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Domenico Guaccero

L'«ALEA», DA SUONO A SEGNO GRAFICO1

I termini del problema. Le difficoltà che ormai di consueto si palesano nell'intendere, interpretare ed
eseguire le cosiddette grafie aleatorie sono strettamente connesse con le analoghe difficoltà, che si
presentano al cospetto del linguaggio e della sintassi «aleatoria». Abbiamo detto: grafie aleatorie, quelle
grafie musicali, cioè, che servono ad eseguire le opere aleatorie o aperte o casuali, intese tutte queste nella
accezione comune assunta da tali termini in saggi, conferenze, dichiarazioni di poetica, esplicazioni
esecutive, ecc. sull'argomento.2 Tali grafie si sono sviluppate in svariatissimi tentativi e ricerche ed
efflorescenze originali, talché non sembrano più servire ad una esecuzione (nel senso del pratico uso, ossia
del servigio, assolto tradizionalmente dalla grafia musicale, di trasmettere quanto più compiutamente
all'esecutore il pensiero musicale dell'autore): esse si pongono come evento autonomo, come un qualcosa di
altro, una «graphie autre» da ciò che intendiamo come scrittura di qualcosa. Una radicale diversità, dunque,
che, una volta sgombrata dalle nebbie di interessate difese di parte o dalla superficiale incomprensione (di
controparte), si rivela come organicamente connessa e con il linguaggio e la sintassi aleatoria, e con la
generale configurazione della civiltà contemporanea.
Le medesime condizioni che valgono a spiegare e inquadrare la sintassi aleatoria, valgono a spiegare e
inquadrare le grafie aleatorie, le quali, più che nel passato, fanno corpo colla sintassi medesima,
influenzandola e ricevendone influenze di ritorno. Nelle grafie, anzi, appaiono quasi materialmente figurati
gli schemi del pensiero, dell'etica, della vita sociale contemporanei: gli eventi del mondo subatomico
sembrano rappresentati in segni disposti per gruppi fittissimi e da eseguirsi come evento stilistico, come
evento globale, senza precisare nell'esecuzione il singolo segno (cfr. fig. 3) ; le filosofie esistenzialistiche o
le illuminazioni mistiche, particolarmente di ascendenza orientale, sembrano suggerire l'intuizione
incomunicabile, con grafie simboliche o ideografiche, o la soglia del silenzio, con gli spazi bianchi della
pagina, o, addirittura, con la «pagina bianca»3; filosofie del solipsismo, da un canto, e filosofie del «tempo»
o dell'«istante» dall'altro,4 sembrano concorrere a isolare, nella relazione di successione che è l'opera
musicale, i segni fra di loro. Il tempo si ferma, facendo violenza al tempo come durata, e la grafia si ferma;
oppure il tempo scorre, come pura velocità fisica, e la grafia raccosta segni in sempre minor spazio grafico.
Nell'opera temporalmente ferma si realizza esteticamente la mancanza di apertura verso orizzonti
trascendenti (la mancanza di «intenzionalità» tipica della coscienza contemporanea) ed ecco la grafia
accettare il dato, anche materiale, della macchia caduta per caso sul foglio di carta o dei segni tracciati senza
una precedente chiara immagine sonora da realizzare. Indeterminismo scientifico, relazionismo, filosofie
esistenzialisticomistiche, filosofie dell'istante, materialismo e rispetto del dato empirico, struttura degli
orizzonti trascendenti, filosofie della temporalità, filosofie del solipsismo e del comportamento: tutte
rivelano una relazione di concomitanza con la sintassi e con la grafia aleatoria. E tutte concorrono a porre il
segno grafico (musicale) come evento autonomo. Cosa significa ciò? Abbiamo già accennato alla funzione
assolta generalmente dalla grafia musicale e da tutte le grafie, quella di notare il pensiero dell'autore e di
1
Il presente articolo è apparso ne La Rassegna Musicale, XXXI, 1961, pagg. 367-389. Viene qui ripreso nella forma apparsa
nel volume “Di Domenico Guaccero – prassi e teoria” edito da Nuova Consonanza, Roma 1984.
2
Da vedere particolarmente gli scritti di Boulez, Pousseur, Eco, Metzger in «Incontri musicali», n. 3 (1959) e n. 4 (1969). Gli
scritti di Cage dal titolo Umbestimmtbeit (in «Die Reihe», n. 5, 1959) e Lecture on Notbing (in «Incontri musicali», n. 3) tentano di
far vivere al lettore quel che di discorsivo e di logico è nel testo, mediante la stessa struttura sintattica e grafica. Rimando, per le
implicazioni linguistico-culturali, che qui suppongo già discusse, al mio scritto Alea, lingua e interpretazione musicale (in «La
Biennale di Venezia», n. 42, gennaio-marzo 1961). Per la problematica generale di «opere aperte» e particolarmente nelle arti della
visione (ossia dell'«informale») vedi il n. 3, giugno 1961, de «Il Verri», dedicato interamente all'«Informale». Interessante per molti
aspetti la polemica fra D'Amico e Eco, con i rispettivi articoli Dell'opera aperta, ossia dell'avanguardia e Risposta a D'Amico,
apparsi entrambi nel n. 4 di «Incontri musicali».
3
Per diverse vie parecchi pensatori giungono al « silenzio »: che è la conclusione, magari non definitiva, di un Heidegger, di un
jaspers o di un Wittgenstein; come il silenzio prospettato dalle mistiche europee e orientali (non per nulla lo zenismo di Cage ha la
formulazione di principio nel suo volume dall'emblematico titolo di Silence); come il silenzio che è uno degli esiti della musica
intravisti dallo stesso Webern, nonché da Adorno e da Metzger, nonché da Brandi, per la pittura, come conseguenza dell'action
painting (Segno e immagine, p. 122: «Ma che sarà il gesto? Non è che l'estremo anelito dell'informel, dal segno all'atto che lo
traccia: oltre quell'atto non c'è che l'anonima attività pratica e il silenzio»).
4
Come è noto il problema del tempo è fondamentale per il pensiero e per la scienza contemporanei. La validità dell'istante,
come incontro fra tempo e eternità, esiste già nel pensiero di Kierkegaard. Il solipsismo pluralistico ha la più compiuta espressione in
Sartre.
servire quindi alla resa fonica di tale pensiero. È funzione pratica di segno, di denotare convenzionalmente
qualcosa, nel nostro caso i suoni. Ebbene, nella grafia aleatoria il fenomeno più «autre» è il valore autonomo
che essa ha raggiunto in certi casi; i quali non sono soltanto estremi in quanto assolutizzano detta
autonomia, ma perché indicano la direzione, quella dell'autonomia priva di relazione, in cui si dispone un
settore della speculazione e della prassi musicale.
In effetti, la funzione pratica e accessoria, che assolveva la grafia musicale non-aleatoria, non impediva
a questa di reagire sulla sintassi medesima e di raggiungere perciò una certa dignità sintattica. Senza le
ricerche sulla stabilizzazione diastematica delle altezze sul rigo musicale, non si sarebbe avuta
probabilmente la polifonia occidentale, e lo stesso dicasi per la notazione della ritmica misurata. Lo sviluppo
della grafia, anzi, è stata condizione indispensabile per la utilizzazione sintattica delle singole dimensioni
fisiche del suono (altezza, intensità e timbro) entro lo schema percettivo temporale (simultaneità, ossia
polifonia, e successività, ossia melodia, di tutte le dimensioni fisiche).5 Ma, come l'unità organica di tutte le
dimensioni, analizzabili a posteriori e rilevabili nel concreto fluire dell'opera solo mediante l'emergere in
prospettiva di ciascuna dimensione, può rompersi a favore di una assoluta autonomia delle dimensioni
stesse, così la grafia musicale può passare ed è passata da notazione dell'immagine musicale per il pratico
scopo di segnare qualcosa, a condizione determinante della sintassi musicale, a segno con valore
indipendente da un possibile corrispondente fonico o, addirittura, da qualsiasi corrispondente fonico. E tale
conquista dell'autonomia grafica possiamo osservarla nel momento in cui avviene un mutamento di «ascolto
musicale», anzi in coincidenza del mutamento da ascolto a lettura di un testo scritto.
L'autonomia del segno grafico bisogna perciò inquadrarla, oltre che nel complesso delle visioni del mondo
contemporanee, anche nella doppia serie di problemi: quella dell'autonomia e relazione fra lingua e opera,
fra sintassi e dimensioni sintattiche, da una parte, e quella dell'autonomia e relazione fra autore, interprete e
pubblico, che è il problema della comunicazione dell'arte, dall'altra. Il momento del segnare graficamente
un'immagine interna si dispone entro una catena di atti o di operazioni che partono, appunto, da
un'immagine interna dell'autore per raggiungere l'ascoltatore (o un ascoltatore-interprete). Questa catena di
atti viene a materializzarsi in fatti, in oggetti concreti, e cioè l'opera scritta, come risultato degli atti o delle
operazioni dell'autore, e la realizzazione fonica, o opera divenuta evento sonoro, come risultato degli atti e
operazioni dell'interprete. Tali momenti successivi possono funzionare come canali per una comunicazione
dell'opera d'arte, ovvero, al contrario, come diaframmi, i quali operino una irrecuperabile dispersione sulle
operazioni e sulle realizzazioni precedenti. Possiamo descrivere i successivi momenti di questa catena di
operazioni, dall'immagine alla percezione dell'immagine da parte di altri, come segue: immagine musicale
interna all'autore - realizzazione grafica dell'immagine da parte dell'autore - opera scritta, (che è da una
parte il risultato dell'azione dell'autore, dall'altra si pone come un fatto, come qualcosa di concreto, come un
oggetto, di fronte all'interprete ) - interpretazione - operazioni dell'interprete miranti a realizzare in suoni
l'immagine interpretata - opera realizzata in suoni, (la quale si pone di fronte all'ascoltatore come un dato,
un fatto, un oggetto). Si tratta insomma del pensiero e della azione dell'autore (immagine e realizzazione
grafica), concretizzata materialmente nell'opera scritta, e del pensiero e dell'azione dell'interprete
(interpretazione dei segni e, al di là da questi, dell'immagine, con successiva realizzazione sonora),
concretizzata nell'opera-evento sonoro. All'arrivo, l'opera-evento sonoro corrisponderà più o meno, o
meglio, sarà più organicamente connessa all'immagine sonora dell'autore, quanto più i singoli momenti
della catena fungeranno da canali e non da diaframmi, quanto meno autonome in assoluto saranno le
singole operazioni dell'autore e dell'interprete.
Rendiamo invece autonoma l'operazione dello scrivere dall'opera scritta oppure rendiamo autonoma,
sempre dall'opera scritta, l'operazione dell'interpretare la grafia (ossia: rendiamo autonomo il testo scritto
dalla operazione antecedente, lo scrivere, e dall'operazione susseguente, l'interpretare): allora il testo scritto
ci apparirà isolato dall'immagine interna dell'autore e da una qualsiasi resa fonica di tale ipotetica
immagine, allora non riusciremo a scoprire nessi logici di interdipendenza fra grafia e precedente immagine
o tra grafia e susseguente resa fonica. Abbiamo detto: nessi logici, perché possiamo parlare di
interdipendenza o di autonomia assoluta in termini logici, dato che in linea di fatto un testo scritto, essendo
sempre effetto di una qualche azione di scrivere, non può essere mai separato. Dire «nesso logico» significa
però dire «nesso organico, necessario e cosciente», per cui «mancanza di nesso logico» vorrà dire, al limite,

