Il 1886 segna la svolta per la storia dell’arte poiché segnò la fine dell’impressionismo. Mentre
l’impressionismo aveva perso la sua carica vitale i nuovi artisti cercavano sempre di piu una propria
autonomia. L’attenzione era tutta rivolta a Georges Pierre Seurat con il suo quadro “une dimanche
apres-midi a l’ile de la grande jatte”,dove il critico felix feneon ,critico,intuì la portata innovativa del
dipinto tanto da coniare il termine “neoimpressionismo”,con questo termine si voleva partire dalla
radice dell’Impressionismo. La cosa infastidì gli artisti anziani. A peggiorare la situazione fu Pissarro
che aveva abbracciato il nuovo stille affermando che era quello lo stile da seguire :dove bisognava
sostituire la descrizione soggettiva delle cose con un approccio più obiettivo e scientifico. Il
termine più diffuso per descrivere la pittura di Seurat fu Pointillisme,che descriveva il metodo a
puntini attraverso il quale l’artista componeva la tela,coperta da piccolissime macchie di
colore.Seurat sviluppò un ulteriore aspetto del suo lavoro:la consapevolezza di un ruolo del tutto
staccato della pittura da quello della fotografia e della resa realistica delle cose. Le figure sono
immote e l’ambiente è quello dello studio del pittore dove si può notare un quadro nel quadro. I
suoi lavori successivi mostrano esperimenti di resa della luce artificiale e dei corpi in movimento.
Paul Signac raccolse l’eredità dell’amico e nel 1899 scrisse un saggio nel quale esponeva la teoria
divisionista. Come è evidente nella La boa rossa Signac dilatò sempre più le macchie di colore
creando le premesse per il Fauvismo e l’Espressionismo,ma l’eredità neoimpressionista non si
risolse in questi movimenti. (lettura dell’immagine pag 12-13)
Paul Cezanne non ebbe mai la popolarità dei suoi contemporanei:i suoi quadri non hanno
contenuti emotivi facili a un immediato apprezzamento. Il clima artistico del 900 nacque solo dopo
la sua retrospettiva realizzata a Parigi nel 1907. Egli trascorse gran parte della sua vita in conflitto
con la figura paterna che lo costrinse a iscriversi alla facoltà di giurisprudenza,qualche anno prima
conobbe emile zola,dove il rapporto durò fino al 1886 quando zola pubblicò il romanzo L’opera nel
quale il protagonista è un pittore fallito,in cui Paul vede un riferimento alla sua persona.In seguito
ottenne il permesso dal padre per iniziare gli studi d’arte.Conobbe Pissarro,grazie al quale seppe
imprimere una svolta decisiva a un lavoro che fino ad allora aveva dato scarsa prova di
originalità.La sua frequentazione con pittori impressionisti fu breve,i suoi quadri vennero rifiutati
dai salon ufficiali. A differenza di altri artisti Cezanne iniziò a produrre capolavori solo durante la
sua maturità,egli infatti non era un artista istintivo ma riflessivo,alla continua ricerca di uno stile
personale che gli consentisse di superare l’Impressionismo.Dopo i suoi lenti esordi gli fu chiaro che
a differenza dei suoi maestri ciò che egli desiderava non era dipingere la visione,ma la ricostruzione
logica e strutturale di essa. La sua ambizione fu quella di costruire una base formale
all’Impressionismo per ricollegarlo alla grande tradizione della pittura moderna. La celebre frase
che scrisse “tutto in natura è formato da sfera,cilindro e cono” sottolinea questa ricerca duratura
delle forme.Indipendentemente dal modo in cui la natura è strutturata la mente umana non riesce
a percepirla se non tramite griglie geometriche,per questo Cezanne dipingeva dal vero,seguendo
ciò che chiamava “ma petite sensation”.Secondo la sua teoria la natura è impossibile da riprodurre
allora occorre rappresentarla mediante i colori intesi come degli equivalenti pittorici,anzitutto
bisogna eliminare i contorni i profili delle figure perché non esiste in natura ma è solamente un
artificio. La costruzione del dipinto viene realizzata mediante la modulazione del colore:macchie
poste una accanto all’altra conferiscono grazie alla loro differenze di tono,l’illusione della
tridimensionalità. La conseguenza di questo metodo è una pittura che sembra intessuta in cui
l’intarsio delle aree discrete crea una sensazione di solidificazione non solo degli oggetti ma anche
dell’atmosfera che li circonda. Aiuta questa sensazione il fatto che il mezzo usato per stendere il
colore sia opacizzante ,tale da impedire una riflessione fluida della luce. Ne risultano opere in cui
l’emotività è contenuta in una costruzione architettonica che sacrifica la veridicità del colore.Negli
ultimi venti anni Cezanne dipinse quasi solamente tre soggetti:nature morte,figure e paesaggi.Fra
questi la Montagna Sainte-Victoire,una musa ispiratrice attorno a cui si esercitò la sua tensione
espressiva:la dipinse ogni volta da una prospettiva lievemente diversa,con soluzione tecniche
differenti.Nel primo dipinto la montagna domina con il suo profilo la pianura a est della città di
Aix.Le case sono dei volumi senza finestre,gli archi definiscono una via orizzontale che divide il
dipinto in due metà.Nell’altro,eseguito dieci anni dopo,i contorni appaiono più sfumati e le
macchie di colore accennano solo gli oggetti reali:l’insieme della superficie è quasi divenuto
astratto ma tramite le linee orizzontali rende un senso di vastità dello spazio e la sua profondità.
All’interno del quadro,siccome ossessionato dalla morte,associato alla difficoltà di relazioni
interpersonali, vi è anche un segno della sua solitudine e della sua conversione religiosa.Cezanne
dipinse molti autoritratti e ritratti.La sintesi più imponente tra natura e figura umana compare
nella serie delle Bagnanti,alla quale dedicò 200 studi per giungere a tre grandi tele:vi compaiono
14 figure diverse in due gruppi,che identificano due triangoli davanti a tronchi di alberi curvati
creando una sorta di volta gotica.Il colore ocra bilancia il blu del cielo e ogni altro tono è smorzato.I
corpi nudi delle donne al bagno perdono nei quadri qualsiasi connotazione erotica:si presentano
come natura nella natura,e partecipi di un equilibrio unitario.L’ambizione principale di Cezanne era
quella di dare alla pittura un ruolo autonomo rispetto al mondo reale,di liberarla dall’esigenza di
rappresentare le cose,per conferirle la libertà di presentare il pensiero visivo.Questa perdita di
importanza del soggetto in favore del metodo,questo volere ricalcare le regole interne alla mente è
un principio che si sarebbe posto alla base di tutta la pittura moderna. (lettura immagine pag 18)
Nessun artista come Vincent Van Gogh ha esercitato sugli artisti del 900 un’impressione tanto forte
e duratura:le sue opere che emanano forza vitale ma anche disperazione sono divenute a tal punto
il segno del disagio interiore del XX secolo da avere provocato un apprezzamento senza precedenti
tra i collezionisti occidentali e giapponesi. Una componente importante va senza dubbio cercata
nella sua stessa vicenda esistenziale,che interpreta il topos del genio incompreso,ma anche il tema
della solitudine nell’epoca uomo-massa. Sofferente per una malattia mentale e continuamente alla
ricerca di pace,scappò di casa e si impiegò presso un mercante di stampa:fu in questi anni che
incontrò l’arte per la prima volta. Tornò in Olanda per intraprendere la stessa via del padre,il quale
aveva insegnato ai figli un profondo moralismo e una spiccata attitudine all’assistenza dei più
deboli. Fu nel periodo successivo che incominciò a disegnare ,nel 1881 il pittore iniziò a praticare
l’olio su tela e a raccogliere stampe di quadri storici. Dopo anni di vagabondaggio in Olanda e in
Belgio,la svolta avvenne nel 1886 dove raggiunse il fratello Theo a Parigi in uno stato di grave
prostrazione nervosa. Nella capitale incontrò Toulouse-Lautrec e Bernard,i quali lo spinsero ad
abbandonare i colori scuri e i primi temi sociali di Millet. Nacque allora la sua tipica tavolozza
chiara,cosi come mise a punto la pennellata allungata scissa grazie alla quale il gesto di chi dipinge
segue il verso della cosa dipinta:la prova più evidente di come nella pittura di Van Gogh il punto
cruciale sia l’incontro tra la sfera emotiva del soggetto e la realtà,questa era già abbozzata negli oli
come I mangiatori di patate ma appare compiuta nell’autoritratto del 1887. Dalle riproduzioni di
Hokusai Van Gogh apprese la tecnica grafica del disegno a “punto e tratto”. Eseguì anche numerose
copie e rielaborazioni di alberi giapponesi in fiore e la tecnica dell’immagine floreale
ravvicinata,evidente negli Iris. I ritmi della vita cittadina e il desiderio di una luce più forte lo
indussero a cercare rifugio in Francia,dove sognava di potervi stabilire una comunità di artisti. Qui
attese Paul Gauguin che vedeva come un maestro,i due erano però spesso in contrasto dato dalle
diverse visioni sui metodi dell’arte: Van Gogh non ammetteva i contorni tracciati con il nero,e
soprattutto il simbolismo appariscente nelle opere di Gauguin. Nel 1890 un critico scrisse pagine
esaltanti sul suo lavoro.L’opera matura di van Gogh si snoda in quattro anni,durante i quali l’artista
dimostra un’assoluta coscienza riguardo alle proprie intenzioni e innovazioni linguistiche. A
proposito della sua stanza di Arles che dipinge come se si trattasse di un autoritratto dice di avere
usato una semplicità alla Seurat: nella sua descrizione il contenuto si associa alla tecnica,dal
momento che il riposo mentale viene espresso dalla semplicità dell’inquadratura e dalle tinte
piatte diverse cioè nettamente separate tra loro, stese in maniera quanto più chiara e distinta con
pennellate prive di curve tormentate,la stanza diviene il riflesso dell’ordine mentale in cui van
Gogh vorrebbe potere vivere ad Arles. Nella serie dei Girasoli l’artista adotta in modo consapevole
la tecnica che definisce “a cellette”,dove l’aveva scelta proprio per far vivere nei quadri una sinfonia
in blu e in giallo dalle allusioni teologiche. Lo stesso soggetto dei girasoli indica che l’uomo come
quel fiore,non può avere altra certezza che il rivolgersi costantemente verso Dio. Tra i vortici
terrorizzanti del cielo notturno in Notte stellata solo gli astri si presentano come punti fermi e
dunque come elementi attorno ai quali possono gravitare il colore e il pensiero. Uno stesso anelito
alla religione,al credere visto come sola via di ancoraggio rispetto alla perdita di dominio di sé si
ritrova ne La Chiesa di Auvers ,van Gogh vi pone una costruzione violacea come mediazione tra
l’agitazione della terra e la calma del cielo blu profondo. La visione del vero non è mai
abbandonata ma è sempre comunque interpretata. Non potendo sapere nulla di certo sul
mondo,la pittura,sganciata dal compito di rappresentare la realtà,diventa appunto lo strumento
per interpretarla secondo il proprio modo di vedere e secondo il proprio credo soggettivo,per
questo si fa centrale nel quadro il soggetto che lo dipinge,il suo gesto,non più nascosto ma esibito.
(lettura immagine pag 27-28)
Henry Rousseau era un artista naif,intendendo questo termine come sinonimo di
spontaneità,ingenuità, estraneità ai dibattiti culturali. Privo di ogni formazione Rousseau sapeva
che l’arte era la sua vocazione:a 41 anni era determinato a diventare un pittore professionista. Egli
trovava la sua ispirazione nello zoo e nel giardino botanico di Parigi dove vi si recava per copiare le
piante e gli uccelli. Le stilizzazioni per cui divenne famoso in realtà non erano desiderate:la sua
ambizione sarebbe stata imparare a dipingere come Gerome e voleva essere un pittore realista.
Nel 1886 a Parigi fu organizzata un’esposizione aperta a tutti,nella Rousseau portò i propri dipinti
con una carretta trascinata a mano.Anche se buona parte del pubblico derise quelle ingenue
ricostruzioni di giungle e luoghi tropicali egli si riteneva certo che ben presto sarebbe divenuto il
più grande e il più ricco pittore della Francia odierna. Rilevatore di questo attegiamento è il quadro
“io:ritratto paesaggio”,la figura del pittore in primo piano,vestito di nero tiene in mano la tavolozza
nella quale si possono leggere i nomi delle sue muse.La sua figura sovente sovrasta la tour eiffel e
una mongolfiera,simboli del progresso francese. Furono in motli ad apprezzarne il lavoro
soprattutto perché esso manifestava un’altra possibile via per fuggire dal mondo moderno in vista
degli elementi primari della vita. È celebre la festa che Picasso organizzò per onorare il grande
maestro divertendosi alle sue spalle ma esprimendo anche una notevole stima.L’ambizione di fare
un grande quadro lo condusse a dipingere la sua opera più impegnata:”la guerra”.Il soggetto è
un’immagine apocalittica,la furia della discordia balza con il suo cavallo nero su un campo pieno di
cadaveri. Ogni elemento è allegorico,l’insieme del dipinto suggerisce affinità stilistiche con Paolo
Uccello ma i corpi visti da diverse prospettive sembrano anticipare il cubismo. I suoi dipinti più
popolari appartengono alla serie delle giungle nella quali appaiono belve,prede,serpenti,uccelli e
solo in alcuni casi la figura umana. Nel suo ultimo dipinto Il sogno una giovane donna nuda è
mollemente sdraiata su un divano mentre tra le foglie un mago suona per lei note di flauto.
Rousseau morì nel 1910,gli artisti delle avanguardie riconobbero nel suo lavoro la possibilità di
fuggire dalla civiltà moderna attraverso l’immediatezza e l’interiorità. Gli Espressionisti e i
Surrealisti trovarono in seguito in Rousseau una delle loro radici ideali.
Henry De Toulouse-Lautrec proveniva da una famiglia aristocratica,ciò influì sul suo gusto raffinato
ma anche sul desiderio di contraddirlo attraverso la frequentazione dei bassifondi metropolitani
privi di formalismo. Da piccolo si ruppe entrambe le gambe,che provocò un blocco nella crescita
degli arti inferiori. Avvertì il desiderio di fuga da Parigi ,preferì intrufolarsi nella vita notturna del
quartiere di cui le sue opere sono un reportage grafico e pittorico. All’inizio della sua carriera
artistica adottò lo stile naturalistico di Degas ma il suo spirito lo condusse a una visione caricaturale
degli ambienti che frequentava. Non abbracciò un’estetica dichiaratamente simbolista tuttavia le
prostitute le cantanti e le ballerine che dipinse nel quadro Au Moulin Rouge sono il simbolo di
quella vita brullicante,emarginata dal mondo diurno ma protagonista di quello della notte. Au
moulin Rouge è il suo dipinto più noto: sullo sfondo,al centro del quadro si vede l’artista
attraversare la scena in compagnia di un suo cugino. A destra la ballerina si pettina davanti a uno
specchio e viene ritratta di schiena. In primo piano intorno alla tavola erano alcuni personaggi
parigini.In primissimo piano a destra sta il viso di un’altra star del locale,la cui ombra verdastra ha i
toni dell’illuminazione artificiale. In questa livida atmosfera tutti assumono un’aura inquietante e
un aspetto grottesco. Il tono esasperato dell’immagine è reso più appariscente dal brusco taglio
prospettico del quadro,in cui il bancone spinge l’occhio su una diagonale. La letteratura volle dare
di Toulouse lìLautrec una visione leggendaria e maledetta,come se la principale attenzione della
sua pittura fosse andata alle perversioni sessuali, ma comunque le prostitue che furono sue
modelle non vengono mai ritratte in maniera scabrosa. In Au Salon de la rue des Moulins sono
rappresentate sei prostitute in attesa dei loro clienti:completamente vestite non mostrano tratti di
perversione o seduzione. Attraverso le sue linee sinuose ottenute con un tratto molto sicuro e
continuo Toulouse-Lautrec interpretò il gusto dell’Art Nouveau. Caratteristico della sua adesione a
quest’estetica fu il suo lavoro di grafico pubblicitario, si dedicò anche alla pittura su vetro per
Tiffany. Attraverso Toulouse-Lautrec la figura dell’artista cercò una nuova declinazione,destinata ad
essere una tentazione non sempre riuscita,ma fortissima per gli artisti di tutto il 900:quella di chi
riesce ad entrare in contatto non colo con le classi superiori ma anche con il gusto di un pubblico
più allargato.
Il Simbolismo ebbe sfaccettature diverse e coinvolse non solo le arti visive ma anche la letteratura
e la musica degli ultimi due decenni del XIX secolo. Vi è il conflitto tra Realismo e Simbolismo. Più
che movimento artistico stilisticamente unitario il Simbolismo si propose come un sistema etico dai
forti legami con le correnti filosofiche della seconda metà del secolo da Schopenauer a Nietzsche e
Bergson. Quest’ultimo sosteneva che si poteva raggiungere la verità per mezzo
dell’intuizione,termine che indica una comprensione delle cose istantanea e non mediata dalla
logica. Il Simbolismo si propose come una forte reazione a quella poetica realista e naturalista che
aveva dominato la cultura francese e globalmente europea. In Francia ci sono stati grandi
precursori come Gustave Moreau,Pierre Puvis de Chavennes e Odilon Redon. Redon adottò il
colore tardivamente ,preferibilmente a pastello,proprio perché il colore a olio gli appariva un
mezzo troppo definito per descrivere un universo interiore sognante e misterioso. Il suo Orfeo,una
testa arancione sfumata tra colori luminescenti posta al centro di un paesaggio montano è una
testimonianza di come le tematiche simboliste si prestassero a venire trattate con libertà di
tecnica: nel mondo dei simboli non vigono i vincoli imposti da quello reale. Un confronto con
l’opera dal titolo analogo di Moreau ne evidenzia continuità e differenze.Entrambi scelgono di
cantare il protettore mitologico della poesia, la cui testa è stata mozzata per poter rinascere, nel
quadro di Moreau i particolari sono descritti puntigliosamente e la lira è sorretta da una musa che
guarda amorevolmente il viso morto. In Gran Bretagna si erano mossi i Preraffaelliti i cui
protagonisti furono: Holman Hunt, John Everet Millais, Dante Gabriel Rossetti,Edward Burnes-
Jones. I preraffaelliti proponevano una pittura che si ispirasse a un’arte prerinascimentale:ciò che si
contestava a Raffaello in particolare era l’aver voluto fare dell’artista un pensatore. I preraffaeliti
seguirono un pensiero ben definito,per il quale gli artisti avrebbero dovuto essere parte attiva nel
riportare l’umanità a uno stato di purezza. Opere come L’Ofelia di Millais testimoniano il
permanere di una vivida eredità romantica per i rapporti di simbiosi tra uomo e natura. In
Germania la ventata simbolista che invase tutta l’Europa a partire dal 1880 si confuse con quella
che sarebbe stata definita Art Noveau. In Francia nel 1899 venne fondato il gruppo dei Nabis. Il
loro manifesto fu Il talismano di Paul Serusier. La loro concezione del ruolo dell’artista era già
implicita in quel termine,che in ebraico significa “profeta”,si dichiaravano discepoli di
Gauguin,questo gruppo si riuniva in una casa chiamata “il tempio”. Maurice Denis può essere
considerato il principale teorico dei Nabis,fu in seguito un importante innovatore dell’arte sacra.
Ne Le muse nel bosco sacro definisce il luogo ideale in cui nasce l’arte come un mondo
incontaminato dal tempo,e popolato da divinità ispiratrici. Il maggiore protagonista del gruppo fu
Pierre Bonnard, a lui si devono illustrazioni,grafica e manifesti in cui si nota una forte influenza
dell’arte giapponese. Bonnard seppe interpretare il rapporto tra materia e memoria,tra cosa vista e
ricordo della cosa. L’impianto spaziale non privilegia mai l’oggetto ritratto ma la posizione spesso
causale dalla quale lo vede l’osservatore. Cosi l’oggetto si mescola in termini cromatici:la carne
della donna di schiena in La toilette du matin contiene lo stesso azzurro e lo stesso rosa del
pannello decorativo sul fondo. Come Van Gogh Bonnard non dipinge le cose ma il modo in cui
percepiamo le cose prima ancora di capire cosa siano.
In Italia il messaggio simbolista venne fatto proprio da un novero di pittori che trassero ispirazione
dal puntinismo di Seurat e Signac, ribattezzato Divisionismo,dal punto di vista tematico gli italiani si
allontanarono dal messaggio scientista dei colleghi francesi. La loro opera va rivalutata proprio per
il loro autonomo simbolismo e in quanto furono fondamentali per la formazione dei giovani
futuristi. Il patron del gruppo divisionista fu Vittore Grubicy de Dragon ,i cui contatti con la
Francia,Belgio e Olanda lo misero in condizione di importare in Italia la tecnica del Puntinismo.
Utilizzò molte energie nel cercare di creare un gruppo compatto di artisti prevalentemente
lombardi che sviluppassero questa direzione,e in effetti riuscì a trasmettere la tecnica a molti
giovani pittori che però diedero al puntinismo una versione del disegno naturalista con un taglio
tradizionale delle immagini. Dal punto di vista tematico non contò la vita delle grande
metropoli,inesistente in Italia ma la natura e la realtà sociale agraria.
Gaetano Previati si era formato a Milano nell’atrmosfera della Scapigliatura. Incontrò Vittore
Grubicy e da questi apprese la tecnica divisionista che reinterpretò in modo ancora più sottile ,ciò
conferì alle sue opere una luminescenza fortissima. La sua grande Maternità suscitò nell’ambiente
milanese le polemiche dei naturalisti a causa del suo impianto simbolista che conduce le figure
della visibilità all’evanescenza.
Angelo Morbelli è colui del gruppo che ottenne maggiori riconoscimenti dall’estero. Interessato al
tema dei miserabili e alle difficoltà di una vita antieroica,dedicò una serie di dipinti alla vita nel Pio
Albergo Trivulzio,ricovero milanese per anziani. Le sue opere moderano il realismo grazie al ricorso
in chiave simbolica di simmetrie e centralità.
Altri nomi importanti nel divisionismo italiano sono: Baldassarre Longoni,Rubaldo Merello e Plinio
Lomellini. Invece Galielo Chini ebbe maggiori riconoscimenti soprattutto grazie alla sua scelta di
incanalarsi in un gusto decisamente Art Nouveau e di dedicarsi alla ceramica e alla decorazione.
Auguste Rodin è il massimo scultore francese di fine secolo. Per lungo tempo dovette piegarsi a
lavorare per altri scultori a una produzione di carattere commerciale,attività che gli permise di
sviluppare una straordinaria abilità manuale. La sua biografia fu segnata da un legame tormentato
con Camille Claudel. Fu Michelangelo il principale ispiratore di Rodin,durante un viaggio in Italia
ebbe modo di ammirarne le opere,rimase cosi scosso da considerarlo da allora il suo unico vero
maestro. Nel 1880 si presentò la prima occasione:gli venne commissionato il prospetto per una
porta per il Musée des Arts Decoratifs. Pensò a una porta monumentale ricoperta di bassorilievi
ispirati all’inferno dantesco,l’autore della divina commedia occupa nel portale la posizione centrale
,raffigurato nelle vesti del pensatore. La porta dell’inferno non fu mai compiuta:Rodin vi lavorò
apponendo e togliendo figure realizzati dapprima come bozzetti e poi come sculture autonome in
gesso. I sensi furono al centro di una poetica che avrebbe voluto essere monumentale ma che, non
avendo valori certi da celebrare,fu segnata da un fallimento ideale: lo testimonia la stessa
incapacità di condurre a compimento la Porta,lo evidenza il monumento dedicato allo scrittore
Honorè de Balzac,un volume massiccio che si allontana dalla verticale e suggerisce imponenza. Più
successo fu destinato al gruppo marmoreo che rappresenta la coppia di Paolo e Francesca,il bacio.
L’opera celebra uno dei pochi valori indubitabili,l’amore,benchè il messaggio simbolista sia
espresso attraverso una intensa carica di sensualità fisica.
Proprio a causa del contenuto antieroico implicito a questa grande figura va spesso accostata
quella di Medardo Rosso esaltato per l’abbandono di tematiche e tecniche retoriche. I suoi temi
ricorrenti furono appunti di vita quotidiana e spesso urbana,frammenti della sua stessa esistenza
difficile e avventurosa. Nelle sue teste di cera sono visibili i gesti del modellato e le colature del
materiale. Rosso cercò di trasporre il simbolismo della luce dalla pittura alla tridimensione. La sua
sculture è segnata dalla consapevolezza che la luce può raggrumarsi o diffondersi in superfici
distese può animarsi fino a creare volumi.
L’Art Nouveau non fu soltanto uno stile ornamentale,ma una risposta a una delle questioni
ricorrenti nell’arte del 900:le diverse arti vanno considerate come rami di un medesimo albero o
come discipline radicalmente diverse? L’Art Nouveau si schierò a favore della prima ipotesi: l’arte è
una, diverse sono soltanto le sue molteplici tecniche espressive. Sorta nell’ultimo decennio
dell’800 l’Art Nouveau dilagò a partire dalla Gran Bretagna verso tutte le capitali Europee e negli
Stati Uniti,anche l’Italia ne venne toccata. L’Art Nouveau nacque in stretta relazione con l’avanzare
della società industriale:eesa si configurò come un modo per rendere più accettabile il frequente
uso del ferro nelle architetture temporanee e in quelle industriali. Il nuovo linguaggio pervase tutti
i settori della figurazione superando la distinzione classica tra le arti maggiori(pittura,scultura e
architettutra)e le arti minori. La forte connotazione decorativa spiega l’ostilità e il disprezzo con cui
l’Art Nouveau fu guardata nella prima metà del XX secolo. L’Art Nouveau rappresentò il primo
modo in cui la società industriale cercò di darsi un’estetica e quindi può essere posta alla radice
persino del Razionalismo stesso. Essa è stata comunque importante per diversi motivi:
Ha dato un’interpretazione nel quotidiano secondo cui l’arte non deve essere
separata dalla vita
L’Art Nouveau ebbe varianti nazionali e fu definita in modi diversi: Jugendstil in Germania,Modern
Style in Gran Bretagna,Liberty o floreale in Italia e Modernismo in Catalogna. Gli elementi costante
furono il ricorso alla asimmetria e l’ispirazione alla natura,questo connubio si tradusse in una linea
avvolgente,che mimetizzava gli angoli retti a imitare le spirali di fumo,le onde del mare o fecero
parte animali sinuosi come serpenti,cigni farfalle. La linea era espressione di forza e dinamismo
cioè come simbolo di vitalità:alla base stava una forte fiducia nel progresso,nel futuro e nel nuovo.
Ecco perché malgrado le critiche alcuni studiosi fanno iniziare il cosiddetto Modernismo proprio
con l’Art Nouveau. Il clima in cui l’Art Nouveau si sviluppò fu quello dell’arte simbolista con un filo
che la riallaccia ai Preraffaelliti. Il precedente più diretto viene trovato in Gran Bretagna ed è legato
al pittore e architetto William Morris,egli sosteneva che l’attività dell’artista dovesse coinvolgere le
arti apllicate. La sua invenzione più caratteristica fu l’arabesco floreale,con il quale creava i suoi
pattern decorativi:il classico segno a colpo di frusta. Tipico rappresentante dell’Art Nouveau in Gran
Bretagna fu Aubrey Berdsley che si espressi quasi esclusivamente nella grafica. Lo si ricorda
soprattutto come perfetto interprete figurativo dell’estetismo letteraio di Oscar Wilde. La sua
opera più nota è costituita dalle illustrazioni per il poema Salomè di Wilde dove l’ambiguo erotismo
espresso dallo scrittore venne raffigurato attraverso una bidimensionalità dell’immagine,appiattita
sui toni contrastanti del bianco e nero,attraverso la linea serpentinata e la testa viperina di una
donna ossuta.
Mentre in Inghilterra non apparvero architetti importanti in Scozia apparse una delle personalità
più innovative del momento: Charles Rennie Mackintosh che diede un’interpretazione all’art
nouveau del tutto personale fondata sulla sintesi delle forme,il singolo pezzo deve sempre potersi
integrare e mimetizzare nell’insieme. Di qui la prevalenza delle linee rette,le aperture quadrate,i
volumi cubici facili da piegare a più funzioni. I suoi disegni per divani,letti,credenze ebbero un
enorme successo anche al di fuori delle strutture complessive da lui progettate tanto che sono stati
rimessi in produzione anchein tempi recenti.Mackintosh non ebbe molto successo in Inghilterra
ma fu invece estremamente influente in Austria,dove comparve nelle esposizioni della secessione.
Risposero alla sua influenza Josef Hoffmann che espresse il suo geometrismo rigoroso soprattutto
in ville private,Joseph Maria Olbrich che progettò l’edificio della Secessione Viennese. In questo
caso le tendenze funzionali e geometriche si incrociano con suggestioni floreali .
Dal punto di vista culturale il Belgio era molto vicino alla Gran Bretagna oltre che alla Francia. Nel
paese esisteva un apparato industriale molto avanzato e proprio a Bruxelles l’Art Nouveau trovò le
sue espressioni più forti sia nel campo dell’architettura che in quello delle arti applicate. Il primo
interprete fu Victor Horta,il cui Hotel Tassel di Bruxelles viene considerato uno dei manifesti più
espliciti dell’Art Nouveau,vi si trova una ridefinizione della pianta con la sostituzione di un atrio
poligonale al più tradizionale corridoio,il ricorrere di motivi quali il colpo di frusta e il richiamo al
mondo vegetale. La coincidenza degli elementi decorativi con quelli strutturali risultava ancora più
evidente nella Maison du Peuple concepita su una precoce associazione di ferro e grandi vetrate
sul principio generale secondo cui la linea è una froza: ogni traccia architettonica o decorativa
descrive un andamento simbolico,dialettico che rispecchia le forze della vita: a ogni azione
corrisponde una reazione,a ogni spinta in avanti un regresso all’indietro. L’altra grande figura fu
Henri Van de Velde il quale diede un’impronta cosi forte al nuovo stile che esso passò anche sotto
il nome di Style Van Velde.Il concetto centrale della sua estetica era anche la progettazione di una
sedia,di un tavolo o di una casa avesse la medesima dignità artistica. Per questo le abitazioni che
firmò erano costruzioni unitarie ma rispettavano soprattutto un principio di coerenza interna, per
di più ogni elemento dell’ambiente doveva porsi in una relazione di affinità con gli altri e di
simpatia psicologica con chi avrebbe dovuto abitarlo.
In Francia l’Art Nouveau trovò esempi soprattutto nell’arte applicata grazie a Emile Gallè. Nel
settore dell’oreficeria ricordiamo Renè Jules Lalique grande innovatore delle tecniche di
produzione degli oggetti. Di particolare interesse fu la nascita a Parigi di un’attenzione senza
precedenti per le strutture che connotano e arredano la città. Il risultato più noto furono le insegne
per gli ingressi alla metropolitana disegnati da Hector Guimard realizzati in ghisa per favorirne la
resistenza e talvolta coperte da tettoie di vetro per proteggere i viaggiatori dalla pioggia. In
Germania l’influsso dell’Art Nouveau fu dato da Peter Behrens che rappresentò un personaggio-
ponte verso le esperienze espressioniste e razionaliste. Negli Stati Uniti oltre che nell’architettura
lo stile Art Nouveau si espresse soprattutto nell’arte applicata e nella gioielleria portata al massimo
livello dai disegni di Louis Comfort Tiffany.
L’Art Nouveau in Italia arrivò in ritardo perché molte realizzazioni nel settore delle arti minori sono
andate perdute,anche per la connotazione negativa che il gusto Liberty ha assunto nel XX secolo.
Nell’ambito che si definì comunemente Liberty si mossero comunque alcune personalità ,tra
queste ricordiamo Raimondo D’Aronco, Ernesto Basile, e Giuseppe Sommaruga.
Le istanze dell’architettura Art Nouveau trovarono un innovatore nel catalano Antonio Gaudì che
però ebbe una visione talmente individuale da costruire un caso a sé. Barcellona godeva a quel
tempo di una discreta prosperità economica e in Catalogna conviveva un primo sviluppo industriale
con un’antica tradizione artigianale. Ciò rese possibile le grandi opere di Gaudì. La sua fortuna
iniziò con l’interesse di Eusebio Guell un ricchissimo magnate che sognava di farsi costruire un
palazzo visionario. Gaudì potè cogliere la lezione dello spirito preraffaellita e gli ultimi echi del
Romanticismo: anche di qui venne la sua venerazione per l’antichità gotiche,per la natura come
fonte di ispirazione degli elementi strutturali oltre che decorativi. La sua prima costruzione, Casa
Vicens a Barcellona fu ispirata a uno stile moresco fuori da ogni regola. A 31 anni ricevette la
commissione a cui lavorò per oltre 40 anni: la cattedrale Sagrada Familia di Barcellona, mentre due
anni dopo Guell gli affida la costruzione del suo palazzo,in cui iniziarono a prendere corpo i suoi
esperimenti: comparvero gli archi parabolici,ma anche sistemo per disporre in modo più avanzato i
pesi retti all’interno e sviluppati al loro esterno. La sua ulteriore evoluzione stilistica risulta
evidente nella Casa Battlò un immenso edificio all’angolo tra due strade in cui gli elementi
decorativi si integrano alla struttura: la pelle del palazzo risulta muoversi come quella di un essere
vivente,con effetti che ricordano muscoli e ossa. La facciata è coperta con mosaici policromi e il
tetto ricorda la schiena di un armadillo. L’audacia innovativa di Gaudì proseguì nella casa Milà detta
la Pedrera la cui facciata segue una successione di linee serpentinate che mettono in evidenza i
solai di separazione di ogni piano. Le finestre sembrano bocche di caverne e le inferriate dei
balconi rielaborano motivi naturalistici, il materiale pare scavato da intemperie naturali. La
serpentina si spinge fino al tetto,sostenuto da archi di differenti altezze, i mattoni disposti dalla
parte più stretta, questi archi raggiungono la massima forza portante con il minimo dello spessore.
Nella lenta esecuzione del Parco Guell,tempio del gioco e della libertà immaginativa,i pilastri
divennero sempre più simili ad alberi e la loro stessa inclinazione abbandonò la verticale per
raggiungere suggestive inclinazioni. Proprio nel parco Guell Gaudì dimostra in massimo grado la
sua capacità di sposare materiali di origine artigianale e industriale,dal ferro ai mattoni modellati. Il
compimento della Sagrada Familia avrebbe dovuto fondarsi su questi stessi principi, sostenuti dalla
teoria secondo cui la linea dritta sarebbe propria dell’uomo,quella curva della natura e soprattutto
di Dio. La libertà con cui Gaudì operava e mutava i suoi stessi progetti non gli permise di utilizzare
una griglia progettuale costante. Delle tredici guglie previste ne sono state realizzate solo
quattro,sovrastanti un portale che si estende a tutta la parte bassa della facciata e allacciate in alto
da una fascia che spinge l’occhio verso l’alto. L’insieme delle figure rappresentate che venne
considerata una fonte di ispirazione per il movimento surrealista,testimoniano la volontà di
rappresentare un’intera cosmogonia che dalla complessità infinita del mondo fisico conduce verso
la semplicità ineffabile del mondo metafisico e verso il mistero di una bontà divina da cui tutto
promana e che tutto perdona e comprende. La tecnica costruttiva di Gaudì prescinde
dall’attenzione alle tematiche sociali, ciò ha spinto Argan a definire Gaudì un reazionario. La
riabilitazione della decorazione e delle linee curve e dell’architettura scultorea che ha
caratterizzato gli ultimi 20 anni del 900 consente di rivedere questo severo giudizio.
Il primo 900 fu caratterizzato da forte entusiasmo,dalla quale non nacque un unico ceppo da quale
prese corpo una poetica di gruppo omogenea ma tanti focolai dispersi soprattutto nell’Europa del
Nord. Comune a tutti questi nuclei fu l’esigenza di esprimere attraverso la pittura stati d’animo più
che oggetti e fenomeni della visione. In questo senso la pittura emotiva che caratterizzò gli
Espressionisti si contrappose a quella altrettanto vivace ma più indifferente sul piano delle
emozioni,che fu propria dell’impressionismo. Non si fa più riferimento all’occhio,alla percezione al
modo in cui si vede la realtà esterna ma si presta invece attenzione all’introspezione,al modo in cui
la sensibilità individuale coglie il mondo. Il termine Espressionismo nacque appunto in diretta
contrapposizione a quello di Impressionismo. Si descrive con esso uno stile legato alla soggettività.
L’espressionismo è inteso come un movimento culturale che ha inizio nei primi anni del secolo e
che si spinge oltre la Prima Guerra Mondiale e assume caratteristiche differenti e specifiche.
Edward Munch è il più importante dei poeti norvegesi ed è uno dei due principali precursori della
pittura espressionista. La sua vita fu segnata da fatti tragici, ebbe un rapporto difficile con le donne
seguendo un atteggiamento misogino tipico degli intellettuali del suo tempo. Già da un quadro
precoce come il Bacio si rivela come egli vedesse il rapporto tra maschi e femmina: come un
amplesso in cui l’identità maschile poteva essere messa in pericolo,quasi assorbita da una donna-
mantide. Ma Munch fu anche un grande viaggiatore e conobbe la maggiori correnti artistiche
europee: le sue fonti furono la linea curva dell’Art Nouveau e la pittura simbolista. Nel 1885 visitò
Parigi per la prima volta dove venne influenzato da artisti come Toulouse-Lautrec,Degas,Van Gogh
e sempre a Parigi vide una mostra con alcuni reperti Maya che lo impressionarono profondamente:
i visi della sua pittura successiva,cosi scarni da sembra teschi ne sono una prova. Al suo ritorno
compose la sua prima opera La Bambina Malata che non mancò di suscitare scandalo per la tecnica
nervosa ed essenziale in cui era stato dipinto creò sconcerto e disprezzo nella critica. Nel 1892 fu
organizzata una mostra pubblica per le sue opere a Berlino che venne chiusa per lo scandalo
suscitato ancora una volta dalla loro tecnica: una pittura disinvolta che lasciava ampi margini al non
finito.. La notorietà che gli derivò da quell’episodio lo convinse a rimanere in Germania,dove il suo
periodo creativo più fertile si verificò durante la sua permanenza a Berlino. Il suo stile di vita
vagabondo fatto di notti insonni,alcool lo condussero a una crisi nervosa dopo la quale dovette
essere internato per otto mesi. Alla sua morte vi si trovarono ammassati un migliaio di quadri sei
sculture e un enorme quantità di grafiche,per volontà di Munch questo patrimonio venne lasciato
alla città. Quanto ai temi affrontati da Munch,egli cercò di descrivere le proprie emozioni
adattandole alla vita interiore di qualsiasi uomo. Per questo intendeva riunire tutte le sue opere in
ciò che definì “il fregio della vita”. Perfezionista e tormentato anche nello stile della costante
incapacità di optare per una scelta definitiva. Munch ha espresso la sua ricerca in molte variazioni
su di uno stesso tema,in soggetti sovente ripetuti con tecniche diverse:olio,temoera,acquerello. La
sessualità è vissuta come ciò che conduce alla vita ma anche alla morte,come “supremo inganno”
lo si deduce bene dalla serie della Madonna:questa figura sensuale ma cadaverica, al confine tra
passione fisica e malattia,in una prima visione è corredata da una cornice sulla quale sono dipinti
spermatozoi che si indirizzano verso un feto:vita e morte,piacere e dolore sembrano essere aspetti
indissolubilmente connessi. La società è interpretata come un luogo dove la solitudine di ciascuno
resta incomunicabile:lo dicono gli sguardi allucinati del dipinto Sera sul viale Karl Johan che ritrae
una passeggiata più simile a un corteo funebre e i visi altrettanto muti de Il letto di morte,una
veglia in cui i familiari non si confortano a vicenda ma aumentano lo sconforto reciproco.
L’individuo rimane solo,come nella famosa serie de L’urlo e in Pubertà nel quadro una ragazza
ancora bambina nel busto e già donna nelle anche,copre il suo ventre nudo con una croce fatta
dalle braccia. La croce è simbolo di morte e va a segnare il punto da cui nasce la vita. Sul muro
retrostante appare a minacciarla la sua stessa ombra,simbolo insieme di ciò che ha gia vissuto e di
ciò che l’aspetta. Ciò che fa di Munch un grande precursore dell’Espressionismo non sono soltanto i
temi che egli tratta quando il fatto che nei suoi quadri la sofferenza suggerisce delle precise
soluzioni formali:l’ansia viene rappresentata da aloni attorno alle teste,il distacco dalla realtà
visibile e il contatto con quella interiore dalla labilità ricorrente dei confini tra le figure e il loro
sfondo. (lettura dell’immagine pag 61)
James Ensor portò nella sua pittura la tendenza a un immaginario inquieto e brulicante di
personaggi grotteschi. Una grande influenza sul suo modo di dipingere può essere addebitata
anche all’attività della madre che gestiva una bancarella di maschere e souvenir. In generale
l’artista rivalutò il teatro di strada,il carnevale e altri aspetti del folklore. Egli era convinto che la
ragione è il nemico dell’arte,amò l’irrazionalità caratteristica del linguaggio popolaresco,da questo
imparò a mescolare personaggi di tutti i giorni a personaggi-metafora. Il legame con la classe
borghese è evidente nei quadri della sua prima fase pittorica,caratterizzata da interni di case in cui
si metteva in evidenza la loro pretesa rispettabilità. Egli accentuò nel suo stile gli aspetti ironici e
macabri: attraverso una tecnica tanto raffinata quanto grossolana, Ensor iniziò a deridere l’ipocrisia
della nuova classe dominante. I personaggi dei suoi quadri diventano maschere buffonesche,che
cercano di farsi notare nella folla ma che in effetti si disperdono in essa. I suoi Scheletri che si
riscaldano alla stufa mostrano il gusto dell’assurdo, le Strane maschere espongono l’interesse per il
genere artistico della caricatura. In tutte le sue opere egli derise l’ipocrisia del suo tempo
considerandosi in esso un estraneo. Il pittore visse il resto della sua vita in isolamento. (lettura
immagine pag 63)
Nel 1905 al Salon d’Automne ha esposto in un'unica sala i pittori di un gruppo che comprendeva
Henry Matisse,Albert Marquet, Andrè Derain, Maurice de Vlaminck, Henry Manguin, Charles
Camoin. A quel Salon non comparvero quadri di Raoul Dufy e di Georges Braque che in quanto a
stile avrebeero potuto esserci. Desvallieres decise di intensificare lo studio su alcuni di loro
raggruppando nella stanza che è passata alla storia come la “gabbia centrale” coloro che vennero
definiti Fauves,belve selvagge. Il visitatore vi trovava un fuoco di colori assolutamente mai visto
prima. Il termine Fauvisme ebbe fortuna ma fu anche causa di molti fraintendimenti:primo tra tutti
il fatto che quel gruppo avesse una vera unità di intenti, tutto ciò che lo univa era pensare che i
colori usati dagli impressionisti furono un po smorti. Il secondo equivoco riguarda gli obiettivi di
questi artisti, che non intendevano affatto criticare la società in cui vivevano e tantomeno creare
opere violente,dedicate al disagio di vivere. In Francia prima della Grande Guerra l’atmosfera era
liberale e gioiosa ma non aggressiva. Uno dei pochi obiettivi comuni del gruppo era descrivere il
gusto di vivere,sentire,di esercitare al massimo il potere di emozionarsi. Un’altra meta condivisa
era diretta conseguenza del Puntinismo di Seurat e Signac: in pittura ci vuole disciplina e anche
dietro ai gesti più folli deve esserci una lunga preparazione,la fatica e il lavoro vanno orientati a
costruire un quadro come organismo autonomo e non a copiare la natura o i maestri. I Fauves
volevano che la composizione stesse in piedi da sola, come un insieme di linee e colori o
comunque una figurazione in cui luce e vitalità si rinforzavano vicendevolmente era un dato
rilevante ma secondario. Lasciando in eredità ai pittori tedeschi la follia dei colori e ai colleghi
francesi la scoperta dell’arte africana. Il momento di rottura del gruppo fu probabilmente la grande
retrospettiva di Cezanne. La riscoperta del maestro ebbe enorme importanza. Nel XX secolo è
accaduto che i giovani artisti abbiano scoperto nuove vie dopo avere rivisto le opere di un maestro
in una mostra ben allestita. I protagonisti di quel momento cercarono ciascuno una strada propria
con diverso successo. Ma il vero fautore di quella poetica,colui attorno al quale gli altri gravitarono
come astri piu o meno lontani dal Sole, era stato Matisse.
Henri Matisse divenne pittore grazie a una vocazione tardiva. Insieme a Picasso lo si annovera tra i
grandi innovatori del linguaggio della pittura. Passò la vita a cercare con calma interiore che
potesse anche assumere le forme esteriori dell’arte. A ventun anni incominciò improvvisamente a
disegnare. Lesse con avidità il libro Da Delacroix al Neo-impressionismo di Paul Signac che divenne
un suo amico-maestro: testimonia questo legame il quadro divisionista Lusso,calma e voluttà,una
composizione che associava il tema mitico delle bagnanti a quello meno mitico del pic-nic. I viaggi
in Corsica e sul Mediterraneo indirizzarono Matisse verso una luminosità molto carica. Di selvaggio
Matisse aveva poco, dato il suo matrimonio sereno, l’estrema metodicità nel lavoro e l’amore
incondizionata per la vita che traspare anche dai titoli dei suoi quadri. La sua pittura si era spinta su
un territorio vasto. Al salon d’automne del 1905 presentò la Donna con cappello: maestosa e
raffinata,l’immagine della moglie appare gialla,ombreggiata da tratti verdi,sovrastata da un
cappello fruttiera e circondata da aloni verdi,blu e viola. Le pennellate scorrono seguendo il gesto
della mano,ora ordinate,ora libere sempre e comunque energiche e lontane da ogni realismo.
L’insieme parve un’assurdità al pubblico. La gioia di vivere è un'altra scena di bagnanti i cui singoli
brani vennero poi ripresi da numerose altre composizioni. Scrive su di esso Gertrude Stein che in
questo quadro Matisse realizza per la prima volta la sua intenzione di deformare le linee del corpo
umano al fine di armonizzare e semplificare il valore artistico dei colori puri. Il quadro ritrae un
esterno ama non è dipinto dal vero: a Matisse non interessava l’aria aperta le preferiva il chiuso di
una stanza anche durante i soggiorni in Provenza. Nel 1912-13 trascorse due lunghi periodi in
Marocco, grazie ad alcune mostre aveva gia incontrato a Parigi l’arte islamica con la sua negazione
religiosa della figurazione e le sue superfici simmetriche, ripetitive,arabescate; i viaggi rinforzano
l’inclinazione dell’artista verso queste armonie. Il quadro I tappeti rossi esprime il desiderio di
accogliere la sapienza e il lusso estetico della decorazione nella pittura a olio,evidente in quadri
successivi come La tavola imbandita,la Famiglia del pittore e Madame Matisse con scialle di
Manila, un buon esempio quest ultimo,di come imponesse alla moglie e alle modelle buffi
travestimenti orientaleggianti. Dal punto di vista dello stile, la forma circolare e la ripetizione
ritmica sempre associate a sentimenti di vitalità primordiale divennero due costanti dell’opera di
Matisse. Appaiono con particolare evidenza nei quadri La danza e La musica. Il primo segue un
motivo gia accennato nella Gioia di vivere e fu eseguito in molte versioni. Cinque corpi rosso-
arancio si stagliano su un fondo verde e blu,formando un cerchio di figure nude che è impegnato in
un girotondo vorticoso. La velocità è resa dal disegno ma anche dalla violenza delle associazioni di
colore. Il secondo quadro descrive con gli stessi elementi una situazione di calma: ancora cinque
corpi rossi stanno seduti su un prato verde a livelli diversi, se nella Danza prevale un festone di
linee curve qui vincono le perpendicolari e i colori sono stesi in modo piu piatto e denso. Il risultato
è che le figure sembrano tenute ferme e come tranquillizzante dal blu intenso cielo. Più che il
colore in sé, Matisse sembra sempre più interessato ai rapporti tra colori un’unica tonalità. Matisse
non volle mai raggiungere l’astrazione. La toccò negli ultimi collages,ottenuti con ritagli di carta.
