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Le origini della riforma in Francia e il problema delle cause della riforma.

A.S: Lefevre= Lefevre D’Etaples LefeBvre= Marcel Lefebvre

Ci fu o non ci fu una Riforma francese, distinta fin dall’inizio da tutte le


altre Riforme contemporanee? Le si deve assegnare una data di partenza
anteriore a quella della Riforma luterana? E’ autoctona, nata in Francia,
attraverso uno sforzo tutto francese, oppure i suoi germi sono giunti da
fuori, dalla Germania luterana? Questi sono i 3 eterni problemi della
specificità, priorità, nazionalità della Riforma francese.

Doumergue nel suo Jean Calvin sosteneva ancora una volta la tesi
oltranzista di un Lefevre D’Etaple creatore del primo movimento
protestante. Ma nel 1913 Vienot, in un articolo del Bullettin, confutava
l’argomentazione del decano di Montauban: non esiste una Riforma
francese indipendente da quella luterana e ad essa anteriore. In che
modo, per quali vie personali di psicologia religiosa, sotto l’impero di quali
meditazioni, di quali dottrine, Lutero era pervenuto a tanto? Questo non
interessava. La Riforma era uno scisma, nient’altro, e uno scisma
riconosceva come propria causa una rivolta. Andare al di là di questo?
Come e perché? Dal 1517, s’inizia una nuova età; quella data fatidica
indicava il punto di partenza di una Historia Nova, nata con Lutero. Lutero
era l’autore, nella pienezza del significato di questa potente parola: la
storia religiosa di un secolo si articolava intorno al monaco, poi al
riformatore di Wittenberg. E gli uomini che prima di lui si erano curati di
problemi religiosi? Suoi precursori, nient’altro. Alcuni fatti difficili da
incasellare o interpretare, li spinsero a poco a poco a mettere in forse che
Lutero fosse il padre comune di tutte le Riforme. In ogni caso per lungo
tempo non vi fu questione di priorità tra francesi e tedeschi. O per lo
meno, se un tale dibattito sorgeva, ciò avveniva per tramite e per mezzo
di Zwingli. Chi fu il primo? Il sassone o lo zurighese? Ma i nostri riformati
del XVII non hanno più alcuna esitazione. Come calvinisti, ci tenevano a
rivendicare la loro piena autonomia nei confronti di Lutero e dei luterani.
Poiché ancora non pensavano a rivendicare come uno dei loro Lefevre, si
ricollegavano a Zwingli da loro proclamato vero autore della rifrma. I
nostri storici non si interessano a una riforma tedesca, distinta dalle
riforme che si battezzano svizzere, o francesi. Studiano la Riforma, senza
curarsi di nazionalità. Se con Madame de Stael essi notano che fra tutti gli
uomini generati dalla Germania, Lutero fu quelli che ebbe il carattere più
tedesco, nondimeno vedono in lui soprattutto l’uomo che gettò su tutta
l’Europa in generale e in particolare sulla Francia, i semi della riforma.
Solo dunque, relativamente tardi, dopo che alcuni seri lavori intrapresi
nella Facoltà di teologia protestante di Strasburgo ne rimisero in luce il
nome e l’opera, cominciò a essere posto seriamente il problema di
Lefevre. Quell’uomo timido, autore di opere austere dalla scrittura
tediosa, non si era ufficialmente separato dalla Chiesa cattolica. Dei suoi
discepoli alcuni erano rimasti cattolici e si erano levati risoluti contro
Lutero. Altri, pur manifestando qualche simpatia per gli innovatori, erano
tuttavia restati membri e addirittura dignitari della Chiesa. Centro vivente
di uomini tanto diversi, Lefevre aveva personalmente subito le più diverse
influenze. Cercate prendendo da ognuna solo quello che più conveniva al
suo temperamento. Non possiamo definirlo comunque luterano o
zwingliano. Nessuna etichetta del genere è adatta per questo originale
piccardo, solitario e circondato da discepoli. Tuttavia 5 anni prima che
Lutero elevasse la sua protesta contro Tetzel, aveva pubblicato un
commento alle epistole del grande santo della Riforma, Paolo, in cui si
trovano affermazioni indubbiamente assai ardite.

Graf ponendosi il quesito: Lefevre era protestante? Aveva risposto alla


fine: se non si dichiarò membro della chiesa protestante, fu perché in
quel tempo non esisteva ancora in Francia una Chiesa protestante, né egli
era destinato dalla Provvidenza per fondarla. D’Aubigné disse: Parigi e la
Francia udirono l’insegnamento di quelle verità vitali, da cui sarebbe
uscita la riforma. Ferdinand Buisson, portavoce dei moderati: La riforma
francese ha le sue origini in Francia
(cojonesciovinistamagnatenaltrabaguette). Quel che sarebbe divenuta
senza Lutero, lo ignoriamo, ed è certo che essa fece causa comune con
lui, dopo che gli aveva parlato. Ma era nata prima di lui e si era affermata
senza di lui. Lutero, per consenso unanime, pareva scaricato del peso di
quella paternità troppo lontana. Se gli storici della Riforma avessero una
conoscenza più profonda del Medioevo e della sua storia ecclesiastica, si
accorgerebbero spesso, percorrendo le lamentele degli uomini del 400 e
del 500, di trovarsi di fronte a lamentele rituali.

Perciò il problema non sta in questo, ma nel sapere quale parte


esattamente abbia avuto nella genesi della Riforma la considerazione
degli abusi disciplinari. Ora a quel che pare, nessuno per molti anni si
preoccupò di porsi questo problema chiaramente. Certo, ci furono tanti
storici che assegnarono alla Riforma cause diverse, e più profonde, della
sregolatezza di frati e degli eccessi sentimentali delle monache di Poissy.
Ma i più chiaroveggenti si credevano obbligati a patteggiare con la
Vulgata. Fu la lettura della Santa Scrittura, dei Padri della Chiesa e delle
decisioni dei Concili a rivelar loro l’origine degli abusi, il primitivo
carattere della fede e della vita cristiana e della Chiesa degli Apostoli;
anche allora, per effetto di abitudini profondamente radicate, non
rinunciavano a incriminare ritualmente la decadenza del clero, l’ignoranza
e l’immoralità dei preti, gli abusi della Curia romana.

Eppure era lapalissiano anche al tempo che pur mettendo insieme un


catalogo di denunzie contro la Chiesa, la Riforma avrebbe parlato, prima
di tutto, di superstizione, di bestemmie e d’idolatria. Nessuno per altro si
domandava come gli abusi avessero potuto, di per sé, generare un
movimento di rinnovamento religioso positivo e complesso come la
Riforma. Nessuno si stupiva che tanti devoti cristiani, spesso appoggiati
dai principi e dai loro funzionari, non fossero giunti a porre una buona
volta fine agli eccessi, pur deplorati da tutti.
Se una volta era possibile presentare una riforma nascente, nel giorno e
nell’ora in cui per la prima volta l’eroe Lutero s’aderge ritto contro Tetzel,
Lefevre in nessun modo può essere considerato un inizio. Lefevre è tutto
un seguito d’idee, di cui non è sempre agevole rintracciare gli sviluppi. E’
un insieme complesso di sentimenti, vari e profondi. All’inizio del 500, in
un momento particolarmente interessante dell’evoluzione della società
umana, la Riforma fu il segnale e l’opera di una profonda rivoluzione del
sentire religioso. Che questa rivoluzione si sia tradotta nella costituzione
di nuove Chiese, ognuna delle quali era orgogliosa del suo credo
particolare, di una dogmatica sapientemente formulata dai suoi teologi,
di un rituale minuziosamente definito dal suo corpo sacerdotale, non
deve stupire: ogni Chiesa invisibile tende a incarnarsi in una Chiesa
visibile. Fatta astrazione dalle rivalità delle varie Chiese e dalle
controversie fra dottori, la sua caratteristica essenziale fu di aver saputo
trovare per i turbamenti di coscienza di cui soffriva gran parte della
cristianità, di aver saputo proporre a uomini che sembravano attenderla
da anni e che l’accolsero con una sorta di frenesia e di avidità significative,
una soluzione realmente adatta ai bisogni e allo stato d’animo di masse
inquiete, che aspiravano a una religione semplice, chiara e pienamente
efficace. Bene o male si intravede che alla fine del 400 e primo 500, in un
paese come la Francia, non soltanto rimane intatta la fedeltà alle vecchie
credenze, ma la devozione tradizionale si manifesta con un fervore
assolutamente speciale. La Chiesa non aveva impiegato molto tempo per
accorgersi che la nuova arte poteva dare alla religione lo stesso potente
aiuto che aveva dato alla pedagogia e alla letteratura. Dappertutto, in
ogni paese, il clero aveva di conseguenza preso parte sempre più attiva
nella diffusione della nuova tecnica. Anche il tempo necessario per
produrre, per i bisogni del clero e dei fedeli, un breviario, o un libro d’ore
ad uso della diocesi. Stupefacente abbondanza di pubblicazioni in latino,
ad uso dei simplices sacerdotes. Così una stampa attiva, i cui prodotti di
varia qualità raggiungevano simultaneamente tutte le classi sociali,
diffuse in lungo e in largo idee ed emozioni care alle generazioni del 400,
ormai al tramonto.

C’era una frattura tra le aspirazioni contrastanti di una borghesia bramosa


di armonizzare la sua azione con la sua fede, e le soluzioni, spesso
derisorie, spesso inadatte, che le proponeva una Chiesa anacronistica
ogni giorno di più si apriva un abisso. Tanto più che il clero e i teologi,
ignoranti delle cose del loro tempo continuavano a vivere fra loro, in una
torre d’avorio, gli occhi chiusi ad ogni realtà: nel loro disdegno
aristocratico per la gente del secolo non arrivavano a pensare d’esser loro
i soli religiosi? La riforma, qualunque ne sia il prenome: 2 cose ne
assicurano il successo: la Bibbia in volgare; l’altra, la giustificazione per
sola fede. Non diciamo che le abbia inventate o che essa soltanto ne
abbia rivendicato il libero uso per tutti. Altri uomini e altri libri tradussero
per parte loro e con il loro spirito, energia, violenza. Non vederlo
costituisce un grande errore. Grande lezione per noi la singolare fortuna
di certi libri, e in particolare della Vita Christi di Ludodolfo il Certosino. Nel
susseguirsi amoroso di meditazioni sulla vita terrena del Salvatore il
vecchio autore faceva toccar col dito al fedele il suo Creatore, il suo Dio
incarnato.

Tutto il secolo, con Calvino, professa che un monaco che non lavora mai
con le sue mani deve essere reputato alla stregua di un brigante. E
quando un monaco tenta di tener testa alla corrente, riprende
timidamente l’antico argomento secolare: Io son colui che prega Dio per
voi, molti rispondono in tono tagliente Niente meno! Sembra finita
un’epoca. Il sacrificio del monaco che sopporta i rigori e le privazioni della
regola per assicurare la salute ai propri fratelli non appare più una
devozione meritoria, ma una grossolana importunità. E i primi apologeti
del cattolicesimo contro Lutero vedono giustamente il grande pericolo di
tale rimprovero. La riforma ebbe questa forza, infatti, questa grande forza
fra le altre: di arrecare a tale stato d’animo larga soddisfazione. Già col
restituire ai laici, nella sua integrità, il Verbo, il messaggio divino, essa
portò testimonianza del suo fondamentale anticlericalismo; un
anticlericalismo così forte nel voto delle masse, così popolare e
desiderato che numerosi suoi partigiani, trovando che i loro capi, le guide
degli inizi, non li spingevano abbastanza avanti, insorsero contro la loro
timidezza, contro quell’avanzo di sacerdotalismo che essi – e soprattutto
Lutero – si ostinavano a conservare nel pubblico culto.