5
Rimando per la distinzione fra dimensioni isicbe e dimensioni sintatticbe, nonché /s h rdmone organica fra le dimensioni, al
mio scritto Problemi di sintassi musicale, II.

2
relazione casuale fra immagine e grafia e relazione casuale su cui non si ha controllo (vedi molta
produzione di Cage e dei suoi seguaci americani nonché parzialmente gli ultimi risultati di Stockhausen,
Kagel, Pousseur, ecc.). Al di qua di tale limite, nel territorio in cui la «mancanza di nesso logico» non è
assoluta ma relativamente graduabile, saremo in presenza di una indeterminazione, di un'apertura
variamente controllata e di cui esiste coscienza. Ma anche al di là di quel limite, quando l'indeterminazione,
l'apertura sono massime, quando il controllo è minimo e assoluta è l'assenza di nesso logico, potremo
trovare una logica o una coscienza del fenomeno: solo che tale logica non sarà interna all'arte, ma sarà una
logica del vissuto, solo che tale coscienza non varrà come controllo precedente il disporsi almeno possibile
dell'opera d'arte, ma servirà a conoscere le possibili implicazioni fra un simile operare e il piano
dell'esistenza.
I casi più frequenti di autonomia del segno grafico nelle grafie aleatorie possono ridursi a due: 1) non
corrispondenza del segno grafico all'effettivo evento sonoro, perché il segno designa eventi sonorí troppo
veloci e impossibili ad eseguirsi puntualmente o anche inutilmente puntuali, perché le capacità percettive
dell'ascoltatore non colgono diversità sostanziali fra un'esecuzione puntuale o meno; 2) segno grafico avente
valore o di segno per una lettura muta o di evento pittografico, a cui è possibile, ma sostanzialmente
indifferente, «aggiungere» suoni. Il primo caso comporta l'autonomia dell'azione dell'esecutore: le effettive
possibilità strumentali ed esecutive sono separate nella catena delle operazioni d'arte, sicché l'autore
coscientemente o meno immagina figure musicali ricavabili solo approssimativamente da strumenti ed
esecutori usuali. Il secondo caso è quello di immagini (o di un «immaginare») separate dai successivi
momenti dell'operare estetico, quindi da un'effettiva esperienza sonora. Quando il segno grafico è una vera e
propria pittografia bisogna parlare di autonomia dell'immagine interna, quando il segno grafico si rifà a un
mondo sonoro sperimentale ma non eseguibile siamo in presenza di una vera e propria «separazione di
scrittura e musica», la quale «similmente che nella lingua parlata, rende possibile una musica da leggere».6
S'intende che esiste una nutrita casistica che va dalla «lettura muta», all'«ascolto con lettura», all'«ascolto
puro»: vale a dire da una grafia autonoma, che pur si riferisce a suoni, a una grafia «da leggere» e da
integrare colla realizzazione sonora (o, viceversa, una realizzazione sonora da integrare colla lettura), a una
grafia che suggerisce suoni e che vale solo in quanto li suggerisce.7 Occorre dire, a questo proposito, che è
inutile trincerarsi dietro il principio che l'ascolto musicale è stato sempre indipendente da una lettura o che
l'unico tipo possibile di ascolto, se di ascolto si può parlare, è quello del concerto sette-ottocentesco. Non si
vede come e perché non possano darsi altri tipi di esperire l'arte musicale, che non sia quella data nella
relazione interprete-pubblico. Certo è che la plurisignificanza di certe opere aleatorie o aperte si comprende
più agevolmente quando non si rimane fermi a un tipo dí.fruizione musicale, quello dell'ascoltatore che va al
concerto fidando nelle sue facoltà interpretative (come ascoltatore) e chiedendo appunto ad autore ed
interpreti-esecutori di fornirgli un'opera in cui la dialettica costante-variabili (o opera-interpretazione) sia
afferrata col semplice «ascolto» da concerto.8 Qui, d'altra parte, non intendiamo proporre come unico tipo di

