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LA MUSICA NEI PRIMI TRENT’ANNI DEL XX SECOLO

Introduzione

Il quadro socio-culturale che si delinea fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo è un interessante
mosaico di fenomeni: affermazione dell’economia fondata sulla produzione industriale,
espansionismo coloniale, nazionalismi e razzismi, trionfo della borghesia e formazione di un vasto e
sfruttato sottoproletariato, inurbamento massiccio, innovazione tecnologica e bellica, ecc…
Le varie esposizioni internazionali, utilizzate come vetrina delle meraviglie della produzione
industriale e dunque dell’avanzamento economico dei paesi, permettevano la diffusione di un certo
gusto per l’esotismo, inteso sia come curiosità verso mondi culturali diversi sia come sottintesa
affermazione della superiorità del mondo bianco occidentale.
In questo periodo, inoltre, cominciò ad affermazione il concetto di “massa”: concettualmente opposta
all’individualismo eroico, talvolta elitario, talaltra intimistico, tipico della poetica romantica, la massa
diventa un corpo vivente, quotidianamente esperito soprattutto nelle grandi città, un corpo da
condizionare e sottomettere (nell’ottica del capitalismo liberista) o da emancipare e rendere padrone
del potere politico (nell’ottica delle nascenti correnti politiche di stampo socialista e delle
organizzazioni sindacali).
Le tensioni dominanti in questo periodo sono pertanto di due tipi, strettamente correlate: da un lato
la tensione politico-commerciali fra stati, soprattutto quelli con mire imperialistiche o con
rivendicazioni identitarie; dall’altro la nascente minaccia di sommovimenti sociali, a causa
dell’incontrollata crescita del proletariato impiegato nelle industrie, inurbato e mantenuto pressoché
ovunque lontano dal potere politico ed economico.
Questa serie di violente contraddizioni genera negli intellettuali reazioni disparate: all’ottimismo
positivista si oppone un inarrestabile senso di declino, l’esaltazione della violenza irrazionale, la
relativizzazione dei valori, la glorificazione dell’individualità contro l’uniformità della massa,
l’opposizione tra la logicità scientifica e l’intuizione irrazionale. Senza dimenticare che, in questi
stessi anni, prende prepotentemente piede la psicoanalisi.
Alcuni musicisti sono pienamente consapevoli delle violente trasformazioni di questi anni e le loro
creazioni cercano nuovi linguaggi per poter esprimere nuove idee. In particolare, tra coloro che
sentono con maggiore forza il processo di sradicamento e di emarginazione rispetto ad una società in
inarrestabile trasformazione, emergono atteggiamenti artistici di voluta e consapevole rottura, che
possono essere complessivamente annoverati fra le “avanguardie”. Il comune denominatore di tutte
queste avanguardie risiede in un rinnovamento del linguaggio musicale, reso necessario da un ormai
incrinato rapporto fra artista e società, fra artista e storia.
Dal punto di vista storico, dunque, la modernità musicale consiste nell’uscita dall’estetica e dalle
tecniche del Romanticismo, dalla sua fiduciosa concezione dell’arte come espressione
dell’individualità, dell’idilliaca fusione fra l’interiorità e la natura, dal suo eroismo, dal suo rifiuto
della prosaicità. In tal senso, l’estetica simbolista era ancora una derivazione di quella romantica,
perché il simbolo è veicolo di accesso ad una realtà ulteriore, metafisica, contrapposta a quella,
inaccettabile, della quotidianità. Nell’estetica simbolista la musica, in virtù della sua non-
referenzialità, è lo strumento principe d’indagine dell’ineffabile, di ciò che la parola non può
afferrare. Nel simbolismo permane, pertanto, un rifiuto della realtà e una non accettazione della
modernità.
La modernità musicale si fa iniziare con Debussy, il quale ha rappresentato un ponte fra l’estetica
simbolista e l’estetica modernista, fondata sul confronto con il mondo, con la sua prosaicità, con i
contrasti che esso genera.
Negli anni della Prima guerra mondiale, Debussy abbandonò l’estetica vaporosa del passato per
esprimere l’asprezza e la dissonanza del periodo; dal punto di vista linguistico, egli è stato il primo
ad utilizzare scale estranee al linguaggio musicale occidentale (come ad esempio la scala esatonale
per toni interi). Questo ampliamento linguistico portò con sé un’apertura del tutto nuova, dal punto

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di vista della poetica musicale: da un’idea lineare di sviluppo (tipica del linguaggio classico e
romantico e delle sue forme) a un’idea di tempo circolare, dalla direzione incerta, oscillante. Alla
linearità dello sviluppo Debussy contrappose la circolarità ritornante dell’arabesco.
Altro aspetto tipico delle prime esperienze di musica moderna del primo Novecento fu quello del
confronto con la realtà, per lo più urbana, dell’industria, della velocità, del progresso tecnologico,
della massa, del consumo e della pubblicità. In questo senso si distingue, più sul piano teorico che su
quello della produzione, l’avanguardia italiana del Futurismo promossa da Marinetti. Ma anche in
Francia, pur senza l’apparato teorico che Marinetti aveva messo in piedi, il caotico mondo
novecentesco trovò la sua rappresentazione musicale, ispirando suoni e timbri prima inauditi. La
Valse di Ravel, in questo senso, è esemplare, poiché innesta su una consolante e talvolta frivola forma
di consumo (il valzer), il concetto tutto moderno di caos, di rumore, e l’angosciante deflagrazione
bellica.
Tipico della musica francese di inizio Novecento è anche l’apertura a generi musicali di derivazione
popolare come il jazz, che costituirà un serbatoio formidabile cui molti compositori (Debussy, Ravel,
Poulenc ma anche Stravinsky) attingeranno, per dar vita a innovative contaminazioni.
Negli stessi anni di queste ricerche parigine, a Vienna (che con Parigi aveva pochi contatti) si sviluppò
una modernità parallela, quella della cosiddetta Seconda scuola viennese. Anche a Berlino si
produssero, in continuità con l’ambiente austriaco, ricerche musicali volte a disegnare una nuova
modernità musicale.
In questo senso risulta utile un inquadramento storiografico di tipo geografico, che dia conto, in
maniera parallela, delle diverse vie sperimentate nei primi trent’anni del XX secolo per emancipare
definitivamente la musica dagli ultimi, monumentali, esiti del Romanticismo musicale (il cosiddetto
post-wagnerismo). Tale inquadramento geografico può, con un certo grado di approssimazione,
contrapporre la via francese (cui si legano in parte esperienze italiane e russe) a quella austro-tedesca.
A queste due strade si deve necessariamente aggiungere, almeno dal 1917 in poi, un terzo polo
geografico parzialmente a sé stante, quello della Russia rivoluzionaria.