Quando, del tutto conseguente con se stessa, la Riforma proclama per


bocca di Lutero: Ogni cristiano è sacerdote di se stesso; dichiara
sacrileghe e blasfeme le interpretazioni del clero che stabilisce senza
appello l’esatto significato della Parola divina; quando proclama infine
che, poiché Dio è spirito, occorre cercare nella comunione affatto
spirituale la presenza del Salvatore, invece di concedere al prete il
privilegio formidabile di ricondurre in terra, per virtù di una formula
sacramentale, ci si accorge immediatamente per il fremito che
accompagna l’annunzio di tali novità, che la Riforma ha trovato una
parola-chiave per il suo tempo…

Quanto più sentivano rovinare le basi secolari su cui poggiava la vita dei
loro avi, la Rif apportava anche qualcos’altro, capace di accontentare i
loro spiriti positivi, tesi verso la sincerità e la semplicità. Proclamando che
la sola fede giustifica, dava a tendenze profonde una nuova e potente
soddisfazione. La fede per il cattolico, oggi come allora, non è un
sentimento personale della misericordia divina, ma un’adesione al
messaggio divino della Rivelazione, quale la Chiesa lo presenta e
l’interpreta. La Chiesa diceva: la salvezza sta, prima di tutto e soprattutto,
nell’essere nella Chiesa. Nell’avere la fede, nel senso cattolico della
Parola. Nel credere a ciò che il prete insegna e a nient’altro che a ciò che
insegna. Poi quando si ha peccato, dacché si uomini, nel confessarsi al
prete e, dopo il pentimento, ottenere l’assoluzione liberatrice. Infine, nel
compiere opere meritorie, opere buone. Una dottrina assai semplice, in
apparenza, ma che in realtà presentava alle coscienze scrupolose una
serie di problemi veramente terribili.
Confessare i propri peccati: nulla di più facile. Ma la confessione, per
avere valore, doveva essere completa. Primo motivo d’ansia per un
cristiano veramente pio, e quindi ossessionato dalla paura del castigo
eterno. Quale mortale avrebbe potuto vantarsi di poter ottenere la
remissione dei suoi peccati, prima di rendere l’estremo respiro e
comparire innanzi al suo giudice? Quale nuovo motivo di tormento, quale
crudele prospettiva: per chi muoia in stato di peccato mortale, la
dannazione eterna nell’inferno; per gli altri l’espiazione in purgatorio.
Ecco quel che significava il grande rivolgimento, tanto desiderato da tanti
uomini alle soglie dei tempi moderni. La vita cessava di cercare nella
morte il proprio punto prospettico, ed i viventi, impazienti di usare le
gioie e le risorse del mondo, si rallegravano trovando nell’insegnamento
del tempio una ragione decisiva per scuotere il peso dei morti.

I vari paesi dell’Europa moderna si erano già notevolmente differenziati


fra loro per tradizione storica, per organizzazione particolare, per le
stesse condizioni di vita che offrivano ai loro abitanti, perché non
apparisse ovunque sotto aspetti diversi la necessità di rinnovarvi le forme
della pietà, i compiti liturgici e sociali del clero, i rapporti fra i poteri
politici, la gerarchia ecclesiastica e i corpi religiosi. Le condizioni nazionali
ebbero una parte importante nello sviluppo della Riforma. Gli uomini
aspirarono tra XV e XVI, al rinnovamento delle fonti della vita religiosa.
No, nel 500 il modo di sentire e pensare illustrato dalla Riforma, non era
l’invenzione di qualche teologo ribelle, né meno ancora, il monopolio di
una razza o di un particolare temperamento. Grandi correnti d’idee e
influssi traversano così il secolo: appena ora cominciamo a distinguere i
corsi principali. Così cominciamo a seguire l’azione di quei fiorentini, di un
Pico della Mirandola, che per lunghi anni fu di moda trattare con
leggerezza, negando l’influsso del loro pensiero. E’ il profondo bisogno di
rinnovamento morale e religioso, che, nei primi anni del 500, travagliava
in tutti i paesi della vecchia Europa, una moltitudine più che mai avida di
certezza. Di rado l’umanità ebbe così preciso il sentimento di vivere i
giorni inebrianti di una primavera piena di promesse. Non disconosciamo
la prodigiosa fecondità di un secolo che ha tentato proprio uno sforzo
magnifico e quasi disperato per spezzare gli angusti quadri delle Chiese,
per fondare sulle loro rovine l’infinita varietà delle libere religioni. Uno
sforzo fallito. Un fallimento momentaneo, ma indiscutibile. Si può dire
che sia riuscito solo a moltiplicare il numero delle confessioni definite, dei
cleri ostili, Chiese rivali, intolleranti, meschine. Ma un lungo periodo di
magnifica anarchia religiosa ha preceduto il tempo della servitù. Che
Lutero neppure allora sia riuscito a soddisfare lo sfrenato desiderio di
libertà che animava gli uomini del suo paese e del suo tempo, è molto
significativo per quel che riguarda lo stato d’animo di queste generazioni.
Anche coloro che non accolsero la Riforma non ritornarono saggiamente
all’antica religione; per altri fu tuttavia necessario, poiché i tempi erano
mutati, che i capi della resistenza, papi, vescovi e teologi, costituissero
ufficialmente una nuova religione: quel cattolicesimo tridentino, che non
viene definito studiandone semplicemente l’ispirazione dottrinale, ma che
in quei tempi, ingannevolmente classificati sotto la rubrica di
Controriforma, torbidi, però, e fervidi di linfa vitale, è necessario veder
vivere nelle anima, nella devozione, nel fanatismo collettivo di folle
esaltate, o in quell’entusiasmo, dalle reazioni così sorprendentemente
impreviste, che solleva alla testa di masse affascinate tanti santi
straordinari dall’originalità di tono tanto elevato.

E allora, 2 religioni: la cattolica e la riformata? Diverse religioni piuttosto;


perché vi furono più di 2 religioni, e la fecondità di quel secolo non si
limitò a rizzare, elementarmente, l’uno di fronte all’altro, un
protestantesimo ben coordinato e un cattolicesimo ben espurgato.
Sarebbe ridicolo, puerile, crederli suscitati dal mediocre scandalo di abusi
senza personalità, o dalla mancanza di pudore piuttosto abituale nei
mercanti del tempio, questi eterni parassiti del divino. Lefevre venne per
primo? Ma Lefevre fu proprio un protestante? Quesiti oziosi… me se
bruciano le melanzane
Nel secondo quarto del 500 si vanno costituendo un po’ dappertutto
Chiese cristiane, che il papa di Roma considera scismatiche e che
considerano lui scandaloso. Gli adepti di queste Chiese hanno
evidentemente diritto alla definizione di riformati. Ma la riforma non va
datata dalla prima costituzione di tali Chiese. Essa riconosce come propria
causa una crisi morale e religiosa di una gravità straordinaria che non si
spiega, che non si comprende a fondo, se non si abbrazziano nella propria
ricerca tutte le diverse manifestazioni di un secolo, la cui attività politica,
il cui sviluppo economico, il cui stato sociale subiscono le medesime
trasformazioni, rapide e fondamentali, della fede religiosa e della cultura
intellettuale e artistica. Specificità, priorità, nazionalità: vocaboli da
cancellare dal dizionario dello storico. E problemi senza oggetto.

Madrou: Ambiente e mentalità rurali (fine XV – inizio XVIII)

All’inizio del XVIII l’aspetto delle campagne francesi non presenta


mutamenti profondi né violenti rivolgimenti, ma è quasi inalterato. Le
campagne soltanto però. Durante i primi 2 secoli della Francia moderna,
l’eredità rurale del Medioevo si conserva e pesa, quasi immutabile.
Sopravvive nell’organizzazione sociale, ed ecco la comunità di villaggio più
o meno raggruppata, amministrata o dominata dal signore, dal curato e
dall’agente reale. Il mondo rurale ha una vita a parte, lontano, nello
spazio reale dell’epoca, dalla vita urbana. Il che non significa affatto che la
vita rurale sia tutta pacifica. Ma essa si afferma pressoché immutabile nei
suoi rischi, nelle disgrazie, insicurezze latenti. Insicurezza materiale. La
base di questa precarietà, mediocrità nei casi migliori, è l’economia
naturale o di sussistenza. Il piccolo contadino, insediato su un terreno di
cui si sente proprietario, attaccato alle sue pratiche comunitarie, non ha
che un’ambizione: produrre quello di cui necessita: grano, orzo, avena.
Lefebvre dice: il tipo rurale francese è il contadino che coltiva per se
stesso e tutt’al più per la città vicina, parlando del contadino del XVIII;
ancor più vero nei secoli precedenti. Proprietario o no, importa poco: la
grande proprietà capitalista ha progredito nel corso dei secoli moderni,
ma intorno alle città; ha un grande significato urbano, quanto è più rurale.
Ed è la che si incontrano i bifolchi, contadini ricchi che possiedono
numerosi cavalli o buoi. Molti contadini in questo periodo non hanno
neanche i 2 o 3 capi di bestiame necessari ai lavori più duri: danno in
affitto le loro braccia al vicino meglio provvisto e prendono in prestito
l’attacco di bestie da tiro. La comunità di parrocchia possiede così la sua
profonda realtà che spiega abbastanza la lentezza con la quale tecniche e
colture nuove si sono diffuse nelle nostre campagne, fino in epoca
recente: il mais e il fagiolo, portati dall’America durante il XVI, si sono
propagati nella Francia meridionale dopo lunghi decenni. Lo stesso
accadde con gli strumenti o le tecniche agricole: l’aratro è rimasto
identico o quasi dall’antichità al XVIII. Il concime di fattoria non supplice a
questo sistema di riposo: il bestiame è poco numeroso, magro, perché il
contadino non può dargli per pasto altro che le erbacce del maggese, le
scarse erbe del sottobosco. Perciò, il bestiame non fornisce alla terra una
concimazione abbondante: pochi prati, di conseguenza poco grano. Infine
i piccoli contadini non possono migliorare le loro colture acquistando
sementi selezionate, adattate come oggi ai terreni e ai climi: mancano sia
i selezionatori che il denaro. In tutte le tradizioni, la parte maggiore spetta
alle mentalità: l’uomo è preso in una rete di abitudini ricevute, accettate
sin dall’infanzia dall’autorità familiare; e in seguito conservate senza
sforzo. In una vita così chiusa in se stessa, il piccolo contadino non ha
denaro: e ciò spiega tanti piccoli mestieri artigianali per qualche soldo.

