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Il Modernismo - Riassunto Bertinetti

Letteratura inglese iii (Sapienza - Università di Roma)

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IL MODERNISMO
1º CAPITOLO: IL MODERNISMO

Modernismo: la modernità come programma e movimento


Nel primo decennio del Novecento in tutta Europa irrompe il fenomeno delle avanguardie artistiche e
letterarie, con l'obiettivo del rinnovamento generale delle forme. L’esigenza di modernità diventa
programma deliberato di gruppi e movimenti, si fa mobilitazione di energie. La modernità diventa
modernismo, un’imperiosa volontà di svecchiamento (il “make it new!” di Ezra Pound) e di fondazione del
nuovo.
Vanno distinti due tempi del modernismo inglese:
1) prebellico, la cui data d’inizio coincide con la “Image School” di T. E. Hulme (1907) e con i suoi sviluppi
nell’imagismo di Pound (1909-1913) fino alla fase di maggior risalto contestativo di cui è espressione il
movimento vorticista (1914-1915). Gli anni che precedono la guerra sono anni efuorici, in cui maturano e si
elaborano le premesse per un grande rinnovamento. Si procede alla pars destruens, si attua l’opera di
negazione e distruzione delle convenzioni ormai logore.
2) postbellico, culmina nell’annus mirabilis 1922 (pubblicazione di The Waste Land e Ulysses) e prosegue
negli anni Trenta. Il termine potrebbe essere il 1939 con la pubblicazione di Finnegans Wake di Joyce.

E quindi la grande guerra che fa da spartiacque tra i due modernismo. Questi ultimi si presentano con
fisionomie alquanto differenziati.
Gli anni che precedono la Prima guerra mondiale sono stati gli anni inaugurali dell'urgenza progettuale. Anni
euforici, esaltanti, in cui sono maturate e si sono elaborate le premesse per il grande rinnovamento.è in quel
contesto che si attua la necessaria opera di negazione e «distruzione» delle convenzioni ormai logore e
obsolete senza le quali i modernisti non avrebbero potuto successivamente procedere alla costruzione e
raggiungere i vertici assoluti del loro operare.
Vengono accantonati i toni accesi con cui in un primo tempo era necessario protestare e imporsi come
forza d’urto, si consolidano i risultati acquisiti. E’ il rappel à l’ordre, il che non significa un rigetto degli
stilemi eversivi dell’anteguerra, ma solo una loro rielaborazione differenziata in un clima diverso, in un
indirizzo generale che ora pone l’accento sul recupero della forma, della struttura e della tradizione, dopo le
trasgressioni degli anni precedenti. Ciò consente un maggior approfondimento critico-conoscitivo e
un’ulteriore sperimentazione.

Tradizione e discontinuità
Neanche nei momenti di maggior rottura il modernismo inglese ha mai interrotto il suo dialogo con la
tradizione. Sulla rivista Blast (rivista del movimento più eversivo, era l'organo del vorticismo) ci si rifà ancora
ai classici (come Shakespeare, Swift e Blake). Ci fu però una frattura con le poetiche tardo-romantiche.
Un altro elemento di discontinuità è il modo nuovo in cui i modernisti si confrontano con l’esperienza
urbana e dall’intensità con cui avvertono che il loro è uno sconvolgimento epocale. Sentono profondamente
la crisi del senso storico. Inoltre Eliot attua una rivoluzione interpretativa detronizzando i romantici e
incoronando i metafisici, mettendo in discussione la continuità dell’esperienza modernista con la cultura
che l’aveva preceduta.
A sottolineare come nell'avanguardia coabitassero conflittualmente sia l'interrogazione del passato sia la
tensione verso il futuro barra riflettere anche sulla condizione di outsiders e degli esponenti maggiori del
modernismo.
Eliot e Pound, “espatriati”, sentivano fortemente l’esigenza di stabilire un dialogo con la cultura della
tradizione, e fu proprio la pena la tradizione a garantire la massima apertura alla rivoluzione. Al contrario, la
dove il confronto con i modelli del passato fu respinto, gli sconvolgimenti più radicali si rivelarono alla lunga
meno incisivi, più superficiali ed effimeri.

Cosmopolitismo e primato dell’esperienza urbana


Uno dei caratteri distintivi del modernismo è la dimensione cosmopolita e metropolitana. I protagonisti del
modernismo inglese sono in maggioranza outsiders (Eliot e Pound americani, Yeats e Joyce sono irlandesi).
Il cosmopolitismo delle radici spiega anche l’insofferenza verso orizzonti chiusi e localistici e la loro apertura
verso una cultura internazionale. Per menzionare Elliot, ci si doveva misurare con la cultura europea a
partire da Omero (dal saggio Tradition and the Individual Talent).
Il contesto imprescindibile comunque rimane la cultura europea e in particolare quella metropolitana di
Londra. Londra stimola la circolazione delle idee, la divulgazione mediante giornali, riviste, mostre. E Londra
è anche lo spazio dell’emancipazione. La città modernista è il luogo privilegiato di sollecitazione ed
elaborazione creativa: il nemico è il provincialismo. Nel saggio di Ford, The soul of London, cogliamo il
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nesso tra le trasformazioni dello spazio urbano e la crisi della rappresentazione che ne deriva. Londra non si
può cogliere se non per frammenti. L’impossibilità di istituire una continuità o connessione (“non so
connettere nulla con nulla”, The Waste Land) mina alle fondamenta il rapporto tra causa ed effetto,
indispensabile per ogni sequenzialità narrativa. In un orizzonte contrassegnato dalla perdita della familiarità
e dall’instabilità permanente, si possono solo rendere delle “impressioni” della realtà, delle improvvise
rivelazioni (le epifanie di Joyce). Anche quello di Pound è un “impressionismo” che rivela una crisi di ordine
epistemologico (e non tanto l’allusione alla tecnica pittorica). Il referente metropolitano e la cogenza delle
nuove strutture percettive che la contrassegnano sono essenziali per comprendere sia la stessa adozione
della tecnica dello stream of consciousness di Joyce, sia l’uso che egli fa della simultaneità nel capitolo 10
dell’Ulisse cercando di rendere tutta la densità dell’esperienza di Dublino. La crisi innescata dall’esperienza
metropolitana illumina la poetica dei moments of being di Virginia Woolf nella Londra di Mrs. Dalloway o
l’Unreal city della Waste Land.
Ford avviava la riflessione sull'assoluta necessità di rinvenire i nuovi strumenti espressivi atti a fronteggiare
le nuove, inesplorate dimensioni della realtà contemporanea.

Le sollecitazioni delle arti. La scrittura e il modello della pittura sperimentale.


Con il modernismo si è avuta un’interazione tra le varie espressioni artistiche. Virginia Woolf disse che “nel
1910 o intorno a quell’anno, il carattere dell’uomo cambiò”- impatto straordinario dato anche delle mostre
di pittura avanguardistica, con le sue innovazioni. Fondamentali soprattutto quelle organizzate da Roger
Fry: Manet and the Post-Impressionists (1910-11) e una seconda sui postimpressionisti nel 1912-13.
Importantissime anche quelle dei futuristi. I pittori mostravano come ci fosse un modo diverso di cogliere la
realtà: quello non realistico, non lineare, non prospettico, che sfociava nella dislocazione e frammentazione
della forma, nell’adozione della simultaneità, nella sovrapposizione e compenetrazione dei piani, nell’uso di
collages, di papiers collés... La letteratura vuole seguire le forme della pittura. A Londra il primo a
sperimentare la scrittura astratta è Wyndham Lewis su una pièce teatrale apparsa su “BLAST”. Notevoli
anche le interazioni della scrittura con altre arti. Lo stesso Pound testimonia come stimolarlo, e suggerirgli
una soluzione espressiva adeguata, fosse non tanto la sperimentazione letteraria quanto quella molto più
drastica di rompente della pittura.
Pound ci parla di come la scultura astratta abbia sottolineato anche per la poesia l’importanza del senso
plastico della forma. Per la musica andrà ricordato Stravinskij.