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DALL’INIZIO DEL SECOLO ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE

LA VIA FRANCESE: ironia, modernità, contaminazione

Il contesto musicale dominante, nella Parigi dell’inizio del XX secolo, era animato dalle figure di
Saint-Saëns, Franck, Chabrier, Vincent-D’Indy, Fauré. Il fascino del Romanticismo tedesco e,
soprattutto, di Wagner convivevano con la riscoperta, ad esso nazionalisticamente contrapposta,
dell’elegante Settecento francese.
In questo contesto si innesta la produzione, complessa e dalle molteplici interpretazioni, di Debussy
(che muore nel 1918), il quale opera delle scelte programmatiche che stilisticamente aprono alcune
delle strade percorse nel primo Novecento. La sua produzione è infatti un ponte fra l’estetica
simbolista tardoromantica e la nuova modernità: l’estetica sognante, nebulosa, misteriosa,
aristocratica e decorativa delle sue linee melodiche e delle sue armonie ambigue si coniuga alla ricerca
rigorosa sulle strutture, all’allentamento dei percorsi armonici superando il cromatismo wagneriano,
all’apertura degli schemi ritmici, al ricorso a nuovi sistemi scalari, a una nuova concezione del tempo;
nelle composizioni degli ultimi anni la sua ricerca, inoltre, si indirizza verso sonorità più asciutte,
ritmi frastagliati e timbri più definiti. Le sue innovazioni, tra l’altro, si incontrano spesso con quelle,
sconvolgenti, portate a Parigi da Stravinsky, attraverso i celeberrimi Ballets Russes.
È proprio sulle ultime composizioni novecentesche di Debussy che occorre soffermarsi per provare
a delineare quali percorsi il compositore aveva intrapreso (e magari avrebbe ulteriormente sviluppato
se non fosse venuto a mancare a causa di un tumore) per superare il Simbolismo. Questo superamento
avviene attraverso un radicale ripensamento dei timbri (da pastosi e soffusi ad aguzzi e taglienti),
attraverso una nuova vitalità ritmica (attinta tanto dal Settecento clavicembalistico francese -Suite
bergamasque, Pour le piano, Masque, Petite Suite- quanto dal suggestivo mondo folklorico spagnolo-
Image-), attraverso la contaminazione dei livelli stilistici con l’utilizzo di cake-walk e ragtime,
attraverso le suggestioni arcaizzanti, asciutte e iconiche dell’antichità greca (Six epigraphes antiques)
o dell’oriente (Estampes), tramite il riferimento al mondo dell’infanzia (Boite à joujoux e Children’s
Corner). Summa pianistica di queste diverse linee di ricerca sono i due libri di preludi (1909-1913),
serie di 24 capolavori dove, attraverso stili e atmosfere diverse, Debussy inventa il pianoforte
moderno, estraendo timbri e ritmi nuovi dal più classico degli strumenti.
Tra le ultime composizione di Debussy c’è il balletto Jeux (1912), scritto per Diaghilev, che
rappresenta un brano di avanguardia, poiché è totalmente antiromantico: il soggetto è una partita di
tennis, dalla trama inconsistente. Già con il Pelleas e Melisande Debussy aveva esplorato le
potenzialità musicali di testi senza trama, fatti solo di istanti privi di sviluppo, di immagini fugaci, di
simboli misteriosi. Tuttavia in Jeux compare un tasso di prosaicità e di frivolezza che sembra
anticipare alcuni aspetti delle correnti parigine post-belliche, come quelle dei Six, nonché le solitarie
e bizzarre ideazioni di Satie. Il balletto utilizza gli stessi criteri compositivi del Petruska di Stravinsky
(di un anno precedente) e la sua prima messa in scena, nel maggio del 1913, ha preceduto di sole due
settimane quella, memorabile, del Sacre. La forma a finestre non utilizza blocchi canonici di 4/8
battute e non prevede la tecnica della variazione, né tantomeno quella dello sviluppo tematico; in
questo modo, Debussy rinuncia alle tecniche compositive di base della musica fino ad allora
utilizzate.
Ancora posteriori ai preludi e al balletto Jeux sono i 12 Etudes per pianoforte, del 1915, nei quali
Debussy introduce nel pianoforte un supremo distacco ironico (sul piano tecnico e stilistico, nonché
concettuale) che chiude definitivamente, nella sua produzione, la prospettiva romantica della musica.
Tale commiato si illumina con la dedica a Chopin: proprio come Chopin, Debussy utilizza il problema
tecnico come pure pretesto per individuare soluzioni musicali; al tempo stesso, le asprezze, i timbri,
i ritmi di Debussy segnano la fine dell’estetica chopiniana (e in generale romantica). Gli Etudes
nascono con una dichiarata finalità tecnica, enunciata dai rispettivi titoli; nonostante ciò, dal punto di
vista musicale inaugurano un’ulteriore frontiera della ricerca di Debussy; in essi, infatti, la dissonanza
si emancipa completamente dalla trama armonica, diventa elemento timbrico, perlopiù (ma non