Anche quando non rappresentò che una sequenza di foglie come nei velluti del 1947 prese
comunque spunto dall’universo reale e non da quello mentale. Matisse concluse la fase più attiva
delle sue ricerche attorno al 1916 depresso e dall’emergere di Picasso. Per gli anni successivi
continuò a dipingere interni con finestra odalische ritratti e nature morte sontuose. Spiccano nella
sua maturità due realizzazioni di dimensioni ambientali: il grande fregio che ripropone il tema della
danza e La Cappella del Rosario a Vence di cui l’artista ha progettato arredi. Per entrambe le opere
Matisse scelse l’assoluta piattezza del colore e un disegno ridotto ai minimi termini. (lettura
immagine pag 72-73)
Nel 1906 ci fu la prima esposizione di un gruppo di artisti di Dresda. Il nucleo si era coagulato
l’anno prima grazie a quattro studenti di architettura, tre dei quali si dedicarono completamente
alla pittura: Ernst Ludwig Kirchner, Erich Heckel e Karl Schmidt-Rottluff. Heckel aveva suggerito ai
compagni di definirsi “artisti del ponte” in tedesco Brucke, il ponte era quello ideale lanciato verso
un futuro segnato dalla volontà di rivolta verso chiunque cercasse di uccidere l’impulso alla vita
con un moralismo invecchiato. Erano convinti che l’arte potesse giocare un ruolo determinante nel
ricondurre l’uomo moderno a valori meno corrotti di quelli a cui lo forzava la nuova società urbana.
Il loro stile di vita era erede dello Sturm und Drang ottocentesco. Quanto alle fonti i suggerimenti
più intensi provennero dalle gallerie private della città, in questo contesto assunsero grande
importanza la natura intatta del Mare del Nord, le ragazze acerbe e innocenti, il recupero delle
tradizioni: questi artisti cercavano di ritornare alla pittura tedesca del 500. Tra le tecniche vennero
privilegiate la scultura in legno e soprattutto la xilografia, che si ottiene incidendo lastre di legno
inchiostrando le parti non incise,ponendovi sopra il foglio che risulta stampato a toni molto
contrastanti. Il fascino di questa tecnica consiste soprattutto nella sua incisività e precisione, si
deve anche ricordare l’uso della stampa artistica perché una stessa grafica poteva essere prodotta
in molti esemplari. Uno degli scopi programmatici di Die Brucke era quello di coinvolgere più
persone possibili. Die Brucke si disperse nel 1913 dopo che ciascun artista ebbe maturato una
proprio espressività autonoma. I protagonisti di Die Brucke pubblicarono riviste dove gli artisti
producono i propri organi di stampa. Malgrado tanti sforzi gli espressionisti continuarono a
suscitare soprattutto reazioni di indifferenza o di disprezzo inaugurando una contraddizione
destinata a durare per tutto il Novecento. Solo dopo più di cinquant’anni il pubblico iniziò ad
apprezzare ciò che alla sua prima comparsa disprezzava come infantile e brutto.
Appassionato ricercatore Ernst Ludwig Kirchner, era il più dotato della Brucke. L’altro lato di questa
medaglia fu la tendenza a incorrere in gravi depressioni che si fecero particolarmente intense allo
scoppio della Prima Guerra Mondiale. Si tolse la vita nel 1938. Si possono identificare tre fasi
successive nella sua produzione. La prima caratterizzata da una pittura a pennellate
larghe,morbide e con grande attenzione ai rapporti di colore, appartiene Marcella, un ritratto di
giovane prostituta giocato sui toni del verde acido,del viola e dell’arancione. Una ragazzina che non
ha ancora il seno sta seduta su un letto con le mani che si incrociano sul pube come la protagonista
di Pubertà di Munch, ma mentre quella si mostrava stupita e intimorita, questa gia truccata e con
lo sguardo reso adulto da occhiaie verdi appare allo stesso tempo aggressiva e rassegnata al ruolo
aggressivo che la donna può assumere in una società deviata. In un momento appena successivo,
forse il più tipico, la tecnica è a pennellate oblique e forti come pioggia. I colori sembrano essere
impastati dal nero e da luci gialli artificiali. Protagonista è soprattutto la città, contrapponendo aree
blu,rosse, gialle e nere, il pittore si mostra come un reduce mutilato senza una mano senza sguardo
e senza una meta. Il terzo periodo la natura alpina appare nei quadri come un luogo mitico ed
emozionante, i toni perdono asprezza e colorando gli alberi di violetto e la neve di rosa. (lettura
immagine pag 79)
Erich Heckel aveva un carattere meno duro di Kirchner che lo dispose alla comprensione del
Fauvismo francese. Il binomio che anima le sue opere è la contrapposizione tra un ordinamento
severo,architettonico delle forme e la libertà orgiastica dei colori. In molte sue opere come in Lo
stagno del paese le pennellate di dispongono in modo da creare strutture geometriche ed effetti di
riflessione cristallina.
Emil Nolde giunse tardi alla maturità artistica. I suoi soggetti principali furono la religione,
interpretata in modo provocatorio come ne La leggenda di Santa Maria Egiziaca, donne danzanti in
universi primitivi scene in cui i corpi si mostrano nella loro animalità con un misto di disprezzo e
attrazione per l’amoralità degli istinti.
Max Pechstein divenne un personaggio centrale della Secessione di Berlino. Il suo Nudo sotto la
tenda è un’allusione alla forza selvaggia e accogliente della natura cosi come della femminilità, la
Barca da pesca mostra uno scorcio in cui sette uomini si agitano remando,coinvolti in una bufera.
All’inizio del XX secolo Monaco era una città vitale molto bella rispetto al resto della Germania. Fu
qui che nacque la prima Secessione nel 1892, qui arrivarono artisti russi come Wassilij Kandinskij e
Alexej von Jawlenskij. Kandinskij fondò il gruppo artistico che assunse il nome di Blaue Reiter: in
quel periodo Kandinskij dipingeva cavalieri e Marc vedeva nel blu il colore per eccellenza. Ai due si
aggregarono Auguste Macke Paul klee e Alexej von Jawlenskij. Il Blaue Reiter non si diede un
programma vero e proprio, il gruppo aveva tre caratteristiche peculiari: la prima, di essere
cosmopolita e di non accogliere i riflessi di una sola cultura nazionale; la seconda, di essere
tendenzialmente interdisciplinare e di non limitare lo sguardo al solo campo della
pittura,allargandolo, invece, alle sostanziali innovazioni che negli stessi anni stavano riscuotendo il
linguaggio musicale. La terza caratteristica risiedeva nei comuni intenti riguardo al linguaggio
pittorico: da una parte si voleva attribuire al colore delle valenze simboliche dall’altra un impianto
ideale comune spingeva contro il naturalismo pittorico e verso l’affermazione dei valori spirituali,
benchè centrati su un’idea dell’uomo più genericamente mistica e panteistica che legata a una
religione rivelata specifica. Il percorso dal Blaue Reiter aveva in sé un forte lirismo, un’apertura
all’universo del poetico, nonché la riscoperta del potere spirituale delle armonie decorative. Il
movimento ebbe vita molto breve, ma il suo influsso fu enorme nella prima affermazione
dell’Astrattismo.
Franz Marc era nato da una famiglia molto religiosa e la sua aspirazione era quella di diventare un
pastore. L’incontro con Macke gli aprì le porte dell’avanguardia e lo mise in relazione con gli altri
giovani artisti. Le sue considerazioni sul colore come veicolo simbolico lo portarono a uno stile
molto personale. Appassionato della pittura di animali fin dalla prima giovinezza,egli intraprese ciò
che amava definire “l’animalizzazione dell’arte”. Gli animali venivano riprodotti come presenze
simboliche, essi rappresentavano per lui lo slancio vitale per il quale la natura è la massima
espressione divina.
Alexej von Jawlenskij si trasferì a Monaco mentre negli anni successivi frequentò spesso Parigi dove
ebbe modo di conoscere il lavoro di Matisse e di rimanerne colpito: le sue opere trattano il colore
con la stessa intensità del maestro francese anche se il suo approccio cercava un certo simbolismo
e l’estasi delle emozioni. Durante la prima guerra mondiale il suo misticismo religioso aumentò
portando nella pittura centrata sul ritratto femminile inteso come un linguaggio a sé stante, una
maggiore inclinazione alla stilizzazione.
Auguste Macke fu teorico degli espressionisti tedeschi. Il contatto con l’atmosfera artistica francese
e con i paesaggi del Mediterraneo lo avvinse profondamente: durante un viaggio a Parigi assorbì i
suggerimenti dei Neoimpressionisti,dei Fauves, del Futurismo. L’amico Paul Klee gli svelò un senso
del colore più brillante, solare, meno irto di simbolismi rispetto ai compagni. In quel periodo
dipinse trentasette acquerelli. Macke indirizzò la sua pittura verso atmosfere intimiste verso
soggetti tratti dalla vita quotidiana. Il suo stile è connotato da sfaccettature cromatiche giocate
sugli effetti di trasparenza. Nell’opera Donna davanti a una grande vetrina illuminata il soggetto
non è molto importante: l’episodio raccontato appare soprattutto un pretesto per dipingere nel
suo tipico modo complesso, tale per cui i riflessi scompongono e frammentino gli oggetti come
luce sotto l’effetto di un prisma. Il successivo Donne al bagno concepito come disegno per un
tessuto mostra in modo più semplice una geometrizzazione dei volumi. In questo caso viene
ripreso il tema delle bagnanti, riletto nei termini di una conversazione tra amiche
Agli inizi del Novecento, Vienna era grande mosaico di etnie e di nazionalità in fermento. La città
ospitò Sigmund Freud, Arthur Schnitzler, Gustav Klimt e Gustav Mahler. Una della caratteristiche
dell’humus culturale viennese era il tentativo costante di superare gli steccati disciplinari.
In Austria l’Espressionismo artistico si sviluppò come opera di artisti che non erano in relazione
diretta: i suoi due pionieri furono Oskar Kokoschka e Egon Schiele. Entrambi avevano personalità
molto forti , incapaci di formare legami di durevole collaborazione. Questo individualismo li
portava a non credere in un’arte totale di valenza collettiva.
Egon Schiele aveva subito il fascino della pittura del maestro. Ma i soggiorni in Germania e
soprattutto a Monaco , dove partecipò alle secessioni e incontrò Klee e Kubin gli consentirono un
distacco che fu anche la sua occasione di crescita: rispetto a Klimt semplificò i fondi, mitigò
l’interesse per le decorazioni ossessive e bizantine,rese il disegno più immediato e nervoso.
Paesaggi spettrali e convulsi, ma soprattutto ritratti e autoritratti formano il corpus principale del
suo lavoro: nella sua ampia produzione di disegni dal vero troviamo corpi nudi e tormentati,
mutilati, deformati, sovente in atteggiamenti erotici. Schiele si avventurò nell’universo della vita
privata, quel mondo chiuso nelle stanze e animato da pulsioni e timori in cui nemmeno gli artisti
avevano ancora osato entrare davvero. Schiele getta sul proprio corpo e su quello delle sue
modelle uno sguardo crudo, al tempo stesso appassionato: leva i vestiti, mostra i segni della
magrezza o del piacere, affronta tabù del comportamento come l’omosessualità femminile e
l’autoerotismo. Tutto ciò si apre su scenari visionari al limite della follia, dal simbolismo ricco di
penetrazione psicologica. L’abbraccio mostra la lotta e la morsa di due corpi legati da amore e odio
disperati. Nel suo ultimo quadro importante, La famiglia rappresenta se stesso con la moglie
accovacciata tra le sue gambe, protetta da tutta la sua figura, la cui anatomia risulta come dilatata
per fare posto alla giovane donna. Questa tiene tra le gambe un bambino come lo avesse appena
partorito. La progressione che incastra le figure una dentro l’altra è rispettata anche dal
colore,strumento del simbolismo: bruno per il fondo, marrone per la pelle dell’uomo, rosato per
quello della donna e chiaro per il viso del bimbo. L’artista guarda in direzione dello spettatore,
mentre la madre e il bambino guardano verso uno stesso punto sulla destra: è solo lui il mediatore
tra il mondo esterno e la propria famiglia.
Oskar Kokoschka aveva manifestato attitudine al disegno, dotato di una intelligenza multiforme,si
dedicò presto anche alla scrittura. La decisione di rivolgersi alla pittura in modo definitivo fu molto
condizionata dall’incitamento dell’architetto Adolf Loos . Il suo successo fu abbastanza precoce sia
a Vienna, sia a Berlino le sue mostre ebbero notevole riscontro nell’ambiente culturale. Le sue
opere giovanili mostrano come le sue fonti fossero l’Art Nouveau e Van Gogh ma anche l’arte
tedesca. LA produzione di Kokoschka è ricca di ritratti. In quest’ambito ciò che lo interessava non
era una verosimiglianza con il soggetto rappresentato e nemmeno un’indagine psicologica, quanto
il suo stato d’animo e la sua autorappresentazione: per questo tutti i suoi volti risultano un po
simili. Il suo quadro più celebre, la sposa del vento, di grandi dimensioni, non presenta particolari
innovazioni stilistiche. Ciò che colpisce è l’uso di un certo linguaggio per trattare un rapporto di
coppia quasi che l’estasi dell’amore derivasse dal tormento che esso provocava: colore violento,
forme distorte. La coppia appare distesa su una fragile barca e viene come trasportata da un
vortice. Le carni sono livide e lacerate. L’atmosfera cupa e tragica parla di una relazione a doppio
volto: gli storici hanno interpretato la scena come un’immagine di protezione dell’uomo rispetto
alla donna, e la fantasticheria di avere ucciso l’amante che ora riposa pallida sulla sua spalla.
L’amore ne emerge come un incubo che spinge la coppia a un vortice di dipendenza reciproca e di
isolamento dal mondo. La sua arte ebbe notevole diffusione.
Parigi è stata il centro di una circolazione intensissima, un grumo di idee e di energie creative, nei
caffè del nuovo quartiere si incontravano artisti che arrivavano da ogni parte d’Europa. Disimpegno
politico, un’idea romantica e decadente dell’artista come profeta inascoltato accomunavano un po
tutti cosi come la partecipazione alla vita di una metropoli che per dimensioni e attivismo non
aveva uguali ne altrove ne nel tempo passato. Dagli anni novanta dell’800 stava nascendo un
sistema dell’arte fondato sull’incrocio tra artisti, mercanti, critici e collezionisti. Quando si parla di
Ecole de Paris non ci si riferisce a un’avanguardia consapevole. In quel bazar capitò che alcuni
artisti si conoscessero e solidarizzassero più per il loro destino comune che per una consonanza
poetica. Rientrano in questo gruppo il giapponese Tsugouhara Foujita, formatosi in Francia ed è un
esempio di come l’estremo oriente iniziava ad avvicinarsi all’occidente. Lorenzo Viani a Parigi fu
soltanto di passaggio ; non riuscì a penetrarla appieno e dunque a raggiungere un riconoscimento
internazionale, ma i suoi ritratti duri e disperati, le sue donne dai tratti somatici solidi in contrasto
con la decadenza dei colori con cui vengono descritti sono consapevoli della lezione di Toulouse-
Lautrec.
Italiano fu anche Filippo De Pisis, che era in contatto con De Chirico e si liberò poi in seguito. LA sua
pittura si espresse in nature morte, paesaggi, ritratti resi con poche pennellate sciolte, dal
caratteristico nervosismo smarrite come fossero versi di una poesia.
Un altro personaggio di rilievo fu Maurice Utrillo. I suoi paesaggi dal sapore ingenuo, il suo modo
di ritrarre la vita urbana con una semplicità allucinata hanno avuto un riconoscimento diffuso,
anche se non si inserirono in alcuna poetica di gruppo.
Uno dei quadri più famosi di Georges Rouault fu I tre giudici dal quale è ben visibile che la sua
attenzione si rivolse più al verante esistenziale che alla denuncia sociale. Da ragazzo aveva dipinto
su vetro cosa che gli lasciò una tendenza a figurazioni gotiche, dure nei tratti e vicine al segno
dell’incisione. E di incisioni ne fece moltissime, come Miserere, del quale terminò il lavoro nel 1928
ma a causa di una vasta distruzione da parte dell’artista ci restano 58 meditazioni sulla morte. I
temi dele sue opere furono sempre soggetti diseredati: prostitute e pagliacci si materializzano
nelle tele con una tecnica pittorica rigida, dura, fatta di colori scuri ma lucidi e brillanti. Solo la
religione poteva essere considerata l’ancora della vera salvezza, per questo dal 1940 le sue opere
furono di soggetto quasi esclusivamente sacro.
Amedeo Modigliani trovò mecenati attenti. L’importanza dell’artista sta nel suo modo di dipingere
e non certo in quella tavola benedetta che non fu solo sua. La sua ambizione era diventare scultore
monumentale ritrovare nella scultura la forza formale che deriva dalla sintesi da quel lusso per
pochi che è la povertà apparente delle opere. Il suo senso classico della forma non lasciava spazio
all’indagine del contesto urbano: i suoi nudi e i suoi volti non sono mai connotati dalla denuncia
sociale. Gli occhi sono vuoti appunto come quelli delle statue. Se i colli sono troppo lunghi e i seni
delle donne troppo sferici non è perche Modigliani volesse deformare le realtà che vedeva ma
perche la voleva nobilitare accentuandone gli aspetti geometrici: cilindri, sfere triangoli. Quanto
alle fonti il suo primo maestro fu Giovanni Fattori che lo spinse ad abbandonare l’eredità toscana .
Poi si spostò a Venezia e ne colse gli splendori passati il suo essere porta verso Bisanzio e il lusso
dell’Oriente; lì ebbe modo di venire anche a contatto con la nuova decadenza di fine secolo:
l’ossessione decorativa di Klimt le curve di Munch il periodo blu di Picasso. Giunto a Parigi lo colse
un amore sfrenato per l’arte egiziana per l’equazione che in essa vi ritrovava tra sintesi delle forme
e mistero sul sensi dell’esistenza. Determinante fu l’incontro con lo scultore Brancusi, di cui
Modigliani ne ammirava la purezza, l’indipendenza di giusizio e la determinazione. Anche quando
Modigliani cessò del tutto di scolpire, abbandonando le teste semplificate e sacrali che furono il
suo principale risultato scultoreo, la durezza dell’intaglio si riflesse nei contorni dei suoi dipinti. La
tecnica fu decisamente personale, ibrida tra pittura e scultura: i contorni non erano tracciati di
primo acchito ma spesso ricalcati sopra un disegno precedente più tentennante: un indizio questo
che ci rivela come la rigidità delle linee era esattamente ciò che desiderava. I colori si prestano a
riempire queste forme in modo piatto e deciso. L’ultima fonte saliente di Modigliani fu il
geometrismo di Cezanne quel suo volere strutturare il quadro secondo direttrici semplici e un
ordine che presiede anche nell’organizzazione del nostro campo visivo e del nostro modo di
percepire. Gia dai quadri tra cui L’ebrea, egli imboccò una direzione che parte dall’Espressionismo.
Ritratti come quelli dedicati a Jean Cocteau, e Baranowskij sono calchi dai quali è bandita ogni
indagine psicologica che non si esprima attraverso la stessa fisionomia, non è il vestito,
l’espressione, lo sfondo, gli oggetti che lo accompagnano, ma il naso a due velocità di Cocteau a
parlarci del suo modo di stare al mondo. La Cariatide rosa del 1914 non è molto lontana allora dal
Nudo sdraiato a braccia aperte del 1917: il soggetto è di derivazione archeologica qui è una
modella o una donna da postribolo, in entrambi i casi, ciò che conta è comunicare che la
complessità delle persone può essere raccontata anche attraverso composizioni differenti di linee e
volumi semplici: un gioco combinatorio molto sofisticato.
Chaim Soutine sviluppò molto giovane una propensione al disegno. Con i soldi ottenuti grazie al
risarcimento dei danni, si spostò a Vilnius dove intraprese studi artistici. Nel 1913 si trasferì a Parigi
dove iniziò una vita nella miseria più assoluta e in condizioni igieniche disastrose. La sua vita
cambiò nel 1922 quando conobbe a Parigi Albert Barnes. In seguito ai suoi acquisti Soutine
conobbe la ricchezza, ma soprattutto affittò uno studio decente dove dipinse le opere più
impressionanti della sua carriera: buoi squartati e numerosi ritratti. Nel caso di Soutine il termine
espressioista è veramente insufficiente. Egli infatti non si curava delle avanguardie e dichiarava di
interessarsi solo ai classici. I temi a lui cari furono sempre gli stessi. I paesaggi hanno un aspetto
apocalittico e tempestoso. Le nature morte sono quasi esclusivamente animali, selvaggine, pesci,
bestie da macello. Quel che è certo è che egli era attirato dai processi di decomposizione, di
graduale passaggio dalla vita alla morte. Dal momento che dipingeva dal vero, acquistava buoi
squartati dai mattatoi e li appendeva nel suo studio, cosa che gli provocò guai con i vicini. Si dedicò
con estrema sensibilità anche al ritratto, i suoi soggetti non erano personaggi famosi o amici
collezionisti ma chierichetti, pasticcieri, fattorini. Tutti avevano in comune la divisa, che era
richiesta in numerosi lavori artigianali. L’uniforme non solo rendeva anonimo il soggetto e lo
classificava socialmente ma offriva all’artista anche il pretesto pittorico per usare una tavolozza di
colori accesi fra cui primeggiava il rosso. Gli sfondi sono uniformi e dalle divise emergono solo
faccia e mani, quasi sempre incrociate sulle gambe, spesso eccessivamente grandi e protese in
avanti, tormentate da pennellate contorno e dai colori lividi. Anche i visi risultano deformati,
guardati a fondo, scorticati come nel corso di un’autopsia. Soutine rimase una sorta di sradicato
che seppe elaborare procedimenti tecnici originali ripresi da molti artisti del secondo dopoguerra.
Un piccolo cantore della gioia di vivere arrivò a Parigi nel 1910. Marc Chagall familiarizzò con
Modigliani e Soutine, conobbe Apollinaire e incominciò a studiare con diligenza tutti gli stimoli che
la capitale francese gli offriva nel campo delle avanguardie. La meraviglia è uno dei punti forti
anche dello Chagall pittore. Non lo si può definire espressionista perché il colore non è l’unico
protagonista dei suoi quadri, fitti di simboli personali continuamente ripetuti e perché non fece
mai parte integrante di quella cerchia; il Cubismo lo interessò ma il tipo di scomposizione
dell’immagine a cui giunse nei suoi quadri maturi aveva a che fare con ciò che accade dentro la
mente: il modo in cui frammentiamo i ricordi, li lasciamo affiorare, li sovrapponiamo uno all’altro,
lo interessava assai meno ciò che ossessionava i Cubisti. L’influenza della psicoanalisi, che fu tanto
importante per quel movimento per lui fu nulla: le sue immagini non procedono per associazioni
inconsce ma per ricordi ben consapevoli dei luoghi della sua infanzia. Nei suoi quadri un
vocabolario di immagini si ripete come parole in una poesia, le figure risultano spesso capovolte, o
distribuite senza alcuna prospettiva, lo spirito che ne esce è primitivo o forse ingenuo. La sua
spontaneità piacque agli Espressionisti tedeschi, ma non può essere assimilato a quel mondo di
decadenza e sofferenza che fu proprio di Soutine e Modigliani. Nel suo Autoritratto con sette dita
lo vediamo dipingere nel suo studio non ciò che vede dalla finestra ma ciò che vede in una nuvola
di pensieri rappresentata al polo opposto della finestra: un villaggio russo con la sua chiesa a cui
aggiunge nella tela, una mucca e una contadina. Sette dita sono le stimmate dell’artista, la sua
capacità magica. Le favole rimasero per sempre il suo stimolo più importante. Non si può dire che
egli sia stato determinante per lo sviluppo del linguaggio artistico del suo tempo: senza il suo
contributo, forse la storia dell’arte sarebbe stata la stessa. Il caso Chagall è significativo proprio per
la sua indipendenza per l’impossibilità di sottomettersi a una regola cosi come di trasmetterne.
Il problema era quello di superare un modo di progettare che aveva come riferimento la geometri
rigida, disegnata e concepita su fogli bidimensionali, il cui risultato erano costruzioni che
occupavano lo spazio senza veramente appropriarsene. Il proposito fu di allargare gli ambiti
creativi attingendo soprattutto al Barocco. Si cercò di introdurre una concezione dell’architettura
che prendesse uno spunto maggiore dalla scultura e che dimenticasse la tendenza a progettare per
moduli ripetitivi. La corrente espressionista in architettura è stata lungamente sottovalutata. In
seguito è stata rivalutata come precorritrice della corrente neobarocca, trionfata soprattutto in
certa architettura brasiliana, negli anni novanta alcuni critici l’hanno considerata come un punto di
partenza saliente per l’Action Architecture di fine secolo e per il caos organizzato che la
caratterizza. Secondo questa prospettiva la tendenza espressionista più che scomparire sarebbe
entrata dalla metà degli anni Venti in un letargo dal quale poi si è risvegliata a più riprese. Un vasto
gruppo di architetti di area tedesca sentì la necessità di allontanarsi dall’estetica fredda e rigida
aderendo a una forma d’arte più mossa, meno guidata dai principi dell’utilità e della funzione, a
suo modo più pittoresca. In quest’ambito le qualità plastiche del cemento vennero utilizzate per
creare forme nuove fino a introdurvi la cosiddetta quarta dimensione dell’architettura, cioè il senso
del movimento. Il linguaggio che ne derivò fu ribelle ai principi del classicismo e fu incline ad
accettare le eccezioni alla regola, i suggerimenti delle architetture locali e spontanee, gli stimoli
che provenivano da sensazioni personali e persino da favole e sogni.
Peter Behrens si formò come pittore e passò all’architettura attraverso le arti applicate. Lo si
ricorda soprattutto come iniziatore di una nuova estetica dell’industria. I suoi edifici industriali
appaiono rilevanti perche furono i primi casi in cui chiaramente si assegnava un valore simbolico al
nuovo mondo del lavoro: come a dire che i centri del potere dove si produceva la ricchezza e dove
prendevano corpo le nuove gerarchie sociali, dai dirigenti ai proletari erano drasticamente cambiati
rispetto a un tempo appena precedente. Gli edifici che ospitavano la direzione delle industrie di
fatto stavano rimpiazzando il prestigio dei castelli.
Un altro protagonista fu Bruno Taut che fu tra i primi a rivendicare all’architettura un ruolo sociale
e politico attivo inoltre diede grande importanza alla relazione tra forme architettoniche e forme
naturali. In quest’ottica, vetro e ferro dovevano essere utilizzati un po come la natura utilizza le
strutture cristalline.
Ricordiamo anche Rudolf Steiner, egli rinnovò una disciplina, l’Antroposofia, i cui principi ebbero un
eco non trascurabile. Nel suo Goetheanum di Dornach modellò il cemento armato in tutte le
direzioni con effetti drammatici ed espressivi. Sul piano teorico fu lucido Hugo Haring, secondo il
suo parere l’oggetto architettonico deve nascere come un organismo e deve adattarsi alle sue
funzioni anche nella forma esterna. A questo scopo va abbandonata ogni estetica precostituita
come l’idea che le forme geometriche regolari come quadrati e parallelepipedi siano più belle di
forme irregolari. La casa va considerata un utensile la cui forma nasce dalle diverse funzioni e dalla
sua identità di luogo vissuto.
IL CUBISMO cap 4
All’inizio del Novecento l’immagine che si aveva dell’universo era radicalmente diversa da quella
che se ne aveva in precedenza. Il microscopio, telescopio stavano rivoluzionando il modo di vedere.
La rivoluzione scientifica annunciata dalle scoperte di Albert Einstein che nel 1905 propose la
prima visione della teoria della relatività: l’uomo del Rinascimento aveva un’idea più chiara e
ordinata del cosmo in cui viveva rispetto all’uomo del XX secolo il cui habitat andava
configurandosi come un insieme di frammenti. Come avrebbe potuto l’arte visiva non tenere conto
di mutamenti tanto grandi? L’arte visiva è stata partecipe di questa grande rivoluzione cognitiva ma
è con il movimento normalmente denominato Cubismo che la cesura con il passato si presenta
irreversibile e netta. Tra gli impressionisti un solo pittore Cezanne comprese pienamente che cosa
c’era di incompleto nell’Impressionismo. Egli sentì la necessità di rinnovare forma e disegno per
uguagliare il nuovo colore degli impressionisti. Questa era l’idea di Fernand Leger, uno dei
protagonisti principali del movimento cubista avvertendo la necessità di ritornare a guardare le
cose con minore eccitazione rispetto agli Espressionisti e con riferimenti ad autori classici. Il
cubismo ha avuto il suo punto di riferimento più vicino in Cezanne. Gli impressionisti avevano
rinnovato la maniera di trattare il colore. Cezanne aveva indicato che non solo il colore ma anche la
forma, il disegno, il modo di costruire lo spazio figurativo andava rinnovato rispetto all’arte dei
secoli precedenti. Nella sua stessa pittura aveva cercato di ridurre il visibile alle sue componenti
geometriche semplici. Le premesse stavano in molta parte della cultura classica in particolare
come la natura fosse costituita di strutture geometriche semplici destinate a comporsi tra loro. Ma
nessuno prese alla lettera le indicazioni di Cezanne: di fatti i cubisti non dipinsero mai sfere e
cilindri cioè forme curve ma privilegiarono forme che appunto furono definite cubi. Ma Cezanne
aveva anche cercato di costruire un nuovo tipo di prospettiva, soprattutto nella serie dedicata alla
Montaigne Sainte-Victoire: lo spazio veniva reso a prescindere dalle linee,creando un tessuto di
pennellate che correva dalle cose vicine a quelle lontane, una trama che si faceva sempre più fitta,
ma anche meno precisa. Cezanne aveva abbassato il tono del colore e aveva ridotto la sua
tavolozza ai soli blu, ocra, verde; la riduzione del colore è un procedimento tipico di chi cerchi una
ricerca razionale. Dunque era tempo di ripensare al disegno, alla linea, alla costruzione dello
spazio, occorreva ripensare che cosa fossero un quadro o una scultura. Gli artisti si appassionarono
ad argomenti suggestivi come quello della quarta dimensione, definito da Guillaume Apollinaire.
Altri artisti interpretarono la quarta dimensione come la possibilità di ritrarre il movimento
attraverso un’immagine ferma e di mettere in evidenza i punti di vista da cui un oggetto o una
persona possono essere visti da posizioni diverse dell’osservatore. Dalle discussioni sulla quarta
dimensione nacque anche quella poetica della simultaneità. Il Cubismo non produsse manifesti
programmatici: le prime realizzazioni in pittura partirono nel 1907. Si può parlare di un movimento
unitario solo in relazione alle grandi mostre che lo presentarono al pubblico di Parigi: il Salon des
Independants del 1911, il Salon d’Automne del 1911, Il Salon de La Section d’Or del 1912. A queste
parteciparono gli artisti che si erano avvicinati alle ricerche di Pablo Picasso, Georges Braque: il
gruppo dei Cubisti comprese Albert Gleizes, Jean Metzinger, Francis Picabia, Auguste Herbin, Henry
Le Fauconnier, Andrè Lhote, Marie Laurencin, Robert Delaunay, Luois Marcoussis, Roger de la
Fresnaye, Marcel Duchamp, Fernand Leger, Juan Gris. A nessuna delle mostre principali cubiste
parteciparono i due inventori del movimento, Pablo Picasso e Georges Braque. Kahnweiler voleva
fosse chiaro che Picasso e Braque avevano inventato il nuovo stile mentre gli altri lo avevano solo
approfondito. Il termine Cubismo venne inventato a proposito della pittura di Braque: Matisse
aveva visto dei paesaggi di Braque come fatti a cubetti. L’atto di nascita del Cubismo come maniera
di dipingere piatta, geometrica, tendente a una deformazione del soggetto viene spostato all’anno
precedente, lo si identifica con le Demoiselles d’Avignon di Picasso. Il quadro rimase nello studio
dell’artista dove fu visto dagli amici e colpì Braque: il suo primo giudizio fu negativo poi si
trasformò in entusiasmo. I due artisti poi divennero inseparabili creando spesso quadri difficili da
attribuire all’uno o all’altro e inventando nuove tecniche. Il sodalizio finì proprio mentre il Cubismo
stava diventando di moda. (lettura immagine pag 112-113)
Pablo Picasso era nato nel 1881 ed era dotato di un talento spiccato per il disegno. Egli studiò un
poco col padre e poi a Madrid. Tenne la sua prima mostra nel 1901 a quel tempo Picasso era gia in
grado di vendere i suoi quadri ed era artisticamente maturo come dimostra la potenza di un
ritratto come La Signora in Blu: tradizionale nell’impianto, originale in particolari come il braccio
teso in orizzontale, lo sfondo piatto, lo sguardo folle. Nel 1904 scelse definitivamente la Francia e
trovò casa a Montmartre. Alcune mostre lo impressionarono profondamente come la
retrospettiva di Seurat, i pastelli decorativi di Odilon Redon, la mostra di Van Gogh ecc.. Tutte
queste suggestioni si assommano a ciò che vedeva per strada e che dipingeva con vena
malinconica nei quadri del periodo blu: un’umanità povera meno illusa come appare dal confronto
tra il suo Assenzio e opere come Pasto frugale ma addosso a personaggi come Madre e figlio non ci
sono più tulle né pizzi dozzinali: solo stracci. La descrizione dell’essenzialità passa anche attraverso
il colore: la tavolozza non accoglie che il blu in tutti i suoi toni. Quando cambiò colore scelse il rosa
con qualche tocco di marrone e di bianco. A riscattare la povertà restano solo i legami affettivi
come nelle numerose rappresentazioni di teatranti di strada: Arlecchino è colui che dalla necessità
di ricucirsi il vestito, toppa su toppa, tira fuori un abito variopinto da esibire anche sul letto di
morte. Del resto la figura del giullare è sempre stata anche un simbolo di libertà delle regole sociali
più opprimenti, di anarchia, di protesta pacifica. Riguardo alla tecnica nel periodo rosa Picasso
affievolì la flessuosità quasi liberty delle figure blu e gli sguardi profondamente espressivi: è cosi
che incominciò quel processo spietato e determinato per cui l’artista andò progressivamente
eliminando dai quadri ogni aspetto decorativo. I dipinti si fanno sempre più secchi con linee
geometriche e riduzione dei volumi: lo dimostra il Ritratto di Gertrude Stein in cui l’artista evitò la
prospettiva e rese i tratti del viso asimmetrici. I busti di donna e soprattutto gli autoritratti sono
ancora più piatti e semplificati: scompare anche l’effetto di luce e volume che animava la fronte
della Stein, compare invece il primo tributo all’arte africana, di cui approfondì la conoscenza
visitando l’importantissimo Museo etnografico del Trocadero. Nel percorso che conduce dagli
esordi alle Demoiselles d’Avignon e al Cubismo, colpisce la rinuncia di Picasso all’abilità imitativa e
alle norme accademiche. Egli era assolutamente consapevole del suo talento. Il rischio di questa
abilità era di rimanere prigioniero restando a vita un copista eccellente. Dovette gettare via la sua
mano per dipingere con la mente cioè in maniera meno meccanica.
Georges Braque dopo essersi trasferito a Parigi aveva formato un gruppo di impronta fauve. Nel
1908 presso Marsiglia incominciò ad applicare al paesaggio la frammentazione analitica della
visione che aveva visto in Cezanne. Di qui il termine Cubismo analitico spesso usato come categoria
anche per la pittura di altri. Il suo sodalizio con Picasso durò qualche anno. Il 1910 Braque e Picasso
cominciano insieme a introdurre nei quadri la piattezza dei volumi, la perdita degli effetti di
chiaroscuro, la progressiva riduzione dei colori e il principio della simultaneità che divenne il
marchio di fabbrica del Cubismo: la sovrapposizione in una stessa immagine di molti punti di vista.
Un naso può essere visto di profilo e di fronte uno stesso oggetto dall’alto e di lato, una sintesi di
molti punti di vista e non una sola immagine. Le opere iniziarono a essere concepite per piani
sovrapposti. I due artisti erano consapevoli del fatto che questo sguardo analitico sulle cose
allontanava i loro quadri dal realismo comunemente inteso e dal rapporto con la natura. Si può
dire che il Cubismo è frutto proprio di questo consapevole distacco. Insieme Braque e Picasso si
dedicarono soprattutto alle nature morte in spazi interni, riducendo la tavolozza ai soli toni del
bruno e del grigio. Picasso aveva un senso più spiccato del volume scultoreo e del movimento
Braque dipingeva in modo più statico e lirico. Entrambi portarono il soggetto del quadro a livello di
un semplice pretesto per la scomposizione delle forme. Nel 1911 Braque iniziò a introdurre nel
quadro anche lettere dell’alfabeto. Picasso e Braque incominciarono un gioco di rilanci e
introdussero a ritmo incalzante altre invenzioni: imitazioni di legno e di marmo. Cosi giunsero al
collage, cioè ad appiccicare sula tela del legno, della carta da parati, delle stoffe: inutili imitarli se è
possibile attaccarli direttamente. L’imitazione del legno e altri elementi producono anch’essi il loro
effetto attraverso la semplicità dei fatti ed è questo che ha indotto la gente a confonderli, cosi il
vero si mescolava al finto, il reale al dipinto mentre il quadro diventava un oggetto anch’esso, fatto
di materiali diversi. Tutto il Cubismo si sviluppò attorno a due poli: da una parte la descrizione
dell’oggetto rappresentato visto da ogni angolazione possibile, dall’altra parte l’astrazione rispetto
all’oggetto stesso e il desiderio di usarlo come pretesto per rinnovare e liberare il linguaggio della
pittura. Di fronte a quadri come Natura morta con banderillas di Braque il suonatore di fisarmonica
e Mandolino e clarinetto di Picasso inizia a non avere più molto senso porsi la domanda “cosa
rappresenta” in generale, L’attenzione si sposta sul metodo non sul cosa ma piuttosto sul come. La
migliore introduzione al proseguimento della carriera di Picasso ci viene offerta dal fatto che
l’artista ha sempre usato il massimo della libertà anche se questo ha dato del suo lavoro
un’immagine non sempre coerente. Il suo furore creativo lo ha condotto a creare circa 20000
opere tra quadri, sculture, ceramiche e incisioni. La Prima Guerra Mondiale mutò completamente
gli equilibri. Nel 1917 l’artista compì il suo viaggio più significativo in Italia. L’obiettivo era disegnare
i costumi e lo scenario del balletto Parade con la tendenza a mettere in connessione pittura, danza,
musica e altre discipline creative. L’incontro con l’Italia portò Picasso a una pittura classicista che si
espresse soprattutto in figure femminili monumentali dolci con senso del volume: un esempio ne
sono le Donne che danzano sulla spiaggia. Elementi di poetica surreale si incontrano nelle opere di
questo periodo ma Picasso non aderì a una poetica fondata sul sogno e sull’irrazionale. Alla fase
classicista fece seguito un momento di pittura violenta, che ritornò con ben più gravi motivazioni in
Guernica. Fu allora che l’impegno sociale del primo Picasso si trasformò in un coinvolgimento
anche politico. Dal 1946 Picasso si trasferì da Parigi dove iniziò una intensa attività di ceramista, di
incisore di illustratore e si dedicò ai rifacimenti di opere dei maestri del passato. I ritratti rimasero
per tutto l’arco della sua carriera un punto fermo, in cui profuse quell’attitudine di colorista che si
era invece negato riguardo ad altri soggetti. Un altro grande settore di ricerca fu per Picasso la
scultura nella quale spaziò senza confini tecnici: passò dalla manipolazione della ceramica alla più
classica lavorazione in bronzo, fino alla realizzazione di alcune opere con oggetti trovati come la
Testa di Toro ottenuta con un sellino e un manubrio di bicicletta. L’ultima parte della sua
produzione che alcuni critici hanno ritenuto decadente ruotò intorno al rapporto tra pittore e
modella e dunque a una riflessione sull’identità e il ruolo dell’artista. (lettura immagine pag 122-
123)
Una versione estremamente cerebrale del Cubismo è stata quello dello spagnolo Juan Gris. Nei
primi anni si mantenne pubblicando disegni umoristici. La sua pittura fu fondata essenzialmente
sui rapporti di geometria e sulla capacità di trasformare le forme prime del pensiero visivo in forme
attuali del mondo esterno. Il suo genere preferito era quello della natura morta e seppe fornire
versioni molto originali del papier collè. L’appiattimento delle superfici è particolarmente
apprezzabile nella versione dall’alto che compare in Chitarra su un tavolo mentre la costruzione di
una prospettiva che corre dal vicino al lontano, dallo spazio chiuso a quello aperto appare
protagonista di Natura morta con la finestra aperta.
Fernand Leger ebbe una vita susseguita di dispiaceri, il che lo ha portato ad avere un
comportamento scoraggiato tanto da distruggere gran parte della sua produzione precedente al
1907. Nel 1908 si stabilì nel quartiere parigino di Montparnasse. Il suo lavoro venne guardato con
sospetto quasi da tutti. Il critico Vauxcelles lo apostrofò come tubista perché le sue figure avevano
l’apparenza di tubi. Solo Picasso ne prese le difese. La sua pittura era a quel tempo molto fluida,
brulicante di volumi e tesa a suggerire il movimento. I colori erano misti, il suo stile mutò dopo la
prima guerra mondiale. Al ritorno della guerra Leger si era convinto che l’artista dovesse rientrare
in relazione con il pubblico. A questo scopo si dedicò a una pittura centrata sui nuovi mezzi di
produzione e di trasporto. La città mostra campiture di colori decisi senza più pennellate o toni
intermedi. L’attenzione è tutta rivolta a quanto accade nella metropoli, dai manifesti alle insegne
alla metropolitana. Il soggetto-pittore si fa da parte: la sua personalità passa in secondo piano e
con essa le pennellate espressive, l’emozione dettata dalle ombre, i colori sfumati. Prendono corpo
personaggi che descrivono il mondo del lavoro e molto spesso il soggetto dell’opera diventa un
oggetto. Leger era ormai consapevole del valore crescente che gli oggetti avevano assunto nel
mondo occidentale: non più strumenti di lavoro ma anche merce che fa girare l’economia. Rimase
in lui viva l’ammirazione per alcuni maestri classici di cui apprezzava la razionalità. Dipinse quadri
monumentali nell’intenzione come la Donna con il libro in cui una figura femminile guarda lo
spettatore con la sacralità di una dea classica. Il colore gli sembrò rilevante al fine do creare il senso
dello spazio la dove prima non esisteva. Deciso anche dalle sue convinzioni ideologiche ad
abbattere il mito dell’artista-profeta.
Picasso e Braque avevano volutamente lasciato da parte il colore forte dei Fauves. Un gruppo di
artisti a loro vicini, però ritenne importante cercare di conciliare questo acceso cromatismo con un
altro aspetto che stava arrivando all’attenzione dei pittori: quello del movimento. Questa
compagine aveva come obiettivo quello di costruire quadri fondati su rigorosi rapporti geometrici
senza rinunciare alla vitalità del colore. Battezzarono il loro gruppo “Section d’Or”, tra i promotori
comparivano Raymond Duchamp-Villon, Marcel Duchamp, Roger de la Fresnaye, Fernand Leger e
Marie Laurencin.
La guida della Section d’Or fu Robert Delaunay che aveva iniziato a dipingere in maniera pressochè
autodidatta, partendo da uno stile neoimpressionista e da un puntinismo alla Seurat. Nella sua fase
cubista allargò il suo orizzonte alle vedute delle città e alla sua architettura e in particolare alla
ripartizione dello spazio delle costruzioni gotiche. Il suo soggetto di osservazione più ricorrente era
comunque la Tour Eiffel: quello stelo di ferro, monumento alla modernità e al progresso, gli dava
una sensazione di vertigine e lo stupiva con le sfumature di luce che filtravano dalla sua griglia in
diverse ore del giorno e con diverse intensità luminose. Fu il soggetto che dipinse più spesso nel
1910. Attraverso questa memorabile serie Delaunay intuì che il colore è già da solo in grado di
creare ritmo e movimento: a quel punto non gli occorreva un oggetto da descrivere. Partendo dal
Cubismo, Delaunay era arrivato all’arte astratta. A questo punto l’unità di base della sua pittura
diventò il disco: non solo simbolo del sole e della luce, ma anche allegoria della modernità in
quanto ruota, elica, ingranaggio. I dischi che iniziarono a comparire sui suoi quadri erano costruiti
sull’accostamento di colori, complementari e sul rapporto con altri dischi, nonché sul contrapporsi
sulla tela di spessori diversi di materia per ciascun colore. La sua nuova pittura si proponeva come
una sorta di eresia del Cubismo,fatta di ritmi rotatori che la ponevano in relazione con la musica, di
qui la definizione di Cubismo orfico. Delunay ebbe un’influenza notevole sui suoi contemporanei,
in particolare gli si strinsero intorno i componenti del Blaue Reiter, come Auguste Macke, Paul
Klee. Delaunay non ebbe mai il coraggio di definire le proprie opere decisamente astratte,
l’evoluzione successiva della sua pittura lo ricondusse verso la figurazione. Molti storici assegnano
a Delaunay un ruolo di passaggio tra il Cubismo e l’Astrattismo.
All’evoluzione stilistica di Delaunay contribuì in modo decisivo la moglie Sonia Terk Delaunay, ella
produsse quadri completamente astratti come il celebre Prismi elettrici fatto di composizioni
circolari dai colori vibranti e ispirato a un testo lirico del poeta Blaise Cendrars. L’insieme evoca
l’effetto dell’illuminazione elettrica che rischiarava la notte parigina, quella luce che consentiva di
vivere la notte tanto intensamente quanto il giorno. Negli anni venti lavorò intensamente come
disegnatrice di tessuti ed ebbe un notevole impatto sul mondo della moda. L’ispirazione iniziale è
sovente un acquerello di carattere astratto. Il fatto di essere donna in un contesto in cui la pittura
era affare soprattutto da uomini, ne limitò forse l’opera ma paradossalmente costituì anche un
vantaggio. Vivace e aperta a discipline diverse dalle arti belle ma forse proprio per questo in
costante contatto con i gruppi dell’avanguardia teatrale, realizzò i costumi per il balletto Cleopatra.