La riflessione critica.
La critica letteraria agli inizi del Novecento versava in una condizione di mediocre eclettismo, prevaleva un
taglio di tipo aneddotico.
Sarà Eliot a inaugurare una stagione di militanza critica. Eliot fa valere gli assunti dell’impersonalità,
dell’oggettività, dell’analisi, del raffronto e della comparazione.
Abbiamo già visto l'importanza del saggio Luciano sulla natura e sul ruolo della tradizione (Tradition and the
Individual talent). Un altro intervento di Eliot fu la rivalutazione che operò della poesia metafisica.
Altrettanto influenti furono i saggi che dedicò ai drammaturghi elisabettiani e a Dante. I successivi interventi
critici accentuarono un condizionamento tra letteratura e società in una direzione sempre più conservatrice
e reazionaria.
Data la grande personalità di Eliot non sorprende trovarne un'incidenza nella cosiddetta “Scuola di
Cambridge” che ebbe come fondatore Richards e vide come protagonisti attivi Empson e Leavis; essa si
allineava sulla tesi di una necessaria oggettività e professionalità della funzione critica, accentuandone
l’esigenza di scientificità. Subentra la psicologia sperimentale.
Al centro dell’indagine si collocava il testo, da spiegare analiticamente con una lettura ravvicinata. Questa
impostazione emarginava come estrinseca qualsiasi altra dimensione extratestuale e risentiva del clima del
neopositivismo logico di Cambridge (Moore, Russell, Wittgenstein). La critica analitica si configurò come
l’indirizzo migliore per rispondere alla sfida lanciata dai testi sperimentali dell’avanguardia. Empson elabora
la categoria dell’ambiguità, pone l’enfasi sulla polisemia del linguaggio poetico, sia nel senso della sua
ricchezza sia in quello della sua profonda ambiguità e drammaticità (polisemia come “stile di una
disperazione”).
Il close reading di Leavis fu più vicino alle valenze etico-sociali. Si pose dagli esordi il problema di una
difesa della cultura contro gli effetti deleteri del progresso tecnologico e si appellava alla necessità di una
minority intellettuale vigile e militante. (Saggio su Lawrence come cantore della old rural England.)
La Scuola di Cambridge contribuì alla diffusione e alla formazione del canone dei poeti modernisti (anche se
venne emarginato il ruolo di primo piano delle arti figurative). Importante che i critici fossero a loro volta
poeti. Negli anni 30 la formazione del canone promossa dalla scuola era già ben avviata e decenni
successivi fino agli anni 60 furono quelli del progressivo consolidamento. A decretare l'affermazione della

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critica analitica fu l'apertura umanistico letteraria e la capacità di fiancheggiare le nuove opere e i nuovi
valori dei protagonisti dell'avanguardia da parte di interpreti che erano anche poeti.

Un modernismo alternativo, il Bloomsbury Group. La scrittura femminile modernista.

Dagli anni Dieci agli anni Trenta il Bloomsbury Group (un gruppo di intellettuali e artisti) esercita una grande
influenza sulla cultura modernista in molti campi. Il nucleo originario si forma a Cambridge tra il 1899 e il
1904. Le figure più importanti sono Leonard Woolf, Lytton Strachey, John Maynard Keynes e Clive Bell.
Frequenteranno poi le riunioni del giovedì nel quartiere di Bloomsbury con altra gente tra cui Virginia Woolf.
Poi entreranno Roger Fry, E.M. Forster, T.S. Eliot e Russell.
I bloomsburyani non firmano manifesti, non fondano scuole, non si riconoscono in una teoria; sono legati,
oltre che dalla classe sociale medio o alto-borghese e da una comune cultura, da una rivolta contro le
ipocrisie e le convenzioni estetiche, sociali e morali dell’Inghilterra vittoriana. Questa rivolta si nutre degli
ideali promossi da Moore, i cui Principia Ethica ispirano la loro vocazione a coltivare, oltre che i godimenti
estetici, soprattutto i rapporti personali (non senza anticonformismi, specie nel campo del costume
sessuale).
Si è già detto altrove del grande impatto che esercitarono le mostre sul post impressionismo.
Roger Fry, promotore di questi eventi decisivi per il rinnovamento del gusto e della sensibilità, diede vita
anche agli “Omega Workshops”, che dovevano diffondere il moderno nel campo delle arti applicate. Il
conflitto che scoppia tra Fry e Wyndham Lewis è un conflitto che si configura come una contrapposizione
tra due posizioni inconciliabili del modernismo. Da un lato c’è l’avanguardia radicale (il movimento
vorticista, Hulme...) e dall’altro la cultura di Bloomsbury, accusata di importare in Inghilterra le innovazioni
del modernismo del continenti per poi integrarle all’establishment addomesticandole, smussandone la
dirompenza originaria. L’accusa non era priva di fondamento (vedi Cézanne).
Ma c'è qualcosa di più sostanziale che fonda le divaricazioni tra i due diversi modernismo, aldilà delle
polemiche occasionali o delle contrapposizioni in superficie.
Bloomsbury è parte integrante del modernismo ma si configura spesso come un movimento reattivo, dove
l’enfasi cade soprattutto sulla sfera del privato. Gli spazi domestici che Bloomsbury ricerca, diversi da quelli
convenzionali, sono pur sempre individuati dentro un sistema di privilegi che i bloomsburyani ereditano e
aggiornano ma senza scardinarlo. Il culto della domesticità appare una risposta alternativa al modernismo
nomade, dirompente degli outsiders Joyce, Lewis e Pound (vedi critiche di Virginia Woolf a Joyce; con ciò
che la turbava era la sperimentazione profondamente destabilizzante, a tutti livelli, condotta dallo scrittore,
palesemente incontenibile entro le coordinate sociali, ideologiche, conoscitive della propria educazione
elitaria, del proprio esclusivo esigente decoro alto borghese).

Un aspetto che costituisce un apporto decisivo nell'ambito del modernismo alternativo praticato
Bloomsbury Group è quello connesso alla problematizzazione della categoria del genere sessuale e
rivendicazioni della scrittura femminile. La scrittura femminile, presa coscienza della differenza sessuale e
delle potenzialità che vi si possono liberare, elabora un anticanone che, in polemica con l’autoritarismo, il
maschilismo e la misoginia di Pound, Lewis ed Eliot, accoglie anche la “diversità”. Dichiara sul piano
stilistico la propria ostilità alla frase costruita dall’uomo. Questo discorso coinvolge Virginia Woolf ma anche
Katherine Mansfield e Dorothy Richardson (autrice di Pilgrimage).
Al Bloomsbury Group vengono stimoli anche dalla scienza e dalla filosofia, e i bloomsburyani ebbero un
peso non trascurabile nella difesa della tolleranza e nella diffusione del pensiero democratico liberale (a
differenza di Hulme, Pound e Lewis, che, da buoni esponenti del modernismo radicale, si facevano portatori
di un'ideologia reazionaria).

2º CAPITOLO: LA POESIA

L’imagismo
All’inizio del secolo la poesia si attarda ancora su stilemi realistici tardottocenteschi (i poeti edoardiani sono
sordi alla modernità per forme e contenuti, invece i poeti georgiani coltivano ideali pastorali in forme
tradizionali logore).
Il retroterra più vitale rimane quello dell’esperienza decadente-estetizzante del “Rhymers’ Club” (Yeats,
Ernest Dowson, Lionel Johnson) che era stato influenzato dal simbolismo francese.
Una proposta di rinnovamento del linguaggio poetico venne dall’imagismo (di cui Pound si fece portavoce):
ereditava l’insofferenza verso la tradizione romantica (già espressa nel 1907-1912 dalla “School of images”
capeggiata da Hulme). Dichiara guerra a ogni dimensione poetica di carattere moralistico o didascalico,
esso esaltava la centralità dell’immagine.

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Alle estenuazioni tardosimboliste viene contrapposto un linguaggio “duro e asciutto” finalizzato al


“trattamento diretto della cosa”.
In antitesi ai modi di una poesia vaga e romantica si proponeva un fare poetico “classico”, caratterizzato
dalla massima economia espressiva, all’insegna dell’intensità, della concretezza e della precisione.
I modelli ispiratori erano Dante, gli stilnovisti, la poesia provenzale, gli haiku.
I fattori di modernità della poetica imagista: consapevolezza che la realtà in crisi era fenomenologia di
un’irrimediabile discontinuità; caduta la linearità e la sequenzialità temporale, l’esperienza poteva essere
rappresentata solo mediante frammenti; cosciente della caduta della referenzialità tra le parole e le cose, la
nuova poesia aspira a farsi autonoma. Alla diacronia (la successione temporale) si sostituisce la sincronia
(una struttura relazionale fatta di inediti accostamenti spaziali), e ci si apre verso la realtà “impoetica”. Con
l’adozione del verso libero annulla la distinzione tra poesia e prosa avvicinandosi al linguaggio della
quotidianità. Dialogo continuo con le altre arti, che conferma la vocazione modernista a eliminare ogni muro
tra le varie manifestazioni artistiche.
La prima fase del movimento imagista si esaurisce nel 1916 ma i suoi effetti furono importanti sia sull’opera
a venire di Pound (Cantos, 1917-70) sia su quella di Eliot.