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esclusivamente) da leggere in chiave ironica. La misura dell’ironia, infatti, è fortissima (basti pensare
al primo studio per le cinque dita, e alla sua dedica a Czerny), ma ritroviamo anche altre risorse del
pianismo debussiano, così come erano state già in parte esplorate nei preludi: il meccanismo di
ripetizione, il movimento “statico” infinito, il tocco clavicembalistico, i timbri dai colori accesi,
orientaleggianti armonie per quarte, dinamiche fortemente contrapposte, modulazioni imprevedibili,
centri tonali mobili, una infinita varietà di modi d’attacco, schemi ritmici contrastanti con la struttura
metrica (si pensi allo studio sulle ottave, con i suoi mirabolanti spostamenti d’accento, o allo studio
per gli accordi), il rifiuto di qualunque dispiegamento melodico.
Nonostante le grandi innovazioni intraprese dall’ultimo Debussy, è innegabile che il grande nome
della modernità francese del primo Novecento è un nome russo, quello di Igor Stravinsky. Infatti, il
grande “trauma” della musica francese, dal quale inizia la moltitudine di sperimentazioni (e dei
capolavori) di questi anni, è indubbiamente rappresentato dal Sacre du Printemps.
Nella sua Poetica della Musica, Stravinsky esprime la convinzione che la musica d’arte sia frutto
dell’intelletto e non del sentimento, e quindi che essa sia creazione di forme e non espressione di
contenuti. Questa impostazione concettuale e formalistica è quanto di più lontano si possa
immaginare dall’estetica romantico-simbolista: nel Romanticismo la musica era concepita come
espressione della personalità dell’autore, della sua interiorità; per Stravinsky l’aspetto interessante
della musica non risiede nell’espressione ma nella forma determinata.
Stravinsky non si ritiene un rivoluzionario, perché la rivoluzione è caos indistinto, privo di ordine.
Tuttavia Stravinsky è anche consapevole che l’idea di cercare sempre un ordine può sfociare
nell’accademismo, cioè nell’utilizzo acritico delle regole che si esaurisce nella loro stessa
applicazione. L’idea di Stravinsky è che siano le opere d’arte ad essere individuali, non i compositori.
Questa idea rende ragione anche della difficoltà, per gli storiografi, di incasellare lo stile di Stravinsky
in un’etichetta definita: egli ha, nel corso della sua lunga vita, attinto alle risorse più diverse, affinché
ogni sua opera avesse una sua precisa individualità. In Italia un percorso simile è stato battuto da
Alfredo Casella, che si considerava lo Stravinsky italiano. Lo stesso Casella difende Stravinsky dalle
accuse di incoerenza e trasformismo: al di là dell’individualità dei suoi diversi lavori, per Casella il
tema di fondo della produzione stravinskiana è lo scatenamento controllato dell’energia ritmica, data
dalla dissociazione tra metro regolare e ritmo irregolare.
La prodizione di Stravinsky si dispiega tra il 1910, anno del Oiseau de feu, e gli anni Sessanta, con
le ultime composizioni dodecafoniche. In questo lungo lasso di tempo egli mette in pratica tanti e
grandi mutamenti di stile. Tale versatilità dimostra la capacità di Stravinsky di trovarsi a suo agio nei
più diversi contesti e, nonostante questa varietà, è possibile rintracciare delle costanti nella sua
produzione, come la deformazione parodistica dei timbri, il politonalismo in funzione timbrica e la
contaminazione fra i registri stilistici diversi.
Il Sacre du Printemps andò in scena, per la compagnia dei Ballet Russes di Diaghilev, nel maggio del
1913. Questo balletto tellurico, incentrato sulla rappresentazione dei riti della Russia pagana per la
primavera, non ha nulla di quella che si suole definire musica a programma. I vari quadri che
compongono il balletto non hanno, dal punto di vista musicale, una funzione descrittiva. La violenza
della primavera di Stravinsky sta nelle melodie frante, negli urti politonali, nei ritmi incessantemente
cangianti: tutto si risolve in accuratissime scelte formali.
Sul piano melodico, le melodie di Stravinsky non sono sottoposte a sviluppo (strumento cardine della
musica sinfonica), né egli fa utilizzo di leitmotive. L’utilizzo di temi popolari russi (strada già percorsa
da molti altri compositori prima di lui per rinnovare il bagaglio melodico e talvolta anche le strutture
scalari) diventa per Stravinsky un mero pretesto per sottoporre ogni materiale a una costruzione
estremamente calcolata che non si abbandona mai all’effusione lirica. La poliritmia (con i continui
cambi di tempo) e lo scollamento fra ritmo e metro fanno del ritmo l’elemento più dirompente del
Sacre. Dal punto di vista armonico, poi, l’utilizzo massiccio della sovrapposizione di tonalità distanti
(politonalità) conferisce una fortissima tensione alle sonorità, agendo anche sull’aspetto timbrico del
brano.

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Stravinsky, con il Sacre du Printemps, ha lanciato su Parigi una vera e propria bomba: ogni
compositore dopo di lui ha dovuto fare i conti, chi rifiutandolo, chi abbracciandone le innovazioni,
con la sua musica.
Tra i più accesi estimatori di Stravinsky troviamo, proprio a Parigi, l’italiano Alfredo Casella. Egli,
era stato, nei suoi anni parigini, amico di Ravel e organizzatore dei concerti Lamoreux, dove aveva
invitato Mahler per eseguire le sue sinfonie.
Nel 1913, poco prima del suo rientro in Italia, Casella ha iniziato a scrivere un ciclo di quattro liriche
su poesie di Tagore, poeta indiano, “Adieux à la vie”; queste poesie sono meditazioni sulla vita, la
morte e la reincarnazione. I primi due pezzi sono stati composti prima dello scoppio della guerra e
del rientro in Italia. La musica di Casella è politonale e fondata sul principio della ripetizione di un
battito costante che simboleggia la morte imminente. La sua musica immette nel panorama musicale
italiano gli scontri dissonanti imparati dalla lezione di Stravinsky. Questo fa di Casella l’iniziatore
della modernità musicale in Italia, preceduto solo dalle innovazioni (più teoriche che pratiche)
introdotte dal movimento futurista.
Il Futurismo nacque ufficialmente nel 1909, anno in cui Filippo Tommaso Marinetti (ideatore e anima
del movimento) pubblicò a Parigi, su Le Figaro, il Manifesto Futurista. A questa prima pubblicazione
seguirono molti altri manifesti “tecnici” relativi alle varie arti (pittura, letteratura e anche musica). Il
proliferare di questi manifesti rende ragione dell’impostazione estremamente programmatica e
concettuale del Futurismo cui, soprattutto in campo musicale, fanno da contraltare delle produzioni
di scarso rilievo artistico (al contrario di quanto avvenuto invece in campo pittorico). Il Futurismo è
stato il primo movimento italiano che si è posto coscientemente il problema del confronto fra la
produzione artistica e la modernità; in campo musicale questo significava fare apertamente i conti
con i nuovi mezzi di riproduzione e diffusione del suono (radio e incisioni discografiche) e con un
nuovo paesaggio sonoro, fatto di macchine, industrie, metropoli e aerei. Fino ad allora il boom
tecnologico non aveva toccato il mondo dell’arte, non era stato utilizzato come materiale
nell’orizzonte poetico del compositore.
I nomi del futurismo musicale sono quelli di Pratella (che era musicista) e di Russolo (che era un
ingegnere, l’inventore del cosiddetto “intonarumori”). Le idee futuriste, al di là delle realizzazioni
pratiche, sono di positiva accettazione della modernità e aprono la coscienza dell’artista al mondo
reale e contemporaneo. Pratella ha scritto un’opera che si intitola Aviatore Dro, basata sulla storia di
un dandy annoiato che si improvvisa aviatore, perdendo la vita in questa impresa: l’idea è moderna
ma il linguaggio del libretto è impregnato di decadentismo dannunziano mentre la musica è una
derivazione del melodramma verista italiano, dalla cantabilità semplice. Unica innovazione consiste
nell’utilizzo dell’intonarumori per imitare il rombo dell’aereo (quindi l’aspetto rumoristico non
risulta di fatto integrato nel tessuto musicale, rivestendo una funzione puramente descrittiva).
Tra le prove di teatro musicale sperimentale dei futuristi vanno citati anche i Balli plastici, azione
mimico musicale per un teatro di marionette, del 1917. La marionetta, i pagliacci e in generale le
maschere sono un tema ricorrente in questi anni angosciosi che precedono la Prima guerra mondiale:
le tensioni internazionali e quelle sociali, la crescente alienazione dell’individuo, il difficile rapporto
con la massa e il rapido diffondersi delle inquietanti scoperte della psicoanalisi fanno della maschera
un simbolo carico di senso che interessa trasversalmente le correnti artistiche, dall’espressionismo (si
pensi al Pierrot Lunaire e alle maschere di Ensor), ai futuristi; nella letteratura italiana Pirandello
scrisse immortali capolavori attorno al concetto di maschera. Altre maschere, quelle africane, hanno
avuto grande influenza sulla nascita del cubismo. I Balli plastici furono ideati dal pittore futurista
Fortunato Depero mentre le musiche erano di vari compositori, tra i quali Casella (una trascrizione
dei suoi Pupazzetti op.27 per pianoforte a 4 mani), Malipiero e Bartók (una trascrizione non
autorizzata di Casella della bartokiana Danza dell’orso). Il teatro plastico di Depero è stato una prova,
di scarso successo, di teatro sperimentale, senza trama e senza attori, ricco di luci, colori e di musica
d’avanguardia.

