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Per attrarre porzioni sempre più ampie di pubblico i musei devono modi care il proprio approccio in
termini di comunicazione e proposte. Sfatando certi retaggi elitari.
Studenti alla Children’s Gallery del Science Museum, marzo 1934. Photo credit Science Museum SSPL
Nel dicembre del 1931, lo Science Museum of London inaugurò la “Children’s Gallery”,
un’area innovativa pensata per stimolare l’interesse e la curiosità dei bambini verso la scienza
e le tecniche. Per la prima volta al mondo si avviò un processo di e ettivo e duraturo
ampliamento dei pubblici, dedicando una super cie permanente al raggiungimento delle
fasce più giovani, e meno specializzate, della popolazione. Una fuga progettuale in avanti
verso installazioni che oggi de niremmo “interattive” e un metodo di apprendimento
“imparare facendo” che non mancò di accendere un aspro dibattito in Inghilterra.
Se la stampa generalista sottolineò la perfetta sinergia tra educazione e intrattenimento, “a
playground at once amusing and illuminating” (un parco giochi al contempo formativo e
divertente), dall’altra parte una larga fetta della comunità scienti ca inglese osteggiò questa
iniziativa, vista come una deriva rispetto alla missione e visione no ad allora consolidate.
Questa posizione trovò plastica evidenza nell’edizione di aprile della rivista u ciale del
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museo “We could not help fearing that all this may be going too far and not quite in the right
direction” (Abbiamo il timore di star andando troppo oltre e probabilmente non nella giusta
direzione).
La visionaria idea dell’allora direttore dello Science Museum of London, il colonnello Sir.
Henry Lyons, di voler dialogare primariamente con la gente “comune” (“ordinary visitor”), il
largo pubblico, disarticolava il modello imperante di istituzioni culturali portate avanti da
specialisti esclusivamente per altri specialisti. Spazi in cui vigevano codici, rituali, linguaggi
comprensibili da un ristretto numero di persone, oggi le chiameremmo élite culturali, e
incomprensibili alla stragrande maggioranza della popolazione.
Quanto accaduto nel contesto museale londinese ri ette una secolare strati cazione di una
cultura di “pochi per pochi”, dove la cinghia di trasmissione è circolare e ha come oggetto, sia
nelle fasi di produzione sia in quelle di consumo, una enclave dai connotati sociali molto ben
delineati, a cui l’accesso è stato garantito per nascita. Aristocratici e religiosi, a cui seguì la
ricca borghesia commerciale, divennero i depositari della cultura e gli unici in grado di aprire
le rigide maglie attraverso speci ci e sporadici meccanismi di cooptazione.
Sarà un processo estremamente lento, e non privo di attacchi, a portare la cultura verso una
fase di “pochi per molti”. I meccanismi di produzione non subirono mutamenti sostanziali,
mentre i destinatari, il target, mutò radicalmente. La di usione dei primi giornali a larga
tiratura stampati, i “quotidiani”, l’accesso domestico al sapere mediante le enciclopedie,
l’avvento della radio, televisione e cinema contribuirono a una partecipazione molto più
generalizzata e orizzontale al consumo culturale. Immutato, o quasi, il ruolo egemone delle
élite a cui continua a spettare il ruolo in via esclusiva di produzione culturale. La nuova cultura
di massa novecentesca massa è direttamente collegata alla produzione di massa, mediante la
quale l’industria riesce a produrre beni in grandissime quantità, sfruttando la logistica e la
catena di montaggio, l’economia di scala.
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Non avrebbe forse più senso superare rigidi schematismi a favore di Case della Cultura
focalizzate sulla tematica e in grado di far convivere e interagire periodi e supporti artistici. Un
unico luogo in cui sculture, quadri, libri, videogiochi, lm, arte digitale diventano parte
integrante, e non feticcio religioso, di una narrazione unica.
Un cambio di prospettiva dovrebbe investire anche l’idea stessa di “arte come oggetto” a
favore di “arte come processo”. Superando la sacralità messianica dell’oggetto/feticcio da
contemplare in rispettoso silenzio, si avvia una fase storica in cui l’idea di arte deriva dalla
relazione paritaria tra oggetto, visitatore e luogo in cui i primi due si ritrovano.
L’arte, così come i luoghi dell’arte, necessita visceralmente della presenza di un pubblico e del
trasferimento bidirezionale di valori dall’uno all’altro, come in qualche modo indicato già nel
Novecento dal Dadaismo, movimento Fluxus e arti performative.
Un passaggio dall’esperienza individuale a una collettiva tanto nel consumo quanto,
soprattutto, nella produzione culturale. È altamente probabile che non nascerà più un nuovo
Leonardo da Vinci, gure geniali e solitarie in grado di governare l’intero processo artistico. Il
singolo sta cedendo il passo al collettivo, un insieme di artisti che lavorano insieme per
governare la complessità della produzione contemporanea. Dal pioneristico Studio Azzurro in
Italia al visionario Teamlab giapponese no al collettivo internazionale di TuoMuseo,
troviamo una comune componente di contaminazione di gure: creativi, maker, umanisti,
sviluppatori, registi, esperti di intelligenza arti ciale che convivono e si compenetrano per dar
vita a esperienze artistiche come processo costante e che muta, spesso, in accordo alla
relazione che le opere instaurano con il visitatore.
A fronte di singole fughe progettuali in avanti, da spazi come ZKM di Karlsruhe a iniziative
come Kilowatt Festival di San Sepolcro o concorsi come Playable Museum Award del Museo
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Marino Marini di Firenze, larga parte del mondo culturale è ancora ostaggio della sindrome da
“Disney cation”. Quasi che la centralità del pubblico e la nuova importanza data a forme di
produzione, e non solo di conservazione culturale, fosse una seria minaccia alla credibilità
dell’istituzione.
La strada verso il Museo del Futuro richiede un riposizionamento attivo verso centri di
produzione culturale, hub in grado di attrarre artisti, creativi e maker da tutto il mondo per
immaginare e progettare il futuro. Luoghi vivi che hanno un senso nel presente grazie alla
convivenza di conservazione di ciò che è stato e produzione di ciò che sarà. Ha senso che le
biblioteche siano solo luogo di consultazione e non di produzione letteraria? Perché le
istituzioni culturali, in partnership con singoli individui e industrie creative, non possono
concorrere a generare nuove strati cazioni culturali? Perché il pubblico ha delegato
completamente al privato questo ruolo attivo?
‒ Fabio Viola
Email *
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Fabio Viola
http://www.gamei cations.com
Da quindici anni nell'industria dei videogiochi, ha lavorato sulle versioni
digitali di produzioni iconiche come SimCity, The Sims e Pac-Man.
Considerato uno dei top 10 gami cation designer mondiali, ha collegato la
sua passione per il gioco e per la cultura presiedendo l'associazione
culturale TuoMuseo.
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