William Butler Yeats (1865-1939), da Londra ricava l’apertura cosmopolita e dall’Irlanda l’insularità densa
di fermenti culturali e politici.
A Dublino, dopo aver studiato per tre anni all'Academy of Art, decide di dedicarsi alla letteratura.
Fino a Responsibilities (1914), la raccolta in cui Yeats si fa moderno, il poeta si muove nell’ambito di un
tardo estetismo romantico. Gli autori che lo ispirano sono Spenser, Shelley, i preraffaeliti. Al materialismo
vittoriano metropolitano e industriale oppone, in toni nostalgici ed elegiaci, il mondo ideale incontaminato
della tradizione rurale irlandese, testimoniato dalle raccolte di folklore e leggende (The Celtic twilight). Allo
stesso orizzonte si richiama il romanzo John Sherman. Yeats si richiama anche al mito eroico dell’Irlanda
celtica e alle sue letture mistiche-esoteriche.
Nella sua esperienza al Rhymers’ Club Yeats ha una svolta modernista, a cui presiede la maturazione e la
scelta di una nuova poetica. Il suo linguaggio è segnato da un crescente realismo, diretto e colloquiale.
Yeats rifiuta il solipsismo e punta sulla polarità opposta dell’altro da sé, della comunità, dell’oggettività
dell’immagine e del simbolo. Si richiama all’impersonalità di una memoria pubblica e collettiva. Questa
metamorfosi è aiutata anche dal suo impegno politico con le vicende drammatiche della società irlandese.
A contribuire alla sua modernizzazione sono due occasioni: la frequentazione di Pound e la scoperta dei
metafisici che gli offre il modello di una poesia inquieta e totaliste, che coniuga passione intellettuale e
sensualità.
Nelle sue poesie ci si imbatte spesso nella cosmologia privata di Yeats, ma va considerata come
“organizzazione stilistica dell’esperienza”. Questi diagrammi stilistici vengono assunti come catalizzatori di
energia e sono sintomatici di un costante bisogno di forma che si trova anche nelle poesie più violente di
Yeats.
Un altro tratto distintivo è l’assunzione di profonde aporie già esaltate in Blake e in Nietzsche. Domande
irrisolte, salti logici, musicalità del verso spesso messo in crisi da dissonanze, adesione al mito ma anche
apertura verso gli eventi contemporanei, contraddistinguono la poesia modernista di Yeats. Sono molte le
poesie che fanno di Yates il maggior poeta di Irlanda ma anche una delle personalità più autorevoli della
poesia europea novecentesca.
Riconoscimento del premio Nobel nel 1923.

Thomas Stearns Eliot (1888-1965) nasce a St Louis nel Missouri. Ad Harvard legge i metafisici e Dante,
Rimbaud, Verlaine, Mallarmé e Laforgue. Studia a Parigi, corsi di Bergson, poi Germania e Oxford. A Londra
entra in contatto con le avanguardie, Pound e gli esponenti dell’imagismo e i vorticisti. La sua prima
pubblicazione inglese appare nel 1915 su “BLAST”. Abbandonata la carriera accademica Eliot pubblica
Prufrock and Other Observations, raccolta che comprende poesie composte tra il 1909 e il 1915. E’ già
profondamente moderno: interrogazioni esistenziali, rottura del continuum narrativo, discontinuità tematica
e mescolanza delle tonalità, “correlativo-oggettivo”, adozione del verso libero, frammentazione della
coscienza (The Love Song of J. Alfred Prufrock), suggestioni della pittura sperimentale (simultaneità e
dislocazione dei piani e delle prospettive). La produzione poetica tra il 1917 e il 1919, Poems, nel clima del
rappel à l’ordre, riprende le forme rigide e classiche di Théophile Gautier, in quartine a rima alternata, anche
se nell’ambito di composizioni ellittiche e sperimentali. Colpisce nell’Eliot satirico la contiguità con lo “stile
esterno”, parodistico-grottesco, praticato da Wyndham Lewis nel vitalismo filoprimitivistico dei suoi wild
bodies, tratteggiati tra repulsione e attrazione.

Il vertice della sua maturità è The Waste Land, 1922. Il tema del poemetto è la crisi e la frammentazione
della cultura occidentale, simbolicamente identificata come perdita della fertilità naturale. L’attuale

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desolazione, che è vita disseccata, rinvia all’aridità che le culture primitive esorcizzavano ritualmente perché
con il ritorno della pioggia rinascesse la vita. Le modalità per rappresentare questa crisi sono connesse al
metodo mitico: Eliot opera mediante un continuo parallelismo fra il mondo contemporaneo e il mondo
antico. Le suggestioni etnologiche e antropologiche, suggestioni attinte dagli studi di Jessie Weston (From
ritual to romance) e di James Frazer (The Golden Bough), forniscono il referente simbolico, archetipico
all’”antico”, portando al massimo di risonanza gli orizzonti universali entro cui si prospetta l’alienazione
contemporanea. La terra desolata che nella sua dicotomia aridità/fecondità ritorna ciclicamente in tutte le
epoche è allo stesso tempo il deserto biblico, la terra devastata del re Pescatore, l’inferno di Dante, la città
infernale di Milton, la città di Baudelaire, la folla anonima della Londra attuale. Una rete intertestuale
(allusioni, citazioni, interpolazioni, tratte dai testi più disparati di diverse culture) tiene insieme un testo
metamorfico che non va identificato in una forma organica, continuamente smentita dalle categorie spazio-
temporali. Eliot si richiama alle scomposizioni e alla spazialità simultanea della pittura sperimentale coeva,
dai cubisti ai futuristi, ai vorticisti.
Bisogna considerare il ruolo di Pound nel riorganizzare il materiale che va a comporre il poemetto: Pound
“vorticista” è assolutamente coinvolto con le sperimentazioni delle arti visive. La dedica a Ezra Pound “il
miglior fabbro” e il riconoscimento dell’“operazione cesarea” in cui Pound ridusse (a metà) The Waste Land,
eliminando indugi descrittivi, nessi logici, parti discorsive, suggerisce variazioni metriche e avanza opzioni
sintattiche, imprimendo una cifra modernista.

Tra The Waste Land e le ultime composizioni (i Four Quartets) si attesta la risoluzione della crisi in una
prospettiva religiosa, secondo un itinerario finalistico-allegorico già individuabile nell’ansia di superamento
che investiva il poemetto. Nei primi tentativi in questa direzione all’orizzonte non c’è ancora l’obiettivo della
redenzione. Passaggio importante è Ash Wednesday (1930), meditazione penitenziale aperta e interrogativa.
Al centro della composizione è la propria esperienza interiore. C’è un cambio di registro rispetto a The
Waste Land: apparire di un nuovo ciclo di immagini legate alla natura e al paesaggio che si rivelano in
simboliche epifanie. Troviamo poi: ricorrenza più ampia di riferimenti biblici, presenza pervasiva
dell’allegoria dantesca, ritmo non più franto ma cadenzato della liturgia e dei salmi e fluido per i nessi
associativi.

I Four Quartets sono un poema unitario volto a esprimere il momento della Rivelazione. Toccano
l’esperienza personale del poeta, la natura dell’arte, le condizioni della nostra civiltà e quelle del nostro
destino in un orizzonte di opposizione tra dimensione esistenziale e storica e dimensione assoluta e
trascendente. L’eterno che viva via si manifesta nella temporalità è ora l’arte, la tradizione, l’Incarnazione. I
quattro quartetti sono autonomi ma si richiamano continuamente grazie alla ricorrenza di motivi, immagini,
simboli e parole. Le meditazioni vengono riprese variate e ampliate sviluppandone tutte le risonanze
secondo tonalità differenziate (liriche, prosastiche, filologico-teologiche).

Wystan Hugh Auden (1907-1973) la personalità più dotata del movimento poetico degli anni Trenta. E’
stato al centro di un gruppo di cui facevano parte Stehphen Spender, Cecil Day-Lewis, Louis Mac-Neice e i
romanzieri Christopher Isherwood e Edward Upward (comuni origini borghesi e educazione elitaria).
Nelle poesie dell’esordio sono già caratterizzate da una notevole maestria tecnico-stilistica. Nonostante le
suggestioni di Eliot riprende soprattutto i modelli premodernisti, soprattutto Thomas Hardy poeta. Ma non
rinuncia alla sperimentazione formale anzi recupera un ampio ventaglio di modalità espressive (forme
allitterative dell’Old e Middle English, tradizione poplare delle ballate, del light verse, nursery rhymes etc.)
In The Orators (an English study) (1932) mescola prosa e poesia alternando forme allegoriche riflessioni
sociologiche e modalità parodistiche in un collage che vuole essere la diagnosi di una società scissa, in
sfacelo, con un intreccio di testimonianza e denuncia.
Nasce qui la novità della poesia trentista, la propensione per i j’accuse, un interesse per l’intervento-azione
e per l’impegno ideologico e sociale. I trentisti si rifanno (superficialmente) al marxismo e sperano di poter
trasformare la società e invocano una concreta rivoluzione politica. Da qui l’appello verso una poesia
impura capace di fronteggiare meglio il reale e l’apertura verso altri generi quali il film documentario (Night
Mail, 1935) e il teatro di gruppo.
Auden coniuga la passione civile e il distacco intellettuale: esemplare Spain 1937.
Altre due componenti della sua poesia sono la lettura in senso eversivo del profondo e l’interesse del poeta
per la rivendicazione degli istinti e per i valori vitalistici espressa da Lawrence in rivolta contro la cultura
repressiva della civiltà industriale.
Va considerata inoltre l’omosessualità di Auden, che motiva sia la ribellione contro le ipocrisie e la sua
tensione verso un’alternativa sociale, sia gli sbocchi conflittuali, spesso individualistici e narcisistici, della
sua ricerca. La considerazione è che lo scrittore critico della società faceva contemporaneamente i conti

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contestando lo status quo il principio di autorità, anche con le proprie diversità, con la propria emarginata
omosessualità, la cui problematica assunzione di espressione forma resi possibili solo attraverso la fuga
dalla repressiva società inglese, grazie al cruciale, liberatori soggiorno berlinese.
Molti intellettuali, tra cui Auden, per cercare una maggiore libertà sessuale, dovrebbero emigrare a Berlino o
Vienna, dove entrarono in contatto con l’intellighenzia europea di sinistra. E’ in questo momento che
vengono meno le illusioni utopie trentiste che si erano profilate nella poesia dello scrittore alla fine del
decennio; vengono smorzati o accantonati i radicalismi della protesta, pur conservando sempre una
spiccata vocazione per le potenzialità sociali del suo discorso poetico.
Le raccolte della poesia di Auden successive alla sua residenza e cittadinanza americana, rivelano un
accentuato interesse per la riflessione filosofica e la dimensione religiosa. Negli anni Cinquanta e Sessanta
Auden sviluppa intensi rapporti con la musica (The Rake’s Progress, Carriera di un libertino, musicato da
Stravinskij).

