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Massimo Bonafin

MATERIALI PER UN DIALOGO POSTUMO


TRA NORTHROP FRYE E MICHAIL M. BACHTIN

Abstract Although Frye and Bachtin seem to ignore each other’s writings, there is more than
one evidence that their thinking and ideas about literature can be compared and partially
superposed.
Focusing on Anatomy of Criticism this paper stresses the similarity with bakhtinian concept of
satire and carnivalesque (in a Christian sense), with dialogism and intertextuality; moreover
the two thinkers share a comparatistic and anthropological approach to western literature.

A chi scorra l’imponente bibliografia bachtiniana che Stefania Sini ha


redatto con acribia e impegno fuori del comune e che ci dà un regesto
dell’ultimo ventennio della bachtinologia in lingua russa1, quindi, almeno
sulla carta, della più accreditata e competente nel contesto internazionale,
non accadrà di trovare mai una volta citato, nelle doviziose schede
bibliografiche ragionate, fra i nomi di tanti ‘interlocutori’ di Bachtin, cioè
di tanti autori con cui egli ha, nascostamente o meno, intrecciato la sua voce,
quello del critico canadese Northrop Frye.
A chi si accinga invece a rileggere gli scritti dei due studiosi della
letteratura, anche solo attraverso le traduzioni2, come chi scrive deve

1. Cfr. «Venti anni di studi di Michail Bachtin in lingua russa: repertorio bibliografico
ragionato e commentato (1995-2015)», a cura di S. Sini, Moderna XVI (2014), 1-2, pp.
215-421.
2. Purtroppo, non esistono traduzioni impeccabili, soprattutto perché perlopiù il traduttore,
quand’anche sia esperto della lingua (e, sperabilmente, della cultura) del testo originale,
non può spesso padroneggiare tutti i riferimenti storici, letterari, filosofici, artistici che
l’autore dissemina nel proprio testo, a meno che non sia assistito da un curatore/editor
enciclopedicamente attrezzato. Quando poi, come nel caso di Frye, l’autore usa un

L’immagine riflessa, N.S. Anno XXV (2016), 1-2, pp. 53-66.


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confessare, non sfuggiranno alcuni punti di tangenza, forse addirittura di


intersezione, fra le due prospettive critiche, entrambe in senso pieno
comparatistiche e antropologiche, entrambe intimamente fondate su un
principio spirituale.
Non c’è dubbio che il testo più noto e influente di Frye resta l’Anatomia
della critica del 1957 (di cui dunque nel 2017 ricorre il sessantesimo
anniversario): alle nostre latitudini esso è ancora il libro più conosciuto (e
ristampato) dell’autore, anche fuori dal cerchio degli anglisti e dei cultori di
teoria della letteratura.
Provo dunque a partire da lì, ben sapendo che il discorso dovrà
necessariamente ampliarsi almeno al Grande Codice, a Mito, metafora,
simbolo, al Potere delle parole, senza dimenticare magari La scrittura
secolare e Favole d’identità3. Cioè agli studi sull’importanza della Bibbia
nell’ordito della letteratura occidentale, sulla creatività ambivalente del mito,
sul genere del romance, al quale, a prima vista curiosamente, Frye sembra
attribuire quel ruolo centrale che in Bachtin appartiene invece al novel
dialogico-carnevalesco.
L’Anatomia della critica si è data a conoscere e si è affermata, in larga
misura, soprattutto come un trattato sistematico, un tentativo di grammatica
della letteratura, quasi precorritrice delle ansie tassonomiche dello
strutturalismo e poi della semiotica: un modello razionale del campo della
scrittura letteraria dell’Occidente.
Questo alone generale non impedisce più di leggerla oggi con una lente
diversa, valorizzando l’impostazione antropologico-letteraria e le sintonie
con un pensiero critico di matrice sì differente, ma di pari afflato teoretico e
comparatistico come quello bachtiniano.
Nelle pagine centrali del secondo saggio, «Critica etica», laddove Frye
tratta del simbolo come archetipo, la questione in primo piano è quella delle
relazioni di un’opera con un’altra, il fattore ‘convenzione’ e il fattore
‘genere’ come determinanti nello studio della letteratura; in altre parole,

linguaggio metaforico ed esprime un pensiero teoreticamente impegnato, il rischio che la


traduzione produca effetti sfavorevoli alla comprensione dell’originale è più che concreto.
Ma non è questo il luogo per segnalare strafalcioni e misunderstandings delle traduzioni
italiane dei libri del critico canadese, ancorché pubblicate da editori prestigiosi.
3. Per i testi citati in forma abbreviata col solo titolo si vedano le indicazioni bibliografiche
in fondo al contributo.
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quello che, dopo Bachtin e soprattutto Julia Kristeva4, si chiama


‘intertestualità’.
Infatti «in letteratura esistono molte analogie al di fuori delle fonti e delle
influenze (molte delle quali, naturalmente, non sono affatto analogie), e il
notarle costituisce una parte rilevante della nostra esperienza letteraria» (p.
126). Ogni poesia, scrive Frye – ancora immune dal gergo linguistico che
avrebbe imposto a tutti, già pochi anni dopo, il termine ‘testo’ come
passepartout critico – non è solo imitazione della natura (del mondo), ma
anche di altre poesie.