Quando il contadino ha versato la decima, quando ha soddisfatto diversi


diritti signorili e ha messo da parte le sementi, gli rimane nel granaio di
che nutrire i suoi. Zero guadagno. In tali condizioni perciò la vita materiale
delle campagne francesi è difficile: questo contadino che nutre la città
attraverso il decimatore e gli intendenti signorili; i cui prodotti possono
perfino entrare, qua e là, nei circuiti commerciali internazionali; questo
contadino riesce a nutrirsi solo con grande fatica. Un cattivo raccolto, un
temporale, ed ecco il raccolto se non annientato, almeno diminuito. Il
contadino, saldate le tasse, ha dunque per vivere quanto rimane nel suo
granaio; e se questo è vuoto al mese di aprile, deve mangiare erbe e
radici, a qualunque costo, per tener duro fino a luglio. E come resistere,
se non si può nemmeno passare l’inverno; penuria, carestie infieriscono
anche nelle campagne prima di toccare le città. Penuria di viveri è una
miseria nera, è il pane di felci e di crusca, ma che non provoca la morte di
uomini, tutt’al più di qualche vecchio; la carestia è molto peggio, il
villaggio annientato, la provincia devastata, fino alle città comprese. Un
ultimo elemento completa il quadro: dopo o durante le carestie, le
epidemie trovano il terreno pronto in quei corpi sottoalimentati; si
diffonde così la paura dei bubboni, la paura dello straniero. L’insicurezza
sociale. La povera gente è più oppressa che protetta dal signore: è il
grande dramma della campagna francese. E’ stato troppo spesso detto
che il piccolo signorotto di villaggio vive come i suoi contadini, altrettanto
rozzo, altrettanto miserabile: non legge certamente Omero, ne’ va ad
esposizioni di pantaloni equosolidali in canapa afghana venduti al modico
prezzo di un rene e mezzo, ma egli resta il padrone, tanto più attaccato ai
suoi diritti, al suo primo posto, quanto il tenore di vita, abbassatosi per
l’inflazione continua e strisciante, e l’abito troppo presto logoro, lo
differenziano sempre meno dall’uomo comune. La protezione signorile
che esisteva nel passato è scomparsa, e da molto. Rimangono dunque gli
oneri e le vessazioni, più frequenti che non i buoni momenti ed obblighi di
ogni tipo. Il basso clero non dà ai contadini una protezione efficace:
perché non è ricco, vivendo altrettanto miseramente del suo gregge,
spogliato della decima dei vescovi, che nella maggior parte delle diocesi la
fanno riscuotere da un laico; anche perché il curato di campagna non esce
mai dal villaggio, vede il suo vescovo al massimo una volta all’anno, per la
cresima, non ha ricevuto la formazione intellettuale e spirituale che
richiederebbe il suo stato. Il buon curato vive in una povertà morale
paragonabile a quella dei contadini. A parte rare eccezioni ricordate con
esagerata ammirazione, i soldati devastano i villaggi, rovistando e
saccheggiando mobili, biancheria, abiti, letti… raccolti ancora non mietuti,
granai, bestiame, armadi pesanti, donne sono anche minacciati dai
briganti (dov’era Lili Gruber?), di cui si parlano incessantemente le veglie
d’inverno. Anche i briganti sono di vario tipo: nobili oziosi, rapinatori
impuniti e che è impossibile snidare dalle alte montagne, nei loro nidi
d’aquila al disopra delle valli che organizzano bande di saccheggio, in
paesi che non ricevano la protezione delle truppe reali; soldati disertori,
briganti di strada…

Difesa immediata? Protezione urgente? Neanche parlarne. Al minimo


allarme, e quando si aggiunge l’epidemia, quando i granai cittadini si
vuotano a loro volta, consoli o scabini mettono fuori tutta questa folla di
mendicanti: i vagabondi non fanno parte della città; la città non ha
propensione alcuna ad assicurare la protezione dei rurali. Credenze e
opinioni. Le paure paniche anzitutto; esse dominano ogni cosa, e
spiegano molti aspetti della vita del villaggio; paure più forti di quelle
degli uomini del XX. Una stella filante nel cielo, il galoppo di un cavallo
sbuffante nel maggese, le parole disordinate di un povero di spirito o di
un vicino, tutto dà forma al timore. Basta vedere queste paure
moltiplicarsi alla vigilia delle messi, quando il minimo grido è sospetto,
quando il visitatore, lo straniero, che passa sulle strade è pericoloso:
messi incendiate, bei raccolti perduti alla vigilia di tagliarli; per evitare
queste disgrazie, si fa presto ad afferrare i bastoni. Buona parte dei
movimenti popolari del XVII si spiega così. Un’atmosfera in cui tutto è
oggetto di timore; in cui tutto è possibile, il che è ancora più importante.
E’ un mondo nel quale nessuno distingue naturale e soprannaturale,
razione e no. Sicuramente, queste campagne sono cristiane: dalla nascita
alla morte. La comunione pasquale annuale, scrupolosamente osservata è
l’atto religioso principale, evidentemente insieme alla messa domenicale.
Questa fede rurale presenta nondimeno caratteri originali, lontani da ogni
ortodossia cristiana: il culto dei santi si mescola correttamente a pratiche
superstiziose: il diavolo è presente almeno quanto il buon Dio.

Dopo la guerra, con i villaggi incendiati e le popolazioni decimate, come


in Borgogna durante la guerra dei 30 anni, i sopravvissuti si rimettono
all’opera, rialzano le case meno toccate, ritornano ai campi. L’energia
contadina di fronte agli incidenti di una vita mai sicura non ha limiti, tutti i
villaggi si ricostruiscono rapidamente dopo i peggiori disastri. Elementi
nuovi. Quest’universo, mentale e materiale, dei contadini delle nostre
campagne non è rimasto senza cambiare affatto, durante 2 secoli e più;
ma le strutture fondamentali sono ancora quelle solide, stabili, e ancora
per lungo tempo. All’interno di questo complesso, le trasformazioni
avvengono per piccoli colpi insensibili.

Quel che si può sentire è un rafforzamento della fede religiosa, una


specie di verifica fatta in vari modi. Il primo, la cui influenza è rimasta a
lungo debole, è l’apparizione del pastore protestante: quest’uomo di
solida fede, formato sul piano spirituale da un soggiorno di studio di
parecchi anni a Ginevra, esercitato alla discussione, che non ignora
nessuna delle debolezze romane, porta dovunque passa il suo metodo, la
sua lettura diretta del Vangelo, e quella presenza di spirito che lo rende
così temibile per il basso clero cattolico, per nulla abituato alle discussioni
teologiche. Ma il pastore passa soltanto: Ginevra non poteva formarne
migliaia per evangelizzare le campagne. Forzano un po’ le cose, s può
avanzare l’ipotesi che il protestantesimo rurale ha preso veramente
ampiezza solo nella seconda metà del XVII. Ma dovunque si ferma il
pastore protestante, che rapidi cambiamenti! Ognuno deve saper leggere,
ognuno deve possedere la Bibbia. Contemporaneamente la Chiesa
cattolica è passata accanto alla riforma disciplinare, che poteva
permetterle di correggere o di rinvigorire la fede superstiziosa delle
campagne: il Concilio di Trento, sensibile alle critiche protestanti, ha
deciso la creazione di seminari, nelle diocesi. Se il basso clero alla fine del
XVII si risveglia e prende una coscienza degna del suo ruolo, non lo deve
certo ai seminari; se legge con passione il suo breviario bisogna attribuire,
sembra, questa presa di coscienza alla questione del formulario del 1661-
5. Luigi XIV impose al clero tutto la firma di un formulario che condannava
espressamente le 5 proposizioni estratte dal libro di Cornelio Giansenio,
senza dire oltre, di cui, nella Bretagna, nessun aveva mai sentito parlare.
Principio di un’attività pastorale più riflessiva, anche feconda: il secolo di
Luigi XIV ha così potuto essere, negli ultimi anni, un momento di
progresso per il cattolicesimo rurale.

Delumeau – I Miracoli

I miracoli hanno svolto un ruolo importante nella storia cristiana. In


questo capitolo ne analizziamo alcuni all’epoca della Riforma cattolica.
Una documentazione sulla possessione diabolica a Vervins nel XVI.
Parallelamente alle missioni e al catechismo, i miracoli hanno costituito
un altro metodo apologetico per sensibilizzare le folle al dogma cattolico.
Storia nota in tutta la Francia, la possessione diabolica di Nicole di
Vervins, seguita dalla sua guarigione nella cattedrale di Laon nel 1566, ha
subito appassionato i contemporanei.

3 novembre 1565, Nicole, recandosi ai vespri passa per il cimitero


parrocchiale. Inginocchiata accanto alla tomba del nonno materno, prega
per l’anima dei defunti. All’improvviso le appare un uomo avvolto in un
lenzuolo funebre bianco che le rivolge queste parole: Nicole, io sono tuo
nonno! Poi svanisce al suo sguardo. Nei giorni che seguono, questo spirito
si manifesta ancora molte volte alla giovane, la quale si sente male e
(come te sbagli) le viene somministrata l’estrema unzione. Tornata in sé,
rivela che suo nonno si trova in purgatorio. Nicole grida continuamente e
afferma di essere percossa e uccisa e minacciata sempre più… lui dice di
essere inviato di Dio, poi si scopre essere malvagio e menzognero: un
diavolo. L’eucarestia solleva Nicole dai suoi tormenti. Ma Beelzebù di
fronte a questa lotta contro di lui, chiama in aiuto altri diavoli. Presto
sono in 30 e tormentano la ragazza giorno e notte, lei è distrutta: perde
l’uso della parola, udito, vista e il suo braccio destro è paralizzato. Si
decide di portare l’indemoniata in pellegrinaggio. Quello che potrebbe
essere solo un semplice e stupefacente fatto di cronaca agita invece le
folle, è oggetto di numerosi racconti e rilancia la polemica teologica tra
protestanti e cattolici sulla presenza reale di Dio nel sacramento
dell’altare. L’ipotesi di essere in presenza di uno spirito viene accettata di
buon grado dalla famiglia di Nicole, che conosce le circostanza della
morte del nonno, scomparso 2 anni prima, sembra fosse spirato senza
aver ricevuto gli ultimi sacramenti, e i suoi discendenti devono portare a
compimento sulla terra quello che lui aveva iniziato. Ma i dolori di Nicole
non cessano; a Vervins regna lo sconcerto ma nessuno si ricorda dei
rimproveri che ricevette Nicole dalla madre (Che il grande diavolo ti porti!
Pozzi arde! Che te gechi!) per aver perso il rosario d’ambra.
Un’imprecazione sfuggita di bocca alla madre diventa una bestemmia
contro Dio e consegna una figlia a Lucifero, e la morte del nonno è il
pretesto scelto dal maligno. Obbligato a confessare le sue debolezze, Er
Diablo manifesta la sua paura dell’eucarestia: quando viene avvicinato
alle labbra di Nicole il sacramento che lo scaccerà. Solo le colpe che non
sono state accusate in confessione possono essere svelate: se ti fossi
confessato io non ne saprei nulla e non conserverei memoria. La Chiesa
cattolica trionfa. Non solo Belzebù fa l’apologia del sacramento della
penitenza e viene cacciato da Nicole in virtù di Dio presente
nell’eucarestia. Di fronte all’euforia dei papisti, i protestanti si
interrogano. C’è invece chi rifiuta il miracolo accusando Nicole di magia. E
con l’avvento del XVIII, il secolo dei lumi, si fa strada il dubbio su questo
miracolo eucaristico. Frutto o meno della follia di una ragazza, la tragedia
di Vervins ci sembra rifletta lo stato dello spirito di un’epoca.

I miracoli di Sainte-Anne-Auray.

Motivo iniziale del pellegrinaggio è l’apparizione, vicino a Auray di


Sant’Anna a un agricoltore, Nicolazic: questo vedeva una dama vestita di
bianco che gli dice d’essere sant’Anna e gli rivela che un tempo c’era

stata, nel suo campo di Bocenno, una cappella dedicata alla madre della
Vergine. Il vescovo di Vannes, dopo un lungo interrogatorio di Nic ad
opera dei cappuccini, il vescovo riconosce l’autenticità delle apparizioni e
dà il consenso alla costruzione di una cappella. Questa sarà condotta a
termine da Nicolazic che morirà nel 1645. I cappuccini, incaricati
dell’organizzazione dei primi pellegrinaggi, avevano fatto restaurare la
statua: subito alcuni malati vengono guariti bevendo dell’acqua in cui
sono stati immersi frammenti della statua: sono i primi miracolati. Dal
1625, dai primi miracoli, i carmelitani si sono messi a trascrivere i racconti
dei pellegrini. I registri dei miracoli del XVII sono fortunatamente
sopravvissuti alla Rivoluzione. Il più importante è “Le Premier livre des
Miracles Faits” per l’Intercession de la Glorieus saint Anne. Per lo più i
miracoli riferiti non sono avvenuti a Sainte-Anne d’Auray. Il procedimento
è normalmente il seguente: una persona, malata o in pericolo, prega
Sant’Anna di intervenire e fa un voto, promette cioè, se il miracolo si
verificherà, di andare in pellegrinaggio al santuario. Una volta ottenuta
l’assistenza divina il miracolato in persona va a sciogliere il voto, oppure
manda qualcuno della famiglia o della parrocchia al posto suo. Il
pellegrinaggio è quindi di ringraziamento. Incontriamo tuttavia alcuni casi
di pellegrinaggi di richiesta, e allora il miracolo avviene o lungo il
cammino, o nel santuario stesso.