Dylan Thomas (1914-1953) nasce a Swansea, nel Galles meridionale. Vocazione poetica precocissima. La
dichiarazione di Thomas “Una mia poesia ha bisogno di una falange di immagini” vale per tutta la sua
poesia. Essa è un flusso di contrasti, movimento non pacificato di immagini e ritmi che sgorgano da parole
tese a inseguire l’energia creativa e distruttiva di un cosmo multiforme e contraddittorio. Il suo è un universo
interrogato sui temi elementari della nascita, dell’amore, della morte, è sostanziato dalla presenza costante
del corpo, che si riversa in un linguaggio vigoroso, associativo, metaforico, ricco di simboli religiosi.
La sua poesia è mossa e barocca, non immemore dello sperimentalismo formale di Hopkins, e della
dimensione visionaria di Blake, e richiama (per la qualità intellettuale delle immagini, per la complessa
strategia verbale e sintattica, per l’oscurità) la tradizione dei poeti metafisici. Un’altra sollecitazione culturale
è quella del surrealismo. Però la sua poesia ha esiti personalissimi. Riporta in auge la forza istintiva e
vibrante delle emozioni, attinte al paesaggio e alle memorie della cultura gallese. Leggendarie le sue letture
pubbliche, ne subirono il fascino anche i poeti americani della beat generation ed esercitò un influsso
notevole anche sui “neoromantici” degli anni Quaranta.
Notevole anche la sua produzione come prosatore.

3º CAPITOLO: LA NARRATIVA

Il dibattito sul romanzo che aveva caratterizzato gli ultimi due decenni dell’Ottocento continua. Si
rimprovera all’esausto romanzo tardovittoriano di perpetuare un realismo anacronistico. Le convenzioni
della narrativa inglese vengono duramente costante e il romanzo per i modernisti aspira a diventare veicolo
di un’autentica esplorazione, indagine della realtà, testimonianza conoscitiva. Il romanzo è teorizzato come
suprema forma d’arte. (Inoltre il decadentismo aveva aperto il romanzo alle suggestioni del simbolismo e
l’aveva elevato alla categoria di autonomo prodotto artistico, sottraendolo alle esigenze della
verosimiglianza naturalistica.)
Anche Henry James rivendica il romanzo come forma d’arte. Sostiene la sua autonomia estetica e si rifà ai
parametri esemplari di Flaubert e Maupassant.

In polemica con le istanze moralistiche ancora in voga, George Moore (1852-1933) aveva già contrapposto
al modello etico-pedagogico il modello di un ‘romanzo estetico’. Né è da sottovalutare l’esperienza del
decadentismo, che aveva aperto il romanzo non solo alle suggestioni del simbolismo, ma lo aveva anche
elevato alla categoria di autonomo prodotto artistico, sottraendolo alle esigenze della verosimiglianza
naturalistica.

Il narratore moderno prende atto che una realtà mutata e problematica non può essere contenuta in un
intreccio convenzionale (il plot) né può essere raccontata da un narratore onnisciente. James teorizza e
mette in atto una narrativa che, escludendo ogni intervento autoriale, affida la rappresentazione a una
molteplicità di punti di vista al fine di cogliere la complessità del reale.
Perdita di fiducia in un mondo oggettivo, anche per le rivoluzioni tecnico-scientifiche e di un dirompente
pensiero filosofico (Marx, Nietzsche, Freud).
Per afferrare almeno parte della realtà il romanzo rinuncia alle ambizioni totalizzanti di una prospettiva
sociale e collettiva e si fa romanzo d’artista, indagine autobiografica fino a diventare riflessione su se
stesso. Inoltre, come testimonieranno Ford e Virginia Woolf, fu fondamentale l’influenza del romanzo russo.

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Joseph Conrad (1857-1924), nato Jozef Teodor Konrad Korzeniowski. Nasce in Ucraina, cresciuto in
Russia e Polonia, intraprende la carriera marinara a Marsiglia nella marina mercantile francese e poi in
quella inglese.

Ma non accantonò mai la sua giovanile ambizione di diventare scrittore. Per qualche tempo, intorno agli
anni Novanta, conciliò la scrittura con la vita sul mare, ma dopo la pubblicazione del primo romanzo,
Almayer’s Folly (La follia di Almayer, 1895), si stabilì in Inghilterra – nel frattempo era diventato cittadino
britannico – dedicandosi totalmente all’attività di scrittore.

Conrad giunge tardi alla lingua inglese e i suoi maestri sono Maupassant e Flaubert e i russi. Anche la sua
esperienza marinara è fondamentale: ne ripropone gli incontri, le atmosfere, gli insegnamenti. Il fascino della
componente avventurosa si combina con la visione del mondo dei suoi romanzi: la vita come un misurarsi
con le avversità, il senso di comunità che unisce chi insieme le affronta, la necessità di un ordine che ne
consenta il successo, prevedendo per ognuno un suo posto. Quello che vale per l’equipaggio della nave
vale per tutta la società.
Quello di Conrad è un universo esclusivamente maschile. La figura femminile sta fuori da quel mondo, ne è
un complemento esterno, venendo idealizzata e onorata. La sua idea è di un più moderno angelo del
focolare vittoriano.

Molte delle sue storie si svolgono nei territori coloniali, ma l’atteggiamento di Conrad è di acuta riflessione
critica. È consapevole della grandiosità dell’impresa coloniale e aderisce a quanto in essa corrisponde alla
sua visione del mondo: l’immergersi nel proprio lavoro, soprattutto (Conrad è calvinista), un lavoro che deve
essere fatto bene, portatore di valori di benefica efficienza. Allo stesso modo è consapevole
dell’insostenibilità della presenza dei colonizzatori in quei luoghi.

In Heart of Darkness (1899) il cuore di tenebra è quello dell’uomo europeo che lasciato solo in quel mondo
primitivo e primordiale si abbandona alla parte più remota di sé, istintiva e primordiale.

In ogni caso Conrad non è uno scrittore di pamphlets, ma un romanziere pieno dell’ambiguità e della
genialità evocatrice della parola del grande scrittore.

Lo schema ricorrente del romanzo è questo: Conrad pone il suo personaggio in una situazione estrema, se
la supera non c’è alcuna ricompensa (Typhoon), se non la supera viene punito con la morte (Heart of
Darkness). Conrad a differenza degli scrittori modernisti è un dio/autore, come quelli vittoriani, sa cosa è
giusto e qual è il dovere di ognuno, c’è una certezza morale totalizzante.

Con The secret agent Conrad sposta la sua attenzione su Londra, fredda e inospitale. La trama si muove
intorno alle trame velleitarie di un gruppo di anarchici e all’attentato organizzato in modo da far ricadere la
colpa su di essi. Ciò che ne emerge non è una tragedia politica ma una tragedia umana che sovrasta le
piccole figure e si conclude con la morte.

Conrad è stato un narratore lontano dall’animo modernista, ma spesso ha affidato la narrazione a un


personaggio/narratore incapace di cogliere il significato dell’esperienza racconta. In modo indiretto,
utilizzando una tecnica che rinvia a Henry James, Conrad dichiara la difficoltà del romanzo di dire una
parola complessiva su una realtà troppo disgregata e mutevole per essere racchiusa dalla forma
romanzesca.

