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Arte

Le architetture
(pg 952-955; pg 976-980)
Architettura in età romantica
Breve storia di (quasi) tutta l'epoca vittoriana
Alla fine del secolo la cultura romantica sviluppò l'interesse per la storia dell'architettura -sorto nel
Settecento parallelamente alla nascita dell'archeologia-, vedendo nello studio del passato uno strumento
necessario alla ricerca dei fondamenti dell'identità nazionale degli stati europei. Questo interesse prese il
nome di storicismo e diede vita a ritorni di forme architettoniche del passato -romantico, gotico,
rinascimento, barocco. Particolare attenzione venne rivolta al Medioevo, rivalutato per l'intensa spiritualità
e come momento in cui i popoli europei diedero forma alle loro identità nazionali, e allo stile Gotico, la sua
espressione più alta.
Sul finire del XVIII secolo, in Gran Bretagna si afferma, in ambito architettonico, un interesse verso le forme
proprie dell’arte medievale e verso tendenze e linguaggi esotici provenienti da Paesi lontani. Inoltre, contro il
rispetto delle rigide norme della classicità (siamo agli albori del Neoclassicismo che esaltava le proporzioni
armoniche dell’architettura classica greca e romana), alcuni intellettuali sostengono che l’immaginazione
dell’artista debba basarsi sul principio della libertà individuale e sulla spontaneità. Tra gli stili architettonici,
quello gotico, specifico dell’ultima fase unitaria dell’arte medievale, interpretava al meglio tale sensibilità e,
infatti, esso prevalse e si diffuse anche negli altri Paesi europei nel corso di tutto l’Ottocento. La
rivalutazione delle architetture del Medioevo in Inghilterra, il cosiddetto Gothic revival, come veniva
appunto definito questo «risveglio» di interesse verso lo stile gotico, riporta dunque in auge forme che nel
Tardo Medioevo erano state emblematiche della cultura occidentale. La Germania e l’Italia, Paesi non
ancora unificati e sotto il giogo del potere straniero, guardano invece al Medioevo perché rievocativo dello
spirito di unità nazionale.

Storicismo ed eclettismo
Palazzo del Parlamento (Londra)
Architettura simbolo del Gothic Revival inglese è il nuovo palazzo del Parlamento a Londra (1840 - 1870),
ricostruito in forme gotiche ma su un impianto rinascimentale (pianta regolare quadrangolare simmetrica),
in seguito all’incendio che distrusse nel 1834 l’antico edificio. Le forme gotiche con il loro corredo di archi
ogivali, pinnacoli e guglie, ideate dall’architetto A. W. Pugin che collaborò con Charles Barry (1795-1860),
rivestono una struttura razionale e simmetrica. Il linguaggio gotico è esaltato dal verticalismo della torre
Vittoria a Sud e della torre dell’Orologio (o Big Ben) a nord.
Villa per Horace Walpole a Strawberry Hill (Gran Bretagna)
James Essex, John Carter, Strawberry Hill House, 1749-1777, Twickenham, Londra.
Questa ri-attualizzazione del gotico inizia nel corso del Settecento e, in genere, è attribuita a un personaggio
considerato stravagante e alquanto caratteristico, il letterato Horace Walpole (1717-1797), autore de Il
Castello di Otranto, figlio del capo del governo inglese, che per la sua villa estiva a Strawberry Hill non
guardò com’era uso ai suoi tempi allo stile palladiano - ispirato all’architetto veneziano Andrea Palladio
(1508-1580) che basava i suoi progetti sulla simmetria e il linguaggio formale dell’architettura classica del
tempio greco e romano -, ma proprio allo stile gotico. A quel tempo, la villa di Walpole, progettata da un
gruppo di architetti e artisti, fu considerata eccentrica e bizzarra, ma vista in prospettiva, in relazione
soprattutto agli sviluppi del gusto in architettura nel secolo successivo, è il primo segno di una nuova
consapevolezza, grazie alla quale le persone (certo, non tutti) potevano scegliersi uno stile architettonico
come si scelgono gli arredi per la propria casa. Nell’arco di un quarantennio, un tradizionale edificio
residenziale venne trasformato in una sorta di fiabesca architettura, circondata dal verde di un giardino
all’inglese. La pianta è asimmetrica, le ambientazioni sono medievali (ma anche, per es., le torri e il
particolare dei merli all’esterno), i dettagli costruttivi (per es., il disegno delle finestre) e l’ornamentazione
architettonica (i pinnacoli o le coperture cuspidate) sono goticheggianti. I volumi della villa, che sembrano
disposti casualmente o per aggiunte successive, ricordano una piccola cittadella immersa in un paesaggio
anch’esso spontaneo, apparentemente non progettato, appunto «all’inglese».

Storicismo e Eclettismo nell’architettura romantica europea


La diffusione di libri di storia dell'architettura che ritraevano edifici di ogni epoca e paese favorì l'imitazione
di un repertorio formale sempre più vasto. Nel 1855 James Fergusson, studioso di architettura indiana,
pubblicò The History of Architecture, un manuale contenente un ampio repertorio di esempi da cui
attingere all'occorrenza.
La tendenza a giustapporre, mescolare e accostare liberamente elementi del linguaggio architettonico di varia
provenienza prende il nome di Eclettismo, uno stile caratterizzato da una sovrabbondanza decorativa, dalla
commistione di più elementi, che si diffuse nella seconda metà dell'Ottocento.
Architettura esemplare della profonda seduzione e attrazione che visse l’Europa nell’Ottocento verso mondi
«esotici», in particolare orientali. Questo gusto per linguaggi visivi, elementi e oggetti appartenenti a culture
estranee alle proprie tradizioni prende il nome di volta in volta di esotismo, orientalismo, giapponesismo, ma
già in epoca rococò si era avuta la moda della «cineseria».
La ripresa di stili costruttivi e linguaggi formali del passato è il fenomeno, definito con il termine di
Storicismo, più significativo del periodo e interessa diversi Paesi. Lo storicismo romantico sosteneva e
sperimentava l’inesistenza di un bello ideale e valido per ogni epoca e per ogni luogo, che per secoli era stato
identificato con le forme della classicità greco-romana. Iniziò a circolare l’idea che ogni popolo e ogni
periodo storico avessero espresso liberamente nelle loro opere, una propria interpretazione della bellezza,
ugualmente degna di attenzione, studio e eventualmente imitazione. Nascono i cosiddetti revivals ovvero la
riproposizione di stili del passato, ritenuti caratteristici di una determinata nazione. In Italia, il cui
riferimento ideale è il Medioevo dei liberi Comuni, si afferma in modo particolare un variegato
neomedievalismo che, nella seconda parte del XIX secolo, sfocerà in un generico eclettismo, ovvero in una
combinazione di stili diversi. L’eclettismo rappresenta il gusto dell’alta borghesia industriale ed è il carattere
distintivo dell’architettura ufficiale umbertina della fine dell’Ottocento (architettura postunitaria). Per le
facciate incompiute di importanti monumenti si sceglie lo stile neogotico (Duomo di Milano, Chiesa di San
Petronio a Bologna, la basilica di Santa Croce a Firenze, chiesa di San Pietro a Trento).
Giuseppe Sacconi, (1854-1905), Monumento a Vittorio Emanuele II, Roma 1884 - 1891
Il Monumento nazionale a Vittorio Emanuele II o (mole del) Vittoriano, chiamato per sineddoche Altare
della Patria, è un monumento nazionale italiano situato a Roma, in piazza Venezia, opera dell'architetto
Giuseppe Sacconi. Ha un grande valore rappresentativo, essendo architettonicamente e artisticamente
incentrato sul Risorgimento, il complesso processo di unità nazionale e liberazione dalla dominazione
straniera portato a compimento sotto il regno di Vittorio Emanuele II di Savoia, cui il monumento è
dedicato: per tale motivo il Vittoriano è considerato uno dei simboli patri italiani. Il Vittoriano racchiude
l'Altare della Patria. Poiché questo elemento è percepito come il centro emblematico dell'edificio, l'intero
monumento è spesso chiamato Altare della Patria.
Da un punto di vista architettonico è stato pensato come un moderno foro, un'agorà su tre livelli collegati
da scalinate e sovrastati da un portico caratterizzato da un colonnato. Gli elementi architettonicamente
preponderanti del Vittoriano sono le scalinate esterne e il portico situato sulla sommità del monumento
(sommoportico), tra due propilei laterali. Il sommoportico è costituito da un ampio colonnato corinzio,
ordine che caratterizza anche i due propilei. Per la realizzazione del Vittoriano, Giuseppe Sacconi prese
spunto dall'architettura neoclassica, l'erede dell'architettura classica greca e romana, sulla quale furono
innestati elementi italici secondo lo spirito dell'Eclettismo. Sacconi tenne presente anche lo stile
architettonico in voga durante il Secondo Impero francese di Napoleone III (1852-1870).
Charles Garnier (1825-1898), Opéra, Parigi 1861 - 1875
Incaricato dall'imperatore Napoleone III di realizzare il nuovo Teatro dell'Opera, Charles Garnier progettò
il nuovo luogo di ritrovo della società borghese, un'architettura simbolo del lusso e del piacere estetico.
Fumoirs, sale d'attesa, un ampio vestibolo di ingresso e il grande scalone che conduce ai palchi costituiscono
la parte destinata al ricevimento, che ha un'estensione quasi pari a quella riservata alla rappresentazione
teatrale. Nel disegno della facciata vi è un repertorio stilistico di diverse epoche: archi a tutto senso per il
basamento bugnato (ricordano gli acquedotti romani), grandi colonne binate in ordine gigante e timpani
arrotondati con ricchi complessi statuari di ispirazione barocca per la parte superiore, con una ridondanza di
marmi, dorature, colori, busti e medaglioni che riprendono il repertorio figurativo classico: la lira e Apollo,
dio della musica. Un'architettura, quindi, né romana, né greca, né gotica, bensì semplicemente l'architettura
di Napoleone III, diceva Garnier, eludendo ogni possibile definizione.
Caffè Pedrocchi e Pasticceria Pedrocchino a Padova
Un esempio di eclettismo tra i più significativi sono gli edifici progettati dall’architetto veneziano Giuseppe
Jappelli (1783-1852) a Padova: il caffè Pedrocchi, un’architettura neoclassica, in stile dorico nei due porticati
collegati a un corpo corinzio, e l’adiacente pasticceria detta il Pedrocchino, in stile neogotico; gli interni
presentano citazioni di stili e culture diverse (greca, romana, egizia) insieme all’uso dei nuovi materiali, come
la ghisa e il vetro, che contribuiscono a creare spazi moderni e funzionali. Il corpo principale del locale fu
ideato a partire dal 1817 in forme neoclassiche e alcuni anni dopo venne affiancato dalla pasticceria, detta
Pedrocchino (1831-42), in stile neogotico. L'edificio ha una pianta triangolare e presenta ai tre angoli
profondi pronai sostenuti da colonne doriche e sormontati da fregi. All'interno la distribuzione degli
ambienti è irregolare e in stile eclettico. Le stanze sono arredate ciascuna in base ad un preciso stile del
passato. Jappelli anticipò il fenomeni dell'Eclettismo e, all'avanguardia per il proprio tempo, dotò il
Pedrocchi, nel 1831, di illuminazione a gas.
I Caffè Pedrocchi e Pedrocchino sono una chiara manifestazione di come per la cultura eclettica ogni stile sia
sostanzialmente alternabile o accostabile con qualsiasi altro. La scelta formale, infatti, non deriva altro che
dalla volontà del progettista e dal gusto della committenza.
Eugène Viollet-le-Duc - OVO, Cattedrale di Notre Dame, Parigi
Differente era la situazione in Francia dove, almeno inizialmente, architetti e studiosi si interessarono
soprattutto delle questioni strutturali, dello studio delle tecniche e degli elementi costruttivi del passato.
Fino alla metà del XIX secolo, il Neogotico francese riscosse una fortuna ben minore in confronto al Gothic
Revival inglese. Fu soltanto con l’architetto e storico dell’architettura Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc e
con il dibattito sul restauro degli edifici medievali della nazione che il recupero delle forme architettoniche
medievali cominciò a sostituirsi all’egemonia del classicismo della Restaurazione. Al tempo molti edifici
versavano in uno stato di abbandono e recavano ancora i segni della devastazione operata dai rivoluzionari.
Restaurare un edificio non è conservarlo, ripararlo o rifarlo, è ripristinarlo in uno stato di completezza che può
non essere mai esistito in un dato tempo. (Viollet-Le-Duc)

La nuova architettura del ferro e del vetro in Europa


Una radicale riorganizzazione urbana era necessaria, poiché alle metà dell'Ottocento molte città erano
strutturate secondo l'antica piante medievale, cinte da mura e con un tessuto compatto di straordinaria e
case, in cui le persone vivevano in condizioni igieniche precarie, esposte a rischio di epidemie.
Le ragioni che spinsero a regolare la densità abitativa delle diverse aree urbane furono: lo sviluppo
urbanistico e commerciale conseguente alla rivoluzione industriale; il sovraffollamento dei centri storici; la
necessità di prevenire disordini sociali; l'esigenza di offrire alla classe borghese nuovi spazi di rappresentanza
adeguati alla sua fiorente posizione economica.
Fine ‘700 - primi ‘800: i progressi tecnici nel campo della siderurgia determinarono l’affermazione di un
innovativo sistema costruttivo, basato sull’utilizzo del ferro e delle sue leghe, la ghisa e l’acciaio (una lega
molto resistente ottenuta rifondendo la stessa ghisa in particolari condizioni). Il ferro solitamente veniva
impiegato per gli elementi accessori delle strutture murarie, come per es. tiranti, ma le innovazioni tecniche e
la possibilità di produrre a costi contenuti grandi quantità di ghisa permisero un utilizzo diffuso del
materiale, anche con funzione portante. Archi, travi, colonne e pilastri in ghisa, ferro e acciaio andarono a
sostituire nelle nuove costruzioni quelli tradizionalmente realizzati in pietra, legno o mattoni. Le continue
sperimentazioni in campo siderurgico nel corso dell’Ottocento modificarono ulteriormente il modo di
intendere e progettare le strutture metalliche, che progressivamente assunsero forme e geometrie autonome.
Gli impieghi più rivoluzionari si ebbero inizialmente negli edifici industriali, nelle strutture destinate a serre,
mercati o magazzini e nei ponti, ovvero in tutte quelle opere un cui la funzionalità e la praticità erano criteri
prevalenti rispetto a esigenze di tipo formale o meramente estetiche.

In Italia, soprattutto dopo l'unificazione nazionale del 1861, si avvertì la necessità di creare una capitale
moderna. Vennero ridisegnate le planimetrie di Torino, Firenze e Roma. Rispetto a Parigi e Vienna, ci
furono più difficoltà a causa della priorità di tutelare e conservare i numerosi monumenti storici, patrimonio
locale e nazionale. Fu sporadica la realizzazione degli edifici costruiti con nuovi materiali e avanzate
tecnologie, che proiettarono le metropoli europei nel mito della modernità e del progresso senza confini.