Abbiamo 2 tipi di testi:

1) Le dichiarazioni fatte a Saint Anne e registrate via via da un monaco;

2) I processi-verbali fatti davanti ai notai dai miracolati e ricopiati sul


Livre.

Per i miracoli più significativi i carmelitani richiedevano degli attestati


(rilasciati da medici, sacerdoti) o facevano delle inchieste. Su 1267
dichiarazioni di miracoli per il periodo 1625-48 solo 98 si riferiscono a
miracolati non bretoni, prevalentemente dalla diocesi di Vanne (300) e di
Saint-Malo (200). Ma è solo a partire dal 1647 che si afferma la
prevalenza dei pellegrini di Vannes su quelli delle altre diocesi. Per il
periodo ’34-’46 disponiamo di 508 dichiarazioni che riguardano 557
miracoli, ma solo 541 miracolati. I maschi rappresentano il 59%. Parlando
di età tra i neonati e decenni abbiamo il 41% tra 1 e 5 anni. Il 62,6% dei
miracolati viene dalla campagna. La borghesia rappresenta il 30 %, il terzo
stato il 60% (e grazie o’ cazz). La maggior parte delle richieste erano fatte
in occasione di malattie, o contro l’acqua (annegamenti, naufragi). Le
malattie per lo più erano: 1) paralisi e turbe varie che impediscono di
camminare, 2) cecità e disturbi della vista.
La progressione numerica delle dichiarazioni tra il 1625 e il ’29
corrisponderebbe abbastanza verosimilmente all’estensione della fama di
Saint’Anne e allo sviluppo iniziale del pellegrinaggio. Tra il ’30 e il ’40 la
curva è irregolare. Per quanto riguarda l’andamento successivo, pare che
si debba tener conto di possibili insufficienze della documentazione tra il
1652 e il 1660. Ma la diminuzione del numero delle dichiarazioni dipende
probabilmente soprattutto dal fatto che i carmelitani non le registrano
più: diminuzione del misticismo in Bretagna. In tutta la Francia, la seconda
metà del XVII è un’epoca di diffidenza nei confronti del misticismo che
aveva invece segnato l’inizio del secolo. Può anche essere che i parroci,
che ormai venivano formati nei seminari, si siano mostrati più diffidenti
nei confronti delle grazie ricevute dai loro parrocchiani.

Aries - L’uomo davanti alla morte.

La morte addomesticata. Come molti fatti di mentalità che si collocano


nella lunga durata, l’atteggiamento di fronte alla morte può sembrare
quasi immobile attraverso lunghissimi periodi di tempo. Sembra acronico.
E tuttavia, in certi momenti, sopravvengono dei mutamenti, quasi sempre
lenti. La prima si colloca piuttosto nella sincronia: morte addomesticata.
Seconda = diacronia = quali cambiamenti nel Medioevo hanno cominciato
a modificare l’atteggiamento acronico davanti alla morte e qual senso
possiamo dare a questi cambiamenti. Infine le ultime 2 relazioni saranno
dedicate agli atteggiamenti contemporanei. Innanzi tutto come morivano
i cavalieri della chanson de geste o dei più antichi romanzi medievali. Non
si muore senza aver avuto il tempo di sapere che si sta per morire. Di
solito, l’uomo era avvisato. L’avviso era dato da segni naturali o più
spesso ancora da un’intima convinzione, piuttosto che da una
premonizione soprannaturale o magica. Nel XVII, nonostante la sua
pazzia, don Chisciotte non cerca di fuggire alla morte nei sogni in cui
aveva consumato la sua esistenza. Anzi, i segni premonitori della morte lo
riconducono alla ragione. Così atteggiato il morente può compiere gli
ultimi atti del cerimoniale tradizionale. Prenderemo l’esempio di Orlando,
della Chanson. Il primo atto è il rimpianto della vita, un richiamo, triste
ma molto discreto, agli esseri e alle cose amate, uno scorcio ridotto a
poche immagini. Dopo il lamento del rimpianto della vita, viene il
perdono dei compagni, degli astanti, sempre numerosi, che circondano il
letto del moribondo. Oliviero chiede perdono a Orlando per il male che ha
potuto fargli contro le sue intenzioni. Ora è tempo di dimenticare il
mondo e di pensare a Dio. La preghiera è composta da 2 parti: il mea
culpa, e il commendatio animae. A questo punto interveniva senza dubbio
l’unico atto religioso o meglio ecclesiastico, l’assoluzione. Dopo l’ultima
preghiera, non resta che attendere la morte e questa non ha alcuna
ragione di tardare. Conclusioni: si attende la morte a letto. E’ una
cerimonia pubblica e organizzata. La camera del moribondo si
trasformava in un luogo pubblico. Vi si entrava liberamente. La semplicità
con cui i riti mortuari venivano accettati e compiuti, in modo cerimonioso,
certo, ma senza carattere drammatico, senza eccessiva emozione.

Il vecchio atteggiamento in cui la morte è al tempo stesso familiare,


vicina e attenuata, indifferente, contrasta troppo con il nostro, in cui la
morte fa paura al punto che non osiamo più pronunciarne il nome.
L’antica familiarità con la morte ci introduce il tema della familiarità con
la morte. E’ un fenomeno nuovo e sorprendente. Era conosciuto
dall’antichità pagana e anche cristiana. Ci è divenuto del tutto estraneo a
partire dalla fine del secolo XVII. Nonostante la loro familiarità con la
morte, gli antichi temevano la vicinanza dei morti, li tenevano in disparte.
Ma uno degli scopi dei culti funebri era quello di impedire ai defunti di
tornare a turbare i vivi. Il mondo dei vivi doveva essere separato da quello
dei morti. Per questo a Roma, la legge delle 12 Tavole proibiva di
sotterrare in urbe, all’interno della città. Venne un momento in cui la
distinzione tra i sobborghi dove si seppelliva ad sanctos (vicino ai santi),
perché erano extra urbem, e la città sempre vietata alle sepolture,
scomparve. Sappiamo come questo si è verificato ad Amiens nel VI: il
vescovo san Vaast, morto nel 540, avevo scelto la sua sepoltura fuori dalla
città. Ma quando i portatori cercarono di spostarlo, non riuscirono a
smuovere il corpo divenuto d’un tratto troppo pesante. Allora l’arciprete
pregò il santo di ordinare che tu sia portato nel luogo che noi (clero)
abbiamo preparato per te. La separazione tra l’abbazia cimiteriale e la
chiesa cattedrale era dunque cancellata. I morti già mescolati agli abitanti
dei quartieri popolari dei sobborghi, che erano sorti intorno alle abbazie,
penetravano così nel centro storico delle città. Il termine cimitero finì per
indicare più particolarmente la parte esterna della chiesa, l’atrium. Il fatto
che i morti fossero entrati in chiesa e nel cortile della chiesa non impedì
né all’una né all’altro di diventare luoghi pubblici. In questo asilo detto
cimitero, che ospitasse o no le sepolture, venne deciso di costruire case
d’abitazione. Il cimitero finì allora per indicare, se non proprio un
quartiere, almeno un isolotto di abitazioni che godevano di certi privilegi
fiscali o demaniali.

Nel 1231, il Concilio di Rouen proibisce di danzare nel cimitero o in


chiesa, pena la scomunica. Ma ecco un testo del 1657, il quale dimostra
che si cominciava a trovare un po’ fastidioso l’accostamento, in uno
stesso luogo, delle tombe e delle mille sciocchezze che si vedono sotto
queste gallerie. Ma se alla fine del XVII si cominciano a intravvedere segni
d’insofferenza, bisogna tuttavia ammettere che per di più di un millennio
ci si era sentiti perfettamente a proprio agio in questa promiscuità fra i
vivi e morti. La morte di sé. L’uomo subiva, con la morte, una delle grandi
leggi della specie e non pensava né a sottrarvisi, né ad esaltarla. La
accettava semplicemente, appena con quel tanto di solennità che bastava
a contrassegnare l’importanza delle grandi tappe, che ogni vita doveva
sempre superare. Escatologia comune dei primi secoli del cristianesimo: i
morti che appartenevano alla Chiesa e le avevano affidato i loro corpi si
addormentavano come i sette dormienti di Efeso e riposavano fino al
giorno del secondo avvento, del grande ritorno, in cui si sarebbero
risvegliati nella Gerusalemme celeste, cioè in Paradiso. Non v’era posto,
in questa concezione, per una responsabilità individuale, per un bilancio
delle buone e delle cattive azioni.

Nel XII la scena cambia. Nei timpani scolpiti delle chiese romaniche, la
gloria del Cristo, ispirata alla visione dell’Apocalisse, domina ancora. Ma
al di sotto appare un’iconografia nuova, ispirata a Matteo, la resurrezione
dei morti, la separazione fra i giusti e i dannati: il giudizio, san Michele
arcangelo che pesa le anime. Nel XIII l’ispirazione apocalittica,
l’evocazione del grande ritorno sono stati quasi cancellati. L’idea del
giudizio ha avuto il sopravvento, e quella che viene rappresentata è una
vera e propria corte di giustizia. Così l’idea del Giudizio universale è legata
a mio avviso a quella di biografia individuale, ma questa biografia termina
solo alla fine dei tempi e non ancora nell’ora della morte. Il secondo
fenomeno che propongo alla vostra osservazione è consistito nel
sopprimere il tempo escatologico fra la morte e la fine dei tempi, e nel
collocare il Giudizio non più nell’etere del Grande Giorno, bensì nella
camera, intorno al letto del moribondo. Quest’iconografia ci riconduce
quindi al modello tradizionale della morte nel proprio letto, che abbiamo
studiato nel precedente capitolo. Il moribondo è a letto, circondato dai
suoi amici e parenti. Sta eseguendo i riti che ben conosciamo. Ma succede
qualcosa che turba la semplicità della cerimonia e che i presenti non
vedono, uno spettacolo riservato solo al morente, il quale lo contempla
con un po’ d’inquietudine e molta indifferenza. Degli esseri soprannaturali
hanno invaso la camera e si affollano al capezzale del giacente. Da una
parte la Trinità, la Vergine, tutta la corte celeste, e dall’altra Satana. Dio e
la sua corte sono là per constatare come si comporterà il morente
durante la prova che gli viene proposta prima di esalare l’ultimo respiro, e
che determinerà la sua sorte nell’eternità. Questa prova consiste in
un’ultima tentazione. Il moribondo rivedrà tutta la sua vita, la quale è
contenuta nel libro, e sarà tentato sia dalla disperazione per i suoi errori,
sia dalla vanagloria delle sue azioni.

L’iconografia delle artes moriendi riunisce dunque nella medesima scena


la sicurezza del rito collettivo e l’inquietudine di un interrogativo
personale. Le idee potranno cambiare nei secoli XVII e XVIII. Sotto l’azione
della Controriforma, gli autori religiosi lotteranno contro la credenza
popolare secondo cui non era tanto necessario darsi da fare per vivere
virtuosamente, poiché una buona morte avrebbe riscattato tutti gli errori.
Tuttavia si continuò ad attribuire un'importanza morale alla condotta del
moribondo e alle circostanze della sua morte. Si dovrà attendere il XX
perché questa credenza così radicata venga soppressa, almeno nelle
società industriali.

Il cadavere.