Ford Madox Ford (1873-1939), fino al 1919 Ford Hermann Hueffer). La sua è un’amplissima opera di
narratore, saggista e memorialista. È una figura di transito tra cultura fin de siècle e cultura modernista,
Ford riveste un ruolo importante di mediatore fra tradizione e innovazione. Quando dirige l’influente “English
Review” ha al suo attivo il sodalizio con Conrad, i romanzi della trilogia Tudor (The fifth Queen) e importanti
saggi.
L’attenzione verso la pittura è attestata da due monografie e da una formulazione di poetica narrativa, On
Impressionism. Vi confluiscono la riflessione sulla crisi della rappresentazione che è al centro della
sperimentazione pittorica prebellica e la critica rivolta al romanzo inglese tradizionale, che accusa
soprattutto di mancare di “forma”.
Il bisogno di una “nuova formula” narrativa lo porta alla sperimentazione di The Good soldier. L’opera vuole
non narrare ma rendere impressioni. Insegue gli effetti di simultaneità e di sensazioni multiple tipiche delle

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innovazioni pittoriche più recenti (suggestione futurista) per restituire la problematicità degli eventi che
colpiscono la coscienza soggettiva. L’espediente della molteplicità dei punti di vista (James), l’uso del time
shift (gli sbalzi del tempo non lineare) e della progression d’effet (la manipolazione degli ingredienti narrativi
a salvaguardia dell’intensità e drammaticità del loro effetto) mirano a rendere il carattere frammentario,
elusivo ed enigmatico della realtà. The Good Soldier è allegoria della crisi morale che si consuma nella
società alla vigilia della Grande guerra, mette in scena una tragica passione. Filtrata dalla consapevolezza
progressiva del protagonista Dowell, questa passione investe due copie in un viluppo inestricabile di
rapporti e di situazioni la cui problematica verità e la cui interpretazione vengono affidati all’attivo ruolo
ermeneutico del lettore.
Tra i romanzi del dopoguerra il risultato migliore è la tetrologia di Parade’s end. In questa Ford pone
l’accento sulla reconstruction in forza del quale il romanzo, che viene incontro alle esigenze di una
riflessione più sociale e collettiva degli avvenimenti, si pone soprattutto quale esperienza oggettiva e
documentaria.

Wyndham Lewis (1887-1957) letterato e pittore. Il periodo decisivo per la sua formazione è il soggiorno a
Parigi, che lo rende il più cosmopolita tra gli intellettuali del modernismo. Legge in francese, i russi e
Nietzsche. Già dal primo romanzo si preannuncia la sperimentazione degli anni successivi. I primi racconti
sono impacciati ma sono tematicamente e ideologicamente importanti, immersi in una società primitiva, vi
si aggirano personaggi emarginati, vagabondi, guitti, saltimbanchi. Lewis non vagheggia una natura
incorrotta dalla civiltà industriale ma è affascinato dall’energia primitiva e anarchica che anima questi
disadattati. Tarr, che molti critici considerano il suo romanzo più riuscito, fu scritto prima della guerra, ma
pubblicato soltanto nel 1918, è ambientato nei primi anni del Novecento a Parigi, descrive i rapporti che si
instaurano all’interno di un gruppo di bourgeois-bohémiens nella società artistica di Montmartre. Non c’è
sperimentazione astratta del linguaggio ma inserisce una caratterizzazione esterna e plastica, di grande
impatto visivo. In polemica con la narrativa dell’interiorità, fa uso di una parola-azione violenta e dinamica,
dura e scultorea, che rifugge da ogni psicologismo. La dimensione ludica diventa più intensa e spettacolare
fino a diventare laughter in action.

Nella produzione narrativa postbellica abbandona gli sperimentalismi formali più arditi.
Il suo rappel à l’ordre ha elementi in comune con il pensiero reazionario francese. Altri romanzi sono The
apes of God, Revenge for Love, Self-Condemned. Diseguale, ripetitiva ma a tratti incisiva la sua saggistica.
Stronca l’Ulisse di Joyce e per la sua apertura verso il nazismo viene ostracizzato.

David Herbert Lawrence (1885-1930) è profondamente legato alla tradizione inglese ma è di


partecipazione e levatura europea. La sua è una produzione amplissima. Grazie a Ford entra in contatto con
l’ambiente letterario londinese, pubblica i primi romanzi The white peacock e The trespasser (Il
trasgressore). In essi emergono già i temi ricorrenti della sua narrativa: l’antagonismo tra istinto e ragione, il
conflitto tra natura e civiltà industriale, il problematico rapporto tra i sessi, l’esaltazione delle passioni contro
le convenzioni borghesi. Il salto di qualità avviene con il romanzo Sons and lovers (1913). All’interno di una
cornice autobiografica, Lawrence salda la vocazione naturalistico-documentaria con l’analisi introspettiva
del rapporto conflittuale tra i genitori.
I contatti diretti con la cultura europea promuovono in Lawrence un allargamento di orizzonti e una revisione
della propria poetica narrativa in direzione modernista. A partire dal 1913-14, lo scrittore rigetta il modello
tradizionale di romanzo quale graduale sviluppo e risoluzione di un intreccio. In analogia con “la distruzione
dell’io in letteratura” (Marinetti) Lawrence abolisce il vecchio ego stabile del romanzo onnisciente, lasciando
spazio al movimento delle metamorfosi e delle oscillazioni dei suoi personaggi problematici.
I nuovi esiti sono testimoniati da The Rainbow e Women in Love. Attraverso una saga familiare che
abbraccia tre generazioni Lawrence traccia un grande affresco sociale e morale della vita inglese dalla
seconda metà dell’Ottocento fino agli inzi del Novecento, mettendo a fuoco il crollo e la perdita della
comunità organica della civiltà contadina sotto l’incalzare della civiltà industriale. In questi romanzi
l’esperienza erotica è l’unica via rimasta per una possibile restaurazione della totalità e il suo eros è carico
di valenze religiose e metafisiche.
La Prima guerra mondiale lo segna profondamente e lo costringe a un soggiorno forzato in Inghilterra dove
in anni di isolamento matura un’alienazione per i suoi connazionali e porta avanti il progetto utopico di
fondare una colonia (Rananim). Dopo la guerra inizia a viaggiare sempre più lontano dall’Europa. Si stabilirà
a Scandicci da dove lancerà disperate accuse alla decadenza della civiltà occidentale in opere sui cui
cadono i fulmini della censura.
La realizzazione di una società alternativa, l’accesso al vitale attraverso una resurrezione nella carne e il
contatto con mondi e culture altre sono alla base della sua attività negli anni Venti. L’ansia verso una

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palingenesi della cultura della cultura occidentale lo induce a individuare una speranza nell’opera
riformatrice di figure-leader e in un rapporto tra uomo e donna non più basato sulla polarità tra i sessi. Viene
accusato di maschilismo, fascismo e totalitarismo, anche se Lawrence finisce per nutrire un profondo
disprezzo nei confronti del fascismo. Testimonianza di ciò è soprattutto Sketches Etruscan places,
rievocazione della visita fatta alle tombe dell’antica Etruria. Contrapponendo la vitalità della cultura etrusca
al progetto uniformante dell’imperialismo romano, mette a nudo il fallimento di ogni modello ideologico e
culturale che si proponga come universalmente valido e denuncia ogni forma di totalitarismo. Lawrence
anela a una resurrezione dal basso, alla riscoperta del proprio “primitivo”, al recupero della wisdom of the
blood, ovvero della coscienza fallica, che ci riporti in sintonia con le forze organiche del vivente. Idea che si
ritrova nei saggi interpretativi dei classici americani: Studies in classic American Literature.
Il rispetto per l’alterità dei luoghi e delle comunità che li abitano è alla base di gran parte delle opere della
sua ultima fase (The Plumed Serpent, The Woman Who Rode Away). Nella produzione degli anni Venti si
incrina però il difficile equilibrio tra reazione realistica e simbolica, tra denuncia, predicazione e profezia.

Vanno ricordati inoltre le raccolte di poesie e i testi teatrali. Notevoli anche le prose saggistiche che
ereditano il radicalismo di autori decisivi (Carlyle, Ruskin e Morris) e gli scritti pedagogico-filosofici.
Importanti anche le traduzioni (da Verga e Lasca) e i saggi critici.

James Joyce (1882-1941). L’insofferenza verso il provincialismo e il nazionalismo reazionario della cultura
irlandese è già manifesta in alcuni saggi giovanili (Drama and Life e Ibsen’s New Drama, 1900) in cui Joyce
esalta il genio di Ibsen che sarà il suo modello estetico e civile. Rientrato a Dublino dopo un’esperienza
parigina inizia a scrivere il suo romanzo di formazione, Stephen Hero, che vedrà la luce nel 1916 con il titolo
di A portrait of the Artist as a Young Man. A questi anni risalgono molte delle sue brevi composizioni in
prosa.

Nel 1904 lascia Dublino per Trieste (dove conosce Svevo) e vive lì fino al 1915. Allo scoppio della guerra va
a Zurigo. Nel 1920 si trasferisce a Parigi dove porta a termine Ulysses. Scrive Finnegans Wake dal 1923 al
1932, che viene pubblicato nel 1939. Muore nel 1941 a Zurigo.
I racconti di Dubliners aspirano a scrivere un capitolo della storia morale del suo paese, e Dublino viene
scelta in quanto centro della paralisi. I racconti complessivamente rappresentano in sequenza vari aspetti:
infanzia, adolescenza, maturità e vita pubblica. L’epifania diventa “l’improvvisa rivelazione dell’essenza di
ogni cosa”. Scritti con grande finezza, stesi con uno stile oggettivo i racconti evocano un mondo di
frustrazioni e fallimenti, di stagnazione e impotenza cui è impossibile sfuggire. I racconti sono legati non
solo dalle ricorrenze tematiche ma anche da una serie di immagini e simboli, assonanze e simmetrie che ne
fanno un organismo unitario e coerente.

