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MERCANTI D’AURA – LOGICHE DELL’ARTE

CONTEMPORANEA
Alessandro Dal Lago, Serena Giordano

CAP. 1 – L’ARTE IN CORNICE


L'INVENZIONE DELLA META-ARTE
L’esempio scelto per definire il che cosa dell’arte contemporanea è stato Fountain, l’orinatoio che Duchamp
inviò ad una mostra di New York, incorrendo in un rifiuto.
Le opinioni sull’arte contemporanea di Bruno Munari, designer ed esperto di comunicazione visiva: “un
quadro dipinto in tinta unita, una scatola di plastica trasparente piena di dentiere usate, una merda in
scatola firmata dall’autore (dieci scatole da mezzo chilo). Un manichino verniciato in bianco, un pacco di tela
con centomila legacci di corde diverse etc..Ma cosa dicono i critici d’arte che hanno il compito di chiarire
questi problemi e divulgarli? Dicono che si tratta di un canto lirico della visualità frontale che evita il
linguaggio a tutto tondo per un recupero dell’uomo nella problematica semantica per una nuova
dimensione fuori dal kitsch in un tempo oggettivato ludico e reversibile.”
- Stravaganza dell’arte contemporanea vs. idea dell’arte come qualcosa di riconoscibile (figura o
paesaggio che permettono di giudicare “come si insegna a scuola”, un’opera in base alle
caratteristiche compositive, cromatiche, tecniche ed esecutive).
L’arte contemporanea può irritare quindi i profani e gli addetti ai lavori un po’ tradizionalisti. Con l’eccezione
della Biennale di Venezia, il MoMa di NY o il Beaubourg di Parigi, le esibizioni di arte contemporanea sono
scarsamente frequentate dal pubblico comune. Qui vi si trovano le opere più disparate: non solo quadri e
sculture, ma anche fotografie, video, installazioni o performance in diretta.
Il fatto che l’opera di un artista contemporaneo si traduca in un evento mediale
(caso Cattelan p33), per di più interattivo è qualcosa che non rientra in un’idea
convenzionale di arte; per capire ciò, è necessario partire dall’antenato delle
provocazioni artistiche contemporanee: l’Orinatoio. Si tratta di un ready-made,
un oggetto qualsiasi battezzato da Duchamp come opera d’arte. In realtà
Duchamp non si limitò ad appropriarsi di un oggetto fabbricato da altri e
destinato ad un uso umile ma lo capovolse e lo firmò con il presunto nome del
fabbricante: Richard Mut e poi lo inviò ad un’associazione di artisti
d’avanguardia (Society of Indipendent Artists). Cercò immediatamente di
costruire un evento: fece fotografare l’orinatoio da un famoso fotografo e collezionista d’arte, Alfred
Stieglitz, e l’opera fu commentata in una pubblicazione edita per l’occasione. Duchamp trasformò un
oggetto in un’opera d’arte con piccoli ritocchi. Dell’orinatoio oggi si sono perse le tracce e nel mondo
esistono solo copie autorizzate dall’artista. Alcuni ritengono che il nome Mutt derivasse dalla ditta Mott
Ironworks, che produceva articoli sanitari, e lo stesso Duchamp accrebbe la confusione dichiarando in
seguito che il nome gli era stato suggerito dal popolare fumetto Mutt and Jeff, che raccontava le avventure
di due perdenti appassionati di corse di cavalli. L’aggettivo mutt, significa nello slang americano “babbeo”,
“stupido”. Quanto a Richard, è universalmente noto che il suo diminutivo, dick, significa anche pene. Di una
cosa si può essere certi: Richard Mutt non è mai esistito. Il processo messo in atto da Duchamp può essere
scomposto in quattro fasi:
Trasformazione di un manufatto qualsiasi in oggetto artistico grazie a piccoli ma significativi ritocchi;
Definizione pubblica da parte dell’artista mediante un atto ufficiale: l’invio ad una mostra
dell’oggetto ritoccato e della sua fotografia;
Promozione dell’oggetto come opera d’arte “riconosciuta” pubblicamente con la creazione di una
documentazione supplementare (numero speciale di una rivista);
- Enunciazione da parte dell’artista delle sue intenzioni mediante scritti o dichiarazioni pubbliche e quindi
creazione di un “caso”.
L’operazione di Duchamp è la messinscena di una strategia articolata di comunicazione e meta-
comunicazione che ha come obiettivo l’enunciazione di un discorso ambiguo e a vari livelli sull’arte.
Sempre di Duchamp,si ricordi la Gioconda dotata di baffi e pizzetto:atto comunicativo di crezione artistica e
presa in giro dell'atto creativo.

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Apollinaire ricorda una famosa beffa organizzata nel 1910 da alcuni artisti che si riunivano al “Lapin Agile” di
Parigi, un locale frequentato da Modigliani e Picasso. Tre amici attaccarono un pennello intriso di colore alla
coda dell’asino del padrone del locale ed inviarono il dipinto così realizzato, un’opera astratta
dall’improbabile titolo “coucher de soleil sur l’Adriatique” (tramonto sull’Adriatico), attribuendola al pittore
genovese Boronali (traslitterazione di aliboron, con cui nelle favole di La Fontaine viene chiamato un asino).
La beffa continua a provocare effetti a distanza di un secolo, infatti il caso Boronali è presentato come una
prova di “quella roba che chiamano arte moderna”.

QUESTIONI DI LOGICA
Duchamp ha approfondito il significato dei ready-made come superamento o rifiuto delle categorie
estetiche (an-estesia) e della separazione tra arte e realtà. La sua operazione nobilitava un umile oggetto
della vita incorniciandolo come arte, ma all’artista importava pochissimo dell’oggetto in sé. Attribuendo al
presunto creatore Richard Mutt la scelta dell’oggetto, Duchamp in realtà proponeva la metacomunicazione
come forma di arte e quindi sè stesso come meta-artista. Il senso dell'invenzione di Duchamp e di altri
movimenti di avanguardia o della neoavanguardia è l'idea che l'arte debba essere superamento di se stessa,
come fine o chiusura della rappresentazione o anti-arte.
Allan Kaprow, che appartenne al movimento Fluxus, si definisce come “anartista” – unartist. Si tratta di
un’idea paradossale, in quanto comporta che l’arte neghi sé stessa restando tale. Tutti gli artisti hanno
prodotto qualche opera (dipinti, ready-made, installazioni ecc) e al contempo hanno negato il senso artistico
di quello che facevano, quasi sempre in nome della vita o di qualsiasi altra realtà extra-artistica.
Il tipico artista del ‘900 non si limita a fare arte, ma vive e opera spesso come trasgressore di forme, stili e
ruoli artistici acquisiti: da artista, a seconda dei casi, vuole superare l’arte, trascendere l’opera, negare il
proprio ruolo, es: un artista che si beffa dell’idea stessa dell’arte (Duchamp), un attore ed autore teatrale
che vuole distruggere il teatro convenzionale (Antonin Artaud), un pittore che propone l’assenza di opera
(Yves Klein)…

L’arte contemporanea è dunque una produzione di qualcosa e allo stesso tempo l’iscrizione di quel
qualcosa in una cornice che lo trascende o lo nega: l’artista mette in scena il superamento di quello che fa.
Non si parla di evoluzione del linguaggio ma di processo di distrazione del pubblico dall’opera, come se al
pubblico dicesse: “non guardare quello che faccio, perchè non lo sto facendo”.

Facendo o dicendo quello che dicono di non volere fare, gli artisti contemporanei producono un messaggio
paradossale; l’arte contemporanea, attraverso sé stessa vuol produrre anche e soprattutto un’idea di sé
stessa ed il prodotto è solo un mezzo, anche secondario per produrre un’idea o un insieme di idee.
L’operazione di Duchamp può essere vista in una luce del tutto nuova. Era un gesto artistico ed insieme una
dichiarazione filosofica sull’arte. La sua mossa permette di definire che cosa distingue la contemporaneità
da forma precedenti d’arte, che chiamiamo classica.
Consideriamo due noti esempi di arte visiva e musica contemporanea:
La STANZA IMMATERIALE di Yves Klein (stanza vuota dipinta di bianco). C’è un
tentativo di negare il luogo comune dell’opera come protagonista assoluta o
primaria dell’arte.
Un BRANO SILENZIOSO – 4’ 33” di John Cage (quattro minuti e trentatré
secondi di silenzio). Tentativo di allargare i confini della musica includendovi
ciò che vi p negletto, cioè il significato di pause e silenzi.
Entrambi non si limitano a produrre opere d’arte immediatamente fruibili ma
incorporano nei prodotti due idee di arte visiva e di musica innovative.
Una prima distinzione decisiva tra arte classica e arte contemporanea è che la seconda non può prescindere
dal discorso su sé stessa, cioè dalla riflessività. L'arte contemporanea è indissolubilmente legata al discorso
che la fonda,e cioè insieme arte e meta-arte. Talvolta il discorso è intenzionale ed esplicito, come nei ready-
made. Alcune opere di Andy Warhol, sono oggetti appropriati dall’artista in quanto separati dal loro uso,
come Brillo Box, nient’altro che la confezione riprodotta di un detersivo. Altre sono invece manipolazioni di
immagini, comuni e no; in ogni caso Andy Warhol ha sempre rifiutato di annettere un significato particolare
alle sue opere.
La ciclicità del mercato artistico fa sì che tendenze o esperienze superate vengano riproposte come attuali.

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OLTRE LE CORNICI
Come illustrare le trasformazioni dell’arte contemporanea? Un buon espediente è quello di riportare i
diversi discorsi ai loro frame, cioè alle cornici in cui rientrano o che tematizzano. C’è una differenza evidente
ed intuitiva tra le trasformazioni interne e l’abbandono di un genere. Si può effettuare una classificazione
dei diversi momenti riflessivi dell’arte contemporanea a seconda dei livelli logici in cui si collocano.

1) IL DISCORSO ARTISTICO COME SUPERAMENTO ALL’INTERNO DI UN GENERE


Durante la prima guerra mondiale, esplodono le avanguardie (cubismo,
surrealismo, futurismo, dadaismo, espressionismo…). Mentre alcuni
come Duchamp, mettevano in discussione l’idea di opera, Picasso,
portava a maturazione la sua fase cubista. Così quando osserviamo
Arlecchino di Picasso e Quadrato nero su fondo bianco di Malevic,
siamo in grado di riconoscere nel primo un’opera cubista, mentre nel
secondo si coglie l’intenzione di uscire da ogni pretesa di rappresentare qualcosa. Qualsiasi storia
dell’arte del primo ‘900 racconterà delle trasformazioni interne alla cornice della pittura: dalla
pretesa rappresentazione oggettiva o scientifica del reale attraverso il rifiuto della pittura
accademica (espressionismo), alla trasformazione della realtà (cubismo) ed infine al suo abbandono
con l’astrattismo.

IL DISCORSO ARTISTICO COME SUPERAMENTO DEI SINGOLI GENERI


Dopo la prima guerra mondiale, una delle tendenze dominanti è superare la
cornice dei generi artistici tradizionali, mescolandoli oppure abbandonandoli
in nome di qualcos'altro → Es: Orinatoio. Analogamente, i collage dei
dadaisti non erano esattamente dipinti. Kurt Schwiters lavorava con i
collage ed è universalmente noto per il Merzbau, ovvero accumulo di detriti
e oggetti vari raccolti nella sua casa di Hannover; il suo obiettivo era di
mescolare i generi in un’unità artistica, egli non rappresentava più la realtà
ma la rifaceva. Generi e tecniche erano subordinate ad un processo ideale.
La rappresentazione tendenzialmente umile che spesso gli artisti tendono a
fornire di sé stessi viene così rovesciata. L’arte diventa uno strumento per
dar vita ad un’altra dimensione concettuale. Yves Klein, per rappresentare la
sua tensione verso l’infinito e la purezza concettuale si fece fotografare
mentre saltava da una finestra (Salto nel vuoto).