6
Cfr. K. HEINZ STOCKHAUSEN, Musik und Graphik, in «Darmstádter Beitràge zur Neue Musik», 1960, n. 13: «So hat die
zunehmend Trennung von Schrift und Klang wie in der Sprache - eine gelesene Musik ermöglicht».
7
Cfr. STOCKHAUSEN, art. cit., p. 24: «Einerseits gibt es Partituren, die in der Klanglichen Verwirklichung aufschlussreicher sind
als geschriebene Text; anderseits kennen wir Partituren die dem Lesenden weit mehr Zusammenhánge offenbaren als Mangliche
Realisation es je verm8chte; schliesslich sind Kompositionen móglich, die zwischen beiden Formen vermitteln indem sie durch dem
Wechsel zwischen beiden die Form artikulieren».
8
Una posizione di rifiuto assoluto di tipi d'ascolto, diversi dal tradizionale è, ad esempio, quella del D'Amico nel citato
Dell'opera aperta, ossia dell'avanguardia, quando afferma (p 94): « Io ascolto quel che ascolto; e se il giorno appresso ascolterò
sotto lo stesso titolo una cosa per alcuni aspetti diversa, ebbene, ascolterò una cosa per alcuni aspetti diversa... $ un'eventualità
sempre possibile... ma non è un evento attuale. Nell'attualità della esecuzione io sento una sola versione, le altre non sono affatto
implicite in essa, non costituiscono alcuna dialettica visibile... ». Dove il D'Amico non solo non riconosce il valore della memoria, la
quale permette di rendere attuale e presente ciò che non lo è nella realtà fisica dei suoni in qul momento percepiti (di qui la
possibilità di dialettica fra costanti, ciò che nelle diverse esecuzioni è variabile), ma è fermo a considerare la dialettica
costante-variabili come quella effettuantesi fra opera, linguisticamente riducibile a note (?) e ritmo, e condizioni d'esecuzioni, ivi
compresi altri elementi privi d'autonomia linguistica, come intensità, timbro ecc.: posizione che discende dalla convinzione
dogmatica che soo le frequenze o altezze hanno dignità linguistica. Il suffragio della storia, invece di decidere per una lingua fondata
solo sulle altezze e sul ritmo, mostra il progressivo emergere delle altre dimensioni del suono, le quali possono benissimo far
dialettica contrappuntistica e percepibile fra di loro; né è pertinente la comparazione con la lingua parlata, la quale si è invece servita
di mezzi sintattici piuttosto stabili nel tempo, per via della unzione discorsiva e utilitaria da essa assunta.
Che le « opere aperte » richiedano altri tipi d'ascolto è condizione preliminare (si veda in Risposta a D'Amico, cit.
di Eco): una delle condizioni che toccano più da vicino il nostro problema è quello appunto della lettura, come
possibilità di comparare le differenti versioni. Cfr. il citato articolo di Stockhausen a p. 22: « Dïe Vieldeutigkeit des
Werks wird nur dem Lesenden bewusst, der die verschiedenen móglichen Deutungen miteinander vergleicht ».

3
fruizione musicale l'ascolto con lettura o altro tipo similare, escludendo una volta per tutte l'ascolto da
concerto; qui invece proponiamo che si prenda atto dell'esistenza di qualcos'altro dall'ascolto da concerto.
Ed è chiaro che non è dimostrabile la insignificanza delle opere aleatorie, fondando la dimostrazione
sull'impossibilità di ascolto diverso di quello da concerto: impossibilità, quest’ultima, che richiede a sua
volta dimostrazione. Né prendere atto di ascolti e grafie diverse dalle tradizionali comporta giudizi di valore,
migliore o peggiore, progresso o regresso, su di esse. Il giudizio di valore dovrà partire da altre basi e potrà
eventualmente seguire all'esame nei particolari dei nuovi mezzi, nel nostro caso dei mezzi grafici.
Il problema di questi mezzi, dunque, nelle musiche aleatorie è principalmente quello del significato, dei
limiti e del valore della loro autonomia; della relazione o dell'assoluto che istituiscono rispetto ad altri
momenti dell'operare artistico. Alla base dei problemi grafici si troveranno ben più ampie connessioni, col
problema dell'arte come linguaggio e come metafora, col problema dell'«opera» o dell'«operazione
artistica», col problema finale delle stesse possibilità dell'arte di fronte al vissuto.

Le grafie aleatorie. Il momento determinante per l'analisi di ciascuna dimensione musicale, fisica e
sintattica, con la conseguente classificazione e misurazione dei valori intervallari per ciascuna dimensione,
nonché della relativa influenza reciproca fra le dimensioni, è proprio quello in cui una sintassi cosciente del
proprio materiale trova i segni grafici adatti a fissare su carta, e col massimo di precisione possibile, i
processi temporali del materiale stesso. La prima attenzione d'un autore che voglia fissare la propria
immagine sonora si polarizza sulla dimensione dell'altezza sonora, quella che sembra presentare lo schema
percettivo più immediato e misurabile con precisione, sia all'orecchio umano sia agli strumenti d'analisi
scientifica. Successivamente le ricerche grafiche e sintattiche si dirigono ad una regolamentazione di questa
dimensione nel tempo, cosicché ad un primo e semplice momento in cui il tempo come successione
suggerisce il movimento melodico in musiche monodiche, segue un più complesso momento in cui il tempo
come simultaneità suggerisce il movimento melodico (cioè lo spostamento orizzontale dei suoni, che è la
irreversibile forza della direzione temporale) di musiche polifoniche ossia di sovrapposizioni simultanee di
suoni. Per la grafia musicale questo passaggio alla polifonia comporta il superamento di ostacoli più
complessi e, di conseguenza, una ricerca di semplificazione e di chiarezza nel segno. A questo punto
bisogna avvertire - tra parentesi - che questo sviluppo schematicamente delineato dal semplice al complesso
non implica un necessario «progresso», né spirituale, né della tecnica tutt'intera, nel senso positivo e
positivistico del termine: semmai implica una progressiva, cioè crescente, complessità globale della tecnica,
compositiva ed esecutiva. Abbiamo detto: globale, perché ciascuna dimensione, presa di per sé, può aver
benissimo perso la propria finezza d'articolazione nel passaggio dal semplice al complesso, cioè per «quella»
dimensione (ad esempio per la dimensione fisica delle altezze, strutturata monodicamente) si sono perse le
possibilità d'intervalli più sottili, cedendo appunto qualcosa in questa sottigliezza d'intervalli per ottenere il
vantaggio di intervalli simultanei. Di conseguenza si potrebbe, ad un certo momento storico, voler
riprendere le ricerche e l'utilizzazione di tali microintervalli, magari tentando di disporli in figure
simultanee. Si sfrutterebbero allora ambedue le esperienze, quella della simultaneità e quella della
«sottigliezza» intervallare.
L'evoluzione dell'universo sonoro non è in direzione facilmente rettilinea, ma non lo è nemmeno l'insieme
di questo universo sonoro nelle sue parti costruttive. «On serait donc en droit de s'attendre, - affermano De
Schloezer e Marina Scriabine nel loro Problèmes de la musique moderne,9 - à ce que 1'univers sonore
évolue en quelque sorte en bloc, des modifications introduites dans l'un des secteurs entraînant nécéssaiment
la modification à bref délai des autres» (gli autori si riferiscono ai tre settori in cui dividono «l'universo
sonoro» del musicista, e cioè: 1) il materiale, i suoni con le proprie caratteristiche qualitative; 2) la
notazione; 3) e i mezzi materiali, vale a dire gli strumenti, naturali e umani, di cui ci si serve per rendere
fisicamente concreti quei suoni). «En fait pourtant, - continuano gli autori, - il arrive que tel secteur évolue
plus lentement et freine le développement de 1'ensemble». E infatti la dialettica fra i vari settori comporta
delle influenze o delle resistenze reciproche, ed ora delle ricerche sulla costruzione di strumenti o sulle
possibilità manuali d'esecuzione anticipano rispetto alla analisi fisica del suono (cioè 1'empiria anticipa la
teoria), ora la grafia anticipa sulla possibilità d'esecuzione e così via. È questa evoluzione a scarti instabili
che pone le condizioni per le autonomie dei diversi settori, autonomie di cui abbiamo fatto cenno al

