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ASTROFOTOGRAFIA

La fotografia deriva dalla “camera obscura”, già nota ai Greci, e usata dai pittori
del Rinascimento per riprodurre scene senza errori di prospettiva; era in
pratica una grande scatola con un forellino davanti ed una parete traslucida sul
retro, sulla quale si vedeva, rovesciata, la scena inquadrata dal foro.
Presto fu introdotto un obiettivo al posto del foro, per rendere più nitida e
luminosa l’immagine. Il passo successivo era quello di trovare un modo di
“memorizzare” la scena proiettata sulla parete di fondo.
Ci riuscì per primo il francese Joseph Nicéphore Niepce nel 1826, che ottenne da
una “camera oscura” un’immagine stabile su una lastra di peltro ricoperta di
bitume sciolto in olio di lavanda: sotto l’azione della luce, il bitume induriva
diventando insolubile. In seguito Louis Daguerre perfezionò il metodo, usando
sali d’argento su una base di rame.
Fu proprio l’astronomia ad occuparsi per prima di queste nuove tecniche: nel
1839 Francois Arago presentò all’Accademia delle Scienze di Parigi un resoconto
in cui descriveva il nuovo procedimento, e ne indicava le potenzialità in campo
astronomico, dopo che Daguerre aveva ottenuto un’immagine della Luna. Anche
l’astronomo inglese John Herschel si interessò subito a questa invenzione, e si
cimentò anche lui nelle nuove tecniche, ottenendo, sempre nel 1839, un’immagine
del grande telescopio del padre, e fu lui a coniare il termine “fotografia”.
Data la sua grande luminosità, fu inizialmente il Sole il soggetto astronomico più
fotografato: la prima immagine solare di cui è rimasta una copia è del 2 aprile
1845. Un’eclisse parziale di Sole fu ripresa il 15 marzo 1858 dal francese H.
Faye e dall’italiano F. Porro dall’Osservatorio di Parigi; la prima foto della
corona e delle protuberanze durante un’eclisse totale era stata invece presa da
Berkowski con l’eliometro di Konigsberg nel 1851.
La sensibilità dei dagherrotipi era comunque sempre molto scarsa, e richiedeva
tempi di esposizione lunghi; inoltre, il dagherrotipo era un positivo su metallo,
dal quale non era possibile ricavare copie.
Il procedimento al collodio umido messo a punto da Talbot nel 1851 assicurava
una superiore sensibilità, cosa assai gradita dagli astronomi, e inoltre consentiva
di fare più copie, ma l’inconveniente era che la lastra doveva essere esposta
subito dopo la preparazione, prima che si asciugasse.
Nel frattempo le applicazioni astronomiche si erano moltiplicate, e in moltissimi
Osservatori si prendevano immagini del Sole anche più volte al giorno, per
evidenziare l’andamento di macchie e facole, ottenendo voluminosi archivi di dati.
Nella seconda metà dell’Ottocento ci si rivolse alla Luna, e poi si tentò con le
stelle: Vega era stata già ripresa nel 1850, e nel 1857 fu la volta di Mizar e
Alcor; ma le riprese erano comunque limitate alle stelle più brillanti.
L’avvento delle emulsioni al bromuro d’argento in gelatina, messe definitivamente
a punto da Gorge Eastman nel 1879, segnò la grande svolta: maggiore
sensibilità, e riprese in negativo con la possibilità di tirare un numero illimitato di
copie positive.
Da allora i miglioramenti sono stati costanti, sia nei materiali sensibili che nelle
ottiche e nelle tecniche di ripresa, e si è passati a soggetti sempre più deboli:
stelle, comete, galassie, nebulose. L’apice della fotografia “chimica” è stato
raggiunto negli anni ’90. Dopo di allora, almeno in campo astronomico, la
fotografia tradizionale ha iniziato una fase di declino che probabilmente è
irreversibile: l’ultima pellicola amatoriale ottimizzata per uso astronomico, la
leggendaria Kodak Technical Pan 2415, è stata messa fuori produzione cinque
anni fa, e un famoso costruttore come Olympus da tempo non produce più
fotocamere tradizionali.
Nel frattempo, negli anni ’60 erano state sviluppate dai militari del Pentagono
alcune nuove tecnologie connesse con l’uso di aerei e satelliti spia; tra queste, i
sensori CCD (Charge-Coupled Devices) e gli strumenti software per elaborare le
immagini digitali riprese da tali dispositivi; dagli anni ’70 tali tecnologie sono
state adottate anche per uso civile, prima dagli osservatori astronomici
professionali, poi da qualche astrofilo particolarmente ricco e capace. Ora
l’uso dei CCD si è generalizzato, ed essi hanno rivoluzionato le tecniche di ripresa
di immagini astronomiche.
Tra i pregi dell’immagine digitale rispetto a quella fotografica tradizionale c’è
l’immediatezza del risultato rispetto ai tempi medi necessari per lo sviluppo e la
stampa di una pellicola (le immagini astronomiche non vanno mai trattate nelle
stampatrici automatiche !!). Poter vedere un primo risultato anche grezzo subito
dopo la ripresa rende più facile e rapido apprendere dall’esperienza e correggere
i propri errori. Altro grosso vantaggio è l’ampia possibilità di elaborazione e
ottimizzazione successiva, molto più facile di quella (limitata) che si può fare in
camera oscura, grazie ad una gamma dinamica molto più estesa e lineare. Però
usare una camera CCD non è proprio facilissimo, checché ne dicano i costruttori e
i rivenditori…
Un modo semplice e divertente di accostarsi alle tecniche di ripresa digitale in
astronomia è quello di utilizzare le piccole telecamere, sviluppate e
commercializzate su larga scala per la videoconferenza tramite Internet, dette
comunemente “webcams”. Esse hanno indubbiamente caratteristiche inferiori
alle camere CCD vere e proprie, ma hanno il grosso pregio di costare poco (dai 50
ai 150 €). Inoltre sono leggerissime, e quindi non rischiamo di sbilanciare il
telescopio, come accade con alcune vecchie pesanti macchine fotografiche.
Si collegano ad un computer tramite la porta USB (Universal Serial Bus).
Come le camere CCD più economiche, hanno però un sensore di dimensioni molto
più piccole di un negativo fotografico 24x36, e quindi il puntamento del soggetto
è abbastanza laborioso.
Recentemente, anche la proliferazione di macchine fotografiche digitali a prezzi
contenuti ha destato forte interesse nella comunità astrofilina; purtroppo
raccordarle al telescopio non è facile, dato che solo quelle ad ottica
intercambiabile possono essere collegate direttamente con appositi anelli
adattatori: per le più economiche ad ottica fissa, l’unico metodo è
l’accoppiamento afocale, meccanicamente più difficile.
In tempi recenti Canon, Olympus e Nikon hanno sviluppato, a prezzi abbordabili,
reflex digitali con sensori CMOS Complementary Metal-Oxide Semiconductor) a
basso rumore, alta sensibilità, e di maggiore formato (in genere 16x24 mm, ma
la Canon ha due fotocamere con sensore 24x36 mm, purtroppo ancora abbastanza
costose), che stanno rivoluzionando l’astrofotografia amatoriale.
Infine vi sono le telecamere ad alta sensibilità usate nei sistemi di sorveglianza
notturna, o addirittura progettate appositamente per uso astronomico.
Vediamo quali sono e come funzionano tutti questi mezzi di ripresa alternativi, e
come è possibile trarne i migliori risultati possibili.
Diciamo subito che l’utilizzazione di sistemi di ripresa digitale in astronomia è
stata resa non solo possibile, ma facile e proficua, dallo sviluppo di specifici
strumenti software, molti dei quali scaricabili gratuitamente da Internet, sia per
la fase di ripresa, sia per la successiva elaborazione delle immagini, operazione
questa sempre necessaria, per le ragioni che vedremo.