L’apparizione del cadavere nell’arte e nella letteratura. Solo nel XVII lo


scheletro e le ossa, la morte secca e non più il cadavere in
decomposizione, si sono diffusi in tutte le tombe e sono anche penetrati
all’interno delle case, sui caminetti e sui mobili. Ma in generale la morte
dei testamenti si ricollega alla concezione serena della morte nel proprio
letto. L’orrore della morte fisica è del tutto assente. In compenso l’orrore
della morte fisica e della decomposizione è un tema familiare alla poesia
del XV e del XVI. Ma l’orrore non è riservato solo alla decomposizione
post mortem, esso è intra vitam, nella malattia, nella vecchiaia. I poeti
prendono coscienza della presenza universale della corruzione. La
decomposizione è il segno del fallimento dell’uomo. Oggi l’adulto prova,
sempre più presto, il sentimento d’aver fallito, il sentimento che la sua
vita adulto non ha realizzato nessun delle promesse della sua
adolescenza. Oggi non mettiamo in rapporto il nostro scacco vitale e la
nostra mortalità umana. La certezza della morte, la fragilità della nostra
vita sono estranee al nostro pessimismo esistenziale. Invece, l’uomo della
fine del Medioevo aveva la consapevolezza acutissima di essere un morto
a breve scadenza, e la morte, sempre presente dentro di lui, infrangeva le
sue ambizioni, avvelenava i suoi piaceri. E quest’uomo nutriva una
passione per la vita che oggi possiamo a stento comprendere, forse
perché la nostra vita è divenuta più lunga.

Sepolture.

L’ultimo fenomeno che ci resta da esaminare conferma questa tendenza


generale. Riguarda le tombe o più precisamente l'individualizzazione delle
sepolture. Le iscrizioni funerarie sono innumerevoli. Sono sempre
numerose all’inizio dell’epoca cristiana. Rappresentando il desiderio di
conservare l’identità della tomba e la memoria dello scomparso. Verso il
V secolo divengono rare e più o meno rapidamente a seconda delle
località, scompaiono. I sarcofagi di pietra portavano spesso, oltre ai nomi
dei defunti, i loro ritratti. Poi a loro volta, i ritratti spariscono, così che le
sepolture diventano completamente anonime. Quest’evoluzione non ci
sorprenderà, dopo quanto abbiamo detto nel capitolo precedente sulla
sepoltura ad sanctos: il defunto veniva abbandonato alla Chiesa, che se
ne incaricava fino al giorno in cui sarebbe risuscitato. Ora a partire dal XII
secolo ritroviamo le iscrizioni funerarie che erano quasi scomparse per
900 anni. Ricompaiono sulle tombe dei personaggi illustri. Con l’iscrizione
ricompare l’effige. Infine nel XIV spingerà il suo realismo fino a riprodurre
la maschera presa sul volto del defunto. L’arte funeraria si è evoluta verso
una maggior personalizzazione fino ai primi del XVII, e allora il defunto
può essere rappresentato anche 2 volte sulla stessa tomba, in posizione di
giacente e di orante. Queste tombe monumentali le conosciamo bene
perché appartengono alla storia dell’arte. Nel XII secolo vediamo
moltiplicarsi, accanto a queste grandi tombe monumentali, delle piccole
targhe di 20-40 cm di lato, che venivano applicate contro il muro della
chiesa o contro un pilastro. Sono state la forma più diffusa di monumenti
funebri fino al XVIII. Alcune sono semplici iscrizioni in latino o in volgare:
qui giace il tale, morto il tal giorno, la sua funzione. Le nostre chiese se ne
erano completamente rivestite. Esse esprimono la volontà d’individuare il
luogo della sepoltura e di perpetuarvi il ricordo del defunto. Tuttavia
queste targhe tombali non erano il solo mezzo di perpetuare il ricordo. I
defunti prevedevano nel loro testamento dei servizi religiosi perpetui per
la salvezza delle loro anime. Lo studio delle tombe conferma perciò quel
che ci hanno insegnato i Giudizi universali, le artes moriendi, i temi
macabri: un rapporto prima sconosciuto si è stabilito, a partire dall’XI, fra
la morte del singolo e la coscienza ch’egli assumeva della sua
individualità.

La morte dell’altro.

A partire dal XVIII l’uomo delle società occidentali tende a dare alla
morte un senso nuovo. L’esalta, la drammatizza. Ma ci si occupa meno
della propria morte. E’ la morte dell’altro! Il cui ricordo e rimpianto
ispireranno nel XIX e XX il nuovo culto delle tombe e dei cimiteri. Nel XVI
vediamo i temi della morte caricarsi di un senso erotico. Nelle danze
macabre più antiche, era già molto se la morte toccava il vivo per
avvertirlo e designarlo. Nella nuova iconografia del XVI, gli fa violenza.
Come l’atto sessuale, la morte è ormai sempre più considerata come una
trasgressione che strappa l’uomo alla sua vita quotidiana, alla sua società
ragionevole, al suo lavoro monotono, per assoggettarlo a un parossismo e
gettarlo in un mondo irrazionale, violento e crudele. Il morto non sarà
desiderabile, come nei romanzi noir, ma sarà ammirevole per la sua
bellezza: è la morte che chiameremo romantica, di Mark Twain in
America. Abbiamo molte testimonianze letterarie. Ma abbiamo anche
molte lettere e memorie. L’espressione del dolore dei sopravvissuti è
dovuta a un’intolleranza nuova per la separazione. Ma il turbamento non
sopravviene solo al capezzale degli agonizzanti o al ricordo degli
scomparsi. La sola idea della morte commuove. Sua moglie, una tedesca
protestante, racconta così il suo ultimo respiro: Sentii che la morte era la
felicità. Nell’America di oggi, non si ha quasi il coraggio di leggere un
simile testo. Come deve sembrarle morbosa la famiglia La Ferronays!
Il compiacimento verso l’idea della morte.

Il secondo grande mutamento concerne il rapporto fra il morente e la sua


famiglia. Fino al XVIII la morte riguardava colui che ne era minacciato, e
lui soltanto. Così a ciascuno spettava esprimere da sé le sue idee, i suoi
sentimenti, la sua volontà. Per questo disponeva di uno strumento, il
testamento. Dal XIII al XVIII, il testamento è stato per ognuno il mezzo di
esprimere i propri pensieri profondi. Di fatto il testamento, sotto questa
forma, rivelava una diffidenza, o almeno un'indifferenza, nei riguardi degli
eredi, dei parenti prossimi, della fabbrica e del clero. Mediante un atto
deposto presso un notaio, quasi sempre firmato da testimoni, il testatore
forzava la volontà di quanti lo circondavano, il che significava che
altrimenti avrebbe temuto di non essere né ascoltato né obbedito. Ora
nella seconda del XVIII interviene un cambiamento considerevole nella
stesura dei testamenti. Le clausole pie, le elezioni di sepoltura, le
fondazioni messe e servizi religiosi, le elemosine scompaiono, e il
testamento si riduce a quel ch’è oggi, un atto legale di distribuzione del
patrimonio. Il testamento è dunque stato completamente laicizzato nel
XVIII. Come spiegare questo fenomeno? Si è pensato che questa
laicizzazione fosse uno dei sintomi della scristianizzazione della società.
Altra spiegazione (più): il testatore ha separato le sue volontà riguardanti
la devoluzione del patrimonio da quelle che la sua sensibilità, la sua pietà,
i suoi affetti gl’ispiravano. Le prime erano sempre affidate alla famiglia, ai
figli o congiunti (ecconenartro). Non si devono dimenticare le grandi
trasformazioni della famiglia che nel XVIII hanno portato a nuovi rapporti
fondati sul sentimento.

Eccoci dunque arrivati a un momento molto importante nella storia degli


atteggiamenti di fronte alla morte. Affidandosi ai suoi familiari, il morente
delegava loro una parte dei poteri che fino allora aveva gelosamente
esercitato. Se il moribondo ha conservato la parte principale, gli astanti
non sono più le semplici comparse di una volta, passivi, che si rifugiano
nella preghiera e in ogni caso, dal XII al XVIII non manifestano più il
grande dolore di Carlomagno o di Re Artù. A partire dal XII il lutto
esagerato dell’alto Medioevo si era in effetti ritualizzato. Cominciava solo
dopo la constatazione della morte, e si traduceva in un abito e in
abitudini. Così alla fine del Medioevo fino al XVIII il lutto aveva un duplice
scopo. Da un parte, costringeva la famiglia del defunto a manifestare un
dolore che non sempre sentiva. D’altre parte, il lutto aveva anche l’effetto
di difendere il sopravvissuto sinceramente addolorato contro gli eccessi
del suo dolore. Ora nel XIX questo limite non è stato più rispettato, il lutto
si è dispiegato con ostentazione oltre il consueto. Il XIX è l’epoca dei lutti
che l’odierno psicologo chiama isterici: ed è vero che spesso confinano
con la follia. Quest'esagerazione del lutto nel XIX ha certo un suo
significato. Vuol dire che i sopravvissuti accettano con più difficoltà di un
tempo la morte dell’altro. La morte temuta non è dunque la propria
morte, ma la morte dell’altro, la morte del tu. Nel Medioevo i morti erano
affidati, abbandonati, alla Chiesa, e poco importava il luogo esatto della
loro sepoltura, che, quasi sempre non era indicato né da un monumento
e neppure da un semplice iscrizione. L’accumularsi dei morti nelle chiese
o nei piccoli recinti delle chiese divenne d’un tratto intollerabile. Da una
parte, la salute pubblica era compromessa dalle emanazioni fetenti e
batteriologicamente pericolose provenienti dalle fosse. Dall’altra, il suolo
delle chiese, la terra satura di cadaveri dei cimiteri, l’esibizione degli
ossari profanavano ad perpetuum la dignità dei morti. Si rimproverava
alla Chiesa d’aver fatto tutto per l’anima e niente per il corpo. Questa
presenza era una risposta all’affetto dei sopravvissuti e alla loro nuova
ripugnanza ad accettare la scomparsa della persona cara. Ma l’opinione
comune ha voluto di fatto conservare i suoi morti vicino a sé,
seppellendoli nella proprietà di famiglia, oppure di poterli visitare se
erano inumati in un cimitero pubblico. Ora i parenti volevano recarsi nel
luogo preciso in cui il corpo era stato deposto, e volevano che questo
luogo appartenesse completamente al defunto e alla sua famiglia. E’ stato
allora che la concessione di sepoltura è divenuta una speciale forma di
povertà. Si va dunque a visitare la tomba di una persona cara allo stesso
modo in cui si va da un parente o in una casa propria, piena di ricordi. Il
ricordo conferisce al morte una specie d’immortalità, che in principio era
estranea al cristianesimo.

Culto privato dunque, ma anche, fin dalle origini, culto pubblico. Il culto
della memoria si è subito esteso dall’individuo alla società, in seguito a
una medesima tendenza della sensibilità. Gli autori dei progetti di
cimiteri, nel XVIII, si augurano che i cimiteri siano insieme dei parchi
organizzati per la visita familiare, e dei musei di uomini illustri, come la
cattedrale di Saint Paul a Londra. Si sente che la società è composta
insieme dai morti e dai vivi, e che i morti sono altrettanto significativi e
necessari dei vivi. La città dei morti è l’inverso della società dei vivi, la sua
immagini. Dall’inizio del secolo XIX si progettava di sopprimere i cimiteri
parigini raggiunti dall’espansione urbana, e di trasferirli fuori città. Ma,
nella seconda metà del XIX, la mentalità era cambiata: tutta l’opinione
pubblica insorse contro i progetti sacrileghi dell’amministrazione,
un’opinione unanime in cui i cattolici si univano ai loro nemici positivisti.
La presenza del cimitero sembrava ormai necessaria alla comunità
cittadina. Si può dire che i fenomeni che studiamo sono stati pressappoco
gli stessi in tutta la civiltà occidentale. La differenza la si può costatare nei
cimiteri e nell’arte funeraria.