Se pensiamo a una poesia come unità e in relazione ad altre poesie, possiamo vedere che lo
studio dei generi deve essere basato sullo studio della convenzione. La critica che voglia
occuparsi di simili problemi deve essere basata su quell’aspetto del simbolismo che pone in
rapporto tra loro le singole composizioni poetiche, e sceglierà come campo di indagini i simboli
che collegano tra di loro le poesie (p. 126, corsivo mio)5.

Tutte le arti sono convenzionali, continua, ma non ce ne accorgiamo a


meno che la convenzione non sia inedita per noi. Questo ci rende difficile
apprezzare quasi tutta la letteratura antica e moderna, vittime come siamo
del pregiudizio romantico che «i risultati veri ottenuti dal poeta siano distinti,
e persino contrastanti, dai risultati che sono già presenti in ciò che egli ha
preso da altri» (p. 127, corsivo mio). Ma questa non è l’idea, a più riprese
affermata da Bachtin (soprattutto nei saggi di Estetica e romanzo e L’autore
e l’eroe), della letteratura come campo della parola altrui, come processo
di intonazione, riaccentuazione, riorientamento continuo della parola altrui?
Scrive ancora Frye:

Il discredito della convenzione sembra essere uno dei risultati, e può anche essere un aspetto
della tendenza, che risale al Romanticismo, di concedere all’individuo la priorità sulla società.
La concezione opposta, per la quale il bambino è condizionato dalla parentela che lo attornia e
da una società preesistente, ha il vantaggio iniziale di essere più vicina ai fatti di cui tratta,
qualunque dottrina se ne possa dedurre. In letteratura, la conseguenza di questo secondo punto

4. Cfr. «La parola, il dialogo, il romanzo» (1967), in J. Kristeva, Semeiotikè. Ricerche per
una semanalisi, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 119-143.
5. Ancora nell’ultimo suo lavoro, Il potere delle parole, egli ribadisce che «le opere letterarie
comunicano per mezzo di insiemi mitici» (p. 44) e «la discendenza letteraria reale non
avviene mai attraverso i singoli scrittori, bensì attraverso le convenzioni e i generi» (p. 66).
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di vista è che la nuova poesia, come il nuovo bambino, nasce in un ordine preesistente di parole
ed è tipica della struttura poetica a cui si riallaccia (p. 128, corsivo mio)6.

Non è un caso che siano queste le pagine in cui si insiste sulla natura e
la potenzialità comunicativa della convenzione, sull’aspetto sociale della
poesia, «considerata come punto focale di una comunità» (p. 130). Qui cade
anche l’enfasi sull’archetipo in quanto simbolo comunicabile, «cioè una
immagine tipica e ricorrente. Indichiamo con archetipo un simbolo che
collega una poesia ad altre poesie e serve a unificare e integrare la nostra
esperienza letteraria» (ibidem)7. Perciò la critica archetipica si occupa delle
relazioni di un’opera con il resto della letteratura.
Non solo. Lo studio dei grappoli associativi condensati negli archetipi
porta il critico a superare le gerarchie di valore tradizionali che pretendono
di distinguere la letteratura dotta e alta dalla letteratura popolare e bassa:

6. In Favole d’identità (nel saggio su «La Natura e Omero», pp. 48-64) l’onnipresenza della
parola, già data e formata, direbbe Bachtin, frapposta fra noi e le ‘cose’, e poi codificata in
generi discorsuali, è declinata in questi termini: «Non vi sono primitivi oggi e non è
possibile rintracciare l’origine del primo impulso a sistemare certe cose in forma letteraria.
Ciascuno di noi, comunque, vive in continuo contatto con le parole. In gran parte questo
contatto è con parole usate a scopo descrittivo …. Ma vi è un residuo contatto con parole
usate per divertimento nel senso più ampio. Per i letterati una buona parte o la maggior
parte di questo contatto è con la letteratura …. Per la gente di gusti non prevalentemente
letterari questo contatto assume varie forme sottoletterarie» (fumetti, gialli, televisione,
barzellette, pettegolezzi…) che sono «la continuazione dell’esperienza letteraria popolare
del passato» (p. 59 corsivo mio); notevole la conseguenza che Frye ne trae sulla
permeabilità costante fra letteratura e cultura popolare: «in questo senso il popolare è il
primitivo contemporaneo» (ibidem) e il folklore è sempre una risorsa per nuovi e originali
sviluppi letterari (p. 60). «Dovunque egli [=il critico] si rivolga nella sua esperienza
immaginativa verbale, sono le convenzioni della letteratura i confini dell’esperienza; le
loro leggi formali imperano ovunque; e da questo punto di vista non c’è differenza tra colto
e popolare nel mondo delle parole» (p. 64, corsivo mio).
7. Cfr. d’altronde anche: «Per archetipo intendo un simbolo letterario, o un gruppo di simboli,
usati con ricorrenza attraverso tutta la letteratura e divenuti pertanto convenzionali. …
L’origine storica della convenzione può essere sepolta nel rituale, ma rimane sempre
latente, e non solo nella letteratura ma anche nella vita» (Favole d’identità, p.156, corsivo
mio). Una prospettiva parimenti degna di interesse con cui confrontare la ‘critica
archetipica’ di Frye è quella, mai entrata finora nel dibattito critico occidentale, di Eleazar
M. Meletinskij, Archetipi letterari [1994], ed. ital. a cura di M. Bonafin, Macerata, Eum,
2016.
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infatti «è più facile studiare gli archetipi in quella letteratura che rivela un
alto grado di convenzione; letteratura che, per la maggior parte, è ingenua,
primitiva e popolare. Suggerendo la possibilità di una critica degli archetipi,
suggerisco anche la possibilità di estendere a tutto il resto della letteratura
il tipo di studio comparativo e morfologico che è attualmente adottato per i
racconti e le ballate popolari» (p. 137, corsivo mio).
Qui, a mio vedere, si apprezza sia la concordanza di impostazione con il
Bachtin che ricorre alla cultura popolare per interpretare le grandi tradizioni
del romanzo e i grandi autori come Rabelais e Dostoevskij sia la
proposizione di una metodologia di analisi letteraria che deve molto allo
studio del folklore (si pensi a Vladimir Ja. Propp, per non dir altro).
Il sentimento di questa relazione ineludibile tra letteratura e cultura
popolare si avverte anche in altri passi dell’Anatomia della critica. Sono noti
i debiti intellettuali di Frye con i ritualisti di Cambridge e con l’opera di sir
James Frazer in particolare8: come Bachtin istituisce una correlazione fra il
Carnevale e la letteratura medievale e rinascimentale, il critico degli archetipi
si interessa ai moduli rituali che intervengono come contenuti narrativi delle
opere (iniziazioni, matrimoni, funerali, re per burla ecc.).
Anche per questo Frye valorizza particolarmente il modo del romance,
in cui «l’interscambio tra ballate, racconti popolari e fiabe era
frequentissimo» (p. 153): anzi, egli giunge a definire la letteratura popolare
nel suo complesso come quella «che offre una chiara visione degli archetipi»
(ibidem).
Queste idee di fondo, raccolte attorno all’insistenza sul carattere
relazionale e semialtrui della scrittura letteraria, sulla permeabilità dei confini
fra letteratura e folklore, sulla condivisione di un patrimonio rituale, da sole
forse non bastano a convalidare il confronto fra i due pensatori, ma
forniscono già un valido ordito su cui innestare qualche altro riferimento più
ancorato a temi e motivi concreti di storia della cultura e della letteratura.
Nel terzo saggio dell’Anatomia della critica, «Critica archetipica»,
laddove tratta del mythos della primavera, che si invera nell’intreccio
archetipico della commedia, Frye scrive che

8. La matrice frazeriana, tanto di Frye come di Bachtin peraltro, è sottolineata da Joseph


Adamson in un suo post recente: «Frye and Bakhtin: Satire, Saturnalia, and the
Carnivalesque» reperibile in rete (https://macblog.mcmaster.ca/fryeblog/2012/12/28/frye-
and-bakhtin-satire-saturnalia-and-the-carnivalesque/).
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il mythos completo della commedia … ha regolarmente quella che in musica viene chiamata
una forma ternaria: la società dell’eroe si ribella alla società del senex e trionfa, ma la società
dell’eroe è un Saturnale, un rovesciamento dei moduli sociali che presuppone un’età dell’oro,
anteriore all’inizio dell’azione nella commedia (p. 227, corsivo mio).