9
Paris, 1959, p. 68.

4
paragrafo uno. Ma questi dislivelli si notano anche all'interno di ciascun settore. Prendiamo quello del
materiale sonoro: vi osserveremo che le altezze hanno subìto un processo d'analisi e di formalizzazione
sconosciuto, per le civiltà occidentali, alle dimensioni delle intensità e dei timbri,10 benché possa parlarsi
solo relativamente di schemi innati i quali condizionino alla valorizzazione linguistica delle sole altezze.
Non dobbiamo infatti dimenticare che la sintassi musicale, la quale sinora si è servita prevalentemente degli
intervalli d'altezza, è una sintassi in funzione espressiva, quindi arbitraria, per ciò che concerne i mezzi in
cui l'espressione viene a calarsi: la nostra scelta delle altezze, per esprimere un contenuto emozionale, è
dovuta sintatticamente a una volontaria «messa fra parentesi» delle altre dimensioni e esteticamente (nel
senso della aisthesis) ad una preferenza di gusto, costituente precedente solo per quell'opera, per
quell’autore, per quell'ambito stilistico. Ed ecco perché è stato possibile uno sviluppo della dimensione
timbrica, da Berlioz e Wagner, tramite Schönberg, fino alle attuali ricerche timbriche. Accanto alla melodia
di altezze è sorta una melodia di timbri e, per quanto assurdo possa apparire (ma nemmeno troppo inedito
nella storia),11 può svilupparsi, si sviluppa una melodia di intensità.
L'impasse in cui si è venuto a trovare il settore della notazione, per usare la terminologia degli autori di
Problèmes, rispetto agli altri settori dell'universo sonoro del musicista, è determinato, oltre che dalle interne
difficoltà di trovare segni chiari e fra sé sintattizzabili, dalla difficoltà di segnare i processi del materiale
sonoro in intervalli scalari e per delle dimensioni più numerose, inoltre da quella di tener conto delle
obbíettive possibilità meccaniche dei mezzi materiali d'esecuzione. La dimensione delle altezze, pertanto,
offriva all'esecuzione e alla notazione l'estrema rapidità e condensazione di elementi entro un breve spazio
temporale, mentre una nuova cagione di difficoltà era offerto dalla volontà di incorporare, e già più avanti vi
accennavamo, quei microintervalli, che il sistema temperato di dodici suoni aveva dapprima escluso. Da
questo punto era aperta la strada alla completa evasione dal sistema temperato, cioè a quello che è stato
definito «l’éclatement de 1'octave».
Egualmente intervenivano progressive alterazioni nel sistema delle durate: la suddivisione binaria dei valori
nel sistema fondato su longa e brevis ( – e ∪ = rapporto di 1 a 2) sembrava insufficiente a contenere la
volontà di porre, contro un valore unitario fondamentale, oltre a dei valori binari (2, 4, 8, 16, ecc.) o al
massimo ternari (3, 6, 9, 12), dei valori quinari, settenari, insomma i valori di durata espressi nella serie dei
numeri primi. E si desiderava trattare tali valori non come le notine sovrabbondanti delle «volatine» alla
Chopin, ma come elementi strutturali, una specie di contrappunto «uno contro cinque» o «quattro contro
cinque» o «cinque contro nove» e così via. Per analogia con le altezze si desideravano conquistare le
«armoniche superiori» delle durate. Il concetto di ritmica dunque evolveva da quello di scansione regolare, di
tactus, di pulsazione (pur con gli eventuali accelerando e ritardando), a quello di percezione di valori
armonici, successivi o simultanei. Questi erano però sempre valori armonici (cioè valori che esprimevano,
contro un valore ritmico fondamentale, una suddivisione in sottomultipli fra loro eguali: si riferivano perciò
sempre ad un moto uniforme), per quanto fossero valori irrazionali. Ma quale grafia adottare per la
simultaneità di valori armonici, ossia con moto uniforme, e di valori non armonici, ossia uniformemente
accelerati o ritardati? Per fare un esempio concreto, come segnerò il moto contemporaneo, in una «battuta»
di tre quarti, di un flauto che si muove scandendo una terzina di crome per ogni movimento e di un tamburo
che deve eseguire sette colpi, ma con moto uniformemente accelerato fra l'inizio e la fine della battuta?
Probabilmente il compositore indicherà all'esecutore la sua intenzione e l'esecutore si eserciterà a misurare,
entro lo spazio temporale di quella battuta di tre quarti, un accelerando omogeneo (e gli strumenti scientifici
non mancano per controllare la misura di quest'accelerazione). Certo è che con una grafia «armonica» (cioè
con segni esprimenti valori di durata uguali fra loro), un simile evento ritmico, percepibilissimo all'orecchio,
non può essere segnato.
10
DE SCHLOEZER - MARINA SCRIABINE, Problèmes de la musique moderne, p. 95: « Maints peuples exatiques ou dits primitifs
usent d'échelles non plus de hauteur mais de timbres et d'intensités, ces échelles leur étant imposées par un materiel où les
instruments à percussion tiennent une place dominante sinon exclusive ». E a proposito delle relazioni fra dimensioni (p. 103): «
Cependant 1'instabilité des hauteurs est perque en relation avec la stabilité des intensités, des durées, des timbres, qui en leur
ensemble jouent le r61e de fond. Ce qui s'en détache - disons pour le moment la " mélodie " agít à 1'audition sur ce fond, lequel à
son tour réagit sur les variations de hauteur ». Se allora rendo stabile altezze, timbro e durate, articolando sottilmente le intensità,
otterrò un analogo processo melodico, se articolo più dimensioni alla volta, otterrò una articolazione più complessa. Cosa che non
significa analisi intellettualistica nella natura del corpo sonoro, ma soltanto evidenziazione linguistica: la stessa, che dal fondo «
naturale » delle urla primitive ha distaccato lo schema intervallare delle altezze, solo a posteriori e mediante analisi scientifiche
riconosciuto come fornito di qualità « naturali ».
11
Vedi, a proposito di «melodie d'intensità» nella tecnica del canto gregoriano, il già citato scritto Alea, lingua e
interpretazione musicale, p. 36, Ia colonna.

5
Altre difficoltà di segnatura derivano dalle indicazioni d'intensità: nel tentativo di stabilire dei valori scalari
d'intensità, e quindi degli intervalli non approssimativi, ci si è imbattuti nel fenomeno del valore relativo
dell'ampiezza del suono rispetto allo spazio fisico in cui esso viene prodotto e rispetto alle possibilità
strumentali e manuali dell'esecutore. Allora, si devono segnare i valori di sonorità, quelli che risultano alla
percezione dell'udito, o i valori di forza sonora, quelli misurati come puro valore fisico del suono, o ancora
quelli indicanti il comporta mento dell'esecutore, la forza muscolare che questi deve impiegare
proporzionalmente al risultato fonico, che dall'istrumento è lecito attendersi? Anche qui una cosa è certa,
che da uno strumento è possibile cavare una serie molto sottile di valori di intensità e che, una volta
polarizzata l'attenzione su quella dimensione, si può ascoltare prima degli intervalli sommari (pp rispetto a
ff) e man mano intervalli più sottili o la diversità fra loro di intervalli diversi (intervallo mf-p più piccolo di
intervallo ppp-ff ). Ma anche qui la possibilità d'eseguire delle serie d'intervalli a velocità crescente è
condizionata dalle capacità di reazione intellettivo-muscolare dell'interprete, il quale invece è posto spesso
di fronte a difficoltà del genere senza una propedeutica alle intenzioni dell'autore e senza un'assimilazione
della tecnica necessaria all'esecuzione.
Nel campo dei timbri le cose sembrano un po' più lisce: si sceglie lo strumento, che è già un oggetto
timbrico, e lo si fa suonare. Ci si adatta al dato offerto dalla «natura» dello strumento, anzi si tratta lo
strumento come «natura». Quando poi il pensiero del compositore cerca di organizzare i timbri secondo un
criterio scalare, ci si accorge che questo è, si, possibile, ma che la nostra nozione di strumento è imperfetta,
riconosce delle parentele (ad esempio quella fra il «timbro» dell'oboe e quello del violino accanto al
ponticello o tra quello del saxofono e quello del violoncello o tra quello del flauto sopra le righe e quello
della voce di soprano, ecc.), ma nessuna classificazione sistematica è tentata. Sistematica e che spieghi come
e perché si verifichino materialmente tali parentele. Nessuna accusa (sarebbe ridicola e antistorica!) a un
Wagner, a un Berlioz, i quali conoscevano tanto bene il loro mestiere, nessuna accusa alla Klangfarbenmelodie
di Schöenberg, sapientissima nella sua empiricità. I loro problemi sintattici erano rivolti altrove. Ma, dal
momento in cui si volesse operare serialmente con timbri, ci si dovrebbe appunto impegnare in un
sistematico lavoro di analisi e classificazione secondo parentele di classi, di tipi, di spettro acustico. Per la
dimensione timbrica esistono poi due fattori di turbamento: 1) la messa in discussione della nozione stessa
di strumento, operata dall'ammissione - nel campo dei timbri usabili in musica - dei cosiddetti materiali
concreti ed elettronici; 2) delle possibilità che si aprono al musicista di manipolare il timbro, prelevato dai
suddetti materiali, durante la registrazione e dopo, in sede di montaggio. Per ambedue i fattori la crisi si apre
al punto in cui l'operazione esecutiva contempla la fissazione dei suoni sul nastro magnetico. Lo strumento
si presentava sino allora come un « precipitato timbrico », come un oggetto che desse vita di «sostanza» al
Timbro dello strumento. Il Timbro non poteva divenire una delle dimensioni del suono perché era «il» suono
stesso. Si pensi invece alla desostanzializzazione che la mente del compositore può realizzare, quando, in
stridente contrasto con ogni possibilità manuale di esecuzione su strumenti ordinari, volesse rendere
all'ascolto una semplice figura ritmica come la seguente [omissis] a 152 di metronomo, affidando però
ciascuna semicroma a uno strumento, cioè a un timbro diverso, poniamo, nell'ordine: flauto, contrabasso,
pianoforte, tromba, xilofono, arpa, clarinetto, viola, timpano, corno, oboe e chitarra. Quello che è quasi
materialmente impossibile con gli attuali strumenti (e che l'immaginazione compositiva, nonché l'orecchio
interno, accoglie come distintissimo dato acustico), si potrebbe ottenere con un nuovo strumento producente
non scale di altezza, ma scale di timbri: un nuovo strumento, perciò, che non identificasse
semplicisticamente se stesso colla dimensione timbrica, ma che rimanesse letteralmente « strumento »,
mezzo per ottenere un risultato sonoro.
Uno «strumento» del genere, un mezzo, può chiamarsi in quest'accezione il registratore. Col registratore
un passo come quello citato non offre più alcuna difficoltà. Col registratore inoltre tutti i corpi producenti
sonorità possono essere attirati nel campo estetico: il violino (meglio, il « suo » timbro o il violino come
timbro) non ha condizione privilegiata rispetto alla goccia d'acqua che incontra una superficie liquida, il
suono sinusoidale (meglio, il «timbro» della sinusoide o la sinusoide come timbro: perché, sia ben chiaro
anche la sinusoide ha un timbro, è, nel senso delle dimensioni, un timbro) prodotto dalla valvola elettronica
non ha condizione privilegiata rispetto alla voce umana.12 E ancora: il timbro di questi materiali sonori può