IL DISCORSO ARTISTICO COME SUPERAMENTO DELL’ARTE


Buren, Mosset, Parmentier, Toroni esposero le loro tele minimaliste (applicazioni
di colore su una tela prestampata, strisce orizzontali..), incorniciando la mostra
con il messaggio per il pubblico: un annuncio ed un volantino. L’annuncio, diffuso
da un altoparlante, diceva: “Buren, Mosset, Parmentier, Toroni vi consigliano di
diventare intelligenti”. Il volantino si concludeva con le seguenti parole: “[…] noi
non siamo pittori” (negazione di ciò che viene fatto). Per quanto minimaliste, le
tele dei quattro pittori esistevano ed erano esposte, quindi, ammesso che gli
artisti fossero in buona fede, il loro messaggio era autocontraddittorio.
Il movimento Fluxus si è specializzato in queste operazioni: Vautier inserisce nelle sue opere scritte
contro l’arte (“art bores me”, l'arte mi annoia – “look elsewhere”, guarda da un'altra parte) e ne ha
intitolato una Fluxus cannot save the world. Negazione, superamento o contestazione dell’arte sono

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diventati un discorso o un luogo comune dell’arte contemporanea che non sfugge alla legge del
frame artistico, secondo cui se qualcosa è definito arte, tale resta in ogni circostanza. Quando Piero
Manzoni realizzò la sua famosa Merda d’artista, infuriarono le polemiche, ma è superfluo osservare
che gli originali, sono dei pezzi classici (con altissima quotazione di mercato).
Le avanguardie,con la loro propensione per la critica sociale o la rivoluzione,teorizzavano la <<fine
della rappresentazione>>,la morte dell'arte o l'identità di arte e vita. Se l'arte classica si era
contrapposta alla <<vita>> o a qualsiasi altra realtà extra-artistica,ora l'arte mirava a una mimesi
radicale. Ma la mimesi era impossibile,finchè l'artista restava all'interno dell'arte. Di conseguenza, la
negazione dell’arte è una sorta di discorso limite.

CAP. 2 – IL GIOCO DELLE REGOLE


ORDINE E DISORDINE
Si è visto come esistano critici e anche artisti che insorgono contro opere quali Merda d’artista. Ma sono
proprio la marginalità e le opposizioni a darci un'idea dello straordinario mutamento dei valori artistici. Nel
volgere di pochi decenni è avvenuta una vera e propria “trasvalutazione” o sovversione di tutti i valori e
norme dell'arte. Parlare di sovversione (scoinvolgimento) in arte implica avere le idee chiare sull’ordine che
si suppone sia stato sovvertito e su quello che è verosibilmente subentrato. Ma nella storia dell'arte questo
è assai problematico,data la difficoltà di comparare la sfera dell'arte classica e quella dell'arte
contemporanea, governate da idee incompatibili. È abbastanza raro che uno storico dell’arte classica spinga
il suo sguardo oltre quelli che si potrebbero chiamare i prodomi dell’arte contemporanea, diciamo il Picasso
cubista. Uno studioso di arte classica in genere non prende per lo più sul serio quello che è successo dalle
avanguardie in poi, non lo considera arte. Lamenta che l'arte è finita,a causa della degenerazione del gusto,
dell'avvento della TV,della moda o dell'ignoranza della società di massa...
Si può dunque dire che l’arte contemporanea rimane comunque arte e quindi postulare una continuità
logica con il passato? Esistono almeno due risposte:
1) TEORIA ISTITUZIONALE secondo cui è arte tutto ciò che un certo mondo dell’arte definisce come
tale, indipendentemente da criteri o pregiudizi storici ed estetici.
L’arte è essenzialmente una questione di convenzioni stipulate dai diversi attori che operano nel
mondo dell’arte

Il termine ARTE definisce l’insieme delle pratiche socialmente e storicamente considerate artistiche. Una
volta collocate tali pratiche nella loro dimensione, sarà possibile istituire confronti, individuare linee di
trasformazione, cambiamenti e continuità.

Tra un ritratto di Rubens e Concetto spaziale di Fontana o un ready-made di Duchamp esistono universi di
differenze, ma sono universi ricostruibili e comparabili. Il discorso istituzionale e quello sociologico
permettono di comprendere il mondo dell’arte e delle sue trasformazioni solo a due condizioni:
chiarire più di quanto non sia stato fatto il concetto di convenzione,
individuare i diversi livelli logici o piani di funzionamento delle convenzioni.
Nell’uso linguistico, il termine <<convenzione>> ha due significati prevalenti e talvolta sovrapposti: il primo
è quello di accordo, solitamente basato sulla libera scelta dei contenuti, intorno alle regole da seguire in una
certa sfera o attività. Non è necessario che la convenzione sia sottoscritta ogni volta che l’attività ha luogo.
La parola convenzione ha un altro senso più pragmatico, ovvero quello di norma o regola che si segue per
abitudine o perché si fa così da sempre; in questi casi indica delle pratiche eterogenee, in quanto implicano
un complesso rapporto tra esistenza e attuazione delle convenzioni. È molto difficile stabilire se con
convenzione ci si riferisce all’applicazione di una norma o alla norma di un’applicazione. Possiamo quindi
stabilire dei sotto-insiemi di combinazioni pratiche distinguendoli in base al loro livello logico.
1. Primo livello – CONVENZIONI RICONOSCIUTE ED ATTUATE
Alcuni es.→ Le arti visive si basano sul presupposto che sia possibile una visione oggettiva del
mondo; la pittura rappresenta su un piano bidimensionale il mondo esterno tridimensionale;

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mediante un appropriato uso di forme, figure e colori e di tecniche geometriche come la
prospettiva, il pittore inventa un’immagine piacevole, vera o realistica del mondo; la scultura
persegue gli stessi obiettivi mediante la fabbricazione di solidi chiamati statue, bassorilievi, fregi…
Secondo livello – CONVENZIONI DI CUI SI SUPPONE L’ESISTENZA MA CHE VENGONO
PARZIALMENTE ALTERATE
Con le avanguardie del primo ‘900, la pittura può lavorare ancora con le figure, ma non è più
interessata a riprodurre il mondo esterno, bensì anche e soprattutto ad altri effetti, per esempio il
mondo onirico dell’artista. (es. De Chirico)
Terzo livello – RIFIUTO ESPLICITO DELLE CONVENZIONI
Non interessa più usare la figura in pittura. Cessa un’identificazione diretta tra il mondo come
appare e le forme pittoriche. Si apre la strada a forme di sperimentazione in cui cade ogni pretesa,
illusione o volontà che l'arte sia “rappresentazione”. Nell’arte contemporanea uno dei cambiamento
fondamentali è rappresentato dall’uscita dal presupposto o convenzione o cornice
dell’identificazione dell’arte con un genere esclusivo. Possiamo parlare di rifiuto dell’identificazione
dell’arte con un genere convenzionale: la contaminazione della pittura con il collage o il montaggio
nei dipinti di oggetti tridimensionali (dadaisti), opere composite (Merzbau), forme di realizzazione o
espressione come l’installazione, l’happening, la body art, la video art, ecc., non riconoscono più nei
generi classici e nelle loro declinazioni anche d’avanguardia il solo modo di fare arte.
La pratica del superamento dei generi ha condotto ad una ricerca intorno alla convenzione primaria
dell’arte, che l’arte possa esistere come attività o tecnica separata. Ecco allora i metagiochi intorno
alla convenzione dell’arte, con cui si può indicare qualsiasi tentativo teorico e/o pratico di
mescolamento o sovversione delle convenzioni, fino ad arrivare al metagioco che logicamente
presuppone tutti gli altri, che si possa fare arte senza fare più arte (es. teoria dell’abbandono
dell’arte, l’arte immateriale – Klein, rifiuto dell’arte – Fluxus…).

QUANDO UNA CONVENZIONE DIVENTA NORMA...


Esistono convenzioni o regole pratiche efficaci in arte? In qualsiasi mondo sociale, esistono indicazioni più o
meno formalizzate sul modo giusto di comportarsi. Ma la formalità e l’obbligatorietà delle norme sono del
tutto variabili e lasciano ampio spazio agli attori per innovarle e perfino violarle. Ci sono campi della vita
sociale (es. il diritto) in cui le norme sono postulate come decisive e altri in cui le norme sono vaghe e
variano con le stagioni (es.la moda). Ci sono campi in cui si suppone che ci siano regole che tutti conoscono
ma che sono ampiamente indeterminate o mutano di contesto in contesto (es. le buone maniere).
È sempre buona norma separare la retorica delle norme dalla loro attuazione pratica. Limitatamente al
campo dell’arte contemporanea, un buon punto di partenza per affrontare il discorso delle norme è la
riflessione proposta da Gombrich sui principi del gusto e dello stile; egli dice che principi e norme sono
negativi, nel senso che escludono e non prescrivono.
In arte non esiste un sistema sanzionatorio sicuro e condiviso, e questo crea almeno due conseguenze:
Solitamente l’esclusione o un giudizio negativo lasciano il tempo che trovano, perché sono il
prodotto di un certo contesto storico e sociale e svaniranno o si affievoliranno con lo svanire di
questo.
Non esistendo alcuno stabile sistema normativo,le esclusioni sono del tutto apparenti, una sorta di
retorica, e hanno un senso performativo e non normativo, e cioè esistono nel dire di escludere
qualcosa e non perché escludono qualcosa.
Con Gombrich scopriamo che la retorica delle norme in arte non solo non è rispettata ma è auto
contraddittoria. Qualsiasi movimento vorrà abolire o negare qualche altra tendenza, verrà a sua volta
superato e sarà in vigore solo per chi lo sottoscrive.
Il mondo dell’arte,proprio per l'impossibilità oggettiva di riconoscere un sistema di norme, è in preda ad una
sorta di anarchia,o meglio di un ricambio incessante e multidimensionale → questo non vale solo per l’arte
vicina a noi, ma per l’arte moderna in generale, come appare almeno a partire dalle furibonde polemiche
che accompagnarono i Salons parigini dell’800 e la nascita dell’Impressionismo.

Becker afferma che nell’arte esistono convenzioni di cui gli artisti possono farsi veicoli, più o meno
consapevolmente, accettandole e talvolta sovvertendole. Le convenzioni costituiscono schemi di
riferimento che, nell’arte, tenderanno ad essere presentati non come frutto di circostanze sociali ed epoche
storiche, ma come necessità tecniche o estetiche. Essi saranno legittimati dal discorso dell’arte come

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necessari, scientifici, oggettivi ecc. → è così che convenzioni ad hoc, elaborate nel quadro di una ricerca
estetica storicamente o socialmente situata, assumeranno il rango di principi assoluti e cioè di veri e propri
feticci artistici o estetici.
Il Tratato della pitura di Leonardo contiene precetti di tipo tecnico ed estetico. Si apre con una solenne
dichiarazione sulla scientificità della pittura e, dopo aver stabilito che la pittura è scienza in quanto discorso
mentale fondato su matematiche dimostrazioni, Leonardo ne afferma la priorità su qualsiasi altra forma di
sapere o discorso della verità. La scientificizzazione dell’arte invocata da Leonardo era anche l’espressione
di un complesso processo sociale di autoaffermazione degli artisti rinascimentali. L’equivalenza tra arte e
scienza sembra dunque legata ad un’epoca e a determinate circostanze sociali (p68).