La forma fondamentale del processo narrativo e letterario in genere è,


evidentemente nell’ottica del critico canadese, quella ciclica, il ritmo
alternante di successo e fallimento, vita e morte, scomparsa e riapparizione,
che, giusta l’intelaiatura mitica (si pensi al dio che muore e risorge), invita
a una prospettiva non ineluttabilmente fissata a uno dei due poli
dell’avvicendamento. Se già così l’interprete bachtiniano drizza le orecchie
e coglie le analogie con tante pagine in cui si celebra, p.es. nel libro su
Rabelais, ma non solo, la logica ambivalente delle immagini carnevalesche,
il riferimento alla festa dei Saturnali, al rovesciamento delle condizioni
presenti in nome dell’aspirazione a un’età dell’oro permette di ancorare il
pattern archetipico a una specifica tradizione culturale e letteraria.
La compartecipazione della commedia alla dimensione rituale (riti di
passaggio, di inversione, anzitutto) e la sua traiettoria dalla legge alla libertà,
del tutto omologa a quella della Bibbia (p. 241), portano Frye ad asserire
che «anche la più realistica formula della commedia plautina ha la stessa
struttura del mito cristiano centrale, dove vi è un figlio divino che tenta di
placare l’ira di un padre e di redimere quella che è ad un tempo una società
e una sposa» (p. 246). L’analogia fra il mito della Passione, emblema della
radicale inversione dei valori rappresentata dal cristianesimo rispetto al
mondo – idea che a Bachtin non poteva sfuggire, anche se forse non gli era
dato di esprimerla con tale nettezza, e che traspare in filigrana in tutte le sue
descrizioni del sentimento carnevalesco –, e la struttura della commedia,
anche proprio nella sua efficacia comica, è chiarissima in Frye. Egli
considera come caratteristico il ‘punto della morte rituale’, cioè il fatto che
«una straordinaria quantità di storie comiche, sia nel teatro che nella
narrativa, sembra verso la fine giungere molto vicino a una fine almeno
potenzialmente tragica» (p. 238) per l’eroe, spesso anche con elementi
obiettivi di crudeltà e ferocia, che viene sventata, capovolta o risollevata
all’ultimo. Anzi, «si ha talvolta l’impressione che il pubblico di Plauto e
Terenzio avrebbe sghignazzato rumorosamente alle scene della Passione»
(p. 236). Per capire bene questa osservazione basta rileggere le pagine che
Bachtin dedica al Carnevale nel suo Dostoevskij (pp. 162-63):
Tra Northrop Frye e Michail M. Bachtin 59

La principale azione carnevalesca è probabilmente la burlesca incoronazione e successiva


scoronazione del re del carnevale. Questa cerimonia si incontra sotto qualche forma in tutte le
feste di tipo carnevalesco.… Alla base dell’atto rituale della incoronazione e scoronazione del
re è il nucleo stesso del senso carnevalesco del mondo, il pathos delle sostituzioni e dei
mutamenti, della morte e del rinnovamento. … Chi viene incoronato è l’antipode di un vero re,
uno schiavo o un buffone, e ciò sembra quasi rivelare il mondo alla rovescia del carnevale. Nel
rito dell’incoronazione tutti i momenti del cerimoniale stesso, i simboli del potere, che vengono
consegnati e attribuiti all’incoronato, l’abbigliamento, di cui egli viene rivestito, diventano
ambivalenti, acquistano una sfumatura di gaia relatività, diventano quasi teatrali…. Attraverso
l’incoronazione fin dall’inizio s’intravede la scoronazione. … Allo scoronato si tolgono le
vesti regali, si leva lo scettro, si strappano gli altri simboli del potere, lo si schernisce e lo si
batte.

Quale miglior archetipo di incoronazione e scoronazione poteva esser


presente alla cultura medievale di questa scena:

Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la
coorte. Spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto e, intrecciata una corona di spine,
gliela posero sul capo, con una canna nella destra; poi, mentre gli si inginocchiavano davanti,
lo schernivano: «Salve, re dei Giudei!». E sputandogli addosso gli tolsero di mano la canna e
lo percuotevano sul capo. Dopo averlo così schernito, lo spogliarono del mantello, gli fecero
indossare i suoi vestiti e lo portarono via per crocifiggerlo (Matteo, 27, 29-31)9.

Tanto il critico russo quanto il critico canadese vi riconoscono il tragico


che si rovescia nel comico (e viceversa, secondo un ritmo ciclico) e, forti di
una comparazione antropologica (più o meno esplicita in entrambi), la
ripetizione di un modulo rituale, di cui la letteratura offre più di un esempio.
Più avanti nel terzo saggio, a proposito del mythos dell’autunno,
realizzato nella forma della tragedia, Frye infatti scrive:

Nel mito, l’eroe è un dio, e quindi non muore, ma muore e risorge. Lo schema rituale che sta
alla base della catarsi della commedia è la resurrezione che segue alla morte, l’epifania o

9. «Tunc milites praesidis suscipientes Iesum in praetorium, congregaverunt ad eum


universam cohortem, et exuentes eum, chlamydem coccineam circumdederunt ei, et
plectentes coronam de spinis, posuerunt super caput eius, et arundinem in dextera eius. Et
genu flexo ante eum, illudebant ei, dicentes: Ave rex Iudaeorum. Et expuentes in eum,
acceperunt arundinem, et percutiebant caput eius. Et postquam illuserunt ei, exuerunt eum
chlamyde, et induerunt eum vestimentis eius, et duxerunt eum ut crucifigerent.» La
traduzione italiana citata è tratta dalla Bibbia di Gerusalemme.
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manifestazione dell’eroe risorto. … Anche il cristianesimo vede la tragedia come un episodio


nell’ambito della commedia divina, cioè nel più ampio schema di redenzione e resurrezione. Il
senso della tragedia come preludio alla commedia sembra pressoché inseparabile da tutto ciò
che si definisce esplicitamente cristiano (pp. 286-87).