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LA VIA TEDESCA: l’urlo espressionista

Se per la Francia l’anno spartiacque è il 1913, anno del Sacre, per l’area tedesca (nella quale
confluiscono Germania e Austria) l’anno cruciale è il 1909, l’anno di Erwartung di Schönberg.
Si tratta di un’opera breve, esemplificativa della musica espressionista, nella quale non è riconoscibile
un centro tonale. Schönberg avversava la definizione di “atonale”, in quanto per lui si trattava di
un’insensata etichetta equivalente a “privo di suono”. Al di là della terminologia, questo stile
compositivo prevede l’assenza di un centro tonale di riferimento: la concatenazione dei suoni e degli
accordi non segue le ben note dinamiche di tensione e rilassamento, in quanto non esiste un ambito
tonale che possa considerarsi di “riposo”. In questo senso l’atonalismo porta alle estreme
conseguenze, ribaltandola, l’armonia wagneriana, che fondava la sua infinita tensione sulla continua
elusione di un momento di appoggio su un centro tonale che, tuttavia, rimaneva sempre
implicitamente stabilito. Con l’atonalismo queste peregrinazioni armoniche si emancipano
definitivamente da un punto di appoggio.
Erwartung è un’opera del 1909 dalla trama simbolica, incentrata sull’incubo notturno di una donna
che, ai margini della foresta, cerca il suo amante, temendo che costui si incontri con la rivale, e che
finisce per rinvenire il cadavere dell’amato. I temi sono quelli della paura (della foresta e del proprio
destino) e dell’incubo, realizzati vocalmente con un’ardita sequenza di urla. Il monodramma,
incentrato su un solo personaggio, consiste nell’espressione angosciosa delle paure più inconfessabili
della protagonista; in questo senso, la trama è, dal punto di vista narrativo, del tutto inconsistente,
mentre acquista significato sul piano simbolico e psicologico.
Più o meno contemporaneamente a Erwartung, Schönberg ha musicato, per voce e pianoforte, anche
un ciclo di quindici lieder su testi di Stephan George, poeta simbolista ed estetizzante. In queste
liriche, la pronuncia della parola è molto chiara. L’ambientazione orientale, a Babilonia, era stata
sicuramente suggerita dalla grande impressione che suscitò il ritrovamento e la ricostruzione a
Berlino della monumentale porta di Ishtar, presso il Pergamon Museum. I testi poetici di George sono
carichi di immagini e tracciano una sorta di storia d’amore: un giovane desidera ardentemente vedere
la regina di Babilonia, che non ha mai visto ma di cui si è perdutamente innamorato. Egli penetra nei
giardini segreti di Babilonia, incontra la bellissima principessa e i due si amano appassionatamente,
sotto la minaccia di essere scoperti. Poi arriva l’autunno e con esso la fine dell’amore. I testi sono
molto raffinati e molto oscuri. La scrittura del pianoforte presenta una serie di figure continuamente
deformate, con intervalli ampi e laceranti e ritmi sempre cangianti. I rimandi alla tonalità sono
deformati, grazie all’utilizzo di settime e di none che non risolvono.
Dal punto di vista poetico, l’espressionismo musicale è in sintonia con quello pittorico (lo stesso
Schönberg era anche pittore e curava le scene delle sue opere), incentrato sui temi dell’incubo,
dell’angoscia, dell’oscurità dell’inconscio, della maschera, della deformazione della realtà. L’arte
espressionista attinge alle scoperte della psicoanalisi per dare voce al subconscio, alle nevrosi, alla
vergogna.
Nel 1912 Schönberg scrisse il Pierrot Lunaire, una serie di ventuno liriche surrealiste incentrate sulla
figura di Pierrot, maschera di amatore vampiresco e assassino, che dialoga con una luna espressionista
e insanguinata. A differenza della prospettiva romantica, la luna espressionista è una proiezione del
lato oscuro e malvagio dell’uomo: al sogno romantico si oppone l’incubo espressionista. L’organico
è costituito da un piccolo ensemble cameristico e voce femminile. La caratteristica innovativa del
Pierrot Lunaire sta proprio nel trattamento della voce, impegnata nello Sprachgesang, vale a dire un
parlato intonato, a metà strada fra il recitativo e il canto spiegato.
Die gluckliche Hand, opera di cui Schönberg ha scritto anche il libretto, è del 1913. L’opera ha una
struttura a trama circolare, poiché inizia e finisce con il protagonista (l’unico cantante) accovacciato
mentre un mostro, immagine della nevrosi novecentesca, gli rode la nuca. Quest’uomo è uno
sconfitto, un fallito, che non ha stima di sé. La sua è una vicenda di amore fedifrago, mimato da una
donna e un uomo elegantemente vestito. Contrariamente a Erwartung, l’azione è ricca di avvenimenti
e di cambi di scena. Il coro che accompagna l’azione è misto e utilizza una condotta vocale fatta di