12
Due ordini di ragioni hanno presieduto alla «musica elettronica» pura: una pratica, cioè l'assoluta omogeneità
del materiale impiegato per costruire timbri, le diverse sinusoidi sovrapposte, cosa che rendeva operativamente chiara
la individuazione della fonte materiale e facilitava la grafia di partiture elettroniche; una ragione teorica, cioè la fede nell'illimitata
possibilità di costruire timbri, sovrapponendo soltanto sinusoidi, senza tenere in conto i timbri provenienti da altre «macchine»,

6
essere modificato nella sua essenza proprio col mezzo della registrazione. Non abbiamo più
strumenti-sostanza, non abbiamo più timbri facilmente classificabili. Ritorna la domanda, come notare
questi processi sonori?
Al punto in cui la grafia di tutte le dimensioni, altezze, intensità, timbro, durata offre insormontabili
difficoltà, o per intrinseca difficoltà grafica, o per resistenza offerta dai mezzi materiali d'esecuzione, o
insufficiente ricerca sul comportamento di tali mezzi, le strade si biforcano. Da una parte il velleitario
«controllo» sul materiale operato dai compositori «puntillisti», durato, si finisce per ammetterlo da
autorevoli cervelli, «1'espace d'un matin», si scarica nella fissazione assolutamente definitiva sul nastro
magnetico (quasi la materializzazione dell'esecutore-robot della fase puntillistica); dall'altra si lascia
correre la effettiva fuga del materiale verso la casualità, mascherandosi nel paludamento di un preteso
controllo, oppure si accetta coscientemente questa fuga e si incorpora il caso. Siamo già nella dichiarata
fase aleatoria.
In una delle situazioni, quella della musica registrata, concreta ed elettronica, la grafia sembra essere
tagliata definitivamente fuori. Che bisogno se ne ha più, quando il suono è direttamente fissato sul nastro,
alla maniera di come il pittore fissa i colori sulla superficie da dipingere? Tutt'al più potrà bastare,
analogamente ai cartoni o alla tavolozza del pittore, una grafia come appunto per il comporre, una grafia
privata, una memoria supplementare molto approssimativa. La grafia è ricacciata a uno stadio prelogico,
prestorico.
La proposta contraria, di mettere in partitura opere elettroniche e concrete, è ben difesa da motivi di
carattere pratico e di carattere teorico. Fra i primi dobbiamo tener conto di quello affermante che il nastro
magnetico è soggetto ad un rapido deterioramento, per cui è auspicabile avere di riserva una « partitura »
chiarissima nella lettura e nell'indicazione delle operazioni da compiere, al fine di poter rieseguire l'opera e
consegnarla a una illimitata permanenza temporale. Ancora più numerose e valide le opposizioni teoriche
all'assenza di grafia. In primo luogo, si osserva, la grafia spinge a una progettazione escludente un
empirismo facilone (del quale al contrario sono piene molte «esperienze» elettronico-concrete) : la
sperimentazione, da perseguire con metodo, è uno stadio preparatorio alla composizione e la scrittura
costringerebbe a liberarsi dall'abito sperimentalistico, costringerebbe a non essere facile preda delle
«bellezze del materiale». Come dice pertinentemente Pierre Francastel, «ogni pensiero valido ha bisogno di
qualcosa di stabile per potersi formulare. E la scrittura, indipendentemente dal linguaggio, costituisce una di
queste fissazioni di cui le arti figurative ci offrono altre serie di esempi».13 La grafizzazione spinge alla
ricerca di un sistema e la lingua è proprio un sistema, aperto nel caso dell'arte e in cui coesistono le opposte
forze della permanenza e della variabilità. «Nel caso della scrittura, - è ancora Francastel, al medesimo
luogo, - come in quello dell'arte o delle matematiche, v'è una simultanea presenza d'elementi legati ad
un'azione concreta, e quella di un sistema... E come tutti i sistemi di questo ordine, anche la scrittura o
l'immagine plastica associano la Natura... con l'attività individuale e collettiva degli individui... L'usufruente
sa distinguere assai bene quello che significa e quello che è significato. La funzione simbolica dà nerbo a
tutte le forme di registrazione materiale dei fenomeni e a tutte le attività informatrici del pensiero». Con la
diretta fissazione sul nastro, inoltre, verrebbe a mancare, oltre al momento della dialettica grafia-sintassi,
non così importante come quando la grafia richiedeva una interpretazione simbolica, il momento d'una
qualsiasi interpretazione: quella di una lettura e quella d'una esecuzione in atto, possibile anche accanto ad
una registrazione.
Nella situazione della musica aleatoria l'esecutore balza sul piano di coautore, mentre la grafia perde del suo
valore vincolante il risultato fonico e, nello stesso tempo, incomincia a valere con sempre crescente
autonomia. Come si è già visto, da una funzione quasi sintattica, perché reagisce sulla sintassi ricevendone
influenza, la grafia entra con valore autonomo nel momento dell'interpretazione o
dell'ascolto-interpretazione quando il semplice immediato ascolto dev'essere integrato, poi surrogato dalla
lettura. (Ed effettivamente un passaggio, come quello descritto prima, di quartine di semicrome affidate

come le corde vibranti della laringe, o da altre «azioni», un sasso che infrange un vetro. L'equivoco è determinato dall'ambivalenza
della nozione fisica di timbro, concepito in sede d'analisi in frequenze componenti (e di qui l'idea di concepire il timbro non come
dimensione fisica a sé, ma come risultante della sovrapposizione simultanea di più frequenze armoniche) o concepito per via della
sua forma d'onda, la quale dipende non solo dalla sovrapposizione delle armoniche ed è elemento permanente, quand'anche si
varino le altre dimensioni fisiche. Voglio dire che nella seconda accezione, timbro è il proprium formale d'un suono e allora la
curva sinusoidale della frequenza più priva di armoniche è timbro (un limite timbrico semplice) alla pari dei timbri complessi.
13
P. FRANCASTEL, Art et Technique, Paris, 1956, (trad. it., Milano 1959), pp. 306-7.