Fu Parigi ad aprire la strada del rinnovamento grazie all'intervento urbanistico del barone Georges-Eugène
Haussmann (1809-91) su incarico di Napoleone III, il quale voleva eliminare il fitto reticolo viario
medievale, che forniva ai rivoltosi un contesto adatto a erigere barricate.
Nel 1853, Haussmann fu nominato prefetto del Dipartimento della Senna, che manteneva l'ordine
cittadino. Il piano di Haussmann si fondava su un sistema di larghi e dritti viali alberati, i boulevards,
disposti ad anelli concentrici. I boulevards, spesso rappresentati dai pittori impressionisti, erano intersecati
dalle avenues; snodi fondamentali divennero le grandi piazze che facevano da raccordo tra i boulevards.
Le trasformazioni avviate nella seconda metà dell'Ottocento furono rese possibili dai progressi tecnici della
siderurgia e dall'uso di materiali come il ferro, la ghisa e il vetro, relativamente economici e adatti ad una
rapida messa in opera. Furono impiegati in edifici industriali, grandi magazzini, gallerie coperte, stazioni e
ponti. Gli elementi utilizzati potevano essere prefabbricati industrialmente e assemblati in cantiere. Nacque
una nuova idea di bellezza fondata sulle qualità estetiche dei nuovi materiali. Il gusto per gli stili storici
radicato nei secoli, tuttavia, portava a camuffare le strutture portanti con parametri murari classici e
ridondanti decorazioni.
Joseph Paxton, Palazzo di Cristallo. Londra, Esposizione Universale del 1851
L’utilizzo dei materiali metallici a vista fu promosso soprattutto dagli ingegneri con i primi notevoli risultati
in Inghilterra e, come si è detto, le strutture in cui più liberamente fu sperimentato l’impiego dei metalli
associati al vetro erano tra le più rappresentative del progresso industriale. Simbolo della costruzione
industriale ottocentesca è il Crystal Palace, innalzato a Londra su progetto dell’inglese Joseph Paxton,
esperto appunto nella produzione di serre. Ideato per la Great Exhibition di Londra del 1851 - 1^ edizione
della celebre Esposizione universale -, fu elaborato con elementi in serie per essere velocemente montato e
smontato. Nel 1854 venne rimosso dalla sede originaria e rimontato in un’altra area urbana. Utilizzato come
sede espositiva di vario genere, il Palazzo di Cristallo fu infine distrutto da un incendio nel 1936. La
struttura in ferro era basata sul principio della modularità, derivato dalla produzione industriale di elementi
costruttivi con il procedimento di lavorazione in serie: il modulo base era un quadrato di sette metri di lato
formato da supporti verticali e orizzontali. Tra i supporti in metallo grandi superfici quadrate di vetro
assicuravano la massima illuminazione possibile all’interno dell’edificio, proprio come in una grande serra.
Le nuove tecnologie applicate a un materiale antico come il vetro consentivano, infatti, la realizzazione di
lastre grandi dimensioni.
Paxton elegge a modello la struttura delle serre da giardino, nella cui progettazione aveva fatto ampia
esperienza. Il principio che regola la costruzione dell'edificio è quella della modularità, fondato sulla
composizione di elementi base, i moduli, con una base quadrata di 7 metri per lato. L'edificio fu costruito
interamente in ghisa, ferro e vetro, con elementi prefabbricati che potevano essere smontati e quindi
riutilizzati.
Il Crystal Palace presentava una struttura a cinque navate di altezza decrescente a partire dal centro, come in
una cattedrale; la volta a botte che incrociata trasversalmente le navate fu eretta per evitare di abbattere
alcune piante secolari, le quali creavano un contrasto accostate alle macchine moderne. Dopo l'evento del
1851, il Crystal Palace fu smontato e trasferito a Sydenham, dove venne distrutto da un incendio nel 1937.
La luminosità darà falla copertura in vetri, la trasparenza della struttura e la sua estrema semplicità di
montaggio ne fecero un prototipo indiscusso per numerosi edifici. Moduli metallici e lastre di vetro furono
impiegati da allora nei padiglioni espositivi, nei capannoni industriali, nelle stazioni ferroviarie, negli ingressi
della metropolitana, nelle residenze private e, negli Stati Uniti, nei primi grattacieli.
Gustave-Alexandre Eiffel, Torre Eiffel, 1887-1889. Ferro e ghisa. Parigi (Gustave Eiffel - OVO)
Con il progredire delle tecniche di produzione del ferro furono introdotti e perfezionati nuovi sistemi
statici, basati sull’adozione di semiarchi fissati con cerniere al suolo e al vertice. Applicando tale sistema
all’acciaio, l’ingegnere francese Gustave Eiffel (1832-1923) progettò una serie di viadotti ferroviari e, per
l’Esposizione universale di Parigi del 1889, l’alta Torre che da lui prese il nome. La struttura fu ideata come
ingresso monumentale temporaneo all’area espositiva, ma non venne mai più smontata. La forma scelta,
simile a quella dei piloni dei ponti, non risponde a ragionamenti di natura estetica, ma deriva dall’esigenza di
creare una struttura in grado di resistere alle forti sollecitazioni verticali e orizzontali esercitate dai venti e dal
suo stesso peso.
Sfruttando le qualità elastiche del ferro, in particolare la resistenza al vento, e assemblando e saldando in loco
i circa 18mila pezzi che compongono la torre, l'ingegnere Eiffel poté costruire un edificio che, con i suoi 324
metri, era allora il più alto al mondo. Creato come grandiosa architettura temporanea per l'esposizione
universale del 1889, non fu mai rimosso, ma anzi divenne presto il simbolo di Parigi.
G. Mengoni, Galleria Vittorio Emanuele II. Milano, Affaccio su Piazza Duomo
Un «motivo» architettonico che si affermò nella seconda metà del XIX secolo nelle principali città europee
era rappresentato dalla galleria commerciale, o passaggio coperto. Tra le città italiane, Milano, Torino,
Genova e Napoli, nella loro aspirazione a dotarsi di un’immagine moderna, intervennero nel tessuto urbano
per rinnovare alcune parti delle città, come i centri storici. È il caso di Milano, dove si risistemò la Piazza del
Duomo e, su progetto di Giuseppe Mengoni (1829-1877), ma a opera di una società inglese, si costruì la
monumentale Galleria Vittorio Emanuele II. La galleria si sviluppa in quattro bracci, all’incrocio dei quali si
innalza un’imponente cupola. La sovrastante struttura degli ampi corridoi e della cupola è in ferro e vetro. I
bracci terminano in archi di accesso in stile neorinascimentale, il principale dei quali affaccia su Piazza
Duomo, l’altro, in direzione opposta prospetta su Piazza della Scala. La ricca ornamentazione delle facciate
degli eleganti caffè, ristoranti e negozi che si aprono nei quattro corridoi sono anch’essi in stile neo
rinascimentale.
Ispirandosi alle capitali europee, dopo l'unità anche in Italia si progettarono gallerie coperte in ferro e ghisa,
destinate al passaggio e all'esposizione e vendita di merci e beni di lusso. Uno dei primi vasi fu la Galleria di
Vittorio Emanuele II a Milano, prototipo per altre costruzioni simili a Torino, Genova e Napoli. La
realizzazione della Galleria era parte di un più ampio piano di ristrutturazione dell'area del Duomo che
intendeva mostrare la modernità di una città rivolta all'Europa. Il progetto, ideato da Giuseppe Mengoni, fu
approvato nel 1863 e due anni dopo iniziarono i lavori, che si conclusero nel 1877. Dotata di un sistema di
illuminazione elettrica, la galleria, che raccorda la Piazza del Duomo all'antistante Piazza della Scala, è
formata da due bracci coperti da volte in ghisa e vetro che, incontrandosi, formano uno scenografico spazio
ottagonale. L'ingresso ad arco trionfale e le decorazioni in stucco e a mosaico denunciano la volontà di
nobilitare i nuovi materiali attraverso un decorativismo ridondante.
Galleria Mazzini, 1873-1875. Genova
La Galleria Giuseppe Mazzini è una galleria commerciale coperta situata nel centro di Genova. Fu costruita
sull'esempio dei famosi passages di Parigi e della milanese Galleria Vittorio Emanuele II, cui si ispirò. È uno
degli esempi della cosiddetta architettura del ferro. I lavori per la Galleria Mazzini iniziarono il 26 luglio
1874 e terminarono nel 1876 con la posa degli arredi in bronzo fatti fondere a Berlino: si notino in alto sotto
la cupola vetrata i quattro Giano angolari (Giano Bifronte è la divinità antico romana simbolo di Genova), e
sotto a questi i quattro lampadari con lo stemma di Genova. All'inizio degli anni novanta dello scorso secolo
ne fu rifatta la pavimentazione. La Galleria Mazzini divenne luogo di ritrovo di intellettuali e personalità
illustri dell'Ottocento, grazie ai locali posti al suo interno.
Alessandro Antonelli, Mole Antonelliana, 1863-1889. Torino (Mole Antonelliana | Museo
Nazionale del Cinema)
La Mole Antonelliana è un edificio monumentale di Torino, situato nel centro storico, simbolo della città e
uno dei simboli d'Italia. Il nome deriva dal fatto che, in passato, fu la costruzione in muratura più alta del
mondo, mentre il suo aggettivo deriva dall'architetto che la concepì, Alessandro Antonelli. Con un'altezza di
167,5 metri, fu l'edificio in muratura più alto del mondo dal 1889 al 1908. Dall'anno 2000 al suo interno ha
sede il Museo nazionale del cinema.
La forma del monumento è frutto di una tecnica architettonica eclettica ottocentesca. La parte inferiore,
rimasta esclusivamente in muratura, inizia con una base quadrata di dimensioni maggiori rispetto ai moduli
sovrapposti. L'ingresso viene evidenziato da un pronao esastilo con colonne in granito in stile architettonico
neoclassico, mentre i prospetti del basamento è scandita da pilastri alternati a semicolonne, con ampie
superfici vetrate nel registro superiore. La copertura del pronao è caratterizzata dalle falde curve ripetute su
tutti i quattro lati, che formano una sorta di cupola quadrangolare la cui cima si raccorda al modulo
centrale, suddiviso in due registri; in quello sottostante vi è il loggiato, che presenta venti colonne per
ciascun lato, mentre quello superiore è caratterizzato da vetrate semicircolari. Al di sopra si eleva la grande
cupola, a base quadrata, caratterizzata dalla volta allungata, con pareti convesse in muratura. La cupola è
sovrastata da un'altra struttura, il "Tempietto", che ripropone il tema sottostante del colonnato. Questo
Tempietto è raggiungibile mediante un elevatore situato nel centro dell'atrio sottostante. Sempre di forma
quadrata, il Tempietto è sorretto da due ordini esastili per lato ed è disposto su due piani. Sopra il
Tempietto, si staglia la lunga guglia, costituita dal suo basamento, detto "Lanterna", a base circolare. Sopra la
Lanterna svetta la cuspide della guglia, a base ottagonale e ispirata all'architettura neogotica. La Mole fu
giudicata un tentativo di mediare tra forme neoclassiche e neogotiche, miste alle innovazioni tecnologiche
del tempo. Antonelli sperimentò l'impiego del ferro senza però tralasciare il linguaggio architettonico
tradizionale.
Cupola di San Gaudenzio, Novara
La Cupola di Novara, progettata dal celebre e geniale architetto Alessandro Antonelli e costruita per la
Basilica di San Gaudenzio, patrono della città, è forse il simbolo per eccellenza di Novara. Mentre la Basilica
venne completata nel 1590, la Cupola di San Gaudenzio di Novara sorse solo molti anni dopo.La struttura
che sostiene la Cupola di Novara è costituita da quattro coppie di archi in muratura disposti a quadrato, che
si innestano sui pilastroni ad angolo del presbiterio, risalente alla seconda metà del Cinquecento. L’esterno
della struttura è scandito da una "geometria dei vuoti e dei pieni" e da due colonnati che contribuiscono a
dare la sensazione di ancora maggior slancio; si riesce inoltre ad intuire la successione di cerchi che la
compone e che gradualmente sale verso il cielo. I due ordini sono separati da un altro livello e poi seguiti
dalla cupola vera e propria.

L’impressionismo
Contesto storico-culturale
2^ metà del XIX secolo: l’industrializzazione aveva modificato l’immagine
dell’Europa. Effetti derivanti dal progresso tecnologico e industriale
interessarono sia il campo economico, sia quello sociale (cambiamenti nei
rapporti di classe, nella cultura, nella politica, nelle condizioni
generali di vita…). «Seconda rivoluzione industriale» → sostituzione del
vapore come forza motrice con l’energia elettrica, invenzione del motore
a scoppio e perfezionamento della produzione dell’acciaio. Sotto
l’impulso dell’industrializzazione le città si ingrandirono → nuovi piani
urbanistici che cambiarono l’aspetto delle grandi città (Parigi, Vienna,
Barcellona, Londra) e nascita di quartieri residenziali per la nuova
borghesia imprenditoriale.
Francia nella 2^ metà dell’Ottocento → lo sviluppo economico e sociale
fece di Parigi una metropoli in forte espansione, nonché il centro
culturale più importante d’Europa; profondi rivolgimenti politici e
sociali: fallimento della rivoluzione del 1848, restaurazione di Luigi
Bonaparte, nipote di Napoleone, dopo una brevissima parentesi
repubblicana. Sotto Napoleone III → regime autoritario (Secondo impero,
1852-70), ma nel contempo sviluppo dell’industria e dell’economia del
paese, (mediante, per es., un notevole incremento delle infrastrutture e
importanti trasformazioni urbane).
Seconda metà del secolo → contrassegnata anche da notevoli innovazioni
culturali, come la diffusione del pensiero positivista e socialista e
l’affermazione del Naturalismo in letteratura. Positivismo → movimento
filosofico e culturale, nato in Francia nella prima metà dell’Ottocento,
sull’onda del grande entusiasmo derivato dalla rivoluzione industriale e
dal progresso scientifico-tecnologico che pareva inarrestabile. Si
diffonde nella 2^ metà del secolo a livello europeo, ispirando la nascita
di movimenti letterari come il Naturalismo in Francia e il Verismo in
Italia. Scelta del termine Positivismo → rivela l’intenzione di opporsi a
tutte le tendenze astratte, metafisiche, spiritualistiche proprie del
Romanticismo, prendendo in esame solo ciò che è concreto, reale, per
analizzarlo alla luce delle conoscenze razionali e scientifiche. Il
pensiero positivista non influenzò solo la letteratura, ma tutti i campi
della cultura: dalle scienze umane al pensiero sociale e filosofico,
dallo studio della storia all’espressione artistica. Oggetto di studio fu
l’uomo: in questo periodo nacque una nuova scienza, quella dei fenomeni
sociali, o sociologia, mentre numerose scoperte in campo biologico,
chimico, fisico svilupparono una fede incontrastata nel progresso.
Il termine
http://www.ovovideo.com/impressionismo/
Pierre Auguste Renoir - OVO
Il termine Impressionismo → con intento dispregiativo nel 1874 sul
giornale satirico Le Charivari, in un articolo di Louis Leroy. Il critico
coniò il termine traendolo da un’opera di C. Monet, Impression, soleil
levant, esposto alla mostra inaugurata il 15 aprile nello studio del
fotografo Nadar, a Parigi. Il movimento, nato in modo spontaneo
dall’incontro di artisti quali Monet, Renoir, Sisley, Pissarro e, unica
donna, Berthe Morisot, si sciolse nel 1886, dopo otto mostre (ma ormai la
via all’arte moderna era stata aperta già da quella prima mostra al
numero 35 del Boulevard des Capucines), quando giunsero i primi
riconoscimenti ufficiali. Un posto separato occuparono E. Degas e P.
Cezanne.
La pittura en plein air
Gli impressionisti non concepirono un manifesto, non teorizzarono un preciso programma o una specifica
dottrina: ciò che univa personalità anche molto diverse tra loro fu la ferma volontà di contrastare qualunque
insegnamento o dettato accademico, portando avanti in modo anticonvenzionale una ricerca libera e
indipendente su una nuova visione del mondo fenomenico. La tecnica pittorica adottata dagli artisti
rappresentò una delle più importanti novità introdotte in campo artistico. Essi rifiutavano il modo
accademico di fare pittura, che prescriveva di copiare quadri, gessi e sculture del passato o di eseguire copie
dal vero all’interno degli studi e nel chiuso dei musei. Gli impressionisti dipingevano i loro quadri all’aperto,
en plein air, preferendo all’atelier i boschetti alla periferia di Parigi, le sponde della Senna, gli eleganti
boulevard animati di gente. Ma già i pittori di Barbizon avevano introdotto la pratica di dipingere all’aperto.
Del resto altre suggestioni agirono sulla pittura impressionista: dalla pittura olandese e fiamminga del
Seicento a quella realista di G. Courbet, dall’arte inglese del primo Ottocento alla cultura del Positivismo,
dalla tecnica fotografica alle stampe giapponesi.
Alla base delle novità introdotte dai pittori impressionisti vi fu l’analisi della luce e dei fenomeni luminosi, la
teoria dei colori (già indagata da E. Delacroix) e della percezione visiva. La luce determina la percezione dei
vari colori: ogni colore appare più o meno chiaro e luminoso in relazione alla quantità di luce che lo colpisce
e alla presenza o meno di altri colori vicini che ne esaltano o ne attenuano la vivacità.
La tecnica consisteva in un’esecuzione rapida e immediata ottenuta con pennellate libere e nervose, date per
tocchi brevi e veloci, per picchiettature, per trattini, per piccole macchie di colori puri.
I colori dell'Impressionismo, Pissarro, Degas, Monet, Manet, Sisley, Cézanne, renoir, Bazille, Morisot,
Cassatt, Caillebotte, van Gogh, Gaugin, Munch.
I colori puri venivano accostati direttamente sulla tela: attraverso la cosiddetta ricomposizione retinica
l’occhio dell’osservatore, posto a debita distanza, avrebbe percepito i colori ricomposti.
La linea di contorno, cioè la linea deputata dalla tradizione accademica a determinare la forma viene bandita
dalla pittura impressionista: l’opera è «essenzialmente una superficie piatta, coperta di colori disposti in un
certo modo», come disse Cézanne. Anche nella scelta dei soggetti gli impressionisti si allontanarono dalla
tradizione: non più quadri celebrativi ufficiali o temi storici o sacri, ma soggetti tratti dalla realtà quotidiana,
dalle strade affollate e illuminate, dai luoghi di aggregazione e di divertimento, dalle sale da ballo e dai caffè:
momenti comunitari liberi e spontanei, come colazioni, merende, passeggiate, gite in barca, vacanze.
Non per questo si deve pensare a una pittura d’evasione, ma al contrario a una pittura che intendeva
immergersi interamente nella realtà urbana contemporanea per evidenziarne tutti gli aspetti, con
un’attenzione particolare al paesaggio.