Nella cerchia della Section d’Or vi era anche Frantisek Kupka, gia durante l’adolescenza si era
invaghito dello spiritismo e si era convinto di possedere capacità medianiche: mentre studiava
storia dell’arte si occupava di scienze occulte. Come pittore iniziò a dipingere alla maniera dei
Simbolisti ma ben presto iniziò a dedicarsi alle ricerche cinetiche applicate alla pittura: dipingeva
secondo il principio della ripetizione ritmica di immagini geometriche lungo fasce verticali. Kupka
lavorava in accordo con la convinzione di origine teofisica secondo cui l’essenza della natura
starebbe nel suo manifestarsi come un ritmo di forze geometriche. La concezione di fondo era che
la natura fosse dotata di una energia spirituale che ne determina le leggi e le forme. L’artista in
quanto individuo dotato di una sensibilità fuori dall’ordinario, avrebbe il compito di rendere visibile
questa energia primordiale e i suoi moti. Kupka non fu molto apprezzato mentre il suo contributo
alla nascita dell’arte astratta è stato rivalutato durante il secondo dopoguerra. Insieme ai dischi
simultanei di Delaunay e alle opere geometriche di Kupka si dovrebbero ricordare anche alcune
opere decisamente astratte che furono eseguite negli stessi anni da Giacomo Balla. Molti storici
però le considerano descrizioni simboliche del cosmo. L’evoluzione successiva di Balla, che ritornò
pienamente alla figurazione, e per questo l’autore italiano non viene generalmente inserito tra i
pioneri dell’Astrattismo. Una delle caratteristiche delle avanguardie storiche fu la consapevolezza
programmatica riguardo alle proprie ricerche, espressa in una molte di manifesti.
Sembra paradossale che il Cubismo abbia avuto molta influenza sulla pittura, ma molto meno nella
scultura. In realtà la scultura non si poneva il problema della simultaneità delle visioni di uno stesso
oggetto da vari punti di vista. I maggiori esponenti furono:
-Jacques Lipchitz può essere considerato il primo scultore ad avere cercato di tradurre nelle tre
dimensioni le tematiche del primo Cubismo: applicò i principi della scomposizione e del richiamo
alla sintesi africana in opere come La danzatrice.
-Alexander Archipenko in opere come Carousel Pierrot ha analizzato la figura umana
scomponendola in figure geometriche e inserendo nella massa piena dei vuoti delle concavità,
interpretò il senso del suo collage in sculture di materiali diversi.
-Ossip Zadkine inserì nelle sue sculture cavità e vuoti dando alle sue opere un carattere più
drammatico rispetto agli altri scultori del gruppo. Il monumento a una città distrutta, un enorme
bronzo in cui prevale un senso di disequilibrio disperato,è visto come uno dei più impressionanti
esempi di scultura commemorativa del secolo.
-Un caso a parte è Julio Gonzalez ricordato per essere stato il primo scultore ad avere usato su
larga scala il ferro, materiale moderno. Vicino a Picasso lavorò spesso con lui. Iniziò il suo stile
maturo solo negli anni venti, a 50 anni. Ha lasciato capolavori come Montserrat, una maternità
dalle forme relativamente morbide che allude al dolore delle madri rimaste sole dopo la guerra ma
anche composizioni più spigolose e drammatiche.
Constantin Brancusi è il più celebre scultore francese, lavoratore tenace e solitario. È impossibile
inserire la sua poetica all’interno di un gruppo o di un movimento. Essa può essere accostata al
Cubismo per la tendenza a ridurre le cose alla loro sintesi estrema, ma Brancusi negò ogni legame.
Lo scultore aveva iniziato il suo periodo ispirandosi alle superfici rotte di Rodin. Le sue superfici
divennero sempre più lisce e sensibili al passaggio semplificato e per questo potente della luce. Dal
1907 iniziò a crearsi uno stile che dipendeva dalla conoscenza della scultura primitiva africana e
dalla convinzione che ciò che è reale non è la forma esterna ma l’essenza delle cose. I temi sui quali
esercitò la sua tecnica furono relativamente pochi: gli abbracci, le teste, gli uccelli, ridotti in forme
tanto scarne da rasentare l’astrazione e da evocare una potenza simbolica universale. Opere come
Il neonato, L’Origine del mondo, La musa che dorme, rappresentano teste ridotte in forma d’uovo,
correlate alla fecondazione e alla nascita. Data questa attenzione per la vita e i suoi processi
riproduttivi, non fu un caso lo scandalo suscitato da una scultura del 1920 la Principessa X rimossa
perche poteva ricordare un fallo. Il bacio allude alla capacità misteriosa di creare una vita nuova
dalla congiunzione di due esistenze separate. Un altro elemento saliente del suo lavoro va
identificato nel trattamento innovativo della base, croce di tutta la scultura del Novecento. In
un’opera come Il Busto di ragazzo lo zoccolo diventa il generatore formale della parte figurativa
dell’oggetto, quasi esso stesso una figura umana, nella Colonna senza fine la distinzione tra zoccolo
e scultura non c’è più. Nella Maiastra un uccello magico assiste gli eroi nelle loro imprese, il
materiale di zoccolo e scultura è lo stesso. La figura è dominata dalle curve, da una figura
geometrica che è rigido simbolo della stabilità, si passa poi a un cilindro in cui compare la linea
curva. La base è ancorata alla terra, alla solidità, alla ragione, la figura è legata al cielo,
all’irrazionale. La Maiastra rappresenta allora l’unione di queste polarità ma solo se base e figura
vengono considerate inscindibili. Un ulteriore contributo di Brancusi riguarda il suo modo di
esporre,proteggere il suo lavoro: si liberava delle sue opere che voleva sempre avere attorno a sé
nel suo studio. Questo era dipinto di bianco, un ambiente asettico nel quale spiccavano solo le
sculture.
IL FUTURISMO cap 5
Il Futurismo nacque come movimento letterario: a redigerne le premesse teoriche infatti fu Filippo
Tommaso Marinetti, che aveva compiuto i suoi primi studi a Parigi, scriveva prevalentemente in
francese e conservò sempre contatti con il mondo intellettuale nella capitale. Nato da una ricca
famiglia milanese, Marinetti aveva avuto la possibilità di condurre una vita da dandy. Il suo
pensiero era nutrito dalle teorie sulla volontà di potenza e sull’oltreuomo enunciate da Nietzsche.
Di lui si è detto di tutto: per alcuni è stato un ciarlatano esaltato, per altri un genio capace di
rinnovare il linguaggio poetico. I suoi esperimenti di scrittura sono stati una fonte rilevante per la
letteratura del Novecento. Certamente non gli mancarono due doti: una eccezionale capacità
provocatoria e la qualità del leader. Inoltre possedeva abbastanza denaro per organizzare una
colossale promozione delle sue idee a livello internazionale. Marinetti aveva già ben compreso il
potere della pubblicità, dei metodi di propaganda che fino ad allora erano stati usati solo per le
comunicazioni commerciali. Fu il primo esponente delle Avanguardie a cercare il coinvolgimento di
un pubblico che non fosse solo quello colto e specializzato. Questo connubio tra azione e scrittura
ne ha fatto un indiscusso precursore dell’arte fondata sul comportamento dell’artista e sul suo
stesso corpo: invaghito di un ideale di arte totale, che avvolge e penetra tutti i settori della vita,
cercò persino di dettare come dorme un futurista, come cammina un futurista, come mangia un
futurista. Appassionato dal rapido scorrere degli eventi in ogni campo, Marinetti ritenne di dover
essere figlio del proprio tempo in modo cosi entusiasta da toccare il grottesco: amava le macchine
a cui attribuiva addirittura significati simbolici, attaccava la storia, il passato, la tradizione in ogni
sua manifestazione. In campo politico era nazionalista, dichiarandosi in modo fervente a favore
dell’intervento in guerra. Alcuni storici sostengono persino che gli atteggiamenti, gli slogan, i
metodi più provocatori adottati dal Fascismo avessero avuto come matrice il suo pensiero estetico.
Dal 1870 l’Europa aveva attraversato un periodo di pace e di equilibrio politico e la generazione
cresciuta in quegli anni non aveva idea degli orrori della guerra. Questa era vissuta in senso
romantico, astratto, patriottico. Nel 1914 si aprì lo scenario della Grande Guerra, lo spirito futurista
fu del resto vittima in molti sensi della guerra: alcuni suoi esponenti vi morirono, altri subirono
violenti contraccolpi psicologici e il movimento non potè che esaurire parte della sua carica
provocatoria. In un primo tempo Marinetti non pensava che le arti visive potessero essere un buon
veicolo alle sue idee, poi coinvolse giovani pittori e scultori e capì che il linguaggio visivo aveva
maggiori possibilità di quello letterario di farsi conoscere a livello internazionale. A Milano
Marinetti trovò alcuni giovani artisti che giudicò dotati di temperamento futurista: Umberto
Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Gino Severini. A un anno di distanza dal primo
manifesto di Marinetti uscì sulla rivista Poesia il Manifesto della pittura futurista firmato da
Boccioni, Russolo, Balla, Severini e Boccioni. Quanto alla pratica artistica di fronte a una teoria così
centrata sul culto della modernità lo stile divisionista si mostrò subito inadeguato. Una fonte
importante alla quale attinsero i pittori futuristi furono le fotografie sequenziali scattate da Marey
e Muybridge. Il rapporto più importante e discusso del Futurismo avvenne con il Cubismo. Fu
proprio Severini che mise i colleghi in relazione all’ambiente artistico parigino e sollecitò un viaggio
di aggiornamento sulle rive della Senna. Ciascun esponente ne trasse spunti personali ed elaborò
una poetica autonoma dagli altri e anche dal pensiero di Marinetti. Il Cubismo insegnò a infrangere
gli oggetti rappresentati in pittura, a liberarsi dal puntinismo e a trattare il colore in modo meno
sgargiante. Rispetto al Cubismo, comunque, i Futuristi trattarono sempre il soggetto dei loro quadri
con una maggiore attenzione all’aspetto metaforico: tendevano sempre a scegliere temi di forte
spessore simbolico. Rispetto ai Cubisti, i Futuristi cercarono di immettere nelle loro opere la forza
del movimento declinato su un doppio binario: il dinamismo proprio degli oggetti e quello interno
ai soggetti, gli stati d’animo di chi percepisce. I Cubisti erano preoccupati di risolvere problemi
formali legati al rinnovamento della rappresentazione e davano luogo a immagini tendenzialmente
statiche, come è chiaro dai soggetti che prediligevano nature morte o ritratti. I futuristi
desideravano invece mostrare la velocità e lo scontro di forze, a questo fine utilizzavano come
soggetti le macchine, la città ecc.. il Cubismo nacque dal lavoro schivo di due uomini, Picasso e
Braque che erano restii a mostrare al pubblico le loro opere. Al contrario, i dipinti futuristi
nascevano da un gruppo di artisti chiassosi, ansiosi di proclamare a voce alta la loro volontà di
rivoluzionare il mondo. I futuristi non cambiarono il mondo ma almeno, pur risultando esclusi dai
Salon e dalle riviste più importanti del tempo, esposero con una mostra che viaggiò in varie città
del Nord Europa. Fu attraverso i Futuristi che l’Italia riuscì a inserirsi nel contesto delle avanguardie
internazionali. L’Italia del periodo giolittiano ebbe una enorme espansione industriale e subì
mutamenti sociali fortissimi, con la nascita di un proletariato urbano senza precedenti. I talenti più
vivi in molti campi rimasero impigliati nel provincialismo o dovettero andare all’estero a farsi
conoscere e amare. Del resto la debolezza dello Stato Italiano nel difendere più che nel generare le
tendenze culturali più vivaci, è stata e resta un motivo per il quale il Futurismo ha avuto
riconoscimenti minori rispetto al suo potenziale innovativo. Il contributo futurista alle avanguardie
è stato a lungo sottovalutato . Dato questo stato di debolezza fu un peccato d’orgoglio presentarsi
come gruppo italiano invece di inserirsi decisamente nel contesto internazionale parigino. Gli
storici dell’arte italiani e stranieri sono rimasti in seguito scandalizzati dall’adesione entusiastica
alla guerra,dapprima e poi al fascismo da parte dei componenti del movimento. Nel campo della
tecnica i Futuristi furono preveggenti riguardo all’uso di materiali comuni per la creazione delle
opere d’arte prevedendo l’abbandono dei materiali classici e promuovendo l’utilizzo di materiali
anomali quali fili metallici, di cotone, seta.
Umberto Boccioni visse in città diverse durante tutta l’età formativa e ciò non fu di scarsa
importanza perché crebbe con una mentalità priva di localismi ce aperta alla cultura
internazionale. La sua formazione artistica avvenne prevalentemente a Roma dove venne in
contatto con le Avanguardie letterarie locali. Dopo si stabilì definitivamente a Milano. Il suo stile
subì varie fasi fino all’approdo futurista, nel 1909 che abbracciò la sua produzione maggiore si
inquadra dunque tutta nell’ambito di sette anni, fino alla morte per una caduta da cavallo. I suoi
principi si sono espressi nel libro Pittura scultura futuriste: Dinamismo plastico. Il suo primo
capolavoro di impronta futurista fu la versione definitiva de La città che sale, un quadro che
rappresenta un cantiere alla periferia di Milano. Il titolo allude alla costruzione di nuove aree ma
anche al moto di ascesa metaforica dell’ambito urbano. L’ambiente e le figure si fondono in un
insieme inscindibile dando corpo a quanto era già stato scritto nei manifesti riguardo alla
compenetrazione tra figura e sfondo. Il dipinto mostra l’inizio della ricerca, nelle parole di Boccioni
di “una sintesi di quello che si ricorda e quello che si vede”. Nel 1911 compose La strada che entra
nella casa in cui l’artista rappresentò la madre affacciata al balcone,ritratta mentre osserva la
strada sottostante. Il rumore del traffico viene espresso mediante la tipica frammentazione delle
forme e il mutamento continuo dei punti di vista. Gli addii rappresenta una locomotiva che sbuffa
nel verde, connotata da un numero che ricorda le lettere dei quadri cubisti posto al centro del
quadro: il centro dello spazio figurativo è spesso sottolineato da Boccioni come ciò da cui sorge
l’intera immagine e come il fulcro da cui promanano onde di energia, linee forti e sinuose che
descrivono il movimento. Gli Addii ha subito una doppia versione, prima e dopo il viaggio a Parigi:
dal confronto si desume la rapida maturazione dell’artista e anche una più forte attenzione ai
vissuti emotivi. Tutti questi diversi aspetti risultano esaltati in Materia un nuovo grande ritratto
della madre al balcone. Nel dipinto appare in modo evidente un’ulteriore tendenza di Boccioni che
si esalta nella sua scultura: la ricerca delle linee di forza degli oggetti, colti in un doppio
movimento: il loro proprio moto interno e quello compiuto da chi li vede nell’atto stesso di
percepire. I suoi esperimenti scultorei iniziarono nel 1912, dando rapidamente luogo a un’opera il
cui titolo fu anche una dichiarazione d’intenti come Antigrazioso e Sviluppo di una bottiglia nello
spazio: in quest’ultimo caso una bottiglia è stata smembrata secondo i principi cubisti, ma
seguendo una sorta di aura. Le forme uniche della continuità nello spazio, un grande bronzo
mostra fattezze umane senza braccia: in questo modo i dati anatomici si fondono con le linee
tracciate dal movimento e il corpo assume una valenza eroica, l’immagine sembra perdere
contorni netti e fondersi con l’intorno. È difficile comprendere come mai proprio questo aspetto
centrale,la compenetrazione di figura e spazio, di stati d’animo interni e mondo esterno, sia andato
perso nell’ultima fase dell’opera di Boccioni. Sta di fatto che il suo ultimo quadro impegnativo Il
Ritratto del maestro Ferruccio Busoni torna a una staticità memore di Cezanne e a una
contrapposizione anche simbolica di piani e colori. (lettura immagine pag 143)
L’itinerario di Carlo Carrà fu assai più lungo e tortuoso di quello di Boccioni, si può parlare nel suo
caso di una fase futurista ristretta a circa quattro anni. Opere come I funerali dell’anarchico Galli e
il Cavaliere rosso mostrano tensioni simili a quelle di Boccioni; la Galleria di Milano è una sorta di
sfida a Picasso sul suo stesso terreno, palese anche per la scelta dei toni bruni, è modulata secondo
il principio delle linee di forza e della compenetrazione tra figure e sfondo: la parte alta del quadro
è dominata da un’architettura convergente nella cupola, posta nella parte centrale e più luminosa
della tela; la parte bassa è dominata, invece dal movimento curvilineo e caotico che allude al
passeggio e all’incontro delle persone tra ristoranti e vetrine. Anima il piccolo quadro un antico
ricordo del rapporto tra ordine (in alto) e disordine (in basso). La poliedricità dell’artista risulta
evidente confrontando la Galleria alla sua opera più innovativa dal punto di vista tecnico, la
Manifestazione interventista: un piccolo dirompente collage composto stranamente alla
conclusione del suo periodo futurista. (lettura immagine pag 145)
Luigi Russolo fu pittore con esiti importanti come la variazione in blu Solidità della nebbia ma
soprattutto musicista: è senza dubbio in questa veste che ha portato il suo contributo maggiore al
movimento. La sua invenzione di strumenti come gli Intronarumori, semolici scatole a cui era stata
applicata una tromba inaugurò la stagione di autonomia della musica dagli strumenti canonici.
Giacomo Balla è il membro più anziano del gruppo ma anche uno dei più entusiasti: ad un certo
punto iniziò a firmarsi con lo pseudonimo di Futurballa. Non andò a Parigi con Boccioni e anche per
questo subì minori influenze dalla pittura cubista. In opere come Dinamismo di un cane al
guinzaglio e Le mani del violinista appare anzitutto il suo interesse per la rappresentazione del
movimento secondo immagini sovrapposte. Dall’iniziale simbolismo, per il quale la Lampada ad
arco in una strada diventa sorella maggiore della Luna, passò a un’indagine sempre più accurata
dei fenomeni motori: ne sono testimonianza opere come la Improvvisazioni: percorsi di
movimento+sequenze dinamiche e linee andamentali+successioni dinamiche. In un momento
appena successivo Balla giunse a scindere le forme in elementi fortemente geometrici come in
Profondità dinamiche.
Gino Severini visse la sua maturità a Parigi, questo gli consentì un dialogo più serrato con le altre
Avanguardie ma anche una indipendenza maggiore da Marinetti e dai suoi principi violenti: le sue
opere recano sempre un cromatismo felice e una struttura animata ma non aggressiva. Una
caratteristica saliente del suo stile fu la simultaneità sinestesica, Severini cercò infatti di associare
nei suoi dipinti molti dati provenienti da sensi quali l’udito e il tatto oltre la vista. Nel dipinto La
danzatrice in blu scelse di descrivere un tipo di movimento non necessariamente tipico dei tempi
moderni, il senso del ritmo è legato alle scansioni dell’abito e alla ripetizione delle braccia, mentre
l’intera figura si frammenta in un insieme di sovrapposizioni simultanee. Ambientato in un caffè
come dimostrano il cameriere e i tavolini sul fondo esso trae spunto più dalla realtà notturna di
Parigi che dalla vita diurna e pulsante dello metropoli. L’utilizzo dei puntini neri sull’abito ricorda il
puntinismo. Nel 1916 tornò a uno stile ordinato e tradizionale dipingendo opere dai volumi classici
come Maternità.
Il maggiore rappresentante della seconda fase del Futurismo fu Enrico Prampolini. Nel 1914
realizzò il collage intitolato Beguinage che indica la vocazione per quell’arte polimaterica, cioè fatta
con materiali anomali rispetto alla tradizione e diversi tra loro. La sua intensa attività di teorico e di
progettista gli impedì di creare grandi capolavori, ma la sua figura è determinante per gli sviluppi
dell’arte del Dopoguerra.
Dopo la fine della Grande Guerra la carica rivoluzionaria e creativa del Futurismo subì un radicale
rallentamento dovuto anche al modificarsi della situazione tecnologica e alle mutate condizioni
politiche. Se il Fascismo nascente degli anni dieci aveva attirato nella sua orbita i primi Futuristi, da
quando prese il potere cercò di limitarne la forza propositiva. Tollerò il movimento ma non lo
promosse mai, preferendogli esiti più consoni al nuovo conservatorismo come il gruppo
denominato Novecento. Il movimento perse la sua coesione e conflagrò in una serie di
manifestazioni locali, tra cui la corrente dell’Aeropittura, il cui maggiore protagonista fu Gerardo
Dottori. Al centro delle sue opere fu la resa della visione dall’alto. Da strumento bellico eroico,
l’aereo diventò progressivamente un mezzo di trasporto alla portata dei civili: l’uomo comune
provava per la prima volta le emozioni della visione aerea e Dottori se ne fece testimone in quadri
come Primavera umbra e A 300 km dalla città.
Una delle caratteristiche salienti dell’arte delle Avanguardie è consistita nel tentativo di raccordo
tra le espressioni artistiche maggiori e quelle che con termine discutibile sono state definite arti
minori: inizia insomma quel rapporto tra cultura dell’immagine high e low che è stato uno dei punti
più controversi e interessanti del Novecento. Il futurismo italiano ha il merito di essere stato il
primo nel portare la compenetrazione tra arte e vita quotidiana alla piena consapevolezza teorica.
Nel marzo 1915 venne pubblicato Il vestito antinaturale, dedicato all’abbigliamento futurista.
Aggressivi, dinamici, asimmetrici e colorati con toni sgargianti: cosi dovevano essere i nuovi abiti.
Le scarpe avrebbero dovuto presentarsi asimmetriche e di colore diverso adatte a prendere a calci i
neutralisti. Balla aveva anche mostrato un precoce interesse per l’arredo. I progetti di Balla
comunque raramente divennero oggetti e in ogni caso rimasero diffusi solo entro la cerchia dei
suoi amici. L’attività di Fortunato Depero fu assai più vasta e programmatica. La Casa d’Arte, ultima
di una serie di laboratori analoghi aperti da altri Futuristi ebbe per un certo periodo una filiazione
negli Stati Uniti. Nel suo catalogo comparivano paraventi, paralumi, cravatte, cappelli, borse e una
grande disponibilità verso la grafica promozionale come è testimoniato dalla collaborazione alla
campagna della Campari. Caratteristica principale della creatività di Depero fu comunque lo spirito
giocoso teso a far ridere apertissimamente e a trasformare persino un libro in un oggetto ludico.
L’apertura del Futurismo alla vita comune sfociò in molti altri esperimenti: è una antenato delle
opere d’arte recenti come le discoteche. Non si trattò solo di scenografie o di arredi ma di luoghi
dinamici concepiti per ospitare l’azione. L’ambiente nel 1915 non doveva più risultare un fondale
colorato ma un’architettura elettromeccanica, incolore, potentemente vivificata dalle emanazioni
cromatiche di una sorgente luminosa.
L’ASTRATTISMO cap 6
Wassilij Kandinskij ricorda il momento in cui si aprì davanti a lui la strada dell’Astrattismo, cioè di
opere che astraggono dalla rappresentazione e da ogni narrazione realistica. L’episodio narrato
dall’artista descrive bene come questa scoperta sia avvenuta attraverso quel processo di felice
casualità che, nell’ambito della scienza, si definisce serendipità: si cerca una cosa e se ne trova
un’altra più importante. Kandinskij cercava di capire di chi era quel quadro ritrovato e scoprì che
poteva, anzi doveva dedicarsi a una pittura in cui non fosse riconoscibile alcun soggetto.
Probabilmente nella storia è capitato a molti artisti di vedere un proprio quadro capovolto ma tale
fatto non generò scelte o progetti. Nel 1910 invece a Kandinskij questo errore banale disse
finalmente qualcosa, tanto che in seguito l’artista si sentì autorizzato a retrodatare al 1910 il primo
Acquerello astratto, dipinto con ogni probabilità nel 1913. Allo stesso risultato stavano più o meno
giungendo molti altri artisti: erano giunti alle soglie dell’Astrattismo anche Robert e Sonia Delaunay
con i loro studi sui dischi simultanei; Picasso e Braque, la cui frammentazione dell’immagine era
tale da portare alla sua non riconoscibilità; Balla e Severini con i loro studi sulla percezione della
luce. Un insieme di lenti spostamenti, preparatisi negli anni precedenti, condussero tra il 1910 e il
1915 a un drastico scossone finale destinato a diventare uno spartiacque nella tradizione dell’arte
europea. Kandinskij giunse alla non-figutazione partendo da una pittura espressionista e quindi da
una accentuazione del ruolo del colore,ma altri pionieri seguirono direzioni diverse: in particolare il
russo Kasimir Malevic vi arrivò accentuando il valore simbolico e sintetico dell’immagine mentre
Piet Mondrian seguì le linee dettate dal Cubismo e ne accentuò il carattere formale. Come
vedremo tutti e tre questi artisti condividevano comunque un credo mistico e la convinzione che
l’arte dovesse veicolare una rivoluzione dello spirito. Ci si potrebbe anche chiedere se l’arte
astratta non abbia dei precedenti importanti nell’arte decorativa, o ancora se l’arte astratta
occidentale non sia stata preceduta da quella ebraica e islamica. Alcuni antropologi sostengono
che ogni forma di decorazione umana parte da una base realistica che poi va stilizzandosi. Altri
studiosi sono invece convinti che la tendenza alla decorazione sia una sorta di forma innata del
carattere umano e che essa prescinda da ogni copia dal vero. Per qualsiasi delle due posizioni si
propenda l’arte europea si è basata cosi fortemente sulla figura che l’Astrattismo non può che
essere considerato una rivoluzione decisiva. Il fatto è che come scrisse Kahnweiler “ciò che accadde
a quel punto nelle arti plastiche può essere compreso solo quando si tenga a mente che era nata
una nuova epoca nella quale l’uomo stava attraversando una trasformazione più radicale di
qualsiasi altra sia nota nei tempi storici”. L’Astrattismo segnò un approdo anche sul piano del
pensiero estetico. Alla domanda cos’è l’arte? L’uomo ha dato risposte molto diverse in tempi e
luoghi diversi. Con l’emergere dell’Astrattismo l’arte perse anche il suo compito più comune quello
di “rappresentare” o “raccontare” dal momento che fotografia ,stampa si stavano rivelando mezzi
assai più fedeli e adatti a quest’obiettivo. L’arte si pone come un puro veicolo espressivo. La
coscienza moderna ci spinge a considerare che l’arte sia sempre stata inutile dal punto di vista
pratico. In realtà essa non lo è neppure oggi, ma se dovessimo individuare un momento in cui si è
molto avvicinata a questa meta dovremmo indicarlo proprio nell’emergere dell’arte astratta. Gli
Astrattisti ritennero fondamentale usare le loro stesse sensazioni per ricordare la spiritualità
collettiva e talvolta la struttura politica della società anche attraverso un ripensamento dei modi
del vivere quotidiano.
L’esistenza di Vassilij Kandinskij fu ricca e movimentata: nato in Russia studiò economia e legge.
Quando gli venne offerta una cattedra universitaria rifiutò, avendo deciso di volersi dedicare alla
pittura. La sua giovinezza fu contrassegnata da molti spostamenti: nel 1900 fu a Monaco dove
conobbe lo Jugendstijl, tra il 1906 e il 1907 trascorse un anno a Parigi a contatto con i Fauvisti;
rientrato a Monaco la casa di campagna divenne luogo di incontro per i migliori artisti del
momento; tornato in Russia si appassionò alle vicende della Rivoluzione. Contrario allo stereotipo
dell’artista caotico, di sé diceva che avrebbe potuto dipingere in abito da sera senza sporcarsi: la
sua personalità viene descritta come amabile, attivissima, autorevole. La sua attività di pittore e di
teorico fu accompagnata da un naturale talento di leader: fu epicentro dell’avanguardia russa. Lo si
ricorda soprattutto per essere stato l’iniziatore dell’Astrattismo. LA datazione voluta dall’artista
resta comunque un dato significativo poiché dimostra quanto egli fosse consapevole di essersi
avviato per primo sulla via della non-rappresentazione. Nel 1895 a Mosca un covone di fieno
dipinto da Monet, un soggetto che l’impressionista aveva utilizzato soprattutto come pretesto per
dimostrare la mutevolezza delle percezioni ottiche. Kandinskij scrisse più tardi riguardo a quella
occasione: “nel mio profondo era nato il primo fievole dubbio riguardo all’importanza
dell’oggetto”. Durante la sua permanenza in Francia studiò Matisse e le teorie si Seurat. Kandinskij
era interessato a questo: il colore libero dal disegno, come mezzo privilegiato per l’espressione
dello spirito. A quel punto iniziò a privare i suoi dipinti della linea orizzontale,a dividere lo spazio in
linee diagonali, a concepire lo spazio figurativo come un campo in cui si incontravano energie
fisiche (colori, punti, linee). Lo interessava assai meno la ricerca del capolavoro. Nel 1909 diede via
ai quadri intitolati Improvvisazioni, nel 1910 alle Composizioni e nel 1911 alle Impressioni. Il
passaggio a una produzione esclusiva di opere astratte fu piuttosto lento come il rispetto dei
principi teorici che aveva già enunciato ne Lo spirituale nell’arte. In questo piccolo libro, Kandinskij
aveva proposto una schematizzazione dei colori secondo i loro risvolti psicologici e spirituali: il
verde tranquillizzante, il giallo dinamico. I colori venivano poi associati alle direzioni lineari
(diagonale, orizzontale) e in seguito alle forme geometriche. Altri aspetti salienti delle sue teorie
riguardano l’assoluta libertà dei mezzi: l’artista è come un veggente che cammina nel buio,
rivolgendo i suoi sguardi verso una realtà più profonda e nascosta di quella comunemente
percepita. Dal punto di vista filosofico, la caratterizzazione dell’artista come profeta e guida,
Kandinskij inscriveva le sue teorie in un contesto di religiosità multiforme: oltre al Cristianesimo si
avvicinò al Buddismo e all’Induismo, intraprendendo, tra i primi, quel viaggio nelle religioni
orientali che nel corso del novecento è divenuto tanto comune. La prima fase astrattista della
pittura di Kandinskij si caratterizza per un uso pastoso del colore, che viene steso senza seguire un
disegno preparatorio, se non nelle sue linee guida. I contorni appaiono poco segnati e l’intera
composizione assume un aspetto gestuale: sono la mano e l’occhio più che un progetto molto
determinato, a guidare l’operato del pittore. A partire dal 1922 Kandinskij mutò sensibilmente
anche il suo stile: iniziò a dare alle opere un reticolo geometrico più severo, una minore libertà del
gesto, un certo abbassamento del colore. La pasta cromatica stessa risultò più piatta mentre gli
elementi presenti sulla superficie andarono intersecandosi e connettendo in strutture sempre più
complesse. L’artista mostra una ferrea coerenza: dagli esordi fondati su una linea liberty alla
scoperta del colore in figurazioni espressioniste, per giungere alla liberazione istintiva dalla figura e
in seguito a una organizzazione del colore che non avesse più nulla dello scarabocchio infantile, ma
proponesse piuttosto una geometria sofisticata. Il percorso si snoda puntando verso un fine
preciso: la perdita dell’illusione di profondità, la fine del quadro-finestra. Allo spettatore l’opera
risulta completamente piatta.
Tra i protagonisti dell’Astrattismo Kasimir Malevic è colui al quale sono state dedicate minori
attenzioni: se le opere di Kandinskij e di Mondrian sono infatti esposte nei maggiori musei del
mondo, quelle dei russi sono state lungamente nascoste dal regime sovietico. Solamente per un
caso fortuito un gruppo di quadri di Malevic è proprietà del museo di Amsterdam: l’artista si era
recato a Berlino con i suoi lavori che dovevano essere esposti in tournèe in Germania. Un
telegramma lo costrinse a ritornare in patria, dalla quale non riuscì più ad uscire. Una parte delle
opere lasciate su solo tedesco fu distrutta o dispersa a causa della condanna nazista verso un’arte
che riteneva degenerata, mentre la parte residua fu acquistata dal museo olandese. Un altro
motivo per il quale Malevic è stato a lungo sottovalutato è stata la difficoltà di giudicare il
personaggio: fin da piccolo aveva avuto modo di esercitare il suo carattere autoritario, autodidatta,
bocciato per tre volte di seguito all’ingresso di un prestigioso istituto di Mosca, maturò per questo,
l’ambizione della rivincita. Sua fu la regia delle due mostre più importanti del periodo che nel giro
di pochi mesi sancirono la nascita e l’eclissi del futurismo russo. Retrodatò molte sue opere per
avvalorare la sua supremazia. Tutto questo non può, però oscurare la potenza innovativa del suo
lavoro, che possiamo considerare maturo già ai tempi in cui disegnò costumi e scenografie per la
rappresentazione teatrale di Vittoria sul Sole: la pièce narrava la cacciata del sole, fonte della
vecchia energia, grazie a uomini nuovi che avevano scoperto come usare la tecnologia per liberarsi
della dipendenza dalla natura e ottenere fonti di energia nuove. I disegni il Necroforo e il
Malintenzionato rappresentano il personaggio al suprematismo: sono evidenti superfici colorate
ben definite, rettangoli e un quadrato nero che nella quinta scena del secondo atto diventa
suprematista anche se Malevic stesso non si era reso conto di quanto aveva realizzato. La
scenografia era costituita da un quadrato nero su un fondo bianco, ripetuto poi in un quadro del
1915 per l’Astrattismo geometrico che Malevic definì Suprematismo: un termine che voleva
significare la distanza rispetto al Naturalismo e il necessario contatto dell’arte con una sovrarealtà
spirituale. Questa maturazione avvenne dopo un periodo detto “alogico” in cui Malevic smantellò
gli aspetti ancora realistici del Cubismo. I suoi quadri del periodo suprematista si presentano come
oggetti in sé, la cui intenzione è quella di suscitare sensazioni superiori a quelle dettate dai sensi
fisici. Il quadro deve proporsi come fonte di emozioni e non di immagini illusorie. Nelle sue opere
presero così a danzare forme geometriche semplici, senza sfumature di colori, correlate tra loro da
rapporti armonici. Se queste sue forme rappresentano qualcosa, si tratta dei pensieri e dei ritmi
della mente, è ciò che si trova una volta che si puntino i nostri i nostri occhi spirituali verso il
mondo interiore e non verso quello esterno. L’elemento simbolico è fortissimo, cresciuto a contatto
con l’arte religiosa Malevic conservò il ricordo della sintesi estrema presente nella decorazioni
artigianali: la stessa sintesi che era propria delle icone, il tipo di pittura più comune al quale si
ispirarono prima il Quadrato nero su fondo bianco e in seguito Quadrato bianco su fondo bianco.
Lo stile suprematista trovò rapidamente adepti di grande talento che entrarono a far parte
dell’associazione “supremos” in cui trovarono posto anche molte donne. Dopo la guerra Malevic
riuscì a stendere per scritto le sue teorie, concepì una dilatazione tridimensionale dei quadri a
scopo architettonico: nacquero cosi sculture dette architektony e i disegni preparatori detti
planety. Si trattava di progetti di architetture abitative sopraelevate, spesso in forma di aereo da
collocarsi persino sopra la terra. Il fine doveva essere quello di garantire attraverso nuove forme
abitative per la collettività, anche una sensibilità umana più vibrante. Questo balzo in avanti di una
immaginazione a sfondo utopico non fu gradito ai vertici sovietici: dopo l’ascesa di Stalin al
governo la parola d’ordine in fatto d’arte fu per opere direttamente propagandistiche. Negli stessi
anni, dunque l’Astrattismo si trovò combattuto sia dalla Germania nazista sia dall’Unione Sovietica,
in favore di stili più rassicuranti e conservatori. Malevic perse tutti gli incarichi. Nel 1931 realizzò
alcuni schizzi per il Teatro Rosso di Leningrado. Dopo la partecipazione alla mostra dei pittori di
Leningrado nel 35 fu interdetta la visione delle sue opere in Unione Sovietica fino al 1962. I quadri
dell’ultimo periodo tornarono a una forma di realismo classicista e a tutt’oggi a è difficile giudicare
se ciò sia stato frutto di un ricatto politico. Risulta ancora più strano che egli abbia preso a firmare
le sue opere con un piccolo quadrato nero su fondo bianco, ricordo della sua opera più radicale che
volle poi apposto anche sulla sua tomba. Queste contraddizioni sembrerebbero confermare che
Malevic non tornò alla figura per una decisione autonoma ma in seguito a qualche forma di
costrizione. I suoi quadri sono risaliti dalle cantine alle sale dei musei russi solo alla fine degli anni
ottanta quando decaddero insieme al regime, le sue rigide norme estetiche. (lettura immagine pag
165)
La rivoluzione dell’ottobre 1917 colse i giovani intellettuali russi nel momento del loro massimo
fervore, reduci da contatti fertili con i compagni occidentali e pronti a rileggere le loro innovazioni
in chiave adatta al mondo da costruire. Il futuro, l’uguaglianza, l’energia organizzata erano parole
d’ordine galvanizzanti per un Paese che malgrado una rapida industrializzazione era ancora
profondamente legato alla cultura rurale. Mecenate di questa svolta artistica non potè che essere
lo Stato. Il ministro Luna carskij, commissario per l’educazione di Lenin, mostrò all’inizio grande
fiducia negli effetti propagandistici di un’arte antiborghese. Gli artisti vennero indotti a una
produzione dilagante di manifesti, slogan, dipinti sui treni e sui battelli. L’arte a poco prezzo
divenne anche uno degli obiettivi della scuola più avanzata del momento. Nel magma di tendenze
che erano sorte nel biennio 1915-17 quella denominata Costruttivismo parve la più adatta ad
avvicinare all’arte anche l’industria pesante. Nell’ambito di questo gruppo emergeva Vladimir
Tatlin, formatosi come pittore di icone. Nei suoi papier-collès così come probabilmente nelle teorie
già espresse dal futurista italiano Boccioni sull’uso di materiali antiaccademici, riconobbe la
possibilità di abbandonare gli strumenti classici della scultura per accostarla maggiormente alla
tecnica e alla vita comuni. Ciò che Picasso aveva fatto in pittura lui lo avrebbe applicato nella
scultura. L’idea era combinare materiali come ferro e il vetro, materiali del moderno classicismo. Il
suo desiderio di rompere con la tradizione accademica ma anche di conservare i lati più popolari
della produzione artigianale, si deduce anche dal fatto che installò i suoi rilievi negli angoli delle
sale esattamente come fece Malevic. Tatlin si innamorò ben presto di un uso meno manuale e più
ingegneristico dei materiali: fu così che prese corpo la sua opera più nota, il Monumento alla Terza
Internazionale. (lettura immagine pag 170)
Altri due protagonisti essenziali del movimento furono Antoine Pevsner e Naum Gabo che
pubblicarono il Manifesto del Realismo. Questo termine non va inteso come ritorno a una pittura
realistica ma anzi come l’atteggiamento dell’artista che voglia inserirsi in modo sempre più attivo
nella vita corrente. Gabo entrò nei circoli dell’avanguardia sulle orme del fratello minore. Nel 1913-
1914 furono insieme a Parigi, all’inizio della guerra tornarono in Unione Sovietica dopo la
Rivoluzione, in patria furono presto emarginati e costretti ad abbandonare il paese per l’Europa
centrale. Fautori di una scultura astratta e composta di materiali comuni, incluse plastiche
trasparenti di produzione industriale furono anche preveggenti nell’immaginare un possibile
sviluppo cinetico della scultura stessa: nel tempo in cui i valori andavano velocemente cambiando
e si voleva lasciare ogni vecchia forma d’arte celebrativa l’opera poteva abbandonare la sua
staticità e contenere dispositivi che ne consentissero il movimento. In particolare PEvsner
trasferitosi nella maturità in America potè applicare i suoi principi a stretto contatto con la nuova
industria e in relazione allo spazio urbano.
Lissitzkij Lazar detto El, poliedrico creatore di forme in molti campi disciplinari inventò grafiche
pubblicitarie. Più che le opere singole conviene ricordare la sua capacità di prevedere il modo in cui
esse potevano inserirsi nell’esistenza quotidiana: per esempio il suo Ambiente dei Proun forniva un
nuovo modo di concepire lo spazio, annunciava anche il prepotente ingresso delle linee oblique e
delle diagonali nelle architetture e segnava un primo tentativo di dilatare l’opera, il quadro verso le
dimensioni di un intero ambiente.
Seguendo simili linee di pensiero Aleksandr Rodcenko si esercitò nella grafica pubblica ma
soprattutto nella fotografia. Il Manifesto pubblicitario uno dei veicoli più importanti di
comunicazione e l’unione che esso richiedeva tra parole e figure era un buon campo per mettere
alla prova le intuizioni di Marinetti. Insieme a Majakowskij ebbe intuizioni profetiche sul potere dei
media. Fu seguendo questa medesima pista che Rodcenko si dedicò ai fotomontaggi.
In tale clima di vivaci commistioni tra arti belle e applicate, non si può sottacere il ruolo svolto da
alcune donne nella pittura; talenti come Varvara Stepanova, Natalija Gontcarova, Alexandra
Kol’kova-Bycova, che rinnovarono la moda, la scenografia ma soprattuto impostarono atelier di
tessitura che avrebbero dovuto dare impulso a un’industria tessile competitiva. Il problema era
unire la cultura popolare a quella dell’avanguardia, saldando l’arte del popolo a quella per il
popolo. La soluzione fu drastica: non appena Lenin si ammalò e dovette cedere il potere a leader
meno raffinati e tolleranti, le porte aperte da queste sperimentazioni si chiusero bruscamente e
per 70 anni.
Di lui si narra che vivesse in un ordine maniacale e temesse quasi ogni tipo di distrazione ed
escluse le sale da ballo: Piet Mondrian dedicò la sua vita adulta completamente all’arte, ma giunse
relativamente tardi alla maturità artistica. Segnò la svolta il trittico Evoluzione del 1910-11, l’opera
espose la sua estetica in embrione: il fine dell’arte doveva essere quello dell’elevazione spirituale; i
mezzi dovevano porsi come una semplificazione progressiva delle forme attraverso la geometria; il
colore si avviava ad abolire i mezzi toni per favorire la campitura uniforme, priva di chiaroscuro e
delle tracce del pennello. Dal 1892 sostituì la religiosità calvinista in cui era cresciuto con l’adesione
ai circoli teofisici. Diversamente dal Calvinismo, la disciplina teofisica non prevede un senso di
colpa continuo e orientato al passato ma esige una costante attenzione alla costruzione del futuro
tramite il perfezionamento di se e del mondo. A Parigi impressionato dal Cubismo nel 1912 dipinse
quadri quasi indistinguibili da quelli a cui stavano lavorando Picasso e Braque. A quel tempo la sua
tavolozza era ricca di sfumature. Nello stesso periodo fu però affascinato dai colori primari utilizzati
da Leger. La serie che riprendono un albero, la facciata di una chiesa, gli edifici di Parigi dimostrano
il suo abbandono progressivo delle linee curve e oblique. Dopo il 1914 gli fu impossibile rimanere
in Francia e sviluppò una pittura che potesse esprimere un senso meno soggettivo dell’esistenza.
Fu a questo punto che l’adesione alle teorie teofisiche si approfondì, dopo l’incontro con il filosofo
Schoenmakaers. Questi sosteneva che la realtà si risolveva in un continuo rapporto tra opposti:
luce e tenebre, attivo e passivo, maschile e femminile. Ancora a suo parere, i soli tre colori da
considerarsi erano i tre fondamentali: il giallo, segno della luce solare, il blu, segno dello spazio
infinito e rosso come elemento di fusione tra luce e spazio. Solo dopo nel 1917 Mondrian giunse al
suo stile più noto: una griglia di ortogonali nere che ospitano quadrati campiti in maniera piatta,
colorati con i toni fondamentali, solo a volte accompagnati dal grigio. Il fondo bianco molto opaco
era, secondo alcuni critici memore della luce nebbiosa del Nord. Ma a questo punto ogni
riferimento a oggetti, paesaggi, impressioni era completamente abbandonato. Il centro geometrico
del quadro che nelle opere eseguite fino al 1916 aveva sempre avuto un ruolo fondamentale,
venne abbandonato; il ritmo libero tende verso l’infinito suggerendo all’occhio di chi guarda
sconfinamenti nell’ambiente circostante e sbilanciamenti corretti dal delicato rapporto tra pieni e
vuoti. A questo punto le maglie di Mondrian incominciarono ad assomigliare a quello che di li a
poco sarebbe stato lo stile prevalente in architettura, un modernismo essenziale. Era esplicita
volontà del pittore saltare oltre l’individualismo romantico ovvero lasciarsi dietro le spalle la
descrizione dell’io, delle percezioni e dei tormenti soggettivi. Per guadagnarsi da vivere l’artista era
costretto nel frattempo a eseguire disegni virtuosistici e realistici. Come Malevic anche Mondrian
sentì la necessità di definire il proprio stile individuale: il termine scelto fu Neoplasticismo che
potremmo tradurre con nuovo modo di trattare la forma. La pittura neoplastica doveva infatti
congiungersi al nuovo modo di vivere, a una società che combini due elementi di equivalente
valore, il materiale e lo spirituale. Una società di armoniose proporzioni. Tali convinzioni subirono
un urto indelebile con l’avvento della seconda guerra mondiale e il trasferimento a New York dove
l’artista maturò un’avversione ancora più decisa che in precedenza per l’allora dilagante
Surrealismo. (lettura immagine pag 174)
Theo van Doesburg decise tardi di proporsi come artista. LA sua conversione all’astrazione
completa avvenne grazie all’incontro con il connazionale Mondrian nel 1915. I suoi risultati sono
spesso indistinguibili da quelli dell’amico anche se i due vennero presto divisi da una discussione
dal minore interesse di Van Doesburg per la Teosofia. Il merito più importante di Van Doesburg sta
nell’avere fondato a Leida la rivista De Stijl venne stampato un numero ulteriore per commemorare
il fondatore appena scomparso. La rivista intendeva diffondere non solo l’Astrattismo in pittura ma
anche un atteggiamento razionale del design e nell’architettura. Esistono una vecchia e una nuova
coscienza artistica: la prima si rivolge all’individuale, la seconda quella nuova si orienta
all’universale: così recitava la rivista che si proponeva di spingere gli artisti a un deciso abbandono
dell’individualismo. Al suo posto occorreva perseguire un’ottica di benessere collettivo. De Stijl
dunque rappresentò un primo esempio di trasposizione nella vita di tutti i giorni dei principi di
un’arte in cui il rapporto mistico tra arte e numero si fa anche principio logico e teso a fini pratici.
La rivista riuscì a diffondere una poetica che valorizzava la semplicità funzionale delle forme e di
qui anche il rapporto con l’industria sulla scorta dei principi dell’Art Nouveau e anticipando quelli
del Bauhaus.