La prospettiva è una delle applicazioni più affascinanti del principio rinascimentale dell'arte <<scientifica>>.
Determinando un punto di fuga,verso cui far convergere i piani orizzontali e verticali della scena dipinta, si
dà profondità alla rappresentazione,ciò che conferisce all'inevitabile bidimensionalità della pittura
un'apparenza o sapore tridimensionale. La prospettiva è in fondo una questione di convenzioni, dato che si
basa sulle regole della proiezione piana. È la realizzazione di una tecnica, insieme intellettuale e pratica,
evidentemente dipendente dalla scienza del proprio tempo. È dunque rigorosa. Tutto però dipende dal
significato che si attribuisce alla rappresentazione della realtà o della verità. Rudolf Arnheim afferma che “il
mistero della rappresentazione prospettica consiste nel fatto che fa sembrare giuste le cose facendole
sbagliate”. In quanto tale, la rappresentazione prospettica di una figura, per esempio un quadrato, con il lato
lontano più piccolo e quelli verticali convergenti, non è più bella, giusta, vera e realistica di una non
prospettica, in cui i lati sono uguali. In realtà, ciò che i pittori rinascimentali scoprirono non era tanto un
modo più vero o scientifico di rappresentare la realtà o la natura, quanto una nuova forma di espressione.
Lo scandalo di molta pittura moderna derivava soprattutto dalla deliberata sospensione dei presupposti
eterni e naturali della rappresentazione, così come si erano sviluppati dal Rinascimento in poi. Come è stato
notato da Focault, i rifiuti e le polemiche provocati regolarmente dalle opere di Manet (es Olympia) non
avevano soltanto a che fare con la scabrosità dei soggetti (Olympia = cortigiana nuda), ma anche con il tipo
di pittura. Manet aboliva il senso classico di profondità eliminando la prospettiva e le ombre. Invece di
perdersi nell’illusione dell’infinità prospettica di Leonardo, ora si confrontava direttamente con una
superficie materiale che lo obbligava a reagire come spettatore, e non più come punto astratto.
Sulla scia ideale di Manet, l’abbandono delle avanguardie del primo ‘900 di una prospettiva realistica e
l’adozione di piani prospettici deformati, diversi o contraddittori significavano soprattutto la ricerca di nuovi
criteri di rilevanza, cioè di capacità espressive che sembravano più importanti di quelle tramandate come
classiche. In altri termini, non si voleva fare meglio, si voleva fare diversamente.

Nella pitura cubista, i vari piani dell’oggetto rappresentato sono multipli, non è né più, né meno naturale
della prospettiva nella pittura classica. Essa cerca di rendere altre sensazioni, altri punti di vista, altri effetti,
come il movimento dello sguardo o la simultaneità della rappresentazione.

In ogni tipo di arte, classica, moderna o contemporanea, la produzione artistica sarebbe impensabile senza
convenzioni, sovversioni e relativi conflitti. Tra tutte le arti, la pittura è quella in cui il gioco delle convenzioni
è più evidente, soprattutto per lo statuto privilegiato che essa ha preteso e rivendica ancora oggi. Per il
senso comune la pittura sta per l’arte visiva e quindi l’arte in generale. Ciò fa si che le se convenzioni siano
state per molto tempo indiscusse. Tra queste,una delle più potenti è la pretesa che la pittura sia un modo di
rappresentare la realtà come appare all'artista. Sarebbe l'occhio dell'umanità sul mondo esterno.
(Considerazioni di Hopper p73-74)

 Gli artisti hanno di fronte a sé convenzioni in qualche misura maggioritarie, che per lo più vengono
seguite, in quanto comportano un’adesione che dipende da fattori molteplici (la committenza,il
pubblico...).
Solitamente, queste norme vengono standardizzate in un discorso artistico, che tenderà ad
assolutizzarle, facendole derivare non dal gioco delle convenzioni e delle influenze sociali, ma da
necessità estetiche o di altro tipo meta-artistico (morali, religiose…).
È proprio della natura del lavoro artistico porsi in una tensione costitutiva con le convenzioni,
proprio perché queste sono in linea di principio esterne e non scaturiscono dalla pratica dell’arte.

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Le pratiche artistiche, ovvero ciò che gli artisti fanno con i loro strumenti di lavoro, hanno un ampio margine
di libertà, ma questo comporta conseguenze decisive sul destino, cioè sul successo delle pratiche. A
decidere il successo di un'innovazione artistica non sarà tanto la pratica, ma l’accoglimento di questa pratica
da parte del discorso dell’arte. Solo quando questo accoglierà le innovazioni ridefinendole su un piano
diverso queste potranno entrare nel canone,e cioè nel sistema normativo convenzionale. La pratica artistica
può essere talmente innovativa da non essere riconosciuta come tale nel proprio tempo e da anticipare
processi artistici si affermeranno dopo molto tempo. Ciò significa anche mettere in discussione la stessa
periodizzazione dei movimenti artistici.
…E COME SI PUO’ GIOCARE CON LE NORME
La storia dell’arte svolge un duplice compito:
1) ricostruisce l’attività degli artisti del passato, studiando la loro biografia, l’ambiente sociale in cui
operavano e le circostanze storiche e culturali in cui si colloca la loro opera.
2) inserisce la ricostruzione in una narrazione inevitabilmente dotata di senso.
La storia non è il campo delle certezze. Benchè le interpretazioni mutino incessantemente,lasciano dietro di
sé un residuo comune,il quale contribuisce a formare inevitabilmente lo sguardo del pubblico sull'arte del
passato. E’ così che un osservatore non specializzato impara sia a riconoscere un’epoca artistica, sia a
collocarla in una sequenza. In altri termini, la storia dell’arte fornisce una prospettiva temporale
convenzionale che dà senso all’arte del passato.
Lo sguardo storico crea l’illusione di un’anatomia dinamica temporale dell’arte, in base alla quale sarebbe il
trascorrere del tempo in sé a stabilire le soluzioni che un mondo dell’arte adotta on una certa epoca. Lo
storicismo tende cioè a minimizzare il fatto che gli artisti “scelgono”. Quando un pittore si trova davanti alla
tela posata sul cavalletto, si colloca in una complessa relazione con le convenzioni del suo tempo, è in
possesso di un bagaglio storico, è determinato da un soggetto che gli è stato commissionato e dispone
quindi di un ventaglio di possibilità in qualche misura precostituito. Ma nessuno gli impedisce di manipolare
a suo vantaggio le regole, e anche di romperne alcune, sovvertendo, implicitamente o esplicitamente, il
quadro convenzionale o l’insieme di cornici in cui è supposto operare.
Consideriamo La morte della vergine di Caravaggio. Il soggetto
commissionato dai carmelitani di Roma, era il transito, cioè la morte terrena
della madre di Cristo che precede la sua ascesa in cielo. Secondo alcuni
storici dell’arte, la rappresentazione della morte della vergine doveva
simboleggiare il coinvolgimento della chiesa nelle sofferenze dei poveri e
degli umili, oltre che riaffermare il culto della Madonna davanti alle
polemiche dei protestanti. È importante analizzare le soluzioni non
convenzionali con cui Caravaggio rappresenta il suo soggetto. Cristo non
compare nel dipinto e in nessun modo si allude al cielo. La vergine è
raffigurata come una donna sofferente, con il ventre gonfio, vestita di rosso
e con un panno gettato a coprire le gambe nude. Quanto agli apostoli,
appaiono stanchi, vecchi e scalzi, e testimoniano, oltre al lutto per la morte
della vergine, la fatica dell’apostolato. Caravaggio utilizzava una scena
quotidiana della città che gli era familiare. Ma il modo in cui confezionò il
messaggio non fu compreso dai committenti. I padri carmelitani infatti non videro una commovente
meditazione sul lutto e la morte, ma una prostituta scandalosamente esibita sul loro altare, con i piedi nudi
e la pancia gonfia. Scandalizzati dal dipinto, dalla sua mancanza di decoro e dalla grande risonanza suscitata
nel mondo artistico, tolsero il dipinto dal loro altare e si affrettarono a commissionare una versione più
timorata a Carlo Saraceni.
Come il caso di Caravaggio c'è l'es del Veronese e il Convito in casa di Levi, prima intitolato Ultima Cena → il
cambiamento del titolofu imposto al pittore dall'Inquisizione,che ritenne sacrilego il dipinto. (p81-83)

In questi casi ci troviamo di fronte ad un conflitto tra soluzione artistica e un certo tipo di convenzione
sociale; la radicalità della soluzione va al di là di una scelta teologica. Stessi conflitti si trovano sia in I l riposo
durante la fuga in Egitto, sia in Maddalena penitente,sempre Caravaggio (p78).

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Tenendo a mente la Maddalena penitente, circa tre secoli dopo
ritroviamo la somiglianza in Old lady in a folding chair di Duane
Hanson. Non è escluso che l’americano abbia avuto in mente il
dipinto di Caravaggio nel realizzare la sua opera. Ciò che realmente
accomuna i due dipinti, oltre alla postura delle mani e la posizione
della borsa/gioielli è l’uscita dalla cornice convenzionale della loro
arte, istituendo una relazione fortissima con la realtà. Benché si
muovano nel campo della rappresentazione, questa recede o passa
in secondo piano rispetto alla presenza della realtà rappresentata.
Nelle due opere viene messo in scena ciò di cui la grande arte si è per lo più disinteressata: l’esistenza
quotidiana delle persone qualsiasi e degli esclusi del proprio tempo. Entrambi realizzano,in un certo senso,
un ready-made. Caravaggio traspone la figura di una cortigiana nella cornice di un dipinto biblico, mentre
Hanson trasporta letteralmente il calcio di una donna reale nella cornice convenzionale di una galleria.

Paragoni tra artisti di epoche diverse sono consentiti solo a senso unico, dal passato al presente.
Crediamo che in una certa epoca ed in una certa cultura, i limiti, i confini e le prospettive di un genere
artistico siano regolati da un sistema generale di convenzioni che si potrebbe definire “discorso dell’arte”.
Questo è l’insieme di definizioni convenzionali a cui la pratica artistica si dovrebbe attenere.
In pitura, il discorso è decisivo, allo stesso modo in cui la scienza si fonda su paradigmi normali,
convenzionali. Le rivoluzioni artistiche sono rotture di paradigmi, ad esempio il naturalismo in pittura è
entrato in crisi molto prima che il soggettivismo nella rappresentazione fosse considerato prerogativa delle
avanguardie. Un paesaggio di Van Gogh è universalmente riconosciuto come un tipo di arte pre-
espressionistica: l’artista proietterebbe il suo stato d’animo sulla natura: alberi contorti dal mistral, colori
violenti e acidi, scene campestri in forma di vortici. Ma circa un secolo prima Thomas Gainsborough non
aveva solo teorizzato il paesaggio come stato d’animo ma anche eseguito schizzi campestri in uno stile pre-
espressionistico.
Un altro esempio è quello di Turner,che 150 anni fa dipingeva scene marine più vicine all'astrattismo di
Jackson Pollock che a qualsiasi altra raffigurazione 800esca (p85). Un pittore, quindi, che probabilmente
pensava ad un certo tipo di realismo sperimentale, oggi ci sembra assai prossimo all’arte astratta ed
informale.
Con le sequenze di movimenti, fasi e tendenze in progressione, dobbiamo ammettere che le avanguardie
storiche del primo ‘900 hanno degli antecedenti. Quindi quelle che ci sembrano delle rotture o rivoluzioni
più o meno improvvise,possono essere sanzioni,legittimazioni di ciò che stava succedendo da molto tempo.
Nell’arte, quindi, tutto inizia e finisce nel discorso, cioè nelle convenzioni, nella loro rottura e rotazione.
L’astrattismo era già contenuto nelle possibilità dell’arte ‘800esca, ma solo con le avanguardie del primo
‘900 è stata sanzionata la fine del realismo o del naturalismo, con il conseguente abbandono della
rappresentazione fino ad arrivare alla “pittura per la pittura” dell’astrattismo. Questo abbandono, non è
tanto un rifiuto della natura e della figura umana ma il riconoscimento dei limiti della raffigurazione
convenzionale del mondo esterno.

