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Storia dell’arte contemporanea 2

ARTE INFORMALE
L’informale è la risposta artistica che l’Europa da alla crisi morale, politica e ideologica conseguente agli
errori che aveva portato la seconda guerra mondiale (città devastate).

L’informale Europeo e Americano (chiamato anche Espressionismo astratto) sono molto diversi a causa dei
segni della guerra:

Europa  maceria, c’è un bisogno di ricominciare da 0.

America  la guerra si è svolta fuori casa, il dramma viene percepito a distanza.

(queste differenze incideranno sullo sviluppo dell’Informale)

Termine “Informale” (non forma) nasce da Michelle Tapiè (critico d’arte) in Francia.

Si sviluppa tra il 1950 e 1960, anche se nasce verso la fine degli anni 40, il suo periodo d’oro è tra il 1950 e
1956, e si pone in forte polemica contro tutto ciò che ha una forma, sia figurativa che astratta.

2 modi per reagire al trauma della guerra:

 Annullare il ricordo  reazione emotiva (America)

 Lavorare sulle ferite per costruire un nuovo mondo  reazione concettuale (Europa)

Il movimento al suo interno ha diverse matrici che prendono spunto da movimenti precedenti quali il Dada,
Espressionismo e Surrealismo, da questo miscuglio nasce una nuova concezione dell’arte.

Passioni, tensioni e disagi devono essere espressi nel modo più libero, spontaneo e violento possibile al di
fuori di ogni regola normalmente accettata.

Molto importanti sono i materiali usati, infatti non vengono più considerati come un mezzo del quale
l’artista fa uso ma diventano i veri protagonisti dell’opera d’arte.

Superfici rugose  richiamano sensazioni di spiacevolezza e conflitto.

Superfici morbide  richiamano sensazioni di dolcezza e serenità.

Materiali pesanti (bronzo, marmo)  richiamano l’idea della grevità.

Tele, cartoni, aste metalliche e lamiere sottili  alludono alla leggerezza.

Esistono 2 componenti fondamentali nell’arte Informale:

 Arte gestuale: molto enfatizzato, lo si ritiene l’unico momento veramente creativo. Fare arte non
significa più realizzare pitture o sculture ma lo diventa l’atto di eseguirle; il valore artistico si
trasferisce nel gesto e non più nel prodotto; il gesto può essere qualsiasi: simbolico, provocativo, di
protesta ecc.
 Arte materica.

Con la nascita dell’informale nasce il primo movimento Americano che inverte la rotta = Non è più l’europa
ad influenzare l’america. (primo movimento americano che influenza il resto del mondo)

In America:
 Espressionismo Astratto: termine riferito ad un’astrazione pensata, simbolica, carica di significato.
Si rifà a Kandinsky; nell’Informale non c’entra più la parola “espressionismo” perché la pittura non
trasmette emozioni, riproduce semplicemente la vita di tutti i giorni.
 Biomorfismo: Termine che rappresenta la vita embrionale, gli storici lo hanno utlizzato per definire
gli acquerelli di Kandinsky, nell’informale si riferisce all’artista che rappresenta la vita.
 Action Painting: “stretta relazione tra arte e vita, tra dipingere e agire”. Pollock affida al gesto la sua
immagine, il gesto non è casuale infatti viene scelto sia il gesto che il materiale da usare.
 Color field Painting: è caratterizzato dall’impiego di tele di canapa di grandi dimensioni su cui
vengono stesi ampi spazi di colore. Il movimento rifiuta qualsiasi fattore relativo a forma, segno e
materia, orientandosi esclusivamente sugli effetti derivati dagli accostamenti dei vari campi di
colore, talvolta dalle stesse gamme di un solo colore.
Può essere diviso in due grandi tendenze: una ove si tende ad impiegare contrasti cromatici tra
grandi zone, il cui più alto esponente è Mark Rothko, che caratterizzava le proprie opere con fasce
di pochissimi colori contrastanti rappresentate come masse gassose. L’altra tendenza viene invece
riferita alla ricerca monocromatica, cioè allo studio sulla variazione tonale di un solo colore.

NEOAVANGUARDIE (1950-1960)

Nuovi indirizzi artistici si orientano sulla ripresa, vengono chiamati Neoavanguardie; una delle loro
caratteristiche più espressive è l’abbattimento delle frontiere tra arte e vita dove l’arte sconfina nella vita e
diventano un tutt’uno. La concezione di “arte” muta fino ad includere virtualmente qualsiasi materiale
utilizzato e qualsiasi azione compiuta. Le manifestazioni artistiche cessano di esistere in ambiti separati
(luoghi o forme dedicate es. gallerie d’arte, musei, scultura e architettura) ed entrano a far parte della vita.

Environment e Happening

L’avvicinamento tra arte e vita fa si che vengano proposte opere che lo spettatore può percorrere dove
viene sottoposto a diversi stimoli come luci, colori, odori ecc. Successivamente l’opera diventa
un’azione che artista e pubblico condividono in un determinato luogo e periodo di tempo, nasce quindi
l’Happening (qualcosa che accade) teorizzata da Allan Kaprow. Negli anni ’60 l’happening diventa una
forma di espressione molto usata dagli artisti anche appartenenti ad altre correnti come New Dada o
Pop-Art.

I luoghi in cui gli Happening si svolgono sono luoghi comuni come appartamenti, sotterranei, vecchie
fabbriche, la strada ecc. Tutte queste nuove forme di espressione hanno un antecedente fondamentale
nelle scorse avanguardie, in particolare nel futurismo e dada.

Nel corso di 6 serate (dal 4 al 10 ottobre 1959) si tiene alla reuben Gallery di New York la prima
manifestazione artistica, chiamata 18 happenings in 6 parts; si tratta di un evento che si svolge
seguendo un copione con un pubblico all’interno di una sala; Al pubblico viene distribuito un foglio
dove è spiegato l’evento: esso consiste in 6 parti, ciascuna contenente 3 happenings che si svolgono
contemporaneamente. Per un’ora e mezza quindi si succedono azioni diverse, dalle più elementari a
quelle artistiche mentre sulle pareti scorrono film e diapositive.

Fluxus

Sfugge ad ogni definizione, si caratterizza come un gruppo di artisti liberi dove tutto può essere arte e
tutti la possono fare.
George Maciunas è il personaggio di spicco di questo movimento, pubblica il primo manifesto e
organizza diversi festival, anche in Europa e Giappone. Alla sua morte il gruppo si disgrega e i vari artisti
procedono le loro ricerche individualmente.

Fluxus è sempre considerato da un atteggiamento anti-artistico che vuole abbattere i confini tra ciò che
viene considerato arte e ciò che non lo è. Per attuare il loro programma, gli autori del Fluxus mischiano
tutte le varie pratiche tra loro.

GORKY

Gorky nacque nasce nella Turchia ottomana, il 15 aprile del 1904 da una povera famiglia armena. Nel 1908,
per eludere il servizio di leva, suo padre fuggí negli Stati Uniti, lasciando a casa la propria famiglia, che
scappa durante la prima guerra mondiale, in Armenia.

Nel 1920, all'età di 16 anni, emigrò negli Stati Uniti, dove in seguito cambiò legalmente nome in "Arshile
Gorky", in omaggio allo scrittore russo Maksim Gor'kij, che come lui ebbe una vita dolorosa.

Negli Stati Uniti lavorò con gli amici Jackson Pollock e Willem de Kooning.

Nel 1924 si iscrive alla New school of design di Boston. Si stabilisce a New York nel 1925, insegnò fino al
1931 alla Grand Central School of Art dopo avervi studiato per breve tempo. nel 1932 entrò a far parte del
gruppo Abstraction-Création; tenne quindi le prime personali a Filadelfia e a New York e collaborò con il
Works Progress Administration Federal Art Project.

Morì suicida all'età di 44 anni. Vive una vita molto triste (tumore, la moglie lo abbandona e gli porta via i
figli, per la depressione si suicida).

1° fase di pittura “alla maniera di” (1925-1930)  sente il bisogno di ancorare la sua arte agli artisti del
passato come Cezanne, Picasso, Mirò, Masson.

1926 “l’artista e la madre”  Impronta cézanniana, il pittore trova una vecchia foto di lui e sua madre di
quando aveva 8 anni e decide di riprodurla, ll quadro lo terrà impegnato in maniera quasi ossessiva per
lunghi anni. Le sue forme sono sintetiche e la tela viene dominata dai colori rosa caldo e terracotta.

E’ uno dei dipinti che ebbe maggiore impatto nel 20esimo secolo.

1938 “serie Khorhom”  influsso picassiano, attraversa il surrealismo e si orienta verso un suo sistema di
segni astratti espressi in uno spazio indefinito. Khorhom era il nome del suo villaggio natale, il dipinto allude
alla sua infanzia.

1941 “giardino a sochi”  ha inizio la seconda fase; esitono tante versioni di questo dipinto che
rappresenta il giardino della sua casa in Armenia. Lascia che le figure si immergano nello sfondo, guarda
Mirò e Kandinsky.

1943 “terza fase”; introduce la “Tash”, una tecnica dove la macchia di colore era spontanea, il colore quasi
acquoso si espande oltre la figura.

1943 “Waterfall”  nel 1942 passa un mese in Connecticut dove studia tramite bozzetti l’area, “waterfall”
è il risultato di questi bozzetti, un paesaggio astratto dove sviluppa il suo stile. (tecnica di microdripping
causato dalla tash).
1947 “agony”  è forse il più interessante dipinto, perché può essere capito solo in relazione alla vita
breve e sofferente dell’artista. Tash esiste ma è nera.

1948 “Last painting – black Monk”  si dice che questo sia il dipinto ritrovato il giorno in cui lui si suicidò
in cui sia raffigurato tutta la sua depressione. Raffigura la breve storia “il monaco nero”, che parla di un
uomo delirante che vede questo monaco, il quale gli annuncia di essere un genio e che morirà soltanto
perché il suo corpo non può più contenerlo.

JACKSON POLLOK

Era il maggior esponente dell’Action Painting.


Pollock nacque nel 1912 a Cody, suo padre faceva l'agricoltore e lui lo accompagnava spesso nei
suoi viaggi. trascorse la sua gioventù tra l'Arizona e la California ed ebbe una formazione scolastica
abbastanza irregolare.
Fin dall’inizio risente molto del fascino della pittura dei nativi americani (con cui venne in contatto
tramite uno dei viaggi del padre) e della pittura messicana (con cui venne a contatto tramite un
seminario a New York. Pollock trae le proprie immagini direttamente dall'inconscio, così come i
nativi le traggono dal "mondo degli spiriti".
Nel 1929 si trasferì a New York, dove diventò allievo del pittore Thomas Hart Benton alla Art
Students League.
Nel 1937 è già gravemente affetto da alcolismo e inizia a sottoporsi a varie terapie psicoanalitiche.

Nel 1943 conosce Peggy Guggenheim, che diventò una sua grande sostenitrice, per lei realizza
un’opera di 6 metri per la sua casa.
Nell'ottobre del 1945 Pollock sposò Lee Krasner, e il mese successivo si trasferirono in quello che è
ora conosciuto come il Pollock-Krasner House di Springs, Long Island. Nel suo fienile, trasformato
in laboratorio perfezionò la sua tecnica di pittura “spontanea” chiamata Dripping. Dipingeva
stendendo le tele sul pavimento , negava l’esistenza del caso, aveva un’idea precisa dell’opera che
voleva realizzare e per ottenerlo si serviva del suo corpo, eseguendo i suoi dripping con movimenti
che ricordavano una danza. (vedi fotografie di Hans Namuth del 1950)
I quadri più famosi di Pollock sono quelli realizzati nel periodo del "dripping" tra il 1947 e il 1950.
Diventò molto noto in seguito alla pubblicazione di un servizio di quattro pagine della rivista Life.
I suoi lavori successivi al 1951 si presentano con un colore più scuro, spesso usa soltanto il nero, ed
iniziano a reintrodurre elementi di tipo figurativo.
1947 “number 32”  opera più famosa, le linee nere emergono dallo sfondo.
1946 “Eyes in the art”  fa parte di una serie di 7 dipinti, di cui alcuni sono stati esposti da Peggy
Guggenheim. All’interno del quadro si vede un visibile effetto dello spostamento da New York a
Long Island perché il quadro presenta molti più colori che alludono alla natura.
1946 “Shimmering Substance”  il colore si espande in tutta la tela e si trasforma in luce ottenuta
attraverso i colori scelti.
1948 “Full Fathom five”  il titolo cita Shakespeare “la tempesta”, sulla tela incolla dei pezzi di
vita (es: sigarette, bottoni ecc) ma ad occhio nudo si vedono poco perché risucchiati dal colore
della tela.
1947 “Alchimia”  da un lato della tela ci sono delle sgretolature date con il braccio disteso che
creano linee dritte, mentre dall’altro creano degli uncini.
1948 “Number one”  il quadro pulsa di energia, intricato groviglio di colori che rappresentano il
continuo rovello dell’artista messo su tela.
1952 “pali blu”  uno dei quadri più famosi, all’inizio si chiamava n°11, poi nel 1954 cambia
nome, i pali sono espressi tramite una verticalità deviata, come se fossero vissuti.
1953 “The deep”  l’abisso ci affascina perché è sconosciuto, lo squarcio nero su foglio bianco
rappresenta una ferita. Bianco  purezza, Nero  morte.

WILLEM DE KOONING
Incomincia la sua carriera come apprendista presso una bottega di pittori a Rotterdam.
Frequenta l'Accademia di Belle Arti e scuole d'arte ad Anversa ed a Bruxelles. Dal 1926 si
trasferisce negli Stati Uniti e durante gli anni di crisi economica realizza affreschi su commissione
del WPA Federal Art Project, nello stesso anno incontra Gorky che lo mette in contatto con alcuni
galleristi, i due erano strettamente legati. Durante la seconda guerra mondiale entra a far parte
del gruppo di artisti astratti, formatosi attorno ai numerosi pittori europei emigranti.
Accanto a opere figurative elaborò immagini astratte, ma solo verso il 1940 cominciò a delinearsi
la sua ricerca più originale che si impose come una delle più significative dell'espressionismo
astratto: una rete di strisce nere avviluppa le figure, sradicandole dalla loro identificazione
oggettiva, ma insieme forzandone i tratti pur sempre riconoscibili.
Il 9 dicembre 1943 sposò l'artista Elaine Marie Catherine Fried, nota come Elaine de Kooning . Nel
1948 con la sua prima personale alla Egan Gallery si afferma come uno degli esponenti più in vista
dell'espressionismo astratto.
Dalle Fiandre, trae quelle caratteristiche comuni a Vincent van Gogh, quel senso d'angoscia e alla
necessità di esprimerlo. Le sue primissime opere sono di matrice realista, ma il suo linguaggio
artistico matura nell'ambito dell'espressionismo astratto. Le sue tele sono la rappresentazione di
una visione deformante e violenta che astrae la realtà esteriore.
Dal 1946 al 1948 la sua ricerca, sempre più astratta, lo portò ad abolire il colore, cui ritornò in
seguito soltanto per rendere evidente l'incrociarsi e il sovrapporsi delle forme.
Nel 1947 svolge la sua prima mostra personale presso la Egan Gallery, riscuotendo un buon
successo. La sua fama però è soprattutto dovuta alle sue esibizioni effettuate alla Sydney Janis
Gallery culminate con la mostra sulle Donne del 1953. Tre anni dopo propone i suoi lavori alla
Biennale di Venezia.
Famosa è una serie di figure di donne, dipinta dal 1950 al 1952, dai volti nevrotici, i corpi resi quasi
indistinguibili dal sovrapporsi delle pennellate. Anche nelle opere degli anni Sessanta si coglie un
certo riaffiorare di elementi realistici, seppure deformati e suggestivi. La violenza e l'inquietudine
sembrano tuttavia allentarsi nelle ultime opere, segnate da maggiore lirismo e radiosità cromatica.
Negli ultimi anni di vita gli fu diagnosticata la malattia di Alzheimer. I critici d'arte discutono ancora
oggi su come debbano essere valutate le sue opere dagli anni ottanta in poi, a causa della sua
malattia e di uno stile di vita dedito all'alcool. I suoi ultimi lavori evidenziano un nuovo gusto
pittorico complesso e articolato, contraddistinto da giustapposizioni cromatiche e da giochi e
ricerche grafiche.
1938 “Due uomini in piedi”  prime opere, trasmettono una sorta di apatia e debolezza. Tra il
1938 e il 1944 l’artista crea una serie di dipinti raffiguranti gli uomini. Le due figure nel quadro
sembrano due apparizioni, l’aria sembra passargli attraverso e non hanno peso. L’artista lascia le
figure in una fase temporale: rimangono come se fossero evanescenti (matisse).
“paesaggio rosa”  tendenza a lasciare la figura per la geometria, usa colori gioiosi,
compensazione per aver vissuto una vita triste (alcolismo, tradimento della moglie)
1940 “pink angels”  fase importante dell’evoluzione della sua pittura, le figure evocano forme
anatomiche, dipinte violentemente che sono ispirate alla seconda guerra mondiale, gli altri
elementi figurativi sono a malapena distinguibili dal giallo di sfondo.
1946 “Light in august”  tramite l’uso del dripping, crea un effetto emozionante che può essere
descritto come una crisi, le linee nell’oscurità sono certe, le forme più che essere geometriche
sono naturali. L’opera rimanda al caos, che spesso converge ad una moltitudine di emozioni.
1949 “soffitta”  rimangono solo poche tracce di colore tra forme bianche e nere, la
composizione dinamica deriva dall’uso che l’artista fa della figura, qui la scompone e ridisegna.
(richiama pollock)
1950 “woman”  serie che lo rese famoso, richiamo alla donna come portatrice di vita (seno)
volto pauroso, portatrice di morte.
1981 “pirata”  ispirato a matisse, a causa della sua salute psicologica causata dall’alcool, gli
ultimi dipinti dell’artista si dissociano dagli altri.