“Architetti, pittori e scultori devono di nuovo imparare a conoscere e a capire la complessa forma
dell’architettura nella sua totalità e nelle sue parti. Impegniamo insieme la nostra volontà, la nostra
inventiva, la nostra creatività nella nuova costruzione del futuro, la quale sarà tutto in un sola
forma”, recitava così un volantino diffuso a Weimar che conteneva il manifesto-programma di una
nuova scuola fondata nella cittadina tedesca. La città era parsa la sede adatta per costruirvi una
Scuola d’arte di concezione interamente nuova, in linea con le aperture del momento sia nel
campo dell’arte, sia in quello della politica. L’istituto nasceva per volontà dell’architetto Walter
Gropius, che era un implicita volontà di unificare il campo dell’artigianato e quello da secoli
considerato più alto, quindi staccato da ogni possibile fine pratico, di pittura e scultura. Alla scuola
venne dato il nome Bauhaus, inversione della parola tedesca Hausbau (costruzione di case),
proprio a sottolineare l’intento di non dividere alcun aspetto della produzione artistica riunificando
architettura, progettazione e belle arti. Il Bauhaus fu luogo di feste memorabili e di studi
rigorosissimi. Nella sua prima formulazione tutti gli studenti dovevano seguire un corso semestrale
propedeutico in cui studiavano i principi della forma e del colore, venivano a contatto con
numerosi materiali ed erano incoraggiati a trovare una propria via creativa. Dopo questo semestre
la selezione era durissima: anche per questo il Bauhaus ebbe sempre un numero di studenti
limitato. Dopo i primi sei mesi gli studenti rimasti dovevano frequentare dei laboratori sul lavoro
del legno, del metallo che inizialmente venivano condotti da due insegnanti: uno di competenze
pratiche, l’altro di competenze teoriche. Gropius riuscì a mettere insieme un novero di insegnanti
veramente notevole: Johannes Itten, un astrattista che insegnava soprattutto i rapporti tra la scala
cromatica e quella dell’evoluzione spirituale. Nell’attività didattica stimolava la creatività dei
ragazzi, invitandoli a esercizi di scrittura e disegno automatico, con l’intento di liberare le loro forze
interiori nascoste. Convertitosi al culto esoterico della Mazdazhan che propugnava un’unione tra le
forze del corpo e quelle della mente, incominciò a rasarsi la testa e a pretendere che l’intera scuola
seguisse le regole dettate dal culto. Questo suo credo si trovò presto in contrasto con il
razionalismo di Gropius: ne nacque una rottura insanabile per cui la sua cattedra fu presa da Laszlo
Moholy-Nagy, fotografo, scultore e designer era attratto da tutte le pratiche sperimentali che
avvicinava con spirito scientifico. Il suo libro Dal materiale all’architettura dimostra il suo approccio
rigoroso all’insegnamento e anche la sua costante preoccupazione di rendere l’arte un aspetto
utile alla convivenza civile. Impostò la sua arte a una sperimentazione meccanica basata sulla
interazione tra luce, oggetto e movimento, nel tentativo di coinvolgere direttamente il pubblico.
Tra i cosiddetti maestri della forma Gropius accolse Kandinskij, Klee e Lyonel Feininger. Feininger,
trasferitosi a Parigi e giunto in contatto con il circolo dei Cubisti, sviluppò un proprio stile in cui le
forme naturali diventavano prismi e figure ritmiche. Al Bauhaus introdusse gli allievi alla tecnica
della xilografia. Molte donne ebbero posti di maggiore o minore rilievo nel corpo insegnante. Tra
queste Gunta Stolzl che resse il laboratorio di tessitura e Anni Albers. Josef Albers fu incaricato di
insegnare un vasto spettro di discipline: decorazione su vetro, tipografia, architettura di interni. Nel
frattempo sviluppò una sua pittura fondata sulle variazioni di colore e di ritmo in griglie
geometriche più o meno fitte, ispirate alla musica e allo studio delle strutture primarie. Solo dopo
iniziò a trasporre ad olio su tela dando inizio alla sua serie più famosa di Omaggi al quadrato, opere
nella quali sottili velature di colore sovrappongono due o tre quadrati concentrici compatibili con
una struttura prospettica come le quinte di un teatro, ma in cui l’illusione di profondità viene
continuamente smentita dall’avanzare o dal recedere dei colori. Proprio per l’importanza data
all’elemento cromatico come fattore di illusione percettiva, egli scriveva sul retro dei suoi quadri il
tipo di colore usato e la percentuale della sua diluizione. Nel suo lavoro al Bauhaus egli fu
costantemente fautore di un’impronta razionalistica. Nel 1924 la scuola fu spostata nella città più
decentrata di Dessau. La nuova architettura basata su moduli cubici, estremamente logici e
semplificati era un manifesto visibile della razionalità e dell’abbandono di ogni forma di
accademismo, di ornamento, di decoro esteriore non corrispondente alle forme interne della
struttura. A questo punto la scuola cambiò anche parte dei suoi presupposti aumentando lo spazio
dato al design e diminuendo quello dedicato a pittura e scultura. Le menti più lucide del paese
dovevano vedere la necessità di prevenire la ricostruzione industriale mettendo a sua disposizione
i migliori talenti creativi. Fu così che nacquero in quell’ambiente alcuni degli oggetti di design
ancora oggi più noti e prodotti: molte sedie tra cui quelle chiamate Vassilij disegnate da Marcel
Breuer fatte di stoffa e tubolari di ferro, teiere, portaceneri ecc. Già nel 1923 era stata presentata la
Casa am Horn: un prototipo di abitazione su progetto dell’architetto Georg Muche, largamente
influenzata dall’estetica architettonica elaborata dal gruppo De Stijl. Vi venivano ripensati gli
ambienti e le loro funzioni: grandi finestre e terrazze inducevano a un rapporto sempre più
integrato tra interno e esterno dell’ambiente. Malgrado questa vocazione architettonica il Bauhaus
non ebbe un dipartimento Architettura se non a partire dal 1927. Primo docente di questa sezione
fu Hannes Meyer che venne designato successore di Gropius quando questi decise di ritirarsi. Sotto
la direzione di Meyer segnata da una forte adesione all’ideologia comunista si accentuò ancora
l’aspetto pratico della scuola. Nel 1930 essa venne trasferita in un ultimo tentativo di sopravvivenza
a Berlino, la direzione passò ancora una volta di mano a Ludwig Mies Van Der Rohe che la concepì
come una scuola privata in grado di sostentarsi vendendo parte della produzione interna. Tuttavia
l’idea attorno alla quale il Bauhaus era nato, l’integrazione di arte e vita e l’esigenza di diffondere a
livello popolare le scoperte più elevate dello spirito, sopravviveva con troppa forza per non
risultare fastidiosa agli occhi del Nazionalsocialismo. LE divisioni interne non furono che uno
specchio esasperato di opposizioni politiche che anno dopo anno, sottrassero al Bauhaus la sua
atmosfera di gioia, i mezzi di sostentamento e infine il permesso stesso di mantenere aperto
l’organismo. Finiva così la scuola più famosa del XX secolo con una emigrazione in massa dei
migliori talenti verso gli Stati Uniti e con un doppio lascito morale che sta ancora dando i suoi
frutti: da una parte l’invito a concepire l’attività artistica come qualcosa che non si oppone ma
fortifica la democrazia, dall’altra parte in campo estetico, l’invito a una sperimentazione continua e
all’integrazione di discipline non canoniche.
Paul Klee nacque da padre tedesco e madre svizzera, restò cittadino tedesco anche dopo essere
stato cacciato dai Nazisti. Dal 1891 al 1901 studiò a Monaco, in seguito trascorse un anno in Italia.
La sua figura, sacrale e silenziosa, fu presente in tutti i gruppi e i momenti salienti dell’avanguardia:
dall’Astrattismo al Dadaismo, dal Surrealismo al gruppo di docenti del Bauhaus. Ma la sua vasta
produzione non può essere ascritta a nessuna di queste tendenza: era invitato a esporre con tutti,
ma volle rimanere un isolato. Fu disposto a riconoscere influenze importanti da parte di molte
tendenze, tra cui anche quella determinante dei Futuristi italiani, ma fuggì sempre le dinamiche
competitive interne ai gruppi: anche per questo abbandonò l’insegnamento al Bauhaus. Il suo
esordio sulla scena artistica d’avanguardia era coinciso con la seconda esposizione del Cavaliere
Azzurro a cui prese parte senza però condividere il tono mistico dei compagni. Un secondo viaggio
a Parigi fu determinante soprattutto per i contatti che instaurò con Delaunay e i pittori cubisti.
Questi rapporti lo instradarono sulla via che gli era più propria, quella del colore che andò a
cercarsi poi in Tunisia. I colori abbacinanti del Mediterraneo e le modulazioni della luce del Sud,
così squillante al confronto di quella nordica lo lasciarono in uno stato di stupore per giorni. Due
settimane dopo l’arrivo scrisse nei suoi diari “il colore mi possiede, mi possiede per sempre, lo so.
Il colore e io siamo una cosa sola, io sono un pittore”. I territori da sondare per sganciarsi da
un’eredità troppo pesante erano altri: non il Mediterraneo classico e cristiano ma quello arabo e
selvaggio. Non l’arte raffinata della fine del secolo ma la pittura meno sofisticata: quella dei pittori
popolari e di tutti coloro che utilizzano l’arte come linguaggio primordiale. Nel 1912 scrisse a un
amico “nell’arte si può ancora cominciare daccapo e ciò è evidente più che altrove”. Grande lettore
di Nietzsche, amico dello scrittore Rainer Maria Rilke, frequentatore della nuova musica, trovava in
tutti questi stimoli una conferma alla sua intuizione, che in fondo ripercorreva il bisogno di
esotismo orientale per Van Gogh, di Africa per Picasso. Klee rifuggì sempre dal costituirsi uno stile:
il suo modo di lavorare era avido di invenzioni e non tollerava la ripetizione. Qualsiasi nuova
tecnica dalle incisioni al suo primo periodo degli acquerelli, dai quadrati magici per cui studiò
l’alchimia, esecuzioni precisissime nate nel periodo del Bauhaus, fino alla pasta colorata stesa
sommariamente su tele a trama molto grossa, doveva porsi al servizio della sua unica aspirazione:
descrivere la tragedia dell’essere umano, diviso tra la materia e lo spirito. Ne parla il suo precoce
Eroe con l’ala, inquietante figura di un soldato dall’anatomia ibrida e deformata cosi come le ultime
opere dipinte a Berna, quando una grave malattia gli fece presentire la morte. Tra questi due poli,
un’insieme di divagazioni stilistiche che associarono la superficie piatta degli Astrattisti i paesaggi
tunisini resi astratti da quadrati di luce, simbolismi erotici tracciati ad acquerello la metafora della
guerra dell’armonia musicale e infine della morte.
IL DADAISMO cap 7
Fra tutte le avanguardie storiche il Dadaismo fu la più radicale; nacque in tempo di guerra, contro
la guerra e contro tutta la cultura che l’aveva generata. Esso ha utilizzato tecniche come la
performance, la scultura fatta di oggetti preesistenti, il fotomontaggio, la scultura di dimensione
ambientale, alle quali si sono largamente ispirate le tendenze artistiche del secondo 900. Sul piano
ideologico i rappresentanti dadaisti furono tutti neutrali; anarchici o comunisti in Germania, in
America furono invece lontani da ogni presa di posizione politica. Il Dadaismo si diffuse come un
contagio in tutta Europa. Caratterizzato da uno spirito di rivolta contro le istituzioni e i valori
tradizionali, finì per legittimare come procedimento artistico quasi ogni tipo di azione, mutando
completamente la concezione estetica e lo stesso ruolo dell’artista. I Dadaisti tagliarono in modo
netto il cordone ombelicale che legava l’arte visiva al suo passato, creando una frattura che rende
l’arte del 900 in buona parte incomprensibile a chi prevalentemente appassionato di quella antica.
Perché si sentì il bisogno di una rottura così forte? I sogni dei ragazzi interventisti, entusiasti della
guerra come sola igiene del mondo erano stati infranti dalla battaglia tra Francesi e Tedeschi che
durò dieci mesi. Quello che avrebbe dovuto essere un conflitto rapido si rivelò la prima guerra di
trincea. La Svizzera neutrale si presentò come una specie di oasi per tutti coloro che volevano
rifugiarsi in una zona pacifica. A Zurigo confluirono emigrati politici e intellettuali, tra cui: il poeta
Tristan Tzara e Marcel JAnco. Altro personaggio di rilievo fu Hugo Bal. Con la sua compagna Emmy
Hennings, Ball aprì un ritrovo che venne chiamato Cabaret Voltaire. Tra le mura di questo chiassoso
locale, strapieno di ragazzi, si recitavano poesie di parole senza senso alternate e rumori cacofonici.
Nel febbraio 1916 il gruppo più attivo dei frequentatori inventò Dada, termine indefinibile che
stava a significare una tendenza artistica dai margini altrettanto sfumati. Hans Richter ha scritto
una cronaca dettagliata del movimento nel suo libro Dada Art and Anti-Art, racconta che i due
rumeni intercalavano i loro discorsi fiume con reciproci da da affermativi. Secondo un’altra
versione il nome fu scelto per caso. I dadaisti non volevano proporsi come rivelatori di verità
nuove, ma anzi come i portatori di un modo di fare e di conoscere fondato sul dubbio, sulla perdita
di fiducia in qualsiasi sistema. In questo senso venivano considerate ipocrite anche le precedenti
Avanguardie storiche, colpevoli di non avere abbandonato i vecchi paradigmi dell’arte. L’artista più
dotato del gruppo fu Hans Arp, scrisse le sue poesie sia in tedesco che in francese. A Zurigo
incontrò Sophie Tauber che divenne sua moglie. Grande entusiasta del caso, considerato il vero
regista dell’opera, Arp faceva cadere pezzetti di carta per poi fissarli nella posizione che avevano
assunto a terra. Questa pratica lo condusse a composizioni astratte e non a caso fu in ottimi
rapporti anche con l’ambito del Bauhaus. Le sculture del periodo zurighese erano rilievi fatti di
pezzi di legno e altri rifiuti, talvolta messi insieme con chiodi sporgenti. Nel tempo giunse a creare
opere dai contorni fluidi e dall’aspetto biomorfo.
A New York un gruppo di artisti ha incominciato a operare in uno spirito simile a quello Dada. In
questo caso il luogo di ritrovo non era un locale di svago ma la piccola galleria “291”,diretta da
Alfred Stieglitz. La galleria era frequentata da giovani intraprendenti come Marcel Duchamp, Man
Ray e Francis Picabia. Si data normalmente l’emergere di uno spirito dadaista a New York attorno al
1915, ma un evento precedente consente di anticiparne ancora la nascita, l’Armory show, la prima
vasta rassegna informativa che portò l’arte delle avanguardie europee in America.
Francis Picabia era stato un pittore molto prolifico e di diversi stili: neoimpressionista, fauvista,
cubista, astrattista. Anche nel seguito della sua vita avrebbe poi continuato a mutare il suo modo di
dipingere, fino a fare quello dello spostamento tra gli stili una sorta di stile personale. Nel
raggiungere la sua maturità creativa l’incontro fondamentale fu quello con Marcel Duchamp. Nel
1913 espose all’Armory Show il quadro Udnie, una composizione di stile cubofuturista che fece
molto discutere. A New York iniziò i suoi lavori ispirati al mondo delle macchine dove si
mescolavano ruote, manovelle e ingranaggi: tutti questi meccanismi da una parte irridevano al
culto della macchina, dall’altra alludevano a rapporti sessuali. L’opera più nota di questa serie è I
see again in Memory of My Dear Udnie. Uno dei contributi più importanti di Picabia al Dadaismo è
stato l’avere fondato nel 1917 la rivista itinerante “391”. Essa fu un luogo di incontro e di
collegamento tra i differenti gruppi dadaisti, che anche attraverso questa pubblicazione
riconobbero di avere una matrice comune benchè fossero nati in luoghi diversi. Nel decennio
successivo Picabia fu uno degli organizzatori più attivi del gruppo Dada. Successivamente si dedicò
a grandi quadri dipinti a olio, ispirati a simbolismi e citazioni della storia dell’arte ma sempre
caratterizzati da un erotismo irriverente. Dagli anni trenta recuperò progressivamente uno stile
realista.
Man Ray si dedicò fin da giovane al design e alla fotografia, campo nel quale trovò un vasto
successo anche economico. Dopo aver visto l’Armory show decise di approfondire anche la pittura,
abbracciando temporaneamente lo stile cubista. Il suo incontro con Duchamp era destinato a
sfociare in una lunga e intensa amicizia e in una vasta collaborazione di lavoro: anche per questo le
sue sculture più note, gli oggetti d’affezione erano vicinissimi ai ready-made di Duchamp. Una
normale baguette di pane viene ad esempio dipinta di blu, colore che non si annovera in natura tra
le cose commestibili. Il titolo dell’oggetto è Pain Bleu, cioè letteralmente “pane blu” ma storpiando
un po la pronuncia anche uno stupefatto (parbleu=perbacco), oppure il gioco è un paradosso
visivo: cadeau, è un ferro da stiro al centro della cui base sta saldata una fila di chiodi, che lo
rendono evidentemente inservibile. Il tema del mistero appare nell’Enigma di Isidore Ducasse
questo era lo pseudonimo del Conte di LAutreamont, amato dai Dadaisti per l’ambiguità dei suoi
aforismi. Man Ray ne trasse ispirazione per fotografare un involucro da lui preparato e legato con
delle corde, un pacco inaccessibile che appunto doveva contenere la soluzione dell’enigma.
L’Oggetto da distruggere è un metronomo alla cui asta è stata fissata la fotografia di un occhio:
l’allusione al controllo ossessivo da parte di chi ci osserva al tempo della vita che batte e scade,
forse anche allo sguardo divino, rappresentato nell’iconografia tradizionale da un occhio singolo.
Come fotografo Man Ray portò alla luce tutte le possibilità di sperimentazione, facendo ritratti di
sculture che valevano come opere in quanto tali: non dunque in quanto riproduzioni ma come
produzioni dotate di una loro specifica autonomia. Sul piano tecnico la sua proposta più
importante furono le cosiddette Rayografie, fotografie ottenute appoggiando oggetti sulla carta
fotosensibile ed esponendoli alla luce per qualche istante. Questo procedimento era nato con la
fotografia stessa ed era piuttosto comune dei fotografi gia nel XIX secolo. Il merito di Man Ray
consistette nell’avere proposto al pubblico le immagini così ottenute non più come fenomeni per
stupire ma al pari di componimenti pittorici.
I centri tedeschi in cui il Dadaismo si diffuse maggiormente furono in ordine di tempo Berlino,
Colonia e Hannover. A Berlino i protagonisti del movimento furono John Heartfield, Hannah Hoch e
Raoul Hausmann, che raccolsero attorno a sé molti altri intellettuali. In un primo momento il
movimento si limitò a diffondere le nuove idee dadaiste contro le Avanguardie, per un
rinnovamento delle forme poetiche e visive. In un secondo momento assunse delle connotazioni
politiche molto forti, poiché la sua nascita coincise con la disfatta nella guerra. Il gruppo di Colonia
nacque attorno alla figura di Hans Arp e del suo amico Max Ernst che aveva prestato servizio
militare durante la guerra. Essi parteciparono ai movimenti rivoluzionari del 1918-19 ma
perfezionarono la tecnica del fotomontaggio attraverso l’uso del frottage e del collage. Nacquero
opere collettive, scherzose e dissacranti, chiamate Fatagagà. Il protagonista incontrastato e
solitario del Dadaismo di Hannover fu Kurt Schwitters.
Le composizioni di Hannah Hoch erano complesse costruzioni di ritagli, di spirito tragicomico, in cui
personaggi politici venivano trasformati in giocolieri. In un’opera dal titolo esplicito come Taglio
con il coltello da cucina l’ultima birra in pancia dell’epoca culturale di Weimar Dada era concepito
come mezzo di denuncia della superficialità con cui la Repubblica di Weimar affrontava i problemi
del paese.
John Heartfield ebbe il coraggio di mostrare attraverso montaggi fotografici la pericolosità del
nazismo, presentando Hitler come una macchina di distruzione: molte delle sue immagini
appaiono preveggenti. In un fotomontaggio famoso vengono evidenziati i suoi rapporti con il
grande capitale che lo sosteneva al pari di una colonna vertebrale fatta di monete impilate.
Kurt Schwitters ebbe rapporti controversi con il gruppo di Berlino. Nato ad Hannover iniziò nel
1918 a eseguire collage con ogni genere di rifiuto: biglietti, coperchi di barattoli di latta, cicche di
sigarette, spago. Il termine che scelse come definizione globale del suo operato era Merz, i suoi
quadri erano tutti dei Merz e invitava altri artisti a merzare con lui. Schwitters pubblicò tra il 1923 e
il 1932 anche una rivista dallo stesso titolo, nella quale trovarono posto numerosi esperimenti di
tipografia. La sua opera più significativa si chiamò non a caso Merzbau, cioè “costruzione merz”.
Trasse forte ispirazione dalle tele cubiste e futuriste: privilegiando linee diagonali e dinamiche,
nonché rapporti di colore luminosi come nel paradigmatico Quadro con centro di luce, riuscì ad
ottenere una sintesi tra l’estetica cubo-futurista e la protesta dadaista. Le sue composizioni di
oggetti trovati si pongono alla radice di operazioni del Secondo Dopoguerra. (lettura immagine pag
199)
Parigi fu l’ultima tappa del movimento dadaista. I suoi esponenti furono Picabia, Duchamp, Man
Ray, Ernst e Tzara, che era atteso come una sorta di messia da parte dei fondatori della rivista
“litterature”: Andrè Breton, Louis Aragon e Philippe Soupault. Con il suo arrivo iniziarono anche le
manifestazioni. Ben presto esplosero però controversie tra Tzara e Andrè Breton il quale aveva
dichiarato il proprio distacco da Dada e aveva invitato i suoi compagni a fare altrettanto. Nel 1921
vi fu un festival Dada a Praga e l’anno dopo venne organizzata a Parigi una grande esposizione.
Tuttavia il Dadaismo stava concludendo il suo ciclo più vitale. Fu proprio Tzara a recitarne in puro
stile dadaista l’orazione funebre. Ma se Dada finiva e con esso un certo spirito al contempo
creativo, esplosivo e distruttivo, il Surrealismo era pronto a rivelarne la staffetta e a trasformarne le
indicazioni in una filosofia di vita di segno più propositivo.
L’influenza di Marcel Duchamp sull’arte del XX secolo è paragonabile per importanza a quella
esercitata da Picasso. Il suo lavoro fu provocatorio ma anche complesso e denso di riferimenti a
quella stessa tradizione artistica di cui fu un critico acuto. Cambiò il corso dell’arte contemporanea
con le sue opere ma anche con l’attivissimo silenzio che ne caratterizzò gli anni maturi: dopo avere
avuto il coraggio di ammettere che,come artista, non aveva più nulla da dire, aiutò Peggy
Guggenheim a organizzare le sue gallerie e a costruire la sua collezione ora esposta a Venezia e fu
una guida per altri artisti, critici e curatori di museo. La sua influenza può essere paragonata per
intensità a quella di Picasso, anche se ha agito su un versante opposto: quello dell’abbandono della
pittura come mezzo privilegiato dell’espressione artistica visiva. Anche le sue operazioni più ardite
sono rese credibili dal fatto che non cercò mai di arricchirsi con la vendita e la replica dei suoi
lavori. Le sue opere possono essere iscritte in tre categorie principali: i dipinti, gli oggetti e le
fotografie in cui ritraeva se stesso, a cui si devono aggiungere i dischi in movimento detti rotorelief
e la tarda installazione ambientale Essendo dati 1) il gas 2) la cascata d’acqua. Tutte le sue opere
sono connotate da titoli a doppio senso che si presentano nella forma di giochi linguistici. La sua
formazione scolastica era stata di carattere filosofico. Il mensile passatogli dal padre gli consentì di
trasferirsi a Parigi. Gli incontri a Puteaux gli consentirono già nel 1910 di entrare in contatto con
artisti come Leger, Picabia e Guillaume Apollinaire. I suoi esordi come pittore cubista non furono
salutati da grande successo ma il suo Nudo che scende le scale suscitò vivaci polemiche: dipingere
un nudo in movimento era rivoluzionario, in quanto privava il corpo dell’aura sacrale conferitagli
dall’immobilità; se il nudo classico e fermo non desta alcuno scalpore ed è anzi, parte del
vocabolario consueto dell’arte, il nudo in movimento diventa un segno irriverente quanto potrebbe
esserlo una qualunque persona senza abiti incontrata per strada. Resosi conto dei limiti dei
linguaggi artistici convenzionali decise di affiancare queste pratiche ad altre, meno connotate dai
legacci imposti da tradizioni secolari. Fu in questo spirito di innovazione tecnica che nacque la
seconda provazione al pubblico americano; inviò a una mostra un orinatoio maschile prodotto in
serie, che ribaltò appoggiandolo sulla parte più larga, intitolandolo Fontana e firmandolo con lo
pseudonimo R. Mutt. Poiché faceva parte della commissione che avrebbe selezionato i lavori da
esporre, non voleva condizionarne le decisioni. La mia fontana-pisciatoio partiva dall’idea di creare
un esercizio sulla questione del gusto: scegliere l’oggetto che ha meno possibilità di essere amato.
La società degli Artisti Indipendenti di New York si rifiutò di esporre l’opera ,ma questa ebbe
ugualmente una grande risonanza. Presentare un orinatoio rovesciato significava, infatti, molte
cose: portare l’accento sull’importanza che stavano rivestendo gli oggetti di produzione industriale
nella vita comune ma soprattutto il contesto espositivo per trasformare un manufatto qualsiasi in
un’opera d’arte. Tutte questioni fondamentali e complesse a dispetto dell’apparente disarmante
semplicità della Fontana. Duchamp aveva già proposto operazioni di questo genere che definiva
ready made. Il primo oggetto di questa serie risale al 1913, un solo anno dopo i collages cubisti che
avevano segnato l’ingresso dell’oggetto comune nell’arte. Si trattava di una Ruota di bicicletta
montata al contrario su uno sgabello. L’opera si faceva beffe della struttura tradizionale delle
sculture celebrative, dal momento che la base era appunto incarnata da uno sgabello da cucina, e
la statua era sostituita con una ruota privata della sua funzione; come nel Nudo che scende le
scale, il movimento assumeva poi un significato dissacrante, dal momento che la possibilità da
parte dello spettatore di fare girare la ruota toglieva alla scultura la sacralità di ciò che è immobile
e non si può toccare. Questo antimonumento può essere messo all’origine di molta arte cinetica e
interattiva, basata sulla partecipazione attiva dello spettatore. Duchamp volle comunque dividere i
suoi ready made in due categorie: da un lato stavano quelli rettificati, ovvero modificati in qualche
particolare dal suo intervento, dall’altra gli oggetti che lasciava intatti, ricollocandoli soltanto in un
contesto differente da quello originario. È il caso dello Scolabottiglie, acquistato da un vinaio e
portato così come era in una sede espositiva. Questa seconda categoria portava le sue
provocazioni verso un nodo ancora diverso. Dall’Impressionismo in poi,infatti, erano nate gallerie,
mostre periodiche, musei che oggi potremmo definire la radice dell’attuale sistema dell’arte. Già
allora quasi ogni cosa riuscisse a entrare in questi templi godeva immediatamente dello statuto di
arte. Il contesto insomma, stava iniziando a diventare decisivo nel costruire il significato
dell’oggetto d’arte, proprio come il contesto di una frase è decisivo per cogliere il senso di una
parola. Così come sottolineò un’altra questione cruciale: chi è l’autore dell’opera, colui che la
esegue o colui che le attribuisce un valore? Duchamp volle distinguere nettamente i suoi ready
mades dagli object trouvès, gli oggetti di cui stavano iniziando a servirsi sempre più artisti: questi
ultimi, venivano scelti per le loro qualità estetiche, evocative mentre Duchamp sceglieva gli oggetti
sulla base di un principio che definì di indifferenza visiva: ciò che contava non era la storia che
l’oggetto poteva raccontare, ma l’operazione di spiazzamento, il fatto che l’oggetto venisse privato
del suo normale valore d’uso per assumere uno di segno diverso. I titoli non facevano che
sottolineare questa piccola rivoluzione. Considerando anche opere come il Grande Vetro possiamo
leggere l’intera poetica di Duchamp come un dialogo dissacrante, ma profondo contro le
convenzioni della storia dell’arte. L’orinatoio è stato visto anche come un grembo materno con
connotazioni androgine, come un’unione di forme maschili e femminili. LA stessa parola R. Mutt
con cui è firmato ricorda il tedesco Mutter ma se letta da destra a sinistra potrebbe anche essere
una sigla acronima per “tu mi ami Rrose Sèlavy” in francese. Rrose Sèlavy era lo pseudonimo che
Duchamp si era scelto per i travestimenti femminili. Ovviamente questo nome era un gioco di
parole a partire dalla frase “Rose c’est la vie”, scelta perché il rosa è tradizionalmente il colore della
femminilità. Rrose Sèlavy è letteralmente la parte rosa, cioè femminile, della vita di Duchamp. Il
gioco di parole fu uno strumento essenziale per Duchamp. La boccetta di profumo, strumento di
seduzione femminile, diventa simbolo del desiderio amoroso spinto fino all’eccesso. Un altro gioco
di parole e di immagini sta alla base della celebre L.H.O.O.Q. si tratta di una riproduzione della
Gioconda di Leonardo alla quale l’artista ha apposto baffi e barba e ha aggiunto la scritta del titolo.
Lette in inglese quelle lettere significano guarda, lette secondo uno spelling francese, esse
sciolgono il mistero del sorriso di Monna Lisa asserendo che “elle a chaud au cul”. Baffi e titolo
compiono una doppia dissacrazione ma anche una divertita indicazione. Duchamp è stato
l’iniziatore delle opere sul corpo dell’artista, che proseguono la tradizione dell’autoritratto con
mezzi soprattutto fotografici. In pratica l’artista si traveste, moltiplica la propria identità oppure la
annulla interpretando personaggi diversi. L’autoritratto è un genere che nacque quando l’artista
iniziò ad avvertire l’importanza della propria individualità e quando all’artista iniziarono a essere
attribuiti termini in relazione col divino, come genio, ispirazione, vocazione, con Duchamp esso fa
un balzo in avanti, denunciando l’enfasi che la cultura occidentale ha posto sull’individuo singolo
ed eccezionale come motore della storia e dell’arte. Questo tema è lampante nella fotografia in cui
Duchamp compare con una chierica a stella sulla nuca. Si intitola Tonsura e la scattò Man Ray nel
1919. Per capire questo semplice scherzo possiamo chiamare in causa molti dati: la stella a cinque
punte è simbolo di illuminazione, la testa è il luogo del pensiero, secondo le teorie gnoseologiche
di carattere mistico le conoscenze arrivano alla mente dall’alto, per il tramite di un raggio di luce
intellettuale. Facendosi fotografare con la tonsura a stella, Duchamp dichiarava, seppure in
maniera ironica, la propria dedizione alla ricerca della conoscenza. Duchamp era ben consapevole
della difficoltà di interpretazione del suo lavoro, tanto è vero che ne fece un riassunto: la Boite en
valise, è infatti, un museo portatile, una valigetta nella quale sono contenute minuscole
riproduzioni delle sue opere con le istruzioni e gli appunti che hanno accompagnato la loro
elaborazione. Troviamo, alcune chiavi di lettura: anzitutto la volontà di liberarsi da una pittura fatta
solo per la vista: come ebbe a dichiarare, la pittura non deve essere esclusivamente visiva o
retinica. Deve interessare anche la materia grigia. La seconda chiave è quella dell’Eros, inteso come
forza cosmica di attrazione tra poli opposti e generatore di desiderio, quindi di movimento. La terza
è quella del ribaltamento costante di senso, del passaggio di ogni significato al suo contrario: ciò
che è maschio diventa femmina, ciò che è comune diventa aulico, ciò che è sacro diventa volgare e
viceversa. (lettura immagine pag 206-207-208)
IL SURREALISMO cap 8
La parola Surrealismo era stata inventata da Apollinaire per descrivere il balletto di Diaghilev
Parade e il suo dramma Les Mamelles de Tiresias, venne poi adottata in un senso nuovo da Andrè
Breton. Il primo Manifesto del movimento fu pubblicato nel 1924 con la sola firma di Andrè Breton
ma molti storici ritengono che i presupposti fossero tutti pronti già attorno al 1920. Va ricordato
che il Surrealismo non perse mai una connotazione anche letteraria: la base del metodo
surrealista, fondato su incontri incongrui di immagini e di parole, stava nella poesia di Lautremont
di Mallarmè, di Rimbaud. Tra coloro che frequentarono le riunioni ricordiamo intellettuali come
Artaud, Bataille, Soupault e Aragon. Anche per questo il movimento occupò la scena fino al
secondo dopoguerra, non solamente in Europa ma negli Stati Uniti con lasciti decisivi nelle arti
visive, nella letteratura e nel cinema. L’apertura interdisciplinare fu favorita anche dal fatto che il
Surrealismo si propose come attitudine mentale e filosofia di vita più che in termini di ricette
tecniche; il punto centrale di questa filosofia era la lotta alla logica e dunque l’accettazione di ogni
aspetto dell’irrazionale, dal gioco alla magia, dal caso all’assurdo. Punto focale fu soprattutto
l’amore per la donna che fu letto da taluni in modo fosco e problematico, da altri con spirito ironico
e vitale, da altri ancora come il centro dell’esistenza. Fu organizzato molto attentamente e poggiava
su amicizia profonde che lo aiutarono a rimanere vitale per un tempo più lungo di altri movimenti:
una ventina di anni almeno.
Il Surrealismo fu una specie di credo con un papa carismatico: Andrè Breton, poeta, teorico e
romanziere. All’inizio della guerra era studente di medicina e chiese di essere assegnato a un
centro neuropsichiatrico dove venivano curate le vittime degli shock bellici. In questa occasione
venne a conoscenza di alcuni rudimenti di psicologia e del pensiero di Sigmund Freud. Il suo
entusiasmo a contatto con la Psicoanalisi fu tale che volle incontrare il grande medico viennese. La
visita avvenne nel 1921 ma fu poco gratificante in quanto Freud mostrò scarsissima comprensione
dell’arte moderna. Vi era tra i due un equivoco di fondo: per Breton i matti erano da salvaguardare
e proteggere proprio perché davano libero sfogo ai poteri creativi a-logici, mentre per Freud erano
malati che dovevano essere curati. Nel 1929 Breton redasse un secondo manifesto in cui propose
come obiettivo del movimento quello di coniugare la ribellione morale portata dal pensiero
psicoanalitico di Freud con la ribellione sociale proposta dal pensiero di Marx. Le spese di posizione
politica dei singoli aderenti per l’adesione o meno alla Terza Internazionale furono la causa più
importante di divisione.
Alla fine della prima guerra mondiale era chiaro che la tradizione di pensiero nata con il
Razionalismo nel Seicento, evolutasi nell’Idealismo del primo ottocento e giunta nel secondo
ottocento al Positivismo e al culto del progresso aveva largamente fallito: il culto della ragione e
della scienza aveva generato mostri; occorreva dunque volgere altrove lo sguardo. Anche se Breton
soleva dire che il Surrealismo non aveva bisogno di antenati, riconosceva dei precursori in Arthur
Rimbaud, cantore della perdita volontaria di controllo, in Alfred Jarry, sostenitore dell’assurdo, e
nello scrittore francese De Sade, quest’ultimo aveva portato le implicazioni della morale illuminista
verso le estreme, paradossali conseguenze, rappresentava un antecedente illustre della concezione
del desiderio sessuale come forza matrice della vita. Il motto di Breton era una frase di William
Blake secondo cui è meglio assassinare un bambino nella culla che cullare desideri non soddisfatti.
Tutto questo convergeva nella critica della tradizione filosofica francese: non a caso nel suo primo
Manifesto Breton cita anche Tommaso D’aquino e Descartes, fondatori di una mentalità convinta
della supremazia della fede e della logica sulle pulsioni primarie e fisiche. In campo artistico, i
Surrealisti riconobbero come grandi anticipatori tutti coloro che condivisero questa eclissi della
ragione
L’obiettivo dell’arte era quello di fare uscire allo scoperto un tipo di sapere capace di non negare,
ma anzi di esprimere le complessità della psiche umana. A questo puntava la pratica collettiva dei
cadavres exquis: il gruppo si disponeva intorno a un tavolo. Un membro incominciava a disegnare
poi ripiegava la carta e passava il foglio al vicino perché proseguisse il disegno senza sapere cosa
precedeva. Risultavano mostri o immagini incomprensibili che erano insieme frutto del caso e
dell’atmosfera psicologica in cui il gruppo aveva lavorato. Dal punto di vista tecnico queste
premesse si espressero in due diversi filoni: da una parte una pittura fatta con mezzi tradizionali
che aveva soggetti onirici che si ispirava a scene immaginarie e che conteneva sempre degli
elementi incongrui rispetto alla rappresentazione della realtà. Dall’altra parte stavano tecniche non
tradizionali tese a creare nell’artista uno stato di accesso ai propri contenuti inconsci. Fu
importantissima la tecnica della scrittura automatica o automatismo psichico, che consisteva nel
lasciare che il pennello o la penna disegnassero senza progetto, senza controllo, senza una guida
mentale imposta al movimento della mano; né vennero sottovalutati altri mezzi scoperti dal
Dadaismo come il collage, il fotomontaggio, l’assemblaggio di oggetti. La prima mostra collettiva di
pittura surrealista ebbe luogo nel 1925 m nella quale vi esposero Hans Arp, Man Ray, Picasso, De
Chirico e Paul Klee: un gruppo molto composito che attingeva a movimenti diversi, cosa che attesta
come il Surrealismo riuscì a porsi per un certo periodo come un vero catalizzatore. Altre esposizioni
salienti furono tenute nel 1938 dove ciascun artista assemblò tra l’altro, un identico manichino
femminile in maniera diversa e nel 1942, dove Duchamp riempì un salone antico di una ragnatela
di fili che era anche metafora della difficoltà di capire l’arte moderna: per vedere i quadri i visitatori
dovevano infatti infilarvicisi e attraversarla.
Il tedesco Max Ernst aveva una personalità acuta e ipersensibile. Fin da piccolo ritenne di avere un
alter ego in un uccello immaginario che definì Loplop. Amante dell’occulto e dell’ignoto studiò
filosofia e psichiatria. Visse dapprima un’esperienza espressionista e poi partecipò al Dadaismo.
Unitosi nel 1922 al gruppo surrealista lo ritrasse nel quadro Au rendez-vous des amis dove
riconosciamo Breton, Aragon, Arp e altri. La cifra che caratterizza tutta l’opera di Max Ernst è
l’associazione improbabile e inattesa di elementi disparagti, al fine di fare emergere implicazioni
erotiche, magiche o dissacratorie. Quest’ultima componente è molto chiara in un’opera-manifesto
come La Vergine che sculaccia il Bambino Gesù davanti a tre testimoni: Breton, Eluard e lo stesso
Ernst cioè coloro che sarebbero stati promotori del Surrealismo, assistono da una finestra a una
scena di vita quotidiana che rientra nei dogmi cristiani di Gesù-vero uomo oltre che figlio di Dio,
ma che mai altro pittore aveva ritratto. Questo fu il Surrealismo: parlare anche di ciò che la cultura
dominante comunemente occulta. L’anno seguente Ernst dipinse L’elephant Celebes, ispirato da un
recipiente sudanese, trasformato in una specie di elefante con una testa da minotauro picassiano e
una cresta fatta di materiali per disegno, ispirata a De Chirico. In basso è rappresentato un nudo
femminile decapitato. Troviamo un’immagine simile in Il Surrealismo e la pittura, dove un mostro,
la cui testa è una mano dipinge un quadro automatico mentre un cucciolo sembra nutrirsi dalle sue
mammelle appoggiato su una scatola di oggetti e strumenti tecnici. Ernst fu anche un grande
inventore tecnico. Si dedicò ad assemblaggio di oggetti e a collages come La femme 100 tetes,
ottenuti ritagliando le incisioni di romanzi illustrati, in modo da conferire un senso oscuro a
immagini nate come prevedibili e addirittura melense. Introdusse per primo il frottage, che
consiste nello strofinare una matita o un pastello su un foglio appoggiato a una superficie ruvida;
ciò che ne emerge sono superfici screziate che possono risultare evocative per l’immaginazione di
chi guarda. Negli anni 40 si trasferì negli Stati Uniti per un lungo periodo, dove intrecciò relazioni
importanti. Si dedicò anche alla scultura con materiali tradizionali: creò prevalentemente in
bronzo, essere totemici come Re che muove la regina. Molto intensa fu anche la sua attività
retorica: resosi conto della portata storica delle innovazioni tecniche dada-surrealiste, la descrisse
nel saggio Au dela de la peinture. Fu anche autore di una brillante autobiografia. (lettura immagine
pag 219)
L’immaginario sadico surrealista trovò il suo interprete estremo in Hans Bellmer, il cui incontro con
Otto Dix e George Grosz lo portò a interessarsi di illustrazione e pittura. La sua opera più nota
consiste in una bambola articolata con giunti, La Poupèe, che poteva variare posizione per essere
poi fotografata talvolta semivestita, talvolta senza testa o con una disarticolazione innaturale delle
membra. Ispirati ai giocattoli tedeschi a orologeria, questi automi perversi rappresentano una
variante saliente del tema donna-macchina trattato anche da Duchamp e da Ernst. Ricordo di un
amore proibito per una giovane cugina, questo corpo viene trattato come una macchina erotica
ambigua e contorta, capace di anticipare opere degli Anni Novanta centrate sullo stupro e su un
desiderio sessuale malato. L’ultima sua opera importante consistette nel Piccolo trattato di morale
in cui appaiono disegni splendidamente rifiniti che illustrano gli inquieti sogni erotici di dieci
ragazzine.
Andrè Masson ebbe una formazione eclettica: a Bruxelles fu particolarmente colpito dai dipinti di
Ensor. Trasferitosi a Parigi nel 1920, la sua casa divenne centro di dibattito su Nietzsche e Freud.
Profondamento colpito dalla sua partecipazione alla grande guerra, in cui venne ferito maturò
convinzioni ideologiche comuniste che risultarono un presupposto fondamentale al suo rapporto
con Breton. Entrò a far parte del gruppo surrealisti tra i primi, quando già aveva anticipato i principi
del movimento sperimentando la scrittura automatica. Usava una penna e inchiostro di china, sì
che la mano scorresse velocemente sulla carta formando un groviglio di linee dalle quali
emergevano embrionalmente immagini che sviluppava o interrompeva in modo da renderle
suggestive o evocative. Masson rifiutò sempre di dedicarsi a uno stile unitario e questo gli ha
procurato accuse di discontinuità e incomprensioni da parte della critica. Le sue immagini
condividono comunque un andamento magmatico e allusioni al continuo ciclo vitale nascita-
morte. In Metamorfosi degli amanti la vita dell’uomo si mescola a quella di organismi marini e
vegetali, tutti ugualmente impegnati nel ciclo della riproduzione e della trasformazione. Nel 1962
usava gettare spruzzi di colla sulla tela che poi batteva successivamente affinchè la sabbia gettata a
manciate rimanesse solo sulla colla; vi aggiungeva quindi poche linee o macchie di colore. Ne La
battaglia dei pesci l’olio si mescola alla sabbia e la supericie risulta scabra e granulosa, offrendo
una lucentezza inattesa. Esercitò come Ernst un’influenza decisiva nei confronti della giovane
generazione americana. Nel 1943 proclamò il suo definitivo distacco dal surrealismo.
Yves Tanguy si unì alle file dei Surrealisti dopo essere stato impressionato dalle opere di De Chirico.
Privo di una formazione artistica tradizionale si dedicò a una pittura non lontana dagli orizzonti
desolati di Dalì, i suoi paesaggi lunari o marini sono popolati di forme biomorfe simili a quelle di
Arp, di vegetazioni enigmatiche, di ossa e rocce di forme strane che forse aveva visto da giovane, in
Africa quando aveva viaggiato come marinaio. I titoli dei suoi quadri aiutano a ricostruire la base
narrativa e il fondamento di inquietudine mentale che unifica il suo lavoro, la sua tecnica fu
semplice e rifinita, senza alcuna traccia gestuale o materica.
Una delle tesi dei Surrealisti era che l’arte dei bambini fosse la manifestazione più fertile della
mente, non ancora condizionata dall’educazione sociale. Juan Mirò fu subito influenzato dal
Surrealismo e modificò il suo primo stile cubo-realista iniziando a dipingere secondo modalità
infantili, ovvero semplificando le forme. Ne Il Cacciatore pullulano forme di animali, strutture
geometriche, occhi, forme astratte; l’effetto generale è di innocente, vitale allegria: una cifra
costante di Mirò che ne distanzia la poetica dalle inquietudini di altri surrealisti. Va osservato che in
questo come in tutti i quadri maturi di Mirò per esempio L’arc en el ciel e Poetessa della serie delle
“costellazioni”, la superficie è tutta cosparsa da immagini e ideogrammi, disposti senza alcuna
gerarchia tra centro e bordi. Questa mancanza di simmetrie e centralità, la pittura a tutto campo
definita dai critici all over sarà una caratteristica fondamentale della pittura americana del
dopoguerra. La creazione diventa per Mirò una sorta di gioco combinatorio: stelle, falci di luna,
figure antropomorfe solitamente giocate sui toni del blu, rosso, giallo e verde, si mettono in
rapporto le une con le altre senza un progetto preliminare. Mirò fu il fiore all’occhiello del versante
pittorico del Surrealismo. Mirò tenne sempre a mantenere una sua anatomia dal gruppo
surrealista e coltivò una enorme ammirazione per Picasso. In un ciclo di grandi pitture a olio sono
poste in secondo piano le immagini buffe mentre si afferma la ricerca di costanti pittoriche e
cromatiche. Questi dipinti abbandonano il territorio dei microrganismi magici e brulicanti; sono
quasi sempre coperti di un colore piatto, sulle quali talvolta si adagia un secondo strato di colore
diverso. Tra questi vasti quadri ne troviamo alcuni sui quali un solo colore per esempio il blu, copre
tutta la superficie mentre una sottile striscia nera e sinuosa ne interrompe l’integrità. Mirò fu di
natura ribelle dal punto di vista politico: il suo impegno si rivolse soprattutto contro la dittatura di
Franco in Spagna. Fu anche uno dei primi artisti a criticare aspramente il sistema commerciale
dell’arte. Nell’età più avanzata ebbe un intenso interesse per la scultura in bronzo e per la
ceramica. Nel corso della sua prima visita negli Stati Uniti eseguì un murale di ceramica che fu il
primo di una lunga serie: il più noto è quello eseguito nel 1956 presso la sede dell’UNESCO a Parigi,
ma altri decorano la Harvard University, l’aeroporto di Barcellona e altre sedi: a partire dagli anni
Settanta, infatti l’artista si dedicò con sempre maggiore impegno a opere monumentali concepite
per lo spazio pubblico.