Edouard Manet (1832-1883)


Manet fu l’iniziatore della terza ondata rivoluzionaria in Francia (dopo la prima di Delacroix e la seconda di
Courbet). Il pittore e i suoi amici impressionisti scoprirono che la presunzione dell’arte tradizionale di aver
trovato il modo di rappresentare la natura, così come la vediamo, era tutta basata su un equivoco: i pittori
accademici facevano posare i modelli nei loro studi illuminati dalla luce che entrava dalla finestra o da
qualche altra fonte di luce artificiale e per suggerire l’idea del volume e della plasticità usavano il chiaroscuro,
il graduale trapasso dalla luce all’ombra. In genere, dapprincipio, gli studenti delle accademie disegnavano
ispirandosi a calchi di statue antiche o ricopiandole, modellando attentamente la loro copia attraverso
intensità diverse di ombreggiatura. Il pubblico si era abituato a vedere le figure e gli oggetti rappresentati a
questo modo e aveva dimenticato così come all’aria aperta non sia possibile cogliere le gradazioni di colore
tra l’ombra e la luce. Alla luce del sole i contrasti sono netti. Le parti illuminate degli oggetti sono molto più
brillanti di come appaiano all’interno di un atelier, anche le ombre non sono così omogeneamente grigie o
nere, poiché la luce, riflettendosi dagli oggetti circostanti, influisce sul colore delle parti in ombra. Renoir a
tal proposito parlava di ombre colorate. (cfr. La storia dell’arte raccontata da E. H. Gombrich, Einaudi,
1966).
La formazione di Manet avvenne presso Thomas Couture, pittore di impostazione accademica. Mosso dalla
convinzione che il rinnovamento dell’arte dovesse attuarsi all’interno della tradizione, Manet decise di
approfondire lo studio diretto delle opere dei grandi maestri antichi e contemporanei. Il suo interesse era
rivolto ai pittori che avevano fatto del colore il fondamento del proprio linguaggio: Giorgione e Tiziano, i
maestri del Seicento olandese, Velazquez e Goya, Delacroix, artisti che conobbe frequentando il Louvre e
durante i suoi viaggi in Italia, nei Paesi Bassi e in Spagna.