FRANZ KLINE
Nasce il 23 maggio 1910 a Wilkes-Barre, Pennsylvania. Iscritto alla Boston University dal 1931 al 1935. Nello
stesso anno si trasferisce a Londra dove dal 1936 al 1938 frequenta la Heatherly's Art School. L'anno
successivo lascia definitivamente L'Europa per New York.

Alla fine degli anni 30 e nel corso degli anni 40, Kline dipinge vedute urbane di New York e paesaggi dove
aveva trascorso la sua infanzia. In questo periodo, riceve premi in alcune rassegne annuali di Accademie
Nazionali di Design.
Alla metà degli anni 40 Kline inizia a sviluppare un interesse per le possibilità espressive dell'astrazione e a
ridurre e semplificare gli elementi compositivi del suo stile realista.

Nel 1950 Kline espone un dipinto astratto nella mostra Talent 1950 alla Kootz Gallery, organizzata da
Clement Greenberg e Meyer Schapiro. Alcuni mesi dopo, la Egan Gallery di New York gli dedica la prima
mostra personale. La sua partecipazione a numerose mostre (Ninth Street Show, American Vanguard Art)
confermano l'artista come una delle più significative figure nell'ambito dell'emergente movimento
dell'Espressionismo Astratto.

A metà degli anni 50, Kline reintroduce il colore nella sua tavolozza bianca e nera, inizialmente in modo
irregolare e in seguito con segmenti sempre più larghi. Nel 1956, Sidney Janis diviene il suo gallerista di
riferimento. L'artista tiene la sua prima mostra personale in Europa alla Galleria La Tartaruga di Roma,
seguita dalla mostra alla Galleria del Naviglio di Milano nella primavera del 1958. In occasione della sua
partecipazione alla Biennale di Venezia nel 1960 compie un viaggio di un mese attraverso l'Italia.

Kline vedeva i suoi dipinti non come un’espressione delle sue emozioni ma come un mezzo per creare
forme fisiche e presenze che potessero essere percepite da chi guarda l’opera, ispirerà scultori minimalisti
come Donald Judd e Richard Serra.

Periodo astratto

Come Jackson Pollock e altri informali, è stato etichettato come action painter. Molti dei suoi lavori erano,
tuttavia, il risultato di una "spontaneità studiata", in quanto usava preparare molte bozze di quello che
sarebbe stato poi il lavoro "spontaneo" su tela. I suoi dipinti erano apparentemente il risultato di gesti fisici
scaricati sulla tela con impatto drammatico, ma nascondevano un concetto sottile sviluppato nei precedenti
disegni preparatori. I suoi lavori più noti sono quelli in bianco e nero, e in questi vi è una notevole
somiglianza con la calligrafia cinese, anche se l'artista ha sempre negato ogni derivazione da essa. Intorno al
1955, Kline tornò ad utilizzare il colore, e in maniera più consistente nel 1959. Lo stile più noto e
riconoscibile di Kline deriva da un suggerimento datogli dall'amico Willem de Kooning nel 1948, ovvero
prendere uno dei suoi usuali schizzi di prova e proiettarlo su una parete mediante un proiettore ottico che
aveva nel suo studio.

1950 “wotan”

1953 “New York, New York”

1955 “contorno arancione”

MARK ROTHKO

È il quarto figlio di una famiglia ebrea. Nel 1910 il padre Jacob emigrò negli Stati Uniti. Nel 1913 lasciò il
paese natale, la Lettonia, per trasferirsi con la famiglia a Portland, in Oregon (Stati Uniti d'America). Tra il
1921 e il 1923 frequentò l'università di Yale. L'anno successivo abbandonò gli studi per trasferirsi a New
York e nel 1925 studiò con Max Weber all'Art Students League. E 'stato a causa di Weber che Rothko
cominciò a vedere l'arte come strumento di espressione emotiva e religiosa, i dipinti di questo periodo
rivelano una influenza weberiana.

Si iscrive per un breve periodo alla New School of Design, dove uno dei suoi maestri era l'artista Arshile
Gorky. Questo è stato probabilmente il suo primo incontro con un membro dell '"avant-garde".
La sua prima esposizione risale al 1928 presso una collettiva alle Opportunity Galleries di New York. Nel
1933 tornò a Portland per organizzare la sua prima personale, a cui seguì lo stesso anno un'altra personale
a New York, presso la Contemporary Arts Gallery.

Nel 1935 fu uno dei fondatori del gruppo The Ten, rivolto soprattutto a ricerche nell'ambito dell'astrazione
e dell'espressionismo. Tra il 1936 e il 1937 dipinse su cavalletto per il Federal Art Project e conobbe Barnett
Newman. Cominciò una stretta collaborazione con Gottlieb, sviluppando uno stile pittorico dal contenuto
mitologico, figure piatte e derivate dal linguaggio artistico primitivo. Intorno al 1945 avvicinò il suo stile alle
tecniche e alle immagini del surrealismo e, grazie a Peggy Guggenheim, poté allestire una personale alla
galleria Art of This Century di New York.

Il suo lavoro si concentrò sulle emozioni di base, spesso riempiendo grandi tele di canapa con pochi colori
intensi e solo piccoli dettagli immediatamente comprensibili. Per questo può anche essere considerato
precursore dei pittori color field. È infatti tra la fine degli anni quaranta e l'inizio degli anni cinquanta che
sviluppa il suo stile della maturità. Luminosi rettangoli colorati sembrano stagliarsi sulla tela librandosi al di
sopra della sua superficie, come in Number 10. Tuttavia Rothko rimase semisconosciuto sino al 1960,
sostenendosi insegnando arte, prima presso il Brooklyn Jewish Academy Centre e poi alla California School
of Fine Arts di San Francisco.

Nel 1958 Ludwig Mies van der Rohe commissionò a Rothko di dipingere una serie di murales per il
ristorante Four Seasons nel Seagram Building di New York, un progetto su cui lavorò per più di un anno.
Una volta ultimato, Rothko non fu felice di vedere le sue pitture come sfondo ad una sala da pranzo, quindi
ne consegnò nove di quelle marroni e nere alla Tate Gallery, dov'è tuttora presente un'installazione
permanente progettata dallo stesso Rothko.

Nel 1967 collaborò nuovamente con l'architetto Philip Johnson ad una pittura murale per una chiesa di
Houston, in Texas, realizzando quattordici lavori a tema per un'installazione ambientale. Numerosi altri
lavori di Rothko sono sparsi in giro per il mondo in altrettanti importanti musei.

Fisicamente logorato a causa del suo regime alimentare (beveva e fumava con piacere) e dopo una vita
segnata dalla depressione, il 25 febbraio 1970 si suicidò nel suo studio di New York.

L'anno successivo venne inaugurata a Houston la Rothko Chapel nella chiesa in cui aveva esposto
l'installazione a tema ambientale nel 1967. A seguito della sua morte la determinazione della sua eredità
divenne il soggetto di un famoso caso giudiziario.

Nel 2003, in occasione del centesimo anniversario della nascita, la famiglia dell'artista decise di concedere
in sua memoria un contributo finanziario per il restauro della sinagoga Kaddish di Daugavpils, sua città
natale in Lettonia. I lavori iniziarono nel 2003 e durarono tre anni, riportando l'edificio alla sua forma
originaria.

1938 Entrance to Subway -> anche se non ha mai creato una serie di dipinti, questo era uno dei temi
ricorrenti nei suoi primi lavori. La figura sulla scalinata della metro rimanda ad una figura nel dipinto di
Milton Avery, “Artist’s wife” (Avery ha avuto un profondo impatto su Rothko, soprattutto sull’applicazione
del colore).

Entrance to Subway mostra l’alienazione della vita cittadina, solitudine. (collegato all’era “della
depressione” realista). In questo periodo, l’artista sceglie di dipingere con uno stile espressionista; non era
interessato al realismo della vita cittadina ma voleva esprimere un tipo di emozione. Il dipinto ha
un’atmosfera quasi dark, mentre l’osservatore riconosce la figura come un comune lavoratore, nel mentre
empatizza il senso di isolamento e alienazione; la monotonia della vita di tutti i giorni.
1941 Antigone -> molti dei dipinti furono presentatati nel 1942 da Macy’s, il più grande magazzino di New
York. Antigone fu mostrato prima, al Riverside Museum alla prima esibizione annuale della Federazione dei
Pittori Moderni e Scultori. Prima della mostra da Macy’s, il New York Times pubblicò una recensione
negativa, Rothko scrisse una lettera di polemiche dirette al Times.

1946 Visione orizzontale


1949 Rosso, arancio, tan e viola -> Il titolo è chiaramente un elenco di colori: Rothko non dava quasi
mai nomi ai suoi quadri, per non soffocare la possibile espansione del significato. Intorno a questi anni
abbandona le figure nei suoi quadri e da spazio ai colori, ispirandosi al Surrealismo e cambiando modo di
dipingere. Riduce la pittura alla sua materia: canapa, pennelli, pigmenti. Le forme che dipinge non
significano niente e non rimandano a nessuna realtà ulteriore. Nel corso del 1949 inizia a dipingere delle
bande orizzontali di colore ordinate. Non voleva che i suoi quadri fossero interpretati da critici d’arte ma
voleva lasciare spazio al pensiero e all’immaginazione.

Nelle opere del suo cosiddetto periodo classico, che si inaugura nel 1950 e si conclude con la sua morte, nel
1970, è uno degli artisti più riconoscibili del Novecento. Ci sono già i quattro colori prediletti, che declinerà
in ogni sfumatura nel decennio a venire: il violetto dal magenta al lillà, lavanda, malva e lampone; il giallo-
arancio dal mandarino allo zafferano; il rosso dal cremisi fino al porpora e al prugna. Questi colori pulsanti,
creano quell’effetto di infinito che verrà raggiunto da Rothko nelle opere della maturità.

Questa può essere definita ancora un’opera di transizione.

1965 Rothko Chapel, Huston, Texas (14 tele) -> La Cappella Rothko è una cappella aconfessionale
situata a Houston (Texas), fondata da John e Dominique de Menil. Lo spazio interno assolve non solo il
compito di cappella, ma costituisce altresì un'importante opera d'arte moderna.

Alle sue pareti vi sono 14 dipinti neri, con sfumature. La forma dell'edificio, un ottagono iscritto in una
croce greca, e il suo design, sono stati influenzati dall'artista.

La Cappella è diventata "il primo centro del mondo ampiamente ecumenico, un luogo sacro aperto a tutte
le religioni, ma che non appartiene a nessuna. È diventato un centro per scambi culturali, religiosi e
filosofici internazionali, per seminari e rappresentazioni, e insieme luogo di preghiera privata di individui di
ogni fede".

Nel 1964 John e Dominique de Menil (fondatori anche del vicino Menil Collection) commissionarono a
Rothko la creazione di uno spazio per la meditazione adornato da suoi dipinti. Allorché fu data a Rothko
licenza creativa per la progettazione dell'edificio, questi si scontrò con il progetto originale dell'architetto
Philip Johnson. I piani conobbero molte revisioni e l'avvicendarsi di più architetti ma Rothko non visse a
sufficienza per vedere il completamento della Cappella nel 1971.

Nel 1999 la Cappella Rothko è stata chiusa per un radicale restauro. I dipinti avevano mostrato prematuri
segni di invecchiamento, e i più grandi tra essi non potevano essere rimossi per i trattamenti conservativi.
Nel 2000 la Cappella ha riaperto i battenti con le opere dell'artista restaurate.

Una caratteristica scultura di Barnett Newman, Broken Obelisk (1963-1967), si erge di fronte alla Cappella.
La scultura è posizionata in una vasca, in cui vi si specchia, disegnata da Philip Johnson ed è stata dedicata
allo scomparso Martin Luther King.
BARNETT NEWMAN
Figlio di immigrati ebrei russi. Studiò filosofia al City College di New York e lavorò come professore, scrittore
e critico. Negli anni trenta dipinse le sue prime opere, in stile espressionista. Deluso dai risultati, si avvicinò
al surrealismo, entrando in contatto con altri artisti di New York, tra cui Mark Rothko, William Baziotes e
Robert Motherwell. Fu grazie a queste amicizie che Newman si legò all'espressionismo astratto,
sviluppando uno stile che si distaccava nettamente dalla arte europea contemporanea; in particolare,
questo gruppo di artisti si avvicinò al color field painting, che si contrapponeva all'action painting. Morì a
New York per un infarto il 4 luglio 1970.

Newman scriveva recensioni e organizzava mostre prima di diventare un membro dell’Uptown Group e
avendo la sua prima mostra personale alla galleria Betty Parsons nel 1948.

Durante gli anni 40 lavorò a dei quadri surrealisti prima di trovare il suo stile. Questo periodo è
caratterizzato da dei quadri avendo aree di colori separate da una linea verticale chiamata “zip”. Nei primi
lavori con le zip, i colori sono variegati, ma dopo diventarono puri.

Zip: elementi che sembrano fornire all’occhio un appiglio senza il quale naufragherebbe nel vuoto. Le zip,
realizzate con colori a olio su una base di tempera o acrilico, si manifestano come attimi di luce che
accadono, il qui e ora del sublime. Un angelo – ebbe a dire Lyotard – “che non annuncia niente, è
l’annuncio stesso”.

Newman disse che aveva raggiunto il suo stile maturo tramite la serie “Onement” (dal 1948). Le zip
definiscono le strutture del dipinto, dividendo e unendo la composizione.

Le zip rimasero una costante nei suoi lavori durante tutta la sua vita, in alcuni dipinti del 1950, creò
addirittura delle sculture di zip tridimensionali.

Lo stile di Newman è caratterizzato da zone variegate di colore separate da linee verticali, che formano
rapporti armonici di sottile equilibrio e che tendono a dilatare lo spazio. Col tempo, la forma viene ridotta
all'estremo e i colori puri sono stesi in modo uniforme su tele di grande formato attraversate da occasionali
linee contrapposte. In questo si può intravedere un collegamento alla tradizione astratta di Piet Mondrian e
Josef Albers; inoltre, l'uso del colore può essere visto come precursore di lavori di artisti come Frank Stella.

Molte pitture di Newman erano originariamente senza titolo: i nomi che successivamente diede loro sono
spesso legati a temi della cultura ebraica. Newman fece anche sculture, acqueforti e litografie attraverso le
quali cercava di trasportare la musica su tela.

Per molti anni le opere di Newman ricevettero pesantissime critiche: fu solo alla fine della sua vita che
cominciò ad essere apprezzato come artista. È inoltre ricordato per l'importante influenza che ebbe sulla
successiva generazione di giovani pittori, in particolare quelli legati al minimalismo.

1958 Serie Stazioni della croce -> ciclo dedicato alla Via Crucis presentato per la prima volta nel 1966 al
Guggenheim di New York. Si tratta di una serie di 14 dipinti “vuoti” in bianco e nero, iniziata subito dopo
che Newman è stato ricoverato da un attacco di cuore. In questi dipinti non vediamo la sofferenza di Cristo
– perché è impossibile vederla – ma sappiamo che è lì, davanti a noi. Il limite di un dolore altrui che è
impossibile vedere se prima non lo sentiamo nostro. Il titolo della mostra che riunì l’intero corpus era Lema
Sabachthani, le ultime parole che Gesù disse sulla croce in accordo al nuovo testamento, Newman vide
queste parole come se avessero un significato profondo nella sua vita. La serie è anche vista come un
omaggio alle vittime dell’Olocausto.

1948 Onement 1 -> Primissimo esempio delle famose zip. Il titolo è enigmatico: composto dalla parola
“one” (uno) e dal suffisso “ment” (corrispondete ai nostri “zione” o “mento”), è stato interpretato ora come
un riferimento all’unicità di Dio ora come il momento della creazione, l’uno da cui luce e tenebre, spazio e
tempo si separarono. Quale che sia la corretta interpretazione, in entrambi i casi si tratta di concetti che
possono essere detti ma non mostrati. Non esiste forma che l’uomo possa figurarsi per rappresentarli. E
infatti il dipinto di Newman non ha una vera e propria forma.

1963 Cantos -> Serie di 18 litografie che dovrebbero evocare la musica. Ogni dipinto è diverso nella forma,
colore, modo e scala. Ognuno di loro è separato dagli altri e può avere senso anche da solo, ma per
Newman il vero senso lo acquistano i dipinti tutti insieme.

1949 Abraham -> Olio su tela. Il rapporto figura-sfondo tra zip e campo è ambiguo, e quindi l'opera si
legge quasi come una lastra solida. Newman ha paragonato l'esperienza di vederlo a quella di confrontarsi
frontalmente con un altro uomo. Dalla sua svolta con Onement, sentiva di essersi liberato dei pesi della
storia dell'arte, comprese le nozioni di ordine compositivo e spazio pittorico, e di aver forgiato un nuovo
inizio per la pittura. Vedeva l'astrazione come un linguaggio: mentre i suoi dipinti mancavano di ciò che lo
storico dell'arte Meyer Schapiro chiamava "materia oggetto" (immagini riconoscibili), per Newman
esprimevano i più alti temi metafisici e spirituali, o, nei termini di Schapiro, "materia". Questo è vero per
Abramo, il cui titolo evoca sia il padre di Newman sia il padre dell'Antico Testamento che quasi sacrificò suo
figlio a Dio.

1950 The Voice -> Barnett Newman racconta l’orrore della guerra, il senso di vuoto che il conflitto
mondiale ha lasciato. Altro tema caro a Newman è il linguaggio meditativo, l’incontro con Dio e la sua
immensa grandezza opposto alla miseria delle sue creature. La grandezza dei dipinti trasmette
all’osservatore una sensazione di assoluta inferiorità, chi guarda il quadro “sente” la distanza che corre tra
se stesso ed il resto dell’universo, distanza che pare incolmabile. Il quadro è concepito come una forma
monocromatica, uniforme, unica rottura una linea che funge da confine tra il cielo e la terra. Ma al
contempo rappresenta un’apertura, la possibilità per tutti noi di tentare un’ascesa trascendentale.