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canto e Sprachgesang sovrapposti. La parola chiave dell’intero, breve, dramma è arme (povero), la
stessa parola chiave presente nel Wozzeck di Berg. In effetti entrambe le opere sono incentrate su un
protagonista sconfitto, un inetto (in senso sveviano). A differenza dei personaggi di Svevo, però,
l’espressionismo tedesco focalizza molto l’attenzione sull’aspetto più angoscioso e oscuro della
nevrosi. Schöberg curò ogni aspetto di questo dramma, dalle luci alle scene fino alle note di regia,
affinché ogni dettaglio contribuisse alla significazione simbolica. La musica esprime i differenti stati
d’animo con una sovrapposizione di linee melodiche che cozzano. L’orchestra è molto estesa, il che
rende difficile sentire distintamente il testo cantato; Schönberg evidentemente considerava l’insieme
più importante del dettaglio: è la sinergia di luci, scene, musica, testo e recitazione a comunicare allo
spettatore il complesso e oscuro mondo interiore del protagonista.
Il capolavoro operistico della stagione espressionista è rappresentato dal Wozzeck di Berg, opera lirica
in tre atti composta tra il 1914 e il 1922.
La trama è incentrata sul personaggio di Wozzeck, un soldato che ha una relazione non matrimoniale
e un figlio con Marie, e che sente su di sé il peso dell’emarginazione sociale. La sua inettitudine, la
sua frustrazione e il senso di fallimento, rafforzati dalle umiliazioni subìte dagli altri personaggi e
dalla stessa Marie che lo tradisce, trascinano progressivamente Wozzeck verso una psicosi furiosa e
allucinata, che culmina nell’uccisione di Marie e, infine, con il suicidio.
La scrittura musicale è atonale, polifonica e ricca di urti dissonanti in funzione espressiva. L’effetto
è di grande angoscia, un’angoscia costretta nelle forme classiche della suite, delle variazioni, della
forma sonata, dell’invenzione, del rondò. L’utilizzo delle forme classiche permette a Berg di gestire
la materia sonora espressionisticamente deformata, anche se le strutture formali non risultano
immediatamente intellegibili all’ascolto: esse rappresentano un contraltare razionale al delirio del
protagonista. Il Wozzeck ha avuto una lunga fortuna ed è stato molto rappresentato nei teatri tedeschi.
Schönberg, Berg e Webern erano ammiratori di Beethoven, di Brahms e di Mahler, ed erano
perfettamente consapevoli dell’eredità ottocentesca e wagneriana. Il peso di questo passato, anche
recente, era grande e attraente; la ricerca di una voce individuale e soprattutto coerente con la
modernità, per questi compositori, ha dovuto necessariamente passare attraverso un’azione
dirompente. L’atonalità espressionista ha rappresentato la prima via tedesca di uscita dall’Ottocento,
attraverso l’incrinatura dei suoi capisaldi: la melodia, sostituita da linee con grandi salti e dal
puntillismo; e la saldezza armonica, sostituita dall’assenza di un centro tonale. Anche timbricamente
l’espressionismo, soprattutto in ambito vocale, ha esplorato colori nuovi e minacciosi, ai limiti
dell’urlo.

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TRA LE DUE GUERRE: ANNI VENTI E TRENTA

La devastazione bellica ha interessato, dal punto di vista artistico, sia i vincitori che i vinti,
determinando in tutta Europa un generale ritorno all’ordine, una diffusa esigenza di nuova razionalità
come antidoto alle violente forze irrazionali che avevano condotto alla guerra. Il superamento dello
shock e del cordoglio si trasforma in una generale ricerca di ricostruzione musicale, che soprattutto
in ambito francese e italiano, abbandona le forme dell’avanguardia e si configura come un recupero
del passato (neoclassicismo).

LA VIA FRANCESE: neoclassicismo e rumore

Il neoclassicismo di Stravinsky

Negli anni Venti il generale “richiamo all’ordine” in Europa fa emergere un’arte che, pur
abbandonando le forme di rottura tipiche dell’avanguardia, continua il processo di distacco
dall’eredità romantica, abbracciando una prospettiva di misura e di razionalità che è stata definita
neoclassica. Per neoclassico si intende un equilibrio tra espressione e simmetria, ordine e misura, il
cui rovescio della medaglia è l’accademismo tradizionalista.
Nelle arti figurative l’atteggiamento razionalista portò alla creazione di forme nuove e ordinate che
si affidavano all’uso della geometria all’interno della raffigurazione pittorica. L’estrazione
dell’essenza geometrica delle forme dalla realtà ha dato vita alle correnti artistiche dell’astrattismo e
della pittura metafisica.
Anche in questo periodo, in musica, Stravinsky ha fatto da apripista: dopo aver scatenato le forze
telluriche con il Sacre e la sua sconfinata orchestra, nel dopoguerra si dedica alla scrittura di forme
raccolte, classiche o addirittura barocche, come la Sonata per pianoforte che, nella sua scrittura, si
rifà al modello delle invenzioni a due voci per clavicembalo.
In questa astrazione dalla natura il Settecento, infatti, diventa un modello di sentimento filtrato in
forme pure, razionali.
La nascita del neoclassicismo si fa risalire al 1918, anno in cui Diaghilev invitò Stravinsky a scrivere
un balletto riorchestrando musiche rintracciate dal noto impresario russo nella biblioteca del
conservatorio di Napoli e attribuite a Pergolesi. Sebbene oggi sappiamo che queste musiche non sono
di Pergolesi ma di altri autori del Settecento napoletano, quel che conta è che da questa operazione
nacque Pulcinella (1919-1920). Nel Pulcinella il rapporto che Stravinsky instaura con lo pseudo-
Pergolesi sembra di divertita mimetizzazione. Stravinsky dà l’impressione di non voler imporre la
sua mano su quella del compositore settecentesco ma la sua presenza, seppur sotterranea, è netta e
lasciando del tutto intatto il piano melodico, opera soprattutto sul piano timbrico, ritmico e armonico.
Sul piano timbrico l’intervento di Stravinsky tende a utilizzare in maniera insolita gli strumenti, come
ad esempio gli archi in funzione di accompagnamento ritmico. Nel ritmo la modernità emerge
interrompendo a tratti la regolarità metrica barocca con improvvisi sforzando, sincopi, ostinati e in
generale con inaspettati spostamenti d’accento. Sul versante armonico, Stravinsky rispetta quasi
sempre una logica successione tonale, incorporando qualche volta negli accordi undicesime e
tredicesime in funzione timbrica.
Il Pulcinella è fondamentalmente una riorchestrazione di musiche preesistenti, ma da questa
esperienza Stravinsky trae spunto per inaugurare un vero percorso stilistico di tipo neoclassico. Il
neoclassicismo di Stravinsky consiste nell’utilizzo di forme e procedimenti compositivi di tipo
settecentesco, applicati a un linguaggio politonale e a procedimenti di scarto fra metro e ritmo. Ad
esempio, nella Sonate il classicismo di Stravinsky risiede soprattutto nell’utilizzo di procedimenti
costruttivi settecenteschi (la vivace invenzione a due voci del primo movimento, dove talvolta una
delle due voci si sdoppia in terze parallele), mentre sono soprattutto ritmo (accenti spostati) e armonia