Certo, Bachtin farebbe ricorso alla categoria a lui cara di ambivalenza,


dove Frye predilige l’idea (vichiana!) del ciclo, dei corsi e ricorsi, ma si tratta
forse più di una sfumatura lessicale (entrambi gli autori condividono anche
la tendenza a coniare un proprio idioletto critico). Quando deve esemplificare
la terza fase della tragedia, in cui si esprime il successo (provvisorio e
paradossale) dell’eroe, Frye ricorre ancora al ‘carnevalesco biblico’ – se mi
si passa la neologia – in un modo del tutto congruente con quello di Bachtin:

Il paradosso di una vittoria nell’ambito della tragedia si può spiegare esaminando la doppia
prospettiva che l’azione offre. Sansone è una figura di buffone in un carnevale dei Filistei e
allo stesso tempo un eroe tragico per gli Israeliti, ma la tragedia finisce con un trionfo e il
carnevale con una catastrofe. Lo stesso si può dire per il Cristo schernito nella Passione (p.
294, corsivo mio)10.

10. Ancora nel suo ultimo libro, Il potere delle parole, egli annota: «Gesù è un re archetipico
divino, proprio perché non è riconosciuto come tale, eccetto che per scherno» (p. 293).
Poco dopo, esplicitando e reinterpretando la matrice antropologica di queste considerazioni,
Frye scrive una pagina illuminante anche, a mio avviso, per intendere a dovere il Carnevale
bachtiniano: «i rituali ricostruiti da Frazer comprendono l’usanza di nominare un sovrano
temporaneo o un finto re: questa figura è associata talvolta a un periodo di carnevale
autorizzato; il fattore mitologico principale del carnevale è che esso riproduce un’età
dell’oro originaria, caratterizzata dalla libertà e dall’uguaglianza, come il regno di
Saturno nella mitologia romana. Nei saturnali stessi, il carnevale più noto del mondo antico,
appare in maniera esplicita la visione di una società in cui i servi sono uguali ai signori.
Anche Gesù, del resto, non è solo un dio-vittima della genealogia di David, come dice
l’iscrizione “Dio degli Ebrei” sulla croce, ma un re finto o carnevalesco, il quale, nonostante
la corona di spine, promette un paradiso al ladrone pentito, a dispetto di ciò che ha stabilito
l’autorità secolare. Se ci chiediamo perché il finto re (il cosiddetto “interrè”) venga associato
con un’età dell’oro, la risposta può essere che egli rappresenta un’interruzione dell’ansia
della continuità, la speranza di non dover più dipendere dal ciclo naturale e di una
trasformazione della vita umana nel corso del tempo. Ancora una volta, il rituale ciclico
non può escludere totalmente la speranza apocalittica di una rivoluzione che rovescerà
senza poi restaurare» (pp. 295-296, corsivo mio). Con il che, a mio vedere, è messa una
pietra tombale su tutte le banalizzanti interpretazioni ‘quaresimali’ del carnevalesco
bachtiniano.
Tra Northrop Frye e Michail M. Bachtin 61

Ma è forse nelle pagine dedicate alla satira, e alla satira menippea in


particolare, che l’Anatomia della critica rivela ancora maggiori consonanze
con la teoria bachtiniana dello svolgimento della narrativa occidentale. Non
si dimentichi che proprio quel nome di ‘anatomia’ il critico canadese lo
mutua non certo dalla medicina, ma dalla letteratura, dalla Anatomia della
malinconia di Robert Burton, com’è noto, un’opera del XVII secolo che
riattiva a suo modo proprio la corrente carsica della satira menippea di
tradizione antica. Questo fatto dice già di una particolare predilezione per
quel tipo di letteratura e per i significati e i valori che ad essa si possono
associare.
L’ironia e la satira sono i modi letterari del mythos dell’inverno, con cui
si conclude il terzo saggio; con la satira si registra la scomparsa dell’eroico,
l’interesse prevalente per quello che fanno gli uomini, la messa in ridicolo
delle convenzioni. Frye tradisce la sua simpatia per i connotati progressisti
della satira, quando rileva che «nella guerra della scienza contro la
superstizione, gli scrittori di satire hanno sempre avuto una parte importante»
(p. 309). Un posto particolare assume nella letteratura satirica la
rappresentazione del mondo alla rovescia: «ogni volta che l’“altro mondo”
appare nella satira, esso appare come una copia ironica del nostro, come un
rovesciamento degli schemi sociali accettati» (p. 311), da Luciano a Swift,
attraverso Rabelais e la tradizione della danza macabra medievale, nella
quale «si delinea una chiara opposizione tra la semplice uguaglianza di tutti
gli uomini instaurata dalla morte e le complesse ineguaglianze che sussistono
in vita» (ibidem). È così che la satira può sottolineare «una speciale funzione
della letteratura, quella di analizzare e infrangere tutta una serie di moduli
fissi, di credenze fossilizzate, di terrori superstiziosi, di teorie arzigogolate,
di dogmatismi pedanteschi, di usanze opprimenti, ed altre cose che
intralciano il libero movimento (non necessariamente il progresso, è ovvio)
della società» (p. 312). Non siamo molto lontani dalle pagine di Bachtin sul
ruolo del riso11 e dei generi comico-satirici-parodici nella liberazione della