Si è partiti, alla fine del XVIII da un modello comune. Il cimitero inglese di


oggi somiglia molto a quel che era il cimitero francese quando, alla fine
del XVIII, fu proibita la sepoltura nelle chiese e anche nella città. In
Inghilterra e nell’America coloniale, l’elemento verticale è stato, nella
maggior parte dei casi, l’unico conservato, sotto forma di una stele,
mentre l’elemento orizzontale era sostituito da un rettangolo d’erba che
segnava l’ubicazione della tomba. L’iscrizione insieme biografica ed
elegiaca era l’unico lusso di queste sepolture, che ostentavano la massima
semplicità. Questa semplicità non implicava nessuna disaffezione, al
contrario. Si adattava molto bene alla malinconia del culto romantico dei
morti. Gli USA e l’Europa del nord resteranno più o meno fedeli a questo
vecchio modello. L'Europa continentale invece se ne è allontanata ed ha
costruito per i suoi morti dei monumenti sempre più complicata e
figurativi. Si è tentati, naturalmente, di attribuire questa differenza alla
differenza religiosa, all’opposizione fra protestantesimo e cattolicesimo.
Ma la separazione del Concilio di Trento è assai anteriore a questo
divorzio fra le abitudini funerarie. Tuttavia c’è qualcosa di vero nella
spiegazione religiosa, se si constata che durante il XIX il cattolicesimo ha
sviluppato espressioni, sentimenti, commoventi. Tuttavia il carattere
esaltato e commovente del culto dei morti non è di origine cristiana. E’ di
origine positivista, e i cattolici in seguito vi hanno aderito e l’hanno, del
resto, assimilato così perfettamente da crederlo ben presto autoctono.

La morte proibita.

Ora da circa un terzo di secolo, assistiamo ad una brutale rivoluzione delle


idee e dei sentimenti tradizionali; così brutale che non ha mancato di
colpire gli osservatori sociali. Fenomeno inaudito. La morte, un tempo
così presente, tanto era familiare, si cancella e scomparve. Diventa
oggetto di vergogna e di divieto. La verità comincia ad essere un
problema. Il desiderio di risparmiare il malato, di prendere la sua pena.
Ma ben presto, questo sentimento la cui origine ci è nota è stato sostituiti
da un sentimento diverso: evitare, non più al moribondo, ma alla società,
ai familiari, il turbamento e l’emozione troppo forte, insostenibile,
causata dall’orrore dell’agonia e dalla semplice presenza della morte nel
pieno della vita felice, poiché ormai è generalmente ammesso che la vita
è sempre felice o deve sempre averne l’aria. Fra il 1930 e il 1950,
l’evoluzione precipita. Quest'accelerazione è dovuta a un importante
fenomeno materiale: spostamento del luogo in cui si muore. Si muore
all’ospedale perché l’ospedale è divenuto il luogo in cui si somministrano
cure e si lotta contro la morte. Il luogo privilegiato della morte. Si è morti
all’ospedale perché i medici non sono riusciti a guarire. Si va o si andrà
all’ospedale perché i medici non sono riusciti a guarire. Si va o si andrà
all’ospedale non più per guarire, ma per morire. La morte in ospedale non
è più occasione di una cerimonia rituale; è un fenomeno tecnico ottenuto
con l’interruzione delle cure. La morte è stata scomposta, frazionata in
una serie di piccole tappe di cui non si sa quale sia la morte vera, quella in
cui si è perduta la conoscenza. Un dolore troppo visibile non ispira pietà,
ma ripugnanza; è un sentimento di perturbazione mentale o di cattiva
educazione: e morboso. Una volta evacuato il morto, non si usa più
visitare la sua tomba. Nei paesi in cui la rivoluzione della morte è radicale,
in Inghilterra, la cremazione è il sistema più diffuso di sepoltura. Più la
società allentava le costrizioni vittoriane nei riguardi del sesso, più
respingeva le cose della morte. Invece i costumi americani non sono
andati tanto oltre, si sono fermati per strada. Si vuol farla scomparire.
Certo, sarebbe anche la fine del profitto, ma le alte tariffe dei mercanti di
funerali non sarebbero tollerate, se non rispondessero a qualche bisogno
profondo. La veglia funebre, che nell’Europa industriale tende sempre più
a scomparire, sarà mantenuta.

E DOPO QUESTA VENTATA DI OTTIMISMO, CI FACCIAMO TUTTI UNA


GRANDE E FRAGOROSA GRATTATA DE CUGGHIUNA,

grazie per la collaborazione.


Lefebvre – La grande paura.

Caratteri della grande paura.

La paura dei briganti, nata alla fine dell’inverno, attinse il parossismo nella
seconda quindicina di luglio e si estese più o meno a tutta la Francia. Se
essa generò la grande paura, occorre tuttavia distinguerla da questa. La
grande paura ha caratteristiche sue proprie. Finora, l’arrivo dei briganti
era possibile e temuto: ora esso diviene una certezza. La caratteristica
peculiare della grande paura è che questi allarmi, anziché restare locali, si
propagano molto lontano e con grandissima rapidità. Cammin facendo,
essi generano a loro volta nuove prove dell’esistenza dei briganti,
oltreché torbidi i quali rinforzano la corrente o, meglio, l’alimentano e le
servono da relais. Questa propagazione si spiega parimenti con la paura
dei briganti: se è creduto facilmente che arrivassero perché li si aspettava.
Avendo ammesso che il panico si manifestò dappertutto
contemporaneamente, se ne è dedotto in maniera alquanto sbrigativa
che venne trasmesso da agenti e che la paura fu il risultato di una
cospirazione. I rivoluzionari ci videro immediatamente una nuova prova
della cospirazione aristocratica: si seminò lo spavento tra le popolazioni
per ricondurle al vecchio regime o per spingerle a disordini. La grande
paura aveva mortificato l’armamento del popolo e suscitato nuove rivolte
agrarie. Oggi possiamo tuttavia giungere al nostro scopo perché ci è
possibile riunire e paragonare un grandissimo numero di documenti di cui
l’autorità contemporanea, in mezzo agli avvenimenti che si succedevano
rapidamente, non ebbe il tempo di costruire un dossier: noi possiamo
risalire, almeno in parecchie regioni, sino all’incidente che fu all’origine
del panico, accertare come si propagò e ricostruirne l’itinerario. Si disse
già dal 1789, e si è ripetuto ai giorni nostri, che la grande paura fu
universale perché venne confusa con la paura dei briganti. Ammettere
che i briganti esistessero e potessero comparire era una cosa;
immaginarsi che fossero presenti era un’altra. Era facile passare dal primo
stadio al secondo, altrimenti la grande paura non si spiegherebbe; ma
non era obbligatorio e, se tutta la Francia avesse creduto ai briganti, la
grande paura non si sarebbe diffusa in tutto il paese: Cambresis e
l’Ardenna non l’hanno conosciuta e in Bretagna se ne trovano appena
tracce. Che si continui ad affermare che la grande paura scoppiò
dappertutto simultaneamente, è più difficile comprenderlo. I
contemporanei erano scusabili perché mancavano di informazioni, ma noi
ne possediamo di abbastanza numerose e precise perché non ci siano
dubbi. La grande paur, dunque, cominciò a Nantes il 20 Luglio; Franca
Contea nel 22; Provenza, 4 agosto, Lourdes 6. La tesi della cospirazione
non resiste ad uno studio attento dell’origine. Infine, l’argomento
fondamentale che, in fondo, ha ispirato l’idea della cospirazione è che la
grande paura dovesse favorire la controrivoluzione, secondo gli uni,
l’armamento delle milizie e le rivolte agrarie, secondo gli altri. E’ evidente
che essa non fece comodo all’aristocrazia; ma, nuove agitazioni agrarie,
non è esatto che fosse loro indispensabile. L'armamento quindi cominciò
quando si prese ad aver paura dei vagabondi; s’intensificò quando si
credette alla cospirazione aristocratica, ben prima della grande paura;
non entrava nelle mire della borghesia estenderla ai contadini. La paura
dei briganti e degli aristocratici, la rivolta dei contadini, l’armamento e la
grande paura sono dunque 4 fatti distinti, sebbene tra essi ci siano nessi
evidenti.

I fenomeni originari di panico.

Nell’est la paura nacque dalla rivolta dei contadini della Franca Contea:
non possono sussistere dubbi in proposito, e tutto l’interesse del
problema riguarda solo il meccanismo di propagazione. Nelle altre
regioni, alle origini dei fenomeni di panico troviamo la situazione
economica e la paura dei vagabondi. Quello del Clermontois ebbe per
causa l’inquietudine che si risentiva riguardo al raccolto e un conflitto di
bracconieri e di guardie, la cui tumultuosa adunata, scorta da lontano,
spaventò di abitanti di Saint-Denis.

La propagazione del panico.

Inutile dire che il panico fu spesso diffuso da individui senza mandato.


Alcuni credevano di adempiere un dovere civico sollecitando l’invio dei
soccorsi; altri volevano mettere in guardia i loro parenti o amici; certi
viaggiatori raccontavano quel che avevano visto o sentito; numerosi
soprattutto erano i fuggiaschi, tanto più assidui nell’esagerare il pericolo
in quanto temevano di essere accusati di codardia. Il panico fu
egualmente propagato, se non a sangue freddo, almeno con metodo, da
persone di credito e dalle stesse autorità. La parte più singolare fu
sicuramente quella svolta dalle autorità. Esse non trascurarono
d’informarsi e mandarono di solito esploratori o incaricarono la cavalleria
e la gendarmeria di battere la campagna. Ma sapevano che sarebbe
passato molto tempo prima che la faccenda fosse chiarita, e perciò
sembrava loro savio prender subito le loro precauzioni, avvisare le
parrocchie e domandar loro soccorso. Si è spesso insistito sull’azione dei
corrieri e dei postiglioni dell'amministrazione postale, come
particolarmente sospetta. Un corriere della posta Conchy-les-Pots
contribuì tra gli altri al panico di Roye. La propagazione del panico per
mezzo dei corrieri fu particolarmente impressionante fra Valenza e
Avignone; essa camminò di posta in posta, e quindi con estrema rapidità.
La paura dei briganti era così generale che un amministratore, cosciente
delle sue responsabilità e privo di ogni mezzo rapido di controllo, non
poteva non essere impressionato, nonostante le più sensate riflessioni. E
poi, l’incredulità non era senza pericoli. Coloro che la ostentavano e che
rifiutavano di prendere misure difensive non volevano forse
addormentare il popolo? In tal caso, essi erano complici dei briganti e,
quindi, degli aristocratici. Un fatto dà tuttavia a credere che certe autorità
costituite, sfidando i rischi, si siano astenute dal propagare il panico e
siano riuscite a fermarne la diffusione. Un certo numero di regioni non
conobbero la grande paura. Le distanze, la difficoltà delle comunicazioni,
le differenze della lingua la scarsa densità del popolamento, tutto ciò ha
potuto contribuire a salvaguardare da essa. Tuttavia, questi fattori
esercitavano egualmente la loro azione in paesi che la paura non
risparmiò, ed è più probabile che certe autorità abbiano saputo imporsi
con il loro sangue freddo e il prestigio che esercitavano sulla popolazione.
Tale dev’essere stato soprattutto il caso delle municipalità della Bretagna,
la cui condotta, dal 1788 in poi, deve aver ispirato fiducia e che, ben
prima delle altre, aveva saputo prendere le loro misure per tenere a
segno, assieme, l’aristocrazia e il popolo minuto.

Il Panico da annunci.

La notizia che i briganti sono alla viste determina generalmente un


panico, ma non sempre. Per questo aspetto, le circolari dell’autorità
sembra che abbiano avuto meno potenza di commozione della
propagazione orale o delle lettere dei privati. Per esempio, il maggior
numero delle parrocchie toccate dalla circolare del comitato di Evreux
sembra se ne siano infischiate. Si comincia a suonare a martello, i
rintocchi non tardano a estendersi, per ore e ore, su interi cantoni. Le
donne, vedendosi già violate e massacrate con i loro bimbi in mezzo ai
villaggi in fiamme, piangono e si lamentano, fuggono per i boschi o lungo
le strade, con qualche provvista e indumenti raccolti a caso. Più di una
volta, gli uomini le seguono, dopo aver seppellito quel che hanno di più
prezioso e dato il largo al bestiame per la campagna. Ma di solito, sia
rispetto umano, sia coraggio reale, sia infine timore dell’autorità
tradizionale, si radunano alla chiamata del sindaco, del parroco o del
signore. Ci si arma come si può, si mandano distaccamenti in
avanscoperta. Venuta la notte, pattuglie circolano e tutti restano all’erta.