1950 vir heroicus sublimis -> Il titolo latino può essere tradotto “Uomo, eroico e sublime. Newman una
volta chiese: “se noi stiamo vivendo in un tempo senza una leggenda che può essere definita sublime, come
possiamo creare dell’arte che lo sia?”. Questo dipinto, il più grande all’epoca, è una risposta. Newman
voleva che chi guardasse questo quadro si immaginasse di essere di fronte ad un'altra persona.

1963 Obelisco rotto -> Fabbricato da tre tonnellate di Cor-Ten acciaio, che acquisisce una patina color
ruggine, che è la più grande e più nota delle sue sei sculture. In totale, esistono quattro multipli della
scultura.

I primi due multipli della scultura sono stati fabbricati da Lippincott, Inc. a North Haven, Connecticut nel
1966-67. La scultura fu mostrata per la prima volta fuori della galleria Corcoran Gallery of Art di
Washington, DC (come parte di una mostra dal titolo "Scala e Content" ) e di fronte il Seagram Building di
New York City. La scultura ha generato qualche polemica a Washington, prchè ricordava un monumento
rotto a testa in giu di Washington.

Un terzo multiplo è stato completato nel 1969 da Lippincott, Inc., ed entrò a far parte della collezione
permanente del Museum of Modern Art di New York City. Uno è stato comprato da John de Menil ed è
stato installato sulla base della Cappella Rothko a Houston nel 1970, circondata da una piscina riflettente.
Con il permesso del Newman Foundation Barnett, una quarta multipla è stata commissionato nel 2003 e
completata nel 2005-06 da Lippincott, Merrifield, e Roberts. Questo ultimo dei quattro multipli è stato
installato di fronte alla Neue Nationalgalerie di Berlino nel 2007-08 e successivamente acquisita da Storm
King Art Center .

Forse è la migliore scultura americana del suo tempo, è la meditazione di Newman sull’ Egitto: una
piramide di acciaio, da cui vertice un obelisco capovolto si erge come un raggio di luce. Qui, Newman ha
bypassato le associazioni occidentali di piramidi e colonne spezzate con la morte, e ha prodotto un
immagine di affermazione della vita della trascendenza.

WOLS
Wols, pseudonimo di Alfred Otto Wolfgang Schulze è stato un pittore, fotografo e grafico tedesco.

Il suo nome d'arte è un acronimo formato dalle iniziali Wolfgang Schulze. Wols è considerato un pioniere
ed un esponente di primaria importanza della pittura informale in Europa e del tachismo. Nel 1919 la
famiglia si trasferì a Dresda e poiché il padre era il rappresentante del Ministero nel Consiglio
dell'Accademia di Belle Arti, esercitava una certa influenza culturale nella città. Il giovane Otto entrò in
contatto con questo mondo e ne fu affascinato. Nel 1929 morì il padre, questo gli provocò un dolore così
forte che lasciò gli studi e si mise a lavorare. Il 14 luglio 1932 con una raccomandazione dell'artista-Bauhaus
László Moholy-Nagy arrivò a Parigi dove venne presentato ad Amédée Ozenfant e Fernand Léger. Nel
febbraio del 1933 Wols conobbe la figlia del generale rumeno Gheorghe Dabija, Hélène Marguerite Dabija,
conosciuta con il nome di Gréty, che fece parte in collaborazione con sua sorella Graziela "Gazelle"
Duhamel, del gruppo dei surrealisti. Così conobbe Hans Arp, Alexander Calder, Alberto Giacometti e molti
altri artisti. Nel clima politico mutato dall'ascesa del Nazismo, dopo un breve soggiorno in Germania nel
1933 si trasferì definitivamente in Francia e siccome non ottemperava alle convocazioni del "servizio di
lavoro obbligatorio" del Reich fu costretto a scappare ed a nascondersi, prima in Francia poi in Spagna, ma
essendo senza documenti, fu considerato disertore ed a più riprese arrestato dalla Polizia. Nel 1936 con
l'aiuto di Fernand Léger e Georges-Henri Rivière riuscì ad ottenere un permesso di soggiorno limitato con
obbligo di notificazione mensile presso la polizia di Parigi. Cominciò così a guadagnarsi da vivere con la
fotografia. Nel 1937 ricevette l'incarico di documentare con un reportage il Pavillon de l'Elégance et de la
Parure all'Exposition Universelle de Paris. Le sue fotografie d'interni e di moda furono vendute come
cartoline postali ed anche riprodotte in molte riviste internazionali di moda facendogli acquisire una certa
fama. Dal 30 gennaio al 18 febbraio 1937 i suoi lavori furono esposti pubblicamente per la prima volta ed
entrò a far parte dei fotografi della rinomata Galerie de la Pléiade. Il 3 settembre 1939 fu arrestato e
portato in un campo di concentramento Francese. Durante questo internamento produsse una enorme
quantità di acquarelli e di disegni che testimoniano la vita nel campo. Il 29 ottobre 1940 Wols venne
rilasciato dopo essersi sposato con Gréty ed essere così diventato cittadino Francese.

Nel 1945 di ritorno a Parigi fece per la prima volta, e contro la sua volontà, una mostra di acquarelli alla
galleria di René Drouin. Divenne anche molto amico di Jean-Paul Sartre che lo sostenne, in seguito, sia
economicamente che moralmente essendosi ammalato di cirrosi.

L'anno seguente René Drouin diede a Wols una quarantina di tele ed il necessario per poter dipingere dei
quadri ad olio ed il 23 maggio 1947 si inaugurò la mostra di queste opere. Fu un grande successo che
scioccò il pubblico parigino. Dal 1948 al 1950, malgrado pesanti problemi di salute, e i continui cambiamenti
di domicilio, espose a Parigi, Milano e New York. Nel 1951, una infiammazione ai polmoni oltre che la
malattia al fegato lo costrinsero ad un ricovero in ospedale. In seguito a questa circostanza morì e fu
sepolto il 4 settembre 1951 nel cimitero di Père-Lachaise a Parigi.

Wols è stato un artista informale, gestuale, con la vernice applicata in strati mediante gocciolamento e con
graffi sulla superficie. Grazie a questo nuovo sviluppo nell'arte si è guadagnandosi il plauso di artisti come
Georges Mathieu e critici come Michel Tapié , che ha coniato il termine art autre (l'Altra Art) per descrivere
il nuovo stile.
Wols era noto per le sue incisioni e per il suo uso di taches di colore sulla tela. La sue opere contengono
elementi figurativi e libere improvvisazioni con elementi astratti. La spontaneità e immediatezza
determinano il lavoro creativo di Wols, che non ha subito alcuna formazione artistica formale. La casualità
(inizialmente ispirato al surrealismo psichico) svolge un ruolo importante nelle sue composizioni non
strutturate. Negli anni successivi Wols era particolarmente interessato nella combinazione di potenti
pennellate con una struttura di superficie dipinta in rilievo.

La sua ispirazione per diventare un artista deriva dal lavoro degli artisti Paul Klee , Otto Dix e George Grosz .

1940 L’insecte -> inchiostro e pastelli


1945 Le bateau ivre -> grazie ai surrealisti di Parigi eredita l’amore per la casualità dell’atto creativo
mettendo a punto un originale struttura segnica. L’immagine non è chiaramente visibile ma intravediamo
un vascello antico. L’immagine è data da un fitto intreccio di segni che ci fanno piano piano distinguere
delle parti della nave. L’opera da un lato possiede un carattere vagamente figurativo, dall’altro appare
come un sismogramma dell’anima.

1946 It’s all over the city -> Olio su tela;


1951 le fantome bleu -> In questo "Il fantasma azzurro", olio su tela, una delle ultime opere di Wols. Il
rapporto con il segno e con il colore, talvolta spremuto direttamente dal tubetto è di una autenticità
assoluta: prodotto del fare e non del pensare, l'opera si definisce nel momento stesso in cui si realizza,
manca ogni volontà compositiva, ogni organizzazione calligrafica, eppure si ha la sensazione di trovarci
davanti a dell’arte che ci racconta di universi sconosciuti nei quali Wols penetra per successive
stratificazioni dei suoi scarabocchi così misteriosi ed evocativi. E' così che il segno precede, anziché seguire,
significati sfuggenti ed allusivi, sospesi tra l'immaginario dell'inesistente ed il simbolico di realtà possibili.
Wols diceva: "Vedere è chiudere gli occhi", sintetizzando così la sua ricerca del senso di ciò che è latente ed
impercettibile, che non si confronta con nulla di già esistente e che è forse la più autentica delle realtà,
quella dello spirito.

HANS HARTUNG
Hans Hartung nasce nel 1904 a Lipsia in Germania. Studia filosofia e storia dell’arte all’Akademie der
Bildenden Künste di Lipsia e poi di Dresda, quindi si trasferisce a Monaco per studiare con il pittore Max
Doerner. Nel 1932 si sposta a Parigi dove incontra Alexander Calder, Vasily Kandinsky, Joan Miró e Piet
Mondrian; qui esporrà i suoi primi lavori al Salon des Indépendants. Durante la Seconda guerra mondiale
entra nella Legione straniera e a guerra ultimata ritorna a Parigi e assume la cittadinanza francese. Rimasto
inattivo per sei anni, partecipa a numerose mostre collettive con opere caratterizzate da ampie fasce
colorate sovra dipinte con strisce e segni calligrafici. Negli anni sessanta inserisce elementi tridimensionali.
La sua prima personale è del 1947 e inaugura la Galerie Lydia Conti di Parigi.

Tra il 1955 e il 1964 partecipa varie volte a importanti manifestazioni internazionali quali Documenta e
Kassel. Riceve il Guggenheim International Prize nel 1956 e il Gran premio per la pittura della Biennale di
Venezia nel 1960. Nel 1976 pubblica le proprie memorie (Autoportrait) e l’anno seguente entra a far parte
dell’Académie des Beaux-Arts di Parigi. Ancora nel 1977 tiene la prima mostra di fotografie al Cercle Noroit,
Arras, mentre il Centre Georges Pompidou ne organizza una dedicata alle sue incisioni e litografie poi
esposta in altre sedi in Francia nei quattro anni seguenti. Nel 1981 la Städtische Kunsthalle Düsseldorf, la
Staatsgalerie Moderner Kunst di Monaco e la Henie-Onstad Foundation di Oslo presentano un’ampia
retrospettiva della sua opera dopo l’assegnazione del primo premio intitolato a Oskar Kokoschka assegnato
dal governo austriaco. Nel 1985 è presentata un’altra retrospettiva al Grand Palais di Parigi.

Hartung muore nel 1989 ad Antibes, Francia.

Hartung non fu allievo di Vasilij Vasil'evič Kandinskij, come spesso si pensa bensì esisteva un forte legame di
reciproca stima. Nel 1935, per evitare le persecuzioni naziste nei confronti della cosiddetta arte degenerata,
lasciò la Germania e si trasferì a Parigi, dove visse in grandi ristrettezze. Scoppiata la guerra, il 26 dicembre
1939 si arruolò nella Legione Straniera, ma dopo qualche mese fu smobilitato a Sidi Bel Abbes; raggiunta la
Francia lavorò come operaio agricolo. Nel 1942 si rifugiò in Spagna, dove fu arrestato e incarcerato per
sette mesi. Dopo la liberazione, raggiunse l'Africa del Nord e l'8 dicembre 1942 si arruolò nuovamente nella
Legione. Assegnato al Reggimento di marcia combatté in Tunisia e sbarcò in Francia il 1º ottobre 1944. A
novembre fu ferito gravemente nei combattimenti di Belfort nel tentativo di trascinare un commilitone
ferito entro le proprie linee. Evacuato, fu amputato della gamba destra. Fu riformato dalla Legione il 19
maggio 1945. Naturalizzato francese nel 1946, fu decorato della Croce di guerra del 1939-1945, della
Medaglia militare e della Legione d'Onore.

Nel 1945 riprese l'attività pittorica interrotta a causa del conflitto.

Se nelle prime opere evidenziò aderenza con l'arte non figurativa, caratterizzata da elementi espressivi
astratti, nel secondo dopoguerra sviluppò una ricerca informale sulla pittura basata sul valore del 'segno',
sulla miscela di spontaneità e di controllo, di spunti grafici e pittorici.

L’eredità lasciataci dalle sue opere, rappresenta una continua ricerca di nuove sperimentazioni e una voglia
continua di superare se stesso. Impossibile inserirlo con troppa leggerezza in un solo movimento
avanguardista. Al massimo lo si potrebbe definire un astrattista in senso lato, visto che svariò in tutti i campi
della pittura astratta. Il suo modo di intervenire sulla tela era sempre svincolato da un’ideologia con pretese
universali. Ciò che contava di più per lui era il “segno”, con audaci accostamenti cromatici fatti di spruzzi e
graffi, colori luminosi o cupi, linee ora morbide ora rigide.

La forza della sua personalità si rispecchia perfettamente nelle immagini da lui prodotte, che sono
esplosioni di interiorità espressa sotto forma di fendenti colorati, mai casuali. Le linee e i colpi di colore,
sono scelti per stare in un determinato spazio; le forme sono selezionate e i gesti calibrati. La disabilità di
Hartung, che ha condizionato la sua vita dal dopo guerra, è servita a tirar fuori una bestia. La creatività è il
mezzo con cui essa si è scatenata, graffiando e azzannando la tela.

1922 acquerelli senza titolo (serie)


1935 T.1935 – 1 -> Dopo la guerra, la prima mostra personale di Hartung si è svolta nella Svizzera tedesca,
alla Kunsthalle di Basilea, nel 1952. Linee e zone colorate sembrano muoversi nello spazio in completa
libertà, leggerezza e armonia riunite. È il caso di T. 1935-1. Hartung non aveva avuto l'opportunità di
presentare quest'opera al pubblico dal Salon des Surindépendants del 1935, a cui partecipò al suo arrivo a
Parigi nello stesso anno. Se un tale legame con i dipinti di Kandinsky realizzati a Murnau (1910-1913) è
evidente, nessuna influenza diretta può tuttavia essere efficacemente attestata. In effetti, T. 1935-1 porta
molto di più sulla memoria dell'espressionismo tedesco. La fluidità delle macchie costruttive e l'espressività
della linea ne caratterizzano così immediatamente il linguaggio plastico. Inoltre, se l'istanza del gesto è
essenziale in quanto traduce per l'artista la vita psichica sottostante all'atto artistico, va notato
l'allontanamento stabilito con l'io. Così, prima del T. 1935-1 fu prodotta un'opera su carta (Senza titolo,
1935, 47 x 61,30 cm), che è una copia per transfert con ingrandimento.

1938 T.1938-31 -> tachisme


1953 senza titolo -> segno violento, graffiante, incisivo, di Hartung, che si identifica fisicamente nella
gestualità stessa che invade e occupa la superficie della tela.

1955 T1955 – 23 -> tachisme, olio su tela.


1955 T1955-9 -> tachisme, olio su tela.
1957 T1957-12 ->

JEAN FAUTRIER
Jean Fautrier nasce a Parigi nel 1898. All'età di dieci anni si trasferisce a Londra con la madre. Si iscrive alla
Royal Academy e poi alla Slade School of Art. Visitando la Tate Gallery scopre la pittura di Turner, che lo
influenza profondamente. Nonostante i suoi 16 anni, viene chiamato in guerra e parte per il fronte con le
truppe francesi. Nel 1921 Fautrier lascia l'esercito per problemi di salute e riprende a dipingere.

Influenzato dalla pittura espressionista, dipinge quadri di fattura realista. Dipinge e disegna ritratti, nudi e
bestie dilaniate. Nel 1922 espone al Salon d'Automne. Nel 1923 alla Galerie Fabre.mIl suo stile è in
cambiamento. Si avvertono chiaramente i germi della sua futura svolta verso la pittura informale, o "art
autre", secondo il termine coniato da Michel Tapié. Nel ’25 Jean Fautrier diventa il vero precursore dell’arte
informale. Attraversa un periodo di ricerca che definirà lui stesso “la stagione all’inferno”. Realizza un’opera
lirica, delle serie di paesaggi, dei nudi neri di cui Jean Paulhan dirà che sono “più nudi del vero”.

Firma il primo contratto con Paul Guillaume. Grazie a lui, nel 1927, tiene una personale alla Galleria
Bernheim. Negli anni '30, pressato da problemi economici, l'artista lascia Parigi. Si trasferisce in Alta Savoia,
dove vive lavorando come maestro di sci e gestore d'albergo.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale riporta Fautrier a Parigi. Si impegna nella resistenza contro i
tedeschi. Nel 1943 viene arrestato per un breve periodo. Dopo questo episodio, si trasferisce in provincia, a
Chatenay. Qui dipinge uno dei cicli più famosi, gli Otâges (ostaggi). Sono opere di straordinaria intensità,
che espone da Drouin nel 1945. Non è un successo immediato. I suoi lavori sono troppo diversi da ciò che si
era visto in precedenza. Troppo crudi e drammatici. Ricordano un periodo doloroso, che si preferisce
dimenticare. Deluso, Jean Fautrier si allontana dall'ambiente artistico. Si dedica, quindi, ad alcune
illustrazioni di libri per Gallimard e alla produzione di opere grafiche, gli Originaux multiples.

Nel 1955 è pronto per una nuova esposizione alla Galerie Rive Droite di Parigi. Vi espone Les Objects. L'esito
è migliore rispetto a dieci anni prima. L'opera di Fautrier, complice la diffusione dell'Informale, ottiene
grandi riconoscimenti. Le mostre si moltiplicano, e così ammiratori e acquirenti. Nel 1957 espone alla Rive
Droite le Tête de Partisan, realizzate in occasione dei fatti d'Ungheria, e i Nus. È un anno importante per
Fautrier, che presenta le sue opere anche a New York da Sidney Janis. Nel 1959 partecipa a Documenta.

E’ stato uno dei personaggi di primo piano dell'arte europea del dopoguerra.