11. Anche Frye del resto sembra riconoscere l’ambivalenza del riso nelle pagine introduttive
ai temi dell’ascesa (da un mondo inferiore e a un mondo superiore) nel romance (La
scrittura secolare), che implicitamente rinviano anche al riso rituale nel folklore
(nell’interpretazione di Propp). «Dal momento che l’eroe o l’eroina entrano nel labirintico
mondo inferiore gli umori prevalenti sono quelli del terrore o della soggezione acritica. A
62 Massimo Bonafin

coscienza dalla visione gerarchica ufficiale e dunque nella preparazione,


maturata nel millennio medievale, di una nuova visione laica, aperta e
pluriprospettivistica.
Frye riconosce anche il posto che, nel contesto della tradizione satirica
in senso ampio e comprensivo di tutte le sue modulazioni, ha la sfera del
basso materiale-corporeo, quando annota, partendo da Swift, come «il genio
abbia guidato in pratica ogni grande scrittore satirico verso l’espressione di
quella che la gente chiama oscenità»; e continua subito dopo:

Le convenzioni sociali fanno sì che la gente mostri una bella facciata, per mantenere la quale
bisogna scindere la dignità di certi signori o la bellezza di certe donne da ogni immagine di
escrezione, di copulazione o di altre simili imbarazzanti situazioni. Il riferimento continuo a
questi atti porta a una democrazia «del corpo» corrispondente alla democrazia della morte nella
danse macabre (p. 314).

Nel quarto saggio dell’Anatomia della critica, «Critica retorica», dove


si affronta la teoria dei generi, è dato di cogliere, ancora facendo perno sulla
tradizione della satira menippea e del suo ruolo propulsivo nella storia del
romanzo occidentale, altre dichiarazioni che consentono di corroborare
ulteriormente il raffronto con le teorie bachtiniane.

un certo punto e forse quando lo sforzo … si fa insopportabile, vi può essere una rivolta
della mente, un distacco ricuperato, la cui tipica espressione è il riso. L’ambiguità
dell’oracolo diviene l’ambiguità del motto di spirito, qualcosa di indirizzato a una
comprensione verbale che scuote la mente e la rende libera. Questo punto è inoltre
caratterizzato da mutamenti generici dal tragico e ironico al comico e satirico. Così in
Rabelais gli immensi giganti, la ricerca di un oracolo e altri temi del mondo inferiore che
in contesti differenti sarebbero spaventosi e incuterebbero soggezione, vengono presentati
come farsa. … Secoli or sono si narrava la storia di come Demetra vagasse per il mondo
alla ricerca infruttuosa della sua perduta figlia Proserpina, e sedesse solitaria e triste in una
capanna di pastori finché le facezie e i motteggi osceni di Iambe la giovane fantesca e
Baubo la vecchia nutrice non la persuasero a sorridere. I misteri eleusini stabiliti da Demetra
erano riti di iniziazione solenni e terribili connessi al ciclo della rinascita e della fertilità;
ma Iambe e Baubo aiutarono a garantire che di essi vi fossero anche le parodie comiche,
come le Rane di Aristofane. Secondo Plutarco coloro che discendevano nella caverna tetra
dell’oracolo di Trofonio avrebbero dopo tre giorni ricuperato la capacità del riso» (pp. 131-
132, corsivo mio). Sul mito di Baubò in relazione al riso, mi permetto di rinviare a M.
Bonafin, «Osceno, risibile, sacro: Iambe/Baubò, Hathor, Ame-no-Uzume e le altre»,
L’immagine riflessa n. s. 14 (2005), pp. 35-56.
Tra Northrop Frye e Michail M. Bachtin 63