Senza dubbio il surrealista più discusso per la sua grande inventiva ma anche per molti suoi
atteggiamenti irritanti fu Salvador Dalì. Egli definì la sua stessa pittura “critico-paranoica”. Dopo
un’infanzia trascorsa nella convinzione di dovere assolvere a una doppia vita, la propria e quella del
fratello che era morto prima della sua nascita, studiò a Madrid, dove venne più volte espulso dalla
scuola per avere accusato i professori di incompetenza; giunse a Parigi e si legò al gruppo
surrealista piuttosto tardi elaborando uno stile fondato su un immaginario che egli stesso definì
“perverso-polimorfo”. In Persistenza della memoria vediamo un paesaggio desolato,
probabilmente ispirato a Port Lligat, il tratto di costa spagnola dove scelse di abitare dal 1930. Gli
orologi si sciolgono come in un’improbabile dilatazione del tempo. Uno di essi si posa su un
autoritratto che riconosciamo come tale in quanto riprende l’immagine di un quadro precedente: Il
grande masturbatore dove il viso deformato dell’artista è assediato da un gigantesco insetto che lo
succhia e viene rappresentato come un’architettura fantastica la cui unità si divide in figurazioni
diverse: un fiore bianco, il busto di una donna, i fianchi di un uomo-bambola. In Sogno causato dal
volo di un’ape en elefante ha gambe di ragno e una tigre nasce da un pesce a sua volta nota da un
melograno. In altre opere come La Venere a cassetti, questo genere di trasformazioni oniriche è
trasportato sul corpo dell’arte classica. Un tratto molto personale di Dalì fu il modo in cui utilizzò il
proprio esibizionismo. Autoritratti e fotografie lo ritraggono vestito in modo appariscente con
piccoli baffi rivolti in alto, capelli impomatati, sopracciglia ridisegnate. Il suo desiderio di
dimostrare comportamenti eccessivi lo spinse a manifestare simpatie naziste, a vivere come un
nobile circondato da una corte di adoratori e a ritenersi l’unico pittore valido della cerchia
surrealista. Dal 1936 visse negli Stati Uniti dove trovò una notorietà che provocò anche un
aggravamento progressivo delle sue condizioni psichiche.
Paul Delvaux fu folgorato dalla pittura metafisica di De Chirico. Il suo stile personale emerse nel
1936 e suscitò l’interesse di Breton, che prese a invitarlo alle esposizioni di gruppo. Il suo mondo
suggestivo, ma anche ripetitivo, contraddittorio e venato da una cupa ironia, è un universo
pietrificato la cui protagonista assoluta è la donna vista come oggetto di attrazione inattingibile.
Nel quadro più famoso L’Aurora compaiono quattro busti di donna fissati a tronchi d’albero: ciò ne
fa essere sessualmente irraggiungibili come le sirene, ma anche immobili. Il ceppo di marmo al
centro dell’immagine contiene uno specchio e per questo ricorda l’iconografia classica della
vanitas, la vanità della vita e della stessa bellezza, ma allude anche a un possibile osservatore
esterno sedotto ma impotente: un voyeur. L’ambientazione ricorda per il muro di destra una
prigione ma anche un giardino, per le arcate fiorite sullo sfondo, sotto cui forse stanno per
incontrarsi un uomo e una donna in corsa. Speranza e disperazione, amore e morte, realtà e sogno
si incontrano e si alternano.
Wifredo Lam è stato il primo artista non bianco e non proveniente dall’Europa a entrare a pieno
titolo nella storia dell’arte occidentale. Lam fu un personaggio ponte tra la parte povera e quella
ricca del mondo. Il suo capolavoro La giungla è uno dei pezzi più rappresentativi della collezione
del Museo d’Arte Moderna di New York. Nel 1938 ebbe inizio la sua profonda amicizia con Picasso
e attraverso di lui conobbe l’ambiente artistico di Parigi dove decise di stabilirsi. La relazione con
Breton e tutto il gruppo surrealista iniziò nel 1939. La sua pittura è il risultato della sintesi dei graffi
primitivi unita a echi cubisti, alla magia delle sculture latino-americane e alla libertà automatica del
segno. La giungla, compendio di tutta la sua poetica, è una grande composizione quadrata che
descrive un paradiso tropicale. Lo spazio figurativo è ritmato da fitte linee verticali come fosse una
porzione di bosco in cui tronchi ordinati sorreggono il disordine del fogliame. Anche i colori,
centrati sull’incontro tra verdi, rossi e gialli suggeriscono una vegetazione rigogliosa al tempo
stesso umbratile e assolata. Gli alberi si rivelano essere corpi femminili: i piedi grandi come quelli
delle figure di Picasso sostengono come radici gambe lunghe e sottili che a loro volta si dilatano in
glutei rotondi, in busti, in mammelle e volti anch’essi picassiani. Fertilità vegetale e umana si
sposano e si confondono in un’unica immagine di vitalità incontaminata e lontana dal mondo
urbano.
La personalità di Alberto Giacometti era davvero speciale e anche per questo non può essere
incluso in nessun movimento, benchè Breton lo abbia insistentemente chiamato tra la fila dei
Surrealisti. Aveva avuto un doppio stimolo: da un lato la scuola classica, che gli insegnò a servirsi
dei materiali tradizionali, dall’altro le avanguardie del momento. La prima e unica scultura che egli
definì cubista fu Uomo. Poi venne il simbolismo sintetico, impersonato dall’imponente Donna-
cucchiaio dall’addome a forma di uovo, sopra convesso e sotto concavo, come a chiarire il doppio
compito del ventre femminile: accogliere ma anche espellere. In Uomo e donna il medesimo
cucchiaio è penetrato dalla freccia di un arco. I rapporti tra uomini e donne furono per Giacometti
un’ossessione costante. Nelle sue opere la donna è sempre vissuta come un ente distante e
differente, capace di suscitare rispetto ma impossibile da possedere. La sua opera più esplicita in
proposito è una Donna con la gola tagliata che sta posata in orizzontale a terra e che ricorda uno
scorpione. Probabilmente l’artista era stato ispirato dall’attenzione che la stampa riservava in quei
mesi al criminale Jack lo Squartatore. Gli anni 30 furono densi di ripensamenti. Nei suoi scritti
Giacometti menziona la collaborazione con un designer, per spiegare quanto ritenesse inutile
seguire nella scultura solo le proprie immagini mentali; così mentre progettava lampadari e gioielli,
ricominciò a scolpire dal vero. I suoi soggetti preferiti furono il fratello Diego e le prostitute. Le sue
sculture abbandonarono allora la superficie liscia e si fecero grumose come castelli di sabbia
bagnata. La visione non era più solo frontale ma incominciava a sopportare uno sguardo che le
indagasse circolarmente. La dimensione era sempre rimpicciolita o piuttosto incredibilmente
dimagrita rispetto al modello, fino a scolpire teste del diametro di due centimetri su corpi lunghi
due metri. La resa dei particolari fisiognomici era, al contempo offuscata e accurata: Diego per
esempio, resta sempre riconoscibile ma le deformazioni che il suo volto subisce tra le mani del
fratello sono tali da farcelo apparire come in una fotografia sfuocata. Se la Donna-cucchiaio ancora
afferma, asserisce, crea, La Donna alta a malapena riesce a esistere.
LA METAFISICA cap 9
La Pittura Metafisica precede sia il Dadaismo sia il Surrealismo. Come si è visto, infatti, questi due
movimenti ne vennero profondamente influenzati: i Dadaisti pubblicarono lavori di De Chirico nelle
loro riviste e i Surrealisti lo considerarono un precursore delle loro ricerche sui territori
dell’inconscio e del prelogico. Ma la corrente metafisica fu anche fondamentale per comprendere
ciò che in seguito venne chiamato “il ritorno all’ordine”. Ciò venne avvalorato del resto, dal feroce
atteggiamento negativo che De Chirico stesso aveva assunto contro le tecniche delle Avanguardie:
dopo una prima fase di entusiasmo per le nuove ricerche, scrisse che sarebbe stato necessario
insegnare ai loro protagonisti che prima di avere l’emozione, l’angoscia, la sincerità, la sensibilità
farebbero meglio ad imparare a fare una buona e bella punta al loro lapis. Occorre sottolineare che
la Metafisica rappresentò il tramite che dal Simbolismo, assimilato da De Chirico nell’ambiente di
Monaco, condusse verso il Surrealismo e i suoi sviluppi. Il discorso è completamente diverso per
Carrà, proveniente dalle file del Futurismo ma legato alla tradizione classica italiana. Fu soprattutto
il contributo teorico di quest’ultimo a orientare la svolta verso il recupero della tradizione.
Giorgio de Chirico è stato l’artista italiano più influente nell’ambito delle Avanguardie storiche, il
più amato ma anche il più controverso. La sua vocazione per la pittura fu precoce. Alla morte del
padre, la madre lasciò la Grecia per l’Italia e quindi per Monaco, dove pensava vi fosse un contesto
culturale più stimolante per l’educazione dei figli. In quel periodo l’artista vide i quadri del pittore
svizzero Arnold Boklin. Le sue opere esercitarono su De Chirico un’influenza indimenticabile e
furono anche l’oggetto di un suo breve saggio. I quadri di quel periodo rappresentavano battaglie
di centauri. La cultura di De Chirico si nutrì della passione per la mitologia greca: eroi come i
Dioscuri, Ettore e Andromaca e in generale le Muse furono temi ossessivamente ricorrenti della
sua pittura. Come Nietzsche anche De Chirico vedeva nella grecità la culla dell’Occidente, nella
quale erano stati affrontati tutti i più grandi temi dell’umanità. L’artista ebbe per il filosofo tedesco,
del resto, un’ammirazione che si tradusse in una sorta di identificazione. L’influenza di Nietzsche
non si fermò alla sola serie delle Piazze d’Italia. L’autoritratto Et quid amabo nisi quod aenigma est
plagia una famosa fotografia di Nietzsche, a sua volta impostata ricalcando la posizione classica
della malinconia come allegoria del pensatore inquieto e saturnino. Il problema dell’identità
indefinita, nel contempo una e molteplice, è lo stesso affrontato dal lettorato Luigi Pirandello. Nel
1910 De Chirico fece ritorno in Italia: fu l’anno delle sue prime opere mature. Ne L’enigma
dell’oracolo compare nel titolo per la prima volta la parola “enigma” che fu poi ricorrente in tutta la
sua pittura successiva. Molti particolari del quadro sono volti a dare una sensazione di mistero:
Ulisse viene isolato e dipinto di spalle; al centro compare un muro impenetrabile allo sguardo; a
destra una tenda, dalla cui sommità appare la testa di una statua, ricorda forse le chiese greche di
rito ortodosso dove le tende nascondevano la presenza della divinità. Tutta l’opera appare una
citazione in certi punti letterale, di Ulisse e Calipso di Boklin. Nel 1911 venne dipinta una delle
prime opere dedicate alle piazze d’Italia; L’enigma dell’ora. La tecnica è molto semplificata, tutta
l’attenzione è rivolta alla scena descritta, dove l’assenza di movimento da l’impressione di un
tempo fermo, di un luogo silenzioso, di un palco da cui sono assenti emozioni vitali. Confermano
queste sensazioni la presenza di una architettura classica nonché l’assenza della figura umana.
L’intera serie della piazze d’Italia è connotata da spazi teatrali in cui l’esistenza appare più recitata
che reale. Gli spazi sono definiti da prospettive multiple con punti di fuga incongruenti tra loro: così
l’occhio di chi osserva è impegnato in una inquieta ricerca del giusto ordine in cui disporre le
immagini. Altri particolari mettono lo spettatore nella condizione di chi deve risolvere un rebus: i
cieli sono grigi o verde veronese, sullo sfondo compaiono un treno, la vela di una nave o altri
particolari inattesi; alla classicità dell’architettura viene sovente contrapposta la presenza di
ciminiere, così che il passato e il presente si mescolano in un tempo indeterminato. Fatta eccezione
per gli autoritratti e i volti dei familiari, la figura umana non compare se non sotto forma di
manichino, di statua, di automa, insomma non di “soggetto” con una vita interiore, ma di
“oggetto” come accade in Ettore e Andromaca: il corpo può essere anche rappresentato sotto
forma di macchina o di complessa struttura ingegneristica; la negazione del valore del progresso è
rappresentata appunto dall’immobilità delle figure. Dal 1913 comparvero nei quadri carciofi,
banane e altri oggetti assurdi: la vecchia natura morta si rinnova con amaro umorismo come ne
L’incertezza del poeta che prende spunto da una natura morta di Van Gogh. La citazione fu sempre
uno strumento prediletto da questo autore. Nel 1912 De Chirico espose le proprie opere a Parigi,
dove venne notato da Guillaume Apollinaire. Ne nacque un legame di cui fu frutto un celebre
ritratto, in cui il teorico del Cubismo compare sotto forma di profilo nero con un cerchio bianca
sulla tempia, come se si trattasse di un bersaglio. In basso è dipinto un gesso con gli occhiali neri
tipicamente attribuiti ai non-vedenti e dunque a coloro che vedono attraverso altri sensi:
l’allusione è al cantore Orfeo e in generale ai veggenti e agli indovini citati in altre opere
dell’autore. A destra troviamo stampi per cucinare a forma di pesce e di conchiglia: gli stampi sono
una citazione giocosa del ricalcare la natura, che è tipico dell’artista. L’insieme è ambientato in un
piazza d’Italia, come dimostra l’arcata in ombra a destra. Nel 1916 De Chirico venne internato
nell’ospedale militare psichiatrico di Ferrara, dove incontrò Carlo Carrà: fu a questo punto che i due
adottarono il termine di pittura metafisica. Questa denominazione venne scelta perché indicava un
preciso riferimento filosofico ad Aristotele e a quella parte del pensiero greco antico che descrive
una realtà che trascende quella conoscibile ai sensi. All’insegna di tale definizione si riunirono De
Chirico, Carrà, Savinio, Filippo De Pisis, Giorgio Morandi e Ardegno Soffici. Verso gli anni 20 la
stagione metafisica di De Chirico volse al termine. La sua presa di posizione contro le Avanguardie
fu tale che, in un famoso saggio pubblicato sulla rivista Valori Plastici nel 1919 invocò un radicale
ritorno al mestiere contro quelle che definì baldorie coloristiche che da mezzo secolo infieriscono
sull’Europa. Iniziò a preferire la tempera su tavola all’olio su tela, frutto della modernità. Alla metà
degli anni 20 si spostò nuovamente a Parigi, lusingato dalle esaltanti dichiarazioni dei Surrealisti sul
suo operato. Ben presto, però, la relazione giunse a una frattura perché Andrè Breton non
apprezzava l’ultima produzione dechirichiana: da allora egli definì l’artista italiano come genio
perduto. Risale al 1929 il suo scritto intitolato Ebdomero, in cui l’artista stese una sorta di
autoritratto mentale. La produzione successiva agli anni 30 si può dividere in vari filoni tra i quali
emergono due tipologie di lavoro: classicismo baroccheggiante da un lato e repliche e variazioni
dei suoi capolavori metafisici dall’altro eseguite per motivi commerciali. Il suo atteggiamento
scatenò reazioni negative da parte della critica. (lettura immagine pag 242)
Indissolubilmente legata a quella di De Chirico è la figura del fratello Alberto Savinio. Affascinato
dal fratello maggiore ma più inquieto e raffinato riguardo alla formazione culturale, e solo dal 1925
si dedicò alla pittura. Fu soprattutto la sua attività di scrittore a influenzare la corrente metafisica:
dalle poesie di Savinio derivano le figure dell’uomo senza volto che poi sarebbe stato trasformato
in manichino. La sua pittura appare abbastanza vicina a quella dei Surrealisti, benchè nelle sue
opere assuma un ruolo fondamentale non tanto la libertà di associazioni caratteristica del sogno o
dell’inconscio, quanto la mescolanza tra ricordi sia colti che intimi. I personaggi umani assumono
teste di animale come accade ne La sposa fedele, una Penelope che sembra attendere il suo Ulisse
guardando il mare da un poggiolo. Il mare greco e i segni di una infanzia lontana compaiono anche
ne La nave perduta, dove viene toccato un altro tema ricorrente di Savinio: cose di casa e giocattoli
i quali ammassati, posti fuori dal loro contesto usuale e aumentati di volume, assumono l’aura
monumentale che si assegna alle memorie incancellabili. Le sue opere si caratterizzano spesso per
una completa trasgressione dei rapporti dimensionali, per cui visi, oggetti, navi, possono diventare
giganteschi anche se posti in secondo piano. Quanto alla tecnica pittorica Savinio dichiarò sempre
di cercare un dipingere forte, conferendo ai molteplici strati dell’opera, dal disegno alla superficie
dipinta, un alto grado di concentrazione e una tecnica fatta di sovrapposizioni di segni e pennellate
vicine dai colori diversi. Non può essere dimenticata la sua attività di scenografo e costumista
teatrale: il teatro riuniva musica, danza, pittura e letteratura dimostrandosi forse il settore più
adatto a quella intensa relazione fra le arti e all’aspirazione all’opera.
Dopo una breve ma intensa carriera futurista Carlo Carrà si staccò da quel movimento per cercarne
l’opposto, l’immagine statica. Nel 1916 dipinse l’Antigrazioso e il Gentiluomo ubriaco. la prima
opera, un dipinto arcaico e grottesco, riprende in maniera polemica un titolo di Boccioni e mostra
un atteggiamento opposto al dinamismo avventuristico. Nel secondo la realtà è come bloccata in
forme essenziali con mezzi cromatici elementari. Nel 1917 l’incontro con De Chirico a Ferrara
determinò il breve sodalizio. Fra i quadri dipinti nel 1917 ricordiamo Il dio ermafrodito, che
riprende le tematiche del manichino, dell’uomo senza tempo e della mitologia care ai fratelli De
Chririco. Vi si osserva un fantoccio di pezza visibilmente e volutamente sproporzionato, collocato in
un ambiente troppo piccolo e dunque opprimente, evoca per la mancanza di genitali e per il saluto
benedicente la figura di un angelo. Questa allusione alla sfera divina e all’atto dell’annunciazione
però si oppongono alla dimessa atmosfera dell’ambiente. Il Cavaliere dello spirito occidentale è
dello stesso anno e mostra un notevole distacco da De Chirico: lo sfondo infatti non è lontano da
quelli delle piazza d’Italia ma il manichino diventa dinamico e si colloca su di un cavallo in corsa,
riprendendo la tematica futurista del movimento. Già nel 1919 anno in cui venne dipinto Le figlie
di Loth, il suo stile era cambiato di nuovo, raggiungendo l’autonomia tanto dai Futuristi quanto da
De Chirico. L’opera conduce oltre che alla Bibbia per il tema suggerito dal titolo: sullo sfondo
compare infatti la sagoma di un tempio che ricorda vagamente san Pietro in Montorio cosi come la
prospettiva del lastricato rievoca quella dello Sposalizio della Vergine di Raffaello. L’impianto è
fortemente centrale: la collina più alta incomincia alla metà esatta dell’altezza del quadro e il
tempio è collocato quasi precisamente sul suo asse centrale. L’insieme è costruito su due piani
netti: nel primo le due figure umane, densamente espressive e non più senza volto, sono
visivamente congiunte dal gesto accogliente del cane la cui zampa traccia due linee parallele a
quelle del braccio della donna a destra. Il secondo piano si apre sull’unione romantica di natura e
rovine ed è anch’esso distinto in tre elementi che ripetono, ribaltate, le dimensioni degli esseri
animati in primo piano: collina piccola, tempio e collina grande, avvicinata al primo piano da una
roccia e da una colonna sormontata da una pigna marmorea. Il primo piano rappresenta una
vicenda ambientata nel passato biblico, mentre il secondo potrebbe rappresentare anche il
presente: come dire che i valori del passato si sono fatti più presenti di quelli di un presente senza
più spinte entusiastiche. Lo studio simbolico, iconografico e geometrico sotteso all’opera costruisce
un programma di recupero dei valori artistici più specificamente italiani.
Il primo conflitto mondiale aveva provocato una dispersione dei gruppi delle avanguardie e vi fu un
generale ritorno al Realismo, declinato in forme molto diverse ma accumunate dal rigetto per lo
sperimentalismo. L’epoca dei grandi dibattiti al caffè o negli studi degli artisti era finita: tutt’al più
essi avvenivano attraverso riviste oppure in qualche galleria di punta. Iniziava a diffondersi nella
vita quotidiana il gusto Dèco, un termine nato da una grande esposizione di arte decorativa che si
tenne a Parigi nel 1925, intitolata Arts Dècoratifs. Con il boom economico favorito dai grandi
investimenti per la ricostruzione postbellica il mercato dell’arte conobbe un momento di grande
euforia. La floridezza economica si riflesse in una produzione più figurativa e conservatrice. È
singolare che gli artefici del nuovo cambiamento fossero spesso gli stessi delle avanguardie
storiche e che il fenomeno abbia coinvolto tutto il mondo. La conversione ebbe alcune
caratteristiche comuni:
Diede del mondo una visione apparentemente serena, ma nel profondo melanconica e
inquieta
L’Italia ebbe un ruolo decisivo nel ritorno all’ordine internazionale. Nel 1918 il pittore Mario Broglio
fondò la rivista Valori Plastici che ne consentì una buona diffusione in Europa. Il concetto su cui si
fondava Valori Plastici era il recupero del grande patrimonio classico. Tra i primi ad accantonare le
idee futuriste fu Gino Severini, la cui Maternità è lontanissima dal puntinismo futurista di pochi
anni prima. Le proposte di Valori Plastici culminarono in una mostra organizzata a Berlino nel 1921
dal titolo I giovani italiani. Vi parteciparono Carrà, De Chirico, Morandi e Martini. Accanto ai quadri
metafisici apparvero una grande natura morta di Giorgio Morandi e Il pino sul mare di Carlo Carrà,
un dipinto di medie dimensioni che abbandona sia i calcoli complicati sia il dialogo tra le figure de
Le figlie di Loth. A sinistra si intravede l’angolo di una casa geometrica, l’orizzonte mostra un mare
cupo e il centro del quadro è occupato da un cavalletto coperto da un drappo bianco banale, privo
di simbolismo. Negli anni 20 soprattutto in Germania e in Italia la formula del Realismo magico
ebbe molta fortuna: un ossimoro termini in apparenza contraddittori, che stava ad indicare una
pittura dai soggetti reali eppure resi misteriosi soprattutto dalla loro staticità trattenuta. La
corrente espresse queste sue prerogative decisamente contrarie a quelle che avevano informato le
Avanguardie degli anni 10 e da De Chirico: questo era stato un sostenitore dei futuristi ma fu
pronto a seguire le evoluzioni successive dell’arte italiana. In un paese in cui il tumulto reale della
guerra aveva spazzato via ogni desiderio di provocazione, i giovani erano desiderosi di aderire
all’appello con cui De Chirico e Carrà promuovevano il ritorno al mestiere e al classicismo.
La mostra degli italiani in Germania chiarificò la situazione italiana ma ebbe anche notevole
influenza su quella tedesca. Anche in quest’ambito venne applicata la definizione di Realismo
magico, adatta all’ala del Realismo tedesco più vicina al Classicismo e lontana dall’Espressionismo.
L’ala più significativa del Realismo tedesco fu di chiara derivazione espressionista e mostrò una
forte impronta politica. Denominata Nuova Oggettività comprese George Grosz, Max Beckmann e
Otto Dix.
George Grosz ebbe rapporti stretti sia con i Futuristi sia con i Dadaisti. Ne I pilastri della società
troviamo una descrizione grottesca e profetica di quanto sarebbe accaduto di lì a poco nella
Germania nazista: il giornalista con la piuma ha un vaso da notte in testa e la serietà del suo
sguardo finisce nel ridicolo; il veterano di guerra ha una svastica sulla cravatta e sogna di
combattere nuovamente, come dimostra il guerriero che esce dalla sua testa; il politico
convertitosi al Socialismo per opportunismo ha per cervello escrementi fumanti; il prete dal naso
rosso, ubriaco non meno del veterano, benedice il fuoco e la distruzione; un gruppo di poliziotti
sullo sfondo si aggira con aria intimidatoria.
Max Beckmann fu autore di una pittura dai toni aspri e moralisti. I suoi enormi trittici sono costruiti
come pale d’altare gotiche in cui situazioni del presente sono accostate a immagini mitiche. Ne La
partenza le parti laterali descrivono con crudo realismo torture e costrizioni fisiche, mentre il
pannello centrale presenta una regina madre, ritratto della moglie dell’artista e allegoria della
salvazione, che in grembo ha un bimbo simbolo della libertà. Il grande mare sul fondo contrasta
con le scene claustrofobiche laterali.
Otto Dix si arruolò volontario in guerra, ne tornò con il disgusto per la vita di trincea e una
compassione profonda per i reduci. Ottenne la sua prima esposizione personale nel 1926.
Protagoniste dei suoi quadri molte donne dai tratti deformati: perché lascive prostitute, o perché
incinte, o perché anziane e disfatte. Spesso il corpo femminile seducente è associato ai simboli
della morte. La donna che non sia mero strumento di piacere, come la mascolina Giornalista Sylvia
von Harden, venne ritratta al tavolino di un bar e appare triste, rigorosa, sacrificata in un abito
appariscente ma senza fronzoli; il monocolo nero, il taglio duro dei capelli, la bocca scura che si
apre su un ghigno, le mano forti e rapaci la rendono aggressiva contro se stessa prima che contro il
mondo, occupata a bere e a fumare in solitudine. Nel grande trittico Metropolis Otto Dix ritrae
Berlino mettendo in luce la concentrazione di essere umani, ammassati in un territorio così piccolo
da renderli aggressivi e tutti impegnati nella ricerca della sopravvivenza o di piaceri fugaci. Sono
presenti gli animali servi dell’uomo: un cavallo, un cane e una volpe morta. La strada notturna è
piena di prostitute e percorsa da un reduce mutilato, che a sua volta calpesta un ferito e che è
inseguito da un cane come la carta del matto nei tarocchi, simbolo di colui che ha perso
l’orientamento; al centro sta un locale raffinato, pavimentato in legno, dove si suona e si balla.
Sulla destra entriamo nel mondo del lusso: il susseguirsi di colonne e capitelli mostra la decadenza
grottesca di Berlino che ricorda l’ultima Roma e con essa i fasti di un impero in caduta libera.
Simmetricamente a quanto accade a sinistra, anche qui un reduce sfigurato chiede la carità con un
cappello, senza essere neanche sfiorato dagli sguardi delle dame, che non sono che merce esposta
in una processione blasfema: tra tanto male di vivere non c’è più spazio per alcuna fede.
In Francia il desiderio di ordine venne incarnato dall’esasperazione delle idee di Juan Gris riguardo
all’importanza dell’elemento geometrico, sfociata nel movimento battezzato Purismo da Amedèe
Ozenfant e Charles Jeanneret. Accanto a questa linea si impose anche una tendenza a un Realismo
classicheggiante, di cui si fece portavoce la nuova pittura di Derain. La svolta fu palese con una
mostra che ebbe luogo nel 1920. Un personaggio isolato ma molto significativo fu Balthus,
autodidatta in pittura, si entusiasmò di fronte agli spazi costruiti da Piero della Francesca e dalla
pittura murale italiana; se la chiave formale del suo lavoro è classica, quella morale ha invece una
vena di perversione e addirittura di blasfemia: le sue ragazze adolescenti alla scoperta della
sessualità sono riletture di giovani Madonne. Ne Il sogno di Teresa un raggio di Sole impudico
colpisce il volto e le cosce della ragazza. La strada il suo primo quadro importante, è uno scorcio
urbano comune, popolato da personaggi che simboleggiano le fasi della vita: da destra a sinistra
una sposa con il suo bimbo in braccio e una giovane elegante di spalle, un giovane uomo, un
lavoratore che trasporta un asse, una bimba che gioca a palla e una coppia di giovani impegnata in
un approccio amoroso che, guardando la mano di lui che blocca la fuga di lei, appare un gioco
violento.
Mussolini conquistò il potere nel 1922, Stalin nel 1924, Hitler nel 1933. Era stata la mobilitazione
politica dei reduci della guerra a nutrire i partiti a vocazione totalitaria. La grande guerra era stato il
primo conflitto di massa e tutti e tre i regimi che ne derivarono ebbero un dato comune: la
sottomissione dell’individuo alla collettività, che tendeva a identificarsi in capi carismatici. L’arte, il
dominio tradizionale delle immagini e dunque della comunicazione visiva, non poteva sottrarsi
all’influsso di questa atmosfera. Nel 1923 alla Galleria Pesaro di Milano si inaugurò una mostra. Gli
artisti erano sette: Bucci, Dudreville, Malerba, Funi, Marussig, Oppi e Sironi. Tutti i partecipanti
erano pittori figurativi e usavano tecniche tradizionali: la curatrice sosteneva, infatti, che il
linguaggio dell’Avanguardia era stata una sorta di malattia infantile dell’arte. Fu Bucci a proporre il
termine Novecento per designare la nuova tendenza che presto ampliò il suo primo nucleo. Nel
1926 al Palazzo della Permanente di Milano, si inaugurò la grande mostra ufficiale nel Novecento
Italiano. Questa volta Mussolini intervenne in modo ufficiale sottolineando in un discorso la
decisione e la precisione del segno, la nitidezza del colore, la solida plasticità delle cose e delle
figure nelle opere esposte. Il movimento fu quindi promosso dal Fascismo anche perché aveva
l’ambizione di incarnare uno spirito nazionale. Occorre riconoscere che il Novecento comprendeva
quanto di meglio l’arte italiana proponeva in quegli anni: erano presenti la componente del
Realismo magico, gli ex Futuristi, i naturalisti. Non siamo quindi di fronte a un programma preciso e
in effetti, all’interno del gruppo, i disaccordi erano continui.
Mario Sironi sfiorò con scarso entusiasmo l’esperienza futurista. La sua vasta produzione si divise
fra illustrazioni, architettura, pittura su tela e soprattutto murale, la più adatta a educare il
pubblico. Nel 1936 si cimentò con il mosaico. Diede il meglio di sé in una parte di produzione più
lirica: piccole opere dedicate alle periferie piene di ciminiere, gasometri, palazzi dormitorio. I toni
cupi e le luci sono vicine a quelle dell’espressionista Constant Permeke. Sia nei paesaggi sia nei
ritratti di donna la pittura appare dominata da un forte impianto geometrico: in Grande paesaggio
urbano la strada vuota e i palazzi che la circondano sono poco più che volumi regolari visti in
prospettiva, ne L’allieva l’ovale del volto si ripercuote sulla curva della scollatura e sulla brocca in
primo piano, una piramide sullo sfondo fa eco a una squadra da disegno sul tavolo; la statuetta
femminile di gesso contrappone un corpo intero al mezzobusto di taglio rinascimentale della figura
principale.
Felice Casorati può essere identificato nell’ambito del Realismo magico. Si dedicò alla pittura dal
1918 e venne influenzato dalla Metafisica. Negli anni 20 elaborò uno stile personale caratterizzato
da un formalismo neoclassico che prediligeva le forma in posa e la calma degli interni. In L’attesa
una madre attende la famiglia a cena. La figura del quadrato domina il pavimento a scacchiera, che
fugge oltre la porta sul fondo. Il tavolo e gli sgabelli sono volumi tendenzialmente cubici. La
costante della sfera appare nelle tazze, nella testa e nella scollatura della donna. Il collo della
bottiglia cade nel centro esatto del bordo superiore, verso il quale converge anche la fila di tazze
allineate. L’ordine degli elementi parla di un’ansia melanconica e tesa. In Meriggio il punto di fuga
prospettico è ancora più alto che nel dipinto precedente, gia molto scorciato. Due donne nude
riposano su una coperta; una ragazza traccia una diagonale con il suo corpo che divide lo spazio in
modo ardito; l’altra è una evidente citazione del Cristo morto di Mantegna, con i piedi in
primissimo piano. Due pantofole rosse e un cappello da prete anch’essi collocati in primo piano
parlano in modo inquietante della terza presenza, un uomo che si intravede di spalle e che fa eco
alla diagonale del primo corpo con la sua schiena incurvata. Alla tranquillità della luce pomeridiana
si oppone lo straniamento generato sia del tema, sia da una struttura compositiva che ottunde
l’orientamento tanto visivo quanto etico.
Antonio Donghi fu l’esponente più rappresentativo di una pittura che ritornava all’ordine e alla
precisione esecutiva degli antichi, fu affascinato dalla riscoperta di Piero della Francesca. Donghi
aderì senza entusiasmo al gruppo del Novecento e soltanto quando già aveva raggiunto una certa
notorietà nell’ambito del Realismo magico. Le scene che dipinse son tanto realiste da contenere
donne, aneddoti e paesaggi romaneschi, ma restano velate da un senso di irrealtà dovuto alla loro
fissità a una luce derivata da Seurat e dai Fiamminghi. Donghi rendeva statiche anche le situazioni
più dinamiche: già nel precoce Carnevale sembrano fermi persino tre saltimbanchi. La sua
attitudine a un mistero alleggerito dall’ironia è evidente ne La Canzonettista.
Un altro protagonista originale del Novecento fu Massimo Campigli, pittore autodidatta, venne
impressionato soprattutto dall’arte etrusca, nacque allora il suo stile personale, destinato a
connotare per sempre la sua pittura. I suoi colori acquistarono toni terrosi, che conferivano ai
dipinti l’opacità dell’affresco. Le sue figure femminili assunsero il carattere di ideogrammi che si
compongono in rapporti sempre nuovi con grande eleganza decorativa.
Ottone Rosai aveva partecipato da giovane alle attività del gruppo futurista ma la sua personalità si
è espressa pienamente solo dopo la guerra. Ha elaborato un repertorio di scene umili: operai
all’osteria, piccole strade fra muretti, scene di vita quotidiana. Da una parte questo stile gli ha
fruttato una certa diffidenza della critica, ma dall’altra gli va riconosciuta la capacità di sottrarsi a
qualsiasi retorica in tempi in cui non era facile farlo.
A pochi anni dalla nascita, Novecento era pronto a venire esportato. Iniziarono così le esposizioni
all’estero. Ma fu allora che iniziò l’involuzione. L’ala più a destra del Fascismo perse a premere per
uno stretto controllo sull’attività artistica. Nella sua ultima edizione fu premiata una provocatoria
Crocifissione di Renato Guttuso. Formatosi in Sicilia, si era trasferito a Roma dove espose alla Prima
Mostra Quadriennale. Dal 1940 fu membro del Partito Comunista e partecipò attivamente a
Corrente, il gruppo nato nel 1938 intorno a una rivista di opposizione al regime. A Corrente
parteciparono artisti in cerca di un’alternativa all’estetica di Novecento, ma anche filosofi della
scuola milanese. La rivista fu soppressa nello stesso 1940, ma il gruppo restò compatto per qualche
tempo. Ritornando alla Crocifissione che di Corrente fu il massimo momento espressivo, e che
segnò un momento cardinale nella reazione al Novecento italiano, notiamo come l’impegno civile
vi si esprima in termini formali attraverso il rinnovamento di una scena sacra tradizionale.
L’impianto dell’opera è quadrato e non si spinge in verticale come voleva la tradizione: la
crocifissione resta, cioè, un atto di prepotenza umana più che un momento di manifestazione
divina; citando esplicitamente Guernica nella testa risorta del cavallo in primo piano, Guttuso
dichiarava il suo debito a Picasso e accomunava i due tragici eventi; la nudità di tutti i personaggi
accentuava la drammaticità della scena, sottolineata anche dai toni rossi e comunque accesi del
colore, dallo scorcio che pone Cristo, uomo umiliato tra gli altri, dietro il primo ladrone di spalle, e
ancora dall’affollarsi rumoroso dei personaggi in una scena dipinta non nel “dopo” come
nell’iconografia classica, ma nel “durante” dell’azione come attestano gli attrezzi in primo piano. Il
progressivo sgretolarsi del Novecento fu dovuto ai vari conflitti interni ma soprattutto al fatto che
l’animatrice Sarfatti, ebrea dovette fuggire dall’Italia. Torino vide il dominio degli allievi Carlo Levi e
Francesco Menzio. A Roma Scipione fu il fulcro di un attivo circolo artistico. La sua pittura fu una
delle manifestazioni più efficaci dell’influenza espressionista in Italia; come dimostra il noto Il
Cardinale Decano il suo tema costante era la Roma decadente fatta di cupole, cardinali e
contrapposta ai fasti imperiali sbandierati dal regime e vicina a quella rivalutazione del Barocco.
Alla scuola romana vengon accomunati Mario Mafai, Corrado Cagli, Fausto Pirandello, Pericle
Fazzini, Giuseppe Capogrossi. A Milano ricordiamo Angelo Del Bon, Umberto Lilloni, anche Aligi
Sassu, Renato Birolli e coloro che furono protagonisti della stagione antifascista del gruppo
Corrente durante la Seconda Guerra Mondiale. Nella stessa galleria vide la luce l’opuscolo “Kn” una
disamina lucida e aggiornata del teorici astrattista Carlo Belli. Nel 1935 Lucio Fontana espose le sue
prime tavolette in cemento; erano di casa anche Atanasio Soldati, Osvaldo Licini, Luigi Veronesi e
Fausto Melotti, un discorso a parte merita Filippo De Pisis, nella maturità giunse a una pennellata
veloce, quasi che i quadri fossero appunti del taccuino, tale era l’effetto dell’impossibilità di
credere, obbedire e combattere come voleva la propaganda fascista. Il suo motto sembrò essere
dubitare e disobbedire mentre la sua poetica si configura come un’estetica del frammento. Persino
a Parigi in un quadro del 1927 diventa poco monumentale, luogo di piccole cose, di emozioni
episodiche, di amori presi per caso, di attimi e non di eternità. Il Soldatino francese è inglobato da
uno spigolo e sopraffatto dall’ambiente-quadreria, intimidito tanto da suscitare tenerezza.
Gli scultori invitati alle mostre di Novecento erano moltissimi, anche perché questo linguaggio si
prestava molto meglio della pittura a celebrare i fasti del Fascismo e soprattutto la visibilità
personale del Duce. Arturo Martini, grande studioso dei gessi di Canova e avido di spunti
provenienti dal passato, viene annoverato come il maggiore scultore italiano del Novecento.
Formatosi nell’atmosfera di Valori Plastici e dunque del ritorno alla tradizione, dimostrò una grande
duttilità nel padroneggiare materiali, dimensioni e tematiche differenti. In un suo saggio Scultura
lingua morta, evidenziò come fosse oramai impensabile una scultura monumentale e celebrativa. Il
Figliol Prodigo rappresenta il trionfo del bene ma anche l’incontro tra due persone rese entrambe
miserabili dalla vita. La Moglie del marinaio è una terracotta che gioca sul rapporto interno-
esterno: da fuori la statua mostra una donna che aspetta alla finestra, da dentro un bimbo le
riposa nel grembo; ne La pisana il tema classico della dormiente sembra sposarsi a quello dei calchi
di persone morte nel sonno, recuperati sotto le ceneri di Pompei.
Marino Marini ha concentrato la sua attenzione su alcuni temi classici della scultura per togliere
loro ogni afflato monumentale. L’angelo della città, testimonia il ribaltamento del tema della statua
equestre: il cavallo ha zampe troppo esili in confronto al suo corpo tondeggiante, la sua
muscolatura non appare e con essa scompare l’allusione classicista alla forza addomesticata
dall’intelligenza, per parte sua il cavaliere ha gambe troppo corte e le sue braccia si allargano come
ali: non si tratta di un condottiero ma di un angelo disorientato.
Antonietta Raphael portò avanti questa lezione di umiltà dell’uomo di fronte al suo destino,
dedicandosi a ritratti dei familiari e scegliendo materiali anticlassici come la terracotta, il cemento,
la pietra porosa: in Simona che canta, il giovane viso è appena sbozzato e la testa si regge su una
sottile asta di ferro.
Intanto si sviluppa anche una corrente scultorea più incline all’astratto, il cui maggiore protagonista
è stato Fausto Melotti. Concepì sculture di estrema sintesi e ricche di invenzioni sui rapporti di
gravità o meglio sarebbe dire sulla ricerca di levità: i Teatrini di terracotta raccontano universi sia
magici che domestici e le Strutture geometriche aboliscono ogni richiamo figurativo.
Giacomo Manzù, influenzato anche dall’arte etrusca ed egiziana, da Rodin, da Medardo Rosso,
semplificò progressivamente il suo stile fino a giungere a un trattamento geometrico delle figure:
caratteristici i suoi Cardinali scolpiti. L’abbigliamento del prelato gli dava l’occasione di trasformare
l’uomo in un cono appuntito solitario, imprigionato, teso verso l’alto ma saldamente ancorato alla
terra. Sempre nell’ambito delle tematiche sacre, verso la fine degli anni Trenta lo scultore
semplificò il suo stile e raggiunse una sintesi di grande forza poetica con il ciclo dei bassorilievi in
bronzo delle Deposizioni e delle Crocifissioni. Eseguì numerosi ritratti di papa Giovanni XXIII. Di
questa lunga attività preparatoria restano numerosi bozzetti e disegni. Il tema della morte venne
ripreso con il grande Monumento al partigiano, di cui fece dono alla sua città natale, Bergamo. LE
sue sculture più note di tema laico sono quelle legate alla danza, agli amanti e ai nudi, soggetti a
cui si dedicò soprattutto negli anni 60 e 70.
Giorgio Morandi, nel suo apparente isolamento coltivò rapporti di amicizia con critici e direttori di
mostre e musei che gli consentirono di essere uno dei pochi italiani veramente apprezzati
all’estero. Arrestato per antifascismo nel 1943 in realtà non si lasciò mai coinvolgere nelle vicende
politiche, lavorò sempre in casa. Ciò non gli impedì di essere al corrente degli sviluppi dell’arte del
suo tempo; assistette negli anni 10 a tre serate futuriste, conobbe i letterati della rivista La Ronda e
fu in contatto con i circoli artistici italiani di maggiore rilievo. Va notata l’analiticità non narrativa
ma quasi ossessiva, con cui compose i suoi colori e li dispose sulla tela, tale da anticipare gli esiti
della Pittura Analitica americana del Secondo Dopoguerra. Uno stereotipo altrettanto diffuso ha
definito i suoi quadri come teatrini in cui le brocche, i bicchieri, le stoviglie recitano le parti di
membri di una famiglia. I suoi quadri furono sempre di piccole dimensioni e rappresentano
continui aggiustamenti di una poetica che doveva molto all’incomunicabilità della Metafisica e
soprattutto al Cezanne cosi impegnato sul fronte del rapporto puramente percettivo tra oggetto e
soggetto. La sua ossessione era di carattere concettuale: voleva trovare un modo per ritrarre le
cose così come tendono a strutturarsi sulla retina in termini geometrici, per non essere distratto
dai temi figurativi, rappresentò sempre le stesse cose. Esaminò il rapporto figura-sfondo e studiò
gli effetti percettivi di ogni minimo spostamento sia cromatico sia spaziale. Quanto alla tecnica la
pittura degli esordi fu piattissima; in seguito la pennellata si fece sempre più gestuale, con colori
che egli stesso componeva per ottenere toni bassi, accesi da chiarori imprevisti. La pasta cromatica
si fece densa negli anni Trenta. In seguito divenne a volte tanto liquida da fare intravedere la trama
della tela. I temi furono paesaggi tratti dalla finestra della casa oppure nature morte con vari
contenitori. L’uomo non vi compare mai, resta dall’altra parte della tela. Un confronto tra opere
rende conto della sua evoluzione. Nella Natura morta del 1918 compare il manichino metafisico
che si chiude dentro uno spazio definito. Nella Natura morta del 1932 vediamo una pennellata
carnosa che definisce gli oggetti senza più alcun contorno: del breve momento metafisico era
scomparsa già entro il 1920; si era al suo posto affermata una rappresentazione degli oggetti su un
piano sempre meno protagonista. Troviamo spazio in questa composizione elementi arditi come le
curve dei manici e l’obliqua chiara in primo piano, che contraddicono la prevalenza delle linee
verticali. Nella Natura Morta del 1960 il colore è diventato così poco compatto che si intravedono i
segni del pennello; lievi variazioni di intensità del colore ci lasciano intuire un tavolo e un muro
dietro di esso. La composizione è costruita sulla base di scansioni geometriche: il rettangolo che
domina in veste di scatola la prima opera diventa norma compositiva nella terza, dove sul limitare
del tavolo si allineano il bicchiere e il quadrato arancione che costituisce il corpo della bottiglia. Ai
lati del gruppo di oggetti due rettangoli bluastri, parte del tavolo potrebbero anche essere
percepiti come oggetti. Le diagonali sono abolite in virtù di questa estrema semplicità vicina a
quella degli Astrattisti. Questa è forse la cifra più personale di Morandi, confermata da una sua rara
intervista: non avere mai ceduto all’Astrattismo ma essersi sempre mosso sulla linea sottile che lo
divide dal Realismo; aveva rappresentato fenomeno strutturati da un occhio.
A differenza di Mussolini, Hitler aveva nei confronti dell’arte un’attenzione precisa: da giovane
avrebbe voluto sfondare come pittore e architetto. Andò a Vienna deciso a entrare all’Accademia
ma fu più volte bocciato all’esame di ammissione. Passava il tempo a dipingere acquerelli che
rappresentavano castelli e monumenti tedeschi. Giunto al potere, non tardò molto a manifestare
l’intenzione di distruggere la pseudoarte moderna di cui egli non era riuscito a diventare
protagonista. Hitler sapeva di potere contare sul consenso del popolo e della buona borghesia, che
ritenevano l’arte d’avanguardia una colossale truffa organizzata da trafficanti. Nei suoi discorsi
accusava il Cubismo, Dadaismo, Futurismo e anche l’Impressionismo perché alla base di questi
movimenti nati su un suolo straniero stava una concezione della vita antieroica, che sminuiva
l’originario vitalismo germanico. Ma Hitler fu irremovibile: a parer suo l’arte come lo sport doveva
rappresentare un tipo fisico ariano rigettando ogni deformità e ogni sperimentalismo tecnico per
rendere le immagini più comprensibili alla massa. Dominato dalla passione per l’architettura Hitler
passava intere giornate con il giovane architetto Albert Speer al quale aveva affidato il progetto per
la trasformazione urbanistica di Berlino. Dei piani di Speer venne realizzato soltanto lo Stadio di
Norimberga e per metà: la guerra bloccò i lavori che invece nell’Italia Fascista, progettati su scala
meno monumentale, condussero alla realizzazione quasi completa della cosiddetta Terza Roma
all’Eur e del suo centro, il Palazzo della Civiltà Italiana; colonne, marmo, ricordi della classicità
imperiale fecero da denominatore comune a queste come a ogni altra rappresentazione
architettonica del potere. Come vedremo il Fascismo seppe tollerare un’architettura che metteva
l’Italia in relazione con il Razionalismo europeo.
Mentre in Germania il recupero del realismo assunse connotazioni politiche e in Italia si rifece alla
tradizione, negli Stati Uniti si ispirò alla rappresentazione del presente. In generale lo si definisce
come American scene ma in alcuni artisti si colorò di connotazioni locali dettate anche dalle
reazioni controverse alla massiccia immigrazione, da cui il termine Regionalismo; in altri casi ebbe
caratteristiche tecniche tanto meticolose da essere quasi fotografiche e per questo venne definito
Precisionismo. Comune ai protagonisti fu l’essersi formati in Francia e l’avere cercato al ritorno in
patria, di dare una dignità autonoma all’arte degli Stati Uniti. Thomas Hart Benton cercò di rendere
nei suoi grandi murali l’immagine dell’americano medio. Charles Sheeler fu pittore di paesaggi
urbani, Charles Demuth dipinse soprattutto grandi fabbriche e architetture.
Edward Hopper lavorò come illustratore e pittore di manifesti. Il tema centrale del suo lavoro fu la
solitudine dell’uomo nei nuovi, vasti spazi urbani: le sue case isolate dall’architettura pretenziosa, i
caffè notturni, i distributori di benzina divengono emblemi di spazi troppo dilatati per essere
accoglienti e di un mondo in cui il singolo è privo di appigli. Le figure umane dipinte sembrano
immerse in palcoscenici simili a quelli che caratterizzavano la pittura di De Chirico. Un’altra fonte
importante fu rappresentata per Hopper dalle immagini cinematografiche, di cui riprende i tagli
apparentemente casuali. Una tecnica impersonale e illustrativa aumenta nello spettatore la
sensazione al contempo di coinvolgimento emotivo e di estraneità alla scena.