7
ciascuna a un «timbro» diverso, è «eseguibile» anche solo mentalmente, pur non essendo quest’operazione
priva d'una intuizione sonora concreta). Ma dal momento in cui si allentano i legami fra potere
immaginativo, esperienza sonora e possibilità esecutiva su strumenti-oggetti, dal momento in cui
s'immaginano suoni esperibili, trascendenti però le presenti possibilità manuali d'esecuzione, si è già sulla
via di non immaginare più suoni attualmente esperibili e di passare dall'immaginare suoni ipotetici
all'«immaginare» puro e semplice. Anzi, al comporre come azione su un piano completamente appartato dal
pensare e realizzare suoni, il «comporre come un semplice operare sul foglio con l'inchiostro di china».14 La
percezione di questo limite è così cosciente che è espressa da H. Klaus Metzger senza mezzi termini: «...egli
[Cage] definisce l'arte del comporre non già come una codificazione d'immagini musicali, ma come un
procedimento della scrittura, quasi un atto fisico dello scrivente... Labirinti di linee, con note ad ogni
incrocio, grovigli, i cui nodi segnano delle note; in tali casi l'interprete può cercarne il cammino in tutte le
direzioni, anche retrocedendo. Una tale sospensione del tempo, che nessuna immaginazione musicale
potrebbe afferrare, per non parlare neppure di una esecuzione regolata a cronometro, è utopia musicale,
scaturita dal puro scrivere e svolgendosi senza alcun sguardo obliquo su definiti risultati acustici ».
Evidentemente, questa non è neppure una « grafia d'azione », una grafia che impegni a qualche operazione o
al gesto: essa non è più «segno» grafico, è segno-immagine grafico, in sé valido e conchiuso, che non
comunica più alcun significato sonoro. Semmai di fronte a tali eventi grafici può attuarsi una illuminazione
intuitiva, il «satori» dei monaci Zen, partecipabile solo da mente a mente, e per cui un'eventuale
incarnazione del medium fisico dei suoni è altrettanto indifferente d'una incarnazione in altre azioni del
mondo fisico quotidiano.
Ad ogni modo, una simile presa di coscienza di un estremo dell'ideologia musicale contemporanea, quello
dell'aleatorio, nella sua forma assolutizzata, è un avvenimento di capitale importanza. Mediante questa presa
di coscienza è possibile guardare in faccia con chiarezza e discutere i problemi dell'indeterminato, relativo o
assoluto, del distinto e dell'indistinto,15 della cosiddetta apertura, del rapporto lingua-opera ecc. Insomma la
coscienza dell'autonomia grafica e pertanto dell'aggiunta casuale della musica alla grafia è la condizione
preliminare perché questa stessa autonomia assoluta venga nuovamente a incontrarsi dialetticamente con
l'altro estremo assolutizzato, la realtà dei suoni fissati, come oggetti materiali, sul nastro magnetico, e
vagheggiati per il loro «interesse» di materiali in sé. In effetti, senza ripetere il semplicistico proverbio degli
estremi che si toccano, le due opposte autonomie assolute, quella della grafia-immagine e quella della
materia sonora idoleggiata, possono esser fatte coincidere. Perché si dà il caso che Cage possegga, oltre il
dono della fantasia grafica, quello di scavare nei più inediti materiali sonori, e perché due assoluti, non mediati
(grafia e sonorità assolute) possono. benissimo essere condotti dall'esterno a coincidere, troviamo sovente
questi due estremi presenti nella medesima opera e nel medesimo operare. Dal momento in cui la prassi
compositiva si assume coscientemente la responsabilità di operare nel senso di questi due assoluti non
mediati, come fa Cage, è alla fine possibile parlar chiaro: o ci si spinge ancora più a fondo nella direzione
informale dell'esperienza aleatoria (e allora la coscienza di un Cage non funzionerà da nesso logico interno
all'arte, ma sarà «logica del vissuto», come dicevamo, sarà spostata all'esterno dell'arte); oppure ci si muove
verso tutte le aperture possibili, usando tutte le nozioni tecniche di indeterminazione, di gruppo, di
«campo», di improvvisazione, ma mirando a far opera, a far dialettica fra lingua (sintassi) e espressione.
Poiché, questo è vero, al di sotto dell'informale visivo e musicale, c'è la riduzione al gesto, e non alla «grafia di
gesto» musicale, che è sempre un «segno di qualche cosa» (Morris), ma al puro gesto: la grafia
(impropriamente detta musicale) come gesto, l'esecuzione (musicale?), come gesto, la pittura come gesto.
Secondo quello che dice Brandi,16 «Mathieu, declinando la "fenomenologia dell'arte di dipingere" e cioè,
com'egli spiega, la descrizione delle condizioni nelle quali si fa o si dovrebbe fare la pittura non figurativa
più attuale, elenca i seguenti punti: 1) precedenza per la velocità nell'esecuzione; 2) assenza di

14
H. KLAUS METZGER, Cage o della liberazione, in «Incontri musicali», n. 3, 1959, p. 20 e poi, pp.18-19
15
È il caso su cui di recente si sono levate le più varie denunce. Confronta Stockhausen (Musik im Raum): «wenn vielmehr Ton
fiir Ton sich Höhe, Dauer, Farbe und Starke ándern... so wird schliesslich die Musik statisch: sie verànderts sich àusserst schnell,
man durchmisst in kiirzester Zeit immer den ganzen Erlebnisbereich, und so geràt man in einen schwebenden Zustand: die Musik
"bleibt stehn"»; oppure Pousseur (Forma e pratica musicale): «Che le opere del periodo comunemente detto "puntuale" soffrano
d'una certa indifferenziazione, questo non è più mistero per nessuno»; oppure Eco (L'informale come opera aperta, in «Il Verri»,
1961, n. 3, p. 118): «Il massimo di equiprobabilità statistica nella distribuzione, invece d'aumentare le possibilità d'informazione, le
nega ». Vedi anche per la pittura G. CARLO ARGAN, Salvezza e caduta nell'arte moderna («Il Verri», 1961, n. 3, p. 32). Ma già nel
1938 Adorno spiegava la tendenza in atto nella dodecafonia verso 1'indistinzione!
16
Segno e immagine, Milano 1960, p. 113.

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premeditazione sia nelle forme che nei gesti; 3) necessità di uno stato secondo di concentrazione». Questo tipo
d'improvvisazione pittorica, dove il risultato fissato sulla superficie vale solo da posterius, nel senso del valore,
rispetto al prius che è il gesto e che potrebbe condurre benissimo ad un'arte del « far veder dipingere », non
del dipingere, è una vera «art autre» proprio perché elimina qualsiasi progettazione, di opera, di forma, di
sintassi. Elimina persino «un'intenzione e un esercizio: come il gesto dello schermidore acquista scatto e
precisione attraverso la ripetizione».17 Qui è i1 vero aut-aut: progetto, previsione, schema sintattico,
intenzione, opera, arte, da un lato, e immediatezza, casualità totale, preconscio, operazione, vita, dall'altro.
Un aut-aut che ai tempi di Mozart si proponeva come scelta tra la parte artistica di un'opera e quella
non-artistica (poesia e non-poesia), tra opere «per l'arte» e opere «per la vita», tra schemi formali autentici e
inautentici. Oggi, una volta espunti del tutto gli schemi formali precostituiti e inautentici, cioè una volta
liberatici dalla falsa sicurezza degli schemi, tipo «formasonata», la scelta si ripresenta più in là e più a fondo.
Le forme esistono, e ne esistono in infinito numero. Dobbiamo trovarle da noi. Ed ecco la tentazione della
non-forma, della non-opera. Nel momento in cui buttiamo a mare lo schema precostituito, possiamo
scaricarvi anche il bambino di ogni possibile schema.