Anzitutto Frye parte dalla classificazione delle macrovarietà della fiction,


in cui novel e romance rappresentano una grande antitesi architettonica,
anche se non esaustiva di tutte le possibili varianti del romanzo; il romance
è già stato oggetto di pagine molte intense nel terzo saggio e gode senz’altro
delle simpatie dello studioso, che vi vede un’incarnazione della tendenza
della letteratura al mito, cioè alla rappresentazione del sogno e della
soddisfazione onirica dei desideri umani, una forma letteraria socialmente
ambivalente12, universale e rivoluzionaria, che si riattiva continuamente, mai
pago dello stadio raggiunto dalla società da cui trae alimento, «più insaziabile
che mai, in cerca di nuove speranze e nuovi desideri di cui nutrirsi» (p. 247).
Accanto a queste due macrovarietà Frye ne individua altre due, che
contribuiscono alla differenziazione e alla miscelazione della fiction, perché
ovviamente non esistono generi puri, in quanto il pubblico apprezza sempre
di più le forme miste; queste altre due forme sono quelle della confessione
e dell’anatomia, cioè della satira menippea. Anche se la profondità
cronologica non è un argomento in primo piano nel discorso del critico
canadese, tuttavia la differenza fra queste quattro forme di narrativa passa
anche attraverso il diverso spessore storico attribuito a due di esse, vale a
dire appunto il romance che è più antico del novel, sostanzialmente
un’invenzione moderna, non a caso svoltasi anche facendo la parodia del
precedente, e la satira menippea, che già nel nome risale all’antichità
classica, mentre la confessione tutt’al più rimonta a Sant’Agostino.
Frye insiste sulla tradizione di questa forma particolare della fiction, che,
prima di raggiungere le vette dei Gulliver’s Travels e del Candide, ha trovato
espressione in Rabelais e in Erasmo ed è stata soprattutto forgiata dal greco
Luciano e dai latini Varrone, Petronio e Apuleio (p. 417).

La satira menippea non si occupa tanto della gente in sé quanto degli atteggiamenti mentali.
Troviamo in essa pedanti, bigotti, eccentrici, parvenus, dilettanti, fanatici, professionisti di ogni
tipo rapaci e incompetenti, che vengono osservati e colti nel loro atteggiamento professionale

12. «In ogni epoca la classe sociale o intellettuale dominante tende a proiettare i suoi ideali in
una qualche forma di romance, in cui gli eroi virtuosi e le eroine bellissime rappresentano
gli ideali, e i cattivi la minaccia che ostacola l’influsso dei primi sulla società. … E tuttavia
nel romance vi è un elemento genuinamente “proletario” che non è mai soddisfatto dalle
sue varie incarnazioni, e infatti le incarnazioni stesse indicano che per quanto grande possa
essere il cambiamento che avviene nella società, il romance comparirà di nuovo» (p. 247).
64 Massimo Bonafin

verso la vita in quanto distinto dal loro comportamento sociale. La satira menippea assomiglia
quindi alla confessione nella sua capacità di trattare idee astratte e teorie, mentre differisce
dal romanzo [novel] per ciò che riguarda la caratterizzazione dei personaggi, che è stilizzata
piuttosto che naturalistica; essa tende a presentare le persone come portavoci [sic] delle idee
che esse rappresentano (pp. 417-18, corsivo mio).

Ma questa non è forse quella che Bachtin chiamerebbe la pluridiscorsività


sociale, la polifonia delle voci dei personaggi-ideologi, che la linea dialogica
e carnevalesca del romanzo, secondo la sua terminologia e visione della
storia dei generi, coltiva e approfondisce fino a culminare in Dostoevskij?
Anche la satira menippea, intesa come mythos, come atteggiamento
strutturale, conosce delle varianti: «Petronio, Apuleio, Rabelais, Swift o
Voltaire usano tutti una forma narrativa alquanto disarticolata … [che] si
basa sul libero gioco della fantasia intellettuale e sul genere di osservazione
umoristica che produce la caricatura» (p. 418). «La forma breve della satira
menippea è di solito un dialogo o un colloquio, in cui l’interesse drammatico
è concentrato su un conflitto di idee piuttosto che di personaggi. Questa è la
forma preferita di Erasmo e molto usata da Voltaire» (p. 419, corsivo mio).
Altre varianti sono il dialogo dei morti o, con l’intervento di più interlocutori,
la struttura della cena o del simposio, da Platone a Petronio al Cortegiano di
Baldassarre Castiglione, un libro molto amato da Frye. Un’altra caratteristica
del genere è il ricorso ad accumulazioni di dati eruditi sul tema trattato, il
gusto per le elencazioni e le sfilze parasinonimiche anche in funzione di
parodia della cultura pedantesca e autoritaria. «La tendenza di questa forma
di satira ad espandersi in una farragine enciclopedica è evidentissima in
Rabelais, e precisamente nei suoi grandiosi cataloghi di torcheculs e di
sinonimi di braghette e metodi di divinazione» (p. 420).
Qui addirittura si apprezza la sovrapposizione con gli esempi allegati da
Bachtin nel corso delle sue analisi del ‘romanzo’ (Frye scriverebbe romance)
di Rabelais e delle sue matrici nella tradizione della cultura comica e
popolare antica e medievale13.