Il tema del Portrait non è più la paralisi ma la fuga, l’esilio, che diviene condizione tout court dell’essere
artisti. Il Portrait è la cronistoria di questa condizione, dalla scoperta della vocazione e alterità fino alle
scelte esistenziali del “silenzio, esilio e astuzia”. L’ultimo capitolo vede il giovane Stephen Dedalus
abbandonare le costrizioni e i dogmi imposti dalla cultura locale per i cieli aperti della libera creatività
artistica. In Stephen Hero era ancora forte l’identificazione tra Joyce e Stephen. Nel Portrait anche se
permangono riferimenti autobiografici, Stephen è più oggettivamente distanziato e lo stile che si impone è
quello dell’impersonalità. La poetica del Portrait accoglie le istanze oggettivistiche della sua formazione
intellettuale (Aristotele e San Tommaso d’Aquino).

Anche Ulysses ha una lunga gestazione. Lo concepisce inizialmente come un racconto da aggiungere ai
Dubliners. Dei diciotto capitoli che lo compongono, i primi tre sono completati tra il 1917 e il 1918, gli altri
tra il 1919 e il 1920. L’erranza di Ulisse sarà l’erranza dell’ebreo Mr Leopold Bloom. Le sue peregrinazioni
sono nelle strade, nei pub di Dublino nell’arco di una giornata. Novello Telemaco sarà Stephen Dedalus in
cerca del padre Leopold Bloom. Il romanzo vuole essere una summa di tutto l’universo.

Joyce mette in atto una rappresentazione sincronica di ciò che avviene in un solo giorno (il 16 giugno 1904)
in una vita in una data città. Joyce precisa la sua ambizione totalista, scrivendo che è l’epopea di due razze
e il ciclo del corpo umano e la storia di una vita e una specie di enciclopedia, e che vuole rendere il mito sub
specie temporis nostri. Il ricorso al mito conferisce ordine senso e forma al panorama di futilità e anarchia
della storia contemporanea (T. S. Eliot).

Joyce facendo saltare codificazioni storiche recupera parte di quello che di avventuroso e sovversivo
avevano inventato i padri del romanzo. Rivisita il Fielding del Joseph Andrews, Smollett e Sterne. La tecnica

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narrativa è caratterizzata da un’alternanza di narrazione obiettiva, dialoghi e monologhi interiori e si avvale


di una strepitosa invenzione linguistica: è il linguaggio il vero protagonista. Raggiunge spesso vertici
virtuosistici. La più vistosa delle innovazioni, lo stream of consciousness, va colta quale tecnica espressiva
che va al cuore di quella discontinuità e molteplicità che costituisce l’esperienza fondamentale del
modernismo. Proprio perché l’interiorità del monologo è mobilità infinita, ubiquità, dinamismo, coincide con
l’area nevralgica del dinamismo, la città.

Finnegans Wake, nato nel 1939, spinge la sperimentazione di Joyce al limite dell’illeggibilità. A un primo
livello, è la storia di una famiglia irlandese, ma l’ambizione di Joyce è di raffigurare l’intera storia
dell’umanità. Da qui la costante trasformazione dei dati realistico-naturalistici di partenza in una dimensione
simbolico-allegorico – archetipica e il ricorso alla concezione ciclica della storia di Vico. Enigmaticità ed
erraticità degli eventi (rimandava a questo al maestro delle digressioni, Sterne) e onnipresente dimensione
onirica.

Edward Morgan Forster (1879-1970) fu segnato dagli anni traumatici della public school a Tonbridge e il
periodo di rinascita intellettuale e affettiva a Cambridge. Entra a far parte della società degli “Apostles”.
Nelle sue opere contrapposizione tra due culture, quella conformista, borghese, legata al mondo delle cose
e degli affari, e quella delle “ragioni del cuore”, che ubbidisce alle istanze della “passione e della verità”. Il
celebre motto di Howards End (1910) “only connect” enuncia l’aspirazione a conciliare la dicotomia di
questi due mondi. Tale polarità si istituisce dapprima nei racconti. L’esordio è nel 1904 con The Story of a
Panic. E’ solo nella dimensione dei romanzi che il confronto assume una trattazione più ricca,
psicologicamente sfumata, ironica.

Già in Where angels fer to tread (Monteriano, 1905) l’opposizione paradigmatica tra l’Inghilterra e l’Italia non
si risolve schematicamente a favore di questa. Forster torna sullo stesso tema in A room with a view. In
Howards End la dimensione realistica si avvale di una rete di immagini e di simboli che ne dilatano i
significati. La country house è il centro della ricomposizione dei valori della cultura delle sorelle Schlegel e
di quelli dell’imprenditorialità dei Wilcox.

Dopo un lungo silenzio (dovuto a conflitti biografici irrisolti relativi alla sua omosessualità- tema di Maurice-)
Forster pubblica A passage to India. Si ispira ai suoi due lunghi soggiorni in India in un’ottica anticoloniale
attenta alle realtà altre. E’ ambientato in un’India britannica d’anteguerra ma si sente che chi narra non
crede più all’utopia di una totalità integrata, le comunità sono divise dai pregiudizi e dal gap razziale.
Scrive numerosi saggi critici su vari argomenti: da ricordare oltre alle prose giornalistiche e di viaggio anche
Aspects of the Novel, considerazioni sulla problematica del romanzo.
Forster è stato per anni la voce della ragione illuminata e della tolleranza, i limiti della sua opera sono di
escludere realtà impervie e drammaticamente conflittuali che non si lasciano ricomporre in una forma
estetica superiore. È consapevole di essere impari alla sfida rappresentata dalla nuova realtà novecentesca.

Virginia Woolf (1882-1941) esordisce nel 1904 nell’ambito della critica. In due lucidi interventi (Modern
fiction 1919 e Mr. Bennett and Brown 1924) Virginia Woolf sostenne l’inattualità delle convenzioni del
romanzo edoardiano di Arnold Bennett, Wells e Galsworthy. Il loro realismo era inadeguato a cogliere la
mobilità di un contesto trasformato, sia a fronteggiare la problematicità dell’esperienza modernista. Due
fenomeni sono determinanti nel rinsaldare la sua svolta sperimentale: da un lato la riflessione sulla crisi e
sulla rivoluzione delle forme che aveva caratterizzato la stagione dell’avanguardia prebellica (pittura
postimpressionista) e la rivoluzione delle tecniche narrative (soprattutto da parte di Joyce). In Mrs Dalloway
è l’esperienza complessa e ambigua della città a innescare la sperimentazione lungo eventi che si svolgono
in una sola giornata. A partire da Jacob’s room e nei romanzi successivi, in particolare in To the Lighthouse
(1927) al narratore onnisciente si sostituisce una coscienza frammentaria, divisa. Ai dati oggettivi subentra il
primato della coscienza; la concatenazione degli eventi esterni cede alla seduzione di momenti soggettivi,
puri istanti privilegiati, epifanici. Questi istanti, che Woolf chiama “moments of being” si pongono come
unica garanzia dell’autenticità con cui si può far luce per un attimo sull’enigmaticità del reale.
A differenza dello stream of consciousness di Joyce, espressione di uno spirito di analisi intellettuale, il
monologo interiore di Virginia Woolf ha un carattere lirico, fantasmagorico. La materia della visione si
scioglie in vibrazioni di echi e suoni fino a radicalizzarsi nel puro movimento ritmico di The Waves, in cui i
personaggi si riducono a voci indistinguibili nel fluire del tutto.La qualità evanescente del monologo
woolfiano da un lato esprime la posizione indifesa o la vulnerabilità della coscienza femminile, dall’altro si
offre quale massima ricettività verso tutte le sfumature del fenomenico.

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Aveva ammirato la dimensione introspettiva del romanzo russo e aveva fatto tesoro della lezione stilistica di
James e Conrad. Virginia Woolf attinge alle regioni più oscure e profonde della realtà mediante un lavoro di
progressivo sgretolamento da lei definito “the tunneling process”, “caverne scavate intorno ai personaggi”
nelle cui voragini si dissolve la solidità del sé. Ma comunque il romanzo non può prescindere da una
consapevolezza della forma, doveva porsi come alto prodotto estetico. Da qui l’approdo a una prosa
poetica, con un largo impiego di linguaggio simbolico e metaforico. La sua prosa è frutto di una continua
elaborazione formale (A Room of One’s Own). Orlando (1928) fu il suo maggior successo di pubblico, che
racconta la fantasiosa biografia di un personaggio androgino attraverso quattro secoli di storia inglese.