Una delle correnti più importanti dell'Informale è la "pittura materica". Fautrier, insieme a Jean Dubuffet,
Alberto Burri e Antoni Tàpies, ne fu il principale interprete.

Le opere più caratteristiche di Fautrier non propongono immagini riconoscibili, ma concrezioni spesse e
rugose di colore, che si stagliano compatte su fondali amorfi. Non si ritrovano figure, storie, composizioni
geometriche, vivaci soluzioni cromatiche. Protagonista dell'opera è la materia. Materia che si offre
all'osservatore con lontane allusioni al corpo. Una materia, quindi, vitale e di grande energia evocativa.
Quando Jean Fautrier realizza i primi quadri "informali" sono trascorsi oltre vent'anni dall'inizio dell'attività.
Anni comunque importanti, nel corso dei quali sperimenta tecniche compositive diverse e in cui lo stile
pittorico evolve in maniera significativa.

Gli esordi dell'artista sono di genere figurativo. I soggetti risultano piuttosto convenzionali: nudi di donna,
nature morte, fiori. L'intonazione è di tipo espressionista, ma mano a mano subentrano influenze di stampo
surrealista: forme immaginarie, creature dell'inconscio.

Verso la fine anni '20, la pittura di Fautrier si trasforma ulteriormente. Le opere manifestano una spiccata
impronta romantico-visionaria, a tratti quasi "maledetta". Le immagini rappresentano assomigliano a fiori
stregati, nudi di donna, animali scuoiati, oggetti insidiosi baluginanti su fondali cupi. Le forme sembrano
gonfiarsi, liquefarsi, perdere definizione. Sfumano verso lo sfondo, bruno o violaceo, a malapena trattenute
dal contorno.

Attorno al 1942 si verifica la svolta più importante nel lavoro di Jean Fautrier. Sono gli anni dell'occupazione
tedesca in Francia. Anni in cui l'artista è testimone di tragedie e orrori. Questa esperienza lo segna così in
profondità, da suscitare in lui un sentimento di sfiducia nell'uomo e nelle sue capacità di controllare gli
istinti più irrazionali. Da questo sentimento scaturisce l'esigenza di ridare un senso alla pittura.

La strada imboccata dall'artista è nuova, e per questo poco gradevole. Parte da un nucleo formale
embrionale (una testa, una figura umana, una parte di corpo). Vi abolisce ogni parvenza realista,
accentuandone le qualità materiche, che divengono il vero soggetto del quadro.

La "materia" in Fautrier si caratterizza per i connotati aspri e brutali: concrezioni carnose, croste dalla forma
compatta tondeggiante o squadrata, che si stagliano su fondali rugosi e smorti. Questo effetto di carnosità è
ottenuto mediante spatolate spesse e cremose di colore mescolato a colla, su cui l'artista interviene con
spolverate superficiali di pastello. Le tinte ricordano quelle degli incarnati: rosa, bruno, ocra, olivastro,
violetto. L'impressione è quella di trovarsi di fronte a grumi di materia organica pulsante e ferita.

Negli anni '50 e '60 si osserva un graduale processo di schiarimento, che conferisce alle ultime opere
tonalità iridescenti e luminose. Le forme isolate rimandano prevalentemente a corpi di donna, fatte della
stessa pasta collosa e materica delle opere del passato, ma oramai sono ridotte ad apparizioni diafane.

1943 “Tête D’Otage” Serie Ostaggi -> Dal 1943 al 1945 è in Francia, dove prende parte alla resistenza.
Di questo periodo è la sua produzione più entusiasmante, rifugiatosi in un ospedale psichiatrico, può
osservare quello che accade nella vicina prigione e dipinge non tanto la forma o le scene, quanto il pathos
esistenziale che emanano. Nascono così le sue “Têtes d’otages”, la serie di dipinti che lo ha reso celebre.

Le teste degli ostaggi, così tradotto, sono la descrizione emotiva della tragedia che si svolge sotto i suoi
occhi. Fautrier cerca una sintesi emozionale che parte da forme vagamente ovoidali umanoidi, ma da cui i
lineamenti sono cancellati, alterati, assenti. L’espressione è sostituita da segni, a questa preferisce far
risaltare le ferite sui volti, striature rosse o violacee, cicatrici dell’anima oltre che del corpo, composte da
una matericità palpabile, grossolana, ottenuta con l’aggiunta di materie varie al colore tra cui colla,
segatura e altro. L’impasto grottesco è poi spalmato con spatole su fogli o tela. Rimarca i bordi delle figure
quasi a sottolineare lo svuotamento avvenuto delle “têtes d’otages”, di quegli uomini svuotati di umanità e
riempiti di frustrazioni e dolore. Le sue figure assumono le connotazioni di teschi perlacei, teste a cui è tolto
ogni caratteristica personalizzante, distinguibili per le diverse qualità di ferite inferte.

Serie Oggetti-> anni dopo, è la volta degli oggetti, con il ciclo Les Objects. Al pari dei corpi e della carne,
anche gli oggetti si rivelano deperibili. Sono rappresentazioni di cose comuni, isolate dal loro contesto
abituale, che acquistano una veste sinistra e assumono le sembianze di fantasmi esistenziali.
1953 Les trois tetes -> Non importa quanto sottili, quanto sconcertanti possano essere le sfumature di
queste opere, in cui il misterioso e il razionale coesistono, con Fautrier siamo sempre nel dominio del
metodo spinto dal freddo calcolo quasi all'assurdo - usando quel termine con tutto il rispetto dovuto,
perché è uno che sicuramente non ammette mediocrità. Ha scelto di utilizzare procedure tecniche che sono
apparentemente le più difficili: manipola l'ineffabile senza anarchia, e per l'intensità del suo contenuto lo
rende portatore di un messaggio che è al polo opposto di tutti i metodi consueti dell'accademia " pittura a
macchia. " Fautrier inizia preparando la tela stessa in questo modo: con molta attenzione incolla insieme
diversi spessori di carta; quando il lavoro è stato completato, questi sono diventati completamente
incorporati nel materiale pittorico come il fossile lo è con la roccia che lo avvolge. Il pigmento bianco
estremamente denso viene applicato con forza con un coltello. L'olio viene assorbito dalla carta lasciando il
pigmento in altorilievo molto denso. Ora con una leggera velatura di olio e trementina disegna per la prima
volta il tratto che delinea il suo motivo: ostaggio, figura umana trascendente o, come in questo caso,
qualche frutto definito con una visione insolitamente generalizzata, qualcosa di simile a quello che hanno
certi logisti moderni ci ha insegnato a esplorare per il meraviglioso arricchimento del regno della
percezione. Questa prima indicazione di Fautrier scompare subito, tuttavia, sotto un altro spesso impasto di
bianco applicato con vari strumenti come coltelli, cazzuole o cucchiai. Eppure rimane lì, e non smetterà mai
di dirigere l'opera e l'artista che la elabora. Quando la superficie spessa, violentemente agitata a
piacimento, è di suo gradimento, afferra rapidamente una spatola o un pennello per oggetti, a seconda dei
casi, per disegnare nuovamente il suo soggetto. Lo fa non come si potrebbe trattare in astratto con un
concetto pienamente sviluppato, ma nella più stretta relazione tangibile con un oggetto che la magia della
creazione ha portato in essere e imposto su tutti gli altri. Questo a sua volta scompare ancora una volta -
forse molte volte - nel corso delle manipolazioni dell'artista: sulla superficie dello spesso letto bianco fa
cadere, da una certa altezza, polvere gessosa pastello rosa o azzurro pallido, o in tonalità più scure
distanziate più lontano. . A volte sovrappone anche altri tratti disegnati negli smalti estremamente diluiti.

1957 paysage
1942 grande testa tragica -> Jean Fautrier ha prodotto ventidue sculture nel periodo tra il 1927 e il 1944,
tutte basate sulla figura umana. Durante il 1940-44 si concentrò su una serie di teste, di cui Large Tragic
Head è la penultima e Head of a Hostage (Tate T07300) è l'ultima. In ognuna la testa è stata il luogo di un
attacco apparentemente brutale, reso ancora più espressivo dall'evidenza della manipolazione fisica del
materiale da parte dell'artista. Large Tragic Head, con la sua faccia graffiata e martoriata, è un esempio
particolarmente potente del lavoro di Fautrier e ha portato alla sua serie di dipinti e sculture Hostage del
1943-5. Tutte queste opere furono realizzate nelle minacciose condizioni dell'occupazione tedesca di Parigi
durante la guerra, dove Fautrier fu brevemente arrestato all'inizio del 1943. Quando le sue opere furono
esposte dopo la Liberazione, furono viste per commemorare quell'esperienza collettiva. Per Fautrier, l'arte
doveva iniziare con la realtà. 'In materia d'arte', ha detto, 'tutto ciò che proviene dalla realtà, a condizione
che serva solo come spinta iniziale, appare più fantasioso, più magico di qualsiasi cosa che ostinatamente
gli volta le spalle'. Ciò riflette la preoccupazione principale di Fautrier per la condizione umana. Malraux ha
descritto la risposta alla sofferenza del tempo di guerra riscontrata nelle opere di Fautrier come un
tentativo di "esprimere il dramma senza rappresentarlo". Questo può essere sentito nell'equilibrio tra la
parte striata della Grande Testa Tragica e il delicato modellamento dell'occhio rimanente e della bocca
ansimante. Il fatto che Fautrier si sia fermato prima di cancellare completamente i lineamenti - una
tendenza che ha spinto ulteriormente in Head of a Hostage (Tate T07300) - suggerisce il desiderio di
commemorare le vittime della violenza, rendendo quella violenza più pronunciata.
JEAN DUBUFFET
Jean Dubuffet, vero nome Philippe Arthur, è nato a Le Havre nel 1901. Si iscrive ai corsi serali della Scuola
di Belle Arti. fece il commerciante di vini fino a quarantuno anni, quando decise di fare l’artista, del tutto
fuori dai circuiti istituzionali. Era affascinato dai disegni dei bambini, guardava le scritte nei vespasiani, sui
muri che oggi chiamiamo graffiti, osservava gli scarabocchi dei folli o deboli di mente. A guerra finita, nel
1945 non andò in un atelier o in una accademia di belle arti per imparare il mestiere, preferì trasferirsi in
Svizzera vagando tra Berna e Ginevra per visitare cliniche psichiatriche e stava lì a sbirciare i pazienti che
per ragioni terapeutiche venivano indotti a disegnare, e a esprimersi in qualche modo.

Dopo aver frequentato per due anni l'Accademia d'Arte locale, nel 1918 si reca a Parigi per frequentare
l'Académie Julian, che lascia dopo appena sei mesi. In questo periodo frequenta Suzanne Valadon, Fernand
Léger e Raoul Dufy, ed ha una forte influenza su di lui il libro di Hans Prinzhorn sull'arte degli alienati;
Dubuffet è anche affascinato dalla produzione dei popoli primitivi, dall'arte africana, dai disegni tracciati dai
bambini e dai malati di mente. Nel 1923 vive in Italia e nel 1924 in Sudamerica. Smette di dipingere per
molti anni, lavorando come disegnatore industriale. Per un lungo periodo si occupa della gestione
dell'Azienda vinicola familiare di Buenos Aires. La scelta di diventare pittore è avvertita in lui fin dai tempi
dell'Académie Julian ma poi, più volte ritrattata, diventa definitiva nel 1942 e, nel 1944, tiene la sua prima
mostra personale alla Galerie René Drouin di Parigi. In questo periodo lo stile delle sue opere è influenzato
dall'astrattismo di Paul Klee.

Inizia nel 1945 il vero e più sentito percorso artistico di Dubuffet, quando teorizza e introduce il concetto di
Art Brut, lavori che sono spontanei, immediati, prodotti da persone prive di specifica formazione artistica,
come i malati mentali, i bambini. Nel 1947, assieme ad André Breton, Paulhan e Drouin fonda la
"Compagnie de l'art brut": il termine definisce l'attività creativa di "artisti loro malgrado", che creano senza
intenzioni estetiche, per una personale pulsione emotiva confluente in una comunicazione immediata e
sintetica. Contemporaneamente organizza una mostra esponendo i disegni di bambini e alienati mentali.

Organizza la sua prima personale americana che si svolgerà a New York, alla Pierre Matisse Gallery. Sin
dall'inizio della sua avventura artistica, Jean Dubuffet rivendica delle posizioni anticulturali, poiché secondo
lui la cultura impoverisce, soffoca, livella, genera tenebre e, per dirla in altri termini, è asfissiante. Il suo
obiettivo è quello di liberarsi della tradizione artistica, per andare alla ricerca di forze artistiche originali e
tracciare una nuova strada per l'arte. Seguendo l'esempio di numerosi pittori dell'avanguardia, quali
Kandinskij, Mirò o Klee, Dubuffet presta un'attenzione speciale ai disegni infantili. Confrontando un grande
numero di disegni e dipinti eseguiti da Dubuffet tra gli anni Quaranta e Cinquanta con opere infantili che
egli ha avuto tra le mani e che hanno suscitato il suo interesse, è facile riscontrare una serie di influenze
iconografiche e formali. Il disegno infantile non costituisce per lui un modello estetico. Se a livello formale
sono presenti alcune similitudini con l'arte infantile, questo elemento deve essere letto come il riflesso di
un'influenza determinante di tutt'altra portata, che permea il suo approccio filosofico e ideologico. New
York lo colpisce, e vi risiede dal 1951 al 1952; dopodiché torna a Parigi, dove ha luogo nel 1954 una
retrospettiva al Cercle Volney. Dal 1949 al 1960 si dedica a vari cicli di opere: Paysage Grotesque (1949-
1950), Corps de Dames e Sols et Terrains (1950-1952), Assemblage e Texturologie (1953-1959),
Materiologìes (1959-1960). Sperimenta anche in campo musicale, assieme all'amico Asger Jorn. Nel 1957 lo
Schloss Morsbroich a Leverkusen, in Germania, è il primo museo che gli dedica una retrospettiva. Lo
seguiranno successivamente il Musée des Arts Décoratifs di Parigi, il Museum of Modern Art di New York,
l'Art Institute di Chicago, lo Stedelijk Museum di Amsterdam, la Tate Gallery di Londra e la Solomon R.
Guggenheim Museum di New York. Venezia ospita le sue opere a Palazzo Grassi nel 1964, con l'esposizione
dei quadri di una serie iniziata nel 1962, l'Hourloupe. Viene pubblicata una raccolta di scritti, Prospectus et
tous écrits suivants nel 1967, anno in cui inizia la realizzazione di strutture architettoniche da lui progettate;
poco dopo inizia varie sculture monumentali commissionategli per esterni. Nel 1971 realizza i suoi primi
oggetti scenici, i "practicables". Nel 1980-1981 ha luogo una ricca retrospettiva all'Akademie der Künste di
Berlino, al Museum Moderner Kunst di Vienna e alla Joseph-Haubrichkunsthalle di Colonia. Nel 1981 il
Solomon R. Guggenheim Museum di New York gli dedica una mostra in occasione dell'ottantesimo
compleanno. Dubuffet muore a Parigi il 12 maggio 1985.

1927 Fond de riviére


1945 Les murs -> libro illustrato con 15 litografie. Nel 1945 la sua ammirazione per i graffiti a strati sui
muri che circondano Parigi lo portò a produrre una serie chiamata Les Murs, o The Walls, in cui sottolineava
l'importanza della necessità dell'uomo comune di tenere dei registri. Dubuffet ha detto che "la mia arte è
un tentativo di portare tutti i valori denigrati alla ribalta".

1946 Macadam -> Dubuffet si serviva di colori, di fango, di sabbia, di pietre, di mescole informi e di
materie le più diverse. in Mirobolus e Macadam & C il colore sulla tela scompare e le superfici sono trattate
con sabbia, argilla, polvere di carbone materiali cioè estranei al colore tradizionale. L’interesse per l’arte
primitiva è continua e rimanda a Picasso, Braque e Brancusi: ma in lui non ci sono le maschere africane o
oceaniche, ma i graffiti preistorici dell’Homo sapiens rinvenuti in grotte disseminate nei luoghi e nei
continenti più diversi di ere antichissime.

1950 corps de dames -> Con i loro corpi grotteschi e deformi e le superfici ruvide, La Dame au pompon
(1946) e Corps de dame - Pièce de boucherie (1950) furono intesi da Jean Dubuffet come un deliberato
assalto ai valori estetici e culturali europei, rifiutando le convenzioni di bellezza, arte abilità e raffinatezza
classica. Raccoglieva e promuoveva avidamente quello che chiamava art brut, compresi i disegni dei
bambini, i graffiti e l'arte fatta da malati di mente, che vedeva come una valida alternativa alla tradizione
accademica. Nel suo lavoro, Dubuffet ha tentato di emulare ciò che percepiva essere la loro qualità "grezza"
o "primitiva". In La Dame au pompon, ha inciso la figura rozzamente disegnata di una donna nuda in un
terreno spesso e impastato, il suo colore e la sua consistenza evocano fango o feci. Per queste opere, che
Dubuffet chiamava la sua serie "Hautes pâtes" (impasti spessi), ha applicato una pasta di pittura ad olio,
cemento, gesso, sabbia e ghiaia per creare un terreno rialzato simile a un rilievo, quindi ha utilizzato una
spatola o il manico del suo pennello per delineare i contorni della figura. Qui, la distinzione tra figura e
sfondo è radicalmente minata, poiché il semplicistico disegno al tratto si confronta con la superficie ruvida
del dipinto. Nel 1950 Dubuffet iniziò la sua serie "Corps de dame" (Il corpo di donna) in cui ingaggiava
ironicamente la lunga tradizione del nudo femminile nell'arte occidentale. In Corps de dame — Pièce de
boucherie, il nudo non è più trattato come un emblema idealizzato della bellezza classica, ma è invece
raffigurato come una lastra di carne, una massa appiattita di carne rosa.