Le tappe.

A onta delle circostanze, così favorevoli alla sua propagazione, si può


pensare che la grande paura non avrebbe fatto tanta strada se la sua
potenza espansiva non fosse stata rinnovata da nuovi fenomeni di panico
che si moltiplicarono lungo tutta la sua strada e le servirono da tappe. Per
distinguerli dai fatti di panico originari e dai fatti di panico da annunci, si
propone di chiamarli fatti di panico secondario, o di tappa. Un gran
numero di essi furono la conseguenza più o meno diretta dei fatti di
panico da annuncio. Le misure difensive spaventarono sovente altrettanta
gente quanta ne rassicurarono. Più di una volta, i contadini che
marciavano incontro al nemico furono scambiati per briganti. Spesso
accadeva che le sentinelle tirarono a sproposito e, sotto questo parecchi
degli allarmi si avvicinano ai fenomeni di panico negli eserciti. Si possono
riunire in un ultimo gruppo i fatti dovuti ad autosuggestione. Gli armenti
che muovono nei boschi o che sollevano la polvere sulla strada e le ghiaie
sono causa spesso e volentieri di panico. I bagliori delle fornaci da calcina,
il fumo delle erbacce bruciate nei campi, il riflesso del sole che tramonta
nei vetri di un castello, persuadono certuni che i briganti hanno
incendiato.

Le correnti della grande europa.


Quando ci si raffigura la grande paura come propagazione per onde
concentriche da Parigi nelle province, si è naturalmente condotti a
supporre che abbia seguito le grandi strade naturali tracciate attraverso la
Francia dalla configurazione del suolo. Per esempio, sarebbe andata da
Parigi a Bordeaux seguendo seguendo la valle della Loira e sboccando
attraverso la depressione Poitou, o da Parigi a Marsiglia lungo il Rodano.
La realtà fu ben diversa. 2 correnti solo hanno toccato la capitale e si sono
dirette al contrario verso di essa. La valle della Loira, anziché offrire un
letto alla corrente della paura, ne venne abbordata perpendicolarmente.
Non lungo il Rodano il panico raggiunse la Franca Contea, bensì lungo il
Giura. Le stesse montagne non costituirono poli respingenti, come si
potrebbe credere. Queste anomalie si spiegano con l'origine e il modo di
propagazione dei fenomeni di panico. Dato che questi nacquero da
incidenti locali avvenuti per caso e si irradiarono poi all’intorno, essi non
trovarono generalmente a loro disposizione le strade naturali che ci si
aspetterebbe di vederli seguire. La popolazione allarmata chiedeva
soccorso alla città più vicina o credeva suo dovere avvertire la regione
limitrofa; gli ostacoli non la fermavano facilmente e in ogni caso, un fiume
privo di ponti infrangeva molto più facilmente che la montagna la sua
buona volontà. D’altra parte, la propagazione della paura fu discontinua.
Si diffuse da una municipale all’altra, da parroco a parroco, da signore a
signore, e non in modo continuo. Si può considerare da tutto questo che
l’ondata della Franca Contea finì col rompersi contro l’antemurale che la
Lorena e il bacino parigino disegnano sopra la pianure della Saone,
mentre poté stendersi più liberamente attraverso la Porta Burgunda e,
soprattutto, verso mezzogiorno. Ma la rivolta della Franca Contea
manifestò la sua potenza di commozione principalmente verso sud. Penso
di esser stato troppo prolisso, ma oramai è troppo tardi...sia per me, che
per te che stai leggendo...
Vovelle – La festa rivoluzionaria

In Provenza è stato proposto un nuovo modello della festa, per parecchi


versi, e spesso radicalmente diverso da quello preesistente. Consideriamo
nel suo insieme il corpus delle feste rivoluzionarie di cui disponiamo per la
Provenza: più di 600 feste registrate, 450 descritte con precisione, le altre
solo menzionate. Per prima cosa, si può estrarre da questo schedario un
certo numero di caratteri essenziali della festa quale ci sembra essersi
espressa in Provenza: cronologia, geografia, tipologia. Vediamo la festa
rivoluzionaria installarsi, progredire a partire da esordi modesti, dal 1790-
2. Essenzialmente urbana all’inizio, essa si irradia poi ampiamente nello
spazio provenzale, a partire dal 92. Il 93 è un punto ambiguo. La festa
giacobina dell’anno II, che segna di gran lunga il punto culminante della
curva nelle città, conserva il suo carattere urbano, sebbene il territorio si
risvegli: ma è in città che l’incontro fra l’abbondanza delle feste
spontanee, del tipo decristianizzatore, e le prime grandi liturgie.
L’importanza delle feste urbane: si concentra nelle 10 città più importanti
e più popolose circa la metà delle testimonianze esistenti; nelle sole
prime (Marsiglia, Aix, Avignone, Arles) se ne concentrano più di un terzo,
36%. Si può essere ancora più sofisticati e tentare, come abbiamo fatto, di
seguire la correlazione fra l’importanza delle testimonianze sulla festa e la
dimensione degli agglomerati. Ancora una volta senza troppe sorprese si
scopre che solo una decina di villaggi, di 300 o di meno di 300 abitanti
hanno lasciato testimonianze sulle loro feste, il borgo urbanizzato fra le
1000 e le 2000 anime ha generalmente lasciato tracce, ma assai discrete,
mentre il punteggio si innalza allorché ci volgiamo alle piccole città dai
2000-5000 abitanti, per culminare nelle città principali. Alcune
testimonianze isolate provano che sarebbe ingiusto prendere alla lettera
un tale bilancio, poiché la festa, segnatamente a Cogolin, appare
frequente quasi quanto nelle città vere e proprie; ma resta il fatto che in
parecchie comunità la festa rivoluzionaria è stata molto probabilmente
eccezionale. Fra queste feste, uniche nel loro genere, dobbiamo
distinguere le celebrazioni che si possono chiamare spontanee, o, in
modo più adeguato, semi-improvvisate, e che riflettono un’iniziativa
generalmente a carattere locale: e quanto accade nel momento in cui
vengono piantati gli alberi della libertà e durante le manifestazioni
decristianizzatrici. Questo sistema festivo ha avuto, per così dire, le sue
monete spicciole: ad esempio, le feste dei decadi. Le prime feste
provenzali del 1790-91 e fino all’inizio del ’92, testimoniano questa
ricerca: quelle che, in mancanza di meglio, abbiamo chiamato feste
all’antica, esprimono, in un quadro formale generalmente già
sperimentato, una serie di aspirazioni nuove: benedizioni di bandiere,
insediamento di corpi costituiti. In questo primo modello la festa funebre
fa la sua comparsa con la celebrazione dei morti di Nancy e soprattutto
con quella della morte di Mirabeau; la festa funebre conserverà nel corso
del periodo, un’importanza limitata ed insieme mai smentita.

Feste occasionali. Le feste di giubilo per la celebrazione delle vittorie


della patria assumono la forma di una curva più discontinua, provocando
talvolta delle vere e improvvise fiammate mobilitanti. A partire dal 1792 si
delinea una svolta assai notevole: con la piantatura degli alberi della
Libertà in estate e in autunno, la festa, anche se continua a risentire
l’influenza delle municipalità o delle società popolari, diventa diversa, si
installa nei quartieri, protraendosi per giorni interi, come si vedrà fra
poco. Sotto il Direttorio: feste morali o della ripetizione. Nel corso delle
stagioni, sembra che il cammino della Rivoluzione imponga la sua propria
dinamica, disorganizzando gli equilibrati ritmi del passato. Distinguiamo
una prima fase, che va fino al 1794, in cui le feste rispondono a
sollecitazioni che si rinnovano, rispetto a quella che si instaura nell’anno
III e soprattutto nell’anno IV, in cui, non senza ripensamenti o imprevisti si
cerca di instaurare un calendario nazionale. Mesi: Marzo (121), Settembre
(77). Molto più spettacolare e vincente è lo sforzo rivoluzionario di
sovvertimento delle festività settimanali. Osserviamo i grafici tracciati qui
sotto: fino al 1794 il ritmo settimanale delle feste tradisce il rispetto della
domenica, volontario; su 264, 82 cadono in questo giorno. A partire del
1795, 26 domenicali su 309. Nei primi anni tutto è possibile, dalla festa in
cui la folla si riunisce all’alba, a quella in cui comincia con una fiaccolata
alle 18, dalla festa del mattino a quella in cui la gente affluisce sul corso il
pomeriggio. Poi, a partire dall’anno II, ma ancor più nettamente
nell’epoca del Direttorio, si impone un ritmo che privilegerà in maniera
schiacciante la festa che ha inizio alle 10 di mattina o alle 11.

La festa frammentata. L’articolazione della festa in due sequenze nel


corso della giornata, al mattino i riti ufficiali, al pomeriggio i giochi e le
corse. Nel 1794 le cose vanno diversamente; la festa, divenuta continua,
si chiude difficilmente nel quadro della giornata. Essa invade la notte,
dura fino all’alba ed è allora che le autorità municipali, che non hanno
paura della notte, rilevano con soddisfazione che la festa si è prolungata
fino al mattino.

I luoghi della festa. Di solito i centri urbani e a Parigi disponiamo di un


numero relativamente considerevole di ordini di marcia, che
regolamentano l’itinerario da seguire nei più minuti particolari. Da un
punto di partenza, che era generalmente il municipio, si raggiungevano
attraverso differenti itinerari l’altare della Patria, all’incrocio della
Canebiere e della via dei Focesi, il Campo del 10 agosto in cime alla
Canebiere, il tempio della Ragione…solo eccezionalmente ci si spingeva
più lontano, cioè fino alla Montagna.
La festa a luogo fisso. La festa a luogo fisso, affrontata per prima come la
forma più elementare, ha potuto assumere aspetti diversi. Quello di una
festa che si svolge al chiuso, e che può avere luogo, sebbene ciò accada
raramente, in municipio, più spesso utilizzato come luogo di riferimento.
Più frequentemente si tratta della cerimonia religiosa in Chiesa, che nei
primi anni della Rivoluzione conserva un ruolo incontestato. A partire
dalla fine del 1793, i templi della Ragione sostituiscono la Chiesa. Ma la
festa a luogo fisso poteva anche svolgersi all’esterno, sebbene in un luogo
chiuso. Dopo questo periodo di transizione, la festa a luogo fisso poté
svolgersi decisamente all’esterno, per quanto si trattasse sempre di un
luogo intraurbano: una piazza… Eccoci all’ultimo tipo di festa a luogo
fisso: quella in cui la concentrazione avviene fuori città, che si tratti della
montagna vicina, o del campo in cui i partecipanti alle feste
dell’agricoltura sotto il Direttorio si recavano per tracciare un solco.

La festa-corteo. In questi ultimi casi, ci sono poche occasioni di incontro


informali che non si accompagnano, in forme più o meno vistose, ad un
corteo. La festa corteo, seconda voce importante in questa tipologia, ci
spinge a prendere in considerazione: il luogo di appuntamento
(municipio), la meta del corteo (Montagna) o semplicemente le tappe
lungo un percorso. Non che non esistano feste descrittoci come semplici
passeggiate civiche, giri della città senza uno scopo preciso, se non quello
di far vedere un corteo alla città. Ma queste sfilate sono, al limite, tanto
poco frequentate quanto lo sono le feste strettamente a luogo fisso:
prevale di gran lunga il tipo misto, in cui un corteo si svolge con soste
obbligate.