Le déjeuner sur l'herbe (Colazione sull’erba), 1863. olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay
La colazione sull’erba, in un primo tempo intitolata Il bagno, fu anch’essa fortemente criticata. Le fonti
iconografiche dell’opera le déjeuner sur l’herbe sono: Tiziano (al tempo Giorgione), Concerto campestre, ca
1510. Olio su tela. Parigi, Museo del Louvre Marcantonio Raimondi, Dei fluviali dal Giudizio di Paride di
Raffaello, ca 1510-1520. Incisione. New York, The Metropolitan Museum of Art. Nel 1863, la tela, già
respinta dalla giuria del Salon ufficiale, fu esposta al Salon des Refusés, ma venne definita sconveniente da
Napoleone III e fu pertanto oggetto di molte critiche. Non era il nudo a scandalizzare, ma la sua
ambientazione in un contesto contemporaneo. Manet raffigura uomini e donne del proprio tempo; i due
giovani protagonisti del quadro sono vestiti alla moda francese: l’uno, semidisteso, ha il bastone in mano e in
testa un berretto nero con una nappa, l’altro, seduto, indossa una cravatta nera. I due conversano in
compagnia di una ragazza nuda, che non dimostra interesse verso i loro discorsi, ma fissa lo sguardo sullo
spettatore, creando complicità e ambiguità. La giovane non rappresenta né una dea né una figura
mitologica, così come nessuna allusione simbolica si nasconde nella donna in sottoveste che si bagna nello
stagno, in secondo piano. A rendere inaccettabile l’opera furono proprio l’assenza di idealizzazione e il
capovolgimento di qualunque convenzione rispetto al soggetto, ai generi, al tradizionale modello di
rappresentazione.
Manet imposta le proprie opere su una salda struttura compositiva. Al centro del dipinto si configura una
sorta di triangolo isoscele, formato da quattro figure, il cui vertice è occupato dalla donna che si bagna
nell’acqua. Esso si sviluppa su piani di profondità diversi, collegando visivamente il primo piano con la
figura più lontana. La profondità non è però resa attraverso il disegno prospettico, ma suggerita dalla libera
disposizione di acqua, erbe e fronde che si susseguono a distanze diverse dal primo piano all’ultimo: questa
disinvoltura compositiva fu uno dei motivi che vennero più rimproverati all’artista.
Il quadro, che non fu realizzato all’aperto ma in studio, mostra una tecnica originale impostata su decisi
contrasti cromatici, che la critica ritenne volgari perché troppo forti. Nella natura morta in primo piano, le
pennellate larghe e veloci, piatte, accostano colori caldi a toni freddi, facendoli risaltare reciprocamente.
L’artista rinunciò anche al tradizionale chiaroscuro ottenuto mediante leggere sovrapposizioni di colore e
modellò le forme senza l’aiuto della linea, abbozzando i contorni con decisi colpi di pennello, soprattutto
nelle figure e negli oggetti in primo piano. Sul fondo del dipinto, la pennellata si fa meno definita e la trama
pittorica più mobile. I tocchi di colore fanno vibrare la luce, soprattutto nei riflessi dell’acqua e nelle pieghe
della veste bianca della bagnante, la cui resa sintetica anticipa la tecnica impressionista.
Olympia, 1863. Olio su tela. Parigi Musée D’Orsay
Nel 1865, l’Olympia venne accettata al Salon. L’opera era una reinterpretazione moderna della Venere di
Urbino di Tiziano, della Maya Desnuda di Goya e dell’Odalisca con schiava di Ingres. Vi è una scelta di
tradizioni auliche audacemente innestate sulle disinvolte iconografie contemporanee. L’artista, infatti, aveva
evitato qualsiasi idealizzazione: la donna raffigurata, la modella Victorine Meurent, punta uno sguardo
impudico verso lo spettatore. Si tratta di una prostituta. Questo si capisce sia dal titolo (Olympia era il nome
d’arte di molte prostitute) sia dalla presenza accanto a lei di una serva nera che le porge un mazzo di fiori,
dono di un cliente. Feroci furono le critiche per il realismo del nudo, dalle forme comuni ed imperfette (le
gambe un po’ corte e il viso squadrato) e per la bidimensionalità della pittura, mutuata dall’arte giapponese.
Anche dal punto di vista tecnico e cromatico Olympia era un oltraggio alla prassi accademica per l’assenza di
volume, di prospettiva e di chiaroscuro, sostituito dalle campiture piatte di colori resi squillanti dalla
giustapposizione di tonalità fredde e calde. L’opera, dipinta ad ampie zone monocrome, chiare in primo
piano e scure sullo sfondo, è ravvivata dai tocchi policromi dei dettagli: lo scialle a motivi orientali, il fiore
rosato fra i suoi capelli, il mazzo di fiori, i cui colori sono esaltati dal bianco del foglio di carta.
In barca, 1874. Olio su tela. New York, The Metropolitan Museum of Art
Argenteuil era un sobborgo di campagna sulle rive della Senna frequentato sia da Monet che da Renoir.
Anche Manet si recò spesso in questo villaggio dal 1874, approfondendo la sua relazione con
l'Impressionismo: fu in quell'anno che realizzò In barca ad Argenteuil. Il soggetto è una coppia di borghesi
di Parigi che si sono lasciati conquistare dagli ozi campagnoli della bella stagione. Al timone c'è l’uomo,
impersonato dal fratello della moglie Suzanne, che veste un cappello adornato da un nastro blu ed una
camicia alla marinara; la compagna per l'occasione è abbigliata con un panneggio leggero dalle tinte fredde. I
due sono ritratti con naturalezza, senza filtri e senza pose, così come l'imbarcazione, che fuoriesce dai bordi
del quadro, secondo un'impostazione compositiva che denuncia l'influenza della nascente fotografia e delle
stampe giapponesi (interessante il confronto con le Piroghe presso il ponte di Ryogoku di Utagawa
Kunisada). Il punto d'osservazione cade particolarmente in alto, tanto che il fiume si disperde verso
l'orizzonte. Nella veste azzurra della donna il tocco sintetico di Manet rinuncia ai forti contrasti
chiaroscurali e assume una vibrazione senza precedenti. La schiena dell'uomo è quasi abbagliante per la sua
luminosità. I due personaggi sono immersi nella natura e assecondano i dettami della pittura en plein air.
Nonostante queste aperture alla tecnica impressionista, Manet non rinuncia a una propria autonomia
stilistica, ravvisabile nelle campiture estese e compatte di colore. Ad apprezzare il dipinto all'epoca vi fu solo
Joris-Karl Huysmans,un letterato che difese il diritto del pittore di dipingere quel che vedeva.
Ritratto di Émile Zola, 1868. Olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay.
Zola, grande ammiratore di Manet, ne prese le difese in un famoso pamphlet del 1867, in cui mise in luce le
novità introdotte dalla pittura dell’amico. Manet, a sua volta, ritrasse lo scrittore nel 1868. Zola è raffigurato
di tre quarti, seduto davanti a uno scrittoio sul quale appare, tra i vari libri, il pamphlet. Il suo viso, di grande
immediatezza e forza psicologica, sembra intagliato dalla luce nel fondo nero, lo sguardo è pensieroso e
assorto. Lo scrittore regge con una mano un libro aperto. Sebbene vi sia una raffinata semplificazione della
stesura, l’esecuzione di Manet fu lenta e Zola fu costretto a lunghe sedute di posa. La compresenza di opere
d’arte di diversa epoca e provenienza (da Velazquez alle stampe giapponesi) indica la fusione di modelli del
passato e dell’esotico propria dell’arte moderna.
Nanà, 1877. Olio su tela. Amburgo, Hamburger Kunsthalle
Émile Zola, nel romanzo L'ammazzatoio, narra di Gervasia, una donna che, delusa dalla meschinità dei suoi
due compagni e gravata da un fardello di fatiche quotidiane, per dimenticare la sua misera condizione si
abbandona ai fumi dell'alcol, diventando un'assidua frequentatrice di una taverna denominata Assommoir
[L'ammazzatoio]. Prima di morire di stenti, tuttavia, Gervasia dà alla luce Nanà, la quale per sottrarsi
all'indigenza decide di intraprendere la carriera di prostituta d'élite. Il pittore francese Édouard Manet decise
di dedicarle una tela, portata a termine nel 1877. Manet ci restituisce un personaggio giocoso, leggero,
persino divertito. Nanà, interrotta mentre prima si truccava allo specchio con grande compiacimento, è
colta mentre si volge verso l'osservatore, sorridendo. La donna veste una luminosa sottoveste di tulle bianco,
un corsetto celeste, delle eleganti calze e un paio di tacchi alti neri: Manet descrive soprattutto i suoi
lineamenti gentili e i riccioli d'oro. A sinistra si scorge uno spasimante vestito con completo e cilindro,
tagliato dal margine della tela: si tratta del conte Muffat, uomo che, non sapendo resistere alla languida
bellezza di Nanà, la manteneva con la speranza che diventasse la sua amante fissa. L'uomo siede su un divano
di velluto rosso reso con pennellate rapide, mentre volge assorto il suo sguardo verso sinistra, dove troviamo
una sedia ricolma degli indumenti di Nanà e un mobiletto ornato da un vaso fiorito. Fatta eccezione per la
presenza gravosa del conte Muffat, l'intero dipinto trasmette un'atmosfera allegra e spensierata, accentuata
dalla svagata distrazione di Nanà e dalla tavolozza giocata interamente sui toni bianchi e azzurri. Questo
tono lezioso e domestico è molto distante dagli intenti di critica sociale di Zola che, infatti, nei suoi ultimi
anni guardò Manet con ben poca simpatia. L'opera, esposta presso il mercante di quadri Giroux, conobbe
un'accoglienza molto fredda. A fomentare le critiche vi era anche la riconoscibilità della modella che aveva
posato: si trattava di Henriette Hauser, donna molto conosciuta per essere l'amante del principe d'Orange.
Il bar delle Folies-Bergères, 1881-82. Olio su tela. Londra, Courtauld Institute
Fra i numerosi caffè della Ville lumière che i parigini frequentavano, quello delle Folies-Bergère era un locale
più esclusivo, perché il proprietario lo aveva rinnovato dotandolo di luci elettriche, poltrone e palchi isolati
da cui gli spettatori potevano godersi lo spettacolo. Già gravemente malato, Manet trascorse molte ore in
questo celebre caffè, restituendone intatta l’atmosfera attraverso questo dipinto, che riassume tutti gli
elementi della sua poetica. Ponendosi di fronte all’opera, lo spettatore fronteggia, in una scandita
successione di piani, la natura morta del tavolo, stipato di bottiglie e contenente una fruttiera di cristallo e
un bicchiere con fiori; la figura eretta della cameriera bionda, con abito nero ornato di pizzi bianchi; lo
specchio sullo sfondo. che con un gioco illusionistico permette allo spettatore di vedere riflesso ciò che
guarda la donna. Lo specchio, metafora della vana apparenza, permette, dilatando lo spazio, di offrire una
visione caleidoscopica del luogo affollato e chiassoso. Nonostante la centralità della figura femminile, è
impossibile accordare a essa, o a un solo elemento della composizione, il ruolo di protagonista. Il caffè
rappresenta uno spaccato di vita quotidiana e moderna: lo sguardo fisso della barista; il volto dell’avventore
maschile che le sta di fronte, lo scintillio del lampadario; le gambe del trapezista che compie gli esercizi sulla
sbarra; la folla indistinta. La tecnica pittorica concorre a restituire il respiro del luogo: i rapidi tocchi di
colore frantumano l’immagine e la rendono mobile, condensando sulla terra la vivace impressione dello
scintillio delle luci che attraversano l’aria fumosa del locale.
Claude Monet - OVO (1840-1926)
Fra i seguaci di Manet e fautori dello sviluppo delle idee dell’Impressionismo vi era un giovane povero e
risoluto che trascorse la propria giovinezza a Le Havre, Claude Monet. Si trasferì a Parigi per frequentare
una scuola d’arte, ma nella capitale e, poi, ad Argenteuil abbandonò del tutto l’atelier: aveva fatto adattare a
studio una barca per poter osservare le variazioni e gli effetti della luce sul paesaggio fluviale. La nuova
maniera propugnata da Monet (ogni pittura della natura doveva essere terminata sul posto) doveva
necessariamente portare a nuove tecniche. La natura, il paesaggio, l’acqua del resto mutano a ogni istante. Il
pittore che intende cogliere un momento particolare o un aspetto caratteristico non ha la possibilità di
mescolare e armonizzare i colori, e tanto meno di stenderli a strati su un fondo neutro come i pittori nel
passato e ancora facevano i pittori accademici: deve fissarli sulla tela a rapidi colpi, non curandosi dei
particolari quanto dell’effetto d’insieme. Fu questa mancanza di rifinitura, questa tecnica sommaria che fece
inorridire la critica. Ma non era soltanto la tecnica pittorica a scandalizzare i critici e i benpensanti parigini,
ma anche il genere dei soggetti. Già Constable e Turner in Inghilterra avevano scoperto nuovi motivi, nuovi
soggetti. Furono probabilmente proprio le opere di Turner a rafforzare in Monet la convinzione che gli
effetti di luce e di atmosfera contavano in pittura più del soggetto. I pittori impressionisti applicarono i loro
principi non solo al paesaggio ma a ogni scena della vita quotidiana. (Da La storia dell’arte racconta da Ernst
Gombrich, Einaudi)
Donne in giardino, 1866-1867. Olio su tela, 255x205. Parigi, Musée d’Orsay
Monet fu il più determinato e rigoroso esponente della pittura impressionista e si rivolse allo studio del
colore e della luce per tutta la sua vita d’artista. Nella tela Donne in giardino, Monet riprende lo studio delle
figure all’aperto già tentato nel suo Déjeuner sur l’erbe a Fontainebleau, con l’ambizione di confrontarsi con
l’Atelier di Courbet e con Le déjeuner di Manet. I giochi di luci e ombre, la felice miscela di movimento e
luminosità, la vegetazione e gli abiti delle donne (per tre delle quali posò la moglie Camille, colta in pose
differenti) rendono sulla tela l’impressione dell’aria e della luce di una soleggiata giornata.
Presentato al Salon del 1867, il quadro venne rifiutato dalla giuria per l’assenza di un soggetto preciso e per la
sua presunta imperfezione tecnica. Agli inizi degli anni Settanta, Monet, insieme ai pittori Renoir, Sisley,
Pissarro, Degas e alla pittrice Berthe Morisot, fondò la Société anonyme des artistes peintres, sculpteurs,
graveurs al fine di organizzare esposizioni di opere d’arte libere, senza premi e giurie, e in polemica con le
modalità di selezione dei Salons (dai quali spesso erano esclusi), le grandi esposizioni d’arte che annualmente
si tenevano a Parigi sia per presentare i giovani artisti, sia per permettere a quelli già affermati di esporre le
proprie opere. La prima mostra del gruppo, inaugurata il 15 aprile 1874 nello studio del fotografo Nadar
ebbe un esito disastroso: gli incassi delle poche opere vendute servirono per coprire le spese e le critiche
furono perlopiù negative. Gli artisti furono bollati con senso dispregiativo «impressionisti» dal critico
Louis Leroy che prese spunto dal titolo di un quadro in esposizione di Monet Impression, soleil levant.
L’evento fu un fallimento ma decretò la nascita dell’Impressionismo.
Impressione, levar del sole - OVO
Il titolo scelto dall’artista è emblematico di come, per Monet, il soggetto raffigurato (il porto di Le Havre) sia
secondario rispetto alla sua resa pittorica: l’artista si propone infatti di restituire sulla tela ciò che vede, la
percezione ottica di un fenomeno naturale in un determinato momento della giornata, in questo caso il
sorgere del sole sul porto di Le Havre, lungo la costa della Manica. La tela è un’efficace dimostrazione di
pittura en plein air: l’artista traspone in pittura la sua impressione di fronte al paesaggio marino in un’unica
seduta all’aperto, senza ultimare e rifinire l’opera in atelier, come era uso, per esempio, per gli artisti della
scuola di Barbizon e comunque per gli artisti del tempo. Con piccoli tocchi di colore puro steso
direttamente sulla tela, il pittore rende l’atmosfera nebbiosa dell’alba, il leggero incresparsi delle onde, gli
effetti della luce che si riflette sull’acqua; le due imbarcazioni sono abbozzate con segni sintetici; su tutto
risalta l’acceso riflesso arancio che illumina l’acqua, la sfera infuocata del sole nello sfondo e, in alto, il cielo
screziato di arancio e giallo. Monet, con questa pittura imprecisa mirava a evocare l’indistinta visione (o
impressione, come egli stesso la definì) del risveglio, quando con fatica si distinguono le forme sfumate dalla
foschia e l’occhio è colpito dalle luci intense: quindi l’impressione fugace, la sensazione suscitata dalla scena
e che si imprime nella coscienza di chi osserva. L’attenzione dell’artista, e in questo consisteva la rivoluzione
impressionista, si è ormai spostata dall’«oggettiva» realtà esterna all’esperienza soggettiva che l’individuo fa