Mark Rothko, in polemica con la definizione della sua opera come espressionismo astratto, dice: “fu con
estrema riluttanza che mi resi conto di come la figura non fosse più utile ai miei scopi […] venne un
momento in cui nessuno di noi riusciva ad utilizzare la figura senza mutilarla”. Questa dichiarazione
consente di definire il sistema di relazioni complesse che si stabiliscono tra un artista ed il discorso artistico
convenzionale del suo tempo. Rothko non voleva essere espressionista astratto, come Michelangelo
(Caravaggio) o Caliari (detto Veronese) che non si ponevano il problema di essere manieristi.

Ciò che distingue l’arte contemporanea dalle tradizioni precedenti non sono la goliardia e tanto meno
un’inarrestabile deriva verso il cattivo gusto, ma si tratta dell’intromissione esplicita della pratica artistica
nelle proprie logiche – tentativo di dominare le convenzioni – fino a giungere ai paradossi meta-artistici
contemporanei.

CAP. 3 – LA FABBRICA DELL’ARTE

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UN’ASCESA IRRESISTIBILE
Affermando che oggi si rende esplicita la relazione degli artisti con il discoro e con le idee dell’arte occorre
sottolineare come l’arte contemporanea nasce da un’incessante produzione discorsiva, in cui il ruolo
decisivo è assunto dalla critica. Il critico oggi non appare più come il mero depositario dei valori estetici o il
tramite tra via intellettuale e arte, ma ha il ruolo di demiurgo dell’attività artistica. Possiamo renderci conto
dell’indispensabile funzione sfogliando il catalogo di una qualsiasi mostra: il curatore (un critico) chiama ad
esporre gli artisti in base ad un suo progetto o schema teorico, in cui inserisce le loro opere, che
assumeranno un senso specifico come espressioni di un certo movimento o tendenza. Così facendo, il
critico legittima la propria attività, la critica, come parte essenziale dell’opera e della sua fruizione.
Szeemann, influente critico da poco scomparso, sintetizza gran parte delle tendenze anarchiche dell’arte
contemporanea come superamento dell’arte nell’arte. Allo stesso tempo, costituisce un caso ideale di
esperto o critico come creatore d’arte, al pari di tanti suoi colleghi. L’intellettuale diviene così l’artefice
supremo, qualcosa che anche i semplici artisti sono disposti a riconoscergli. Il pittore Daniel Buren, quello
che negava di essere un pittore mentre esponeva le sue opere, dice: “Harald Szeemann è un super artista
che utilizza le nostre opere per comporre la propria tela”. Ecco dunque il trionfo del discorso, a cui ora è
riconosciuto un ruolo creativo, pratico e pitorico.

Con Tom Wolfe, tutto ciò che è stato prodotto dalle avanguardie del ‘900 in poi, è un’impostura (vede l’arte
moderna completamente letteraria: i dipinti e le altre opere esistono soltanto per illustrare il testo). Con la
sua affermazione, il fenomeno dell’ascesa della teoria, cioè del discorso critico, a criterio principale di
esistenza dell’arte è dilagante.
Negli ultimi due decenni la questione è stata dibattuta nei termini della necessità o dell’inutilità
dell’interpretazione, in sostanza della possibilità di fruire direttamente o no l’opera d’arte. Ormai, sono per
lo più i critici a commissionare le opere d’arte, e quindi in grande misura a se stessi.
Il mercato dell’arte è un sistema di relazioni sociali basato essenzialmente sulla valorizzazione, e cioè sulla
trasformazione di qualcosa in un’opera, un bene dotato di grande appetibilità per qualcuno in virtù di
processi culturali che presiedono alla produzione dei valori artistici.

Nel Medioevo, una congregazione religiosa incaricava un artista di affrescare le pareti di una chiesa per
celebrare il suo santo fondatore o protettore. Dal Rinascimento in poi, i potenti e i ricchi si fecero
rappresentare nei dipinti, anche se il soggetto continuava ad essere convenzionalmente sacro. Oggi, il ruolo
dei committenti è stato assunto da curatori o critici, i quali non solo promuovono gli artisti, ma determinano
in vario modo quello che gli artisti fanno. Senza curatori e critici che “fanno” artisti ed opere, gli acquirenti
potrebbero difficilmente scegliere chi comprare, e gli artisti vendere le loro opere. In altre parole,
l’acquirente non determina in alcun modo i contenuti dell’opera, ma si subordina completamente a ciò che
il discorso critico ha stabilito essere opera d’arte, qualsiasi cosa sia. L’acquirente compra l’opera perché
ritiene che si tratti di un buon investimento e perché gli piace, ma la compra anche senza esserne il
committente specifico, allo stesso modo in cui potrebbe comprare una casa o delle azioni.

CELEBRAZIONE RELIGIOSA (Medioevo)  AFFERMAZIONE DEL COMMITTENTE (Rinascimento)  MERA


REDDITIVITA’ DELL’OPERA (Oggi).

Per comprendere come dall’opera in quanto celebrazione religiosa si sia passati alla celebrazione dell’opera
come nuda merce, è necessario tornare al Rinascimento (periodo in cui l’opera produce un valore
economico ed estetico).

Nella sua opera pionieristica, Aby Warburg ha messo in luce come nell’arte rinascimentale si affermasse una
nuova relazione sociale, quella tra committenti ed artisti. Warburg sottolinea che l’artista, il committente e
l’eventuale consigliere intellettuale del committente sono esponenti di una stessa cerchia sociale in cui si
afferma l’uomo colto e consapevole.

Michael Baxandall ha analizzato le esperienze sociali e gli strumenti mentali di un’epoca, ovvero le
categorie e convenzioni come parti di un discorso sociale sull’arte, distinguendo i committenti, le condizioni
del mercato, il tipo di contratto, la particolare sensibilità (o “occhio”) di un’epoca, la percezione e la risposta

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del pubblico, i codici prevalenti del gusto, nonché o modi in cui gli artisti risolvevano i problemi che un
incarico specifico poneva loro. “Fare” un’opera d’arte è dunque il culmine di un processo di creazione
all’interno di una complessa interazione tra abilità artistica e codici culturali: il fruitore deve utilizzare nella
lettura di un dipinto le capacità visive di cui dispone, e dato che queste sono pochissime quelle specifiche
della pittura, egli è incline a usare quelle capacità che sono più apprezzate dalla società in cui vive. Il pittore
è sensibile a tutto questo e deve fare i conti con la capacità visiva del suo pubblico.
In ogni epoca si istituisce una relazione particolare tra incarico e produttori, tra chi domanda l’arte e chi la
offre. Per diversi secoli, fino alle soglie dell’età moderna, ecclesiastici, signori e potenti continuarono ad
incaricare singoli artisti. Tuttavia, è proprio a causa dello sviluppo del libero mercato che permette agli artisti
di emanciparsi dalle rigide istruzioni dei committenti e dei loro consiglieri. In questo nuovo sistema di
relazioni tra artisti e pubblico, diviene indispensabile chiamare in causa le figure che mediano tra società e
mondo dell’arte: il mercante d’arte.
Il mercante d’arte ed il critico, oltre ad influenzare i singoli artisti, definisce movimenti o tendenze,
raggruppa gli artisti, esplicita le loro intenzioni, dà voce alle loro attività, cristallizzando e riordinando una
materia che appare caotica e complessa , in quanto frutto del lavoro e della ricerca delle diverse
individualità. È il critico a dire quello che l’artista fa, si fa veicolo delle esigenze del mercato nel mondo degli
artisti e garante di questi presso il mercato.
La funzione di garanzia, grazie alla quale il critico diviene progressivamente la figura centrale nella
produzione sociale dell’arte, è duplice:
Permette la riconoscibilità dell’opera di un artista (deve garantire al mercante la qualità dell’opera e
l’importanza dell’artista all’interno di un movimento o discorso).
Assicura un continuo ricambio, in modo che il mercato possa
rinnovarsi. Il critico è la vera e propria vestale dell’innovazione
nell’arte e quindi del suo sviluppo.

Il ruolo propulsivo della critica d’arte appare nella sua pienezza a cavallo della
prima guerra mondiale, con l’affermazione delle avanguardie storiche. La
presenza nei movimenti del primo Novecento di poeti e scrittori (Breton,
Marinetti e Majakovskij) facilitava la teorizzazione come parte integrante
dell’attività artistica. Questa era essenziale in movimenti come Bauhaus e
nell’attività di Duchamp, vero stratega dell’avanguardia. L’arte diveniva un’attività globalmente intellettuale,
che includeva la messa in discussione e l’interferenza dei generi, l’esplorazione e la pratica di forme d’arte
nuove come il cinema e la fotografia. Una volta esauritasi la spinta delle avanguardie, il ruolo intellettuale
della critica passò a specialisti, i critici in senso stretto. Si tratta di un processo che, si identifica con l’ascesa
degli Stati Uniti a patria e capitale dell’arte contemporanea. Con l’americanizzazione, dagli anni ’40 in poi, il
mercato dell’arte conobbe nuove frontiere: a contatto con un ambiente sociale ed economico molto più
aperto e ricco di quello europeo, l’arte non divenne soltanto un affare in grande stile ma anche un fatto
pubblico. Grazie ad operazioni di marketing su larga scala, gli artisti divennero vere e proprie icone
americane e finirono per influire sulla stessa cultura popolare (Pop Art). In questa trasformazione iniziale, i
critici non svolsero soltanto la funzione di garanti, quanto quella di promotori in prima persona, di vere e
proprie autorità e in fondo di produttori culturali dell’arte e dei suoi linguaggi.

COM’E’ NATA LA CONTEMPORANEITA’


L’evento decisivo che trasformò le avanguardie in quello che oggi sono fu la loro dissoluzione a causa della
crisi europea che sfociò nella seconda guerra mondiale. Costretti all’esilio negli Stati Uniti, espressionisti e
surrealisti riformarono una sorta di bohème a New York e Los Angeles e furono adottati come classici da una
cultura artistica che era rimasta ferma al realismo sociale, di grande interesse, ma estranea agli sviluppi
modernisti europei. L’esilio negli USA delle avanguardie trasferì a NY il cuore della scena artistica (questa
svolta è decisiva per l’attività di Duchamp - 1917). La critica americana inventò l’ espressionismo astrato,
facendo figure come De Kooning, Kline, Gorky, Rothko e Pollock, gli autentici continuatori delle avanguardie
europee.
L’operazione teorica di re-framing si svolse in due momenti:
1) Imporre all’opinione pubblica americana le avanguardie come vera arte moderna
Fare dei nuovi pittori americani i soli capaci di superare i maestri.