13. Analogamente altrove, nel citato saggio sul romance (La scrittura secolare), Frye declina
nel suo linguaggio la concezione bachtiniana del corpo grottesco e del basso materiale-
corporeo; prendendo in considerazione i motivi della discesa, uno dei quattro movimenti
primari o radicali narrativi che strutturano i racconti letterari, egli nota che, nel loro
fondamento mitico, rappresentano un eroe che si cala in un labirinto di caverne e ombre,
Tra Northrop Frye e Michail M. Bachtin 65

Mi sembra che ci siano a questo punto le condizioni per ricapitolare


provvisoriamente le evidenze di questo confronto postumo fra i due grandi
maestri del pensiero critico novecentesco. Un dialogo postumo che forse si
sta facendo timidamente strada nella riflessione teorico-letteraria del secolo
ventunesimo, come appare da due contributi recentissimi (i soli, oggi, a mia
conoscenza) di studiosi cileni14. Tanto Frye che Bachtin, l’uno all’insaputa
dell’altro, amano le grandi prospettive di teoria e storia comparata della
letteratura, si foggiano un loro lessico critico per esprimere la loro personale
interpretazione ‘antropologica’ della letteratura occidentale, in cui emergono
in primo piano l’ineludibile rapporto fra mito, rituale, folklore, generi
narrativi popolari e testi del canone ‘alto’ e dominante insieme con la
percezione di una ‘realtà’ da sempre nominata e tradotta in parole, discorsi,
forme, generi, convenzioni. All’indubbia vocazione maggiormente
sistematica e organica del critico canadese fa riscontro la più disordinata e
anche contingentemente eteroclita ricerca bachtiniana, tuttavia le accomuna
un’analoga costanza di principi, che nella praticata interdisciplinarietà (fra
critica e teoresi letteraria, filosofia, religione, antropologia, storia, ‘studi
culturali’ avant la lettre) non deflette dall’intuizione che nelle parole della

raffigurazione degl’intestini o del ventre di un mostro o del grembo di una terra-madre


(come nella storia biblica di Giona, nella discesa all’inferno di Gesù o di Dante); in
sostanza, «l’universo mitologico è … un corpo gigantesco e macrocosmico fornito di
analogie con il corpo umano. … Nel fondale di questo mondo macrocosmico troviamo gli
organi della generazione e dell’escrezione i quali vengono posti in risalto
proporzionalmente via via che questa parte dell’universo mitico diviene demoniaca» (p.
123, corsivo mio). «La radice della satira, come stabilì molto tempo fa Luciano, è una
narrativa discendente, ove noi entriamo in un mondo inferiore che rivela le fonti
dell’assurdità e della follia umana. La maggior parte dei geni satirici, inclusi Swift, Rabelais
e Joyce hanno capito molto bene che la maggior parte di queste fonti sono situate nelle
regioni addominali, genitali ed escretive; … troviamo con ricorrenza in questo mondo
inferiore gente molto piccola e gente molto grande. Quest’ultima include i giganti …: essi
sono di solito giganti stupidi e facilmente ingannabili, ma talvolta, principalmente in
Rabelais, ci viene ricordata la forza esuberante che rimane repressa nelle nostre parti
corporali più basse» (p. 124, corsivo mio).
14. Cfr. Manuel Jofré, «Northrop Frye and Mikhail Bakhtin: Parallel, Opposing, Converging
Views», Global Journal of Human Social Science. Sociology & Culture Vol. 13 / 3 (2013),
pp. 13-16, e Claudia Andrade Ecchio, «Hacia un Modelo de la Narratividad: Mikhail
Bakhtin y Northrop Frye en Diálogo», Revista de Humanidades 28 (Julio-Diciembre 2013),
pp. 121-148 (entrambi reperibili in rete).
66 Massimo Bonafin

letteratura si esprima, anzi si formi, la coscienza dell’uomo, dell’io e


dell’altro, il dialogo come potenziale ontologia.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Opere di Bachtin e Frye citate in forma abbreviata.

Northrop Frye,
Anatomia della critica. Quattro saggi [1957], Torino, Einaudi, 2000.
Favole d’identità. Studi di mitologia poetica [1963], Torino, Einaudi, 1973.
La scrittura secolare. Studio sulla struttura del «romance» [1976], Bologna,
il Mulino, 1978.
Il grande codice. La Bibbia e la letteratura [1982], Torino, Einaudi, 1986.
Mito metafora simbolo [1979-1987], Roma, Editori Riuniti, 1989.
Il potere delle parole. Nuovi studi su Bibbia e letteratura [1990], Scandicci
(Firenze), La Nuova Italia, 1994.

Michail Bachtin,
Dostoevskij. Poetica e stilistica [1963], Torino, Einaudi, 1980.
L’opera di Rabelais e la cultura popolare del Medioevo e del Rinascimento
[1965], Torino, Einaudi, 1979.
Estetica e romanzo [1975], Torino, Einaudi, 1979.
L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane [1979], Torino, Einaudi,
1988.

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