di quella realtà.
Le serie: la cattedrale di Rouen
Monet in più occasioni si era interessato a un medesimo soggetto per renderne le variazioni cromatiche e
luministiche durante diversi momenti della giornata, seguendo i mutevoli effetti della luce solare sul
paesaggio, sull’acqua, sulle architetture. Erano nate così inizialmente una serie di tele raffiguranti pioppi e
covoni di fieno, dipinti en plein air nei dintorni di Giverny, dove l’artista si era ormai stabilito. Ma nel 1892
l’artista abbandonò per qualche tempo la campagna per dedicarsi a un tema urbano: l’antica Cattedrale di
Rouen, nel nord della Francia, esempio tipico dello Stile Gotico fiammeggiante. La serie dedicata
all’imponente cattedrale venne iniziata in occasione di un soggiorno di Manet nel febbraio del 1892: egli
riprese la facciata dalla camera del suo albergo e poi dalla vetrina di un negozio di moda che si affacciava sulla
piazza della chiesa. Nel febbraio dell’anno successivo l’artista tornò a Rouen, cambiò nuovamente il punto
di vista per le sue sedute di pittura. Nell’aprile del 1893 lasciò Rouen per concludere le tele in studio.
La cattedrale di Rouen: il portale, armonia bruna, 1892. Olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay
La maestosa cattedrale, da una distanza così ravvicinata, incombe sull’osservatore, la tela la contiene
parzialmente, la facciata è «tagliata» ai lati.
Nel corso di intere giornate, Monet registra le variazioni atmosferiche e cromatiche che la luce, a distanza di
un breve lasso di tempo, genera sulla superficie irregolare della cattedrale. Il soggetto diventa sempre più
secondario, la sperimentazione sugli effetti mutevoli della luce sulla materia attraverso il colore puro
diventano ancora una volta il vero soggetto dell’intera serie. La realtà fenomenica muta in base alle
condizioni atmosferiche e ai diversi momenti della giornata, ma soprattutto in base alle sensazioni che questi
cambiamenti suscitano nel pittore che li traspone sulla tela. Nelle ultime tele l’effetto sulla materia dovuto
all’intensa luce zenitale si fa più incisivo, la luminosità «corrode» le pareti e inghiotte i contorni delle
decorazioni scultoree, delle guglie, degli archetti.
Lo stagno delle ninfee, 1899. Olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay.
Il tema della percezione visiva e della luce accompagnerà la sperimentazione artistica di Monet sino agli
ultimi anni della sua lunga vita. Dall’ultimo decennio del secolo sino al 1926 si dedicò al soggetto dell’acqua
e delle ninfee del giardino, che egli stesso progettò, della sua casa di Giverny. In particolare, nelle opere
realizzate dopo il 1917, su tele di grandi dimensioni, Monet pervenne a una pittura «pura»: ovvero, la
pittura si fa pura materia, è ricondotta alla sua essenza cromatica, vengono annullati i riferimenti spaziali o
paesaggistici, dando vita a creazioni molto vicine all’astrazione. Monet: The Water Lily Pond — Google
Arts & Culture
Se il titolo porta lo spettatore di fronte a un soggetto definito, le tele presentano un continuum di forme
luminose e colorate ce, abolendo anche la linea dell’orizzonte, spazia dalla terra all’acqua al cielo. I colori si
mischiano con una libertà che irretisce l’occhio in un gioco sottile e raffinato di riflessi: questa libertà andò
sempre più accentuandosi con il passare del tempo, fino a rendere quasi irriconoscibile il soggetto. Monet
non arrivò mai a liberarsi del soggetto, a superare cioè la necessità di rappresentare qualcosa di oggettivo.
La Grenouillère, 1869. New York. The Metropolitan Museum of Art. Confronto con La
Grenouillère di Pierre-Auguste Renoir (1869. Olio su tela, Stoccolma Museo Nazionale).
Con i cavalletti posti l’uno di fianco all’altro, Renoir e Monet dipinsero due versioni di La Grenouillère. Il
dipinto si ambienta nel pittoresco villaggio di Bougival, a una ventina di chilometri da Parigi, e rappresenta
l'isolotto di Croissy che divide il corso della Senna in due rami, collegato tramite un ponte ad un
caratteristico ristorante all'aperto. Il locale, che si trova sulla sinistra, è allestito su di una zattera ormeggiata
alla riva ed è provvisto di alcuni stabilimenti balneari. È chiamato con il nome di Grenouillère, che in
francese significa «stagno delle rane».
Renoir pone al centro del quadro l’isolotto, spostato leggermente a sinistra; a controbilanciarlo, sulla destra,
c’è una grande barca ancorata che funge da punto vendita delle bevande. Molte figure popolano la scena:
donne e uomini, sull’isolotto, sotto l’ampia fronda dell’albero; una donna con l’ombrello e un ragazzino in
piedi sul pontile; altre figure a sinistra che nuotano. I veri protagonisti del dipinto sono il movimento
dell’acqua e gli incessanti riflessi della luce, che sembrano fondere i diversi piani in un’unica superficie
vibrante. Si noti, per esempio, come nella parte destra l’acqua assuma le stesse tonalità verdi della
vegetazione. Con tocchi di colore chiari, Renoir dipinge una scena che ha la fresca spontaneità di una
fotografia istantanea, con un’inquadratura che viene a tagliare il chiosco, gli alberi, le barche.
Renoir avvicina l’isolotto all’occhio dello spettatore, così da favorirne l’immersione in ogni dettaglio del
paesaggio; l’immagine appare vaporosa e il colore è frammentato in una libera trama di macchie e di
pennellate molto corte. La composizione di Monet è più stabile: le barche, il chiosco, i pontili conducono
all’isolotto, sottolineandone la centralità fisica. Le pennellate sono più regolari, l’immagine più articolata in
profondità ed insieme più sintetica, come si nota dalle figure, rese con pochi ed essenziali tratti di colore.
Al centro del dipinto di Monet troviamo l'isolotto artificiale di Croissy affollato da un gruppo di borghesi:
attorno all'alberello si dispongono uomini e donne che conversano e due fanciulle in procinto di
raggiungere i loro compagni in acqua per un bagno. In primo piano troviamo alcune barche ormeggiate.
Renoir, pur nella vaporosa astrattezza del suo tocco, si sofferma a lungo sulle fisionomie di queste figure.
Monet, al contrario, si limita a tratteggiare i vari bagnanti con poche picchiettate di colore estremamente
sintetiche, che da una parte rendono l'immagine meno squillante rispetto a quella di Renoir, ma che
dall'altra riescono a fornire una rappresentazione più analiticamente strutturata e rigorosa dei fenomeni
naturali. L'attenzione di Monet si focalizza sul movimento tenue dei flutti della Senna, che rifrangono e
rispecchiano in modo tremolante la luce del sole e i colori della natura circostante: tutto, in questo quadro,
sembra voler captare lo scintillio e le impressioni di una giornata estiva. Monet si sofferma molto
sull'elemento acquatico e lo studia analiticamente in ogni suo riflesso, rappresentandolo con una serie di
pennellate ampie, corpose e dense di colori che vanno dal bianco, all'azzurro, al giallo, al verde. Il tutto crea
uno spettacolare effetto di realismo. L'effetto di luce ed ombra è creato utilizzando bruschi cambiamenti
cromatici; le nuances si limitano al giallo, l'azzurro ed ai bruni.
Edgar Degas - OVO (1834 -1917)
Degas, come Manet, non rinunciò mai al lavoro in atelier e, unico tra gli impressionisti, non si interessò al
paesaggio. L’artista preferì per le sue tele scene di vita mondana: i ritrovi sportivi, i caffè e soprattutto i teatri
e il mondo del balletto, oltre che ritratti di persone appartenenti soprattutto a classi sociali alte. Nelle sue
opere compone, su strutture complesse, scene articolate, nelle quali sperimenta prospettive, scorci, punti di
vista inusuali che gli derivano dalla fotografia e dalle stampe giapponesi, movimenti e pose, luci, effetti tattili
di veli e sete. Degas, a differenza degli altri impressionisti, si interessava al disegno e, nei suoi ritratti,
intendeva mettere in risalto lo spazio e la plasticità delle forme viste dalle angolazioni più inattese. I suoi
soggetti prediletti, sia in pittura sia in scultura, appartenevano al mondo del balletto. La fotografia e le
stampe giapponesi furono i migliori alleati che gli impressionisti seppero sfruttare per condurre la loro
rivoluzione e la loro netta opposizione alle convenzioni e convinzioni pittoriche europee. Perché un quadro
avrebbe sempre dovuto mostrare una figura intera o almeno la parte rilevante di una figura? Degas fu il
pittore più profondamente colpito da tali possibilità che le stampe giapponesi prospettavano alle
avanguardie artistiche del periodo. L’artista, alle prove delle ballerine all’Opéra di Parigi, aveva l’opportunità
di osservare i corpi in ogni atteggiamento e da ogni lato. Poteva studiare le ballerine in azione o in riposo e
ricercare prospettive complesse oltre che analizzare gli effetti dell’illuminazione scenica.
Studi di cavalli
Durante un soggiorno fuori Parigi, Degas scopre il fascino dei cavalli e degli ippodromi. È da queste
osservazioni che attinge, quando esegue le sue prime rappresentazioni di cavalli al galoppo, come Alle corse:
Partiti!. Nel 1862 conosce Manet e ne diventa amico. Manet lo presenta ai suoi giovani amici, i futuri pittori
impressionisti. E Degas porta Manet alle corse di cavalli, tipica espressione della ricca borghesia
dell’Ottocento: non è un caso che siano Degas e Manet, appartenenti entrambi all’alta società, i primi artisti
a occuparsi di corse di cavalli. Lo sviluppo della macchina fotografica viene vissuta dal pittore come
un'opportunità nello studio delle immagini tra cui le sequenze fotografiche di Eadweard Muybridge con cui
vengono ripresi i movimenti di un cavallo al galoppo e che vide sul giornale parigino Le Globe. Le riprese
vennero effettuate a Palo Alto in California tramite macchine fotografiche disposte in batterie e pubblicate
in un volume intitolate Attitudes of animal in motion, che diedero oltretutto un grosso contributo nello
studio veterinario dell'apparato di locomozione degli animali.
Classe di danza, 1873-1875. Olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay
In Classe di danza, il taglio è di tipo fotografico, infatti alcune figure escono dal campo visivo. La
composizione è costruita attraverso il disegno: la stanza è in una scatola prospettica rigorosa; il punto di vista
ribassato conferisce alla scena un’ampia profondità spaziale. Le giovani ballerine si dispongono in un
semicerchio articolato in profondità, che fa risaltare la posizione centrale del maestro. Colpisce il realismo
che si manifesta nell’atmosfera quotidiana della scena e nella varietà e naturalezza delle pose delle ballerine:
quella in primo piano di spalle si sventaglia pensierosa, la sua vicina si gratta la schiena seduta sul pianoforte;
altre provano qualche passo, si aggiustano l’orecchino o si massaggiano il collo, si riposano parlando tra loro.
Con raffinati e delicati passaggi di colore, Degas coglie i riflessi della luce sullo specchio al centro della parete,
la vaporosa leggerezza del tulle bianco delle ballerine, la brillantezza dei fiocchi di raso, i riflessi delle
capigliature.
Piccola danzatrice di quattordici anni (o Grande danzatrice abbigliata)
Ca. 1880-81 la cera. Bronzo, patina policroma (rossa e nera), tulle, raso. Parigi, Musée d’Orsay. In questa
ballerina con le braccia dietro la schiena, le gambe divaricate e le punte dei piedi che guardano in direzioni
diverse, Degas mantiene la spontanea naturalezza delle fanciulle della Classe di danza. La figura plastica,
sebbene colta in un momento di statica pausa, sembra pronta ad abbandonare la posa per riprendere, con un
morbido movimento, la danza. Degas non fuse mai sculture in bronzo, ma si limitò ad usare cera e
terracotta. La scultura in bronzo viene realizzata dopo la scomparsa di Degas, sulla base di un suo modello,
nel 1921-31.
L’assenzio, 1875-1876. Olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay
https://www.musee-orsay.fr/it/collezioni/opere-commentate/cerca/commentaire/commentaire_id/dans-
un-cafe-167.html?no_cache=1&S=2
Nell’opera L’assenzio, Degas rappresenta l’altra faccia della medaglia della vita frizzante parigina, festosa e
spensierata dei caffè e dei ritrovi mondani, celebrata da Manet e da Renoir, mostrando invece la dimensione
della solitudine esistenziale e della incomunicabilità tra un uomo e una donna seduti fianco a fianco, ma
isolati ciascuno nella propria condizione di emarginazione sociale.
Dipinto nel 1876, il quadro raffigura due amici dell’artista, il pittore e scrittore Marcellin Desboutin e
l’attrice Ellen Andrée, seduti a un tavolino del Café de la Nouvelle Athènes, luogo di ritrovo amato dagli
impressionisti. Degas non ha voluto realizzare un ritratto dei suoi amici, bensì tratteggiare uno spaccato di
vita, delineare una situazione di incomunicabilità accentuata dalla vicinanza tra i due personaggi, seduti su
una stessa panca di legno all’interno di un bistrot con specchi e vetri alle pareti. Assorbito ciascuno dai
propri pensieri, i due si trattengono nel locale senza dirsi una parola. La donna, leggermente piegata su sé
stessa e con lo sguardo fisso nel vuoto, sembra infelice e malinconica, stordita dall’alcol; vicino a lei il
bicchiere è ancora colmo di assenzio (bevanda alcolica ricavata dalla pianta di assenzio che, se consumata
spesso, provoca danni al sistema nervoso e alienazione mentale. Essendo poco costoso, ebbe larga diffusione
popolare soprattutto nella Francia dell'Ottocento e solo nel 1915 fu tolto dal commercio), ma sul vassoio del
tavolo a fianco a lei c’è una bottiglia vuota. L’uomo accanto a lei, corpulento e trascurato, ha l’aria di un
senzatetto, la barba incolta, gli occhi rossi, e fuma una pipa. Non guarda verso la donna, ma probabilmente
verso l’interno del locale. Degas relega le due figure nell’angolo in alto a destra con un taglio prospettico
diagonale tipico delle stampe giapponesi e del linguaggio fotografico. Sullo sfondo uno specchio opaco
riflette le loro sagome e la vetrata schermata da tende bianche posta di fronte ai personaggi, da cui proviene
la soffusa luce diurna che illumina il locale. L’occhio dello spettatore è introdotto nella scena dall’angolo di
un tavolo di marmo sul quale sono appoggiati perpendicolarmente alcuni giornali montati su aste di legno
ed è poi guidato da una linea a zig-zag che lo conduce verso la figura femminile, vera protagonista del
dipinto. Il decentramento scenico delle figure assume un significato simbolico, possibile allusione
all’emarginazione dei protagonisti nella vita quotidiana. L’opera suscitò enorme scandalo tra i conservatori,
che videro in essa una troppo realistica rappresentazione del vizio e dell’abiezione.
La prugna, 1878. Olio su tela. Washington National Gallery of Art
Una giovane donna sta seduta, con il mento appoggiato alla mano, a un tavolo di marmo; davanti a lei una
prugna imbevuta di brandy, tra le dita una sigaretta spenta. La sua identità resta sconosciuta: la solitudine, lo
sguardo svagato, il contesto, la posa, la sigaretta e il liquore suggerirebbero una prostituta in attesa di un
cliente, ma gli abiti eleganti implicano una posizione sociale più elevata.
La tinozza, 1886. Pastello su carta. Parigi Musée d’Orsay
Degas, che amava rappresentare personaggi colti nel vivo delle loro occupazioni giornaliere, realizzò una
serie di opere che hanno per soggetto le figure femminili, che si rivelano con assoluta verità, come se fossero
spiate dal buco della serratura. Le donne ritratte da Degas non si curano dello sguardo dello spettatore, ma
sembrano concentrate solo su se stesse e naturali nei loro movimenti, come la figura accovacciata nel pastello
La tinozza, che si lava la nuca con la spugna. La verità del nudo nella sua posizione in stabile è messa in
rilievo dalla visione ravvicinata e dall’alto e dalla prospettiva ribaltata (procedimento opposto alla
prospettiva lineare, che proietta le linee di fuga verso lo spettatore anziché verso il fondo) del tavolo.
All’intimità del gesto si accompagna l’intonazione delicata dei pastelli, giocata sul contrasto tra l'azzurro e il
rosso dei capelli e della caffettiera in rame, che attrae l’attenzione sul brano di natura morta sulla destra: la
spazzola, le forbici, i capelli, la brocca. Degas si era indirizzato verso l’uso del pastello su cartone, un mezzo
più povero dell’olio e meno convenzionale, che però gli permetteva di ottenere effetti più vicini alla pittura
italiana “primitiva”.
Donna che pulisce la tinozza, 1886. Pastello su cartoncino. Farmington, Hill Stead Museum