1952 sols et terreins -> suolo e terreni


1953 Cheveux de Sylvain -> collage di ali di farfalla dentro una cornice nera.
1958 topographies -> Dubuffet tesse una pittura fatta di materia: con tecniche e materiali inusitati in
densi campi plastici concretizza sagome, tracciati, profili, trame, oscillanti tra figurazione e materia.

1958 text-urologie -> Dubuffet ha inventato varie tecniche per ritrarre il suolo in una serie di dipinti
chiamati "Texturologies". Per questo lavoro, ha adattato la tecnica "tirolese", utilizzata dai muratori di
pietra per tessere le pareti appena intonacate. Dubuffet ha agitato un pennello sul dipinto, che era stato
posato sul pavimento, per spargere minuscole goccioline di vernice sulla superficie. La sua intenzione era di
dare "un'impressione di materia brulicante, viva e scintillante, che potrei usare per rappresentare il suolo,
ma che potrebbe anche evocare tutti i tipi di trame indeterminate, e persino galassie e nebulose".

1959 Barbe -> Con la sua energica foschia di pennellate e segni pittorici, Barbe des rites racchiude
perfettamente l'invenzione e l'entusiasmo sfrenati di Jean Dubuffet. Dipinto nel luglio 1959, Barbe des rites
risale all'inizio dell'esplorazione di Dubuffet del tema della barba, e soprattutto è uno dei primi dipinti a olio
della serie, che ha esposto l'anno successivo alla galleria di Daniel Cordier. In Barbe des rites, lo sfondo e il
volto del dipinto sono pieni di motivi graffiati, con segni e macchie che danno un senso di consistenza,
come se Dubuffet avesse appoggiato la tela contro un muro di mattoni e avesse manipolato la pittura.
Attraverso questa superficie assottigliata e strutturata scrutano due minuscoli occhi, appollaiati vicino alla
parte superiore del dipinto, incastonati nella massa di un viso. Intanto la barba del titolo è un tripudio di
movimento: macchioline di grigio, nero e crema guizzano in ogni direzione, rese ancor più verve dai vari
segni che Dubuffet ha inciso sulla superficie pittorica. Il reticolo di pennellate e incisioni è ulteriormente
punteggiato da gocciolamenti che danno il senso di una costellazione complessa, ricordando anche la
pienezza dei dipinti di Jackson Pollock. Questa zona della barba ricorda le Texturologies di Dubuffet, la serie
di opere in stile paesaggistico dall'aspetto astratto che aveva dipinto all'epoca, spesso basate sull'aspetto
del suolo stesso. Dubuffet considerava le Barbes come Texturologies appese a un mento. I Barbes hanno
avuto la loro nascita in un'illustrazione divertente che Dubuffet aveva incluso in una lettera al suo amico, il
poeta Georges Limbour, nel maggio di quell'anno. Rispondendo alla descrizione di Limbour dell'artista
come stoico a causa delle Texturologies ascetiche, Dubuffet ha incluso un'immagine del barbuto filosofo-
imperatore Marco Aurelio. Questa è stata la scintilla che ha portato le superfici densamente lavorate delle
Texturologies astratte a diventare elementi di collage nelle Barbes enfaticamente figurative. Più tardi, in
maggio, scrisse ad André Pieyre de Mandiargues: "Sto provando a dipingere le barbe ... vorrei dipingere una
serie di barbe vaste, cosmiche e mistiche". Questi termini sono fin troppo appropriati quando si guarda alla
costellazione di pennellate e segni all'interno della barba in Barbe des rites, dipinto solo due mesi dopo.

Nelle prime immagini di questa serie, la loro metamorfosi dalle precedenti Texturologie è stata effettuata
attraverso il collage: Dubuffet ha utilizzato vari elementi realizzati con fogli stampati ricoperti da vari motivi,
disposti in modo da creare l'immagine di un uomo barbuto. Dubuffet prendeva le proprie Texturologie e le
riprendeva, realizzando assemblaggi figurativi da queste opere astratte. Dubuffet ha usato quattro di
queste Barbes, così come la Prairie de barbe essenzialmente astratta, per illustrare La feur de barbe. Alcuni
di questi Barbes, creati utilizzando litografie riorganizzate, sono ora in collezioni pubbliche, tra cui il
Museum of Modern Art, New York e la Fondation Dubuffet, Parigi.

1962 hourloupe -> è stato il ciclo di opere più lungo e originale di Debuffet. La parola “hourloupe era il
titolo di un libro che aveva delle figure in rosso e blu. Associò il titolo a “hurler” (ruggito), “hululer” (ululare)
e “loup” “lupo”, a queste parole ci unì il titolo del libro “Le Horla” ispirato a malattie mentali.

Allude ad un oggetto o ad un paesaggio dalle caratteristiche bestiali e grottesche caratterizzato dai colori
rosso e blu racchiuse dentro dei contorni neri frastagliati e casuali.

1970 torri (New York) -> Gruppo di sculture composto da 4 elementi definiti “alberi”, in poliestere
espanso con spesse grafie nere, situato nel centro di Manhattan a new york.

il segno pare sostituirsi alla materia: cellule tipo, monadi per lo più a righe rosse e blu, si svolgono in una
scrittura concatenata e arbitraria, straripando dalla tela e invadendo lo spazio con sculture in poliestere
espanso, dalla spessa grafia nera, e con complessi architettonici ancora oggi visibili a Chicago nella piazza
del James R. Thompson Center, a New York con il Gruppo dei quattro alberi, a Houston con il Monument Au
Fantome, a Otterlo con il Jardin d'émail, a Périgny-sur-Yerres con Villa Falbala e Closerie Falbala.

1980 non lieux -> al di là di ogni designazione rappresentativa il suo forte gesto pittorico mostra "non più
il mondo ma l'immaterialità del mondo”. Tracciati in bianco, blu o grigio su fondo nero, questi dipinti, un po
'di graffiti, un po' di gocciolamenti aggrovigliati come rovi, evocano piuttosto il fallimento di ogni
espansione e di ogni espressione, l'assenza di qualsiasi tipo di 'benzina. Dal semplice punto di vista della
storia dell'arte, questi "non luoghi" sono come la negazione dell'informale e dell'espressionismo astratto da
parte dell'esibizione indiscreta di i loro metodi più costosi. Il gesto del pittore-medium giunge al termine,
l'ispirazione dell'astratto lirico si svuota, non c'è niente da vedere, o semplicemente la sconfitta di una
retorica, la disfatta di una loghorrée che va a finire in un dipinto conocchia dopo la verniciatura.

ALBERTO BURRI
Nacque a Perugia nel 1915. Dopo aver conseguito la maturità classica presso il liceo Annibale Mariotti di
Perugia, nel 1934 s'iscrisse alla facoltà di medicina laureandosi il 12 giugno 1940. Il 9 ottobre 1940, con il
grado di sottotenente medico di complemento, fu richiamato alle armi e presto congedato per seguire il
tirocinio presso un istituto ospedaliero, ai fini dell'abilitazione all'esercizio della professione. Conseguito il
diploma, tornò nell'esercito e, all'inizio di marzo 1943, assegnato alla 10ª legione in Africa settentrionale.
Nei giorni della resa italiana in Africa, fu catturato dagli inglesi l'8 maggio 1943 e, passato in mano agli
statunitensi fu recluso, insieme a Giuseppe Berto e Beppe Niccolai, nel "criminal camp" per non cooperatori
del campo di concentramento di Hereford (in Texas) dove rimase per 18 mesi. Nella primavera del 1944
rifiutò di firmare una dichiarazione di collaborazione propostagli e fu catalogato tra i fascisti "irriducibili". Fu
in questo periodo che maturò la convinzione di dedicarsi alla pittura. La prima mostra personale, favorita
dall'architetto Amedeo Luccichenti, si svolse nel luglio 1947, presso la galleria La Margherita di Gaspero del
Corso e Irene Brin, e fu presentata dai poeti Libero de Libero e Leonardo Sinisgalli. Le opere esposte erano
ancora di carattere figurativo con qualche debito verso la pittura tonale della Scuola romana degli anni
Trenta. Nei giorni dell'esposizione conobbe lo scultore Pericle Fazzini, vicepresidente dell'Art Club,
importante sodalizio artistico romano aperto anche alle novità dell'arte astratto-concreta: già nel dicembre
1947 prese parte alla seconda Mostra annuale del sodalizio e continuò ad esporre con l'Art Club fino ai
primi anni Cinquanta, sia in Italia sia all'estero. Nella sua seconda mostra personale: Bianchi e Catrami,
sempre presso la galleria La Margherita, nel maggio 1948, propose per la prima volta opere astratte che,
con le loro forme ora amebiche e organiche, ora filiformi e reticolari, rivelavano alcune affinità con il
linguaggio di Jean Arp, Paul Klee e Joan Miró. Successivamente iniziò a elaborare i primi catrami in cui le
qualità dei materiali (erano realizzati con olio, catrame, sabbia, vinavil, pietra pomice e altri materiali su
tela) cominciavano a prendere il sopravvento sulla semplice organizzazione formale della composizione.

Nel 1949 realizza SZ1, il primo Sacco stampato. Nel 1950 comincia con la serie le Muffe e i Gobbi e utilizza
per la prima volta il materiale logorato nei Sacchi. Il 1950 fu un anno di grande sperimentazione, durante il
quale dipinse diverse muffe, sfruttando le efflorescenze prodotte dalla pietra pomice combinata alla
tradizionale pittura a olio, ma anche il primo gobbo, dal caratteristico rigonfiamento ottenuto con rami di
legno sistemati su retro della tela, e il primo sacco, realizzato interamente con la juta, rattoppata e ricucita.
Sempre nel 1950, eseguì il grande "Pannello Fiat" (un quadrato di quasi 5 m di lato) per la sala espositiva di
una concessionaria di automobili romana. Il 1952 si aprì con la mostra personale "Neri e Muffe", presso la
galleria dell'Obelisco di Roma. Ad aprile, presso la Fondazione Origine dell'amico Colla, si tenne la mostra
"Omaggio a Leonardo" in cui espose tra gli altri "Lo Strappo", uno dei primi sacchi che solo pochi mesi dopo
fu rifiutato dalla giuria della Biennale di Venezia. Fu invece accolto, nella sezione del "bianco e nero" della
mostra veneziana, il disegno "Studio per lo strappo", acquistato da Lucio Fontana

Con le mostre di Chicago e New York del 1953 inizia il grande successo internazionale. La prima mostra
personale americana (Alberto Burri: paintings and collages), allestita presso la Allan Frumkin Gallery di
Chicago, si svolse tra il 13 gennaio e il 7 febbraio 1953; fu poi trasferita nella newyorkese Stable Gallery di
Eleanor Ward alla fine dell'anno. Il 1954 fu caratterizzato dall'ingresso nel gruppo di artisti sostenuti dal
critico francese Michel Tapié, padre dell'Art autre. Verso la fine dell'anno, iniziò a servirsi nei suoi lavori del
fuoco, realizzando le prime piccole combustioni su carta.

Il 15 maggio 1955 sposò, a Westport (California), la ballerina americana d'origine ucraina Minsa Craig. Nello
stesso periodo apriva la mostra collettiva "The new decade: 22 European painters and sculptors",
organizzata dal Museum of Modern Art di New York , dove erano esposti5 suoi lavori; risale a quella mostra
una delle poche dichiarazioni di poetica dell'artista, che si trova nel relativo catalogo. Sempre nel 1955, un
buon esito ebbe la partecipazione alla Quadriennale romana e alla Biennale di San Paolo del Brasile.

Burri, intanto, continuava a realizzare numerose combustioni (con legno, tela e plastica) e sperimentava le
caratteristiche del legno.

Il 1957 fu caratterizzato da numerose mostre personali in Italia e negli Stati Uniti. Verso la fine dell'anno
realizzò i primi ferri, in cui sfruttava le possibilità offerte dalla tecnica della saldatura all'interno di un
discorso pittorico bidimensionale. Le prime di queste opere mantenevano analogie compositive con sacchi,
legni e plastiche, mentre successivamente Burri maturò un'impaginazione più rigorosa e consona alle
caratteristiche del nuovo materiale utilizzato.

L'attività espositiva fu piuttosto intensa nel 1959 e nei primi mesi del 1960. A giugno Burri ottenne una sala
alla Biennale di Venezia, dove ricevette anche il premio dell'Associazione internazionale dei critici d'arte.

Tra dicembre 1962 e gennaio 1963, la galleria Marlborough di Roma ospitò un'esposizione dedicata alle
plastiche che, dopo i ferri, rappresentarono una nuova, e inattesa, svolta. Forse rimeditando alcune
plastiche di metà anni Cinquanta, decise di concentrare la sua attenzione sulla pellicola di plastica
trasparente. La nuova stagione delle plastiche si protrasse per tutto il decennio e Cesare Brandi ne fu
l'esegeta principale: introdusse molte mostre e scrisse su Burri una fondamentale monografia (1963).

Nel 1963 disegnò, prima di una lunga serie d'ideazioni in questo settore, la scenografia e i costumi per
cinque balletti del pianista, direttore d'orchestra e compositore americano Morton Gould alla Scala di
Milano. nello stesso anno una sua opera viene esposta alla mostra Contemporary Italian Paintings, allestita
in alcune città australiane. Alla fine degli anni Sessanta acquistò una casa a Los Angeles dove trascorse i
mesi invernali fino al 1990; in questo periodo e nei successivi primi anni Settanta si dedicò ancora ad
allestimenti teatrali.

In quegli anni cominciò a lavorare anche ai cretti, originati da una misurata miscela di collanti acrovinilici
con altri materiali utilizzati per ricoprire il supporto (creta, caolino, bianco di zinco), sui quali lavorò per
tutto il decennio e che furono esposti per la prima volta nell'ottobre del 1973 a Bologna (galleria San Luca).

Una mostra antologica allestita presso il convento di San Francesco d'Assisi, nel maggio 1975, propose al
pubblico anche un cellotex di recente realizzazione, materiale utilizzato in edilizia come isolante e realizzato
con una mistura di colle e segatura di legno.

Nel 1973 inizia il ciclo dei Cretti e su questo filone si colloca il sudario di cemento con cui rivestì i resti di
Gibellina terremotata in un famoso esempio di Land Art.

Nel 1976 Alberto Burri crea (avvalendosi dell'aiuto "tecnico" del ceramista Massimo Baldelli) un cretto di
imponenti dimensioni, il 'Grande Cretto Nero' esposto nel giardino delle sculture Franklin D. Murphy
dell'Università di Los Angeles. Altra opera analoga, per stile, forza espressiva e imponenti dimensioni è
esposta a Napoli. L'evoluzione più spettacolare fu, tuttavia, rappresentata da quello di Gibellina (Trapani).
di quasi 90.000 m² sulle macerie della vecchia Gibellina. I lavori, iniziati nell'agosto del 1985, furono
interrotti nel dicembre 1989 per mancanza di fondi con l'opera non ancora completata.

Al 1979 risalgono i Cicli, che domineranno tutta la sua produzione successiva, formato da dieci
monumentali composizioni che ripercorrevano i momenti più significativi della sua produzione artistica,
inaugurò invece la stagione dei grandi cicli pittorici, realizzati anche negli anni successivi ed esposti
permanentemente presso gli Ex-Seccatoi del Tabacco di Città di Castello. Presenterà altri cicli a Firenze
(1981), Palm Springs (1982), Venezia (1983), Nizza (1985), Roma, Torino (1989) e Rivoli (1991).
Nel 1981 viene inaugurata la Fondazione Burri in Palazzo Albizzini a Città di Castello, con una prima
donazione di 32 opere.

Nel 1994 Burri partecipa alla mostra The Italian Metamorphosis 1943-1968 presso il Solomon R.
Guggenheim Museum di New York. Dall'11 maggio al 30 giugno '94 presso la Pinacoteca Nazionale di Atene
viene presentato il ciclo Burri il Polittico di Atene, Architetture con Cactus, che verrà esposto in seguito
presso l'Istituto Italiano di Cultura di Madrid (1995). Il 10 dicembre 1994 vengono ricordate le donazione di
Burri agli Uffizi in Firenze: un quadro Bianco Nero del 1969 e tre serie di grafiche datate 1993-94.

Le opere del Maestro sono esposte principalmente in due musei a Città di Castello. Il primo, a "Palazzo
Albizzini". Il secondo ospitante i "grandi cicli pittorici" dell'artista, inaugurato nel 1990, è un'area industriale
inutilizzata, gli "Ex Seccatoi del Tabacco" recuperata architettonicamente. A Palazzo Albizzini, sede della
omonima Fondazione, costituita per volere dello stesso Burri nel 1978, e negli Ex Seccatoi, inaugurati come
luogo espositivo nel luglio 1990, l'artista allestì infatti la collezione che donò alla città natale.

All'inizio degli anni Novanta, Burri e la moglie lasciarono la California e si stabilirono a Beaulieu-sur-Mer, in
Costa Azzurra (Francia), continuando a trascorrere i mesi estivi a Città di Castello. Nonostante l'età avanzata
proseguì la sperimentazione di nuovi materiali: l'ultimo suo lavoro fu Metamorfex, un ciclo di nove opere
presentate, dall'amico Nemo Sarteanesi, negli Ex Seccatoi.

Burri muore a Nizza il 13 febbraio 1995, un mese prima del suo ottantesimo compleanno. Noto in vita per la
sua riservatezza, aveva infine appena terminato una lunga registrazione autobiografica con Stefano Zorzi
che ne ha raccolto il contenuto nel volume Parola di Burri.