Ivy Compton-Burnett (1884-1969) esordì con Dolores dalla struttura narrativa e morale ottocentesca (echi
di Middlemarch). Dopo un lungo silenzio tornò con un’opera diversa, Pastors and Masters (1925) in cui il
narratore scompare e tutta la storia è affidata al dialogo dei personaggi, lasciando emergere un ritratto
critico quasi feroce della realtà che dipinge. L’ambientazione è sempre di grandi dimore di campagna
abitate da famiglie di altissimo livello sociale, nel periodo dell’apogeo della potenza britannica, 1890-1914.
Dietro l’apparenza del decoro e della civiltà si nascondono la bigamia, il matricidio, l’incesto eccetera. Il
dialogo non è affatto teatrale, è dettato da un’ironia sapiente e spesso beffarda. Compton-Burnett è una
Jane Austen senza la minima traccia di illusione.

Malcolm Lowry (1909-1957) figura eccentrica, figlio di un ricco commerciante prima di Cambridge si
imbarcò per un anno su una nave mercantile, esperienza proletaria e avventurosa che confluì nel romanzo
Ultramarine (1933) che esprime la sua visione esistenziale/letteraria, quello del viaggio come percorso
dentro di sé. Andò in Spagna, Parigi, New York, Hollywood, Messico, Italia. Buona parte dei suoi lavori
furono pubblicati dopo la sua morte. Il centro sarebbe stato Under the Volcano. La storia si svolge in un
solo giorno e tre grandi icone sottendono il romanzo: la dannazione faustiana, la Commedia dantesca e la
cacciata dal Paradiso terrestre. La sua scrittura, che per alcune soluzioni si riallaccia al Tristram Shandy,
riprende aspetti del modernismo: la molteplicità dei punti di vista, il monologo interiore, il flusso di
coscienza, la dimensione temporale, limitata e dilatata. Lowry però a differenza di Joyce ed Eliot utilizza
quegli stilemi per giungere a una scrittura soggettiva. Under the Volcano è un romanzo modernista, fitto di
rimandi eruditi, di spunti metaromanzeschi, di agganci alla tradizione e al mito, ispirato a una concezione
ciclica che si riflette nella sua scrittura e che sembra definire la condizione umana. E’ uno dei ritratti più
centrati, suggestivi e veri dell’epoca.

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4º CAPITOLO: IL TEATRO

La letteratura drammatica del Novecento, fino a Bennett, non ha conosciuto esiti di alta creatività. Shaw
rimase ancorato a una concezione drammaturgica e a una visione del mondo incapaci di confrontarsi con le
trasformazioni della società novecentesca.
Gordon Craig (1872-1966) regista e teorico tra i più interessanti, rimase inascoltato in Inghilterra (tranne
che da Pound e Yeats). Craig dovette rifugiarsi nel continente per sperimentare e divulgare le sue proposte
innovative (On the Art of the Theatre, 1911; Towards a New Theatre, 1913). Queste ultime erano animate da
un marcato antirealismo. Sosteneva il primato del regista come autore dello spettacolo, si batteva per la
semplificazione degli addobbi scenici, la volrizzazione della gestualità, del suono e del colore, l’uso
simbolico delle luci, dei dei costumi e l’impiego dei pannelli mobili, finalizzando il tutto a un’omogenea unità
espressiva cui riconosceranno un debito varie forme di teatro avanguardistico (dal Bauhaus al teatro
dell’assurdo). Di grande risonanza le sue stilizzazioni sceniche. Scrive anche un saggio in cui propone
l’abolizione dell’attore-personaggio sostituendolo con una marionetta, garanzia di “imperturbabilità” e
depositaria di ritualità simbolico-ancestrale. Un esito estremo che finiva per abolire il teatro tout court. Fu
anche scenografo illustratore e incisore. Il recupero dell’uso delle maschere ebbe influenza sul teatro di
Yeats.

Il Poetic Drama
Sono i poeti che si fanno carico di rinnovare le convenzioni drammaturgiche, ma le loro opere sono incapaci
di superare il loro handicap iniziale: sono opere letterarie e non adatte alla scena. Il teatro di Yeats oggi
appare datato. Egli si fece promotore della rinascita del teatro irlandese (fonda l’Abbey Theatre) e il suo
teatro inaugura il revival del poetic drama, che sarà poi riproposto da Eliot. La sua produzione è multiforme
e documenta la volontà di Yeats di creare un genere a sé, distinto rispetto all’attività poetica. E’ un teatro
fortemente simbolico, evocativo, visionario. Inizialmente i suoi drammi hanno come temi le leggende
irlandesi e come la sua prima poesia sono caratterizzati da una qualità elegiaca, trasognata, crepuscolare
(The Land of Heart’s Desire 1894). Ma non mancano drammi di intonazione politica o di forti valenze
patriottiche. Le saghe dedicate al personaggio del folklore celtico, Cuchulain, attraversano tutta la sua
carriera teatrale. The Words upon the Window-Pane (Le parole sui vetri della finestra, 1934) coniuga i suoi
interessi per l’occultismo a uno dei temi principali, il contrasto tra il presente urbano degradato e il passato
eroico. Sensibile agli influssi del teatro simbolista francese, dal 1915 è affascinato dalle forme del teatro
arcaico giapponese del No. Yeats che condivide con i novatori primonovecenteschi il proposito di
svincolare il teatro dalla tirannia della parola trasporta nei suoi drammi le componenti antimimetiche,
ritualistiche, astratte, del No. Il suono il canto e la danza danno alla sua drammaturgia una grande ritmica.

La rottura più netta con le convenzioni del teatro è quella attuata dai modernisti e da Whyndam Lewis.
Enemy of the Stars fu pubblicata nel 1914 su “BLAST”. Tenta di applicare alla scrittura la rivoluzione astratta
introdotta dal modernismo pittorico, di cui Lewis fu il leader in Inghilterra, in sintonia con gli esperimenti dei
futuristi e dei cubofuturisti. Ma l’abolizione dell’azione, sostituita da blocchi di situazioni statiche e da una
struttura frammentaria e onirica, nonché il primato delle parole-immagini a detrimento del dialogo l’ha resa
irrappresentabile-

Un tentativo di importare le forme brechtiane del teatro epico è nei drammi poetici del giovane Auden,
scritti in collaborazione con Christopher Isherwood. E’ un teatro politico che si avvale anche delle tecniche
del teatro espressionista per dare risalto all’analisi sociale. Ma questo teatro risulta poco convincente:
manca di coerenza e il messaggio risulta spesso poco perspicuo. (Rimangono godibili i risvolti parodistici e
le canzonette, influenzati dalla tradizione del cabaret.)

T. S. Eliot invece lancia interrogativi inquietanti e spalanca abissi metafisici al di sotto di una situazione
banale, secondo una tecnica di “inclusione” e di accostamenti inusitati che mescola tonalità o argomenti
effimeri a temi seri (come facevano i metafisici). Le sperimentazioni vanno dall’uso delle maschere al
montaggio espressionista, dalle percussioni sonore ai toni dell’operetta e soprattutto si modellano sugli
schemi del teatro di varietà. Da ricordare anche il linguaggio quotidiano che impronta Sweeney Agonistes,
anche se fu un indirizzo che Eliot non proseguì (probabilmente perché era ormai ideologicamente indirizzato
verso un maggior classicismo).

I lavori successivi, The Rock e Murder in the Cathedral, si rifanno al modello delle sacre rappresentazioni. La
prima fa sfilare sulla scena personaggi storici del cammino della Chiesa, la seconda fu scritta fu
commissione per commemorare il martirio di Thomas Becket. Ha per modello la tragedia greca (cori) e il

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morality play medievale, in una riscrittura teatrale moderna che si ispira alla detective story e al teatro
argomentativo di Shaw. La produzione posteriore di moderne commedie drammatiche punta ancora sulla
ritualità e sul mito. La forma metrica è molto prossima alla prosa. I risultati sono però deludenti, perché
venuto meno il contesto ecclesiale, la formula del sacro non funziona più, e spesso scarseggia l’azione.
Prive di sviluppo ciò che finisce per prevalere è l’afflato pedagogico. Tra le commedie drammatiche The
Family Reunion, The Cocktail Party (1949).

Noel Coward (1899-1973) è stato compositore prolifico di commedie brillanti, riviste musicali e racconti.
Sceneggiò anche Brief encounter, di David Lean. Il suo teatro più creativo è tra gli anni Venti e Quaranta.
Coward inventa una commedia leggera, scintillante. Anche se il suo primo successo è un dramma, The
Vortex (1924), la sua fama poggia su una serie di raffinate commedie, imbastite su esili trame eleganti e
spregiudicate che riconoscono nella frivolezza il supremo “valore”. Tra i suoi lavori Hay Fever e Blithe Spirit
(Spirito allegro).
Le sue commedie si impongono per il ritmo brioso, il gioco di intrecci, la qualità del linguaggio, l’iirverenza
osé dei contenuti e delle allusioni. Il suo talento emerge nei dialoghi (il suo maestro è Wilde), nelle danze e
nelle canzoni. Tra i suoi musical vanno nominati On with the Dance (1952), Bitter Sweet (1929), Cavalcade
(1931). Si muove all’interno dell’upper middle class ma è critico e ironico nei riguardi dei valori
convenzionali dell’establishment di cui mette alla berlina le moralistiche ortodossia, la rigidità dei codici
sociali, il vizio dell’ipocrisia.