Pierre Auguste Renoir - OVO (1841-1919)


Renoir amava cogliere il movimento allegro della folla, ma il suo interesse principale era un altro: intendeva
più di ogni altra cosa richiamare la vivace varietà di colori e studiare l’effetto del sole sul movimento della
folla, della moltitudine di persone. Se avesse rifinito ogni particolare, i suoi quadri sarebbero risultati noiosi e
privi di vita.
Bagnante seduta, 1883. Olio su tela. Cambridge, Harvard University, Fogg Art museum.
Particolare dello sfondo ancora fortemente impressionistico su cui spicca la figura di bagnante dalle forme
tornite, resa per campiture di colore larghe e uniformi, ricordo di certa pittura cinquecentesca italiana,
apprezzata e ammirata dal vivo da Renoir durante il viaggio in Italia (1881).
La colazione dei canottieri
La colazione dei canottieri mostra come la freschezza dell’immagine sia la cifra del Renoir impressionista.
Nella storia dell’arte il tema del banchetto gode di una certa fortuna iconografica,in particolare nella sua
versione sacra. Renoir sceglie però di calare il tema nella contemporaneità, mettendo in scena una festosa
colazione, dall’atmosfera conviviale e spensierata. In una luminosa giornata di sole, un nutrito gruppo di
uomini e donne si è ritrovato sulla terrazza di caffè lungo il fiume. Si tratta di un luogo abbastanza famoso, il
ristorante La Fournaise, su un’isola della Senna, a Chatou, e che era un punto di ritrovo di poeti, attori,
intellettuali e canottieri. Dall’insieme della scena si ricava l’impressione di un pranzo consumato in allegria,
fra chiacchiere e conversazioni in tono leggero. Sorprendente è il naturalismo dei dettagli: la scintillante
natura morta della tavola imbandita, in cui densi tocchi di bianco conferiscono al vetro dei bicchieri una
vibrante lucentezza; la donna ritratta con il cane; il tendone che pare mosso dal vento, dentro il quale si
intravedono barche a vela in movimento sul fiume; gli abiti e gli atteggiamenti dei personaggi, dalla signora
ben vestita che si aggiusta il cappellino al corpulento giovanotto che, seduto a cavalcioni su una sedia, stringe
una sigaretta tra le dita. A sostenere l’intera trama del dipinto sono i colori: sebbene siano tutti presenti, in
una giustapposizione di chiari e scuri, caldi e freddi, primari e complementari, è indubbiamente il rosso a
prevalere. Il pittore lo ha distribuito ovunque: a sprazzi sul colletto in trine di una donna o sul collo delle
bottiglie; sul tendone o a bordare camicie e vestiti. La scena è attraversata dalla diagonale della ringhiera, cui
si appoggiano l’uomo con la barba e la ragazza; essa divide la tela in due settori, di cui uno stipato di figure e
costruito in prospettiva e l’altro più aereo e dominato dalla vegetazione.
Il post-impressionismo
Alla ricerca di nuovi canoni
Apparentemente, la fine dell’Ottocento fu un periodo positivo: sviluppo tecnologico, benessere economico
e generale soddisfazione sembravano esserne le caratteristiche (Belle époque; Rai Scuola). Dal punto di vista
delle arti, alcuni artisti erano sempre più infastiditi dalle tendenze estetiche che avevano invece grande presa
sul vasto pubblico. L’architettura, per esempio, si era ridotta a essere un repertorio di vacui stili da cui
attingere per soddisfare le richieste del pubblico (uomo d’affari, mecenate, giunta comunale …) che in
cambio del proprio denaro pretendeva di poter disporre di un prodotto che fosse «in stile» e «bello».
L’espansione urbanistica che interessò l’Europa, in realtà, non ebbe però un suo proprio stile (cfr.
Storicismo e Eclettismo): sorsero così agglomerati urbani, edifici pubblici, fabbriche in una varietà di stili
spesso non adeguati alla loro funzione. Il pubblico richiedeva colonne, timpani, modanature e gli architetti
lo accontentavano. Verso la fine del secolo, un senso di inquietudine e di insofferenza per gli esiti dell’arte
ottocentesca interessò anche certi pittori. È importante comprenderne le ragioni perché gli sviluppi artistici
ci conducono ai vari movimenti dei primi del Novecento, ovvero all’«arte moderna». Del resto, anche i
pittori impressionisti avevano sfidato la tradizione soprattutto relativamente a certi aspetti, a certi canoni
trasmessi dalle accademie, ma in realtà il loro essere «antiaccademici» riguardava non tanto gli scopi
(dipingere la natura come la vediamo), quanto i mezzi della pittura. Con la loro tecnica (lo studio dei colori
e della luce, gli effetti della pennellata sciolta), essi tendevano a rendere in modo più realistico l’impressione
visiva, anzi fu solo con l’Impressionismo che la conquista della realtà fu realizzata in pieno. Sembrò dunque
che i problemi circa un’arte volta a rendere l’impressione visiva fossero stati risolti e che la ricerca avesse
esaurito i suoi scopi. Con il termine Postimpressionismo si indicano proprio quegli orientamenti artistici
che si svilupparono, in seguito alla conquista impressionistica della natura, negli ultimi due decenni
dell’Ottocento. Gli artisti postimpressionisti partirono dall’esperienza impressionista per «sovvertirla»,
capovolgerla: la sola impressione visiva non poteva più bastare, era necessario recuperare la consistenza
dell’immagine, la certezza del contorno, la libertà del colore. Il 1886, anno dell’ultima mostra degli
impressionisti, è assunto convenzionalmente come data d’inizio della stagione postimpressionista: alla
mostra esponevano P. Gauguin (già presente dal 1879) e i giovani P. Signac e G. Seurat (questi si presentava
con Una domenica pomeriggio all’isola della Grande-Jatte). Nello stesso anno venne pubblicato su Le
Figaro il manifesto letterario del Simbolismo di Jean Moréas e Gauguin incontrò Van Gogh appena giunto a
Parigi. Il quadro generale della cultura di fine secolo – idee e protagonisti – è già delineato.
La produzione artistica di questo periodo si sviluppa, in particolare, secondo tre linee direttrici:
➢ Simbolica. Le immagini assumono valore per la loro capacità evocativa. Ricompaiono temi
mitologici o fantastici.
➢ Espressiva. Si utilizza l’arte come mezzo per mostrare, senza mediazione, il rapporto dell’individuo
con il proprio tempo. Gli elementi del linguaggio visivo vengono usati per la loro carica espressiva,
per far emergere lo stato interiore, l’inquieto vivere dell’artista.
➢ Analitica. È il tentativo di superare il dato puramente percettivo attraverso un approccio di tipo
scientifico (Pointillisme), o privilegiando il metodo e, dunque, un’interpretazione concettuale della
realtà.
Paul Cézanne - OVO (Aix-en-Provence, 1839-1906)
L’esistenza di Paul Cézanne (1839-1906), il pittore che più di ogni altro influenzò l’arte di inizio Novecento,
fu accompagnata da una ricca produzione epistolare, costituita da lettere scritte al figlio e ad amici pittori, a
scrittori e mercanti d’arte. Esse presentano un doppio motivo di interesse: da un lato di natura estetica, in
quanto rivelano il suo gusto e la sua graduale presa di consapevolezza della necessità di recuperare la
costruzione formale del dipinto, dall’altro di natura esistenziale, poiché mostrano l’umanità di un pittore
che ai clamori della vita parigina preferì sempre il mondo appartato e intimo della Provenza, di un artista
innamorato del proprio mestiere e capace di emozionarsi, ogni volta come fosse la prima, davanti allo
spettacolo della natura.
Fu il primo artista a staccarsi dal linguaggio impressionista, dopo averlo fatto proprio all’inizio della sua
attività pittorica (espose con il gruppo degli Impressionisti sin dal 1874). Visse prevalentemente in Provenza
e, forse, proprio il suo isolamento lo portò a compiere una ricerca autonoma e innovativa. Egli cercò, con
impegno sistematico e paziente, di superare l’impressione per fare emergere l’essenza formale delle cose. Per
questo indirizzò la propria pittura a un processo di semplificazione, volto a dare solidità strutturale alle
immagini. «Tutto in natura è formato da sfera, cilindro e cono»: forme geometriche, che traducono in
sintesi duratura le immagini della realtà anche attraverso il filtro della memoria. Rai Scuola
Tradizionalmente Cézanne è ritenuto da un lato il fondamento, il nucleo primario da cui hanno preso avvio
le vicende delle avanguardie, dall’altro l’ispiratore delle poetiche del «ritorno all’ordine» che tanta parte
hanno avuto in Italia tra gli artisti e gli intellettuali degli anni Trenta, dunque è considerato in veste di
innovatore e al contempo di «classico». Quest’ultimo aspetto è stato indagato in un’importante mostra*
che si è tenuta a Roma al Complesso del Vittoriano tra il 2013 e il 2014. Rai Scuola
Per superare il concetto di impressione visiva, Cézanne modificò progressivamente la tecnica impressionista.
Egli utilizzava il colore in chiave costruttiva (la forma – colore): steso in larghe macchie uniformi, quasi
tarsie di mosaico, il colore compone l’immagine.
Di conseguenza, i volumi non sono rappresentati in modo prospettico, ovvero non vengono rimpiccioliti
secondo le regole della prospettiva geometrica per raffigurare le cose più lontane, e la profondità dello spazio
è realizzata usando colori caldi per le cose vicine, freddi per quelle lontane.
La casa dell’impiccato a Auvers-sur-Oise, 1872-1873, Olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay.
Il soggetto, un paesaggio ritratto in una giornata di sole, è tipicamente impressionista, benché privo di figure.
Lo stile e l’esito sono, tuttavia, diversi. A Cezanne, infatti, non interessava rendere l’apparenza effimera della
realtà, bensì coglierne la struttura profonda. Il paesaggio è reso attraverso una salda costruzione dei volumi e
una forte individuazione delle forme, ottenute grazie all’uso del colore, la cui consistenza anche fisica
(Cezanne usava un colore molto denso, a differenza degli impressionisti) conferisce agli oggetti solidità e
concretezza realistica. I contorni appaiono come disgregati dai densi strati di materia pittorica, stesa con la
spatola e con lunghe pennellate pastore, che permettono alle forme di compenetrarsi l’una nell’altra.
L’inquadratura è ravvicinata e gli edifici che si fronteggiano fanno da quinte laterali all'apparire sullo sfondo
di una veduta di Auvers. All’orizzonte molto alto risponde in primo piano la direttrice obliqua del sentiero
sulla sinistra, che esce dal campo visivo, tagliato dai margini della tela.
I bagnanti, 1890 ca. Olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay.
La tela riprende un tema al quale molti artisti avevano prestato particolare attenzione nel corso dei secoli.
L'opera di Cézanne mostra dieci uomini nudi o seminudi in riva a un fiume, mentre fanno un bagno o si
apprestano a tuffarsi. L'artista non mostra più interesse per gli effetti dell'acqua come gli Impressionisti, ma
si concentra maggiormente sulla struttura del dipinto, che rivela una forte architettura e una prospettiva
decisa. I personaggi si dispongono lungo la superficie laterale di un cono ideale con il vertice rivolto verso
l’alto o all’interno di esso. Il solido geometrico è suggerito con immediatezza dall’inclinazione del giovane
seduto a sinistra e di quello all’estrema destra che corre per tuffarsi nell’acqua. La prospettiva è invece resa
dalla riduzione dimensionale dei personaggi dei piani arretrati e dalla modulazione del colore, in particolare
degli azzurri che circondano i corpi (rinforzandone i contorni) e ne costituiscono le ombre.
Le grandi bagnanti, 1906. Olio su tela. Filadelfia, Philadelphia Museum of Art.
Le grandi bagnanti, 1894-1905. Olio su tela. Londra, National Gallery Le grandi bagnanti, 1900-1905. Olio
su tela. Merion, The Barnes Foundation.
Durante l’ultimo decennio della sua vita Cezanne dedicò tre monumentali tele al soggetto delle Bagnanti. La
versione di Philadelphia è la più imponente della serie e la più grande che Cézanne abbia mai dipinto, oltre
che il suo progetto più ambizioso. Esso rimase interrotto per la morte del pittore.
La scena si svolge in una radura, dove quattordici donne si concedono un momento di svago dopo il bagno
nel fiume. Un’altra figura sta nuotando, altre figure si trovano sulla riva opposta, dove sullo sfondo
compaiono anche un paesaggio e il cielo. Le donne in primo piano - divise in due gruppi distinti di sei a
sinistra e di otto a destra - sono nude e disposte in modo tale da creare due piramidi che hanno come
rispettivo vertice la testa delle due figure che si trovano in piedi. Un triangolo, più grande, è determinato dai
tronchi degli alberi che fungono da quinte laterali della scena: l’asse centrale coincide con l’asse simmetrico
della tela e incontra la nuotatrice posta nel fiume, il vertice è collocato fuori dal quadro, così che lo spazio
pittorico risulta dilatato.
Anche le posizioni dei corpi delle donne sono curate. In piedi, accovacciate, sdraiate, di spalle, le figure
costituiscono un equilibrio simmetrico che conferisce al quadro un’impressione di monumentalità e di
solidità compositiva. Il corpo femminile viene come disumanizzato e restituito sotto forma di puro volume,
tanto che le due donne in piedi in pratica coincidono con le linee dei tronchi degli alberi. Nonostante la
classicità delle posture, i nudi hanno proporzioni ingigantite, fuori scala, ed esprimono una forza primitiva.
Il disegno dei volti è sgraziato e incompiuto, i corpi imponenti sono contornati da linee nere spezzate che
non chiudono le forme, ma fanno sì che tutto sembri fondersi: carne, terra, corteccia, vegetazione, aria,
acqua. Il colore, steso a larghe macchie acquarellate, è usato per costruirne le forme e restituire la luce. I
colori, nei toni dominanti dell’azzurro,
Donna con caffettiera, 1895 ca. Olio su tela. Parigi, Musée,d’Orsay
L’opera è esemplare della ricerca cezanniana sui volumi applicata alla figura umana e sulla nuova
rappresentazione dello spazio. La figura femminile è rappresentata per volumi semplici, essenziali,
riconoscibili: la testa ovoidale, le braccia cilindriche, la gonna piramidale. L’intera figura è trattata come un
solido, il cui asse di simmetria è qui rappresentato dalla chiusura del vestito. Nondimeno, la solidità del
soggetto ritratto sembra messa in discussione dallo spazio stesso, vagamente instabile, del dipinto, in
particolare dallo stipite della porta sullo sfondo, leggermente inclinato, come il ripiano del tavolo. Tazzina e
caffettiera sono, anch’esse, rappresentate per volumi semplici, come solidi di rotazione, e sono in relazione,
generando corrispondenze armoniche, con il «peso» volumetrico del corpo; ma, a loro volta, poggiano sul
tavolo rappresentato da un punto di vista molto più alto. Le gamme cromatiche scelte, basate sul contrasto
dei complementari blu e arancione, enfatizzano questo contrapposizione tra la rappresentazione delle forme
e dell’ambientazione.
I giocatori di carte, 1898. Olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay
Cézanne affronta più volte, a partire dal 1890, il soggetto dei giocatori di carte. Egli non si approccia a
questo tema con senso realista, ma la sua ricerca era volta a comprendere la logica dei rapporti tra le forme
della realtà, ricondotte a solidi semplici, e a esprimerle in una struttura pittorica. Le pennellate di colore che
contribuiscono alla resa volumetrica.
Sul tema della partita a carte Cézanne dipinse cinque differenti versioni. In questa versione due uomini in
un'osteria di paese stanno giocando a carte davanti ad uno specchio. La tela si presenta con uno schema
fortemente geometrizzato, che conferisce ai due personaggi dignità classica, pur rimanendo un'immagine di
contemplazione pura e senza pathos (le due figure sono compagne di gioco in un'opposizione consensuale).
Distorcendo la visione prospettica, Cézanne riesce ad ottenere il massimo grado di centralità, che risulti
credibile in una scena di vita vissuta: questo lieve scarto dal centro è un acuto stratagemma per evitare il
rischio che l'opera risulti troppo artefatta: le cose non ci si presentano mai in uno stato di perfetto equilibrio.
Tutta la tela è costituita da abbassamenti di tono dei colori blu, giallo e rosso. Le pennellate si compongono
a tasselli (campiture), e talvolta si presentano solitarie e sintetiche, come il riflesso sulla bottiglia o il semplice
tratto che descrive l'occhio infossato del giocatore di destra. L'impianto figurativo viene costruito attraverso
l'accostamento di chiazze di colore caldo (come quelli del tavolo, della tovaglia e dell'uomo a destra) che si
contrappongono ai toni freddi (dello sfondo e del giocatore di sinistra). Inoltre Cézanne fa un sapiente uso
delle linee; con quella retta evidenzia la sicurezza dell'uomo alla nostra sinistra e con quella curva sottolinea
l'incertezza di quello a destra che probabilmente perderà la partita. L'atmosfera che Cézanne fa respirare allo
spettatore è di apparente tranquillità, dietro la quale si cela, probabilmente, una certa tensione visibile nella
rigidità dei corpi conferita attraverso la solidità della forma. Nel dipinto Cézanne, non rende solo
un'impressione, ma anche una descrizione del senso interno all'azione, come se fosse la sintesi destinata a
permanere nella mente, quasi calcificata e sotto forma di ricordo.
La montagne Sainte Victoire
Tra il 1904 e il 1906 dipinse una quarantina di versioni di uno stesso soggetto, La montagna Saint –Victoire,
che rappresentano il punto di arrivo della sua ricerca di rappresentazione della natura e dello spazio.
La montagne Sainte Victoire vista da Bellevue, 1882-1885. Olio su tela. New York, The Metropolitan
Museum of Art. La montagne Sainte Victoire vista da Bibemus, 1897 ca. Olio su tela. Baltimora, The
Baltimore Museum of Art. La montagne Sainte Victoire vista dai Lauves, 1904-1906. Olio su tela. Filadelfia,
Philadelphia Museum of Art.
Nel dipinto di Filadelfia, il paesaggio naturale e il paesaggio artificiale (le abitazioni) sono scomposti e
ricomposti in volumi essenziali e in superfici di colore accostate. La profondità non è resa con la prospettiva
geometrica ma tramite i colori. L’aria e il cielo assumono i colori delle case e degli alberi. Un tenue contorno
azzurro separa la montagna dal cielo. Lo spazio naturale, sezionato e ricomposto, scandito e fortemente
geometrizzato rappresenta la premessa alla grande rivoluzione pittorica del cubismo. Per comprendere la
distanza della pittura di Cézanne dalla pittura degli impressionisti si confrontino le versioni che dello stesso
soggetto hanno dato Cézanne e Renoir, il più solare degli impressionisti. Renoir dipinge un paesaggio
limpido e idilliaco, bucolico.

George Seurat (1859-1891)


Come precedentemente detto, il 1886, anno dell’ottava e ultima mostra degli impressionisti, è considerato
come convenzionale data di inizio della fase post impressionista: nell’ultima sala della mostra alcune opere in
particolare attirarono l’attenzione di critica e pubblico. Vi esponevano Paul Gauguin (già presente alle
esposizioni dal 1879) e i giovani Paul Signac e Georges Seurat con Una domenica pomeriggio all’isola della
Grande Jatte, opera chiave che segna la nascita del nuovo orientamento pittorico. Il movimento, per il quale
il critico Félix Fénéon coniò il termine Neoimpressionismo, esprime una radicale rivisitazione della poetica
impressionista, nella quale tuttavia riconosce le proprie radici, salvo che nella scelta dei temi, che sono
ancora quelli del paesaggio, della veduta urbana, delle scene di vita moderna. Nella produzione pittorica di
Seurat grande suggestione esercitarono le ricerche scientifiche intraprese nella prima metà del XIX secolo in
campo chimico e ottico. Michel-Eugène Chevreul era un chimico francese che nella prima metà dell’800
aveva condotto delle ricerche relative alla teoria empirica della «cromatica», al principio del «contrasto
simultaneo» (due colori complementari accostati appaiono più luminosi, vivi e brillanti di quanto
apparirebbero se considerati isolatamente) e della «ricomposizione retinica». Chevreul è anche l’autore di
un saggio, La legge del contrasto simultaneo dei colori, e del cerchio cromatico diviso in 72 parti uguali:
sono presenti i colori primari – rosso, giallo e blu – e, in posizione opposta, i rispettivi secondari
complementari – verde, violetto e arancione. Numerose sfumature segnano il graduale trapasso da un colore
all’altro. Seurat e Signac intendevano dunque sostituire all’Impressionismo «lirico» un Impressionismo
«scientifico», contrapponendo alla soggettività emotiva della visione l’oggettività scientifica delle leggi
dell’ottica, sulla base di una lunga serie di ricerche svolte lungo l’Ottocento da fisici e chimici come
Chevreul, Maxwell, Rood e altri. Alcuni aspetti della ricerca sulla cromatica erano già conosciuti dagli
Impressionisti, ma i Neoimpressionisti bandiscono ogni mescolanza a favore dell’applicazione metodica di
colori puri, accostati secondo la legge dei complementari, per punti (da cui Pointillisme) e piccole tacche, al
fine di ottenere effetti di massima luminosità. Una luminosità cristallina, tersa e diffusa uniformemente, del
tutto estranea ai morbidi effetti atmosferici dell’Impressionismo. A tale rigore tecnico si affianca, nella
pittura dei due artisti, lo studio di un saldo impianto geometrico nella costruzione dell’immagine e la
definizione di una volumetria quasi astratta delle figure e degli oggetti. Su queste basi Seurat può giungere a
affermare la possibilità di costruire l’immagine indipendentemente dalle condizioni naturali di luce, con ciò
decretando il superamento della pratica della pittura en plein air. Nei dipinti di Seurat, i temi della vita
contemporanea – gli svaghi dei parigini sul fiume – sono gli stessi delle vie moderne dipinte dagli
impressionisti, ma tutto è così controllato e equilibrato che fa capire, da un lato, il lungo studio preparatorio
delle singole figure e della composizione nel suo insieme, dall’altro, la volontà di riferimento a grandi modelli
della tradizione (da Giotto a Piero della Francesca).
Il bagno (Bagnanti ad Asnières), 1883-1884. Olio su tela. Londra , National Gallery.
Una domenica pomeriggio all’isola della Grande Jatte, 1883-1885. Olio su tela. Chicago, Art
Institute.
Il circo, 1890- 1891. Olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay.
Nella produzione pittorica di Seurat grande suggestione esercitarono le ricerche scientifiche intraprese nella
prima metà del XIX secolo in campo chimico e ottico, ma anche le ricerche psicologiche di Charles Henry,
conosciuto dall’artista nel 1886, che studiava le proprietà di linee e colori nel suscitare determinate emozioni
negli osservatori. Il Neoimpressionismo influenzò altri aspetti delle ricerche contemporanee, come il
sintetismo e il Divisionismo italiano; inoltre, in quanto simbolo di modernità nella pittura, influenzò anche
la fase formativa dei pittori delle avanguardie del Novecento, dai Fauves ai cubisti, ai futuristi.
Seurat raffigura il circo con il tendone a strisce e l'atmosfera festosa. Si tratta dell'ultima opera del pittore,
rimasta incompiuta per la sua morte. Il quadro sarà acquistato da Paul Signac, poi rivenduto al collezionista
americano John Quinn, dietro promessa di un suo lascito al museo del Louvre. Oltre allo studio del colore,
Seurat attua i primi principi di forma applicata alla psicologia, sfruttando il rapporto tra segno e linea del
quadro con i sentimenti e lo stato emotivo di chi lo osserva; vi è infatti una esaltazione di linee che si
estendono da sinistra a destra in quanto la mente le associa ad un'apertura gioiosa. I colori del dipinto,
inoltre, rappresentano gioiosità e allegria, che è ciò che il pittore stesso vuole esprimere con questa opera
d'arte.
Il Divisionismo
Giovanni Segantini (Arco, 1858 – Schafberg, Svizzera 1899)
Le due madri, 1889. Olio su tela. Milano, Galleria d’Arte Moderna
Mezzogiorno sulle Alpi, 1891. Olio su tela. San Gallo, Fondazione Fischbacher
L’uomo è al centro del cosmo perché è ciò che mette in rapporto tutto con l’Infinito: così potrebbe essere
individuato il senso di questo stupendo quadro. Baba, la governante di Segantini, posa al centro del dipinto,
è al centro della Creazione che le si squaderna all’intorno. Lo spazio è ampio ed aperto, supportato ed
amplificato dall’orizzonte sospeso che si protende sulla valle di Savognin. Questo scenario è completato dalle
cime ancora innevate che dicono che siamo in primavera, la stagione preferita da Segantini. Irrompe da
sinistra la luce accecante del sole, la vera protagonista del quadro, insieme alla ragazza. Qui Segantini crea
l’immagine del senso religioso: la giovane donna è simbolo della sete d’infinito che nell’uomo emerge da e su
tutta la Creazione. Non sappiamo dove sta guardando Baba, ma sappiamo che da lì viene la luce. L’effetto
d’ombra della testa del cappello è perfettamente descritto e possiamo cogliere la sottile linea che le palpebre
lasciano alla pupilla per attenuare la luce del sole. Il suo sguardo è penetrante, insistente, determinato e
coraggioso. Il gregge in disparte, in secondo piano, bruca l’erba. Nel cielo tesissimo volano due aquile.
Sappiamo che le aquile, a differenza dell’uomo, possono fissare il sole. Tutto qui parla di una natura
religiosa, come la chiesetta minuscola in basso a destra.