Materiali ->> i materiali per Burri sono il mezzo con cui sostituire i tradizionali colori e pennelli. I sacchi, i
cellotex, i legni, i ferri vengono infatti utilizzati per la loro valenza cromatica, o di trama, o di effetto visivo,
esattamente come per secoli si è fatto con polveri, olii e pigmenti. E’ la materia che si comporta da pittura,
dunque, e non più la pittura che vuole farsi credere materia, realtà. Detta così, una vera e propria
rivoluzione copernicana! In quest’ottica le cuciture dei sacchi, le giunture tra i legni o le crepe dei cretti,
minuziosamente e sapientemente indotte per rispondere a una precisa volontà compositiva, prendono il
posto dell’antico disegno, e tracciano linee guida con cui soppesare proporzioni ed equilibrio. Ciascun
materiale segue poi una tecnica e quindi delle regole ben precise, come la plastica, bruciata con attenzione
e poi collocata in modo da aprirsi in punti precisi, in corrispondenza del nero, ad esempio, preventivamente
steso sulla tela come una tradizionale pittura: se si scostano i lembi della plastica, si vedrà molto bene il
limite di quella porzione di colore dipinto, che proprio in quel punto doveva finire e proprio da lì doveva
lasciar posto alla plastica.

1945 Texas -> il pittore viene fatto prigioniero in Tunisia nel maggio del 1943. Verrà internato nel campo di
concentramento di Hereford fino al 1946. In quegli anni Burri diventò pittore.

«Dipingevo tutto il giorno. Era un modo per non pensare a tutto quello che mi stava intorno e alla guerra.
Non feci altro che dipingere fino alla liberazione. E in questi anni capii che io ‘dovevo’ fare il pittore».

1953 serie Gobbi -> Questa opere conservano un carattere essenzialmente pittorico, in quanto sono
costruite secondo la logica del quadro. Le immagini, ovviamente astratte, sono ottenute, oltre che con
colori ad olio, con smalti sintetici, catrame e pietra pomice. Nella serie dei «gobbi» la tela viene spinta in
avanti grazie ad un armatura di legno o metallo, delle volte si tratta di rami di albero, incastrati nel telaio
dando al quadro un aspetto plastico più evidente. Anticipano le ricerche della “shaped canvas”, cioè dei
quadri concepiti come strutture a tre dimensioni, di tela con armatura interna.

1949 Catrame serie -> Burri ha esposto i suoi quadri neri di catrame a Roma in diverse occasioni tra il
1951 e il 1954. Le loro superfici ruvide sono costituite da depositi irregolari di materia pittorica e vernice
raggrumata, in contrasto con i monocromi lisci e planari di altri artisti modernisti. Il mantello duro e
splendente di “Nero catrame” nasconde un dipinto precedente e colorato sottostante.

La serie è composta da forme geometriche e biomorfe incorporate in spessi strati di catrame e impasto
squamoso. Le forme rivelano il debito di Burri nei confronti del modernismo tra le due guerre e la sua
sintesi di cubismo e surrealismo. Eppure la densa materialità combinata con una tavolozza quasi
monocromatica segna un allontanamento dalla precedente astrazione. Molti quadri di questa serie
mostrano sottostante un altro dipinto, spesso sono quadri raffiguranti dei paesaggi del Texas.

1950 Muffa -> Pietra pomice, olio, vinavil su tela


1954 sacchi e rosso -> sacco rosso integra frammenti di tela di colore bruno tagliata da contenitori
usati e campiture di tela colorata in rosso. Inizialmente alcuni critici indicarono queste opere come tristi
ricordi del secondo periodo post bellico. Infatti su alcuni sacchi compaiono scritte in lingua inglese. Questo
fa pensare che si trattase di contenitori di merci fornite dagli alleati in soccorso al popolo italiano. Inoltre il
colore rosso si riteneva che facesse riferimento al sangue poichè Burri era un medico. In realtà Burri chiarì
che le sue ricerche miravano a creare opere libere e prive di riferimenti storici o sociali. L’opera è quindi
apprezzabile come studio compositivo di materiali assemblati e di diverse superfici.

Negli anni Cinquanta l’artista si dedicò alla sperimentazione con i sacchi di iuta. Nel 1954 infatti Alberto
Burri dipinse altre opere utilizzando sacchi integrati con ampie zone di colore rosso. Il dipinto è firmato sul
retro della tela con la scritta “Burri 54”.

1955 Combustioni -> plastica, acrilico, vinavil e combustione su Cellotex. Tutto è condensato e rafforzato
nelle Plastiche combuste. La plastica è il simbolo per eccellenza di praticità e quanto di più lontano da un
supporto artistico si potesse immaginare negli anni ’60, periodo in cui era diventata simbolo di una nuova
società fondata sul consumo e sul benessere diffuso, è proprio questo avveniristico materiale che viene
innalzato a supporto eletto da Burri, forgiato e rimodellato attraverso un elemento ancestrale come il
fuoco, che, tramite la sua natura alchemica, distruttiva e rigeneratrice, dona nuova vita e una nuova
essenza alla plastica. Neri crateri si aprono sulla superficie e gli strati di materia, come obbedienti a un
misterioso comando, si ricompongono in un ordine nuovo prevedibile solo in parte dall’artista/creatore: la
lacerazione stessa, esito naturale di un materiale concepito come involucro, diviene così, attraverso le
fiamme, nobilitazione e redenzione del semplice oggetto.

Sotto le mani dell’artista, la plastica perde ogni piacevolezza tattile per tramutarsi in un organismo vivente,
visibile fino nelle sue più recondite e oscure pieghe, un organismo che si rivela essere nient’altro che la
nostra anima, in cui luce e tenebra appaiono inscindibilmente uniti in un vincolo arcano e inestricabile.

1958 legni -> il legno, materiale ”povero” che, come il lino, contraddistingue il suo linguaggio, e la
combustione, tecnica da poco introdotta tra i suoi procedimenti artistici. La sua incorporazione di materiali
“poveri” come il sacco e il legno ha rivelato che un artista sembra elevare il più umile degli elementi nel
regno dell’arte, ponendoli su un piedistallo precedentemente impensabile. Allo stesso modo, le tecniche
impiegate da Burri indicavano un artista che stava trovando nuovi modi di lasciare un segno sulla tela. Con il
legno rovente e incorporandolo all’interno dei confini di una superficie pittorica, Burri stava spingendo i
confini dell’arte verso nuovi estremi. Il legno, spesso disposto a sottile lamelle, viene bruciato da Burri, per
portare la possibilità espressiva del materiale ad una memoria che è evento cruento e crudele. La materia
può comunicarci molte cose, ma nell’estetica di Burri la materia comunica solo se è memoria di eventi che
modificano irreversibilmente la materia stessa, non solo la sua forma.

1959 ferri -> Ferro lamiera saldata e chiodini su ossatura in legno. Con la fiamma, opera delle saldature
approssimative di lastre di ferro color ruggine. Ottiene opere dalle tonalità cupe e tenebrose, quasi
residuati di officine infernali. Burri ha costruito i Ferri tagliando e saldando lamiere di acciaio laminato a
freddo. Il materiale era nuovo, ma questi lavori rivelano anche la continuità nella pratica di Burri. Usa la
tecnica di saldatura per creare un senso di punti e cuciture, proprio come abbiamo visto nel Sacchi. E qui di
nuovo, nota il rosso che fa capolino dalla superficie dell'immagine. I Ferri sembrano in qualche modo
minacciosi, anche se le composizioni sono piuttosto maestose e monumentali. In effetti, quando un critico
suggerì a Burri che i ricci affilati di acciaio che spuntavano dalla superficie verso lo spettatore avevano un
elemento di cattiveria in loro, Burri rispose: “Bene, certo. Dove altro potrebbe andare la malvagità? " È
questa tensione tra i bordi lisci e piatti e frastagliati e le qualità laceranti dell'acciaio affilato che rendono
queste opere così forti e imponenti.

Cretto di Ghibellina 1984 -> Il cretto di Burri o cretto di Gibellina è il nome con cui è colloquialmente
conosciuto il Grande Cretto, opera di land art realizzata site-specific da Alberto Burri tra il 1984 e il 1989 nel
luogo in cui sorgeva la città vecchia di Gibellina, completamente distrutta nel 1968 dal terremoto del Belice.

la potenza del terremoto distrusse completamente la città, lasciando la maggior parte delle famiglie senza
tetto. La voglia di rinascita della città nacque dalla mente del sindaco Ludovico Corrao, che vide nell'arte un
riscatto sociale della città; tra i numerosi artisti che vennero in città a titolo gratuito spiccò il nome di Burri.

Burri progettò un gigantesco monumento che ripercorre le vie e vicoli della vecchia città: esso infatti sorge
nello stesso luogo dove una volta vi erano le macerie, attualmente cementificate dall'opera di Burri.

Dall'alto l'opera appare come una serie di fratture di cemento sul terreno, il cui valore artistico risiede nel
congelamento della memoria storica di un paese. Ogni fenditura è larga dai due ai tre metri, mentre i
blocchi sono alti circa un metro e sessanta e ha una superficie di circa 80 000 metri quadrati,[3] facendone
una delle opere d'arte contemporanea più estese al mondo. A circa 350 metri dall'opera, è possibile vedere
anche i resti dei ruderi di Gibellina.

1960 Cretti -> I "Cretti" costituiscono una delle serie più famose di opere di Alberto Burri. L'artista
comincia a realizzarli nel 1973. Prosegue in maniera continuativa fino al 1976, quando passa ai "Cellotex". I
"Cretti" consistono in superfici quadrate o rettangolari, spesse, di colore bianco o nero, su cui si dipana un
fitto intreccio di crepe e screpolature. L'aspetto assomiglia a quello dei terreni argillosi, crepati dopo lunghi
periodi di siccità. Per ottenere questo effetto Burri inizialmente impiega un impasto di bianco di zinco e
colle viniliche, cui aggiunge terre nel caso di quelli colorati. Applica uno strato spesso di questo materiale su
un supporto di cellotex e, quindi, sottopone l'opera a un processo di asciugatura/essiccamento. In anni
successivi, con l'aumentare delle dimensioni, utilizza un impasto di bianco di zinco, caolino e terre, che
dopo essiccature ricopre con vinavil. I "Cretti" rivestono un'importanza particolare nell'evoluzione artistica
di Alberto Burri. Dopo i cicli precedenti, in cui adoperava sacchi, legni, ferro, plastica, ritorna infatti agli
strumenti del pittore: la tela, il colore e i materiali terrosi.

Attraverso la crepatura superficiale del materiale l'artista ottiene due risultati:

- evoca l'idea del trascorrere del tempo,

- affida alla tramatura superficiale del materiale tutta l'efficacia espressiva e decorativa dell'opera, senza
l'ausilio di contrasti cromatici.

Con i "Cretti" Burri giunge a un livello nuovo di severità e compostezza nella composizione. In qualche
modo si riallaccia, così, all'ordine e alla compostezza della pittura rinascimentale.

1970 cellotex -> una serie di 6 serigrafie su carta Colombe, e dei Multiplex, una sequenza di 10 multipli4
eseguita nel 1981 parallelamente alle opere maggiori. Sono assemblaggi dove la materia non è rievocata,
bensì fortemente ottenuta, esaltata con l’impiego di un particolare materiale ad alta densità scavato in
profondità, inciso e asportato. Entrambe le serie sono, per quanto riguarda materiali, composizioni e
cromie, del tutto coese ed esemplari del grande magistero dell’opera di Burri: i beige dei sacchi, i rossi delle
plastiche, i neri dei cellotex e delle combustioni o i bianchi dei cretti, intatti vi ritrovano sintesi; tutto dal
maestro è stato voluto con la medesima coerenza e determinazione, da lui creato e seguito
meticolosamente non unicamente per corrispondere alla più elevata qualità dei suoi capolavori, ma per
esserne un’altra possibile espressione, indipendente ed altrettanto unica.

LUCIO FONTANA
Lucio Fontana è stato un pittore, ceramista e scultore italiano, argentino di nascita, fondatore del
movimento spazialista.

Figlio dello scultore italiano Luigi Fontana (1865-1946) e di madre argentina, comincia l'attività artistica nel
1921 lavorando nell'officina di scultura del padre.Diventa poi seguace di Adolfo Wildt. Sin dal 1949,
infrangendo la tela con buchi e tagli, egli supera la distinzione tradizionale tra pittura e scultura. Lo spazio
cessa di essere oggetto di rappresentazione secondo le regole convenzionali della prospettiva. La superficie
stessa della tela, interrompendosi in rilievi e rientranze, entra in rapporto diretto con lo spazio e la luce
reali.

La famiglia Fontana era abbastanza agiata, quindi il giovane Lucio viene mandato in Italia a studiare prima
in importanti collegi e poi all’Istituto tecnico Carlo Cattaneo e al liceo artistico di Brera. Nel 1917 si arruola
volontario nell’esercito. Nel 1921, ottenuto il diploma di perito edile fa ritorno in Argentina. Nel 1924 dopo
aver lavorato con il padre apre il suo studio a Rosario abbandonando lo stile realistico del padre. Nel 1927
torna a Milano e si iscrive all’Accademia di Brera e si diploma nel 1930. Subisce l'influenza del suo
professore Adolfo Wildt.

Nel 1937 si reca a Parigi per l’Esposizione universale. Conosce Tristan Tzara e Costantin Brancusi e vede le
opere di Picasso. Visita i laboratori di ceramica di Sèvres e realizza nuove ceramiche. Dal 1940 al 1947 vive
in Argentina e insieme con altri artisti astratti scrive Il manifiesto blanco: Si richiede un cambiamento
nell'essenza e nella forma. Si richiede il superamento della pittura, della scultura, della poesia e della
musica. È necessaria un'arte maggiore in accordo con le esigenze dello spirito nuovo.

Nel 1947 insieme con Beniamino Joppolo, Giorgio Kaisserlian, Milena Milani scrive il Primo Manifesto dello
Spazialismo. Seguito poi dal Manifesto tecnico dello spazialismo nel 1951 (La prima forma spaziale costruita
dall'uomo è l'aereostato. Col dominio dello spazio l'uomo costruisce la prima architettura dell'Era Spaziale-
l'aeroplano. A queste architetture spaziali in movimento trasmetteranno le nuove fantasie dell'arte. Si va
formando una nuova estetica, forme luminose attraverso gli spazi. Movimento, colore, tempo, e spazio i
concetti della nuova arte.).

Nel 1952 segue il Manifesto del movimento spaziale per la televisione: Noi spaziali trasmettiamo, per la
prima volta nel mondo, attraverso la televisione, le nostre nuove forme d'arte, basate sui concetti dello
spazio, visto sotto un duplice aspetto: il primo quello degli spazi, una volta considerati misteriosi ed ormai
noti e sondati, e quindi da noi usati come materia plastica; il secondo quello degli spazi ancora ignoti del
cosmo, che vogliamo affrontare come dati di intuizione e di mistero, dati tipici dell'arte come divinazione.
La televisione è per noi un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti. Siamo lieti che
dall'Italia venga trasmessa questa nostra manifestazione spaziale, destinata a rinnovare i campi dell'arte.

Le sue tele monocrome, spesso dipinte a spruzzo, portano impresso il segno dei gesti precisi, sicuri
dell'artista che, lasciati i pennelli, maneggia lame di rasoio, coltelli e seghe. Tutto è giocato sulle ombre con
cui la luce radente sottolinea le soluzioni di continuità.

L'opera Il fiore (o Concetto spaziale) del 1952 introduce il movimento: un fiore costituito da lamelle di ferro
verniciato di giallo con una serie di buchi ordinati e in movimento tra di loro. Ma forse l'opera più
interessante di questo periodo è la Struttura al neon per la IX Triennale di Milano del 1951. Un neon
continuo che si intreccia più volte appeso a un soffitto colorato di blu (progettato insieme con gli architetti
Baldessari e Grisotti) e sembra cristallizzare il movimento di una torcia elettrica oppure il movimento di uno
schizzo su carta (come si può vedere dagli schizzi preparatori) simile ai tracciati spiraliformi di Hans
Hartung. Nei successivi anni '50 realizzerà una serie di opere sempre più rappresentative del pensiero
informale. La serie delle Pietre, la serie dei barocchi e quella dei gessi.

Fontana giunge alla sua poetica delle opere più famose (i tagli sulla tela), nel 1958, meditando la lezione del
barocco, in cui, come egli scrisse le figure pare abbandonino il piano e continuino nello spazio. Come gesti
apertamente provocatori vanno intese certe sue tele monocrome che, quali i buchi e i tagli, scandalizzarono
il pubblico anche per la facilità con cui è possibile rifarle. Su uno sfondo sempre più monocromo, egli incide
la tela con un uno o più tagli per cui si interrompe la illusorietà della tela come supporto per un disegno e
l'opera diventa una materia che tramuta la tela in una scultura tridimensionale. Le tele caratterizzate dai
tagli sono chiamate anche Concetto spaziale-Attese (o Attesa) a seconda del numero dei tagli. Le tele
all'inizio presentano molti tagli anche disposti in serie più o meno ordinate e sono colorate con aniline; in
seguito i tagli si riducono, le tele sono colorate con idropittura e i tagli chiusi nel retro da garza nera. Ecco
raggruppati per tema le serie di opere di Lucio Fontana:

Numerosi furono i falsari, ma pochi con un segno altrettanto sicuro. Fontana, per cautelarsi, scrisse sul
retro di ogni tela frasi insensate, semplice appiglio per una perizia calligrafica. È stato pittore, scultore,
ceramista, mosaicista, ha trattato il Cemento Dipinto, ha praticato anche l'Architettura. In Piazza Pozzo
Garitta, ad Albissola Marina, si trova lo "Spazio Lucio Fontana" ove, negli anni '50 e '60, era ubicato l'atelier
dell'artista, che, per la locale "Passeggiata degli Artisti" fece un disegno per un mosaico e fuse una scultura
metallica.

Nel 1963-64 espone alla mostra Peintures italiennes d'aujourd'hui, organizzata in medio oriente e in
nordafrica. Morì a Comabbio, in provincia di Varese, il 7 settembre del 1968, all'età di 69 anni.

La moglie Teresita Rasini, nel 1982, ha dato vita alla Fondazione Lucio Fontana, alla quale lasciò oltre
seicento opere dell'artista e di cui è stata presidente fino alla sua scomparsa nel 1995.