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(politonalità) gli elementi di modernità; la loro interazione con una scrittura lineare e con
procedimenti costruttivi barocchi è armoniosa, dando vita a un dialogo paritetico.
Naturalmente Stravinsky non è il solo a intraprendere questo dialogo con il Settecento, né il primo;
basti pensare alla dimensione decisamente clavicembalistica di alcune scritture di Debussy (Suite
bergamasque) ma soprattutto di Ravel. In Ravel il Settecento francese rappresenta un modello di
misura, di raffinatezza e di sublime artigianato, cui attinge a piene mani nel Tombeau de Couperin
(1914-17), ma al quale aveva già attinto con lavori pre-bellici come la Sonatine. Ma mentre Ravel
non fa scuola, Stravinsky inaugura una vera e propria stagione della musica degli anni Venti, non
solo in Francia.
Il recupero del classicismo nel Novecento, infatti, ha molteplici sfaccettature anche in Italia, dove il
modello cui rifarsi è costituito soprattutto dal barocco di Vivaldi. Nel 1939 venne inaugurata per la
la Settimana senese da Casella, in occasione della quale egli fece conoscere le musiche di Vivaldi,
degli Scarlatti e del barocco veneziano. Casella stesso scrisse Scarlattiana, facendo un’operazione
simile a quella del Pulcinella: costruire su un concerto per pianoforte e orchestra su alcune sonate di
Scarlatti. L’atteggiamento che ne emerge è ottimistico e solare, e manifesta una positiva espressione
di classicità e ordine.
Oltre al neoclassicismo di Stravinsky, nella Francia degli anni Venti emerge un grande interesse
attorno al gruppo dei Six, costituito da Auric, Durey, Milhaud, Honneger, Poulenc e Tailleferre.
Si trattava di giovani compositori con vocazioni diverse (Auric ha scritto soprattutto per il cinema,
Milhaud aveva soggiornato in Sudamerica e aveva portato in Francia i ritmi brasiliani) e tutti uniti da
un grande interesse verso la musica di intrattenimento nordamericana, il jazz.
Di questo gruppo, i nomi più significativi sono quelli di Poulenc e Honneger. Poulenc fu il più
produttivo di tutti. Tra le sue composizioni, come tra quelle di Milhaud, ci sono numerose brevi
musiche in forme classiche, per piccoli organici cameristici. La struttura tematica di questi brani è
semplice e risponde a un ideale di leggerezza. Al posto dello sviluppo tematico si utilizzano brevi
intermezzi, in una versione alleggerita e di facile ascolto delle forme classiche. Jean Cocteau era il
teorico del gruppo e sosteneva che la musica dovesse avvicinarsi alle persone, alla musica di
intrattenimento. Tale strada fu percorsa, negli stessi anni, dai giovani compositori berlinesi della
Gebrauchsmusik.
Rispetto al resto del gruppo, Honneger si discostava leggermente, in virtù della sua solida formazione
musicale e della vocazione contrappuntistica, che facevano di lui un compositore “colto”. Egli scelse
la dimensione del poema sinfonico con Pacific 231, un brano strutturato per accumulo e ispirato a
una locomotiva. Inoltre scrisse alcune sinfonie e un oratorio, Roi David, pensato per un pubblico
popolare, nell’ottica di avvicinamento al pubblico più semplice condivisa con il resto del gruppo dei
Six.

Il rumore in musica

Il primo dopoguerra registra, in musica, i riflessi di un paesaggio sonoro decisamente nuovo: nelle
orecchie dei compositori e del pubblico sono ormai entrati, in maniera prepotente e indelebile, non
solo i rumori dell’industria, delle metropoli e dell’aeroplano futuristi, ma anche gli scoppi delle
bombe, il ronzio dei bombardieri, l’angoscioso lamento delle sirene antiaereo.
Questo repertorio di nuovi rumori viene progressivamente accolto nella musica, non solo sotto forma
di imitazione del rumore fatto dagli strumenti tradizionali ma anche attraverso l’utilizzo di nuovi
timbri e nuovi strumenti.
Un precedente importante era costituito da Parade, balletto composto da Satie nel 1916, nel quale
comparivano colpi di pistola, turbine, sirene e macchine da scrivere. L’idea, nata da Jean Cocteau,
raccoglieva l’eredità futurista e apriva una strada feconda, che condurrà fino alla musica concreta.
Nel 1924 apparve un interessante esperimento, il Ballet méchanique di Fernand Leger. Leger era un
pittore e disegnò le scene direttamente sulla pellicola. Ballet méchanique un film anti-realistico,
vicino agli atteggiamenti di spontaneità irriflessiva del Dada di Tzara o ai liberi accostamenti del

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Surrealismo di Breton. Si tratta di un film senza trama, tutto giocato sulla riconoscibilità, cioè sul
ritorno di alcune immagini, e sulla varietà di esse, creando di fatto una narrazione, sebbene nonsense.
La musica fu scritta da un compositore americano, George Antheil, il quale utilizzò, tra gli altri
strumenti, la sirena, strumento dal suono continuo, dall’intonazione continuamente mobile.
L’utilizzo della sirena venne proseguito da Edgar Varèse con Ionisation (1929-31). Varèse era un
ingegnere e il titolo della composizione si ispira a un fenomeno chimico. Si tratta di una sinfonia per
strumenti a percussione intonati e non (con 13 percussionisti), formazione strumentale assolutamente
atipica. Varèse riesce a produrre un discorso musicale sfruttando la contrapposizione, lungo l’arco
temporale, di elementi basilari della percezione musicale come variazione vs ricorrenza, pieno vs
vuoto. L’elemento portante della musica in epoca Romantica, cioè la melodia, è definitivamente
scomparsa. Varèse scrive una musica pre-tonica: in questo senso egli raccoglie la lezione di Bartók e
di Stravinsky, che avevano fatto del ritmo un elemento preponderante del discorso musicale, al punto
da poterne sostenere da solo il peso della narrazione.