Circuiti chiusi e festa aperta. Un’altra variante della festa aperta è quella
che resta tale, se così si può dire, nel tempo: vogliamo dire che essa non
comporta né partenza né ritorno, anche si svolge in punti diversi. Si
delinea tutta una gradazione, dalla festa che è essenzialmente
passeggiata civica, le cui tappe non sono che soste, alla festa di interno
che si esteriorizza momentaneamente in pubblico: ad esempio, per citare
un caso, l’inaugurazione di un tempio della Ragione che ‘esplode’
letteralmente sulla pubblica piazza in autodafé e mascherate. C’è un
ultima dinamica da seguire: quella della festa chiusa, che ritorna al suo
punto di partenza, e della festa che esplode. La coalizione spontanea dei
quartieri, che organizzano feste e danno vita poi a farandole, si incontra
essenzialmente nelle fiammate rivoluzionarie festive dell’estate del 1792.
Tra i luogi dove le feste tendono ad arcorarsi il municipio resta sempre
uno dei luoghi più costantemente coinvolti: si potrebbe credere che sia il
punto di partenza obbligato del corteo. Tuttavia questo fatto è tutt’altro
che privo di sfumature: nella prima parte della Rivoluzione, il municipio
non appare come luogo della festa nella metà dei casi ed il punto più
basso della curva si ha nel 1793.

Sociologia della festa. Chi partecipa alle feste? Non ne sappiamo niente o
ben poco. Non disponiamo, per la festa, di fonti equivalenti a quelle che
offrono gli archivi giudiziari per l’analisi delle folle rivoluzionarie, come
quelle che ha studiato, per esempio, Rudé. Vi si troverà menzione di un
certo numero di partecipanti il cui carattere ufficiale fa sì che ne rilevi la
presenza: autorità amministrative, truppe di linea, guardie nazionali,
clero, società popolari… Si entra nel vago allorché si tratta della massa
anonima della popolazione: del popolo o dei cittadini. Ma in questo caso
si può ancora barare e tentare di andare oltre.

I promotori della festa. Mettendosi alla ricerca dei partecipanti alla festa,
sembra naturale incominciare con quelli che ne assumono l’iniziativa,
almeno localmente. Se la festa del 1790 resta festa municipale, affidata
alla diligenza delle autorità, i quattro anni seguenti vedono moltiplicarsi le
iniziative che riducono il ruolo delle municipalità, senza entrare
veramente in concorrenza con esse, poiché le iniziative particolari sono
spesso riprese dalle autorità locali per l’esecuzione. Il ruolo più
importante è assunto dalle società popolari, la cui iniziativa si ritrova
all’origine di una festa su 3, espressione tanto dell’importanza quanto
dell’abbondanza di queste istanze nell’ambiente meridionale.

Partecipanti ufficiali. Si rileva la presenza della municipalità, e secondo i


casi, del distretto o del dipartimento, poi degli altri corpi secondo un
ordine che si fissa fin dai primi anni, 1790-1. C’è tutto uno statario di
lettere di una municipalità ad un’altra più importante sulla spinosa
questione dell’ordine da rispettare nel corteo fra le autorità giudiziarie e
amministrative, il che sembra resuscitare la questione dell’ordine di
progressione dei cortei dell’Ancien Regime, anche se talvolta emerge il
desiderio di eliminare le vecchie polemiche di un tempo. Fino al 1793 la
presenza della milizia popolare armata rimane uno dei tratti essenziali
della festa.

I disordini. Si rivelano nei nostri grafici i periodi di tensione o disordini


nella festa: fino all’anno II niente casini; i primi fallimenti appaiono poi nel
quadro delle feste dei decadi. I disordini che si verificano nello
svolgimento della festa sono raramente confessati: gli episodi che hanno
colpito i testimoni dell’epoca sono in particolare dell’anno V. Sul carattere
popolare o meno della festa, resta da rilevare un ultimo indizio
interessante: il ricorso alla lingua provenzale, sfortunatamente rilevato
troppo di rado.

Ricchi e poveri. Tra i partecipanti alla festa ci sono sia ricchi che poveri?
Forse sì, in tutte le prime tappe della sua storia. Il banchetto a
pagamento, che festeggia l’avvenimento, lascia gli ultimi posti della
tavolata a coloro che, per mancanza di denaro, possono portare con sé il
cibo; poi la cerimonia si chiude con distribuzione dirette, ai poveri, in
forma di elemosine o di avanzi del pranzo. Ben poco traspare delle
tensioni talvolta assai vive che accompagnano la festa di quest’epoca, e
che sono tensioni di classe oltre che politiche.

La rappresentazione dei corpi e degli ordini. Se vi si riflette


attentamente, uno dei maggiori mutamenti nel corteo della festa è
l’abolizione di quella sfilata delle corporazioni e degli ordini che ne era
parte integrante, soprattutto in città. La presenza dei corpi e dei mestieri
è tuttavia lungi dallo sparire e nella storia della festa rivoluzionaria
provenzale riserveremo un posto specifico alla tappa rappresentata
dall’estate 1792, senza dubbio uno dei momenti più parossistici della
festa semi-spontanea.

Artigiani e contadini. Alla fine del 1793 i cortei urbani concedono uno
spazio notevole ai gruppi dei produttori: in Provenza è Arles a dare
l’esempio, mescolando agli altri carri, all’epoca della festa in onore di
Marat, una carretta carica di persone che recano gli attributi delle arti e
dei mestier e inoltre un frantoio e poi un carro pieno di lavoratori.

I simboli dell’età. Fra gli attori che la festa rivoluzionaria è stata indotta
ad inventarsi, con classificazioni al tempo stesso mistificatrici ed
espressive delle rappresentazioni collettive, le classi di età rappresentano
una parte che non possiamo misconoscere. Cogliere la nascita e lo
sviluppo di quelle rappresentazioni, anche prima che il Direttorio ne fissi
le norme nel suo sistema di feste codificate. Alla vigilia della festa
dell’Essere Supremo, il 30 pratile dell’anno II, che rappresenta, qui come
altrove, un punto di svolta in questa storia, la festa provenzale fa ricorso
ampiamente, almeno nelle città, a questo simbolismo legato alle classi di
età: ma i gruppi di cui abbiamo ora parlato restano inseriti in un corteo
composito e semi-improvvisato. E’ proprio in pratile che lo sforzo di dare
una forma precisa a tale simbolismo si fa più chiara; nelle grandi città le
prescrizioni dello schema davidiano della festa vengono applicate alla
lettera, e talvolta con eccessivo zelo. Ad Aix sfilano sul corso le due
colonne dei padri e delle madri con i loro figli, ciascuno con un simbolo
appropriato: ramo di quercia per i capifamiglia, mazzo di rose per le
madri, di fiori per le ragazze… e sciabola per i giovani cittadini. I 4 gruppi
dell’infanzia, dell’adolescenza, della virilità e infine della vecchiaia, la
distinzione fra persone sposate e celibi: tutto contribuisce qui a rafforzare
l’impressione di una classificazione puntigliosa e minuziosamente
stabilita. In quale misura è stato percepito questo simbolismo, in quale
misura questi cerimoniali sono stati rispettati? E’ già noto l’ineguale
successo di tali feste in Provenza.

I Bambini. Ecco un tema importante nella festa rivoluzionaria e al tempo


stesso una scoperta relativamente tardiva. Proviamo a spiegarci questo
paradosso: il bambino appare relativamente spesso nelle feste,
certamente più della donna. Inversamente sembra che l’interesse per i
bambini o per i giovani non appaia di primo acchito nel mondo della festa
e che le preoccupazioni che ne sono alla base abbiano subito una
sensibile evoluzione nel corso di quegli 11 anni. La prima immagine della
gioventù è proprio quella dei battaglioni di bambini che si ritrova a Nizza
in occasione delle cerimonie per la riconquista di Tolone. C’è il bambino
eroe protagonista delle feste in onore degli eroi adulti o giovanili; ma c’è
anche il bambino oggetto di un’attenzione pedagogica spinta agli estremi
limiti. Il punto culminante di questa prima lettura del ruolo dei bambini è
certo la festività dell’Essere Supremo: la figura del bambino viene presa in
considerazione fin dalla culla, poi è il padre che lo guida, prendendolo per
mano, ma già armato di una sciabola al servizio della patria. Il ruolo del
bambino così codificato si perpetua ed insieme si modifica
profondamente all’epoca del Direttorio; si perpetua attraverso la
riaffermazione dell’idea che nel bambino si profila il cittadino,
eventualmente in armi; ed infatti le feste della gioventù comportano un
rituale in cui i giovani di 16 anni ricevono le armi. Parallelamente, il
bambino diventa sempre più lo scolaro.

Le donne nel corteo. Attraverso la storia della festa in Provenza,


l’immagine della donna, seguita lungo le varie cerimonie, assume volti
diversi: su questo punto, la festa è un buon test per valutare il ruolo e
l’immagine della donna. Ma è vero anche il percorso reciproco: attraverso
questa evoluzione trapelano chiaramente le modificazioni della festa. Il
vecchio sistema, nelle sue strutture festive, aveva trasmesso alla donna
dei ruoli reali, ma fissi. Essa partecipava alla festa profana o ludica. Le
donne si affermano soprattutto a partire dal 1792. La festa rivoluzionaria
è festa del carattere molto marcatamente maschile: le federazioni del
1790 ce ne danno un modello decisamente militare. Ma è in questo
contesto che si fa luce una prima reazione femminile, urbana e più
precisamente marsigliese. Le signore marsigliesi sotto la guida della
moglie del sindaco, signora Martin e di quella del comandante della
guardia nazionale, signora Lieutaud, si recano a loro volta in corteo
all’altare della Patria, per prestarvi giuramento. La donna introdotta nella
festa ufficiale assume qui 3 volti nuovi, ma vicini nella loro tonalità
neoclassica: la sposa o la vedova del guerriero, la vestale, la dea non
ancora Ragione, ma Libertà, di cui viene sottolineata l’apparizione. Nel
villaggio, l’impegno della donna nella festa rivoluzionaria non è vincente.
Questa presenza femminile ha certamente i suoi limiti: gli esempi rilevati
sono quasi tutti urbani. Il nuovo modo di interpretare il rapporto uomo-
donna sembra non sia praticamente penetrato nel borgo.

La dea Ragione. Il caso più generale resta quello della donna innalzata a
statua vivente: dea Libertà, dea Ragione, Vittoria; a Entrevaux, la Vittoria,
è portata in giro su un carro, mentre la dea Libertà avanza sotto il
baldacchino. Amazzoni, dea Libertà, o dea Ragione, o anche vestali vestite
di bianco che in lughe procesioni le scortano cantando, le donne hanno
avuto diritto di cittadinanza nelle feste. Ciò che si chiede alla donna è
espresso chiaramente, ad Aix, il 30 messidoro dell’anno II, in occasione
della festa dei Martiri della Libertà; 36 cittadine in corteo, vestite di
bianco, con cintura tricolore e capelli sciolti, vengono a giurare di non
sposare che dei veri repubblicani e di allevare i loro figli nell’amore per la
patria. Ridotta da allora al suo ruolo di sposa o di vestale, la donna vede
restringersi ancora il suo posto negli anni del Direttorio. Ella figura a
questo titolo nelle feste degli sposi. Le fanciulle vestite di bianco si
ritrovano, ma molto raramente, in certe celebrazioni. La donna è
diventata una ragazzina, come le Belle di Maggio: si assiste ad una
infantilizzazione desessualizzazione del tema. Si comprendono anche in
parte le ragioni di questa pratica . Se ne adduce come giustificazione
l’assenza di statua appropriata e il fatto che nessuna cittadina del luogo
ha voluto rappresentarne il ruolo. Nell’apparente paradosso di questa
tardiva diffusione rurale della dea Ragione entra forse in parte il peso di
questa considerazione tecnica. Ma quest’ultimo episodio ci conduce
direttamente ad un’ultima considerazione sul tema: la donna non
compare più nella festa, anche perché non vuole più andarci. Ma se le
donne e soprattutto le ragazze non trascurarono i giochi e i balli nel
villaggio, esse hanno rotto con la festa ufficiale, a costo di lasciare che vi
partecipino i loro uomini. La festa agonizzante della fine del Direttorio è
ridiventata, ad eccezione delle danze del pomeriggio, una festa
essenzialmente maschile.

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