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Fu così che mentre Greenberg tracciava la separazione tra avanguardia e
Kitsch, e gli artisti europei diventavano di moda sulla scena di NY allestendo le
vetrine dei grandi magazzini, i giovani pittori americani venivano costruiti dai
critici come i soli in grado di raccogliere la fiaccola dell’arte europea ed
incarnare la vera arte americana. Gli USA diventavano la patria dell’arte
contemporanea. Il passaggio del testimone non era immediato, in tal senso,
un ruolo decisivo lo ricoprì Hans Hoffmann, cittadino americano di origine
tedesca che aveva partecipato al Bauhaus ed al movimento espressionista,
maestro di Pollock e che oggi viene ricordato più per la sua scuola che per le sue opere. Egli compendiava il
metodo del push and pull. Greenberg diceva sempre di aver appreso gran parte di quello che sapeva
sull’innovazione, e come usare gli occhi per individuarla, da Hoffmann, che dirigeva una piccola scuola di
pittura a Manhattan. La natura della sua scuola era sperimentale, ma Hoffmann aveva molte teorie che
derivavano dalla sua precedente frequentazione di Kansinskij e di altri artisti europei.
La base dell’espressionismo astratto era fornita anche dalle qualità dei giovani pittori americani: vulcani di
energia, imprevedibili, indisciplinati, caotici ecc. come Pollock. I giovani pittori americani vivevano per lo più
in campagna, ostentavano un aperto disprezzo per le convenzioni sociali, vivevano in jeans e camicie a
quadi, bevevano e all’occasione non disdegnavano scazzottate al bar.
Durante la seconda guerra mondiale, il movimento dell’espressionismo astratto acquistò un significato che
andava al di là dell’arte. La libertà dalle forme dei pittori
astratti, la loro emancipazione dal realismo e dalla figura, era
presentata come una risposta artistica e politica all’arte del
fascismo e del nazismo. Il ruolo di Parigi era tramontato
definitivamente perché la rivoluzione artistica del primo
novecento era stata travolta dal fascismo e dalla guerra. Nel
momento in cui il centro del mondo libero si era trasferito a
NY, l’arte astratta diveniva l’espressione intellettualmente più
avanzata della libertà.
Nel caso dell’espressionismo astratto, un ruolo fondamentale
fu svolto da Peggy Guggenheim, che trasformò la tradizione di
famiglia del collezionismo d’arte in una vera e propria
iniziativa imprenditoriale. Appassionata di arte moderna europea, Peggy si era trasferita da Parigi a NY e nel
1942 fondò la galleria Art of This Century , che realizzò il programma elaborato da Greenberg, cioè il
processo di continuità/superamento della pittura astratta americana rispetto alle avanguardie storiche.
Peggy Guggenheim organizzava nella sua galleria mostre in cui l’espressionista astratto più importante era
esposto alla pari degli europei più celebri. In determinate occasioni non erano solo i dipinti di Pollock ad
essere mostrati ma anche il pittore in carne ed ossa; questo tipo di promozione fu un fattore di
allargamento del mercato dell’arte. Tra il 1940 e il 1946 il numero delle gallerie di Manhattan si quadruplicò
ed i grandi magazzini di NY come Gimbel e Macy’s iniziarono a proporre al pubblico opere di grandi artisti
classici e contemporanei, offrendo condizioni di acquisto particolarmente vantaggiose, come il pagamento
rateale dell’opera.
Il caso di Jackson Pollock mostra che gli artisti, per quanto potessero essere riluttanti alla loro
commercializzazione e trasformazione in icone, risultano coinvolti nella promozione. I galleristi li facevano
vendere, anche se i compensi erano piuttosto limitati ed i critici li consigliavano e li lanciavano. Pollock è
l’artista che nel secondo dopoguerra costituisce il caso più vistoso di mito critico. Influenzato dagli autori
messicani di murales e successivamente dalla pittura dei nativi americani, cresciuto nel clima del New Deal e
dell’arte sovvenzionata, conobbe una breve ed intensissima carriera. Il suo successo è decretato da un
articolo (1949) sulla rivista Life, corredato da una celebre fotografia che lo ritrae con l’espressione burbera
e gli abiti sporchi di pittura. Egli non ha mai teorizzato l’action painting, ovvero il tipo di procedimento a cui
il suo nome è associato; egli si limitò sempre a sostenere il dripping(sgocciolamento di pittura su tela). La
sua autorappresentazione è quella di un artista che opera guidato dall’istinto e non si fa troppi problemi
intellettuali. La sua opera fu identificata con la supremazia del gesto del dipingere, qualcosa che doveva
apparire privo di senso all’artista che invece lo connota ancora oggi nella storia dell’arte. Responsabile
decisivo di questo incorniciamento è un famoso filmato girato da Namuth. Il film ritrae Pollock mentre
dipinge con il suo metodo, come se danzasse intorno alla tela, e finisce per definire, agli occhi del pubblico, i
presupposti teorici del suo lavoro.

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IL CRITICO COME ARTISTA
I critici affiancano gli artisti fino al punto che il loro discorso, diventa indispensabile alla sua esistenza.
Possiamo sintetizzare la funzione del critico contemporaneo con un termine tratto dalla pubblicità:
packaging, la confezione comunicativa delle merci. Questa, non ha la funzione di indicare la specificità o la
composizione della merce in vendita, e tanto meno la sua qualità, ma di creare un’apparenza gradevole o
invitante per l’acquirente. Il critico crea la confezione dell’artista e delle sue opere.
Costruendo un impianto teorico ad hoc, il critico non si limita a dire ai potenziali acquirenti chi è l’artista e in
che movimento si colloca, ma suggerisce che quello è l’artista giusto ed importante. Acquistare l’opera
significherà acquisire uno status, indipendentemente dal giudizio sull’opera. Il packaging dell’arte definirà
l’identità del compratore e non le caratteristiche dell’opera, esattamente come per la promozione di
merendine o bastoncini di pesce.
Duchamp aveva perfettamente compreso la necessità del packaging dell’arte, identificando la funzione
decisiva svolta dal discorso, e se ne era appropriato con i suoi ready-made ma i critici si appropriarono
dell’operazione di Duchamp . L’importanza del cambiamento (critico diventa autore dell’arte) sarà compresa
perfettamente dalla generazione successiva a Pollock e soprattutto da Andy Warhol, il quale si affermò
sfruttando consapevolmente i punti forti della rivoluzione culturale dell’arte contemporanea: pubblicità,
marketing, alleanza con i galleristi, preminenza del packaging sull’opera, ciò che oggi rende l’opera
complessiva paragonabile per importanza solo a quella di Duchamp.
Warhol comprese molto bene come la confezione critica e discorsiva fosse divenuta essenziale per
l’esistenza dell’opera. Ecco come direttamente l’autore ci suggerisce una chiave di lettura non ovvia della
nascita della Pop Art: “nel 1960 Kessler incontrò Warhol che usciva da un colorificio con colori e tele. “Andy,
cosa stai facendo?” lo salutò. E Andy, senza battere ciglio, rispose: ”sto per cominciare la Pop Art”. […]
qualche settimana dopo, mentre Ted Carrey esprimeva la sua ammirazione di fronte a un collage di
Rauschenberg, al Museum of Modern Art, Andy sbottò: “Non è niente, è un pezzo di merda!” e Carrey gli
rispose: “se davvero pensi che sia tutta pubblicità, e che chiunque possa farlo, perché non lo fai tu?”. E lui
rispose: “beh, devo pensare a qualcosa di diverso”.
In quel pomeriggio, le tele sono ancora bianche e i tubetti non sono stati spremuti, ma la Pop Art di Warhol
esiste già. In questo modo Andy ci dimostra di avere perfettamente assorbito l’inversione di tendenza del
flusso creativo: non più dall’artista all’opera e quindi al critico, ma dal critico all’artista e solo dopo all’opera.
La sua avventura consiste nel tentativo di portare alle estreme conseguenze questa appropriazione del
discorso, ricoprendo i ruoli del processo artistico e del mercato. Così come quel pomeriggio si era inventato
la Pop Art, si sarebbe inventato promotore di tendenze, mecenate, manager, scopritore di artisti, regista
ecc.

L’arte non era fatta di opere ma di packaging ad alto potenziale comunicativo.

Gli anni ’70 sono caratterizzati dal fermento: convivono sulla scena artisti molto diversi, insieme a Warhol e
agli artisti Pop, continuano ad operare gli espressionisti astratti, nascono i presupposti di Fluxus e gli artisti
collaborano come nel caso di Rauchenberg che partecipa alle performance di Fluxus con John Cage. Il
musicista e matematico Flynt inventa la definizione di concept art.

Dal dopoguerra in poi, sono le condizioni sociali e l’involucro comunicativo dell’arte a divenire decisivi: le
gallerie si moltiplicano, le proposte si differenziano, gli artisti hanno bisogno di distinguersi e di farsi
velocemente ribattezzare dalla critica come aderenti ad un movimento neonato, pronti ad essere
confezionati in nuovi packaging sgargianti, in contrasto con quelli di chi li ha preceduti.

Il movimento Fluxus, che raggruppa artisti come Beuys, Vautrier, Hnasen, Nam June Paik, Yoko Ono, è
significativo per le sue evidenti contraddizioni, rivelando la sua natura di costruzione critica, al di là della
volontà e delle produzioni degli artisti. Benché nato come tipico movimento di superamento e cotestazione
dell’arte, Fluxus incarna il modello del packaging artistico. Il portavoce del movimento, George Maciunas,
costruisce Fluxus partendo proprio dalla constatazione dell’eterogeneità di intenti e modalità espressive
degli artisti, e quindi dalla necessità di inventare un’etichetta, un marchio. In realtà, gli artisti provavano una
certa irritazione nell’essere classificati sotto l’etichetta Fluxus. Fluxus è quindi l’opera di Maciunas,

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l’invenzione di un critico e di un teorico che, partendo da una miscellanea difficile da racchiudere in una
confezione unica, costruisce la sua opera critico-artistica. Questo movimento non è delle personalità degli
artisti che lo hanno attraversato, ma in una serie di considerazioni teoriche del tutto autonome e può avere
successo perché non riguarda nessun artista in particolare. Maciunas ha fatto scuola: la teorizzazione critica
di un movimento a partire dalla constatazione dell’impossibilità di raggruppare idee e pratiche sotto la
stessa etichetta sarà un espediente molto usato dai critici dell’arte. La mancanza di omogeneità è una
condizione tutt’altro che sfavorevole per un critico che intende creare un movimento. Essa gli consente di
liberarsi facilmente dall’aggancio con le sue opere degli artisti, e di spostare tutta l’attenzione sulla sua
opera: dichiarazione di intenti, esclusioni, inclusioni e repentini cambiamenti di rotta.