Stuart Davis fu illustratore per riviste e cartoonist. Era attratto dagli oggetti dei grandi magazzini,
dai beni di consumo standardizzati che incominciavano allora a penetrare nella vita di tutti. Il suo
stile freddo e centrato su oggetti come tubetti di dentifricio, utensili domestici, sbattitori per uova
anticipò la Pop Art degli anni 60.
Joseph Stella, la sua icona preferita fu il Ponte di Brooklyn ritratto in un dipinto del 1922 attraverso,
appunto la mediazione futurista: la prospettiva drammatica ne accentua l’aspetto di macchina del
futuro, fatta per accogliere la velocità, le grandi strutture d’acciao incrociate che suggeriscono
solidità e dinamismo.
Giorgia O’Keeffe, nel 1916 il fotografo Stieglitz ne ritrasse spesso il corpo in fotografie sperimentali.
La sua pittura restò lontana da tecniche provocatorie, ancanalandosi verso una precisione senza
scatti espressivi. In questo stile compose immagini di fiori dai petali voluttuosi, resi astratti dalla
grande dimensione e sensuali dall’andamento delle superfici. Questa visione dei gigli, derivava
direttamente dalle immagini fotografiche e dal nuovo sguardo che queste offrivano sulla realtà.
Alcuni fotografi avevano portato l’obiettivo vicinissimo a oggetti di natura organica svelandone la
struttura e la tessitura quasi astratte. Gli sguardi allargati o ravvicinati di tanta pittura americana
del periodo sarebbero stati impensabili senza che l’occhio meccanico della fotografia avesse
suggerito all’occhio dei pittori nuove modalità per allargare lo spazio figurativo.
Dopo anni di grande euforia l’economia americana precipitò in una crisi gravissima, dovuta ad anni
di speculazioni finanziarie insensate. Il 29 ottobre del 1929 la borsa di Wall Street registrò il più
grave e improvviso crollo mai verificatosi, gettando nel panico operatori e investitori. Nel marzo del
1933 venne eletto presidentre il democratico Franklin Roosvelt che fronteggiò la situazione con
misure d’emergenza definite nel loro complesso New Deal e fondate su un forte intervento dello
Stato sull’economia. Fu in quest’ambito che venne lanciato il Federal Art Project, gigantesco
programma statale con il quale agli operatori artistici venivano affidati incarichi pubblici. Al di là dei
singoli risultati il piano artistico federale contribuì a generare uno spirito di gruppo che diede i suoi
frutti migliori nel decennio successivo. Alla metà degli anni 30 più di 5000 artisti lavoravano per le
Istituzioni. Gli intellettuali che erano responsabili del progetto erano spesso vicini a idee socialiste
e conferirono agli interventi un carattere tale da avvicinare l’arte alle masse: per questo vennero
commissionati moltissimi affreschi murali, sculture pubbliche, illustrazioni per libri di grande
diffusione. Le tendenze realiste e quelle astrattiste vennero parimenti accolte anche se furono le
prime a riscuotere il maggiore successo, un influsso determinante ebbero Fernand Leger. Tra il
1935 e il 1943 furono realizzati molti murali. Di essi non è rimasto granchè: ricordiamo il lavoro di
Arshile Gorky per l’aeroporto di Newark. Tra i maggiori fotografi ricordiamo Dorothea Lange che
realizzò per la Farm Security Administration un reportage sulle condizioni di vita nelle zone rurali.
Una sua foto divenuta celebre è Madre senza patria, in cui compare una giovane donna
californiana insieme ai tre figli e con il volto di una Madonna detronizzata.
Nel 1910 il Messico iniziò una rivoluzione politica destinata a farne un Paese dai grandi fermenti e
pronto a ospitare esuli provenienti dall’Europa. Rimasto neutrale durante la seconda guerra
mondiale il Messico rafforzò il suo carattere di meta per transfughi europei. Il governo decise di
supportare con ingenti investimenti un’arte di impronta marcatamente politica e nazionale. I
maggiori protagonisti del momento furono Josè Clemente Orozco, Diego Rivera, David Alfaro
Siquieros. Il movimento sentì la necessità di darsi un manifesto come quelli redatti dalle
avanguardie europee: i Tre Appelli pubblicati nel 1921 da Siqueiros. La pittura dei Muralisti si
espresse in opere narrative ed eroiche che tra gli anni 20 e i 50 riempirono i maggiori edifici del
paese; protagonista il popolo messicano; l’influenza delle avanguardie e in particolare di Picasso e
del Surrealismo figurativo vi si associa a quella degli affreschi di Giotto e Masaccio. Il maggiore
interesse del fenomeno sta nell’avere portato per la prima volta l’attenzione sull’arte
contemporanea.
Il personaggio più interessante del momento fu Frida Kahlo, eseguì quasi solo autoritratti tesi a
descrivere il suo stato di sofferenze fisica e mentale: in un incidente stradale aveva riportato da
ragazza ferite gravissime. I suoi piccoli quadri la ritraggono con la spina dorsale sostituita da una
colonna romana fratturata. Amata dai Surrealisti accettò volentieri solamente l’amicizia di
Duchamp. Gli aspetti fondamentali del suo lavoro sono l’attenzione al corpo femminile, non più
visto da uno sguardo maschile, nonché la capacità di difendere le caratteristiche del suo popolo
non attraverso un’ampollosa pittura di storia ma con autoritratti che accoppiavano il folclore locare
a un autobiografismo visionario.
L’esperienza della seconda guerra mondiale segnò vincitori e vinti, per i lutti personali ma anche
per quelli ideologici: dopo tale tragedia non era più possibile progettare una società su modelli
utopici e dunque neanche progettare un’opera su moduli formali stabiliti. Vennero abbandonate
così le rappresentazioni realistiche del Ritorno all’ordine. L’arte si staccò dal mondo per farsi
espressione di un pessimismo individualista. Ciò che ne nacque fu una poetica che non sceglieva a
priori tra astrattismo e realismo e che piuttosto li corrodeva entrambi. Essa rese palese la crisi della
razionalità moderna in cui il caos e l’insensatezza che sembravano governare il mondo vengono
rappresentati dall’informe e da un’arte vissuta come esperienza. L’opera nasce non da un progetto
ma in un processo di improvvisazione psichica. Essa è uno schema su cui si fissano parametri quali
l’esperienza fisica dell’artista, lo scorrere del tempo durante l’esecuzione, l’accettazione volontaria
e spesso sapiente dei suggerimenti del caso.
Il New Deal americano aveva posto le premesse per un drastico spostamento della capitale
artistica da Parigi a New York e in generale dall’Europa agli Stati Uniti. L’immigrazione degli artisti in
fuga dall’Europa vi portò cellule di ogni tendenza: cubismo, dadaismo, astrattismo, razionalismo e
soprattutto il surrealismo. La presenza attiva di queste e altre personalità fu di notevole impatto
sulla formazione dei giovani negli anni 10. In questo quadro assunsero grande importanza anche
l’arrivo di opere non figurative collezionate da Solomon e da altri ricchi imprenditori. A Manhattan
non tardarono a nascere i centri di ritrovo del nuovo corso americano. Nella galleria Art of This
Century che era stata aperta nel 1942 si potevano vedere le opere di surrealisti affermati come
Tanguy, Ernst, Masson, Mirò che lasciavano tracce importanti soprattutto per il versante della
scrittura automatica, ma anche mostre di giovani americani che erano alla ricerca di un linguaggio
autonomo.
Gli aspetti che connotarono maggiormente l’arte americana degli anni 40 definita di solito
Espressionismo astratto, sono stati teorizzati soprattutto da Clement Greenberg. Le caratteristiche
furono:
La grande dimensione delle opere, ereditata dal muralismo e consentita dai vasti spazi
americani
La piattezza della superficie, quest’ultima intesa in due sensi: abolizione di ogni illusione di
profondità e con essa di prospettiva; la superficie dipinta tende a presentarsi priva di rilievi
La figura più rappresentativa fu Jackson Pollock. Grazie anche alle sue stranezze e al fatto che il
mondo dell’arte newyorkese era in cerca di celebrità locali, l’artista divenne un mito a cui persino la
rivista Life dedicò vaste attenzioni. La sua energia emerse già dai disegni giovanili ispirati ai corpi di
Michelangelo, che trasformava in turbini muscolosi. In seguito i suoi quadri presero a
rappresentare teste stravolte, agglomerati scomposti di natura e brandelli di corpi o presenze
totemiche; come si può osservare in Figura stenografica la scrittura rapida surrealista si associa a
un impianto dell’immagine di derivazione cubista e a un uso del colore che ricorda il Picasso
maturo. Queste matrici si affiancarono consapevolmente a due altri aspetti collegati: Pollock era
attratto dall’arte degli indiani d’America in particolare dalle pitture di sabbia colorata dei Navajo, in
cui potevano essere ritrovati, appunto i segni incontaminati dell’inconscio. Raggiunse l’acme della
sua produzione quando iniziò a ingigantire i pennelli e a staccarli dalla tela. Per capire gran parte
dell’arte del secondo novecento occorre introdurre alcuni termini inglesi: nel caso di Pollock
dripping, action painting e all over. Il primo significa sgocciolamento: dal pennello o direttamente
da barattoli pieni di colore l’artista lasciava scendere gocce che avvolgeva in grovigli. La superficie
da dipingere spesso di enormi dimensioni, veniva disposta a terra e lavorata su tutti e quattro i lati.
Il segno proveniva dall’azione di tutto il corpo dell’artista: il colore scendeva libero e governato non
dalla gestualità della mano ma del braccio. Da questa tecnica deriva la definizione di Action
Painting, pittura di azione. Così trattato, lo spazio non presentava né centro né periferia e
l’immagine , una distesa piatta di filamenti, suggeriva una sua continuazione oltre i bordi. Questo si
intende per pittura all-over traducibile come a tutto campo. Il dipinto nasceva come dichiarazione
di uno stato d’animo di una visione della propria interiorità, ma anche del mondo esterno come
ambito d’azione per pulsioni e forze violente. Non fu Pollock a scoprire queste tecniche, già
ampiamente sondate dai surrealisti ma fu lui a sfruttarne le massime potenzialità. La tela non era
più uno spazio da progettare ma un’arena in cui combattere in trance, lasciando agire l’inconscio e
il pulsare del ritmo vitale. Anche l’opera di Willem de Kooning fu caratterizzata dal ricorso a una
gestualità ossessiva. Nel suo caso però la figura non venne abolita e anzi fu protagonista dei quadri
più noti. La sua incapacità di considerare un quadro finito è leggendaria, preso com’era
dall’esigenza di ridipingerlo, cancellarlo e trasformarlo continuamente. Nella sua opera più famosa
Woman I una grande donna seduta occupa tutto lo spazio del quadro e impone il suo seno come
una presenza più aggressiva che accogliente. Il viso ha un ghigno e gli occhi scuri spalancati
rievocano gli sguardi delle Demoiselles d’Avignon di Picasso. I colori si mescolano direttamente
sulla tela in modo volutamente rozzo; i contorni sono tracciati con il nero ma molto spesso
vengono cancellati da pentimenti. La tecnica del mai-finito diventa qui occasione per torturare la
figura, insieme vittima del pittore e carnefice dello spettatore per metterle addosso pennellate
violente e per ingolfarla su uno sfondo che la assorbe. In Excavation e in molta parte delle opere
successive il corpo addirittura si frammenta, la tela si popola di gomiti, bocche, ginocchi. Anche nei
casi in cui il quadro pare essere dipinto secondo le tecniche dell’all over e dell’action painting
conserva un residuo di rappresentazione tormentata e disfatta.
Una gestualità più precisa e rabbiosa contraddistingue le opere di Franz Kline, per la sua
produzione matura scelse un astrattismo dai toni drammatici: nei suoi grandi quadri sciabolate di
nero si stagliano su un fondo bianco, generando un violento contrasto e dando la sensazione di un
conflitto. Benchè le opere di Kline sembrino dipinte in una sorta di slancio frenetico, le partiture
dei quadri erano molto studiate sia dal punto di vista dei rapporti tra bianco e nero sia in quanto
l’autore ritoccava i contorni dei segni con un sottile pennello.
Le tematiche surrealiste sono evidenti nell’opera di Arshile Gorky, il suo apprendistato consistette
in molti anni in cui era solito invaghirsi di un artista e copiarne lo stile: Picasso, Mirò. L’incontro con
Matta fece di lui un adepto surrealista tanto che Breton lo considerò la sua recluta migliore negli
USA e molti critici lo ritengono tuttora il vero anello di congiunzione tra Surrealismo e Astrattismo
americano. Come si può osservare nell’andamento di linee e colori in The liveri s the Cock’s Comb,
la sua personalità si espresse in gomitoli di colore che si aggrumano in forme vitali, in organismi
che pullulano.
Robert Motherwell, i suoi quadri più importanti fanno parte della serie delle Elegie ispirate alla
morte del poeta Federico garcia Lorca e alla guerra civile spagnola. La tela bianca è occupata da
gigantesche forme ovoidali, testicoli di toro trasfigurati come ombre potenti, in cui il nero venne
trattato alla stregua di un colore.
Non tutto l’espressionismo astratto ha avuto una natura gestuale: a molti suoi protagonisti fu
congeniale una pittura dall’emotività più controllata. La definizione più comune per questa
corrente è quella di Color Field perché le opere presentano in generale campiture uniformi, piatte
e liquide. Mark Rothko ne fu il rappresentante maggiore. Come pittore fu autodidatta. Si dedicò
alla pittura studiando con il pittore di origine russa M. Weber che lo orientò verso
l’Espressionismo. A partire dal 1945, si decise ad abbandonare la figura e a concentrarsi su quelli
che erano stati solo i fondi su cui dipingeva: stesure monocrome rotte da tre o quattro presenze
quadrangolari dai margini sfumati. Il colore tendere a essere opaco diverso per spessore da zona a
zona. I rapporti cromatici tra le aree sono tali da dare l’impressione che gli spazi avanzino o
arretrino; le parti chiare assumono l’aspetto di bagliori e di taofanie, cioè apparizioni divine
attraverso la luce. Le opere sono sempre grandissime e verticali, bilanciate nei pesi visivi da un
lento, misurato lavoro di studio tra le diverse intensità delle bande. Alle pareti, che nascono da una
pianta ottagonale e simmetrica, l’artista ha apposto grandi quadri di colore scuro dal viola al nero
al rosso cupo.
Barnett Newman, i suoi quadri giganteschi, tali da imprimere nello spettatore la sensazione della
propria piccolezza, hanno sovente titoli che si riferiscono alla Bibbia: Onemente, Genesis,
Abraham. Il colore si dispone in modo uniforme e rotto solo da sottili fenditure, concepite come
cerniere tra il cielo e la terra o come i primi atti di separazione attraverso cui Dio,l’Uno per
eccellenza, genera la molteplicità e dunque il mondo. Newman approfondì sempre di più la
relazione col sublime, quel genere di emozione estetica o religiosa che non può essere espressa
dalle parole perché supera le potenzialità dei sensi.
Ad Reinhardt si dedicò al monocromo che però utilizzò per sondare i limiti della pittura e per
decretare la fine di un linguaggio di cui non vedeva evoluzioni possibili. Le sue opere consistono in
griglie in cui il colore si dispone secondo quadrati di tono leggermente diverso e i cui confini sono
percepibili solo dopo un accomodamento dell’occhio. Questo processo si fa estremo nei Black
Paintings, dipinti neri della stessa dimensione, in realtà composti dal giustapporsi di arre bluastre,
violacee, marroni e grigio scure. vReinhardt auspicava di raggiungere una pittura che esprimesse se
stessa e niente altro. L’arte non era che arte: art as art fu la sua frase più nota.
Mark Tobey pur operando nello stesso periodo degli esponenti dell’espressionismo astratto se ne
distanziò per la sua spiccata apertura alle suggestioni della filosofia estremo-orientale. Già negli
anni 30 aveva anticipato l’all over con i suoi white paintings: pennellate bianche riempivano la
superficie della tela in un intrico ritmico di segni. Molte delle sue opere anche successive possono
sembrare dei Pollock. La somiglianza però è solo apparente: i segni di Tobey derivano infatti dal
movimento della mano, sono intimisti e mediativi, fuggono ogni simmetria e rappresentano una
nuova forma di influsso della cultura visiva giapponese su quella occidentale. Ad affascinare i
pittori non è più il paesaggio ma il gesto rapido e sapiente dei maestri calligrafi. Anche i quadri di
Sam Francis attingono alla calligrafia orientale; produsse opere caratterizzate da macchie di colore
fortissimo e liquido, posizionate su un campo vuoto e bianco, lasciate sgocciolare in verticale. Sam
Francis appartiene all’ultima generazione dell’espressionismo astratto. Molto forte fu la relazione
con il Giappone. Di questo sono caratteristiche le asimmetrie e i grandi spazi lasciati vuoti al centro
delle tele. Il vuoto per alcune religioni orientali costituisce un ambito di pace e di pienezza del
nulla. Le sue composizioni sono anche debitrici del Tachisme tipico delle ninfee dipinte da Claude
Monet nei suoi ultimi anni.
Contemporaneamente agli Stati Uniti anche in Europa si sviluppò la ribellione alla forma.
Nonostante la similitudine delle premesse con l’espressionismo astratto americano il corrispettivo
europeo se ne differenziò per vari aspetti: in primo luogo, il gigantismo americano in Europa fu
quasi del tutto assente, inoltre le tracce fisiche della guerra sul suolo europeo conferirono all’arte
un’impronta maggiormente drammatica; infine gli artisti europei prestarono più attenzione alla
materia e a un uso rinnovato degli oggetti comuni. L’informale, termine proposto dal critico Michel
Tapiè si sviluppò seguendo due traiettorie: una valorizzava il segno-gesto ed è quella che più si
avvicinò all’Action Painting americana, l’altra invece era materica e volta a valorizzare i rifiuti, gli
scarti, ma anche il colore a olio utilizzato come una pasta densa. Iniziatore dell’informale può
essere considerato il pittore Wols. Fu lungamente vicino ai Surrealisti e per manifestarsi praticò la
professione di fotografo. Nel dipinto Le Bateau Ivre il cui titolo cita il poeta decadente Arthur
Rimbaud, l’artista richiama nella forma un battello o anche una lisca di pesce, uno scheletro pieno
di croci aggressive; nei movimenti del pennello si dimostra uno stato di tensione nervosa
spasmodica e di disillusione.
Georges Mathieu formulò una grafia di segni senza significato, ottenuti spremendo direttamente i
tubetti usati come pastelli. Dipingeva più rapidamente possibile per non dar modo alla ragione di
intervenirvi. Solo l’istinto doveva guidare la sua descrizione di battaglie e gesta eroiche. I capetingi
ovunque è un enorme campo di battaglia tra il pittore e la tela.
Hans Hartung ebbe tragiche vicende biografiche che si riflessero in una pittura fatta di graffi
eseguiti con punteruoli smussati. Le sue linee divennero sempre più secche e incise, come lampi e
fenomeni atmosferici terrificanti.
La gestualità di Pierre Soulages fu invece fondata sul rapporto tra segni neri e un fondo chiaro o
comunque contrastante. Le sue composizioni nascevano con l’aiuto di spatole ed erano ispirate
all’atto del cancellare, del dimenticare, del fare una croce sopra. Fra i nomi preminenti
dell’Informale europeo vanno annoverati Maria Elena Vieirs da Silva, Nicolas de Stael, Serge
Poliakoff e Jean Paul Riopelle.
Nelle opere del francese Jean Fautrier troviamo ammassi di pasta cromatica trattati come materia
scultorea. Già negli anni 30 k’artista preparava con la spatola dei fondi particolarmente spessi, fatti
di colla e colore bianco con un contorno di cera sul quale faceva cadere polvere di pastello
colorata. Ne nascevano dei bassorilievi sensuali che ricordavano per colore e posizione le grandi
bagnanti di Renoir. Il soggetto del Fautrier più maturo furono i corpi caduti degli internati in un
campo delle SS: ostaggi che avevano osato avvicinarsi al filo spinato e che ne erano rimasti
folgorati. I quadri hanno un’attrattiva macabra.
L’impiego della materia raggiunse il massimo nell’opera di Jean Dubuffet. Impiegò tempo a
decidere di abbracciare la pittura come sua attività principale. Il suo interesse stava fuori dalla
storia dell’arte dominante, cosa che gli consentì un’inconsueta libertà dai vincoli della tradizione: lo
attraeva l’arte degli alienati e dei bambini, cioè di coloro il cui istinto creativo non è imbrigliato
nelle norme della ragione. Dubuffet definì il suo stesso lavoro Art Brut nome che volle imporre
anche a un movimento che cercò di fondare. Significava rozza arte. La sua pittura era fatta di gesso,
sabbia, terra che mescolava al colore a olio, mai dogmatica nella scelta tra figura e astrazione,
sempre vicina a uno spirito giocoso. Nella serie dedicata ai corpi di donna, come in Dea madre,
busti massicci ricordano gli idoli della fertilità; in altri casi, come in Mucca con il naso sottile,
prevale il senso dell’assurdo condiviso con l’amico commediografo Eugene Jonesco. L’impiego di
materiali comuni si fece ancora più pressante nelle opere di Antoni Tàpies, il maggiore artista
spagnolo del dopoguerra. Ha elaborato il suo stile a partire dal 1948. Le sue opere hanno presto
assunto i colori della terra spagnola nei suoi due volti arido e acceso. Oggetti comuni come corde,
infissi, pezzi di legno, entrano nel quadro ad animarne la superficie. I fondi sono spesso stesi con
una scopa, mescolando calcina, gesso e argilla. In Bianco e arancio un oggetto sembra avere
lasciato il suo calco sulla sabbia per poi essere cancellato da una macchia e da una croce graffita.
L’opera assume una qualità tattile e narrativa, proponendosi come un frammento di muro
sgretolato dal tempo e come una piccola storia insensata.
A conferma ulteriore che il clima informale non predilesse l’Astrattismo rispetto alla figurazione
accenniamo alle immagini elaborate dal gruppo cobra: il termine deriva dalle iniziali di
Copenaghen, Bruxelles e Amsterdam di cui erano originari i promotori. Il nemico da battere era per
loro, ogni forma di razionalità.
Volti disfatti o allucinati caratterizzano la pittura Asger Jorn. Nel suo lavoro il territorio del magico
si incrocia dunque con quello dell’onirico, ma la critica alla ragione si spinge fino a dare una valenza
positiva alla semplice positività.
La situazione artistica italiana nel dopoguerra fu caratterizzata da una diatriba tra astrattisti e
realisti legata a motivi politici: la sinistra ufficiale non vedeva di buon occhio l’astrattismo perché si
allontanava da quell’arte realista, immediatamente comprensibile al popolo. Per questo l’Italia
arrivò all’informale con un certo ritardo e comunque con caratteristiche peculiari rispetto ad altri
paesi. Nel novero dei protagonisti ricordiamo Tancredi, Ennio Morlotti, Giuseppe Santomaso,
Antonio Corpora, Renato Birolli, Giulio Turcato, Emilio Scanavino, Mattia Moreni. Il più aggressivo
tra loro fu Emilio Vedova che disegnò in gioventù con dinamismo e ritmo. Fu questo ritmo a
prendere il sopravvento nelle opere della maturità animato dalla lezione futurista ed
espressionista. Le sue opere sono esplosioni di pennellate contrastanti, organizzate in grandi cicli
dedicati a conflitti sociali.
Giuseppe Capogrossi, nei tardi anni 40 mise a punto un linguaggio fatto di sigle trine, cioè
forchettoni che si dispongono nel quadro secondo scansioni ritmiche. Alla semplicità del segno
corrisponde l’essenzialità del colore, mai materico e sempre dominato, segnato da neri evidenti e
campiture piatte.
Afro Basaldella elaborò una pittura di scansione cubista le cui vaste spazialità, evocatrici di
paesaggi aerei, furono anche influenzate dall’Action Painting americana. Le sue opere dimostrano
la volontà di mantenersi sul bordo tra astrattismo e figurazione, tra aree cupe e forti luminosità.
Nel clima dell’informale si formò lo scultore Arnaldo Pomodoro che ha messo a punto un segno
astratto, teso a mostrare il tormento interno della materia. L’incrocio tra forza e fragilità si rivela
anche nella grande dimensione delle opere, spesso sferiche e in movimento. Le sfere sono levigate
all’esterno e riflettono ciò che sta loro attorno. Quindi si modificano con il mutare della luce.
Ugualmente legato allo studio dei rapporti formali fu Alberto Burri. Il suo lavoro si ordina in cicli:
prima vennero i quadri neri denominati Catrami poi le Muffe e la sua tipologia più nota, i Sacchi,
pittura ma una sua parte integrante. Brandelli di juta incolore sono uniti da grossi punti di sutura;
la stoffa più povera, fatta per contenere beni di prima necessità, diventa una sorta di pelle su cui si
posa anche pittura nera o rossa a segnare quasi ferite e bruciature. Nella serie delle Combustioni,
dei Ferri dei Legni, dei Cellotex continuano gli effetti espressivi ottenuti da materie naturali e
artificiali, animate da fenomeni di degradazione quali la ruggine e la combustione. Nei Cretti una
superficie monocroma di alto spessore viene lasciata asciugare e crepare come terra al sole.
L’opera più impressionante di Burri è il Grande Cretto di Gibellina: le macerie della cittadina
siciliana, distrutta da un terremoto, sono state coperte da una colata di cemento come fosse il
sudario bianco con cui si copre un cadavere; poi l’artista ha ricostruito la sua pianta e trasformato
in solchi le antiche strade, ricreando una sorta di labirinto che è il fantasma del centro storico.
D’altro canto sia la produzione scultorea sia l’ultima parte della pittura di Burri confermano come
egli non intendesse solo raccontare la tragedia di vivere ma anche descrivere la ricerca continua di
un equilibrio visivo.
Già negli anni 30 Lucio Fontana, il maggiore artista italiano del dopoguerra, aveva mostrato di
sapersi svincolare da una formazione tradizionale, presentando Tavolette graffite che andavano in
una direzione gestuale. La sua eccezionale capacità manuale gli diede l’opportunità di perseguire
binari creativi diversi, continuando per tutta la vita anche una produzione di terrecotte, sculture e
disegni figurativi. Durante la seconda guerra mondiale redasse il Manifesto Bianco: un documento
che riprendeva la vocazione futurista all’apertura verso mezzi tecnici che fossero al passo con le
incalzanti scoperte della scienza. Questo testo fu la premessa per la fondazione del movimento che
definì Spazialismo in omaggio all’esplorazione dello spazio, che proprio allora stava iniziando il suo
corso. Alla pittura Fontana arrivò partendo dalla scultura e ciò spiega la sua attenzione per gli
effetti che muovono la superficie del quadro. Alla ricerca di un rapporto tra il bianco della materia
e il nero del vuoto, iniziò la serie dei Buchi: la superficie del quadro si riempiva di crateri irregolari
come cieli stellati. Il suo gesto sfregiava il supporto tradizionale con l’obiettivo di portare lo sguardo
dello spettatore dentro e oltre il quadro. Lavorò a questa serie per 30 anni, creando anche grandi
quadri a olio in cui lo spessore della pittura è talmente alto da dare ai bordi dei crateri un tono
vitale e barocco. Il fondo può essere di un solo colore, ma anche ospitare pietre, lustrini, sfumature
che movimentano un paesaggio astratto. I grandi ovali denominati Fine di Dio rivelano dalla forma,
oltre che dal processo, il desiderio di esprimere il mistero della nascita e del ciclo vitale. Il senso
della materia come madre potente si coglie anche nella versione scultorea dei crateri, le Nature,
palle di terracotta o di bronzo forate da una cavità di sapore primordiale. La serie successiva dei
Tagli depurò la forma, portandola a un’essenzialità minimale. L’artista tagliava la tela in un atto di
estrema concentrazione, talvolta disponendo una ferita nel centro. Il fondo può essere bianco, ma
anche colorato e dai toni brillanti. I limiti tra pittura, scultura e decorazione sono del tutto superati:
un segno semplice diventa origine di un ritmo cadenzato e lirico. La luce passa nell’area del taglio
dal suo tono massimo allo zero. La semplicità condusse l’artista a privilegiare sempre di più la
stesura completamente monocroma. Nel 1949 creò presso la Galleria del Naviglio di Milano la
prima opera ambientale in assoluto che si servisse della luce elettrica: una stanza in cui una
lampada nera di Wood dava contorni violacei alle cose e allo spettatore un senso di
disorientamento. Su questa linea l’artista inventò ambienti labirintici, la cui particolare architettura
o decorazione, spesso fosforescente, metteva in crisi il sistema percettivo e l’apparato di credenze
di chi li percorreva. Disegnò piegando un tubo al neon, un grande arabesco di luce capace di
ricordare i movimenti dei corpi nelle spazio. Fontana ha perseguito con coerenza l’obiettivo
dell’essenzialità anche al prezzo di inevitabili incomprensioni. La sua opera si delinea come un inno
ai valori primi della vita.
Francis Bacon non può essere accomunato ad alcun movimento anche se condivise il clima
dell’immediato dopoguerra. Viene considerato il maggiore pittore inglese del secolo. Dopo avere
abbracciato e abbandonato la pittura durante gli anni 30 vi ritornò dopo anni di pausa con uni stile
nuovo, reso esplicito dai Tre studi per la base della crocifissione, un trittico in cui l’iconografia sacra
è riletta attraverso figure urlanti e mostruose. Di qui iniziò un processo di sempre maggiore
degradazione del corpo umano e sostanzialmente autobiografico: nella sua produzione troviamo
numerosi autoritratti. I suoi dipinti assunsero presto l’aspetto dei rettangoli dal fondo piatto, in cui
veniva appena accennata una costruzione prospettica, una gabbia che imprigiona il soggetto: al
centro, sola, sta la figura umana deformata da smorfie animali e spasmi di dolore fisico. Già in
Painting comparvero i primi elementi di un repertorio che l’artista ripetè lungamente: una carcassa
di bue e un uomo dal volto sfigurato, parzialmente coperto da un ombrello. La tecnica pittorica di
Bacon giocò su una compenetrazione di ordine e disordine: i fondi sono uniformi, mentre le figure
sono ottenute con grumi di colore mescolato direttamente sulla tela, attraverso questa tecnica
Bacon voleva mettere in evidenza il contrasto tra un mondo pensato come razionale e un corpo
pieno di necessità, ritratto in bagno mentre vomita o più semplicemente si rade come in Tre studi
sula schiena maschile. Bacon utilizzò la forma-trittico di chiara derivazione religiosa, recuperando
di quella la simmetria dei pannelli laterali rispetto al quadro centrale: la figura è la stessa, ma i
pannelli di destra e sinistra la ritraggono da punti di vista diversi. Egli stesso dichiarò che l’uomo
non è in grado di comprendere di essere solo un caso , un essere completamente futile, che deve
giocare il suo ruolo senza ragione.
Nella seconda metà del XX secolo la distinzione tra pittura e scultura iniziò a sgretolarsi. Il
linguaggio specifico della scultura ha continuato a rinnovarsi anche a un ritmo più lento. Esso è
andato abbandonando le forme e i materiale più aulici e il suo aspetto celebrativo. Henry Moore
acclamato da molti come il massimo scultore del secolo, fu sempre interessato al rapporto con la
materia, intesa come qualcosa da rispettare e insieme dominare. Dai tardi anni 40 le sue sculture
iniziarono a diffondersi soprattutto in parchi e giardini, compenetrandosi con la natura. Moore fece
suoi temi tradizionali come quello della donna sdraiata o della madre con figlio, rinnovandoli
secondo influenze provenienti dal Picasso più classico oltre che dal linguaggio surrealista. Pietra o
bronzo vengono modellati in maniera da dare alle superfici una grande calma; la figura resta
riconoscibile, ma si colloca al limite dell’astrazione. La ricerca dell’americano David Smith
introdusse l’impiego di materiali industriali. Formatosi come pittore accanto al circolo degli
espressionisti astratti americani è passato progressivamente a opere tridimensionali scegliendo il
ferro come materiale principale. Le sue sculture mature si ordinarono in serie: i personaggi
Agricola, creati con filamenti di metallo colorato e i Tank Totem ancora incentrati sulla figura
umana, le grandi sculture Voltri e infine i grandi Cubi di acciaio inossidabile ispirati all’astrattismo
geometrico. La sua opera ebbe un enorme seguito e divenne un punto di riferimento per Mark
Suvero e Anthony Caro.
Le opere dell’americano Alexander Calder introducono alla fine della forma stabile e dell’impianto
monumentale. Il suo continuo contatto con Parigi lo mise in relazione con Juan Mirò. Si dedicò per
molto tempo a costruire col filo di ferro i personaggi di un circo. I suoi lavori maggiori sono delle
strutture ramificate, senza base, simili a scheletri di cattedrale che Arp definì stabiles e delle
composizioni aree che invece Duchamp chiamò Mobiles: sculture fatte di ferro colorato concepite
come sviluppo di un fogliame da rami connessi tra loro attraverso anelli e snodi. Le strutture
possono avere anche dimensioni notevoli come nel caso di Red Black and Blue. Le superfici piatte e
larghe sono libere di muoversi secondo i flussi dell’aria circostante, tornando poi al loro primo
equilibrio: i colori di cui sono dipinte le parti piatte cambiano reciprocamente posizione. Con
Calder più ancora che con Moore e Smith la scultura perde la sua tendenza a porsi come forma
fissa. Cakder si può considerare il padre di molta scultura degli ultimi 50 anni del 900.
Fu grazie all’influenza di Hepworth che si dedicò all’astrazione anche Ben Nicholson soprattutto
durante gli anni 30. Le sue prime opere originali furono dei rilievi bianchi astratti, in seguito si
dedicò anche alla pittura e al rilievo, non assumendo mai un atteggiamento dogmatico soprattutto
riguardo alla distinzione tra Realismo e Astrattismo. La sua matita descrive un continuo andirivieni
di forme e di linee, si sposta a destra e a sinistra, cerca la sua strada e quando la trova mi consente
di realizzare un paesaggio, una forma, un tema. Nicholson predilesse soggetti come paesaggi,
nature morte, strutture architettoniche che stilizzava fino a renderli irriconoscibili. La sua
raffinatezza pittorica e il ricorrere di oggetti familiari sintetizzati da una linea scarna come si vede in
Fra Angelico lo avvicinarono a Giorgio Morandi. Nel 1946 ebbe luogo a Parigi il primo Salon des
Realites Nouvelles che raccolse le esperienze astrattiste di molti autori. Le reazioni del pubblico
furono improntate all’incomprensione cose che spinse Michel Seuphor a pubblicare un libro che
facesse ulteriore luce sulla corrente. Il volume servì a chiarificare una volta per tutte come ci
fossero due tipi di astrattismo:
Auguste Herbin aveva sviluppato un linguaggio al limite dell’esoterico, nel quale a ogni lettere
dell’alfabeto corrispondeva una forma e un colore. Il credo fondamentale che univa artista di
provenienze tanto diverse era che ogni opera dovesse porsi in termini simili a come si pone un
problema scientifico o un teorema. Questi artisti seguivano più o meno consapevolmente le
indicazioni di un settore della psicologia meno letterario e di impronta sperimentale: la psicologia
della forma o Gestalt.
Victor Vasarely iniziò una pittura basata sulle illusioni ottiche e sugli inganni visivi; attorno al 1947
abbandonò ogni figurazione e si dedicò alla disamina delle reazioni percettive a forme geometriche
descritte con colori piatti e brillanti. Se un cerchio rosso si staglia su un fondo azzurro esso appare
più piccolo di uno identico, ma dipinto con rapporti di colore inverso. Uno stesso colore accostato a
toni diversi di altri colori può apparire illusoriamente più chiaro o più scuro. Come Vasarely
dichiarò in numerose pubblicazioni gli sforza volti a indurre uno stato di instabilità percettiva
denunciano il desiderio, da parte dell’artista di attivare lo spettatore inducendolo a partecipare
all’opera, il proposito era rompere l’isolamento dell’arte e reintegrarla nella società come sua parte
attiva. Di qui anche l’insistenza dell’artista su una produzione riproducibile, moltiplicabile
attraverso la serigrafia.
Max Bill viene ricordato per avere cercato di rifondare una scuola che fosse erede dei principi del
Bauhaus e dove design e architettura potessero porsi come un continuum rispetto alle arti visive.
Egli stesso ne progettò l’edificio e la scuola fu attiva, divenendo un centro che attrasse soprattutto
artisti tedeschi. La sua attività di organizzatore di mostre di arte astratto-geometrica ne fece una
guida per la rinascita di una concezione dell’arte come attività, ricca di intenti educativi e capace di
passare dall’opera individuale ad ambiti funzionali come la riorganizzazione della segnaletica
stradale. Il suo approccio alla pittura e alla scultura fu di carattere matematico e logico. Per il
processo progettuale da cui nascono le opere di Max Bill dovrebbero essere definite arte costruita:
forme semplici come il quadrato, il triangolo vengono rielaborate con l’intento di generare campi di
energia. La sua pittura è articolata per serie, secondo variazioni sul medesimo tema. Forma fa
parte della sua serie più nota: i colori non sono più legati da libere associazioni ma da composizioni
logiche. Da un quadrato centrale giallo abbiamo le possibili evoluzioni di colore che dal giallo
nascono nello spettro: verso il rosso passando per l’arancione, nei triangoli in basso e in alto; verso
l’azzurro passando per il verde, nei triangoli a destra e sinistra. La banda mediana risulta essere
colorata dalla mescolanza del colore centrale con i due periferici. Analizziamo ora l’opera Archt
Komplenental-Farb Paare. Il dipinto va letto anzitutto secondo una circolazione antioraria degli
elementi: dapprima osserviamo una coppia di quadrati verde e rosso. Poi vediamo due quadrati
più piccoli viola e giallo; poi due quadrati arancione e blu, ancora più piccoli per finire con una
coppia di quadrati bianco e nero. Il rettangolo centrale ripete a ritmo inverso ciò che abbiamo
osservato lungo il margine esterno, invertendo i rapporti dimensionali in crescendo, seguendo
questa volta il senso orario, osserviamo che i due quadrati più piccoli hanno i colori di quelli che
nella prima serie recavano la maggiore dimensione segue in verticale la coppia viola-giallo poi in
orizzontale quella arancione-blu e in verticale quello bianco-nero. I colori e le forme non vanno
dunque interpretati come volti a cercare una risonanza sentimentale o a incontrare un comune
senso del bello: il fine dell’opera non è dare un’emozione, ma spingere al ragionamento per il
tramite di uno stimolo visivo. Così come nella pittura le superfici di Max Bill sono sempre piatte e
impersonali anche nella scultura i piani vengono rifiniti. Nell’ambito della scultura sociale una delle
sue opere più importanti è una striscia di pietra grigia di sezione quadrata, collocata in un incrocio
stradale a Zurigo che, muovendosi diventa ora panchina, ora arco, comunque luogo di sosta e di
orientamento della città.
Come si è già accennato in Italia l’Astrattismo geometrico ebbe i suoi centri nel Nord. Alberto
Magnelli condusse senza interruzione una ricerca fondata su articolazioni fluide di forme dove il
colore rivela spesso un’origine naturalista. Ebbe modo di condividere lavoro, tempo e pensieri con
Arp e Delaunay. Anche grazie a questi contatti fu visto in Italia come un maestro carismatico
dell’astrattismo. I suoi contrasti ammettono la linea curva e non implicano una rinuncia all’universo
dell’immaginazione. La roccaforte dell’Astrattismo geometrico fu Como, che divenne un centro di
forte collegamento con la cultura visiva europea. Mario Radice e Manlio Rho iniziarono le loro
esperienze astratte. La pittura di Radice fu connotata da una continua esigenza di spiritualità: in
Cantiere essa si esprime attraverso forme appuntite, gotiche e dai colori soffusamente spenti. Rho
che aveva avuto una formazione di carattere tecnico collegata alla produzione serica della città, si
mantenne, invece, su un bordo più vicino alla logica consequenziale della scienza: come si osserva
nella Composizione del 1940 ricercava un equilibrio cromatico e formale di impronta classica,
architettonica, preferendo le ortogonali alle oblique ed evitando i contorni.
Un altro esponente italiano è Enrico Castellani. Il suo interesse fu rivolto alla movimentazione della
tela e alla sua trasformazione da ambito bidimensionale a rilievo tridimensionale. Con l’aiuto di
chiodi invisibili le sue tele assumono l’aspetti di bugnati, in cui un disegno geometrico semplice
viene reso complesso dal diverso battere della luce su protuberanze e rientranze. Un interessante
sviluppo di queste tematiche consiste nella creazione di ambienti privi di angoli, in cui lo spettatore
si trova avvolto e come inglobato, o anche di quadri in cui la curvatura impressa alla tela da telai
centinati crea effetti di concavità e convessità.
Se gli anni del ritorno all’ordine avevano esaltato la staticità e la calma, gli anni 50 videro
riemergere in forme nuove il tema del movimento. La società si faceva più dinamica e nessun
ordinamento politico era più in grado di proporsi come immutabile; i tempi del lavoro così come
della vita comune si avviavano verso una irreversibile accelerazione e l’arte ne prese atto.
Prevedibilmente fiorirono in quegli anni numerose mostre con opere che descrivevano il
movimento, o che si muovevano, o che imponevano il movimento del suo corpo o anche solo del
suo occhio. Nel 1955 il museo cantonale di Losanna ospitò una mostra di impronta storica sul
movimento dell’arte contemporanea, accompagnata da un manifesto in cui Pontus Hulten giovane
critico che negli anni 70 avrebbe diretto il Centre Pompidou di Parigi, metteva in luce come
utilizzare il movimento significasse anche inserire nelle opere la dimensione del tempo e rievocava
i precedenti illustri. Nel 1961 Hulten progettò ad Amsterdam la mostra Bewogen Beweging dando
ragione di quanto il cinetismo si fosse sviluppato in quei pochi anni. Da questa attenzione al
movimento nacquero operazioni molto diverse tra loro, importante ora a un deciso carattere
giocoso e ora a una progettazione rigorosa. Pertanto una distinzione rigida tra arte cinetica,
programmata e optical è artificiosa. Traendo spunto da una classificazione proposta dallo studioso
Frank Popper possiamo individuare quattro tipologie di lavori:
Opere bidimensionali che provocano una reazione psicofisica attraverso disegni instabili; è
il caso di Vasarely ma anche Bridget Riley che dipinge pattern di strisce ondulate o
composizioni rigate in cui si concentrano diversi toni di colore, con l’effetto di fare venire
meno le coordinate spaziali di chi guarda. Sovente l’uso del bianco e nero e comunque della
composizione rigata, comporta effetti consecutivi: la retina risponde a uno stimolo insolito
producendo nuovi colori, come accade quando dopo avere osservato una macchia rossa
per qualche secondo chiudiamo gli occhi e compare un’analoga area verde.
Opere che provocano una reazione di disorientamento servendosi del movimento dello
spettatore; davanti a una scultura di Jesus Raphael Soto concepita di norma come una
superficie rigata davanti alla quale sono posizionate piccole aste o altri elementi di disturbo
visivo, ogni movimento dello spettatore provoca un mutamento sostanziale del modo in cui
si percepisce l’immagine. Di fronte alle Superfici a testura vibratile in alluminio di Getulio
Alviani ciò che muta è la posizione del nostro occhio in relazione alla luce e i fasci luminosi
che disegnano la superficie medesima.
Opere che consistono in strutture che si muovono da sole; sfruttano i movimenti dell’aria o
quelli provocati dalla gente come accade nei Mobiles di Calder. Fecero parte di questa
categoria anche le costruzioni degli anni 20 di Katarzyna Kobro, sferoidi, nastri, solidi
concepiti come forme che suggeriscono mentalmente il movimento
Opere che si muovono grazie a motori incorporati; un caso di cui è quello delle macchine di
Jean Tinguely. Appartennero a questa categoria degli esponenti del gruppo T di Milano tra
cui Gabriele De Vecchi, Grazia Varisco, Davide Boriani e Gianni Colombo e Nicholas Schoffer.
Nell’ambito di un’estetica così critica nei confronti dell’espressività soggettiva e del genio
individuale un effetto comune fu la creazione di gruppi di lavoro. Avvenne in Italia dove il Gruppo T
di Milano eseguì sperimentazioni di genere sia cinetico sia ludico, sia programmato; a Padova il
Gruppo N diede corpo nei primi anni 60 a una ricerca più vicina ai metodi della scienza. In Spagna
fu attiva l’Equipo 57, sempre nell’ambito dell’arte cinetica e programmata mentre a Parigi il GRAV
riunì tra i suoi protagonisti Horacio e Garcia-Rossi e altri. L’attività del GRAV si divide tra opere di
assoluto rigore come le sfere di morellet fatte di rete metallica e capaci di generare reticoli visivi
imprevisti, e opere che includevano un aspetto performativo quasi dadaista. L’intera attività del
Gruppo internazionale Nuove Tendenze potè dirsi ispirata al tentativo di coordinare una creatività
in termini collettivi anche se questi esperimenti ebbero tutti una durata limitata.
Negli Stati Uniti l’Astrattismo geometrico si sviluppò secondo direttrici diverse da quelle europee: la
radice non era più il Razionalismo, ma una reazione alla gestualità scomposta dell’espressionismo
astratto. In particolare ha assunto rilievo la corrente dell’Hard edge, che prende il nome
dall’utilizzo di tele sagomate e che non possono essere disgiunte dal telaio. Il suo massimo
esponente fu Ellsworth Kelly. Le sue opere sono grandi superfici spesso monocrome, oppure
giocate sul contrasto di due colori, le cui forme geometriche non sempre coincidono con i formati
classici. L’operazione rompe la prevedibilità del quadro e insieme alla grande dimensione genera
una sensazione di stupore.
È difficile inserire Bruno Munari in una categoria unica della storia dell’arte: ha inventato così tanto
e per pubblici tanto differenti da non potere essere definito né artista né designer né teorico o
scrittore per i bambini: è stato tutte queste cose assieme. Non dimenticò mai la dimensione del
giocare con le piccole cose. A Milano incontrò il gruppo futurista e in particolare l’ambito
dell’Aeropittura. Questo incontro fece di lui un personaggio-ponte capace di traghettare da una
generazione a quella successiva le intuizioni delle prime avanguardie. Nel 1930 creò una macchina
aerea sospesa a un filo, oscillante nell’aria e concepita come le sue successive macchine inutili,
proprio per non funzionare. Questo filone continuò molto a lungo, fino all’invenzione delle Aritmie
meccaniche nel 1951: macchine che emettevano rumori privi di ritmo e addirittura il canto di
uccellini in contrapposizione alla ripetitività acustica dei meccanismi comuni. Nulla più della libertà
di pensare e di ridere passando da una sperimentazione all’altra segnò il suo percorso creativo.
