Amazzoni, dea Libertà, o dea Ragione, o anche vestali vestite
di bianco che in lughe procesioni le scortano cantando, le donne hanno
avuto diritto di cittadinanza nelle feste. Ciò che si chiede alla donna è
espresso chiaramente, ad Aix, il 30 messidoro dell’anno II, in occasione
della festa dei Martiri della Libertà; 36 cittadine in corteo, vestite di
bianco, con cintura tricolore e capelli sciolti, vengono a giurare di non
sposare che dei veri repubblicani e di allevare i loro figli nell’amore per la
patria. Ridotta da allora al suo ruolo di sposa o di vestale, la donna vede
restringersi ancora il suo posto negli anni del Direttorio. Ella figura a
questo titolo nelle feste degli sposi. Le fanciulle vestite di bianco si
ritrovano, ma molto raramente, in certe celebrazioni. La donna è
diventata una ragazzina, come le Belle di Maggio: si assiste ad una
infantilizzazione desessualizzazione del tema. Si comprendono anche in
parte le ragioni di questa pratica . Se ne adduce come giustificazione
l’assenza di statua appropriata e il fatto che nessuna cittadina del luogo
ha voluto rappresentarne il ruolo. Nell’apparente paradosso di questa
tardiva diffusione rurale della dea Ragione entra forse in parte il peso di
questa considerazione tecnica. Ma quest’ultimo episodio ci conduce
direttamente ad un’ultima considerazione sul tema: la donna non
compare più nella festa, anche perché non vuole più andarci. Ma se le
donne e soprattutto le ragazze non trascurarono i giochi e i balli nel
villaggio, esse hanno rotto con la festa ufficiale, a costo di lasciare che vi
partecipino i loro uomini. La festa agonizzante della fine del Direttorio è
ridiventata, ad eccezione delle danze del pomeriggio, una festa
essenzialmente maschile.