Giuseppe Pellizza da Volpedo


Il Quarto Stato, 1898-1902. Olio su tela. Milano, Museo del Novecento

Paul Gauguin (Parigi 1848- Atuona, Polinesia, 1903)


http://www.ovovideo.com/paul-gauguin/
Quanto Cézanne rimane fedele al dato naturale e Seurat a quello scientifico, tanto Gauguin rifiuta
completamente naturalismo e pittura en plein air. Le opere datate tra il 1888 e la morte sono rappresentative
del percorso individuale dell’artista e dell’intimo anelito verso un «altrove» primigenio, dai valori autentici e
puri non ancora sfiorati dalla modernità (da Panama e Martinica alla Bretagna e, ancora, all’isola di Tahiti
nella Polinesia francese). Influenze esotiche, simboliste e decisamente anticlassiche confluiscono dunque in
un linguaggio pittorico e espressivo originale: «Abbiate sempre davanti a voi i Persiani, i Cambogiani e in
misura minore gli Egizi – scrive nel 1897 dalla Polinesia – il grande errore è l’arte greca, non importa quanto
bella sia».
La visione dopo il sermone, 1888. Olio su tela. Edimburgo, National Gallery of Scotland
Nelle mie figure ho raggiunto una grande semplicità, che è allo stesso tempo rustica e superstiziosa. In questa
immagine il paesaggio e la lotta esistono solo nell’immaginazione delle persone che il sermone ha mosso alla
preghiera. Ecco perché c’è un contrasto tra le persone, rappresentate in modo naturale, e la lotta nel suo
paesaggio innaturale. (da una lettera di Gauguin a van Gogh)
Il Cristo giallo, 1889. Olio su tela. Buffalo, Albright-Knox Art Gallery
Nel 1889, anno dell’Esposizione Universale, Gauguin organizza a Parigi una mostra con il gruppo di Pont -
Aven, cittadina della Bretagna, divenendo autorevole riferimento per i pittori simbolisti francesi. È anche
l’anno di composizione del Cristo giallo, nel quale è rinnegato ogni legame con il realismo. Il tema non è
nuovo nella storia dell’arte, ma è proposto con un linguaggio inedito, come la semplificazione delle figure e
delle forme, l’astrazione e l’utilizzo innaturale dei colori (alberi rossi e corpo di Cristo giallo). Nel periodo
bretone, Gauguin perviene a un linguaggio sintetista, come egli stesso lo definì.
Il «sintetismo» pittorico di Gauguin era caratterizzato dal rifiuto dell’aderenza al dato naturale (Voglio
staccarmi quanto più è possibile da qualsiasi cosa che dia l’illusione di un oggetto), dalla sintesi di elementi
reali e irreali nella stessa immagine, dalla semplificazione formale e dall’uso di colori, spesso brillanti e
intensi, stesi a campiture piatte e dalla valenza simbolica, quindi dalla bidimensionalità dei vari elementi che
compongono la composizione. I colori piatti contornati da una linea scura, nera e continua, derivano da una
tecnica di origine medievale, utilizzata nelle vetrate delle chiese gotiche e negli smalti, detta cloisonné.

Gauguin qui si confronta con un tema religioso che ha già affascinato migliaia di artisti: la crocifissione di
Gesù. Se, tuttavia, il racconto dei Vangeli testimonia come che il supplizio di Gesù Cristo sulla croce
avvenne sulla piccola altura del Golgota a settentrione di Gerusalemme, Gauguin opera una trasposizione
spazio-temporale, e riconduce l'evento alla dimensione quotidiana della Bretagna ottocentesca, regione
presso la quale egli risiedeva sin dal 1886. Le campagne bretoni, costellate qua e là di alberi che divampano
con una suggestiva colorazione rosso-arancio, si tingono di un giallo intensissimo, ripreso e variato
nell'incarnato del Cristo, crocifisso in primo piano e circoscritto da un contorno nero e verde. Gauguin per
il Gesù si ispira alle fattezze del proprio volto e, soprattutto, a un crocifisso ligneo policromo che aveva
potuto ammirare alla cappella di Trémalo. Tutt'intorno alla croce, infine, si dispongono alcune contadine
bretoni abbigliate con i loro vestiti tradizionali, quasi fossero delle pie donne evangeliche. In quest'originale
reinterpretazione rustica del Crocifisso, Gauguin concede ampio spazio alle suggestioni della linea e del
colore, portando forse per la prima volta ad un'espressione compiuta la sua tecnica cloisonniste. Gauguin,
infatti, ne Il cristo giallo non applica il colore naturalisticamente, bensì lo stende su ampie campiture
omogenee, prive di effetti chiaroscurali, delimitate da contorni ben marcati. L'utilizzo quasi esclusivo dei tre
colori primari (giallo, blu e rosso), poi, si giova anche di una spiccata bidimensionalità che, nel suo
complesso, genera un ritmo decorativo non dissimile da quello presente nelle vetrate gotiche delle chiese
bretoni. A coronare la composizione, geometricamente ben definita, intervengono poi le figure,
rudimentalmente semplificate, sintetizzate: si noti, in tal senso, la fattura pittorica delle contadine bretoni.
Due donne tahitiane (Sulla spiaggia), 1891. Olio su tela. Parigi, Musée d’Orsay
Il rifiuto della cultura e dello stile di vita occidentale spinge il pittore a lasciare la Francia, una prima volta nel
1891, per Tahiti, dove può comunque contare sul supporto del governo francese, alla ricerca di un luogo
isolato e incontaminato, magico e suggestivo. In questo dipinto troviamo raffigurate due donne polinesiane
sedute in riva al mare: hanno corpi massicci e pesanti, capelli lucenti raccolti in splendide orchidee, occhi
sfuggenti e sottilmente obliqui. Sono entrambe avvolte in un enigmatico silenzio. Quella di sinistra si sta
appoggiando sulla sabbia con il braccio. Quella di destra, invece, intreccia distrattamente le foglie di qualche
pianta tropicale. L'opera, dai contenuti e dalla tecnica apparentemente banali, è in realtà sorretta da un
armonioso impianto compositivo e cromatico. I colori non sono turbati da varianti chiaroscurali bensì si
risolvono in campiture omogenee, come avviene nel pareo rosso a motivi floreali della tahitiana di sinistra.
La linea che contorna le figure tradisce l'esigenza di un'espressione primitiva e in grado di comunicare i
contenuti del dipinto in maniera più immediata. Il mare appena increspato dalla spuma delle onde
conferisce dinamismo a una composizione altrimenti statica.
Ia Orana Maria (Ave Maria), 1891-1892. Olio su tela. New York, Metropolitan Museum of Art
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, 1897-1898. Olio su tela. Boston, Museum of Fine
Arts

Vincent van Gogh - OVO (1853-1890)


I mangiatori di patate, 1885. Olio su tela. Amsterdam
È sbagliato dare a un dipinto contadino una certa dolcezza convenzionale. Se un dipinto contadino odorasse
di pancetta, di fumo, di patate bollite, bene non risulterebbe malsano. Un dipinto contadino non può essere
profumato.
Lavorando ho voluto fare in modo che si capisse che quei popolani che, alla luce della lampada, mangiano le
loro patate prendendole dal piatto con le mani, hanno personalmente zappato la terra in cui le patate sono
cresciute; il quadro, dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere che quei contadini hanno onestamente
meritato di mangiare ciò che mangiano. Ho voluto far pensare a un modo di vivere completamente diverso dal
nostro, di noi esseri civili. (1885)
Autoritratto, Parigi, 1886. Olio su tela. Amsterdam, Rijksmuseum
Autoritratto con cappello di feltro grigio, 1887. Olio su cartone. Amsterdam
Autoritratto, 1887. Olio su cartone
Si dice – e ne sono convinto – che sia difficile conoscere se stessi, ma non è neppure facile dipingersi. Così, in
mancanza di un modello diverso, in questo momento sto lavorando a due ritratti di me stesso.
Notte stellata, (Cipresso e paese), 1889. olio su tela. New York, The Museum of Modern Art
Campo di grano con volo di corvi, Auvers-sur-Oise, 1890. Amsterdam Museo Van Gogh
Vaso con girasoli, 1889, olio su tela, Amsterdam Museo Van Gogh

Toulouse Lautrec e l’arte dell’affiche


Au Moulin Rouge, 1892-1893. Olio su tela. Chicago, Art Institute
Addestramento delle nuove arrivate da parte di Valentin-le-Désossé, 1880. Olio su tela.
Philadelphia (Pennsylvania), Philadelphia Museum of Art
Nella capitale dei principali movimenti pittorici dell’Ottocento, Parigi, nacque quella particolare forma di
arte applicata alla pubblicità che è l’affiche, il manifesto murale. Lo stile del manifesto, il suo specifico
linguaggio nasceva dall’esigenza di comunicare un «messaggio» visivo nel modo più immediato, efficace e
diretto.

La litografia: Il termine deriva dal greco lithos, "pietra" e graphein, "scrivere". Procedimento di stampa
basato sul principio dell’incompatibilità dell’acqua con il grasso. Si delinea il disegno con materiale grasso
(inchiostro o matita) su una pietra calcarea che funge da matrice. Sulla pietra, le immagini devono essere
disegnate in modo inverso rispetto alla composizione che si vuole ottenere. Finito il disegno, con un
pennello si sparge sulla pietra un composto a base di acido nitrico, gomma arabica acidificata e acqua che
provoca una reazione chimica: l'acido nitrico trasforma tutte le parti della pietra non protette dall'inchiostro
litografico, da carbonato di calcio in nitrato di calcio, sostanza idrofila (che assorbe l’acqua). Trascorse 24
ore dalla preparazione, si procede alla stampa: la matrice disegnata viene bagnata con acqua e poi
inchiostrata con un rullo. L’inchiostro aderisce nelle parti disegnate mentre viene respinto dalla pietra
bagnata. Si posa il foglio di carta da stampare sulla matrice, si sovrappongono altri fogli ed un cartone
grassato, il tutto viene compresso mediante il torchio litografico. Infine, il foglio viene tolto e fatto asciugare.
Per le stampe a colori (di solito quattro) si utilizzano tante matrici quanti sono i colori richiesti dal disegno e
si ripete l’operazione descritta con ogni matrice.

Le due personalità che prima di Henry Toulouse Lautrec ebbero una parte importante, oltre che di
precursori furono Eugène Grasset e Jules Chéret. Chéret creò uno stile personale basato sulla scioltezza della
composizione, sulle figure semplificate e evidenziate da contorni decisi. Le figure hanno un ritmo sinuoso,
serpentinato e il segno nervoso, angoloso, dà l’idea dello schizzo. Toulouse Lautrec proseguì da dove si era
fermato Chéret: dette una maggiore espressività al profilo delle immagini e più fermezza e incisività alla linea
di contorno. Seppe trarre dalla visione bidimensionale effetti spaziali; evidenziò maggiormente l’immagine,
restrinse la gamma della sua tavolozza a pochi colori onde conferire più efficacia ai suoi manifesti. L’oculata
scelta dei caratteri e la libera disposizione delle scritte, contribuiscono alla funzionalità del messaggio e al
risultato estetico finale.
Moulin Rouge, “La Goulue" manifesto litografico, 1891
Moulin-Rouge - La Goulue è un poster. Si tratta di una litografia in quadricromia che utilizza la tecnica del
soufflé (o sputo). Ci sono diversi luoghi di conservazione perché sono state stampate diverse stampe , circa
3.000 copie. È un poster per il Moulin-Rouge . Una donna che balla al centro, una gamba per aria, con in
primo piano a destra un uomo in ombra, troncato, che occupa un grande posto nel poster, e sullo sfondo
l'ombra degli spettatori di fronte al ballerino, notevole per i suoi pantaloni leggeri offerti alla vista ei suoi
piedi calzati in calze rosse come la sua camicetta a pois. A sinistra del ballerino, le macchie gialle
simboleggiano la luce. Il titolo principale, " MOULIN ROUGE ", è scritto due volte, con " LA GOULUE
" sotto in grassetto, così come "Bal tous les soirs" sulla destra.
Divan Japonais, litografia, 1893
Fu creato per pubblicizzare un cafè-chantant che all'epoca era conosciuto come Divan Japonais . Il poster
raffigura tre persone della Montmartre. La ballerina Jane Avril è tra il pubblico. Accanto a lei c'è lo scrittore
Édouard Dujardin. Stanno guardando una performance di Yvette Guilbert. Sebbene il suo viso non sia
incluso nel poster, è riconoscibile per la sua corporatura alta e sottile e lunghi guanti neri.
Jane Avril al Jardin de Paris, 1893. Litografia. Albi, Museo Toulouse-Lautrec
Avril, amica di una vita dell'artista, commissionò questa stampa per pubblicizzare il suo spettacolo di cabaret
al Jardin de Paris nel 1893. L'audace composizione di Lautrec è caratterizzata da una prospettiva
radicalmente obliqua, ritagli severi, forme appiattite e linee sinuose, come quelle che descrivono Il costume a
balze di Avril. Il calcio “cancan” della gamba di Avril, uno dei suoi passi di danza distintivi, trova un'eco
formale nella spinta verticale del contrabbasso, afferrato da un musicista invisibile. Per creare questa stampa,
Lautrec ha utilizzato diverse pietre litografiche, una per ogni colore: nero inchiostro, arancione acido, giallo
e verde.

Le Avanguardie (gli …ismi del Novecento)


Avanguardie → il fenomeno più importante nella produzione culturale
europea del primo Novecento. Sono movimenti artistici caratterizzati da
una forte spinta di rinnovamento, da una dichiarata volontà di
separazione dal passato, dall’aspirazione a una continua
sperimentazione. Prima fase → primi anni del XX secolo - scoppio della
prima guerra mondiale, quando molti artisti partirono per il fronte e
molti di essi morirono in guerra. Seconda fase → primo dopoguerra - anni
Trenta, in coincidenza con l’affermarsi dei regimi totalitari.
Le avanguardie si distinsero per la capacità di cogliere in anticipo molte delle contraddizioni e delle forti
inquietudini che interessavano la società dei primi del Novecento la capacità di avvertire i segnali della crisi
che avrebbe condotto alla guerra.
Il contesto culturale nel quale si sviluppano le avanguardie storiche è quanto mai variegato e complesso. Il
connubio tra scienza, verità e progresso che aveva sostenuto e favorito il modello positivista viene ora messo
in discussione da una diffusa sfiducia nei confronti degli ideali ottimistici per le sorti dell’umanità e nei
confronti della scienza come unico sapere in grado di descrivere in modo oggettivo la realtà. Si diffusero
orientamenti di pensiero diversi, alcuni dei quali ebbero significativi riflessi anche in ambito artistico.
Suggestioni derivarono prima di tutto dal pensiero di F. Nietzsche (1844-1900), critico verso il razionalismo
positivista e contrario all’autorità secolare dello Stato come alle verità rivelate del cristianesimo. Egli
auspicava l’avvento di un «oltreuomo» o «superuomo», ossia un uomo capace di dare libera espressione
alla propria creatività superando ogni forma di convenzione. In ambito francese, fu importante il contributo
dato dal filosofo H. Bergson (1859-1941) che rivoluzionò il tradizionale concetto di tempo inteso come
qualcosa di omogeneo e misurabile, contrapponendogli il concetto di durata interiore basata sul vissuto
affettivo. In seguito Bergson approfondì l’idea di élan vitale (slancio vitale), riconoscendo l’esistenza di una
forza profonda, non razionale, che muove la vita in tutte le sue forme. Nel campo delle «scienze umane» o
«scienze dello spirito», gli studi del medico austriaco S. Freud (1856-1939) sulla psicoanalisi portarono alla
ribalta il concetto di inconscio, il quale si manifesta attraverso i sogni o i desideri repressi, e il metodo per
indagare oltre la realtà fenomenica. Le teorie psicoanalitiche ebbero un impatto notevole sulla cultura del
XX secolo e una diretta influenza su molti fenomeni artistici.
Sul piano della ricerca scientifica, le teorie di A. Einstein sulla relatività, maturate tra il 1905 e il 1916,
postulavano la relatività dello spazio e del tempo, prima di allora concepiti come entità assolute, tra loro
distinte e indipendenti.