Samuel Beckett (1906-1989). La sua opera affonda le radici nella cultura modernista. Ha infatti intessuto
profondi legami con quell’epoca di rinnovamento della sensibilità e delle forme, di cui egli può essere
considerato tra i più alti testimoni. Partecipa da giovane al clima e ai fermenti avanguardistici anche se si
riserva la massima libertà, non lasciandosi condizionare da alcuna militanza precisa. Lascia Dublino e a
Parigi incontra Joyce, che stava scrivendo Finnegans Wake. Sia nel saggio in cui difende quest’opera sia
nel saggio su Proust emerge la volontà di sostenere le rivoluzioni linguistiche in atto e la centralità
dell’autonomia della forma. Inoltre riceve sollecitazioni dalla rivoluzione surrealista, anche se Beckett ritiene
inderogabile l’obbligo di un rigoroso controllo formale degli apporti acquisiti grazie all’apertura all’onirico e
all’irrazionale.
Non è trascurabile la sua attività poetica (Whoroscope 1930) in cui già si annuncia un universo di crisi,
Beckett poi pubblica a Londra una serie notevole di racconti More Pricks than Kicks (Più pene che pane,
1934). Murphy è il primo dei suoi romanzi, poi Mercier et Camier, Watt e la trilogia in francese Molly, Malone
meurt e L’Innomable.

Inizialmente nei racconti prevalgono i toni di una satira dei costumi, la struttura simbolica ha le prima
manifestazioni in Murphy, il cui omonimo protagonista è un dublinese che lavora come assistente in un
manicomio di Londra. Murphy, per sfuggire a quel ‘fiasco colossale’ che è il mondo, vive blindato
nell’universo solipsistico della sua mente, da cui invano un gruppo di conterranei, a lui variamente legati,
cercano di distoglierlo. Dopo il suicidio e la cremazione, le sue ceneri, in seguito a uno dei tanti incidenti
tragicomici di cui è costellato il romanzo, finiranno per un disguido sul pavimento di un pub di Londra.

Già in questo lavoro il senso profondo di ricerca di requie, di silenzio e pace in un universo di follia, si attua
con il ricorso a una pluralità di allusioni e di toni dissonanti, dalla citazione dotta alle pseudospeculazioni
metafisiche, dai numeri di varietà alla meditazione tragica.
Mercier et Camier, prima coppia di personaggi opposti e complementari a cui ne seguiranno tante altre,
intraprendono un fallimentare viaggio allegorico. È uno pseudoviaggio punteggiato da situazioni assurde. La
caratterizzazione psicologica è abolita, prevale uno “stile esterno”, freddo e distaccato. Abbondanza del
dialogo e ritmo sostenuto preludono al teatro di Beckett.
Il punto di svolta dei suoi romanzi si ha con Watt, riscritto più volte. Cade la costruzione onnisciente del
romanzo tradizionale, il personaggio è fantasmatica, la narrazione è affidata al monologo di un “io” sempre
più transitorio e diviso, destinato a dissolversi in mera voce, in un balbettio dentro un contesto di
accadimenti che si profilano come inensati frammenti. È quello accade nei due monologhi di Molloy, in cui
dentro quel poco di storia delirante che ancora sopravvive, il protagonista, che dapprima coincide con il
vagabondo Molloy, subisce una progressiva, inquietante perdita d’identità e diventa un altro, sdoppiandosi
nel poliziotto che lo insegue, Moran, che inseguendolo a sua volta (senza mai raggiungerlo) smarrisce la
propria fisionomia metamorfosandosi in Molloy. In Malone meurt il vagabondo di campagna e città è ora un
moribondo immobile nello spazio claustrofobico di una stanza. Le storie che racconta sono scientemente
dette solo per non lasciare la parola al nulla della morte, così che, con questa unica, congenita motivazione,

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il loro tasso di attendibilità è del tutto irrilevante, essendo ormai egemonica la pura volontà di sopraffare con
mozziconi di storie gratuite l’avvicinarsi della morte.

Dissacrazione della logica narrativa e disgregazione del personaggio culminano nel monologo informe e
torrenziale di L’Innomable. Quest’ultima fase della trilogia coincide con la sostanza stessa del
metaromanzo, al cui centro si pone la riflessione sulla natura del linguaggio e sulla sua possibilità di narrare.
La dimensione paradossale della sua scrittura è data dal fatto che rivela continuamente il fallimento della
parola a dire alcunché, anche se riesce ancora a raccontare quel fallimento.
La progressiva rarefazione della sostanza narrativa porta il narratore a un’impasse: a questo punto si rivolge
al teatro. In questo ambito dispiega la sua disperante visione del mondo, una dimensione tragica che non
conosce liberazioni. La forma teatrale gli permette di mettere in scena e animare i suoi personaggi fornendo
loro sostanza di carne e ossa, riacquistando concretezza. Sulla scena le contraddizioni, le ironie si
traducevano nell’altro elemento del tragico beckettiano, la comicità nonsense messa in atto sul
palcoscenico della vita quotidiana tramite le gags dei clown e le cadenze del teatro di varietà. E’ un teatro
anticonvenzionale che prescinde da ogni dimensione naturalistica, lo spazio è illocalizzabile. Gli elementi
del teatro borghese vengono portati alla riibalda solo in funzione ironica o farsesca.
I personaggi di En attendant Godot (1955) tentano invano di fuggire da una condizione esistenziale di attesa
e di assenza di cui ignorano la ragione, ma il loro dialogo e le azioni non fanno che confermare l’inevitabilità
del loro destino angoscioso. Più rigoroso e con un’azione ancora più ridotta è Fin de partie, tradotto da
Beckett stesso in Inglese in Endgame, (Finale di partita, 1958) che mette in scena l’incapacità dell’uomo ad
affrontare sia la solitudine sia la comunicazione. Il luogo in cui si svolge è una stanza, rifugio da una
catastrofe universale, simbolo di una condizione permanente (sono i sopravvissuti ai campi di
concentramento e alla guerra). (Anche Act without words). Krapp’s Last Tape, la prima pièce a essere scritta
direttamente in inglese e a presentare sulla scena un monologo, si accompagna alle prime incursioni di
Beckett nel genere del radiodramma. Poi affronterà la televisione e la sceneggiatura cinematografica.

Il grottesco del monologo di Winnie in Happy Days (Giorni felici, 1961) è dato dal contrasto stridente tra la
realtà degradante in cui la protagonista è immersa e il contenuto sentimental-nostalgico delle sue
espressioni. I cliché della moralità convenzionale che escono dalla sua bocca mentre rievoca i suoi “giorni
felici” e compie gli ultimi riti superstiti dicono tutta la pateticità delle parole che suonano solo rumore per
coprire una desolazione immedicabile.

Il suo teatro diventa sempre più contratto ed essenziale secondo un processo che conduce i discorsi al
silenzio e i gesti all’immobilità. Sintomatici sono i brevi drammi, dramaticules, da Come and Go (1966). Negli
anni Settanta e Ottanta sulla scena prevalgono figure pressoché statiche che aspirano, senza mai riuscirci,
a sparire nel nulla (That Time, Footfalls, 1976 Rockaby, 1981 What, Where 1983). In Not I, ad esempio, la
protagonista, che dà sfogo ad un monologo angoscioso, è solo la bocca di un’attrice priva di corpo. A
un’estrema economia e contrazione dei mezzi scenici corrisponde la massima efficacia teatrale, una delle
esperienze decisive sulle possibilità della forma drammatica.

AL DI FUORI DEL MODERNISMO


Con la sicurezza dell'innovatore rivoluzionario, Joyce aveva proclamato che « mattoni» romanzeschi come
quelli dell'età vittoriana non ce ne sarebbero stati piú: con il pri mo Novecento il nuovo corso della narrativa
era stato de lineato una volta per sempre. Effettivamente romanzi con cepiti come i «mattoni» ottocenteschi
non ce ne furono (quasi) piú; ma questo perché ogni epoca si esprime secon do le forme che le sono
proprie, non perché la narrativa o sarebbe stata modernista o non sarebbe stata. Diversi furono gli scrittori
di talento che infatti si mossero in una di rezione del tutto estranea al modernismo; e tra questi alcuni, di cui
sembra opportuno dare conto qui anche se la loro carriera in parte si prolungò nella seconda metà del
Novecento, meritano l'attenzione dovuta al loro indiscutibile valore letterario: il primo è William Somerset
Maugham (visto da molti come un reazionario), Evelyn Waugh, Cristopher Isherwood, e George Orwell.

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