1934 signorina seduta -> un gesso colorato che rappresenta una ragazza seduta per terra, (Secondo la
testimonianza della moglie dello scultore, Teresita, si tratterebbe del ritratto della cognata Jole Bonifacini
Fontana, moglie del fratello di Lucio, Tito) colta nell’atto di sistemarsi i capelli davanti ad uno specchio, uno
specchio che non è realmente modellato ma lasciato all’immaginazione dell’osservatore. Fontana propone
un soggetto tipico della tradizione classica, la donna seduta, ma lo aggiorna alla propria epica immaginando
una donna moderna. L’atteggiamento naturale della donna è frutto di uno studio preciso dei ritmi del
corpo, costruito su diagonali che inscrivono la figura in un triangolo rettangolo. Fontana riprende le lezioni
del Futurismo di cui apprezzava le teorie sul dinamismo e sperimenta l’idea di una forma in movimento. La
forza dei volumi si coniuga con l’uso del colore oro, eredità di Wildt, che lo usava per proiettare ogni
oggetto in un ambito astratto. Per Wildt l’oro era solo un valore estetico mentre per Fontana assunse una
funzione di astrazione totale, capace di trasportare l’oggetto in una condizione astratta.

1947 scultura spaziale -> scultura in bronzo.


1950 concetto spaziale -> Il «Concetto spaziale», ovvero la tela forata, nasce nel 1949: è un gesto, una
formula sintetica, che esprime i valori di una civiltà che intende rinascere dalle macerie della seconda
guerra mondiale, la civiltà dell’era atomica e spaziale. Non è scultura e non è pittura, la tela forata è
l’espressione che ribadisce la presenza di una quarta dimensione, lo spazio-tempo, anche nel nostro
presente quotidiano. Fontana crede in una civiltà nuova che si lasci alle spalle la materia e il sangue e
risorga in una dimensione utopica e avveniristica, ideale. Ma la materia non è mai veramente abbandonata
dall’artista, così il suo approccio alla ceramica, da scultore, dà sempre nuovi frutti.

1959 concetto spaziale. Attese. -> Il loro creatore li ha chiamati Concetti Spaziali, in sostanza si tratta di
un’importante serie di monocromi interrotti da un delicato taglio centrale: un discreto, sottile taglio da cui
è sgorgato un inesauribile fiume d’interpretazioni. La tela adesso è lacerata da uno o più squarci verticali,
che invece di indicare distruzione stanno piuttosto per delle possibili aperture verso l’altrove, verso una
terza dimensione oltre i limiti imposti dalla piattezza del quadro. Avendo perduto qualsiasi funzione
figurativa, il dipinto diviene una superficie monocroma contenente una breccia, un passaggio verso un
universo parallelo, uno spazio mentale alternativo. Attesa (o Attese in caso di più tagli), è cosi che Fontana
chiama queste tele lacerate. Delle vie di fuga dove si posa l’occhio dell’osservatore, solo e beato nell’attesa
che forse non accada nulla. La mattina le tele vengono colorate, si lascia passare qualche ora affinché il
colore si secchi, il pomeriggio Fontana ricorre a un taglierino Stanley per attentare all’integrità dei quadri e
imprimervi una chiara e netta traccia dell’intervento umano.

1959 concetto spaziale. Natura -> È alla fine degli anni '50 che nasce la serie Natura di Fontana. Questo
comprendeva sculture in terracotta o bronzo che venivano eseguite come ciottoli monosuperficie o
corrispondenti forme bivalvi che in seguito divennero "palloncini" secondo la definizione stessa di Fontana.
La sua Natura corrispondeva principalmente all'immaginazione cosmica a cui l'artista si riferiva spesso e agli
ideali del viaggio spaziale prevalenti negli anni '60. L'opera in oggetto fa parte di una serie realizzata
tagliando uno squarcio su un pezzo di terracotta, che Fontana successivamente ha fuso in bronzo. Credeva
che l'incisione fosse un "segno vitale", segnalando "il desiderio di far vivere il materiale inerte".

1962 concetto spaziale, lastre metalliche -> tagli e graffi su rame, firmato e datato sul fronte in basso a
destra: “L. FONTANA 62”. Lucio Fontana si reca per la prima volta a New York insieme a Ezio Gribaudo e
Francesco Aschieri nel 1961 in occasione della sua mostra personale, la prima in assoluto negli Stati Uniti,
curata da Michel Tapié alla Martha Jackson Gallery. La Grande Mela esercita su di lui un’impressione
profonda. La sensazione fortissima, meravigliosa e terribile, provata dall’artista viene provvisoriamente
fissata in dipinti eseguiti sul luogo e poi, l’anno successivo, in un certo numero di lastre metalliche di rame o
latta, tagliate e graffiate soprattutto nel senso della lunghezza, per rendere l’andamento verticale delle
visioni urbane catturate lungo le avenues di Manhattan. Si tratta di una vera e propria interpretazione
fantastica e visionaria dell’iconica metropoli americana, addirittura descrittiva, che ne suggerisce la
luminosità fluida e onnipresente, le superfici riflettenti dei palazzi d’acciaio e di cristallo, ma anche la natura
“tecnologica” e industriale resa dalla stessa scelta del materiale.

New Dada e Nouveau Realisme


La ricerca di una forma d’arte la cui essenza non risiedesse solo nel valore del gesto e che non ambisse a sconfinare nel
divino e nello spirituale, che non privilegiasse soluzioni raffinate ma che intendesse rivolgersi al quotidiano, facendo
ricorso a materiali di recupero, oggetti privi di valore estetico ma esaltati dai mezzi di comunicazione di massa. Tutto
ciò fu alla base del New Dada statunitense degli anni cinquanta.

All’interesse per Duchamp e per gli altri esponenti del Dada si accompagnò la riflessione sugli oggetti, soprattutto
quelli di consumo quotidiano, e sul rapporto che questi definiscono con l’artista. Il binomio oggetti-mezzi di
comunicazione di massa caro al new Dada, avrebbe poi posto le premesse artistiche e culturali anche per la Pop-Art.

In Europa nasce una riflessione simile nel 1960 chiamata Nouveau Realisme, una corrente all’interno della quale artisti
già formati operarono secondo tecniche e intenti comuni. Secondo le loro convinzioni, il Nouveau Realisme era
l’autentico realismo e i soggetti veri dell’opera erano la creatività e la sensibilità dell’artista. Non da forma agli oggetti
ma li sceglie tra quelli esistenti.

RAUSCHENBERG
Nasce nel 1925, è stato un fotografo e pittore statunitense che fu vicino alla Pop Art però senza mai entrarci
realmente. Rauschenberg esplora il mondo artistico non limitandosi alla pittura ma all’interno delle sue opere
introduce elementi materici, oggetti e addirittura animali impagliati, operando una fusione fra questi e la pittura alla
quale non rinuncia. E’ l’icona del New Dada. Compie gli studi nella città natale in Texas, a Parigi e a New York,
avvicinandosi alla pittura attorno al 1946. Nel 1954 conosce Jasper Johns, con il quale collabora. Al 1958 risale la sua
prima personale. Rauschenberg inizia l’attività artistica con serie di dipinti monocromi ma presto la sua attenzione si
concentra su oggetti banali a cui lu da nuova vita. Nascono così i “Combine-Paintings”, assemblaggi di oggetti e
materiali di varia natura, spesso dipinti o associati al colore, in questo modo riusciva a combinare pittura e scultura. Le
sue opere hanno una unicità determinata dal modo in cui sceglie e accosta gli elementi dei collage e aspetti della Pop
Art, ovvero parti dipinte a mano. Rauschenberg fu sempre indipendente da qualsiasi movimento anche se a volte è
stato considerato, insieme a Jasper Johns, uno dei precursori della Pop Art.

1951 White Painting -> serie di 5 opere; opere composte da dei pannelli modulati dipinti completamente di bianco
con un semplice rullo. L’obbiettivo dell’artista era quello di creare un dipinto che non fosse toccato da mani, come se
fosse semplicemente arrivato nel mondo completamente formato e assolutamente puro. Vennero considerati
scioccanti e persino caratterizzati come una truffa a buon mercato quando furono esposti nel 1953.

1955 Bed -> non è una tela ma bensì un vero e proprio letto posto verticalmente entro una cornice contraddicendo
così l’uso che di esso si fa, modificandone la funzione; l’artista prese un cuscino, un lenzuolo e una trapunta logori, li
scarabocchiò con la matita, gli schizzò con la vernice in uno stile vicino a quello di Pollock. Rauschenberg per creare
Bed prese le sue cose perché non poteva permettersi di acquistare una nuova tela.

1955 Monogram -> combina pittura e scultura, impiegando 4 anni per assemblarla in diverse parti. L’oggetto
principale è una capra impagliata che porta un pneumatico di automobile intorno al corpo. Quest’opera passò
attraverso 3 stadi: fissò la capra su un pannello a muro ma non andava bene perché si mostrava troppo evidente; la
posizionò al centro della stanza mettendogli dietro un piano verticale, ma non funzionò perché sembrava che la capra
trainasse il pannello; aggiunse anche un pneumatico e tutto apparve nel suo concetto di arte completa.

JASPER JOHNS
Nasce in Georgia nel 1930, studia all’università della South Carolina dal 1947 al 1948. Si spostò a New York e studiò
per un breve periodo nel 1949 alla scuola di Design Parsons, a New York conosce Rauschenberg con il quale lavora
come vetrinista e con cui condivide idee sull’arte. Nel 1950 si impose sulla scena artistica instaurando un nuovo
rapporto tra immagine reale e quella dipinta, la sua attenzione era rivolta alla vita quotidiana, del comune e del
banale. Si interessa agli oggetti elementari e alle più semplici espressioni di comunicazione. Da tali premesse
discendono le raffigurazioni della bandiera americana, dei numeri, dei bersagli, delle mappe geografiche: tutti soggetti
dipinti con uno stile rigido e regolare, prossimo all’astrattismo geometrico o con la violenza del colore, indicativa di un
legame con l’espressionismo astratto.

1954 Flag -> creato quando aveva 24 anni. E’ realizzato ad encausto, pittura ad olio e collage di carta di giornale su 3
tele separate, montate su una tavola di compensato. Il dipinto riflette i 3 colori della bandiera americana: rosso, blu,
bianco. La bandiera è raffigurata nella forma tra il 1912 e il 1959 con 48 stelle bianche su un cartone blu e con 13
strisce rosse e bianche. Per la carta ha selezionato apposta articoli o pubblicità insignificanti, in tal modo l’artista ha
incluso nell’opera degli elementi originali, autonomi, non destinati all’uso al quale sono stati adibiti.

Johns realizzò 40 opere sulla figura della bandiera.


1958 Le tre bandiere -> l’opera comprende 3 tele che formano una disposizione a più livelli, ciascuna tela con il 25%
in meno dell’altra, creando così un lavoro tridimensionale. Ogni tela è dipinta per assomigliare alla bandiera
americana, la prospettiva è invertita con i dipinti più piccoli che sporgono verso lo spettatore, il dipinto più piccolo è
completamente visibile, gli altri solo parzialmente.

1974 Corpse and Mirror -> ha usato una serie di segni tratteggiati, per aggiungere profondità, volume e trasmettere
un’illusione di luce nello spazio.

POP ART
L’Informale in Europa e l’Espressionismo Astratto negli stati uniti appaiono delle esperienze artistiche molto
intellettuali e limitate alle elite. Le masse si mostrano indifferenti ad entrambi i movimenti. L’arte del secondo
dopoguerra era stata accolta con diffidenza dalla società americana perché tale concezione artistica esprimeva un
disagio profondo. Tale disagio era in contrasto con l’ottimismo e la superficiale spensieratezza che la società dei
consumi imponeva al fine di garantirsi dei profitti economici. E’ così che negli anni 60, dopo aver avuto origine in
Inghilterra, matura negli Stati Uniti una nuova forma di arte popolare, la “Pop Art” (Pop=popular) che rivolge la propria
attenzione alla società dei consumi. L’appellativo “popular” deve essere inteso come “arte di massa”, cioè prodotta in
serie, poiché la massa non ha volto, l’arte che esprime deve essere il più possibile anonima, solo così potrà essere
compresa da più individui.

Il salto è traumatico in quanto, dalle elaboratissime riflessioni su materia e gesto, si passa a valori quotidiani e banali.

Fenomeni della pop art:

- Mercificazione dell’uomo moderno.


- Pubblicità ossessive.
- Consumismo come sistema di vita.
- Fumetto come unico veicolo di comunicazione scritta.
- Prodotti di grande diffusione come: coca cola, striscia di fumetti, Marilyn Monroe.

La Pop Art attinge i propri soggetti dall’universo del quotidiano e fonda la propria comprensibilità sul fatto che quei
soggetti sono per tutti riconoscibili. L’intervento artistico avviene mediante la manipolazione dei soggetti che possono
essere dilatati, moltiplicati, colorati ecc.

Gli artisti pop non sono dei ribelli, le loro opere ci appaiono spesso più curiose che provocatorie e il loro impatto con la
realtà è sicuramente più ironico che sarcastico. Ecco dunque l’interesse per il mondo dei mezzi di comunicazione di
massa e della pubblicità martellante, sullo sfondo di una realtà piatta ed innaturale dipinta con colori sintetici, senza
ombre e senza volumi. Tale interesse orienta anche quello dei temi: uno dei preferiti è quello del cibo; in una società
come quella statunitense è proprio il cibo il primo elemento di consumo, ma anche di abuso e di enfatizzazione. I
prodotti non sono più decantati per il loro sapore ma per le loro dimensioni, il loro contenuto passa in secondo piano
poiché non si mangia più per vivere ma solo per consumare. La pop art dunque è un arte di consumo.

ROY LICHTENSTEIN
Insieme a Warhol è senza dubbio uno dei massimi e più rigorosi interpreti della Pop Art. Nasce a New York nel 1923,
durante la scuola inizia ad interessarsi all’arte, al design e alla musica, in particolare al Jazz. Partecipa alla seconda
guerra mondiale come tecnico nell’esercito americano, nel ’46 riprende gli studi all’università frequentando corsi di
pittura. Dopo la laurea, si iscrive alla specializzazione alle belle arti che finirà nel 1949. Dal 1957 la sua arte si avvicina
all’espressionismo astratto e nei suoi quadri iniziano a comparire personaggi di fumetti o cartoni animati come
Topolino, Paperino ecc. Nel 1961, quando entra in contatto con Andy Warhol, comincia ad inserire sistematicamente
elementi tipici del mondo della pubblicità e dei fumetti e ad utilizzare il puntinato Ben-Day che diventerà una sua cifra
stilistica.
1961 Look Mickey -> Rappresenta per la prima volta una scena e uno stile di cultura popolare. Nell’immagine, ci
sono Topolino che si fa beffe di Paperino che si è pescato da solo con la frase “guarda Mickey, ne ho preso uno
grande”. Lichtenstein ha iniettato la sua arte con un oscuro umorismo, ha invertito le immagini che ha trasportato
allargandole e sollevandole dal loro contesto iniziale, ha prescritto una versione furba dell’immagine clichè.

1962 Il Bacio -> in quest’opera non sappiamo se i due innamorati si siano appena riabbracciati dopo un lungo
momento di solitudine oppure se si stiano per separare o se siano lacrime di gioia o separazione. In questa scena alla
“casablanca” sappiamo solo che i due si amano e che la semplice immagine riprodotta è focalizzata unicamente
sull’atto del baciare, eliminando qualsiasi elemento esterno. Resta solo il bacio.

1963 WHAAH! -> è un grande dipinto su due tele che prende una scena di un fumetto, la tela di sinistra presenta un
aereo americano, le parole del pilota appaiono in una bolla gialla che spara un missile nella tela di destra e colpisce un
aereo nemico in avvicinamento. Il titolo onomatopeico si ordina diagonalmente verso l’alto e sinistra dalla palla di
fuoco, come se fosse una risposta alle parole del pilota.

1965 Brushstroke -> realizzò una serie di dipinti raffiguranti pennellate ingrandite. Qui il pittore ha usato questo
tratto per fare un commento diretto all’espressionismo astratto sull’elevato carico delle pennellate.

Il motivo è serigrafico su carta in modo solitamente associato alla pubblicità. Dal 1972 al 1981 lavora a numerose
nature morte come:

1974 Natura morta con pesce rosso -> si vede nuotare un pesce rosso in quello che è chiaramente uno spazio
limitato (bicchiere) è circondato da frutta (limoni). Prodotto con olio e magna su tela, il dipinto sembra una pubblicità
commerciale o un fumetto. Si vede una analogia tra il pesce di Licheistein e il pesce rosso di Matisse.

Ragazza con la palla -> capico cos’è ma è un fumetto non realista.

Pistola 64 -> puntini dipinti a mano.

1964 Tempio di Apollo IV -> Per realizzarla prende come base una cartolina proiettandola ingrandita sulla tela e
dilatandone le dimensioni; egli l’ha sottratta alla sua funzione iniziale attribuendole un significato del tutto nuovo.
Grazie all’eliminazione di qualsiasi particolare superfluo, le rovine del Templio si sono trasformate in un motivo
puramente grafico che non rappresenta altro che se stesso. Le due diverse retinature in grgio chiaro e scuro, così
come lo sfondo di base giallo sono altri elementi di estraniazione rispetto all’immagine di partenza.

Big Painting -> Omaggio all’Informale.

Ritratto Cezanne -> lo trasforma in uno schema che traduce le sintassi di un Gorky(?) naturalista.

Magnifing Glam -> Lente che ingrandisce un retino.

ANDY WARHOL
E’ il Rappresentante più tipico della cultura pop americana. Impiega tutte le sue energie per costruire il proprio
personaggio in modo quasi scientifico, secondo i tempi e i modi di una ben orchestrata compagna pubblicitaria. In
questo modo finisce per diventare prigioniero del suo stesso mito che, come una star del cinema, lo costringe ad
essere sempre alla ribalta. Sceglie un look eccentrico, tingendosi i capelli e indossando parrucche biondo platino o
argento. Nasce a Pittsburg nel 1928, è stato un pittore, scultore, regista, produttore, direttore della fotografia, attore,
sceneggiatore, montatore statunitense e figura predominante del movimento della Pop Art.