Il termine «avanguardia» deriva dal linguaggio militare e in questo ambito fa riferimento ai «reparti
avanzati con compiti esplorativi e di difesa preventiva». In campo artistico o letterario il termine fa
riferimento a movimenti che si propongono in modo programmatico di rinnovare le forme artistiche
tradizionali e che intravedono i possibili sviluppi artistici e li perseguono andando oltre le modalità stilistiche
a loro contemporanee. L’aggettivo «storiche» fa riferimento all’arco di tempo in cui si manifestarono -
primi decenni del Novecento - distinguendo così queste prime avanguardie da tutti i movimenti artistici di
avanguardia sorti in periodi di tempo anche recenti. Sono considerate Avanguardie storiche
l’Espressionismo francese (Fauvismo) e tedesco (Die Brucke), il Cubismo, il Futurismo, il Dadaismo, il
Surrealismo, l’Astrattismo e la Metafisica.

Le avanguardie apparvero soprattutto come azione di un gruppo, espressione di una volontà di affermare
nuovi linguaggi rispetto a quelli della tradizione storica ufficiale, spesso anche con l’uso di comportamenti
anticonvenzionali e in alcuni casi violenti. L’arte e le innovazioni formali vennero considerati un importante
strumento di trasformazione della società. Alcune avanguardie scelsero il Manifesto, documento letterario
programmatico, come mezzo per proclamare propositi e ideologie in modo polemico e tagliente. I concetti e
le ideologie espressi dai manifesti si scontravano volutamente con le ideologie della morale borghese. Le
avanguardie misero in evidenza la funzione sociale dell’arte e assegnarono all’artista il ruolo di denunciare i
mali e le ipocrisie della moralità e delle convenzioni borghesi.
Sopraffatte dai regimi totalitari, che osteggiarono i nuovi linguaggi artistici definendoli «arte degenerata», le
avanguardie dispersero presto la loro carica rivoluzionaria, non prima però di aver completamente
modificato il concetto, l’idea di arte visiva, consegnando un lascito imprescindibile per gli sviluppi dell’arte
del Novecento. Molti artisti furono costretti, in seguito alle leggi razziali, a lasciare l’Europa e a rifugiarsi
negli Stati Uniti. La diaspora di questi grandi sperimentatori dell’arte contribuì alla diffusione delle novità
culturali prodotte in Europa e allo sviluppo e all’affermarsi, nel secondo dopoguerra, di una cultura artistica
americana con proprie avanguardie artistiche: il baricentro dello sviluppo artistico si era ormai spostato oltre
oceano e da lì i nuovi linguaggi sarebbero ripartiti alla volta dell’Europa per diffondersi nel vecchio
continente.

Le avanguardie artistiche del Novecento si dedicarono a nuove sperimentazioni in tutti gli ambiti della
produzione artistica e modificarono radicalmente il concetto di arte visiva.
L’arte rappresenta o imita la realtà del mondo sensibile? Quante realtà esistono per l’artista? A questa
domanda l’arte classica e il filone del Classicismo e del Naturalismo avevano risposto con l’idea, già platonica
della mimesis, dell’imitazione della natura. Un’idea che il Novecento ha finito per smantellare, dando spazio
a un’altra realtà, quella interiore, e a un nuovo modo di rappresentarla, che al concetto di imitazione ha
sostituito quello di creazione artistica. La realtà è interpretata liberamente: vengono introdotti nuovi
soggetti, linguaggi e poetiche in contrapposizione al Realismo e al Naturalismo positivistici.
➢ Espressionismo (1905): deformazione dell’immagine, uso emozionale del colore;
➢ Cubismo (1907): scomposizione e ricomposizione dei piani, rappresentazione della «quarta
dimensione»;
➢ Futurismo (1909): ricerca di rappresentazione del dinamismo e della velocità;
➢ Astrattismo (1912): forme geometriche e colori senza un immediato riferimento alla realtà esterna;
➢ Metafisica (1917), G. De Chirico: rappresentazione di una realtà che va oltre l’apparenza fisica,
l’esperienza sensibile, spazi enigmatici e inquietanti, immobilità;
➢ Dada: ready-mades, ovvero oggetti decontestualizzati e assemblati con tono provocatorio e non
sense;
➢ Surrealismo: rappresentazione del mondo dell’inconscio, paradossale e spiazzante.
Henri Matisse, Donna con cappello, 1905, olio su tela. San Francisco, Collezione Haas
Descritto come "una pentola di colori rovesciata in faccia al pubblico" il quadro segna una pietra miliare
nell'uso simbolistico del colore; infatti quest'opera può essere vista come il punto di incontro di tre autori:
➢ Paul Gauguin per quel che riguarda l'uso simbolista del colore.
➢ Vincent van Gogh per l'utilizzo divisionista delle pennellate sempre a macchie e mai sfumate.
➢ Paul Cézanne per la smaterializzazione delle forme.
La donna (la moglie di Matisse, Amélie), posta di tre quarti, guarda l'osservatore facendo mostra del suo
borghese abbigliamento e, soprattutto, del suo appariscente cappello. Matisse, contrariamente a Paul
Cézanne e Vincent van Gogh, non cerca una somiglianza cromatica oggettiva quando dipinge, utilizzando
dei colori che non costituiscono per niente un'accentuazione dei colori esistenti ma, anzi, se ne distanziano.
La violenza con cui il colore è gettato sulla tela richiama alla memoria i quadri dell'ultimo Vincent van Gogh
e forse, con un collegamento ardito le composizioni contemporanee di un autore come Jackson Pollock e
del suo dripping.
Il Manifesto del Futurismo, «Le Figaro», Parigi, 20 febbraio 1909
Fondazione e Manifesto del futurismo
Il Manifesto del Futurismo fu scritto da Filippo Tommaso Marinetti e pubblicato nel febbraio 1909 in
forma di declamatoria per fornire una raccolta concisa di pensieri, convinzioni e intenzioni dei Futuristi. Fu
anche pubblicato in lingua francese a Parigi sul quotidiano Le Figaro con titolo Manifeste du Futurisme. Il
Manifesto del Futurismo nacque come reazione alla cultura borghese dell'Ottocento, compreso il
decadentismo dannunziano: Parole in libertà dovevano sostituire la retorica tradizionale. Il suo testo apparve
per la prima volta sulla Gazzetta dell'Emilia di Bologna, il 5 febbraio 1909. Quando, con il titolo Manifest
du Futurisme fu pubblicato in francese sulla prima pagina del quotidiano Le Figaro di Parigi, il 20 febbraio
1909[2], il Manifesto conseguì notorietà internazionale.
Canto d'amore - OVO
Giorgio de Chirico - OVO

L’espressionismo
Con il termine espressionismo si indica, in generale, tutta l’arte che nasce dall’esperienza emozionale e
spirituale e il cui linguaggio è basato sulla forte accentuazione cromatica e sulla incisività e forza del segno.
Etimologicamente, esprimere è un verbo di origine latina composto dalla particella ex (= da, dall’interno
all’esterno) e dal verbo latino premere e che mantiene in italiano lo stesso significato: esprimere,
letteralmente, significa «portare all’esterno» e, in questo senso, l’arte può essere considerata come un mezzo
per esprimere emozioni, stati d’animo, idee. Espressionismo, in senso storico, indica una corrente culturale
o meglio una tendenza dell’avanguardia artistica del Novecento, caratterizzata dalla centralità della
componente emozionale, che sul finire del primo decennio del Novecento comincia a essere chiamata
Espressionismo (l’arco temporale nel quale si manifesta e si sviluppa è compreso tra il 1905 e il 1925 ca.).
L’intento di esprimere l’emotività dei sentimenti umani e il rifiuto delle tradizioni accademiche si traduce in
una pittura essenziale, tendente alla deformazione e caratterizzata da colori accesi, intensi e antinaturalistici.
In Francia e in Germania si distinguono due correnti pittoriche: i Fauves e Die Brücke.
L’Espressionismo tedesco, in particolare, è un fenomeno della cultura estetica estremamente composito e
sfaccettato che si manifesta in molteplici ambiti: pittura e grafica, scultura e architettura, ma anche poesia,
cinema, musica, teatro e scenografia. Abbiamo visto come la pittura impressionista si proponeva la
rappresentazione della realtà oggettiva impressa, fissata nella coscienza dell’artista (secondo una astratta
direzione del moto dall’esterno all’interno); l’Espressionismo, proseguendo nella metafora, rappresenta il
movimento opposto: dall’animo dell’artista verso la realtà esteriore con una rappresentazione immediata di
emozioni e stati d’animo soggettivi che diventano al contempo drammatiche testimonianze di una realtà,
quella tedesca dei primi decenni del Novecento, particolarmente complessa e difficile.
Se il Realismo di Courbet aveva cercato , di ridimensionare la soggettività dell’artista, L’Espressionismo
tedesco tende al contrario a enfatizzarla. In altre parole, quella che per un pittore realista è solo una vecchia
casa di campagna, con gli intonaci scrostati, per un Espressionista può diventare un volto deforme, nel quale
l’intonaco si fa pelle rugosa. (Da Il Cricco Di Teodoro, Itinerario nell’arte,Vol. 3, Zanichelli)
In ambito figurativo, esso ebbe le sue premesse nell’opera di pittori come E. Munch, J Ensor, V. Van Gogh,
P. Gauguin.
Quella espressionista è una pittura anticlassica, connotata da atmosfere cupe, manifestazione di un dramma
esistenziale che ha in Munch il maggior punto di riferimento. La Germania, sottoposta a un rapido sviluppo
industriale, era interessata fin dall’Ottocento da squilibri sociali e tensioni politiche; il governo di Guglielmo
II, promotore di una politica a favore delle classi militari e nobiliari, esercitava un controllo dispotico sulla
popolazione attraverso un’organizzazione dello Stato centralizzata e burocratizzata. Diversamente dalla
Francia, la Germania si caratterizzava per il policentrismo culturale, con Berlino, Monaco e Dresda a capo di
gruppi di ribellione intellettuale e artistica.
Nel 1905 nasce a Dresda, con un programma ben definito e un intento di polemica sociale, il gruppo
artistico Die Brücke (Il ponte), il cui maggior esponente è Ernst Kirchner (1880-1938). Gli artisti del gruppo
(E. Nolde, O. Müller, K. Schmidt-Rottluff e E. Heckel) aspirano a recuperare la forza espressiva dell’arte
primitiva attraverso una decisa semplificazione delle forme, che sono definite da tratti spigolosi e marcati e
da violenti contrasti cromatici. Il nome del gruppo citava un passo di Così parlò Zarathustra del filosofo
Friedrich Nietzsche: nel ponte si riconosceva l’aspirazione a un futuro cambiamento, la volontà di rivolta
contro princìpi e valori obsoleti, nella società come nell’arte.
L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, un cavo al di sopra di un abisso. (…) La grandezza
dell’uomo è di essere un ponte e non una meta: quel che si può amare dell’uomo è che egli è una transizione e
un tramonto. (…) Un veggente, un volente, un creatore, un avvenire stesso e un ponte sull’avvenire – e, ahimè!
ancora, in un certo senso, uno storpio su quel ponte: tutto ciò è Zarathustra.
Gli artisti espressionisti denunciarono la mancanza di valori spirituali della società contemporanea e
rappresentarono la sofferenza esistenziale dell’uomo moderno. L’espressionismo tedesco unisce alla libertà
antinaturalistica del colore (questa, caratteristica in comune con i Fauves) la rielaborazione di elementi che
derivano dalla scultura africana e dall’arte gotica, che gli artisti tedeschi ripropongono mettendosi alla prova
nella xilografia e nella scultura lignea. Peculiare è la deformazione espressionista della realtà mediante l’uso di
colori forti e innaturali e di un segno incisivo, esasperando, in tal modo, il dato emozionale. Una realtà che
non è più necessariamente «bella» secondo i canoni classici, ma è interpretazione di valori soggettivi.
E. Kirchner, Cinque donne per la strada, 1913. Olio su tela
Le cinque donne, forse prostitute, e l'ambiente in cui vivono vengono proposte attraverso colori acidi e
stridenti, come il giallo acido e il blu scuro, ad esprimere la sofferenza dell'uomo moderno. Il quadro
appartiene al periodo berlinese di Kirchner, nel quale le pennellate e la struttura delle opere tendono a farsi
ancora più violente e ad avvicinarsi all'acutezza formale dell'architettura gotica. L'ambientazione urbana è
data per accenni ai margini della superficie (una ruota di automobile in basso a sinistra, un palazzo
d'abitazione a destra), ma tende ad imporsi per lo sfondo dipinto in verde acido che tende ad inglobare le
esili figure, rigide e inespressive. I valori della tradizione pittorica europea sono invertiti. In questo quadro
l'artista vuole far apparire queste donne come uccellacci perché si prostituiscono solo per diventare ancora
più ricche. Nessuna delle donne che camminano si rende conto delle altre e sembra che si muovano da sole.
E. Kirchner, Scena di strada a Berlino, 1913. Olio su tela. Berlino, Brücke-Museum
Fa parte di una serie di tele che Kirchner dipinse tra il 1913 e il 1915, le cosiddette scene di strada,
ambientate, per l'appunto, nel centro della vita notturna berlinese. Le scene di strada segnano per il pittore
tedesco la via verso una pittura più emotivamente carica e drammatica. Ne è un esempio Scena di strada
berlinese; il ricorso al primitivismo è qui quanto più evidente, in quanto non è solo formale e cromatico;
l'artista infatti, nel rappresentare i volti delle due prostitute, che nelle scene di strada sono spesso presenti, e
dell'uomo a destra, richiama le maschere africane che proprio ai primi del Novecento iniziano ad essere
esposte nei musei, iniziando ad essere considerate come vere e proprie opere d'arte. Oltre a voler essere una
critica nei confronti della società borghese dell'epoca, quest'opera è servita anche a sviluppare il linguaggio
pittorico dell'artista sempre più vicino al concetto di pittura "libera" dai tecnicismi della pittura accademica,
dal quale il gruppo Die Brücke, ma vale in generale per tutti gli espressionisti, prese le distanze. Altro
traguardo importante che raggiunge Kirchner è la rappresentazione dinamica e apparentemente rapida della
composizione, quasi a voler sottolineare la frenesia della vita cittadina, avvicinandolo così anche ai futuristi,
che operarono in quel periodo. Scomparvero dai quadri le illusioni della prospettiva e il chiaroscuro per
modellare i volumi; venne messo in crisi il concetto di armonia. La «provocazione stilistica» degli artisti era
coerente con la loro volontà di polemica sociale.

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