LA VIA TEDESCA: dodecafonia e Neue Sachlichkeith

Dal 1918 al 1933, in area mitteleuropea, assistiamo all’importante stagione politica della repubblica
di Weimar, che comportò interessanti fenomeni culturali che ben presto portarono Berlino a
surclassare Vienna in quanto capitale della cultura in area germanica. La Germania usciva sconfitta
ed economicamente disastrata dal primo conflitto mondiale e questo, paradossalmente, costituì
terreno fertile per un vasto movimento culturale, incentrato sull’idea dell’intellettuale impegnato,
soprattutto negli ambienti politici di ispirazione socialista. Se da un lato continuava l’esperienza
espressionista, reinterpretata nei termini dell’angoscioso confronto tra l’individuo e la massa,
dall’altro si affermava la cosiddetta Neue Sachlichkeith (Nuova oggettività), una corrente culturale
alla ricerca di un linguaggio coerente con il nuovo mondo dominato dalle macchine e dalle masse
indistinte. Inoltre, la contiguità fra mondo accademico e mondo musicale “triviale”, ha fornito a
questa linea di ricerca musicale una nuova vitalità apportata dalla musica di consumo, la
Gebrauchsmusik, cui molti musicisti come Kurt Weill hanno attinto per dar vita a un’arte del popolo,
comprensibile, raffinata e popolare al tempo stesso, che mescola con disinvoltura contrappunto e
canzone da cabaret. In particolare, l’incontro fra musicisti come Eisler e Weill con scrittori di teatro
politico come Brecht ha permesso la nascita di lavori di teatro musicale popolare come L’opera da
tre soldi. Anche lo stesso Busoni, direttore dell’Akademie der Künste e quindi principale esponente
della musica colta, si fece promotore di un generale ritorno alla semplicità delle forme classiche pur
integrando le novità esplorate dalle avanguardie, nell’ideale nascita di una Junge Klassizität. Anche
i quotati direttori delle orchestre stabili berlinesi spaziavano, nel loro repertorio, da Beethoven a
Wagner fino a Berg e ai francesi Ravel e Stravinsky, in un’ottica di apertura alle ricerche
contemporanee.
Altro importante aspetto della musica tedesca degli anni Venti e Trenta è, sempre nell’ottica di un
orientamento verso il pubblico e verso la dimensione sociale dell’arte (si pensi anche al Bauhaus in
ambito architettonico), la vocazione didattica di molti compositori, nell’idea che attraverso la musica
si possa costruire l’educazione del pubblico. In questa direzione, il richiamo alla concretezza,
all’impegno civile e alla dimensione artigianale della creazione artistica sono i marchi distintivi delle
composizioni di Paul Hindemith, di Kurt Weill e di Hans Eisler, che contribuirono con le loro opere
alla nascita di molti lavori di musica d’uso a scopi didattici.
Anche Arnold Schönberg prese parte, anche se tangenzialmente, a questo ampio movimento culturale
e, accanto alle sue seriose composizioni dodecafoniche, ha lavorato anche a lieder da cabaret e a
un’opera teatrali di tipo popolare come Von Heute auf Morgen, dove la scrittura dodecafonica si
applica a un contenuto decisamente triviale. Tuttavia la grande innovazione di Schönberg è
soprattutto di tipo linguistico e consiste nell’invenzione del metodo di composizione con dodici suoni,
nell’ambito della cosiddetta Seconda scuola viennese.

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Schönberg e la seconda scuola di Vienna

La dodecafonia fu inventata negli anni Venti e rappresentò uno scandalo dal punto di vista linguistico,
poiché aggregava i suoni secondo leggi matematiche geometriche, creando una nuova polifonia.
Elemento cardine di questa nuova polifonia era la serie. La serie non è riconoscibile come un tema;
e, d’altro canto, la riconoscibilità non è l’obiettivo della serie. Al contrario, essa è un principio
costruttivo che si basa sul divieto di assegnare aduna nota una preminenza rispetto alle altre dodici
della scala cromatica; per ottenere tale scopo occorre che nessuna nota venga ripetuta prima che le
altre undici siano state suonate. La disposizione originaria dei dodici suoni rappresenta la serie, la
quale viene assoggettata alle trasformazioni desunte dal contrappunto rinascimentale (moto
retrogrado, inverso, retrogrado dell’inverso).
Il meccanismo dodecafonico ha definitivamente soppiantato il sistema tonale e armonico di
organizzazione dei suoni, sostituendolo con un sistema matematico. Questo metodo ha avuto una
fortuna molto lunga nel tempo: dopo la Seconda guerra mondiale, Stockhausen ha recuperato la
dodecafonia con l’obiettivo di creare una musica capace di ribellarsi alla natura dell’uomo (violenta
e sopraffattrice); la dodecafonia per Stockhausen rappresentava un sistema puro, cui egli ha sottratto
anche i residui di arbitrarietà, serializzando non solo la successione dei suoni ma anche i ritmi, le
dinamiche, i timbri, i modi di attacco del suono, inaugurando il serialismo integrale. Questo
atteggiamento che tende a controllare ogni aspetto della musica, presupponendo una grande sfiducia
nei confronti della spontaneità, è un ulteriore, estremo, distacco dal Romanticismo.
Nel primo dopoguerra, per divulgare la loro musica, Schönberg e i suoi allievi, Berg e Webern,
organizzarono dei concerti privati, durante i quali suonavano in trascrizioni pianistiche le loro
composizioni, accompagnando ogni esecuzione con una sorta di lezione, al seguito della quale il
brano veniva riproposto per dar modo di ripensarlo dopo una riflessione. In questo senso, Schönberg
aveva una grande attenzione didattica nei confronti del pubblico e riteneva che quest’ultimo andasse
pazientemente educato all’ascolto della nuova musica dodecafonica.
Quando Hitler ascese al potere, Schönberg emigrò negli Stati Uniti; nel mondo accademico
statunitense il metodo di Schönberg ebbe grande diffusione e fu studiato a fondo.
Gli allievi di Schönberg seguirono il maestro nell’utilizzo del metodo dodecafonico ma applicarono
ad esso la propria, assai diversa, personalità. Sia Berg che Webern, infatti, usarono la serie
dodecafonica da una prospettiva diversa rispetto a quella, fortemente didattica, di Schönberg.
Berg, che in gioventù aveva composto bellissimi lieder ed era ammiratore di Mahler, molto sensibile
e sentimentale, riuscì a conciliare la dodecafonia con la sua indole elegante e appassionata. I suoi
Orchesterstücke op. 3, ad esempio, sono pieni di immaginazione musicale. Berg contava molto
sull’efficacia del percorso delle figure, nel senso che tutto il rigore matematico deve manifestarsi
attraverso figure, ritmi e orchestrazioni diverse, che nella loro varierà delineano un percorso formale.
Webern, al contrario, aveva un approccio estremamente rigoroso, che tendeva a estendere il controllo
su tutti i parametri della composizione, come accade nelle sue Variazioni op. 27 In esse, Webern
utilizza un meccanismo combinatorio tra nota singola e bicordo, applicando con rigore i meccanismi
fiamminghi di trasformazione della serie (ivi compresa la diminuzione). Egli rompe senza indugio
con la continuità melodica, arrivando talvolta ad esiti di tipo puntillista: la distribuzione dei suoni in
ottave molto diverse, infatti, dà una sensazione di punti sparsi che non si uniscono in una linea
continua. E naturalmente, sul piano verticale, non ci sono accordi che tendono ad altri accordi,
realizzando anche sul piano armonico oltre che su quello melodico, la totale frammentazione del
discorso.
La dodecafonia per Schönberg non era avanguardia: la sua ricerca si poneva in continuità storica con
la tradizione musicale tedesca. Schönberg ammirava Brahms e in qualche modo sentiva che la sua
produzione musicale si poneva in continuità con quella di brahmsiana, con il suo rigore strutturale
nascosto sotto la varietà delle figure musicali.