Negli anni 40 iniziò a manifestare pienamente questa apertura con i Messaggi tattili, opere fatte di
molti materiali e concepite per potere essere godute con molteplicità di sensazioni anche con gli
occhi chiusi. Dal 1947 iniziò a scrivere libri: i primi furono “libri illeggibili” senza parole e con le
pagine fatte di materiali diversi in modo da comunicare attraverso il tatto; solo in seguito avrebbe
pubblicato testi che hanno fatto epoca, per esempio Arte come mestiere, nel quale si spiegava con
parole semplici e convincenti come andassero abbattuti gli steccati tra arte applicate, architettura
e Belle Arti. Poi inventò Gatto Meo Romeo e la Scimmietta Zizì, due piccoli giocattoli di
gommapiuma e anime di ferro, a cui il bambino poteva cambiare posizione. Nel 1948 fu tra i
fondatori del Movimento Arte Concreta e subito dopo propose i Negativi Positivi quadri che
giocano sull’ambiguità tra pieno e vuoto e tra figura e sfondo. Un’ulteriore evoluzione della sua
pittura furono le diapositive modificate con pezzi di plastica colorata, opache o trasparenti capaci
di proiettare quadri astratti in realtà inesistenti. All’inizio degli anni 50 inventò sculture da viaggio;
subito dopo fu la volta delle Forchette parlanti: un panorama di piccole sculture di personaggi
espressivi e antropomorfi ottenuti soltanto piegando i denti di forchette. Nel 1962 fu organizzatore
di una mostra di arte programmata , in esso applicava alle opere dell’ambito cinetico-programmato
il suo famoso concetto di opera aperta, di opera che non ha un significato già dato e conchiuso ma
al contrario consente una forte interazione con il pubblico. Negli anni 70 concepì l’abitacolo, una
struttura di ferro che può essere variamente utilizzata come libreria. Intanto continuò a lavorare
nell’ambito della grafica e soprattutto con i bambini istituendo il primo laboratorio dove si
insegnava loro a utilizzare liberamente il collage svincolandoli dalle regole del disegno
rappresentativo e insegnando loro anche a leggere le opere d’arte. Quasi tutti i laboratori creativi
per bambini oggi attivi dipendono dal suo primo modello.
Nel ricco dopoguerra dell’Occidente , nelle strade e nelle case iniziarono a entrare oggetti fino a
pochi anni prima inesistenti, ma subito vissuti come indispensabili: automobili, frigoriferi, lavatrici,
detersivi. Utili senza dubbio, ma capaci anche di proporsi come i nuovi status symbol, come ciò il
cui possesso poteva ancora distinguere e dividere per classi, così incominciarono a diffondersi
opere che li includevano, era la nuova forma assunta dal Realismo, cioè la realtà non sarebbe più
stata rappresentata ma spesso più semplicemente scelta, modificata e presentata. Fu essenziale
per questi sviluppi la riscoperta del Dadaismo, la corrente che aveva maggiormente insistito sul
legame tra opera d’arte e oggetto comune. Tra le tante manifestazioni in questo senso ricordiamo il
libro Dada Painters and Poets. L’invadenza dell’oggetto si colse nell’opera di alcuni scultori classici
tra cui Louise Nevelson che utilizzò piccoli oggetti trovati, parti di sedie, frammenti di mobili e di
porte assemblati in grandi muri fatti di scatole, vicini, per la loro costruzione, alla struttura delle
città americane. Dipinte di un colore unico apparivano come scaffali pieni di ricordi non
necessariamente personali, ma in cui ciascuno poteva riconoscere parte della propria quotidianità.
Il lavoro di Louise Nevelson insieme ad altri furono raccolti nella mostra “the Art of Assemblage”;
oltre a testimoniare il mutamento in corso delle tematiche affrontate dagli artisti, l’esposizione
dimostrò come pittura e scultura stessero ormai confluendo verso un unicum in cui l’opera
risultava ricomposta e integrata nello spazio.
Il fenomeno più appariscente nato da queste premesse fu un completo superamento dell’idea
stessa di opera con la nascita di ciò che è noto sotto il nome di Happening. Il primo evento di
questo genere nacque dal compositore John Cage, convinto che anche i suoni comuni potessero
essere inclusi all’interno di una composizione musicale, organizzò un Theater Piece in cui l’unica
regola dell’azione furono i segnali di inizio e di fine. Nel frattempo il pianista suonava, il ballerino
danzava, il poeta proclamava poesie dall’alto di una scala.
Nel 1958 Allan Kaprow organizzò i suoi primi Happening: un’azione nella quale la distinzione tra
pubblico e artista andava perduta, essendo tutti chiamati a interagire. La componente teatrale era
molto forte, ma a differenza di quanto accade a teatro il pubblico doveva avere parte all’azione e
non era prevista una regia dogmatica come invece accadde nelle più tarde Performance.
L’Happening più famoso è Yard: in un chiostro erano posizionati dei pneumatici che il visitatore era
invitato a scavalcare e a muovere. L’artista nel 1966 pubblicò il libro Assemblage, Enviroments and
Happenings che mise a punto l’aspetto teorico dell’arte fatta di oggetti di recupero assemblati tra
loro, di ambientazioni, di accadimenti che si svolgevano nel tempo. I materiali per la nuova arte
sono oggetti di qualsiasi tipo. Inoltre gli Happening possono essere spiegati dal desiderio di
rendere l’opera spettacolare, coinvolgente o almeno stupefacente e di uscire del tutto dalle regole
dettate negli anni 30 dal ritorno all’ordine e non ancora dimenticate. L’Happening nacque quando
si incominciò ad avvertire il presente come l’unico tempo che veramente ci appartenga.
Fu quanto accadde soprattutto nell’ambito delle attività di Fluxus, un’aggregazione più o meno
spontanea di artisti, nata nell’ambito di un festival musicale in Germania nel 1962. Non si trattò di
un movimento artistico nel senso proprio, anche perché il solo punto fermo della compaigne fu
non avere punti fermi: non considerarsi un gruppo prestabilito, non avere regole di appartenenza,
non considerare importanti gli steccati che dividono musica, arte visiva, teatro e altre discipline
creative per favorire invece il flusso di persone, di tematiche e di metodi. Tra questi ricordiamo
Wolf Vostell, Yoko Ono, Nam June Paik, Dick Higgins, Ben Patterson, George Brecht, Ben Vautier e
Giuseppe Chiari. In quest’ambito vennero rivalutate forme di divertimento come il circo, il musical,
la rivista e ogni sorta di rituale proveniente dalla cultura popolare. Va citata l’azione più
spettacolare di Nam June Paik, destinato a essere ricordato come l’iniziatore della video arte. Dopo
avere organizzato un concerto di pianoforte scoppiò in lacrime alla prime note di un brano di
Chopin. Scese dal palcoscenico in platea, si lanciò su John Cage che era tra il pubblico, gli cosparse
la testa di shampoo, gli tagliò la cravatta in segno di ammirazione e scappò via dal teatro. Poco
dopo telefonò da un bar accanto per annunciare che la sua opera era terminata.
In quegli stessi anni Ben Vautier buttò a mare l’idea di Dio, metaforicamente chiusa in una scatola,
e impiantò un chiosco dove vendere la sua arte come fosse un ammasso di souvenir; in seguito
Yoko Ono spinse il marito a trasformare in un happening pubblico persino il tentativo di concepire
un figlio. Un’esperienza assimilabile a quella di Fluxus fu quella della internazionale situazionista.
Fondata come gruppo e come rivista sopravvisse grazie all’attività del promotore Guy Debord.
La definizione di New Dada venne applicata per la prima volta a quattro artisti: Allan Kaprov, Cy
Twombly, Robert Rauschenberg e Jasper Johns. Cy Twombly si orientò verso una pittura di graffiti
che ha molti punti in comune con l’espressionismo astratto e l’informale. Le sue grandi superfici
segnate da scarabocchi apparentemente infantili congiungono un colorismo sapiente. Nelle sue
vaste superfici dipinte il segno banale diventa un mezzo lirico per costruire trame, ricami, nodi che
raccontano piccole storie e grandi epopee. In Epitaph eseguito con un misto di olio, matita e
pastelli, possiamo leggere breve frammenti poetici.
Jasper Johns ebbe una formazione tecnica di carattere classico. A partire dal 1955 incominciò a
dipingere bandiere americane, calchi di pezzi di corpo umano, mappe geografiche degli Stati Uniti,
lettere e numeri standard utilizzati normalmente per apporre il prezzo alle merci. Il soggetto
doveva essere banale sia per contrapporsi ai soggetti aulici dell’Espressionismo astratto, sia per
poter riflettere le cose che davvero influenzavano la vista e la vita dell’artista, sia per non attirare
l’attenzione e consentirgli di concentrarsi sul metodo. Dal punto di vista tecnico la sua pittura fu
l’opposto dei ready-made e unì la tecnica dell’encausto a quella del collage: l’artista inzuppava
alcuni giornali di una vernice, li incollava meticolosamente sulla tela, li copriva con molti strati di
cera e di colore. La superficie risultava così, trasparente e mostrava le macchie di colore
sottostante. I ritagli di giornale incollati sul fondo stabiliscono un rapporto durevole tra l’opera e il
periodo in cui è stata prodotta. Johns ha rappresentato i colori fondamentali descrivendoli in tutte
le loro varianti e anche scrivendone il nome sulla tela. Il lavoro di Johns si configura come una
indagine sulla natura della pittura: la tecnica ricorda la gestualità degli espressionisti astratti e non
si lega al ready-made di Duchamp se non per l’origine tutta prosaica dei soggetti prescelti. Anche in
scultura l’atteggiamento fu lo stesso. High School Days è una scarpa da tennis che rende aulico un
ricordo qualunque dei giorni della scuola; Ale Cans rappresenta due lattine di birra, delle quali una
aperta, come se stesse a raccontarci la visita di un amico o un intero rapporto di amicizia in cui le
due persone hanno gli stessi gusti e le stesse abitudini.
Robert Rauschenberg, già alla metà degli anni 50 aveva esposto la serie dei Black Paintings dei Red
Paintings e dei White Paintings. Si trattava di monocromi neri, rossi o bianchi concepiti a partire dal
1951 come specchi, come pagine vuote sulle quali potevano riflettersi i segni di tutto quanto
accadeva intorno a loro: erano carte assorbenti della vita, queste opere volevano riflettere proprio
l’accidentalità e l’immanenza e agire come Rauschenberg stesso dichiarò, nell’intercapedine che
separa arte e vita. Come scrisse John Cage le opere di Rauschenberg erano una dimostrazione che
la bellezza sta ora nascosta ovunque ci prendiamo la briga di guardare. Nelle opere successive
Rauschenberg mise a punto la tecnica del combine paintings: assemblaggi di disegni, fotocopie,
pagine stampate, oggetti trovati di ogni tipo che prendono ispirazione dal sovrapporsi, senza che
venga rispettata alcuna gerarchia tra i messaggi culturali elevati e quelli comuni. In Odalisca una
gallina diventa oggetto di adorazione al tempo stesso portatore di valori contemporanei e primitivi.
Bed è un vero letto singolo con tanto di coperta e lenzuola che è stato trasformato in un quadro:
l’artista lo ha appeso e lo ha ripassato con pennellate vigorose che ricordano l’Action painting con
un pizzico di ironia, sgocciolamenti che si accalcano su una tradizionale tela bianca che qui non è
che un normale lenzuolo. Il letto è sfatto come dopo una notte di sonno e lascia la traccia
dell’azione normale di cui è stato teatro. L’opera è costruita anche tenendo conto dei rapporti di
equilibrio tra ordine e disordine che regnavano nelle antiche pale d’altare, di cui il letto riproduce
le proporzioni: qui accade il contrario rispetto a quelle dove la parte alta era il regno della
simmetria e quella bassa il luogo del caos umano. È anche attraverso questo genere di inversioni
che Rauschenberg rinnova il linguaggio artistico, sovvertendo più che dimenticando le antiche
regole. Come un letto può essere appeso in verticale, così un quadro può essere posto sul piano
orizzontale come in Monogram. Qui la tecnica del collage esplode, si appropria della tridimensione
fino a rendere difficile stabilire se si tratti di un quadro o di una scultura. Sulla tela campeggia una
capra impagliata, memoria di una capretta posseduta dall’artista da piccolo. Il suo corpo è stato
infilato in un copertone proprio come negli antichi monogrammi una lettura veniva intrecciata a
un’altra.
La personalità più complessa ma anche la più affascinante fu quella di Yves Klein. Si incontravano
nell’appartamento di Arman in una stanza dipinta di blu, per leggere, per meditare, ballare,
ascoltare musica jazz. Una volta, si narra, salirono sopra un tetto e si spartirono il mondo. Tutto il
suo percorso artistico fu la storia di questo atto di appropriazione. A Parigi cominciò a trasporre
sulla tela le sue idee sui rapporti tra arte e universo spirituale. I suoi quadri erano solo monocromi
arancioni, rosa, più spesso dorati o blu: questi colori gli sembravano adatti a parlare di luce e di
infinito. Si concentrò soprattutto su una certa tonalità di blu, ottenuto e brevettato da lui stesso
sotto la sigla di IKB (international klein blue): una mistura di pigmento e resina che consentiva al
colore oltremare di rimanere vibrante come quando è sotto forma di polvere. Il blu suggeriva lo
sbocco verso una spiritualità diffusa. Seguendo questa attrazione per il mistero e la sensibilità che
oltrepassa la materia, Klein si interessò a ogni forma di rituale in cui si manifestasse questa
esigenza umana. Yves Klein aprì la sua esposizione più memorabile intitolata Le Vide: la stanza
completamente vuota, ospitava soltanto la sensibilità dell’artista allo stato puro. Era possibile
acquistarla sotto forma di certificati pagandola in oro. L’inaugurazione fu una sapiente mescolanza
di sacro e profano, di rituale e di triviale. Klein usò come pennelli viventi delle modelle su cui
cosparse del colore blu nelle parti più femminili. L’immagine più significativa dell’aspirazione di
Klein verso l’alto e il sovrumano è il Salto nel vuoto. Vi vediamo l’artista saltare verso l’alto da una
finestra, con le braccia distese come quelle di un angelo o di un novello Icaro. Il pericolo, in realtà,
fu scarso, trattandosi non solamente della finestra di un primo piano, ma anche di un montaggio
fotografico. Nell’opera di Yves Klein vi è una evidente componente di provocazione dadaista.
Alla personalità di Klein si può associare la comunanza di temi con quella dell’italiano Piero
Manzoni, anche se questi non aderì mai pienamente ai novorealisti. I suoi legami più importanti
furono quelli con Lucio Fontana e con Klein, con loro fondò a Milano la rivista Azimuth nonché la
galleria Azimut, centro nevralgico della creatività milanese per tutto il 1960. Il suo percorso
personale fu volto, a dissacrare la tipologia romantica dell’artista geniale e dall’altro a mettere in
luce una mitologia collettiva fatta di eventi primari: nascere, esistere, respirare, pesare insomma
essere, come recita un suo famoso breve testo. Al primo nucleo di problemi rispose con opere
come i monocromi denominati Achromes cioè senza colori: quadri fatti di stoffa comune, decorati
che denunciavano l’inutilità del quadro; Manzoni esaltò e al tempo stesso derise la figura
dell’autore creando nei primi anni 60 opere di fiato d’artista, scatolette di merda d’artista, scatole
cilindriche con dentro semplici linee tracciate di suo pugno ma senza alcun disegno. Un giorno
riunì presso una galleria un pubblico che invitò a divorare l’arte cioè a mangiare uova sode firmate
con il sigillo-impronta del suo pollice. Concepì il Socle du Monde, un enorme cubo, collocato nella
località di Herning, che dovrebbe servire ,in teoria a reggere il globo e che per questo reca una
scritta ribaltata: come se tutto il mondo fosse un’opera, naturalmente sua. L’ironia sul parallelismo
artista-creatore divino aveva raggiunto il massimo. La sua seconda sfera di interessi coinvolgeva
l’idea junghiana di un inconscio collettivo in base al quale tutti condividiamo modi simili di
pensare. A quest’ambito appartiene il progetto mai realizzato di un Placentarium che prevedeva un
teatro a forma di uovo, in cui ciascuno avrebbe potuto sentirsi come dentro a un utero. Manzoni
seppe provocatoriamente proporre la riflessione su questioni relative al fare artistico e alla crisi del
concetto di autore che sarebbero state determinanti per la corrente del concettualismo, nata nei
secondi anni 60. (lettura immagine pag 383)
Si sviluppò una forma d’arte che prendeva le mosse dall’osservazione del consumismo senza
caricarsi di accenti critici: la Pop Art, che trovò il suo principale difensore del critico Lawrence
Alloway. Questi mise in luce come il termine che derivava dall’inglese “popular” stesse cambiando
il suo significato: dal riferimento a tradizioni rurali e regionali si spostava verso la rappresentazione
delle nuove consuetudini urbane e i nuovi miti dell’immaginario di massa. La Pop Art nacque più o
meno contemporaneamente ai movimenti e alle iniziative di cui abbiamo parlato sopra, ma le sue
manifestazioni più eclatanti avvennero nel pieno degli anni 60. Il quadro più importante e quasi un
manifesto della corrente fu il piccolo collage di Richard Hamilton, altri protagonisti inglesi furono
Eduardo Paolozzi, Ron Kitaj, Allen Jones e Peter Blake. La Pop Art londinese riflettè lo spirito dello
Londra disimpegnata e mondana degli anni 50 e 60: la stessa atmosfera ricca di divertimento, ma
povera di comunicazione. Molti commentatori hanno intravisto nella Pop Art un momento di
critica sociale, le dichiarazioni degli artisti inducono a pensare che le loro opere non volessero
giudicare ma soltanto testimoniare il loro tempo. La Pop dimostra una sovrana indifferenza e si
propone come il primo movimento artistico che prende in considerazione la rivoluzione dei media
senza condannarla. Anche per questo il movimento che rappresentò un ritorno al realismo
mediato dalla riproduzione tecnica dell’immagine, fu guardato con sospetto da critici formalisti.
(lettura immagine pag 385)
Il più celebre tra gli artisti inglesi di quel periodo fu David Hockney che prese le mosse dalla poetica
pop, ma se ne distaccò successivamente per acquisire uno stile personale. Nella serie delle Scene
domestiche l’artista prese come tema la relazione tra amici o familiari spesso ritratti in interni ed
evidenziando come tra loro non esista un grande afflato comunicativo. In Domestic Scene l’interno
è tratteggiato da poche cose: una tenda, un vaso da fiori, il divano. Per vivere in modo più aperto la
sua omosessualità, Hockney si trasferì in California, dove iniziò a ritrarre giovani atletici. Incominciò
a usare il colore acrilico al posto dell’olio. Il lusso e il disimpegno pieno di mondanità ma anche di
solitudine si posero al centro del suo lavoro. In A Bigger splash si vedono due alte palme che si
ergono sopra una casa razionale e moderna; la pittura piatta e realistica è mossa da una macchia di
bianco che agita l’acqua di una piscina: l’uomo vi è assente e al tempo stesso presente attraverso il
tuffo, come qualcosa che disturba la quiete. La bipartizione del quadro in due strisce azzurre divise
da una banda beige, la contrapposizione tra pennellate informali e campiture uniformi, la
prospettiva ardita del trampolino testimoniano l’estrema attenzione di Hockney nella costruzione
dell’immagine. Molto intensa è stata la sua attività nei ritratti. Alla loro esecuzione l’artista faceva
precedere un numero notevole di scatti fotografici, di disegni a matita e di acquerelli.
Nel 1962 il gallerista americano Sidney Janis organizzò una gigantesca mostra che riuniva tutti
coloro che avevano aderito allo spirito pop: tra questi i Neodadaisti, i Nouveaux realistes, Enrico
Baj, Tano Festa, Mimmo Rotella e Mario Schifano. La presenza della Pop Art americana alla
biennale di Venezia del 1964 ne decretò un successo che nessun altro movimento aveva avuto in
modo così marcato a livello internazionale. Il modo di operare dei suoi protagonisti prendeva
spunto dall’immaginario di massa e da ciò che lo eccitava: pubblicità, fumetti, oggetti di consumo,
ritratti delle star. Il soggetto veniva poi manipolato secondo strategie differenti e per questa via
ricondotto a una forma nuova di attenzione.
Jim Dine rappresenta una figura di passaggio tra l’Espressionismo astratto a la Pop: si dedicò a una
pittura che analizza i propri metodi e anche la propria storia partendo da oggetti comuni:
indumenti, souvenir. In Vestito Verde notiamo come un vestito sia diventato non l’elemento da
rappresentare ma quello su cui dipingere. In Studio sono presentate le condizioni preliminari per
dipingere una natura morta: osserviamo una mensola vera con bicchieri, brocche e bottiglie subito
dietro si squaderna una sorta di catalogo dei possibili stili pittorici.
Claes Oldenburg si concentrò sul culto dell’oggetto qualsiasi e sul tradimento delle sue funzioni.
Allestì bacheche nelle quali riuniva i pezzi di cibo esposti nelle vetrine come richiamo pubblicitario:
grandi fette di torte colorate, gelati, bistecche, di cui accentuava la colorazione artificiale
rendendole disgustose. In un’altra serie di opere, riprodusse oggetti come un interruttore della
luce, un WC, una macchina da scrivere, con stoffe imbottite: assumendo un aspetto molle, tali
oggetti erano privati delle loro funzione d’uso. In una serie ulteriore Oldenburg ha ingigantito
martelli, seghe, mollette per il bucato. Fare assumere a questi piccoli oggetti rubati alla vita
quotidiana la dimensione di un oggetto monumentale e posizionarli in piazze e edifici pubblici ha
avuto il senso di rendere chiaro che il nostro mondo, quali che siano i valori etici che proclama, ha
fatto dell’oggetto di consumo l’idolo che adoriamo più spesso.
Il lavoro pittorico di Roy Lichtenstein si svolse attorno al rapporto tra la cultura visiva alta e bassa,
servendosi del linguaggio del fumetto che trasponeva in pittura. Nella sua prima fase creativa
l’artista isolava dalla striscia un disegno solo che a quel punto assumeva una sua indipendenza. La
vignetta veniva riprodotta sul modello di quella stampata ripetendo, a mano e a olio i puntini che
segnano il retino della stampa da rotocalco. I cattivi colori dell’originale stampato, per motivi di
economia, in tricromia, venivano riprodotti con toni brillanti: a quel punto sia il retino, sia il fatto
che la gamma cromatica si riducesse ai colori fondamentali, non era più un segno del bisogno di
lavorare in economia ma appariva come una scelta raffinata, come un volontario attenersi, da
parte dell’artista , alla massima sintesi. L’immagine risultava ingigantita fino alle dimensioni di un
quadro e di un dipinto murale; per questo la ragazza distesa sul letto mentre rimpiange un amore
mai iniziato o il pugno alzato di un eroe che fa pow, arricchiti dalla narrazione in pillole del testo nel
baloon e dalle parole onomatopeiche che descrivono i suoni, diventano scene in cui chiunque si
può identificare o riconoscere i propri eroi. Attraverso questo procedimento l’artista mostrò di
rispettare l’arte che si compera in edicola e che accompagna la vita delle masse, ma anche di
volerla trasfigurare e portare nei musei.
Tom Wesselmann lavora sulla sensualità di cui il sistema della comunicazione riveste il cibo, il corpo
femminile e qualsiasi cosa possa essere consumata. Con una tecnica che passa dalla pittura al
collage propone soprattutto figure femminili di cui accentua l’aspetto erotico.
James Rosenquist ha esordito come del resto molti artisti pop, come pittore di insegne. Questa sua
prima esperienza si è ripercossa nella sua produzione artistica attraverso quadri di enormi
dimensioni, che riflettono il modo incongruente in cui si giustappongono le immagini dei cartelloni
pubblicitari nelle strade. Nelle sue opere si rappresentarono i nuovi miti.
Mel Ramos caratterizza la sua opera una ripresa in chiave pittorica ma ironica delle eroine dei
fumetti e delle pubblicità, sempre esageratamente sensuali e sovente associate a oggetti di cui
esse sono un veicolo promozionale.
All’opposto di questo vitalismo si colloca il lavoro drammatico di George Segal: lo scultore eseguiva
calchi in gesso di personaggi ritratti in frangenti di vita comune, attorniati da oggetti reali come
panche e tavoli.
Affermare di Andy Warhol che è un artista pop significa ridurre la portata delle sue intuizioni ma è
anche vero che forse nessuno meglio di lui rappresentò lo spirito di quel tempo. La sua vocazione
artistica nacque da piccolo, quando, in seguito a una grave malattia, la madre gli regalò
l’occorrente per disegnare. Warhol era dotato di una grande capacità di osservazione. Su queste
basi esordì come pubblicitario di successo. In seguito edificò un piccolo impero, la Factory : un
centro di produzione artistica, in cui il maestro viveva con gli allievi e indicava loro che cosa
dovevano o potevano fare. Ne nacquero anche produzioni cinematografiche di un certo successo
di pubblico. L’eclettismo di Warhol lo condusse a collezionare cose di ogni tipo, dai mobili di
antiquariato alle stampe kitsch. Questi molteplici campi d’azione sono lo sfondo su cui, nacque e si
sviluppò la sua produzione prettamente artistica che non si comprenderebbe senza conoscere la
sua attenzione per la vita mondana, per i giornali, per gli oggetti e per le persone considerate più
alla stregua di immagini viventi che di esseri con cui comunicare. Ciò che gli interessava era il modo
in cui il mondo della comunicazione e del modo di vedere si trasformava intorno a lui, senza mai
prendere una distanza critica. Warhol si pose come uno schermo vuoto, una lavagna su cui si
evidenziavano i segni del suo tempo. In quest’ottica possiamo comprendere perché abbia esposto
come opere d’arte scatole di lucido scarpe, riproduceva latte di zuppa precotta, bottiglie di coca
cola. Dipingeva ciò che si vede ogni giorno ma anche ciò che diventa oggetto di adorazione
collettiva. È sempre in questo spirito che riprodusse immagini molto note di personaggi famosi tra
cui Marilyn Monroe, Marlon Brando. Il procedimento che utilizzava toglieva ai volti ogni segno
relativo a un momento specifico del tempo e li trasformava in icone: come vediamo in Orange
Marilyn, la faccia veniva isolata dal busto; il fondo diventava monocromo e solitamente di un
colore luminoso, i lineamenti venivano semplificati accentuando con colori contrastanti la bocca, il
naso, gli occhi e i capelli; le immagini venivano serigrafate secondo il procedimento della
quadricomia: i contorni non coincidevano perfettamente con le aree colorate. Questo serviva a
mettere in evidenza come ciò che Warhol stava ritraendo non era una persona, ma la sua
immagine. La partecipazione emotiva è ridotta al minimo. Warhol tratta con la stessa freddezza
una Marilyn sexy, una Jackie Kennedy ai funerali di suo marito, una sedia elettrica e una fotografia
di incidente stradale. L’artista si limita a scegliere e a esaltare le immagini che ritiene rilevanti in
quanto, indipendentemente dal loro risvolto ideologico o ideale, accompagnano e quindi
influenzano la vita di tutti. Diventato lui stesso un mito costruì la propria icona allo stesso modo in
cui avrebbe dipinto un ritratto: una parrucca bianca, occhialini, giubbotto e una figura volutamente
sottile. Fu spaventato da fenomeni di adorazione nei suoi confronti che si spinsero fino a risultati
paradossali. Questo determinò la parziale chiusura della Factory e la fine del suo periodo più
attivo.
La pop art americana sfociò in una tendenza denominata Iperrealismo o Fotorealismo, termini che
derivano da una tecnica maniacale e stupefacente nel rappresentare la realtà in modo ancora più
realistico che attraverso la fotografia. Strumenti come la pittura ad aerografo e il calco in resine
sintetiche portarono al massimo la capacità illusionistica delle opere. Fra i maggiori protagonisti
della tendenza ricordiamo Chuck Close noto soprattutto per una tecnica puntinista che si unifica
nello sguardo da lontano. Richard Estes rappresenta soprattutto paesaggi urbani; nei suoi dipinti di
vetrine la realtà si specchia e si duplica creando un’immagine nell’immagine e attraverso questo,
un senso di spaesamento. John De Andrea ha eseguito nudi tridimensionali di materiale sintetico,
la cui superficie è simile alla pelle persino al tatto. Douane Hanson rappresentò la piccola
borghesia americana con crudezza, ma non senza una sofferta partecipazione per la sua condizione
alienata: le sue donne trasandate e sovrappeso si consolano con il cibo, leggendo una lettera,
partecipando a viaggi organizzati. La tendenza si esaurì abbastanza presto.
La Pop Art è arrivata in Italia come linguaggio già codificato soprattutto dopo il 1964. Il ritardo fu
giustificato anche dall’obiettiva lentezza con la quale la realtà del nuovo consumismo giunse nella
penisola. Che qualcosa di analogo alla swinging London stesse accadendo anche da noi è
testimoniato da un film come La dolce vita; l’appiattimento dei valori etici o comunque
l’abbandono di quelli tradizionali è reso bene dal romanzo La noia di Alberto Moravia. La poetica
pop vide i suoi massimi esponenti italiani soprattutto a Roma, città a contatto con gli artisti
americani. Nelle tecniche, nel taglio delle immagini, la Pop Art italiana conservò, una tendenza
all’equilibrio formale vicina alla tradizione visiva classica e lontana dalla lucida crudezza
anglosassone.
Milano diede un suo contributo attraverso le scene domestiche dei pesanti contorni neri di Valerio
Adami, le composizioni complesse, ma vicine a una illustratività infantile di Emilio Tandini e
soprattutto con l’operato di Emilio Baj, che ne suoi Generali ottenuti con la tecnica del bricolage.
Domenico Gnoli gettò sulla realtà uno sguardo ossessivo, ritraendola nei suoi quadri in frammenti
che ricordano la freddezza analitica della fotografa scientifica ravvicinata.
Le immagini più lucide sono quelle di Mario Schifano che dipinse frammenti di marchi comuni
come “esso” e “coca cola” su monocromi sgocciolanti: alla meccanicità ripetitiva delle scritte e al
contorno, segnato da un tratto geometrico, si opponeva la manualità dell’esecuzione; al generale
del bene di consumo, il particolare della persona che lo fa proprio. La raffinatezza di queste
premesse è provata da uno dei quadri più noti di Schifano, Futurismo Rivisitato, in cui l’artista
rielabora una fotografia del gruppo e sembra domandarsi che cosa potesse restare nelle nuove
avanguardie dell’entusiasmo che aveva guidato quelle del primo 900. La pittura di Schifano fu
connotata da un senso tragico della desuetudine dalla consapevolezza che ogni immagine era
destinata a durare pochissimo.
La contrapposizione tra parti mediatiche e parti soggettive del quadro si riscontra anche negli
assemblage di Tano Festa, che contrappone un vero infisso di finestra a un cielo pieno di nuvolette
stilizzate e chiaramente mutuate dalla comunicazione pubblicitaria; nel suo lavoro è
particolarmente evidente la commistione tra la cultura visiva di un tempo e quella attuale: di qui
nascono opere che riportano e deformano frammenti della Cappella Sistina.
Pino Pascali trasportò la sua competenza cinematografica unita a un’ironia leggera ma pungente
nel campo dell’arte; la sua produzione fu molteplice e passò dalla pittura alla scultura. Costruì finte
armi con pezzi di ferraglia dismessa uniformati dal colore mimetico e capaci di dare l’impressione
di veri ordigni. I suoi Campi arati e i suoi mari, fatti di tele bianche centinate (e cioè sostenute con
armature a forma di arco) o di vasche regolari contenenti acqua colorata con l’anilina, davano una
rappresentazione semplificata dei nostri paesaggi. Altre opere come gli spazzoloni colorati intitolati
Bachi da setola, dimostrarono il suo interesse per i doppi sensi e i giochi di parole. Il grande ragno
Vedova Blu rappresenta uno dei primi esempi di materiale sintetico, colorato nei toni tipici della
plastica, utilizzato come ciò che penetrava nelle case e attraverso queste, di nuovo, nell’arte.
Nel Nord Italia aderì tra i primi alla poetica di stampo pop Michelangelo Pistoletto. Le sue opere
più rappresentative dell’epoca sono quadri sul cui fondo, dipinto d’argento, si stagliava una figura.
In seguito la figura sarebbe stata serigrafata su superfici veramente specchianti. Attraverso questo
dispositivo un personaggio del presente, abbigliato e atteggiato come nella vita di tutti i giorni, si
ritrova nel quadro attorniato dalle immagini che lo specchio riesce a trasmettere: l’immagine non è
fissata una volta per tutte, ma si aggiorna nel tempo e accoglie il caso. Una medesima opera non
può mai essere vista nella stessa maniera perché è sintesi di momenti diversi.
Nel campo della scultura italiana si possono ricordare alcune esperienze che mal si adattano alla
sola definizione “pop” e in cui permane una notevole influenza di tipo dada-surrealista. Ettore
Colla costruì totem assemblando ferraglie eparti di motori dal tono ironico e tragico.
Alik Cavaliere allestì ambientazioni in cui associava tecniche tradizionali e una nuova versione del
ready-made: dopo avere raccolto parti di piante, creava assemblaggi che poi fondeva
principalmente in bronzo con l’antica tecnica della cera persa; gli ambienti in cui venivano inseriti i
suoi rovi e i suoi alberi da frutto erano connotati dalla presenza di materiali trovati. In opere
composte dagli anni 60 che includono la figura umana, questa compare sotto forma di calco,
sovente dimezzato o imprigionato, comunque posto in uno stato di attesa surreale.
Echi della metafisica si avvertono in Mario Ceroli. La figura umana vi è rappresentata in pose
comuni ma senza spessore, con una ripetitività ossessionante, come se non si trattasse che di
ombre o di simulacri silenti.
L’enorme successo dell’espressionismo astratto dapprima della Pop Art in seguito favorì la nascita
di tendenze contrapposte, che facevano proprie le aperture tecniche della Pop Art medesima, per
esempio la serialità e la mancanza di soggettivismo, ma che ne criticavano l’aspetto commerciale e
l’indifferenza verso la nuova etica del consumismo. Queste nuove tendenze svilupparono l’eredità
delle avanguardie storiche e per questo vengono spesso definite Neoavanguardie. Si possono
individuare alcuni tratti comuni nei differenti movimenti:
L’attenzione si rivolse non solo e non tanto verso l’opera come risultato finito ma
soprattutto verso l’analisi del metodo, dell’idea, dell’atteggiamento mentale e fisico, del
processo.
Questa protesta assunse spesso la veste di una voluta fuga dai luoghi tipici dell’arte
Carl Andre ha lavorato seguendo tipologie diverse in cui ricorre la presenza di un modulo che si
ripete: cataste di legni vecchi simili alle assi che stanno tra i binari delle ferrovie, arrangiate in
forma di torre e secondo un andamento alternato; costruzioni di mattoni refrattari; pavimenti di
lastre quadrate di ferro, ottone o altri metalli. Le agglomerazioni che si generano non hanno legami
fissi per cui le opere possono essere smontate e rimontate. La tipologia dimostra svariati intenti: la
scultura non si erge necessariamente verso l’alto, ma rimane a livello del pavimento e può essere
calpestata dallo spettatore: un modo per contestare il rispetto aulico normalmente tributato alle
opere. Andre poteva mettere in luce attraverso l’alternanza delle lastre di materiali diversi un forte
senso del ritmo e della combinazione, in parte mutuato da Brancusi, infine il fatto di non
nascondere i materiali ma di mostrarli nel loro aspetto naturale dava al lavoro il valore della
sincerità come opposto a quello di illusionismo criticando un altro caposaldo dell’estetica
tradizionale.
Donald Judd progettò sculture in cui i materiali erano più finiti e sofisticati: rame, ferro, alluminio,
nell’intenzione di mettere in evidenza le loro potenzialità visive, tattili e in generale sensoriali. Judd
preferiva definire le sue opere come oggetti specifici, ovvero concepiti senza altra finalità di quella
estetica, diversamente dagli oggetti commerciali. La maggior parte della sua produzione consiste in
ciò che potremmo definire mensole disposte in serie e con variazioni di ritmo; la combinazione tra
due o più materiali fa sì che esse appaiano diverse da diversi punti di vista e secondo il mutare
dell’illuminazione. Nel tempo queste strutture divennero sempre più ricche di variazioni.
Le variazioni modulari stanno anche alla base della ricerca di Dan Flavin. Nella serie di Monumenti
a Vladimir Tatlin, che denunciano il suo debito con la fase costruttivista e razionalista del maestro
russo, vediamo come lo stesso numero di tubi standard al neon possa essere composto in maniera
da dare luogo a forme fisiche e ad aure luminose diverse. Flavin ha usato il tubo al neon come
fosse un segno, ma ne ha anche utilizzato la luce come fosse un colore.
L’ossessività combinatoria è stata la caratteristica di Sol LeWitt. Il suo principio operativo consisteva
nel partire da premesse metodologiche date per eseguirle poi o farle eseguire alla stregua di un
progetto architettonico. L’emotività soggettiva si faceva da parte lasciando spazio alla logica del
progetto e alla pratica dell’esecuzione: l’opera risultava dall’unione di un pensiero a priori e di una
esperienza a posteriori. Le istruzioni da cui partiva potevano essere: creare un disegno murale
composto da una griglia di linee verticali, orizzontali e diagonali, partendo da punti dati di una
superficie. In tutti questi casi la costruzione dell’opera partiva da premesse date ma poteva
condurre a un risultato imprevedibile.
Il percorso di Robert Morris è stato vario. Già dai primi anni 60 aveva proposto opere che andavano
nella direzione della distruzione della forma ordinata, statica e determinata in ogni suo aspetto
dall’artista; per questo parte del suo lavoro passò sotto l’etichetta Antiform. Ricordiamo le sue
sculture di feltro, strutture composte con un materiale che tende a conservare le forme che gli
vengono imposte ma che nel tempo si deforma seguendo il suo stesso peso. L’opera viene dunque
proposta come qualcosa di mai definitivo, come fosse un lavoro in corso il cui processo è solo in
parte controllabile dall’artista.
Ancora più appariscente fu questo modo di accettare i movimenti interni al materiale da parte di
Richard Serra. Tra le sue prime opere ricordiamo dei nastri di feltro appesi al muro e dei fogli di
gomma vulcanizzata, tutti sistemati in maniera che fosse il loro stesso peso a determinarne le
forme; più tardi ha iniziato a concepire grandi sculture geometriche di ferro non trattato,
posizionate soprattutto all’esterno e in relazione a luoghi specifici.
L’origine dell’espressione Conceptual Art è stata molto discussa e sembra risalire all’artista Fluxus
George Brecht ma anche al minimalista Sol LeWitt. La si può accogliere in un’accezione ristretta,
relativamente a un gruppo di artisti di New York che hanno assunto un atteggiamento analitico nei
confronti del linguaggio dell’arte tra cui ricordiamo Mel Bochner, Lawrence Weiner, Robert Barry,
Keith Sonnier, Joseph Kosuth. Molti artisti operavano centrando il loro lavoro sui processi, sugli
atteggiamenti, sulle idee più che sul risultato materiale finito: era ciò che la critica Lucy Lippard
definì come “smaterializzata” cioè sempre meno dipendente dai materiali e dalla manualità.
Troviamo una sintesi della distanza dalla manualità e della rilevanza dell’aspetto mentale nelle
regole proposte da Lawrence Weiner:
Tra i maggiori protagonisti troviamo Joseph Kosuth, le cui opere sono partite soprattutto dai dubbi
diversamente espressi dall’artista Duchamp e da Freud sulla possibilità che il linguaggio aderisca
perfettamente alla realtà. Kosuth ha esordito con la sua opera rimasta più famosa One and Three
Chairs. Vengono esibite una fotografia di una sedia, la sedia stessa e una definizione della parola
sedia tratta da un dizionario. Il punto centrale del lavoro è mettere in evidenza le relazioni che
intervengono nel pensiero quando si cerchi di formulare un concetto, il quale deriva
inevitabilmente dalla cosa, dalla sua immagine e dalla sua rappresentazione verbale. L’artista ha
messo in evidenza il voler spiegare il funzionamento della mente di una persona e della mentalità
di un gruppo sociale: ha allestito enormi stanze sui cui muri si rincorrono citazioni di diversi
scrittori, fogli di giornale, fotografie a volte oggetti o anche opere d’arte di altri artisti. La
formazione del pensiero avviene sempre a partire da un atto di connessione tra fonti diverse.
Ciascun contesto poi è in grado di porsi come una fonte esso stesso: il concetto che riusciamo a
farci di un’opera d’arte all’interno di un museo è differente da quello che ce ne faremmo se la
vedessimo esposta in un luogo pubblico, sotto forma di cartellone stradale.
Bruce Nauman ha fortemente influenzato gli artisti degli anni 90. L’artista ha sviluppato tematiche
che riguardano la scivolosità del linguaggio. Il suo lavoro non esclude l’ambito dell’emotività ma
anzi lo indaga: il suo obiettivo è la difficoltà di ogni comunicazione anche fisica, corpora, gestuale.
Da opere fondate soprattutto sull’impiego del linguaggio, con frasi scritte attraverso la luce al
neon, è passato a creare sculture, video, ambientazioni spesso nati da un gioco di parole. Una
scultura che mostra la parte del corpo che va dalla mano al braccio visualizza ciò che intendiamo
quando usiamo espressioni tipo “tra il dire e il fare”. Le opere di Nauman hanno un impatto
emotivo molto forte anche quando sono fatte soltanto di parole. Nell’impressionante pannello di
scritte al neon One Hundred Live and Die si accendono alternativamente frasi composte da un
verbo comune e le parole “vivere” o “morire”. Il ritmo sincopato al quale si accendono le frasi
mette lo spettatore in uno stato d’ansia, come se ogni parola che diciamo sia decisiva per il nostro
destino. L’esperienza diretta dello spettatore è dunque protagonista dell’opera.
Questa attenzione all’aspetto esistenziale è resa in modo opposto da On Kawara, le cui opere
consistono in tele a olio nere o rosse, su cui è dipinta una data. Il modo in cui è scritta la data
riconduce a una certa area linguistica: minime differenze. La data è la medesima riportata sul foglio
di un quotidiano che fa da imballo alla tela, comperato dall’artista in quel giorno e in quel luogo.
Ogni opera ricorda all’artista un suo particolare vissuto individuale o un importante fatto di cronaca
alternativa ma induce anche lo spettatore a domandarsi dov’era e cosa faceva in quel periodo.
La critica dei mezzi tradizionali si legò a un dubbio più generalizzato sulle capacità comunicative
dell’arte e sulla sua tendenza alla conservazione di valori di un mondo che non è più quello in cui
vive l’uomo contemporaneo. Marcel Broodthaers creò un museo personale in cui si ritrovavano i
toni macabri, assurdi e ironici. La retorica dell’arte tradizionale come superiore o contrapposta alle
arti minori venne denunciata da Victor Burgin.
Molti artisti concettuali in senso lato finirono per occuparsi soprattutto della relazione con il
contesto in cui assumono senso tutte le nostre azioni e dunque con l’ambito ambientale.
In questo secondo senso ha lavorato Dan Graham che ha iniziato con ricerche fotografiche sulle
condizioni abitative popolari in America e che ha poi proseguito progettando e facendo costruire
padiglioni specchianti, adatti a recuperare una relazione naturale tra luoghi privati e luoghi esterni.
Daniel Buren è partito dalla pittura come linguaggio retorico riducendo i suoi quadri a semplici
pezzi di stoffa a strisce.
I coniugi Bernd e Hilla Becher hanno iniziato dagli anni 60 a viaggiare, muniti di macchina
fotografica, alla ricerca di strutture agricole e soprattutto industriali in disuso. Lo sguardo
dell’obiettivo inquadra i soggetti in maniera frontale, fredda, simmetrica, resa documentaria
dall’utilizzo del bianco e nero. Le fotografie hanno però un aspetto esistenziale molto vivido:
esibiscono questi mostri in declino dando loro l’aspetto di relitti, di sculture decadute o anche di
esseri viventi abbandonati.
Denunciò un forte interesse per l’interazione tra uomo e ambiente anche Gordon Matta Clark. Le
sue opere consistettero in edifici abbandonati che egli faceva letteralmente affettare, bucare,
mutilare con l’aiuto di ruspe, rendendone in questo modo visibile il tessuto abitativo interno:
tappezzerie segni che ne potessero mostrare la vita interiore come in un’archeologia del recente
passato. Gli edifici diventavano gigantesche sculture temporanee che l’artista definì
“anarchitetture” usando un gioco di parole che significa analisi, distruzione e fuga dall’architettura.
L’attitudine a interferire con il paesaggio ha origini molte antiche nella storia dell’uomo ma negli
anni 60 ebbe un impulso specifico legato soprattutto ai nuovi rischi ecologici, queste esperienze
sono: Earth Works o Land art. Il caso più eclatante di questa tipologia è la Spiral Jetty che Robert
Smithson ha fatto costruire. Si tratta di una impressionante passerella a forma di spirale, costruita
con materiale prelevato dalla collina vicina. La spirale è stata scelta come forma evocativa dei primi
processi di vita: ricorda i vortici dell’aria, le chiocciole e l’avvolgersi stesso dei corpi celesti. Il lago
salato era anche sede di antiche credenze, i mormoni ritenevano che esso fosse una sorta di
mostro senza fondo e che fosse collegato all’oceano tramite un canale sotterraneo. La grande
scultura si propone come un omaggio alla natura che alla natura ritorna: non appena, infatti,
l’opera dell’artista terminò incominciò quella dell’acqua salata. Anzitutto la superficie laterale della
passerella iniziò a coprirsi di microorganismi che ne fecero il proprio habitat; poi la concentrazione
del sale iniziò a salire verso il centro della spirale, rendendo l’acqua più rossa appunto al centro, poi
violacea, per ritornare blu ai bordi dell’opera. Negli anni la spirale è stata coperta da un
innalzamento del livello del lago rendendola sempre più abitata da alghe e da animali.
Agendo con metodi simili fu Robert Heizer ha disegnato sul deserto del Nevada come fosse un
foglio di carta, servendosi di ruspe invece che di matite. Walter De Maria ha creato nel deserto del
New Mexico il Lightning Field, una struttura di 400 pali d’acciaio, lucide aste verticali che si ergono
dal terreno orizzontale: al caos della natura sottostante si oppone l’ordine dei pali, destinati a
diventare appariscenti quando la luce del giorno o di una notte di luna o di lampi li metta in
particolare evidenza. Tutte e due queste opere hanno caratterizzato la corrente della Earth Works o
Land Art, accettano di porsi in balia delle modificazioni che la natura imporrà loro: in questo senso
possono essere considerate mai-finite.
Il rapporto con la natura è stato coltivato da altri artisti con modalità ancora diverse. L’idea del
viaggio è centrale nelle opere di Douglas Heubler e di Dennis Oppenheim. Richard Long effettua
lunghe escursioni a piedi in luoghi deserti da cui riporta pietre o altri reperti; in seguito li dispone
in galleria in forme geometriche primarie come strisce o cerchi posati a terra. In altri casi utilizza il
fango e la terra dei luoghi esplorati per eseguire con le mani o con i piedi dipinti murali o adagiati
sul pavimento. Hamish Fulton ha radicalizzato tale pratica fino al punto di fare coincidere opere ed
escursione. Il risultato visibile sono fotografie scattate lungo il cammino.
Le vaste realizzazioni ambientali di Christo e Jeanne-Claude nascono per essere temporanee e non
modificano il territorio in cui intervengono. Christo aveva abbandonato la sua pratica di ritrattista
per creare azioni ambientali: nel 1960 nascose una via di Parigi costruendo una barricata di bidoni.
Questo principio del rinchiudere lo condusse alla sua tipologia di lavori più nota: impacchettare
oggetti rendendone il contenuto al tempo stesso misterioso e valorizzato. L’artista aveva iniziato ad
ampliare le sue opere nello spazio. Nel 1968 riuscì a ricoprire di grandi fogli di plastica e corda il
primo edificio pubblico e, dopo questa realizzazione, le sue opere divennero sempre più ambiziose.