Dopo la laurea nel 1949, si trasferì a New York, lavora come vetrinista per catene di grandi magazzini e artista
commerciale nel campo della grafica pubblicitaria lavorando per riviste come Vogue e Glam.
Nel 1960 decide di intraprendere la carriera di pittore e incomincia a riprodurre primi dipinti con soggetti come
fumetti o prodotti di largo consumo. A partire dal 1962 adotta il procedimento della stampa serigrafica che gli
consente la riproduzione di molte opere in numerose copie.

Nel 1963 affitta una mansarda che diventa il suo studio viene denominato “Factory” da lui stesso. Nel 1965 si dedica al
cinema nel quale sperimenta una “estetica della noia”, riprende per 6 ore di seguito persone che dormono oppure per
8 ore la cima dell’empire state building. Il 3 giugno 1968 una femminista radicale sparò a Warhol e al suo compagno,
entrambi sopravvissero nonostante le ferite ma le sue apparizioni in pubblico diminuirono. Dal 1970 in poi dipinse
teschi e falci. Morì nel 1987 in seguito ad un intervento chirurgico alla cistifellea. La sua pittura conta tantissime opere,
che produce in serie con l’ausilio dell’impianto scenografico.

La ripetizione era il suo metodo di successo: su grosse tele riproduceva molte volte la stessa immagine alternando i
colori. Prendendo immagini pubblicitarie di molte marche o immagini di impatto come incidenti stradali o sedie
elettriche, riusciva a svoltare il significato e le ripeteva a vasta scala. Ha spesso ribadito che i prodotti di massa
rappresentavano la democrazia sociale e come tali devono essere riconosciuti, anche il più povero può bere la stessa
cocacola che beve una persona famosa. Successivamente rivisitò anche le grandi opere come “l’ultima cena” di
Leonardo Da Vinci e anche in questo caso cercò di rendere omaggio a delle opere d’arte al posto dei mass media.

1962 Marilyn Monroe -> è un installazione formata da 9 serigrafie a colori, il volto di Marilyn è ripetuto per ogni
modulo con variazioni di colore. Fu eseguito subito dopo la morte prematura dell’attrice nel 1962, che Warhol decise
di trasformare il volto della donna in un’icona di massa. In questo caso il volto di Marilyn si può intendere come un
prodotto mediatico in quanto diva del cinema di Hollywood e mondiale.

1962 Scatole di Campbell’s soup -> anche conosciuta come “32 Campbell’s soup cans” consiste in 32 tele di
polimero sintetico su tela, ciascuna grande 51 cm x 41 cm, raffiguranti tutte le varietà dei barattoli di zuppa Campbell
allora in commercio. I singoli dipinti sono stati riprodotti con la serigrafia semi-meccanizzata. L’importanza della serie
di tele nella cultura popolare ha contribuito a rendere la pop-art fra i maggiori movimenti artistici d’America. Vengono
esposte su 4 mensole, come se fossero esposte in un supermercato. E’ il monumento ai cibi quasi mai naturali,
conservati, disidratati e congelati, creati per persone che non hanno “tempo” o “voglia” di cucinare.

1963 Liz -> è un ritratto realizzato dell’attrice Elizabeth Taylor, realizzato con vernice di polimeni sintetici e inchiostro
serigrafico su tela. Nato dopo una lunga frequentazione con l’attrice nel periodo d’oro dello studio 54 (discoteca delle
celebrità). Liz era un’attrice di fama mondiale, ammirata per la sua bellezza, era noto il suo sguardo dagli occhi viola,
che Warhol ha voluto evidenziare con un colore verde acqua intorno; le labbra rosso brillante, pelle impeccabile,
sorriso aperto, conferendole un aspetto misterioso. Liz è stata il soggetto prediletto, tanto che in sua memoria ha
installato due dipinti nella galleria del museo “The Andy Warhol Foundation”

1963 Double Elvis -> ha riprodotto molti dipinti di Elvis a grandezza naturale. In Double Elvis ha sovrapposto le due
immagini per dare un effetto stroboscopio, originariamente quest’opera apparteneva ad una lunga tela che
successivamente taglia e stira in più dipinti. Il cantante sembra muoversi, come in una striscia di pellicola.

1964 Jackie -> decise di raffigurarla perché reincarnava la giovinezza, la bellezza e lo stile, divenne l’ideale di moglie,
madre e first lady per la nazione. Jackie viene mostrata con una scorta al funerale del marito, con un dolore straziante
e un’intima disperazione, l’immagine rivela la nuova vedova con un’espressione vuota e scioccata come se la realtà
degli eventi del giorno non potesse assorbirla. L’opera fa parte di un gruppo di 8 fotografie originali in bianco e nero,
Warhol seleziona una varietà di foto, la ripetizione dei ritratti di Jackie rispecchia lo sconvolgimento dei momenti in cui
il tempo si è fermato. Jackie è affermato come emblema della lotta dell’individuo nella lotta globale dell’umanità.

1964 Race Riot -> raffigurano uno scatto di Charles Moore nelle quali raffigurava la manifestazione in Alabama nel
1963, con la manichetta accesa contro bambini e manifestanti pacifici.

1963 Orange Disaster -> le 11 immagini sono identiche ma sono state riprodotte con minime variazioni di intensità
del nero e diversamente sovrapposte, l’immagine originale raffigura un’incidente stradale, dove un auto è capovolta
sulla strada.

1976 Skulls -> comprende 6 tele che sono state visualizzate insieme in una griglia verticale di 3 file di 2. Ogni
pannello riproduce la stessa immagine di un teschio umano appoggiato su una superficie piana, la foto in bianco e
nero, la fronte e lo zigomo spiccano intensamente mentre le orbite e gli altri recessi sono in ombra. La vivacità dei
colori: giallo, blu e viola contrastano con il macabro soggetto.

1964 Brillo Box -> scatole di legno che copiò dalle scatole di supermercati ottenendo una trasfigurazione del reale,
estraniando l’oggetto dal proprio contesto. Sono una replica esatta della confezione di saponette venduta in tutti i
supermercati d’America. La prima comparsa delle Brillo Box di Andy Warhol avviene nel 1964 durante una mostra alla
Stable Gallery di New York. In quest’occasione le scatole di detersivo, vennero disposte per tutta la galleria dal
pavimento al soffitto replicando il caos di un magazzino del supermercato. Attraverso l’esposizione delle Brillo Box
Andy Warhol voleva trasmettere una sorta di “vuoto visivo” per esaltare l’estrema superficialità della società prospera
in cui viveva e lavorava. Le scatole di detersivo accatastate e le Lattine Campbell disposte su una fila orizzontale come
fossero su degli scaffali permettevano di proiettare immediatamente lo spettatore al supermercato. Non tutti i critici
però apprezzarono la visione artistica di Warhol poiché credevano che egli avrebbe dovuto creare immagini proprie
invece di utilizzare quelle di altri. In particolare la critica affermava che nell’usare etichette commerciali come le
Campbell’s Soup e Brillo Boxes Warhol degradasse la serietà dell’arte.

OLDENBURG
Nasce a Stoccolma nel 1929, nel 1936 si trasferisce a Chicago dove compie gli studi d’arte e letteratura. Nel 1956 è a
New York dove frequenta l’ambiente dell’avanguardia artistica e teatrale all’interno del quale nasceranno gli
“Happenings”. Per la stretta connessione della sua arte con la dimensione urbana e le scelte tematiche incentrate sugli
oggetti e sui lati legati all’uso e al consumo di massa è considerato come uno degli esponenti maggiori della Pop Art.

Realizza locandine teatrali e spazia tra pittura e scultura, privilegiando la seconda, utilizza materiali poveri come gesso
e cartapesta.

Tuttavia le sue sculture non sono rappresentazioni freddamente realistiche di oggetti pop ma invenzioni plastiche.
Possiamo dire che la ricerca di Oldenburg attraversa le modalità nell’ambito del New Dada, è una figura che incarna
Pop Art, Happening e New Dada dall’interesse per il mondo degli oggetti e delle merci. Si concentra sul consumismo,
realizzando sculture in stoffa imbevuta di gesso, dipinte con colori sgargianti, raffiguranti Roast Breef, Hamburger,
Gelati e tutto ciò che la produzione americana consumava negli anni ’60.

L’oggetto di consumo si carica di un’accettazione di arido perché viene snaturato del suo ruolo primario e ridotto a
prodotto commerciale.

1962 Hamburger gigante -> e coni gelato, sono alternati nelle dimensioni gigantesche e nel materiale dalla
consistenza morbida e imbottita. L’opera prende spunto dall’impero dei fast food che si sviluppò negli anni 60. Non
solo la scelta di un soggetto non convenzionale ma anche la morbida consistenza del materiale rompe tutti i
preconcetti della solidità e della scultura tradizionale.

1976 Clothespin -> collocata a Philadelphia; a partire dagli anni ’65 comincia a progettare degli oggetti giganti con
finalità monumentali, spesso collocati in spazi pubblici dove acquistano una fisionomia architettonica; progetta prima
lo schizzo e l’effetto spaziale.

La molletta per la biancheria diventa una cattedrale tesa verso il cielo. Nelle nuove dimensioni, il piccolo oggetto si
eleva diventando una costruzione dinamica, rivelando la decoratività della sua forma. Rappresenta fedelmente
l’oggetto adattandolo allo spazio urbano solo nelle dimensioni. Si tratta di un enfatizzazione della banalità del
quotidiano, rovesciando la gerarchia dei valori della società degni di essere monumentali. Trasforma oggetti comuni in
simboli del tempo, indicando la decadenza e il cinismo della società contemporanea.

1976 Rossetto che emerge da un carro armato -> riguarda la guerra in Vietnam, l’opera sembra concretizzare gli
slogan di quei anni: “fate l’amore non fate la guerra” o “mettete i fiori nei vostri cannoni”. Caratterizzata da una
paradossale fusione tra un oggetto femminile e un elemento legato alla guerra, l’opera è una critica amara mentre
ironizza sull’ideologia fallica della cultura militare.

2000 Ago e filo -> Ago, filo e nodo è una scultura in due parti creata dai coniugi Claes Oldenburg e Coosje van
Bruggen. L'opera è posta in piazzale Cadorna, punto cruciale del trasporto milanese per la presenza sia della stazione
di Milano Nord Cadorna sia dell'omonima fermata della metropolitana. L'idea di base è quella di un treno che entra in
una galleria sotterranea. Il fatto che la scultura sia divisa in due parti ricongiunte idealmente nel sottosuolo, è un
richiamo alla metropolitana, il mezzo degli spostamenti rapidi all'interno della città: il filo, infatti, ha gli stessi colori
identificativi delle tre linee milanesi presenti al tempo (precedente al progetto delle linee M4 "blu" e M5 "lilla"). Come
dichiarato pure da Gae Aulenti alla conferenza al Politecnico di Milano, rappresenta anche una parafrasi del biscione
presente sullo stemma di Milano. L'opera è anche un omaggio alla laboriosità milanese e, soprattutto, al mondo della
moda, che ha in Milano uno dei principali centri mondiali.

SEGAL
Nasce a New York nel quartiere ebraico nel 1924, lavora fin da piccolo e ha poco tempo per studiare. Grazie a sua zia ci
riuscità e vincerà un concorso per insegnante. Esponente della Pop Art dal 1950, nasce come pittore, ma si dedica
presto alla scultura realizzando figure di gesso monocromatico a grandezza e installazione site-specific. Le opere
dell’artista sono realizzate con garze impregnate di gesso e fatte asciugare, tuttavia non usa questi come stampi ma
rappresentano essi stessi la scultura finale, caratterizzata da una superfice ruvida e dal colore bianco del gesso. Alcune
di queste figure sono utilizzate per installazioni urbane.

Quello creato da Segal è un universo di presenze surreali che riproducono tridimensionalmente la quotidianità urbana.

1964 The Dinner -> raffigura una scena di vita della borghesia americana, gli oggetti sono realistici come le tazze di
caffè, zucchero, distributori di tovaglioli e un’urna di caffè, le figure bianche, monocromatiche, non sono reali ma solo
stampi di gesso: potrebbe essere chiunque, in qualsiasi momento in tutto il paese.

1965 The costume party -> ispirato ad una festa alla quale ha partecipato. In “the costume party” introduce i colori
nelle figure in gesso, è neutrale l’ambientazione poiché è l’interno della galleria. L’opera è composta da 6 figure:
Catwoman, Bottart, Pussy Galore, Superman, Cleopatra e Antonio che si rilassano sul pavimento. Le figure sembra che
possano andarsene da un momento all’altro.

1980 Gay Liberation -> installato nel 1992 commemora un evento storico che ha avuto luogo dall’altra parte della
strada al parco greenwich village nel 1969; dove la polizia fece irruzione nello storewall dove si stava svolgendo un
evento attivista, arrabbiati si sono riuniti per protestare chiedendo la depenalizzazione dell’omosessualità. Inizio del
Gay Pride. Creato per assomigliare alle figure in gesso, queste figure sono state fuse in bronzo e dipinte con una lacca
bianca. Raffigura due coppie omosessuali. Mettere due coppie dello stesso sesso in un parco pubblico dove altre
coppie potessero coesistere e godere delle stesse protezioni previste dalla legge.

Donna che lava i piedi in un lavandino

1976 Walk, don’t walk -> raffigura 3 persone ferme al semaforo e non comunicano

1984 Olocausto -> raffigura un corpo di un uomo fermo ad osservare attraverso un filo spinato mentre dietro di lui
raffigura un mucchio di corpi senza vita. L’unica differenza nel corpo dell’uomo è che è vestito.

WESSELMANN
Nasce a Cincinnati nel 1931, dopo aver studiato psicologia e arte, dal 1956 si trasferisce a New York e frequentò la
Cooper Union School. Interessato alle sperimentazioni elaborò tematiche ricorrenti; nudi, paesaggi, nature morte in
linguaggio vicino alla poetica della Pop Art che abbina oggetti reali ad un illusionismo pittorico, trattato con piatti e
superfici cromatiche. Sono gli anni del rapporto Kinsey e della rivista Playboy, della sessualità sfacciata del mondo
americano e del corpo della donna come oggetto di desiderio maschile, tutti argomenti che prima non erano altro che
un tabù. Ed ecco che ora nel palco dell’arte contemporanea americana fioriscono i nudi di Wesselmann, concepiti
come opere dall’estrema attualità. Nel 1957 venne liberato dalla censura il romanzo Lolita di Nabokov, che racconta la
storia delle prime esperienze amorose della protagonista tredicenne con un uomo molto più maturo, e i nudi
richiamano tantissimo i temi del romanzo. Dalla pittura al collage, Wesselmen propone principalmente figure
femminili ridotte ai minimi termini, di cui accentua l’aspetto erotico. Donne sdraiate, sedute, seducenti, rilassate, che
si esprimono solo tramite un mezzo: il corpo. Sempre donne, sempre nude. Non ti guardano perché non hanno occhi,
o, se li hanno sono super truccati. Richiamo a Matisse??

1962 Mouth 11° -> all’inizio degli anni ’60 creò una serie di dipinti monumentali di nudi biondi in ambienti interni,
non specifici. Piano piano si concentrò sul singolo nudo e su ogni specifico dettaglio del corpo. Mounth 11 ha una scala
di colori aggressivi: le labbra rosso rubino e la sigaretta fumante isolate e ingrandite. La bocca sensuale, le lebbra
piene e rivolte verso il basso, evocando un personaggio al tempo sensuale, ingegnoso, giocoso e ironico.

1962 Still Life -> nature morte, con oggetti comuni, in questo caso la birra. In queste creazioni l’attenzione prestata
alla birra e agli altri elementi è legata alla banalità dell’oggetto, alla sua immagine scontata e alla sua riproducibilità
seriale.

Grande nudo americano -> opera più famose, forme studiate e a volte sono solo pezzi di corpo.

Nature morte -> dipinge oggetti quotidiani, ricordano “la stanza rossa” di Matisse.

ROSENQUIST
Nato a Grand Forks nel 1933 è considerato uno dei padri della Pop Art, egli indaga sul mondo del cinema, televisione,
pubblicità dandone una rappresentazione accattivante ma frammentata. La sua pittura esaspera dettagli
decontestualizzati di oggetti banali e spunti tematici facenti parte della nostra vita quotidiana.

I suoi quadri si caratterizzano da grandi formati e i temi del mondo pubblicitario.

Cresce a Minneapolis, sua madre, anche lei pittrice, lo incoraggia ad avere un interesse per l’arte tanto che durante i
suoi anni di liceo vince una borsa di studio per la “Minneapolis School of Art”.

Nel 1955 all’età di 21 anni si trasferisce a New York dove entrerà, grazie a un’altra borsa di studio, alla “Art Student
League”. Dal 1957 al 1960 si guadagna da vivere come pittore di cartelloni pubblicitari. Questo fatto rappresenta un
allenamento perfetto per un artista che esploderà nella scena della Pop Art. Rosenquist comincia la sua produzione
nel 1960 circa e come altri artisti della Pop Art adatta il linguaggio pubblicitario e della cultura Pop (spesso ridicolo,
volgare e oltraggioso) al contesto dell’arte nella sua bellezza.

1964 Joan Crawford say -> l’attrice pubblicizza la marca di un prodotto di cui non riconoscono l’aspetto.

1965 F-111 -> lavoro più conosciuto; ispirato alla guerra del Vietnam in cui raffigura un aereo da caccia americano e
oggetti e simboli frammentati: da un piatto di spaghetti ad un fungo atomico.

President Elect -> dedicato a John Kennedy conservato a Parigi al centre Georges Pompidou.

Marilyn Monroe -> tributo all’attrice; frammenta un immagine e sovrappone il nome.

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