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L’idea di fondo della musica dodecafonica consisteva nella convinzione che la composizione debba
basarsi su meccanismi esclusivamente razionali, sottratti all’arbitrio dell’istinto o del gusto. Questo
ideale di musica oggettiva non era in fondo distante dalle istanze di razionalità e rigore del generale
ritorno all’ordine che caratterizza gli anni post-bellici (con l’ironico neoclassicismo di Stravinsky, il
neoclassicismo nazionalista di Casella, il recupero delle coincise forme classiche dei Six, le levigate
forme clavicembalistiche di Ravel, il contrappunto di Hindemith).
Molto si è discusso del ritorno all’ordine post-bellico, in particolare delle diverse implicazioni che
quest’ordine ha acquisito in Stravinsky e in Schönberg. Stravinsky ha riutilizzato il passato in chiave
talvolta ironica, talvolta meno faceta, ma sempre con una grande esposizione delle strutture formali:
il formalismo di Stravisnky consiste proprio nel mettere prepotentemente in luce le strutture,
dichiarando sfacciatamente l’artificiosità dell’operazione costruttiva operata sulla scorta dei modelli
classici. In Schönberg, invece, il recupero della forma classica ha la finalità di rendere intellegibile
per il pubblico un linguaggio nuovo, quello dodecafonico, nonché di fornire a quest’ultimo uno spazio
di dispiegamento che le semplici tecniche contrappuntistiche non gli avrebbero concesso. Questa
contraddizione fra l’utilizzo di un linguaggio nuovo e il recupero di una struttura nata come
connaturata ad un linguaggio completamente diverso (quello tonale), fa sì che Schönberg tenti in tutti
i modi di occultare la forma, dando ad esempio lo stesso rilievo a quelli che, in una forma classica,
sarebbero stati il primo piano degli elementi tematici e il piano di sfondo dei ponti, delle transizioni,
delle code. In altre parole, sia Schönberg che Starvinsky recuperano le forme classiche nel periodo
post-bellico ma lo fanno con motivazioni e con esiti molto diversi fra loro.

LA VIA RUSSA: il realismo socialista

Dal punto di vista culturale e musicale la Russia zarista fu, fino al 1917, perfettamente integrata nel
panorama culturale europeo. La musica russa della fine dell’Ottocento rifletteva perfettamente il
clima culturale che si respirava a Parigi o in Italia, con il sinfonismo di Cajkovskij o quello di Rimski-
Korsakov. Anche nei primi anni del Novecento, l’Europa esercitò una forte influenza sulla cultura
russa, al punto da stimolare la nascita del futurismo russo.
Con la Rivoluzione di ottobre e fino alla instaurazione del regime staliniano, il mondo culturale russo
mantenne ancora una apertura nei confronti della cultura europea e del prorpio passato, grazie
all’azione illuminata del commissario del popolo per la cultura Lunacarskij. Dagli anni Trenta,
tuttavia, con l’affermazione del potere di Stalin, sul mondo culturale russo si abbatté una rigorosa
censura politica, e il regime si preoccupò di dettare delle linee guida in campo artistico che
convergessero nella definizione del cosiddetto “realismo socialista”. In questa prospettiva, l’arte
doveva essere popolare (cioè comprensibile), celebrativa (o meglio, propagandistica) e didascalica,
cioè volta all’educazione del popolo. Queste direttive, dal punto di vista pratico, furono utilizzate per
minacciare o emarginare tutti gli artisti che si mostravano critici nei confronti del regime di Stalin.
Dal punto di vista contenutistico, poi, servirono a alimentare una produzione di opere teatrali e
sinfoniche dai contenuti realistici, volte a celebrare il lavoro e la positiva prospettiva di felicità offerta
dal sistema sociale comunista. La qualità degli autori e anche degli interpreti di questo lungo periodo
che va dagli anni Trenta agli anni Ottanta del novecento era garantito dal buon livello del sistema
scolastico sovietico e soprattutto dall’eccellenza rappresentata dai suoi conservatori di musica.
Musicisti di indiscusso rilievo come Rostropovich, Richter, Gilels e Horovitz si sono formati nei
conservatori sovietici. Dal punto di vista della composizione, accanto ad autori e opere “di regime”,
emergono anche le personalità di autori che, con alterne vicende di accettazione o attrito rispetto al
regime, hanno prodotto autentici capolavori, come Prokofiev e Shostakovich.
Prokofiev ebbe un rapporto controverso con il regime e le sue opere furono alternamente accettate o
criticate all’interno dell’alveo del realismo socialista; in esse emerge la vocazione didattica (si pensi
al celebre Pierino e il lupo), la collaborazione col mondo del cinema (aspetto importante per

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moltissimi compositori russi) e un forte classicismo, che si manifesta nell’utilizzo delle grandi forme
della tradizione (sonate, sinfonie, concerti, quartetti e altre composizioni da camera).
Prokofiev condensa nelle forme classiche le tecniche compositive moderniste, come la politonalità,
l’espansione degli accordi in funzione timbrica, la dissociazione tra ritmo e metro, i continui cambi
di tempo. In questo senso, il radicato russo Prokofiev percorre una strada simile al russo cittadino del
mondo Stravinsky.
Anche Shostakovich ha avuto con il regime sovietico un rapporto complesso, dovendo fronteggiare
censure e accuse ma anche acquisendo importanti riconoscimenti (diventò ambasciatore dell’URSS
in àmbito culturale). Nella sua produzione compaiono tanto opere innovative quanto lavori più
dichiaratamente celebrativi, come la sinfonia Leningrado. Ancor più di Prokofiev, Shostakovich ha
collaborato con il cinema, scrivendo moltissima musica per film. Anche Shostakovich ha scelto la
via del classicismo, servendosi di numerose forme classiche per le sue sonate, concerti, sinfonie,
musiche da camera. Il suo utilizzo del passato si spinge fino al modello bachiano, da cui deriva i suoi
ventiquattro preludi e fughe nei quali utilizza un contrappunto ricco di citazioni bachiane, dalla
struttura tonale rigorosa in cui però la musica di Bach si carica delle asprezze armoniche del
Novecento, senza dimenticare l’esempio stilistico delle trascrizioni monumentali di Busoni.
I due grandi nomi della musica sovietica, Prokofiev e Shostakovich, non hanno dunque abbandonato
del tutto né l’impianto tonale né le forme classiche. In esse, però, hanno convogliato le dissonanze,
le modulazioni inaspettate, le sovrapposizioni tonali, gli sconquassi ritmici, il trionfo, la disperazione
e talvolta il sarcasmo del XX secolo.

Margherita Coraggio

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