È tipico della critica atuale costituirsi come linguaggio settoriale e arcano per esprimere implicitamente il
proprio diritto a decidere sull’arte. L’ermetismo del linguaggio configura una sorta di sacralità e quindi
funziona perfettamente come marchio di appartenenza e strumento di influenza sul proprio mondo.
Questo significa per i critici costituirsi o riaffermarsi come le sole autorità in grado di curare mostre ed
esibizioni, con l’effetto di valorizzare i propri artisti, influendo sulle loro
quotazioni e proponendoli ai galleristi. Il dibattito critico è quindi
fondamentale, perché seleziona nel mercato i decisori dell’arte, quelli
che avranno il compito di proporre nei grandi eventi internazionali ciò
che c’è di nuovo nell’arte contemporanea. Il
meccanismo risulta evidente in occasione di
esibizioni come la Biennale di Venezia, in cui il
lavoro del critico-curatore persegue due obiettivi
differenti:
Consolidare l’importanza di artisti già noti
e che quindi non possono essere ignorati
Affermare la propria concezione dell’arte e quindi la propria opera in
opposizione alle altre tendenze critiche.

CAP. 4 – L’AURA E’ VIVA E VENDE BENE


CATTEDRALI D’OGGI
Chiunque pensi che il postmoderno sia un’invenzione di filosofi buontemponi dovrebbe visitare almeno una
volta Bilbao. La città basca è oggi un caso di riconversione postindustriale. Tra gli anni ’70 e ’80 ha
conosciuto una crisi analoga a quella di altri poli industriali europei. Diversamene dalle periferie di altre città
industriali, Bilbao non sembra agonizzante. Tra il centro e il mare si costruiscono quartieri residenziali, le
fabbriche ed i cantieri sono trasformati in parchi di archeologia industriale, i centri commerciali proliferano.
Il numero di visitatori stranieri si è moltiplicato in pochi anni. E questo, nonostante la città, sia al centro del
conflitto tra l’indipendentismo basco e le autorità centrali spagnole.

Come spiegare la trasformazione di una malinconica città industriale in un polo di attrazione culturale e
turistico? La rinascita di Bilbao si identifica con la sua offerta artistica. Il centro è collegato al mare da una
metropolitana avveniristica, progettata da Norman Foster, mentre il fiume è attraversato da un elegante
ponte a una sola campata, opera di Santiago Calatrava. In prossimità del ponte, sorge la sede del
Guggenheim di Bilbao, realizzato da un’altra stella dell’architettura postmoderna: Frank Gehry.

Perché creare un museo d’arte contemporanea proprio a Bilbao? La risposta è nell’incontro, unico come la
passione di una vita, tra due spinte concomitanti: la volontà delle autorità locali di darsi un’immagine più
che moderna, e autonoma dal governo spagnolo, e quella della fondazione Guggenheim di NY di
promuovere l’arte contemporanea in un paese in ascesa, estendendo di conseguenza la sua rete in Europa.
La sede del museo si impone talmente alla vista da essere una proposta artistica in sé. Essa è un’opera
d’arte destinata a contenere altre opere d’arte. L’effetto di gigantismo è pienamente raggiunto grazie a due
opere divenute mascotte del museo: Puppy (enorme terrier ricoperto di fiori che fa da guardia all’ingresso
principale) e Snake (grande installazione di acciaio collocata all’interno). La strategia di acquisizione delle
opere si compendia in una sola frase: la classicità monumentale del contemporaneo, fissando come data
principale il secondo dopoguerra. Ecco allora una presenza significativa di espressionisti astratti come De

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Kooning, Rothko, Motherwell e di classici dell’immateriale: Klein, a cui seguono gli esponenti principali dei
movimenti più recenti, dall’arte concettuale in poi: Morris, Judd, Andrè, Merz, Kiefer…
Potendo contare sulla rete Guggenheim si organizzano mostre sulla Pop Art o trasferte di classici delle
avanguardie europee tra cui Mirò, Kandinskij, Klee, Arp ecc. l’effetto combinato delle collezioni permanenti
e delle mostre itineranti è esibire sempre ciò che di grande ha prodotto l’arte contemporanea. Il
Guggenheim comunica, trasformando i prodotti dell’arte contemporanea in monumenti, un’idea di potere
economico più che culturale. Ma, in ogni caso, le cattedrali antiche e contemporanee testimoniano
egualmente della potenza degli artefici. Decisioni politiche, disponibilità economiche, pianificazione
culturale e collaborazione degli artisti conferiscono alle opere esposte un’aura capace di stordire. Si tratta di
un packaging colossale che Duchamp e Peggy Guggenheim non avrebbero potuto immaginare. L’arte si
colloca esattamente nel punto di intersezione tra piani culturali globali e strategie di crescita economica,
fino a diventare la protagonista della rinascita di una città portuale. Il modello Guggenheim, oggi ci mostra
come l’aura dell’arte è più viva che mai.

UN AROMA INESTINGUIBILE
Il tema dell’aura è stato imposto alla riflessione estetica e sociologica da Walter Benjamin ed è
rappresentato da due tesi:
I. Il contrassegno dell’arte tradizionale o classica era l’alone di unicità incomparabile che avvolge
un’opera, un effetto che si comprende immediatamente se si pensa ai capolavori degli artisti classici
o moderni come Guernica o la Gioconda. L’aura definisce la capacità di un’opera di produrre un
effetto sul pubblico in termini analoghi a ciò che nella filosofia e nella sociologia è definito carisma.
La massificazione dell’offerta artistica, insieme alla riproduzione meccanica delle immagini nel
cinema o nella fotografia, tenderebbe a dissolvere l’aura. Un conto sarebbe fruire un famoso dipinto
di persona, un altro essere confusi nella folla di un museo come il Guggenheim.
La tesi della perdita d’aura (Benjamin) si può dividere in tre proposizioni:
a. L’arte (pittura in particolare) si de-sacralizza, in quanto, a partire dall’800 è fruibile da un pubblico
sempre più vasto
La riproduzione meccanica delle immagini radicalizza il processo di secolarizzazione
Le avanguardie, alla ricerca di nuovi materiali o linguaggi, tratti soprattutto dalle immagini e dalle
esperienze quotidiane, sanciscono il declino irreversibile dell’aura.
Davanti a questi processi, Benjamin non
assume un atteggiamento nostalgico o
regressivo, ma ritiene che nella perdita d’aura
si realizza una sorta di democratizzazione
estetica. Perdendo la sua unicità, l’opera
d’arte rinuncia al suo esclusivismo e permete
una fruizione non limitata a pochi.

La cultura museale, in città come Londra o Parigi, aveva anche il compito di imporre una nuova episteme,
cioè una verità culturale e artistica, analogamente a quanto avveniva con i musei di storia naturale e con le
grandi esposizioni universali. La fruizione, relativamente massificata si incanalava verso due tipi di spazi
complementari: i salons (mettevano in scena le novità artistiche) ed i grandi musei (esponevano la
tradizione come sapere tramandato e canonico). In questo quadro bisognerebbe parlare più di
ricollocazione dell’aura, non tanto di perdita: dalla fruizione privata, che comunque sarebbe continuata
nella sfera del collezionismo, a quella pubblica, commerciale e monumentale. Questo non poteva che
portare ad una trasformazione dell’aura, che da allora si è spostata da una dimensione contemplativa ad
una spettacolare, es. la Gioconda.
La Gioconda non è il frutto dell’incultura degli spettatori, né delle intrinseche qualità dell’opera, e nemmeno
del suo carattere enigmatico, bensì della strategia promozionale da sempre attuata dal museo parigino.
Opere altrettanto emblematiche dell’arte rinascimentale per la loro bellezza o il misteri, come i ritratti di
Antonello da Messina o la Tempesta di Giorgione non godono dello stesso successo presso il pubblico solo

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per la collocazione più discreta. Ciò dimostra che i diversi tipi di aura dipendono dal diverso packaging
espositivo.

Un’altra tesi elaborata da Benjamin è quella della dissoluzione meccanica dell’aura. L’idea che la fotografia
rimpiazzi la pittura risale a Baudelaire e riflette una reazione comprensibile davanti alla supposta
intromissione della tecnica nella sfera artistica. Partendo dal presupposto che la pittura fosse un modo di
rappresentare il mondo, ecco che la fotografia, con la sua pretesa capacità di riprodurre la realtà sembrava
rendere superflua la pittura. La fotografia, fin dalle sue origini, non è mai stata un linguaggio oggettivo, né
un tentativo di soppiantare altre forme d’arte e non si è posta come antagonista della pittura. Essa imita
l’occhio umano nella sua struttura meccanica, ma quello che rivela è inaccessibile alla visione naturale. Il
linguaggio della fotografia, in quanto tale, non ha nulla di più democratico, massificato ed oggettivo di
quello della pittura, ma è evidentemente soggettivo e creativo. Ciò emerge perfettamente nella figura di
quello che può essere considerato il più grande fotografo-ritrattista dell’800: Felix Nadar. Per Nadar, la
fotografia non solo non era una copia realistica del mondo, ma diventava un agente della sua
trasformazione, persino pericoloso. Nel saggio Fotografia omicida, Nadar accusa la diffusione della
fotografia di un cadavere decomposto, ripescato dalla Senna alcune settimane dopo l’assassinio, di aver
eccitato la morbosità pubblica, condizionando così la decisione del tribunale, che aveva condannato a morte
i responsabili. La fotografia si opponeva così con la sua verità artificiale, alla verità sociale e morale, che
avrebbe dovuto spingere alla pietà verso gli assassini. Nadar aveva capito che la fotografia si collocava su
piani diversi dalla realtà e proprio per la sua natura di dimensione artistica autonoma, la fotografia
contribuiva a liberare la pittura da schemi rigidi e figurativi, permettendo agli artisti di sperimentare nuovi
campi di ricerca.
Parlare di valore magico, significa quindi dire che anche la fotografia, in quanto tecnica ed opera d’arte, è
capace di secernere o acquisire la propria aura. Qualsiasi cosa può divenire arte, e quindi essere dotata
d’aura. Alla fine, quello che rimane, è l’aura, esattamente come dell’Orinatoio è rimasta una fotografia,
divenuta icona del ‘900, mentre l’oggetto è scomparso (se mai è esistito).

L’AURA MESSA A NUDO


Con l’invenzione dell’arte contemporanea, l’aura non scompare ma si trasforma, diffondendosi per il
mondo. L’AURA DI UN’OPERA E’ SEMPLICEMENTE L’EFFETTO CHE PRODUCE, ed il possibile effetto muta a
seconda della natura dell’opera e delle persone che lo subiscono o lo ricercano. Se si organizza la visione di
qualcosa come arte, ecco che si produce l’aura.
Per Marx, una cosa diventa merce quando si afferma il suo valore di scambio, che è un rapporto sociale. Ma
il fatto che si passi dall’uso allo scambio non dissolve affatto la cosa. Marx parla di feticismo delle merci nella
relazione di scambio, intendendo il fatto che laddove una cosa dia scambiata, essa diviene uno spettro,
esattamente come un fantasma si separa da un corpo e acquista vita autonoma. Da quando l’arte è divenuta
esclusivamente una relazione sociale, è il suo spettro che consumiamo, cioè la sua aurea; es: bevuta una
bottiglia di Coca Cola, il liquido dolciastro che ci ha dissetato svanisce nelle nostre viscere, ma l’immagine
del suo marchio resterà per sempre a ricordarci che noi consumatori siamo mortali, mentre il marchio no, o
comunque deciderà lui se vivere in eterno o riapparire sotto un’altra forma.
Anche la parola simulacro non ha nulla di arcano, si intende semplicemente un ente che, senza essere una
cosa da usare, è più un’idea, pur partecipando della cosa e dell’idea.