Spesso le sue coperture suscitarono uno scandalo pubblico, perché venivano vissute come un
insulto ai luoghi. Nel 1964 iniziò a lavorare con la moglie e ad aumentare la dimensione degli
oggetti fino a giungere a territori naturali: ricoprì un tratto di scogliera, creò una vela che
attraversava un vasto territorio agricolo e circondò con plastica rosa alcune isole. Christo e Jeanne-
Claude hanno agito anche in quello urbano, ricoprendo di fogli sintetici anche statue, ponti. Il suo
metodo tocca diversi nodi problematici riguardanti il modo di concepire sia l’opera d’arte sia il suo
autore:
È difficile stabilire quale sia l’opera, se il risultato finito o il processo di progettazione che lo
ha determinato attraverso mediazione e costruzione dei materiali.
Il processo di liberazione del corpo dai vincoli imposti da un’etica molto rigida ha attraversato tutto
il 900: l’abbigliamento abbandonava i busti e i colli inamidati, Martha Graham aveva sostituito il
piede nudo alle innaturali scarpette a punta. Dei tardi anni 60 si è assistito alle manifestazioni più
estreme di questo processo, con artisti che usarono il loro corpo come unico strumento di
espressione. Ricordiamo anzitutto il movimento denominato Actionismus. Arnulf Rainer ha
elaborato una serie di performances e di fotografie in cui faceva smorfie di dolore o di emozioni
estreme. Rudolf Schwarzkogler era solito mettere in scena azioni in cui si feriva davanti al pubblico
e ricercando una partecipazione primitiva e al suo rito. Hermann Nitsch concepì un teatro di cui
era il sacerdote, dove avvenivano sacrifici di animali e spargimenti di sangue votivi nel ricordo di
quanto accadeva nelle civiltà precristiane. Le opere che derivavano da queste azioni si mostrano
come lenzuola macchiate di sangue. Gunter Brus si è dedicato ad azioni, in seguito documentate
sia da fotografie che da disegni nelle quali dipingeva il proprio corpo come se fosse una mummia
bianca suturata. Chris Burden mise in atto azioni come farsi sparare da un amico da una distanza di
15 passi o distendersi su una strada trafficata coperto da un telone. Di fronte a espressioni
artistiche di così difficile comprensione, rischiare la vita appariva come l’unica garanzia per
dimostrare l’autenticità di una ricerca che avrebbe potuto facilmente essere considerata una serie
di atti goliardici. Vito Acconci cercava di spingere i propri gesti più semplici, per esempio l’emettere
saliva il più a lungo possibile. In altri casi ha cercato di indagare le distanze di sicurezza tra una
persona e l’altra, cioè oltre quale vicinanza si provoca irritazione, o fino a che punto egli sopportava
di esibire in pubblico i suoi stessi comportamenti privati. Questa attenzione alle relazioni
interpersonali è poi sfociata in una serie di opere che si collocano tra la scultura pubblica e
l’architettura. Molti protagonisti della body art hanno utilizzato in maniere diverse il travestimento
come a giocare con la propria identità ricercando identità multiple. Ricordiamo Helio Oiticica, Urs
Luthi e Luigi Ontani. In questa linea si collocano le azioni di Gilbert e George che si proposero come
sculture viventi: ogni atto della loro vita pubblica può essere considerato il frammento di un’opera
d’arte. Nella loro performance più famosa Underneath the Arches apparvero su un tavolo quadrato
con le facce dipinte e le loro tipiche giacchette a tre bottoni. Ironizzando contro qualsiasi credo
accompagnavano con movimenti meccanici le note di una canzonetta popolare. Esiste poi un
versante di azioni al femminile la cui esperienza del corpo è più complessa di quella maschile a
causa di aspetti come il parto, l’allattamento, la fine della fertilità. Louise Bourgeois ha cercato di
sondare le viscere della relazione tra una persona e il suo copro interpretando anche le relazioni
familiari come flussi che passano attraverso la corporeità. Visualizzò l’atto simbolico di distruggere
il padre, per esempio attraverso una scultura ambientale che suggeriva l’apparato digerente e
l’equivalenza tra digerire e distruggere.
Lygya Clark percorse la body art: da una formazione cinetica-costruttiva le indicò una via di un’arte
interattiva, giunse a disegnare opere-abiti che dovevano essere indossate dagli spettatori e a
concepire performances in cui offriva se stessa come pasto simbolico per gli amici. Tra la
protagoniste della body art ricordiamo Gina Pane. In Azione sentimentale si presentò al pubblico
vestita con dei jeans bianchi con un boquet di rose in mano. Gli attributi della sposa, il bianco e i
fiori, servivano a sottolineare il dono di sé, reso dalla metafora del tagliuzzarsi i polsi con una
lametta. Benchè sembri incredibile, il pubblico assisteva a queste azioni con un distacco totale,
come se si trattasse di una rappresentazione teatrale. Lo stesso accadde per Marina Abramovic che
assunse farmaci per epilettici attendendone l’effetto, si fece scorrere sul viso un serpente, lavò un
mucchio di ossa di bovino per otto ore al giorno, come a mondare il suo popolo dalle colpe di cui si
va macchiando: azioni tutte fondate sull’esibizione.
Joseph Beuys fu l’artista tedesco che maggiormente diede corpo alla crisi della cultura europea e
alla necessità di intervenire a salvarla. Durante la seconda guerra mondiale fu reclutato e cadde dal
suo apparecchio. Riuscì a salvarsi grazie a un gruppo di nomadi che lo trovò moribondo e lo curò
secondo una sapienza antica: il suo corpo semicongelato venne cosparso di grasso e poi avvolto in
coperte di feltro. Beuys elaborò una sua concezione dell’arte come mezzo di salvezza non solo
personale ma collettiva e planetaria. Beuys raccolse l’attitudine a considerare come opere non
soltanto gli oggetti, ma anche le performance di cui le sue sculture sono soprattutto residui.
L’artista utilizzò spesso oltre al grasso e al feltro che avevano salvato la sua vita, anche elementi che
servivano a testimoniare la preziosità della natura: oro, miele, rame come metallo conduttore di
energia vitale. Guardiamo un suo pianoforte ricoperto di feltro e contrassegnato da una croce
rossa: questo strumento musicale è nato relativamente tardi ed è simbolo della cultura europea
dell’otto-novecento; proprio questa cultura è entrata a parere di Beuys in una crisi che la
ammutolisce e per questo ha bisogno di essere ricondotta alla vita così come era accaduto a lui
stesso. Per salvarsi, l’uomo si deve ricondurre all’armonia con la natura e persino con gli animali più
aggressivi. Questo esemplificò nella “I like America and America” quando si fece chiudere per
giorni in una gabbia insieme a un coyote. Protetto solo da un panno di feltro Beuys attese che si
generasse tra lui e l’animale una reciproca confidenza. Il suo mezzo simbolico di dialogo fu un
bastone che definì euroasiatico. Il bastone è segno di guida del gregge. L’opera più impressionante
di Beuys resta quella iniziata nell’ambito della mostra Documentata 7 e destinata a non terminare
mai. L’artista fece in quella occasione accumulare settemila pietre di basalto davanti al museo che
ospitava la mostra. A ciascuna di quelle pietre era legato il destino di una piccola quercia: chiunque
avesse adottato una di quelle pietre avrebbe finanziato l’impianto di una quercia in città o in
territori vicini.
La corrente più importante che si è sviluppata in Italia dai tardi anni 60 in poi è stata quella
denominata Arte Povera così chiamata da Germano Celant in riferimento al Teatro Povero. Gli
aspetti principali della corrente appaiono l’insistenza sull’energia primaria come fonte di ogni
creatività, sulle attitudini individuali, sulla riflessione delle condizioni prime dell’esistenza di cui le
opere risultano lo specchio. Le origini dell’Arte Povera possono essere riscontrate nelle ricerche di
Lucio Fontana; nella semplificazione delle forme nell’opera di Francesco Lo Savio; nel tema
dell’abitare come esigenza esistenziale messo a fuoco da Carla Accardi. Numerosi furono anche i
contatti con il concettualismo anglosassone, da cui però l’Arte Povera si distacca per una maggiore
attenzione agli aspetti emotivi. I fondamenti dell’atto artistico sono stati sondati da Giulio Paolini.
Esordì con un disegno geometrico che mostrava non tanto l’opera, quanto le condizioni che la
rendono possibile. Quella prima opera non era che uno spazio bianco, un palcoscenico disponibile
e pronto a ricevere l’intervento dell’artista. Tutte le opere successive sono state uno sviluppo di
questa prima riflessione sui metodi della rappresentazione artistica, a prescindere dalle tecniche e
con un voluto aggancio alla rappresentazione teatrale. In Doppia Verità la concezione dell’arte
come imitazione del reale viene resa dal rapporto tra una mezza testa di gesso e uno specchio: lo
specchio riconduce la testa.
Michelangelo Pistoletto attraverso l’utilizzo dello specchio, facevano rientrare nell’opera il mondo
reale. Era un modo per indagare i fondamenti del trascorrere del tempo vissuto. Nelle opere
successive l’artista ha utilizzato materiali comuni come cartone, stoffa sempre a partire da una
concezione dell’arte come rispecchiamento del reale. Nella sua Venere degli stracci il calco di una
Venere classica si contrappone a un cumulo disordinato di pezze. Il passato fermato dalla figura si
relaziona al presente, il neutro al multicolore, l’eterno al transitorio.
Jannis Kounellis ha acquisito l’attitudine a disgregare i segni grafici a ridurli alla massima semplicità.
Cercando nei fondamenti della pittura come linguaggio che sintetizza la civiltà e dunque l’epica
collettiva, egli si è dedicato a forme e materiali che costituiscono immagini basilari nella vita tutti
nel contesto occidentale: il letto, la finestra, il carbone da riscaldamento , il fuoco. La margherita
che sputa una fiamma di fuoco blu rappresenta un fiore, fonte del frutto e dunque della vita. Il
polline ,origine del futuro seme è reso attraverso una fiamma perché il fuoco rappresenta l’energia
primaria sotto la sua forma più appariscente, quella della combustione. I materiali utilizzati
ricordano come questi elementi eterni si ripropongano in ogni tempo. Essi veicolano una sorta di
nostalgia per un’epoca che può sembrare recente, ma che invece è già storia.
Mario Merz è partito da una formazione pittorica. Ha incominciato a lavorare sui fondamenti della
vita come processo sia biologico, sia storico. Tra questi l’abitare rappresentato nelle molte versioni
dei suoi igloo è stato scelto dall’artista per le sue caratteristiche di essenzialità: si tratta di
un’architettura semplice. Vita vuol dire crescita e per questo Merz ha spesso inserito nelle sue
opere una serie di numeri concepita in maniera che ogni numero sia sempre la somma dei due
precedenti; questa sequenza se sviluppata in geometria da luogo a un gorgo o spirale: si pensi alla
chiocciola, un’immagine che non a caso si inserisce spesso nelle opere di Merz. Pacchi di quotidiani
impilati esemplificano la progressione del tempo come è vissuta dall’uomo, l’utilizzo della luce al
neon, di frutta e altri materiali naturali per costruire le sue immagini nasce proprio dal volere
raccontare in gigantesche composizioni tridimensionali gli elementi attorno a cui la vita compie il
suo ciclo, senza dimenticare però la tradizione pittorica della natura morta.
La proliferazione dal semplice al complesso sta al centro dell’opera di Alighiero Boetti. In Io che
prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969 l’artista ha ricostruito il proprio corpo con una serie di
pallottole di cemento su cui ha lasciato le impronte delle mani. L’artista ha sempre lavorato su
operazioni ossessive come la moltiplicazione, lo sdoppiamento. Il suo impiego di materiali comuni
come l’eternit, il cartone è terminato nel 1969, quando ha ricominciato a disegnare delle linee su
carta quadrettata. Le Mappe in cui la natura geologica si incrocia alla cultura politica: ogni paese vi
compare con i colori della sua bandiera e nell’arco di 30 anni sono cambiati più volte i colori che le
connotano.
Luciano Fabro ha indagato la capacità dell’uomo di plasmare il suo ambiente. Nell’opera In cubo i
materiali della pittura vengono utilizzati per costruire degli abitacoli cubici fondati sulle proporzioni
di un uomo: la sua altezza e l’apertura delle braccia, due misure sostanzialmente equivalenti.
Partendo da questa attenzione per l’uomo e per i fondamenti delle azioni comuni, Fabro ha per
esempio costruito enormi zampe di gallina, fatti in cristale, rame o altri materiali tipici
dell’artigianato.
Fecero parte del gruppo anche altri artisti come Emilio Prini, Giuseppe Penone, Giovanni Anselmo,
Gilberto Zorio. Un contributo del tutto personale che non può essere assimilato all’Arte Povera ma
che ebbe aspetti consonanti con essa fu quello di Gino De Dominicis che ha affrontato la
connessione tra l’arte e l’immortalità, l’impossibile, il magico.
Gli ultimi anni 70 furono connotati da un diffuso ritorno alle tecniche manuali tradizionali: fu
l’eredità del surrealismo figurativo e soprattutto dell’Espressionismo che venne passata al vaglio
degli artisti più giovani; per questo si parlò di Neoespressionismo. Il problema però non era tanto
quale avanguardia rivisitare, ma se avesse ancora un sensi pensare che da un movimento se ne
sarebbe sviluppato un altro in modo logico e consequenziale. L’idea stessa di avanguardia aveva
come fondamento una concezione positiva della storia, vale a dire la convinzione che il percorso
dell’umanità e delle sue produzioni creative si svolgesse verso un miglioramento progressivo e
inevitabile. Se le avanguardie hanno dato voce al moderno, ciò che ne nacque negli anni della
disillusione fu lo spirito postmoderno. Esso coincise con il boom economico degli anni 80 che portò
i prezzi delle opere alle stelle e stimolò una produzione artistica più commerciabile, come accadde
durante il ritorno all’ordine degli anni venti. Il ritorno alla manualità non stabiliva affatto
l’abbandono delle tematiche concettuali: accanto all’olio su tela e alla scultura si continuarono a
utilizzare i materiali comuni, il collage e l’assemblage ambientale. Parlare dunque di un ritorno è
impreciso: si diffuse la convinzione che l’originalità dell’opera non avesse più molto a che fare con
la novità dei mezzi usati.
Il primo paese in cui si rese visibile il ritorno alla manualità fu l’Italia. Fu in quest’ambito che si
coniò il termine Transavanguardia in cui il concetto di attraversamento si sostituiva a quello di
avanzamento. Gli aspetti che risultarono salienti furono:
Genius loci: ovvero riscoperta delle radici locali e popolari di ciascun artista
Passo dello strabismo: il presentarsi dell’artista non tanto con uno sguardo in avanti quanto
con gli occhi aperti anche ai fenomeni laterali e inattesi.
La pittura rifiorì come un albero ampliamente potato. Dopo una fase di ricognizione a casto raggio
nei tardi anni 60 gli artisti che vennero scelti per partecipare alle mostre della Transavanguardia
furono cinque:
Sandro Chia si dedicò a una pittura a olio che ricordava quella manierista. Dal punto di vista
cromatico Chia sembrò riferirsi soprattutto alle luminescenze del Futurismo. Il suo Fumatore con
guanto giallo è un uomo in abito elegante che vediamo di spalle. La figura è centrata e contornata
da un rosso che la evidenzia: il quadro potrebbe essere ascritto anche agli anni del Ritorno
all’ordine se non fosse per un fondo che ricorda le pennellate rapide informali e per il fumo che
esce scherzosamente da tre punti: la sigaretta, la testa e il fondoschiena.
Enzo Cucchi ha utilizzato un vasto spettro di tecniche, dalla lavorazione del ferro alla scultura in
pietra alla pittura murale. Il suo immaginario si è nutrito di ricordi di un’infanzia vissuta in un
piccolo paese, sovente connotate dal senso di morte o anche di estrema vitalità. Nel grande olio su
tela Più vicino agli dei, i quattro elementi primari si congiungono dal moto al tempo stesso
centrifugo e centripeto.
I quadri e le sculture di Mimmo Paladino che trapassano dalla ceramica al bronzo all’olio su tela
senza distinzioni tra tecniche alte e basse, sono sovente una sintesi dell’iconologia classica e di
quella popolare. Ne La vasca, vediamo trapelare dati onirici come busti di guerriero, serpenti,
animali, riconducibili anche ai lati dell’immaginario più oscuro dell’Italia meridionale: il culto dei
morti, dei santi e sei sogni. Nel 1990 Paladino creò la sua icona più forte: un cumulo piramidale di
sale, uno degli elementi più comuni, preziosi e simbolici che entri nelle nostre case. Spargere sale
significa rendere sterile il terreno, decretare una vittoria su una civiltà sconfitta, sembra alludere
appunto la massa di cavalli di legno bruciato che sono stati disarcionati e giacciono come relitti
archeologici.
Utilizzando una gamma di colori primari combinati in modo luminescente Nicola De Maria si è
espresso in piccoli quadri materici dove compaiono fiori così come in grandi affreschi murali, che
pervadono un intero ambiente, connotati dalla presenza di valigie che alludono a un viaggio
essenzialmente interiore.
Francesco Clemente si è dedicato soprattutto ad autoritratti nelle forme dell’incubo del sogno o
della fantasia: dagli orifizi del suo viso possono uscire corpi e oggetti; le sue opere sono un
racconto ininterrotto del modo in cui egli vede se stesso, la moglie e il loro contesto intimo. Il suo
lavoro si svolge nel sogno del frammento, dell’attimo, dell’impossibilità di abbracciare un progetto
di vita. Conta solo il qui e ora registrato in quaderni di appunti presi con gli acquerelli, diari che lo
accompagnano nei frequenti viaggi in India. Sempre dall’India proviene un’insistenza sulla
simbologia erotica che non ha nulla di volgare, ma è invece intesa come omaggio alla riproduzione
e al piacere.
All’area del ritorno italiano alla manualità possono essere ricondotti anche artisti che non hanno
assolutamente fatto parte della Transavanguardia. Ricordiamo Claudio Parmiggiani che ha
elaborato fin dagli anni 60 una poetica in cui si incrociano oggetti comuni e sculture dipinte che
riguardano soprattutto il tema del girare il mondo senza mai perdere la propria identità culturale.
Parlano di questo opere come Pittura Italiana, dove la leggerezza di una farfalla, metafora del
pensiero rapido e brillante, si posa su una mano sporca di colore, che disegna il fare concreto.
Luigi Mainolfi si è dedicato alla scultura con gesso, terracotta, stoffa e materiali comuni. La sua
grande Campana di gesso rappresenta una sintesi tra cattolicesimo e latinità. Essa parla della
cultura visiva italiana come di una forza ancora grande e vitale, ma ormai rotta rispetto al passato.
Uno dei primi artista a passare dal concettuale a una pittura nuovamente tradizionale è stato
Salvo. Già nei primi anni 70 dopo un esordio basato sul rapporto tra immagine e parola, ha iniziato
una rivisitazione degli stereotipi artistici con la suddivisione per generi: all’inizio con riletture del
tema di San Giorgio e il Drago, eseguite con colori pastello che toglievano all’azione ogni eroismo,
in seguito con la disamina di notturni, nature morte, paesaggi in una storia della pittura tradotta
con giochi di luci e contrasti di colori dall’effetto volutamente banale.
Un isolato di grande autonomia poetica è Ettore Spalletti. Avendo avuto una formazione vicina
all’arte cinetica è sempre rimasto fedele al legame che l’opera riesce a instaurare con lo spettatore
dal punto di vista percettivo. Le sue superfici sono monocrome e centrate sui colori evocativi come
i vari toni dell’azzurro, il rosa e il verde . in altri casi materiali come il marmo e la pietra vengono
resi sensuali da particolari sistemi di levigatura. Nei quadri il telaio si scosta leggermente dal piano
orizzontale che attestano una voluta mancanza di certezze, che dal campo della geometria si
trasporta su quello etico ed estetico. Quando l’artista ha ristrutturato cinque stanze dell’obitorio di
Garches ha utilizzato la conoscenza degli effetti percettivi come mezzo per rendere accogliente
un’atmosfera di solito disperata: nell’ultima sala l’azzurro avvolge gli archi, quello nero propone
una macchia irregolare. Tutto l’insieme delle stanze è privo di simboli confessionali come un
percorso che cerca di offrire l’arte come l’unico dono possibile a chi soffre il momento del lutto.
La Transavanguardia ha rappresentato l’unico movimento artistico italiano del 900 che abbia
raccolto un subitaneo successo internazionale. Sull’onda di questo fenomeno, ritornarono alla
ribalta in Germania alcuni artisti che operavano da anni nel solco dell’Espressionismo prenazista e
che appartenevano alla generazione nata negli anni 30 e 40. In Germania emerse una pittura che
rappresentava un elemento di continuità ideale con la cultura artistica di inizio secolo. I luoghi in
cui si sviluppò la tendenza che venne definita Nuovi Selvaggi o Neoespressionismo furono le città
di Colonia e Dusseldorf. Il paese era ancora in uno stato di lacerazione fisica oltre che morale. Il
muro che divideva Berlino, poi demolito nel 1989 si riempì non a caso di graffiti di anonimi ma
anche di artisti noti. È importante rilevare come molti di questi artisti provenissero dalla Germania
dell’Est dove veniva promossa un’arte di regime che contrastava con la raffinata tradizione tedesca.
Georg Baselitz dipingeva dagli anni 60 grandi tele figurative in cui comparivano ritratti, figure intere
o paesaggi caratterizzati da una pennellata fluida e materica. Dal 1969 aveva iniziato a ribaltare le
immagini dopo averle dipinte in modo che l’osservatore dovesse fare uno sforzo per riconoscere la
figura e potesse apprezzare l’impianto sbilanciato di un quadro che può apparire inizialmente
astratto. In Mangiatori di arance II il capovolgimento dell’immagine ne pone al centro l’arancia ed
evidenzia il fondo a pennellate biancastre utilizzando ma anche ponendo drasticamente in crisi le
proporzioni classiche del ritratto centrale.
A.R Penk era scappato dalla Germania dell’Est per stabilirsi definitivamente a Berlino Ovest, dove
incontrò gli altri colleghi Markus Lupertz, K.H. Hoedicke e Bernd Koberling. La sua pittura rabbiosa
e sintetica ricorda quella dell’ultimo Klee nonché i graffiti rupestri che raccontano di caccia e di
lotta per la sopravvivenza. Nei suoi grandi dipinti di impianto epico si racconta la nascita delle
civiltà da atti di inevitabile violenza; in Roma Eterna notiamo come accanto alla mitica lupa alcuni
uomini, muniti di armi primitive che simboleggiano ogni tipo di guerra, ne riducano altri alla
sottomissione. Le figure si dispongono sulla tela in modo non gerarchico senza un centro e
seguendo la tecnica dell’improvvisazione jazzistica.
Vasti sfondamenti prospettici caratterizzano le opere di Jorg Immenndorff, sensibile in modo
ancora più esplicito alle tematiche politiche.
Una visione ancora più allucinata e autocosciente dello stato di disfacimento morale nella
Germania postbellica si riscontra nelle opere di Anselm Kiefer. I suoi quadri sono dipinti con olio,
sabbia, paglia, scritte su carta, vetro, piombo amalgamati da colori bruni stesi sulla base di precise
prospettive spaziali. Che si tratti di campi aperti o luoghi chiusi di natura o di architetture distrutte,
predomina sempre il senso di una solitudine irrimediabile e spesso compaiono simboli del male.
Dagli anni 70 Kiefer ha prescelto soggetti con uno stretto riferimento alla storia germanica: da una
parte il richiamo alla natura dall’altra il riferimento costante a passi biblici.
Una continuità più marcata con le sperimentazioni concettuali degli anni 70 si registra nell’opera di
Sigmar Polke. Giunto nella Germania dell’Ovest vi riconobbe i segni di un consumismo sfrenato ma
connotato da un desiderio di evasione: vissuto come una rivincita esso copriva un’atmosfera di
perdita d’identità. Ecco allora che Polke ha dipinto i fumetti, sfumandoli e facendone immagini
capaci di suscitare ansia; ha utilizzato oggetti comuni ma con un tono sarcastico anziché con
l’indifferenza di quelli. Spesso i suoi quadri sono stati dipinti con vernici di breve durata,
condannando dunque l’opera a durare solo un tempo determinato.
Una personalità a parte nel contesto tedesco è quella di Gerhard Richter anch’egli scappato a
Ovest. Educato alle tecniche del Realismo socialista non ha esitato a utilizzarle per riprodurre
fotografie di giornali scattate da lui stesso. La scelta del materiale da copiare doveva essere priva di
rilevanza estetica. Il suo metodo prevede una sorta di regesto, un atlante in cui cataloga le
fotografie come un’enciclopedia senza un criterio di classificazione gerarchico. I quadri che ne
derivano passano indifferentemente dalla tecnica del realismo più preciso ma sfumato come in
Piazza del Duomo a Milano, fino a monocromi grigi, talvolta i dipinti sono astratti come Netz.
Personaggio chiave della pittura di fine secolo, Richter non sceglie uno stile ma li pratica tutti. È
proprio la sua indifferenza a parlarci di una concezione della vita che non ha nulla dell’entusiasmo
americano e che invece ci porta a una freddezza melanconica caratteristica del Nord Europa.
Per la prima volta nel secondo dopoguerra un fenomeno artistico importante potè dirsi importato
dall’Europa verso gli Stati Uniti. Il Neoespressionismo americano si presentò come espressione di
questa ricchezza, del benessere dell’epoca di Ronald Reagan e di un ripiegamento dell’individuo
sulle proprie emozioni anziché sul contesto civile.
Tra i protagonisti ricordiamo Julian Schnabel i cui primi quadri erano grandi immagini dipinte
grossolanamente e sulle quali erano stati attaccati frammenti di piatti e altri oggetti fracassati.
L’insieme designava rabbia ed energia. L’artista ha trovato la fonte di questa poetica soprattutto in
Spagna.
L’altro protagonista della pittura americana è David Salle, che si è formato accanto a John
Baldessarri, uno degli artisti che maggiormente svilupparono in America, l’utilizzo della fotografia
sotto forma di composizioni in cui appaiono immagini giustapposte e non sempre congruenti tra
loro. Salle studiò anche il modo in cui gli artisti come Picasso, Picabia, De Kooning, Polke avevano
affrontato il problema dell’accostamento di immagini senza legami espliciti o narrativi. Incominciò
così a dipingere grandi tele sulle quali si incastonavano le une accanto alle altre riproduzioni in
pittura di fotografie di vario soggetto: donne, navi, nature morte. In Riferimento di Byron e
Wellington è evidente l’eredità della teoria psicoanalitica del sogno e delle libere associazioni.
Un altro allievo di Baldessarri fu Eric Fischl. Nei suoi grandi dipinti mostra un virtuosismo realista,
che non può essere ricondotto alla gestualità neoespressionista, vi vediamo scene quotidiane della
borghesia americana come in Ragazzo perfido. L’artista sembra denunciare il suo stesso ruolo di
voyeur come opposto al compito di profeta.
Negli Stati Uniti il fenomeno pittorico più appariscente fu quello del Graffitismo. Dai tardi anni 60
era d’uso ricoprire i vagoni delle metropolitane di disegni eseguiti a bombing (bombolette di colore
spray) spesso ispirati ai fumetti o ridotti ai soli logos (firme personali) e tags. Gli autori erano di
solito ragazzi giovanissimi che si dividevano in bande, sovente in competizione tra loro proprio
riguardo la bellezza dei disegni. All’inizio degli anni 80 alcuni disegnatori si fecero notare dai
galleristi che li lanciarono come pittori del momento.
Il personaggio più noto tra questi fu Keith Haring che ha incominciato a tracciare il suo segno
meccanico e sintetico sugli spazi lasciati vuoti nei pannelli per la pubblicità nei mezzanini della
metropolitana. I suoi temi ricorrenti erano un bambino radiante, donne incinte, personaggi con
teste di cane come nei dipinti murali egizi. Dipingeva con la scioltezza del fumettista un repertorio
immagazzinato guardando la televisione da piccolo come avevano fatto milioni di suoi coetanei
nati negli anni del baby boom. Il lavoro veniva eseguito senza ripensamenti, con la bombola spray
o un pennarello su qualsiasi genere di supporto: dopo i pannelli pubblicitari vennero teli di plastica.
Il suo segno tradusse visivamente i ritmi e i temi della musica rap. Haring diede al lavoro un nuovo
carattere collettivo, raccogliendo attorno a sé ragazzini che facevano da assistenti e che
trasformavano il dipingere in un atto di impegno sociale.
L’altro protagonista del Graffitismo è Jean Michel Basquiat. Al di là della sua poetica personale fatta
di appunti, ripetizioni, immagini che raccontano la sua vita pericolosamente condotta, il suo
successo è stato importante anche perché ha decretato l’ingresso de non – bianchi nei musei: solo
il mondo dello spettacolo, fino ad allora, aveva accolto di buon grado i Coloured e gli Ispanici,
tenuti ai margini di qualsiasi altro campo creativo. (lettura immagine pag 444)
Verso la metà degli anni 80 il ritorno all’esecuzione manuale dell’opera si è attenuato mantenendo
un elemento caratteristico di tutto il decennio: il ricorso a immagini riconoscibili e a opere che
avessero una loro materialità, in contrapposizione all’immaterialità concettuale del decennio
precedente. Gli artisti incominciarono a utilizzare soprattutto due generi di supporto: da una parte
la fotografia e dall’altra gli oggetti. Essi non vennero più presentati come residui usati ma costruiti
o fatti costruire ad artigiani su preciso progetto con grande cura. Anche l’eventuale oggetto trovato
era presentato come bene di consumo nuovo fiammante. Il tema della merce e dell’attrazione che
essa può esercitare (come nella Pop Art) venne portato alla sua esasperazione massima. L’occhio
degli anni 80 fu insieme più cinico critico e graffiante di quello degli anni 60: all’entusiasmo per il
nuovo modo di vita si era sostituita la coscienza dei suoi lati occulti. L’aspetto più interessante che
venne indagato fu il rapporto di dipendenza psicologica dagli oggetti. Mai come dagli anni 80
indossare un abito firmato, possedere un certo tipo di automobile, utilizzare certi gagets è
diventato un modo per definire la propria persona.
Hanno questi significati gli oggetti che Haim Steinbach disponeva su mensole colorate, costruite
con la massima precisione e come fossero altari, come i luoghi di esposizione che ognuno di noi ha
in casa. In Stay with friends vediamo una doppia mensola, sul primo pezzo stanno cinque reperti
archeologici nati per contenere beni alimentari. Sulla parte di mensola più bassa stanno tre
confezioni di corn flakes. La funzione delle due tipologie di oggetti è la stessa, contenere del cibo.
L’artista ci parla, di un’economia nella quale la promozione del marketing appare fondamentale e
ogni oggetto può assumere valenze simboliche.
Jeff Koons ha insistito su quest’aspetto: ha esposto oggetti da musei o piuttosto come oggetti di
adorazione, aspirapolveri nuovi o palle da baseball. Anche Koons ha sottolineato il lato Kitsch del
nostro attaccamento agli oggetti:ha fatto eseguire ad artigiani che lavorano per l’industria sculture
di materiali molto costosi, facendo riprodurre piccoli idoli dell’immaginario corrente: dalle
statuette di stile settecentesco in acciaio inox, il materiale pià amato dalle casalinghe.
La difficoltà di trovare un’identità personale è al centro del lavoro di Robert Gober: la sua scultura
X Playpen, un box per bambini chiuso da una croce, ci trasposta nel mondo dell’infanzia o piuttosto
nelle difficoltà di un’infanzia sempre più problematica. I suoi brandelli di corpi, gambe scolpite in
modo iperrealista che escono imprevedibilmente dal muro, raccontano ancora una volta il senso di
frammentazione e mancanza di un centro a cui ci induce la vita nelle città.
Il vissuto personale si mescola ai mezzi della comunicazione di massa anche nell’opera di Jenny
Holzer che ha utilizzato i display a luci rosse per rendere pubbliche le poesie che ha composto sui
rapporti con se stessa, con la madre, con un mondo che fluisce continuamente senza che lo si
riesca ad afferrare.
Anche Barbara Kruger ha utilizzato i mezzi della pubblicità, per diffondere messaggi di carattere
esistenziale e politico: le sue grandi foto ritoccate sono immagini semplici, connotate da scritte in
nero e rosso, che utilizzano i meccanismi di convinzione della grafica pubblicitaria non per proporre
un prodotto, ma per inviare messaggi come “ci stiamo ancora divertendo?”, “il nostro tempo sono i
vostri soldi”.
La sensibilità per l’oggetto dimostrata dagli artisti europei si differenzia da quella americana per
una dose maggiore di ironia e per un diffuso senso di lutto, particolarmente pregnante in alcuni
artisti tedeschi. Va ricordato in generale che il dibattito artistico dei secondi anni 80 ha
tendenzialmente emarginato l’Italia, dando spazio a un dialogo serrato tra America e Nord Europa.
La perdita cui si fa riferimento non è solo quella caratteristica della società massificata, ma
soprattutto quella legata all’impossibilità di credere ancora ai progetti utopistici che avevano
animato le prime avanguardie.
Anche Katharina Fritsch ha elaborato attraverso sculture di materiale sintetico una poetica che
parla di disperazione collettiva e personale. Nella sua Tischgellschaft mostra dei manichini identici,
32 come i denti, disposti su due file ai lati di un tavolo. Il pasto non arriva e l’ossessione di un
desiderio semplice ma vitale non riesce a colmarsi. In altre opere ha mostrato il volto
dell’aggressività progettando enormi ratti che si posano su di un letto o che si dispongono a circolo
con i musi rivolti agli spettatori.
Rosemarie Trockel ha elaborato una serie di opere differenti a partire dalla pratica femminile del
tricot, nel contesto di un impegno più vasto riguardo all’emergere delle donne. Il lavoro a maglia
talvolta è anche una prigione da cui non si riesce a uscire. Del resto i punti della maglia sono anche
una serie di atti ripetitivi che come il ricamare e il cucire favoriscono un pensiero introspettivo dai
risvolti nevrotici.
La scultura di Tony Cragg esula in parte da questa atmosfera, dal momento che propone un
messaggio di rinascita alchemica delle cose e di ricomposizione armonica dell’universo. La sua
pratica scultorea si fonda sull’utilizzo di oggetti trovarti, dai minuscoli pezzi di plastica colorata che
si trovano sulla spiaggia alla fine della stagione estiva fino a pezzi di marmo, Cragg compone questi
oggetti in nuove forme ridando loro una dignità e una vita, come a mostrare che persino i prodotti
della civiltà della plastica possono entrare in un ciclo di rigenerazione. Nel suo Landscape riproduce
un paesaggio servendosi di pezzi di legno trovati come fossero i profili dei monti, di una scatola per
attrezzi come fosse uno chalet, di una tinozza come lago alpino.
Anish Kapoor, la sua scultura è completamente astratta e fondata sull’uso di mezzi che
impressionano dal punto di vista percettivo: pigmenti usati puri come in Buco e vaso ma anche
cavità di metallo, di alabastro, di marmo che ingannano l’occhio e servono come spunti a una
meditazione al tempo stesso mistica e razionale.
In questo settore l’evoluzione degli anni 80 è stata decisiva: si potè avere una qualità di stampa a
colori di grande spettacolarità e capace di competere con la pittura anche per le grandi dimensioni.
Fu nei primi anni 80 che i musei hanno incominciato a collezionare fotografie alla pari di quadri e
sculture, dando origine alla rivalutazione di un genere fino ad allora considerato documentario e
solo in parte artistico. Un nucleo importante di artisti fotografi è scaturito dalla scuola dei due
artisti Bernd e Hilla Becher : dai maestri hanno tratto uno sguardo che si posa sulle cose e sulle
persone in modo freddo ma che cela un profondo esame dell’uomo e dei suoi comportamenti.
Comuni a tutti sono le stampe colorate spesso di enormi dimensioni.
La serie più importante di Thomas Ruff consiste in fotografie che ritraggono persone in un primo
piano che ha la stessa brutalità delle foto tessera, il soggetto si mostra solo, fragile e privo di difese.
Thomas Struth ha concentrato uno stesso tipo di attenzione su gruppi di famiglia o anche strade,
case, chiese, paesaggi visti come da chi ricerchi un distacco emotivo che non ha.
Candida Hofer ha scelto di fotografare gli ambienti che di solito sono frequentati da molte persone,
come biblioteche, scuole e teatri. I luoghi disabitati risultano inutili come persone lasciate sole.
Andrea Gursky ritrae scenari collettivi come spiagge e luoghi di lavoro, in cui cose e persone
sembrano essere viste da lontano.
Il personaggio americano di maggiore rilievo è Cindy Shermann che ha messo in scena se stessa in
travestimenti diversi come fosse un’attrice. Nei panni di una signora Anni 50 , di un clown, di una
donna in pericolo l’artista si è mostrata in centinaia di identità diverse: le sue immagini sono il
risultato di differenti interpretazioni e dunque non sono autoritratti. Il procedimento tecnico che
segue è simile a quello di un direttore della fotografia in un film: lo scatto fotografico non è che
l’ultimo atto di un processo che implica l’invenzione di una storia, la preparazione di un set, la
scelta del travestimento e del trucco.
Un altro protagonista dell’arte fotografica è stato Andres Serrano, ha creato una serie di immagini
che fanno riferimento esplicito alla religione come la Crocifissione del 1987 vista attraverso la
trasparenza del sangue. La sua sapienza formale gli consente di trasmettere un intenso senso di
colpa di peccato e di decadimento.
Un importante contributo alla fotografia è stato dato da Nan Goldin che ha descritto per anni il suo
universo affettivo attraverso istantanee sovente disposte in serie. I suoi Slide Show riunificano
queste immagini in sequenze commoventi e crude nelle quali si può seguire la storia di una
persona amica della felicità alla malattia e spesso alla morte.
Dal 1989 gli equilibri internazionali si sono completamente capovolti; la scienza medica ha
aumentato le speranze di vita per lo meno nei paesi ricchi; nei paesi poveri si è verificata la più
estesa crescita demografica della storia, aumentando il divario tra aree ricche e povere del mondo.
La tecnologia ha fatto ovunque un balzo avanti e ha generato il fenomeno della globalizzazione: le
culture del globo intero vanno verso un’omologazione progressiva. Ciascuno di questi aspetti ha
avuto un suo risvolto nell’arte contemporanea, che dal punto di vista tecnico ha mantenuto
caratteristiche stilistiche dei secondi anni 80. Una differenza saliente rispetto agli anni 80 è la
ricomparsa di un impegno morale, sociale o politico talvolta esplicito, talvolta velato, comunque
reso quasi inevitabile dall’urgenza dei mutamenti storici.
I mutamenti di carattere geopolitico hanno portato in primo piano anzitutto l’arte dell’ex Unione
Sovietica. La facilitazione delle comunicazioni ha poi condotto anche mondi culturalmente lontani
come la Cina e il Giappone. Il fenomeno del multiculturalismo, dell’incrocio tra popoli he stanno
mescolandosi tra loro e quindi anche perdendo le loro identità locali specifiche, è stato al centro di
mostre che, dal 1989 in poi, hanno messo in discussione l’egemonia dell’Europa e degli Stati Uniti
anche nell’ambito della produzione artistica. Il problema più grave incontrato in questa serie di
confronti è la tendenza della tradizione occidentale ad assorbire le altre.
Il travaglio dell’ex Unione Sovietica è descritto da Ilya Kabakov. Il loro progetto (suo e della moglie)
più vasto che va realizzandosi nel tempo, prevede una installazione totale, cioè la ricostruzione
tridimensionale e a grandezza naturale di un labirinto di stanze: una città sotterranea senza porte e
finestre. La sua struttura, fatta di buoni e cattivi ricordi, è rigidamente quadrata e razionale.
L’irrazionale sta all’interno, nei corridoi lunghissimi che ricordano quelli delle case in condivisione,
nelle stanze dove diversi tipi umani cercano il loro modo di cavarsela.
La situazione dell’Africa nera, con i suoi fenomeni di urbanizzazione intensa e di povertà diffusa, è
stata messa in luce da molti artisti tra cui Cheri Samba. Nei suoi quadri realistici e divertenti
connotati da didascalie in un francese stentato, descrive la condizione dell’africano medio che la
colonizzazione ha privato delle tradizioni che lo aiutavano a vivere e persino della sua lingua.
Un modo ancora diverso è quello musulmano: la condizione di guerra costante che si vive in Iran e
la segregazione in cui in quel paese sono sottoposte le donne sono state descritte in fotografie da
Schirin Neshat.
Mariko Mori ha cercato di portare verso il pubblico occidentale i riti della spiritualità buddista
associati alle tecnologie più avanzate: nei suoi video interattivi una dea sparge fiori di loto verso il
pubblico e nel suo Dream Temple un vero tempio in cristallo sintetico con una sorta di bozzolo
all’interno, ciascuno dovrebbe potersi sentire protetto come all’interno di un utero.
Mentre i divi che animano la società dello spettacolo cambiano look continuamente e restano
giovani in eterno, gli esperimenti scientifici hanno portato a compimento esperimenti sulla
clonazione di animali e si profila la clonazione umana: pochi cenni per spiegare perché l’arte degli
anni 90 abbia insistito sul corpo, sia come veicolo di bellezza e seduzione, sia come luogo
misterioso pieno di orrende esigenze e capace di riservarci angoscia e malattia. Questa tendenza
artistica è giunta a notorietà secondo la definizione di Post Human, questo filone si è distinto per la
violenza delle immagini e dei contenuti. Alcuni artisti hanno lavorato sul tema della corporeità
negli anni 70: tra questi Katarina Sieverding, Rebecca Horn, Marina Abramovic e Laurie Anderson.
Mike Kelley ha esibito attraverso composizioni di pelouches o di altri reperti infantili la nostra
incapacità a distaccarci dalle pulsioni primarie. Il suo lavoro vicino anche a quello di Charles Ray e
Paul Mc Carthy ha insistito sulla solitudine dell’individuo in un contesto come quello californiano,
che pretenderebbe uno stato di benessere fisico e di eccitazione perenne. Un fenomeno
abbastanza tipico degli anni 90 è stato l’emergere di giovani artisti inglesi che hanno portato
queste tematiche all’esasperazione , con una mostra, sensation, che ha fatto il giro del mondo è
stata censurata: l’anglo-nigeriano Chris Ofili vi aveva esposto una Madonna dipinta con immagini
porno e sterco di elefante.
Tra i membri di questo gruppo troviamo Dinos e Jake Chapman i quali usando la tecnica del
manichino di materiale sintetico hanno inventato gruppi di corpi siamesi che in un’ottica
fantascientifica, sarebbero stati generati al solo scopo di donare organi, piacere erotico o forza
lavoro.
In riferimento a questi temi Damien Hirst ha suscitato grande scandalo per la violenza visiva delle
sue opere: ha infatti mostrato corpi di mucca veri sezionati e conservati in formalina oppure un
corpo di squalo: un modo per ricordare il nostro stesso essere fatti di carne deperibile. In alcune
sue opere viene portato in primo piano il rapporto che abbiamo con la nostra salute: scaffali di
farmaci rappresentano bombe chimiche.
Un’ottica più concettuale ma pur sempre in relazione al corpo e alla salute ha lavorato Felix
Gonzales Torres. Le sue opere in cumuli di dolcetti del medesimo peso del suo corpo, talvolta
accompagnati da scritte che raccontano vicende della sua vita. Il pubblico è invitato a prendere i
dolcetti come se si trattasse di un’offerta, un’allegoria per indicare come nelle relazioni d’amore chi
prende l’altro lo fa vivere ma lo consuma anche.
Nell’ambito della pittura la tematica del corpo come luogo di dolore è stata messa in rilievo da
Marlene Dumas nel suo La luce del mattino la figura si trasforma in un’ombra bluastra dagli occhi
cavi, rievocando i personaggi straziati di Francis Bacon.
Un altro gruppo di artisti ha dato corpo a un timore che sembra accompagnare l’uomo dai tempi
della rivoluzione scientifica: quello di diventare degli automi o di inventare automi distruttivi. È
esemplificativo Stelarc, che nelle sue performance lascia ad altri la possibilità di guidare i suoi arti,
legati a un computer da un sistema di elettrodi.
Un altro aspetto determinante degli anni 90 è stato rappresentato dalla straordinaria evoluzione
dei mezzi di rappresentazione tecnologica. Ne hanno beneficiato in modo particolare le opere che
usano la tecnica del video, che hanno offerto la possibilità di sviluppare filmati senza la narratività
del cinema. Va comunque ricordato che il video è un mezzo e non una poetica: non esiste un
movimento unitario che possa essere definito videoarte. Il primo artista a intuire le potenzialità
artistiche del video è stato Nam June Paik che ha creato composizioni in cui i monitor si
compongono in totem dei tempi moderni: le loro immagini ipnotizzano e avvincono come l’antico
fuoco del caminetto. Le sperimentazioni successive hanno consentito agli artisti di concepire opere
delle metodologie molto diverse. I risultati migliori si sono incominciati a ottenere quando il mezzo
è stato sufficientemente maturo. Una prima grande bipartizione divide i video nati per essere
proiettati su grandi superfici, avvolgendo lo spettatore e ponendosi ai limiti dell’arte ambientale, e
quelli nati per essere visti nei monitor, magari circondati da una sorta di scenografia come
accadeva per quelli di Nam June Paik. Inoltre si può ancora suddividere in tre tipologie
fondamentali il modo in cui gli artisti si servono del video. La prima non interviene sul girato se non
attraverso il montaggio. Un video molto noto di Fischli-Weiss si fonda sul succedersi di piccole
catastrofi quotidiane, generate dall’interazione di oggetti comuni. Una seconda possibilità,
evidente in molte opere di Pipilotti Rist consiste nel fare nascere ogni sequenza dalla
sovrapposizione di vari girati, modificati al computer, in modo da alternare immagini realistiche a
forme astratte e a colori che vengono spinti dalla tecnologia verso un’esasperazione allucinata. Una
terza possibilità è data dal connettere il filmato a dei sensori, in modo da consentire all’opera di
interagire con il pubblico. Nei video delle opere di Gary Hill le figure umane proiettate sul muro
sono in grado di avvertire la nostra presenza e quando ci avviciniamo ci salutano.
Le opere più complesse e sofisticate in questo campo sono state concepite da Bill Viola. La sua
formazione a cavallo tra le arti visive e la tecnica del video gli ha consentito un’assoluta padronanza
del mezzo. I dispositivi tecnologici che contribuiscono alla formazione dell’immagine, per quanto
sofisticati, risultano nascosti e mai esaltati in se stessi. Nella spettacolare installazione Trilogia:
Fuoco, acqua, respiro l’artista ha descritto la metamorfosi del corpo umano sotto l’azione di forze
elementari come l’acqua, l’aria e il fuoco. La vita viene consumata dal fuoco e ricreata nell’acqua,
mentre l’immagine passa ciclicamente dal tema della distruzione a quello della purificazione.
Riguardo all’ultima generazione scopriamo immagini di particolare impatti nei film di Matthew
Barney. Nella serie di cinque filmati intitolata Cremaster, Barney racconta soprattutto i misteri
legati alla fecondazione e alla nascita della vita.