Grafia come progetto. Proviamo ora a racchiudere entro uno schema riassuntivo le successive fasi
dell'autonomia tra le varie azioni dell'autore, dell'interprete e dell'ascoltatore, che, come si ricorderà,
abbiamo già descritto prima quando indicavamo la catena di operazioni a partire dalla immagine intuita sino
all'immagine realizzata fonicamente: vale a dire 1) pensiero dell'autore; 2) azione dell'autore; 3) opera come
oggetto grafico; 4) pensiero dell'esecutore; 5) azione dell'esecutore; 6) opera come oggetto sonoro. Si
ricorderà anche che questa serie di momenti era stata ordinata tenendo presente le varie persone operanti nel
corso dell'evento estetico (autore, interprete e ascoltatore), il loro comportamento (pensiero e azione, cioè
momento dell'intuizione creativa o interpretativa e della realizzazione in opera di tale intuizione) e la
realizzazione in opera-oggetto che deriva dal comportamento di quelle persone. Occorre avvertire a questo
punto che la suddivisione in persone fisiche fatta or ora è solo per incidens reale, mentre è benissimo
possibile, specie in musiche aleatorie (e lo si è visto più avanti), la coincidenza reale delle qualità ideali di
«autore, interprete e ascoltatore» in una medesima persona. Inoltre, siccome la distinzione nei vari stadi di
comportamento (pensiero e azione) è anch'essa ideale e potrebbe accadere in realtà una posposizione o una
simultaneità o una intersecazione di stadi di comportamento, così l'ordine di successione in fasi diverse di
autonomia potrà trovarsi nelle opere concrete o invertito o reso simultaneo o scambiato ripetutamente. Si
potrà vedere ancora che l'ordine di successione esposto nello schema alla colonna A (evoluzione
dell'autonomia) dall'alto in basso segue una progressione logica, da un grado più semplice di autonomia,
quella fra azione dell'interprete e risultato dell'esecuzione, la cui «apertura» impegna soltanto problemi di
eseguibilità manuali o di direzione spaziale della lettura per l'interprete, al grado più complesso, quello fra
pensiero e azione dell'autore, la cui apertura impegna la possibilità stessa di «far musica» o addirittura di
«far suono». In conseguenza di tale progressiva complessità, varrà l'osservazione generale che
un'«autonomia» di ordine più elevato (ad esempio, quella fra pensiero dell'interprete e azione dell'interprete
rispetto all'autonomia fra azione dell'interprete e risultato d'esecuzione) coinvolge l'autonomia di ordine
inferiore: cioè, se esiste autonomia fra grafia e pensiero dell'interprete, esisterà autonomia fra azione
dell'interprete e risultato d'esecuzione (a fortiori tra pensiero e azione dell'interprete). Bisogna infine
osservare che entro ciascuno stadio o momento dell'autonomia esiste una gradazione da un minimo a un
massimo d'autonomia, gradazione che si va verificando in indefinita serie di casi concreti.
Correlativamente all'evoluzione dell'autonomia sono indicati, nello schema, l'evoluzione dell'esperienza
estetica e della connessione sintattica (colonna B), il comportamento dell'interprete (colonna C) sul piano
sintattico (ossia dei collegamenti di singoli suoni, di frasi o di gruppi) e sul piano più ampiamente strutturale
(ossia dell'articolazione formale dell'opera) e la grafia (colonna D), anch'essa su due piani, sintattico e
strutturale. Ad ogni stadio nella colonna dell'«autonomia» corrisponde un analogo stadio nelle altre colonne.
Ad esempio all'autonomia fra azione dell'interprete e risultato d'esecuzione corrisponde: nella colonna B,

17
G. CARLO ARGAN, art. cit., p. 37 (a proposito di Hartung) Del momento improvvisativo nella pittura Zen testimoniano le
seguenti affermazioni di Heinz Brasch (Introduzione alla pittura Zen, in Pittura Zen dal secolo XVII al secolo XIX, Roma 1959, p.
14 e passim): «Essendo tale carta molto simile alla nostra carta assorbente, ogni esitazione nella pennellata fa si che l'inchiostro
tenda a spandersi. Inoltre la pennellata, una volta eseguita, non si può più cancellare, e perciò deve essere tracciata con rapidità e
sicurezza».

9
l'esito sonoro, autonomo o perché solo immaginato o perché solo realizzato in meri eventi fisici; nella
colonna C, un'esecuzione «grosso modo» o una scelta di direzione nella lettura; nella colonna D una grafia
tradizionale, o con difficoltà di esecuzione o con possibile lettura in varie direzioni, e così via.
Nella colonna B l'evoluzione dell'esperienza estetica, riferibile a tutte le «persone» operanti lungo l'arco
degli eventi musicali, è distinta in esperienza interna ed esperienza esterna e il punto di partenza per
entrambe è il suono. Ciò vuol dire che per un'esperienza estetica il prius è l'esperienza sensoria più
immediata e l'esperienza del suono interno deve sempre riferirsi all'esperienza del suono esterno ossia
all'esperienza sensoria del suono. Una volta distinti i due campi di esperienza, interna ed esterna, e una volta
assolutizzati, mentre dovrebbero essere mediati (ecco il «riferimento al suono esterno» che dovrebbe
mediare interno e esterno), l'esperienza estetica evolve verso una progressiva perdita dell'esperienza sonora,
cioè verso 1'indistinzione fra operazione mimica e operazione sonora (per l'esterno: si vedano ad esempio
Circles per voce, arpa e due percussioni di Berio o Repons pour Sept Musiciens di Pousseur) e 1'indistinzione
fra intuizione pittografica e intuizione sonora (per l'interno: si vedano il Piano Concert di Cage e le grafie dei
ca geani. Il decorso inverso è l'evoluzione della connessione sintattica, la quale parte dallo stadio del
comportamento esecutivo, cioè del gesto, puma indistinto, poi più distinto sino al gesto mirante a un esito
sonoro, e si fissa in segni grafici (grafia), anch'essi prima indistinti poi più distinti sino alla grafia mirante a
far realizzare un preciso esito sonoro. Come per l'evoluzione dell'esperienza il ponte fra interno ed esterno è
dato da uno schema preconscio (lo schema trascendentale kantiano? o uno schema gestaltico?), così il ponte
fra gesto (operazione per l'esterno) e grafia (operazione per l'interno) è dato dallo schema sintattico o
linguistico. Potremmo quindi immaginare una circolazione partente dall'esperienza sensoria del suono e
mediata tramite lo schema preconscio, che giunga man mano alla grafia; mentre contemporaneamente
l'esperienza del suono interno (sempre mediata tramite lo schema preconscio) si riscarica nel suo esterno,
per raggiungere l'esperienza gestuale. Dall'esperienza grafica e gestuale, mediate dallo schema sintattico, si
dipartono le linee che riconducono nuovamente al suono, questa volta organizzato sintatticamente. Quando
il movimento avviene invece a binario unico, quando cioè l'esperienza estetica vuole prescindere dalla
connessione sintattica, allora dal suono interno si giunge alla grafia assolutizzata, passando per diversi stadi
intermedi, e dal suono esterno si giunge al gesto assolutizzato (vedi le opere citate di Pousseur, Berio, Cage,
ecc.).
Nella colonna C abbiamo fatto corrispondere a ogni stadio di autonomia (colonna A) i vari stadi nel
comportamento dell'interprete: comportamento di fronte alle grafie che gli si propongono e di fronte agli
stadi d'esperienza estetica, a cui le grafie stesse si riferiscono.
Nella colonna D le grafie evolvono sul piano sintattico da: a) grafie tradizionali nella indicazione di
intervalli fra le dimensioni, le quali presentano delle «impossibilità» manuali d'esecuzione (ma possono
esistere esecutori eccezionali capaci di realizzarle), compensate dalla relativa superfluità d'una esecuzione
puntuale a confronto del risultato d'ascolto (fig. 1; questi esempi di grafia sono scelti perché « tipici »,
benché qui si prescinda dal giudizio di «tipico» da attribuire soltanto a quei modi grafici e, ovviamente, da
ogni giudizio di valore estetico); b) grafie non metriche e non armoniche per le varie dimensioni, come la
grafia «spaziale» della dimensione temporale nella Sequenza per flauto solo di Berio o la grafia
extratemperata delle altezze in Proporzioni di Evangelisti (fig. 2); c) grafie con «figure d'azione», non
analiticamente dimensionali, cioè, che non mirano a indicare all'interprete l'emergenza sintattica di una
dimensione ma mirano a indicare l'azione che precede e produce il suono fornito di dimensioni18 (fig.3); d)
grafie con figure musicali, causate dall’azione casuale dell’autore, ad esempio puntolini in fogli di imperfetti
o sgocciolature di penna, come in Cage; e) pittografie, aventi valore autonomo, a cui si può aggiungere un
esito musicale, come i disegni dei Piano pieces di Bussotti.

18
La «scrittura d’azione» differisce da quella di «risultato» (da quella concepita per articolazione sintattica dei risultati sonori),
in ciò, che il risultato è aperto, indifferente, appunto, a dette articolazioni dei risultati: il prius è l’azione e la previsione dei risultati è
accidentale, non necessaria. Se invece al grafia del risultato si limita a surrogare la grafia del risultato, solo per maggior comodità
d’esecuzione o per riunificare nel gesto le dimensioni musicali, suddivise analiticamente per funzione sintattica, (come ci pare il caso
di Kagel), allora essa impedisce la dialettica dimensionale, col proporre un’unità prelogica, raffigurata nel gesto, delle singole
quantità del suono.