La differenza tra le opere d’arte mercificate e le merci estetizzate diventa dunque minima, una questione di
opportunità, di tempi e di luoghi, non di principio. Anche qui siamo davanti a dei ready-made: si prendono
delle tazzine, le si dichiara artistiche ed ecco le tazzine d’artista. Si noti una differenza con il design; in
questo, veri e propri creatori come Bruno Munari o Vico Magistretti, firmano lampade e tavoli destinati ad
un uso comune, non artistico. Invece, nel caso delle tazzine, abbiamo piccole opere d’arte che in realtà non
sono tali perché create dagli artisti, ma in quanto autorizzate in tutto e per tutto dal critico-curatore, che le
firma, e dall’azienda, che in realtà le ha inventate. Ecco come la produzione d’aura si incarna in veri e propri
simulacri che, a seconda del modo in cui li rigiriamo tra le mani, rivelano la loro duplice natura, di cosa e di
idea trascesa in arte. L’aura, o meglio l’aroma, crea l’arte.
Un simulacro non è la copia di un originale ma una riproduzione che acquista vita propria in quanto è
riprodotta.

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FILOSOFIA DI ANDY WARHOL
Warhol osò dichiarare quello che tutti sanno, cioè che l’arte non potrebbe esistere senza
essere un tipo di business. Warhol ha infatti riconosciuto la natura commerciale di
qualsiasi arte: “un artista è uno che produce cose di cui la gente non ha alcun bisogno,
ma che lui pensa sia una buona idea dargli. È molto meglio della business art che della art
art, perché la art art non riesce a reggere lo spazio che si prende come la business art (se
la business art non regge il suo spazio, esce dal mercato).
Appare quindi ovvio il motivo per cui un artista decide di dare qualcosa di suo alla gente: si tratta di
un’opportunità come qualsiasi altra nel molteplice mercato delle possibilità di guadagnare. Meno evidente è
perché la gente vada in cerca dell’arte: la sola risposta possibile è che l’opera offre anche una possibilità di
acquisire valore. L’arte è dunque la sfera in cui il valore di scambio, come dice Marx, si rivela nella sua
purezza, proprio perché svincolata dal valore d’uso. Nell’arte contemporanea oggetti o valori d’uso comune
acquistano valore artistico solo se privati della loro funzione. Così avviene per l’Orinatoio di Duchamp, le
serigrafie di Warhol, un cavallo impagliato esposto alla Biennale ecc. si deve sottolineare che il mercato
dell’arte è esclusivo, nel senso che la valorizzazione è legata alla qualità dell’opera d’arte come prodotto che
soddisfa i bisogni che non possono o non devono essere soddisfatti altrove: la passione privata del
collezionista che la possiede e il fatto prosaico che l’opera è tendenzialmente un investimento destinato a
fruttare quanto più l’artista è o diviene famoso o alla moda.
Warhol non ebbe troppi problemi di fronte ad una lettura delle sue opere opposta a quella degli ambienti
artistici della sua città. Anzi, visti l’enorme successo parigino e la temporanea ostilità del mondo dell’arte di
NY, dichiarò alla Francia che avrebbe smesso di realizzare quadri: in questo modo, le sue quotazioni salirono
vertiginosamente. Warhol amava soprattutto una cosa nella vita: il buon vecchio dollaro, fino a farne il
soggetto di alcune delle sue opere più famose. I critici possono discutere all’infinito se Warhol, dipingendo
dollari, detersivi, zuppe, sedie elettriche, e riproducendo icone mediali come Mao o attori cinematografici
accettasse o criticasse l’opprimente pervasività delle immagini. Il fatto è che ne fissava la presenza come la
sola oggettiva. Di fronte al complesso delle immagini di Warhol, noi comprendiamo che quello e solo quello
è il mondo in cui viviamo, che il mondo è così. I ritratti di Warhol sono trasferimenti d’aura dalla realtà alla
tela, e la freddezza della sua tecnica serigrafica testimonia che il suo obiettivo non consisteva affatto nel
reinterpretare Mao o il dollaro, in chiave critica, dissacrante o celebrativa, ma nell’impossessarsi della
potenza oggettiva di quelle immagini, senza aggiungere nulla. Egli prende le immagini già divenute simulacri
e, riproducendole, le rende oggettive. Le alterazioni compiute sulle immagini non hanno lo scopo di
renderle dolci o stupide, ma di mostrarne la natura equivalenza universale, per esempio il colore delle
serigrafie di Marilyn Monroe, ha esattamente il senso di oggettivare quella che in origine era una semplice
fotografia. Con Warhol si realizza pienamente la consapevolezza del processo che Benjamin aveva
individuato come morte o trasformazione dell’aura. L’arte si identifica con il capitalismo, di cui diviene
l’espressione culturale più coerente.

CAP. 5 – LA VERITA’ DEL FALSO


TROPPO BELLO PER ESSERE VERO
Nella primavera del 2005, il governo italiano ha varato un decreto legge che prevede multe salatissime sia
per chi vende, sia per chi acquista, incautamente o no, marchi contraffatti. Di conseguenza, alcuni comuni
hanno lanciato una violenta campagna contro i venditori ambulanti di false borse griffate, divenute
immediatamente merce che scotta. In termini giuridici, si distingue tra:
USURPAZIONE se si riproduce illecitamente un certo prodotto coperto da marchio, per esempio
clonando un cd
CONTRAFFAZIONE  si fabbrica un prodotto con un marchio identico a quello registrato o che non
può essere distinto nei suoi aspetti essenziali da tale marchio di fabbrica. In questo caso tutto ruota
attorno al concetto di identico.

Una sentenza della Corte di Cassazione del 23.02.2000 ricalca che non solo l’evidente differenza di qualità,
ma anche il prezzo eccessivamente basso sono rivelatori del fatto che il prodotto non può provenite dalla
ditta di cui reca il marchio. La valutazione della Corte corrisponde al fatto che quando si va a comprare per
strada una borda che sembra autentica, ma non lo è, ci si vuole appropriare di un’aura, più che del prodotto

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in se. La contraffazione delle Louis Vuitton, più che danneggiare economicamente il marchio originale, lo
rende popolare e quindi lo volgarizza. È per proteggere la propria esclusività, e i relativi prezzi, che LV sta
agendo contro i falsari (l’alternativa sarebbe di abbassare i prezzi, con l’effetto di spingere il marchio fuori
dal mercato del lusso). In certi casi, si può ipotizzare che la contraffazione o l’usurpazione agiscano
positivamente su un marchio, come nel caso di quei gruppi rock che consolidano la propria fama nei mercati
informali.
Il problema della falsificazione d’arte è ancora più critico.

Ci sono i falsari alla luce del sole, cioè i copisti, onesti artigiani che sbarcano il lunario riproducendo copie
dei capolavori per chi vuole possedere con una spesa bassa un Van Gogh o un Picasso e ci sono i falsari veri
e propri, spesso celebri e mitizzati nel loro ambiente, colti e tecnicamente sofisticati, che inventano le opere
dei grandi immettendole sui mercati; ci sono quelli che usano il falso come provocazione, per burlarsi
dell’ambiente artistico e ci sono coloro che si collocano in una posizione ambigua, intermedia tra vero o
falso, in quanto, consapevolmente o no, autenticano grazie alla loro autorevolezza di esperti, opere false di
dubbia attribuzione.
Coloro che turbano il mercato dell’arte sono gli inventori, quelli che realizzano opere classiche e le
diffondono come autentiche.
I veri grandi falsari utilizzano le debolezze del discorso artistico per volgerle a loro favore. Non solo devono
possedere straordinarie doti tecniche ed un’eccezionale conoscenza della storia dell’arte che permetta loro
di incorniciare come autentica l’opera che hanno fabbricato, ma devono anche conoscere perfettamente il
modo di ragionare degli storici e dei critici. Il falsario ideale è quello che consegna un’opera al mondo,
lasciando che la sua attribuzione a un maestro del passato sia un’idea spontanea dei critici e degli storici
dell’arte. La falsificazione, oltre che nella produzione di un’opera ad alto livello, consiste in una fabrication
che ha di mira l’autorizzazione dell’artefatto. I falsari quindi operano come artigiani, come perfetti artisti
concettuali e performers.

Dopo l’italiano Joni, appartenente ad una vera e propria associazione di falsari specializzati nell’ingannare
ricchi amatori, il primo grande falsario è l’olandese Han Van Meegeren: aveva iniziato una carriera di pittore
poco fortunata, intorno agli anni ’20 aveva fondato una rivista che polemizzava contro il tradimento dell’arte
operato dai modernisti. Per vendicarsi dalla critica che lo aveva bollato come pittore tradizionalista e di
genere, Van Meegeren iniziò a produrre falsi, uno dei quali fu smascherato ma senza che egli venisse
identificato. Il suo colpo più fortunato fu la Cena ad Emmaus di Vermeer che riuscì a vendere per una cifra
pari ad un milione di dollari attuali. Benchè qualcuno avesse dei dubbi, il dipinto fu autenticato da Abraham
Bredius, massimo esperto di antica pittura olandese, il quale scrisse: “trovarsi improvvisamente di fronte ad
un dipinto di uno dei grandi maestri fino ad allora sconosciuto è un momento meraviglioso nella vita di un
amante dell’arte; un’opera intatta, sulla tela originale e priva di restauri, nelle condizioni in cui ha lasciato lo
studio dell’artista. E che opera!”.
Van Meegeren aveva elaborato una tecnica complessa: prima si procurava un dipinto senza valore del ‘600
che raschiava fino ad ottenere una tela pulita poi rifaceva Vermeer, fissando il colore con preparati chimici di
sua invenzione. Il suo vero colpo di genio era realizzare le ipotesi di Bredius, secondo il quale Vermeer
avrebbe dipinto quadri di soggetto religioso in cui si rivelava l’influenza della pittura italiana ed in particolar
modo di Caravaggio. Era proprio Bredius il bersaglio del falsario. Nel 1945, la sua carriera ebbe termine
quando un falso Vermeer, Cristo e l’adultera, venne ritrovato dagli americani nella collezione privata di
Hermann Goring. Van Meegeren fu accusato di aver venduto un tesoro nazionale olandese ai nazisti. Per
scagionarsi dall’accusa di collaborazionismo, che avrebbe potuto costargli la condanna a morte, il falsario
rivelò tutte le sue imprese, ma non fu creduto. Disperato, propose un esperimento: di fronte a testimoni ed
agenti del servizio segreto avrebbe fabbricato un altro Vermeer. Il quadro che ne risultò: Giovane Cristo che
insegna nel Tempio, era della stessa mano degli altri. Il falsario vide cadere le accuse di collaborazionismo, e
fu considerato quasi un eroe per aver abbindolato Goring, anche se fu condannato a pochi mesi di prigione
per falsificazione.

Motivazioni analoghe si trovano nel caso di Eric Hebborn, falsario specializzato in disegni e sculture, e affine
a Van Meegeren, sia per la straordinaria abilità, sia per il risentimento sociale che lo animava. Le sue prime
opere furono maltrattate dalla critica ed alla fine degli anni ’50 entrò in relazione con lo storico dell’arte ed
esperto ufficiale della regina d’Inghilterra Anthony Blunt che gli aprì le porte delle case d’asta londinesi e gli

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autenticò in buona fede i primi falsi. A Roma, iniziò a fabbricare disegni di Leonardo, Mantegna, Poussin ecc.
sembra che molti suoi falsi siano ancora in circolazione.

Elmyr De Hory, presunto figlio di un ambasciatore ungherese, studiò pittura a Monaco e a Parigi, fu
internato dai nazisti e nel secondo dopoguerra falsificò innumerevoli Picasso, Matisse, Renoir e Modigliani.
Svolse la gran parte della sua attività negli Stati Uniti, in Messico e in Spagna, ingannando curatori di musei,
mercanti d’arte e ricchi collezionisti. Nel 1968 fu processato ed espulso dalla Spagna perché omosessuale.
Nel 1976 si suicidò, ma diversi suoi amici diffusero la notizia che il cadavere ritrovato non era il suo e quindi
si trattava dell’ennesima finzione, escogitata per sfuggire all’estradizione o alla prigione. Fu la sua storia ad
ispirare un celebre falso letterario: la pseudo-autobiografia del miliardario Howard Hughes, scritta da
Clifford Irving. Irving falsificò la firma del miliardario e si inventò tutte le interviste riportate. Nel 1972, la
casa editrice McGraw-Hill annunciò l’uscita del libro Autobiography of Howard Hughes. Hughes bloccò la
stampa e denunciò Irving, che fu condannato ad un anno e mezzo di prigione.

COME SIA DIFFICILE DISTINGUERE IL VERO DAL FALSO


È difficile non provare simpatia pe i grandi falsari. Con il loro lavoro, esercitano una sorta di critica radicale,
della stessa idea di arte e dei concetti di senso comune che su cui questa poggia, a cominciare
dall’opposizione tra vero e falso. Essi comunque violano quel principio morale oltre che giuridico, secondo
cui un’opera è di chi l’ha fatta veramente e l’aura scaturisce proprio dall’unicità della relazione tra artista e
opera. Una copia deve considerarsi autentica solo se di mano dell’autore. Nelle botteghe rinascimentali,
l’apporto dei maestri si limitava spesso all’idea, al progetto o ad alcuni dettagli del dipinto, che per il esto
veniva realizzato da garzoni e assistenti. A Veronese si attribuiscono centinaia di dipinti che certamente non
avrebbe potuto realizzare da solo nei 35 anni della sua carriera matura.
E’ probabile che i maestri si siano limitati in certi casi al bozzetto dell’opera e a sorvegliarne l’esecuzione,
esattamente come un grande architetto schizza rapidamente un’idea, il cosiddetto ex tempore, lasciando
poi che schiere di allievi, disegnatori e modellisti la perfezionino fino a realizzare la versione definitiva del
progetto, che ovviamente recherà solo la firma del maestro.
Spesso anche gli artisti contemporanei si limitano all’ideazione.

Un’opera d’arte consiste soprattutto nell’aura che la costituisce, e l’aura è una questione di firma. Un’opera
è autentica se è tale l’intenzione dell’artista, cioè se è effettivamente il risultato della sua personale
invenzione e quindi frutto del suo ingegno, indipendentemente dall’esecuzione. È autentica quindi se è il
risultato della volontà espressiva dell’artista.

Nei casi di Joni, Van Meegeren, De Hory ecc ci troviamo di fronte ad artisti che in realtà non copiano delle
opere classiche ma le inventano, falsificandone l’aura.
La distinzione tra vero e falso, tra aura ufficiale e aura sommersa, è oggi sempre meno praticabile. Nell’era
dei simulacri, l’aura autentica è di chi è capace di venderla meglio.

LA VERITA’ SMASCHERATA
I grandi artisti della falsificazione non copiavano per lo più gli originali, ma creavano opere virtualmente
autentiche, lasciando a critici o esperti il compito di autenticarle, falsificandole. I falsari erano
necessariamente tradizionalisti, perché dovevano produrre opere riconoscibili come dipinti, sculture o
disegni unici.
Oggi è molto diffusa la falsificazione o reinvenzione dell’aura in quanto tale, in assenza di qualsiasi opera e
perfino dell’artista. Mancando opere ed artisti, questo tipo di falsificazione non persegue il guadagno più o
meno illecito, ma lo smascheramento dell’arte in quanto produzione d’aura: le BEFFE.
Una beffa (in inglese HOAX) è una messinscena o costruzione volta a ridicolizzare qualcuno, prima
avvolgendolo di qualche aura, e poi dimostrando che questa non esiste, e quindi come nella celebre fiaba di
Andersen, che “il re è nudo”. Quando hanno di mira i potenti, le beffe acquistano un significato morale, in
quanto rivelano la nuda realtà del potere, dell’autorità o della presunzione intellettuale.
Una beffa è quindi un modo per ridicolizzare, sgonfiare l’evidenza, ad es. la biografia romantica degli artisti
in quanto risultato di determinati stereotipi narrativi: dalla potenza sovrumana di Michelangelo al carattere
olimpico di Picasso o l’angoscia di Pollock.

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La beffa più famosa e dissacrante del secolo è quella dei falsi Modigliani. Alcuni studiosi livornesi,
realizzarono nel 1984 delle sculture di Modigliani e le gettarono nel Fosso Reale, luogo in cui la tradizione
vuole che l’artista avesse abbandonato alcune sculture. Una lettera anonima consiglia di cercare proprio lì
ed ecco comparire tre teste di pietra. Studiosi e critici d’arte (Giulio Carlo Argan, Carlo Ludovico Ragghianti e
Cesare Brandi) le dichiararono immediatamente autentiche. Il settimanale Panorama pubblica la
documentazione comprovante che una testa era stata realizzata dagli studenti. I critici allora cercarono di
svalutare le opere, giudicando brutte le sculture “[…] le teste sono da rifiutare perché brutte, non perché
necessariamente false […]”.

Altro esempio di beffa è quella che coinvolge il fotografo Oliviero Toscani, mentre il bersaglio è il curatore
della Biennale di Tirana. Viene offerta a Toscani l’opportunità di diventare uno dei curatori della Biennale di
Tirana e gli chiede di fargli qualche proposta. Il presunto Toscani fa i nomi di quattro giovani talenti che
meritano di essere lanciati: Piccardo (autore di “Come tanti figli di Bin Laden”), Ecua (espone opere sulla
non violenza), Gavotta (propone “capolavori di un voyeurista cronico) e Bioy (si dichiara pedofilo e propone
nudi infantili). Il pacchetto è molto interessante e vengono inseriti nella Biennale. Su Flash Art viene
pubblicato un articolo di approfondimento sulle scelte di Toscani. A questo punto scoppia il caso: il vero
Oliviero Toscani, vedendosi citato da Flash Art si rivolge ad un avvocato. Il Sole 24 Ore pubblica un articolo
in cui i due artisti hacker raccontano tutta la storia. La beffa fallisce, poiché invece di ammettere l’errore il
curatore interviene ammettendo la soddisfazione ad aver ospitato una mostra di quei quattro artisti. Coloro
che sono stati raggirati sono due tipici rappresentanti del mondo dell’arte: un fotografo di fama mondiale
che è un maestro della commercializzazione di immagini d’avanguardia; e il secondo un critico che
sponsorizza qualsiasi immagine purché vendibile nel mercato dell’arte.

CAP. 6 – ARTISTI SENZ’AURA


ALTA E BASSA CUCINA
Tutto può diventare arte se provvisto della relativa aura; tutta l’arte contemporanea si sviluppa all’ombra
dell’Orinatoio di Duchamp.
Se tutto può essere arte, perché alcune immagini, esperienze e simulazioni di esperienza
evidentemente artistiche non sono ammesse nel mondo dell’arte? Perché un oggetto di design, un
modello di moda, la creazione di un cuoco, un fumetto ecc. non saranno mai esposti in un’esibizione
o in una galleria di arte contemporanea?
Perché si tratta di prodotti destinati all’uso e non allo scambio. Essi hanno un valore pratico in sé
che li zavorra, impedendo loro di librarsi nella sfera dell’arte contemporanea. Essi sono scambiati in
altri mercati e quindi non sono aurizzabili. È per questo che in un’asta saranno venduti quadri dipinti
da uno scimpanzé e dei falsi Corot ma non la tavola originale di un fumetto.

Un’opera d’arte resta tale anche quando è riprodotta in un oggetto di consumo, ma affinché un prodotto
seriale divenga artistico, è necessario che il suo fantasma si separi dall’uso originario e divenga unico ed
esclusivo. L’aurizzazione è dunque un processo problematico, perché consiste nella ridefinizione continua
di ciò che è arte e ciò che non lo è.

Consideriamo un’attività lontana dall’Arte Arte: la GASTRONOMIA.


Marie-Antoine Careme dichiara che “le belle arti sono cinque: pittura, scultura, poesia, musica e
architettura; la principale branca di quest’ultima è la pasticceria”. Tra le sue creazioni celebri, si ricordano le
pièces montèes che riproducevano edifici immaginari o ruderi antichi, solitamente di zucchero. Una di
queste creazioni fu messa sotto vetro ed esposta al Conservatorie des Arts des Metiers di Parigi. Solo
convenzioni discutibili impediscono di porre l’arte della cucina alla pari delle sorelle più nobili. Gombrich fa
risalire la soddisfazione estetica ed il piacere del cibo ad una stessa fonte: l’oralità. L’affinità tra arte e cucina
deriva dall’identità dei gesti con cui, in una cucina o nella bottega di un pittore si trasforma la materia prima
ricorrendo a tecnologie elementari. Per un artista rinascimentale parlare di pittura in termini culinari era
dunque naturale, perché le due arti comportavano parimenti abilità manuali ed invenzioni, nonché le
qualità estetiche che ne discendevano: armonia, senso delle proporzioni e gusto. La separazione della
cucina dalle belle arti non dipese soltanto dallo status esclusivo che i pittori, scultori e architetti

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cominciarono a pretendere dopo la fine delle corti. Fu anche effetto del processo che i sociologi chiamano
razionalizzazione degli stili di vita, nonché della conseguente ascesa della scienza a supremo criterio
ordinatore della modernità. È l’artista a fare il cuoco.

CONCLUSIONI
L’ARTE PER QUELLO CHE E’
L’arte è una dimensione a sé, che esiste solo in virtù di definizioni più o meno riconosciute, convenzioni più
o meno seguite, retoriche più o meno condivise, operazioni di valorizzazione e contraffazione, pratiche di
inclusione ed esclusione. Ma è anche uno specchio in cui si riflette il nostro modo di essere.

L’arte oggi è una sfera culturale che esprime, più di ogni altra, la natura mercantile del nostro mondo.

Proprio perché vi è in gioco il senso di quello che siamo davvero, un po’ tutti hanno interesse a mantenere
l’arte nella sua dimensione arcana, protetta dall’impenetrabilità del suo discorso. Fin quando esisteranno
attività artistiche, esisterà qualcosa come l’aura, una sorta di alone che avvolge qualsiasi cosa siamo capaci
di creare. L’arte deve quindi essere vista in modo laico: un mondo di pratiche, in cui si produce, si rielabora e
ovviamente di vende del senso. È giusto sottoporla ad un radicale disincanto ed è giusto non gravarla di
troppe pretese. L’arte non ci sottomette, né ci emancipa, esattamente come la gastronomia. Se qualcuno
osservasse che in questo modo escludiamo dall’arte il cambiamento, risponderemmo: proprio perché l’arte
ufficiale esprime oggi il senso profondo di una società mercantile, arida e gerarchizzata, sarà meglio agire su
questa, e vogliamo che anche l’arte sia un’altra cosa.

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