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11
12
Figura 2 a) – La grafia delle durate sfugge alla suddivisione metrica e alla estrema complicazione delle
suddivisioni irrazionali

Figura 2 b) – La grafia di alcune altezze indica o suoni sfuggenti al temperamento dodecafonico (ad esempio il
«suono flessuoso» dell’ultimo ottavo) o suoni scelti dell’esecutore entro o fuori il temperamento (ad esempio le
notine precedenti il quarto ottavo). (Evangelisti, Proporzioni per flauto, Ed. Bruzzichelli)

Figura 2 c) – I segni suggeriscono, non indicano le azioni dell’esecutore, in questo caso percussionista: colpi più
radi o più frequenti in un punto o in un altro dello strumento ecc. (M.Kagel, Transicion II)

13
Sul piano strutturale le grafie ci paiono evolversi da: a) lettura unidirezionale dei brani, con possibilità di
scelta del verso di lettura, da sinistra a destra oppure da destra a sinistra, come è il caso concreto di alcune
composizioni di Nono (ad esempio Varianti) e dall'alto in basso oppure dal basso in alto (ad esempio in
alcune parti di Zyklus di Stockhausen; b) organizzazione in «formanti» previsti come limitati esiti formali e
connessi organicamente (ad esempio Terza sonata per pianoforte di Boulez) oppure in limitata alternanza di
zone a lettura normale e di zone a improvvisazione controllata (ad esempio Schemi di Guaccero-Macchi) ; c)
sequenze di struttura, interscambiabili fra loro e connesse inorganicamente, con varie riletture della stessa
struttura e perciò con estensione temporale delle opere varianti entro limiti non controllabili dalla percezione
auditiva (ad esempio Klavierstiick XI di Stockhausen, Tropismen di Hans Otte, ecc.); d) sequenze di strutture
inorganiche, messe in moto come un meccanismo casuale e aventi durata indefinita (ad esempio Tre Studi di
Arrigo Benvenuti); e) organizzazione assolutamente disorganica, sul tipo dei « fogli sparsi » del Concerto per
piano e orchestra di Cage, traguardo della non-opera, del non-suono: letteralmente, perché la non-esecuzione
potrebbe essere una delle possibili interpretazioni.
A questo punto dovremmo entrare più nel vivo della questione: «quale funzione, che posto assume l'estremo
tipo di arte aleatoria nella società contemporanea?». Dovremmo cioè vederne sia il lato eversivo (la «verità»
dell'operare cageano, secondo la tesi di Metzger nel citato saggio su Cage), sia le proposte che da quella
prassi derivano: una indicazione sul «che far» dopo l'ultima eversione. Alcune risposte sono state date, molti
hanno risposto: «il silenzio». Va bene. Ma sarà soltanto il silenzio dell'arte? o il silenzio della civiltà? Ci
sarà magari qualcuno che dirà ancora: «va bene, e con questo?». A costui noi non potremmo obbiettar nulla
se non che in qualche modo egli indica, propone, progetta qualcosa: progetta la fine. E allora, a che pro la
sua disperata battaglia contro le alienazioni del capitalismo, se egli corre nella medesima alienazione, a
quella estrema, avvinghiato al corpo del nemico, come quel cacciatore che aveva sì preso la belva, ma non
poteva tornare dai suoi compagni perché la belva non lo lasciava andare? Ci sorge il sospetto che l'eversione
totale sia generalmente dettata da cattiva coscienza, la stessa che si rimprovera ai progettisti asserviti alle
forze del capitalismo. E ci pare che molte prese di posizioni politico-sociali siano annebbiate, sul piano
teorico, da troppe sollecitazioni sentimentali, valide sul piano pratico.
La nuova arte cresce su un terreno in cui va predominando il potere dei tecnici. La società va
organizzandosi nel senso di un generale macchinismo e cioè di una predeterminazione, di una pianificazione
totalitaria, per aree geografiche quanto mai unitarie-. Il problema è di come conciliare questa pianificazione
con la libertà, come liberare l'uomo dalla macchina, pur servendosi di essa. E diciamo pure che è impresa
disperata: ebbene è l'unica impresa che valga la pena di tentare, e che non è stata tentata con mezzi adeguati.
L'arte, particolarmente, potrebbe essere il luogo adatto ove simboleggiare il più vasto conflitto esistente
nella storia, e sollecitare nel corpo sociale le salutari reazioni di libertà colla semplice rappresentazione del
conflitto. Nell'arte deve perciò esistere la bipolarità di ordine e di libertà, dove ordine potrà significare
«tecnica» e libertà «creazione d'immagini»: e questa tecnica potrà anche avere il carattere vincolante della
tecnica di pianificazione sociale, e sarà perciò stesso quasi un'immagine, per trasposizione di funzioni, del
supercontrollo pianificatore. Ma per questo dovrà essere tecnica sul serio, ricerca severa sul materiale e sugli
strumenti, dovrà essere un progetto tecnico. Poiché le ricerche sugli strumenti e sul materiale sonoro fatte da
Cage e dalla sua scuola paiono intenzionate a svilire e demitizzare l'idea stessa di strumento e materiale, non
semplicemente ad eliminare la sostanzialità (cioè ad eliminarli come «assoluti», aprendoli a nuove
possibilità), benché in linea di fatto la particolare genialità analitica di taluni, con a capo il Cage stesso, porta
all'arricchimento del patrimonio sonoro. Ma la sostanza rimane intatta e gli stratagemmi con cui gli
strumenti tradizionali vengono forzati oltre una evidente «soglia» manifestano «l'imperante regressione
tecnologica» (Metzger). Ossia la tecnica dello sperimentalismo musicale non è al passo con la più ampia
tecnica sociale, da una parte mostra la tendenza alla «facilità», caratteristica dell'abbandono al dato
vitalistico, dall'altra si sviluppa obbiettivamente come tecnica, arricchendo il novero delle possibilità
meccaniche. Così, la dialettica fra tecnica e invenzione, fra dato e creazione, fra sintassi e libertà, rifiutata in
seno all'arte come intiero, si ripropone, ad un grado inferiore, in seno alla tecnica dell'arte.
La tecnica dell'arte pertanto dovrebbe essere quella che l'attuale tecnica nella vita tende giorno per
giorno a non essere più, dovrebbe richiamare all'uomo il valore primo con cui la tecnica stessa si è mossa, il
valore di mezzo per l'uomo, al servizio dell'espansione della sua personalità. In tal senso il progetto estetico
si serve della tecnica, non è la tecnica; il progetto investe della propria capacità di proiettarsi «al di là», ma
non si proietta nel settore del puro fare, nel settore della pura tecnica; perché il «puro» fare, la «pura»
tecnica, come tutte le cose e assolutizzate, finisce per porre se stesso come valore, «esaurendosi interamente

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nell'azione che compie».19 Ricordiamo che questo è il caso grafia assolutizzata, mentre nella sua forma
relazionata essa vale segno di una progettazione. Essa è anzi, in quanto tale, «il» segno della progettazione
ed assolve al compito di «tecnica umanistica» per eccellenza, di tecnica, cioè, che serve ad affinare la
sensibilità arsa del potere immaginativo, oltre che a fissare in forme più permanenti (a conservare nella
materia che è la carta e il lapis) i prodotti e i progetti sorgenti dal potere immaginativo.
Ma perché la grafia assolva a questo compito è necessario che l'opera d'arte incarni una progettazione
estetico-umanistica. Il fallimento delle varie progettazioni sinora effettuate nella storia non è buona ragiono-
perché si rinunzi a progettare. Magari bisogna rinunziare a progettare utopie, e la prima utopia è quella che
arrivi un'ora storica in cui i progetti si realizzino in toto, in cui si debba cessare necessariamente di
progettare perché il progetto si è attuato. La prima utopia è appunto quella di considerare la progettazione
come sostanza e non come funzione: funzione di spinta, di slancio, d'intenzione trascendentale. E qui è un
altro «nodo» che occorrerà ripensare, se la progettazione, l'intenzione debba essere solo in senso storico
(progettare «verso» il futuro, in linea orizzontale), o nella direzione dei valori, in linea verticale. Ma è
discorso che ci apre ad altro dall'«alea musicale» e dalla grafia musicale nelle opere aperte, sebbene proprio
ad esse intrinsecamente connesso, come a tipo di far arte e di segnare gli eventi d'arte quanto mai esposto a
libere scelte, fornito quindi di una preponderante dimensione etica.

19
G. CARLO ARGAN, art.cit., p.9. Sull’assolutizzazione della tecnica e sulla «totemizzazione» della macchina, entro e fuori
dell’arte, vedi LEWIS MUMFORD, Art and Technics, Columbia University Press, 1952 (trad.it. Milano, 1961), pag.21 e segg.

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