Esaminiamo prima di tutto il principio di funzionamento di un sensore CCD, sia


esso usato su una camera CCD tradizionale, o su una webcam, o su una digicam
(il principio è quasi simile anche per i sensori CMOS). “CCD” sta per Charge
Coupled Device, dispositivo ad accoppiamento di carica, ed è composto da una
griglia di elementi sensibili disposti in file e colonne, detti pixel (picture element),
dalle dimensioni di pochi micron. Maggiore è il numero dei pixel, maggiore sarà
il potere risolutivo (e quindi la nitidezza) dell’immagine, e ovviamente maggiore
sarà il costo...
Immaginiamo (molto schematicamente) ogni pixel come una piastrina di composti di
silicio sensibile alla luce, sotto la quale si trova una specie di serbatoio
elettronico. Quando un fotone colpisce la superficie sensibile, viene liberato un
elettrone dall’atomo eccitato dal fotone stesso; tale elettrone potrà vagare
per brevi istanti, ma è destinato prima o poi a ricombinarsi con qualche atomo.
Se però all’elemento sensibile si applica una opportuna tensione di polarizzazione,
l’elettrone viene attratto nel serbatoio; ulteriori fotoni provocheranno lo
sgancio di altri elettroni che si cumuleranno nel serbatoio fintantoché le tensioni
di polarizzazione rimangono costanti. Per tutto questo tempo (equivalente al
tempo di posa di una macchina fotografica) ogni elemento del CCD continua ad
accumulare elettroni in modo proporzionale alla luce ricevuta (non continuerà
all’infinito, perché prima o poi raggiungerà la saturazione, dato che i “serbatoi” di
ogni sensore hanno una capacità massima che varia da un tipo di sensore
all’altro).
Al termine della posa, occorrerà “contare” in qualche modo gli elettroni
accumulati in corrispondenza ad ogni pixel.
In effetti, l’immagine ottenuta è una mappa di numeri, i cui valori dipendono dalla
gamma dinamica del convertitore Analogico/Digitale: se il convertitore è a 8
bit, si possono avere livelli da 0 a 255; se è a 12 o 14 bit, i livelli andranno da
0 a 4095 o 16383, etc. Maggiore è il numero di bit della campionatura,
migliore sarà la qualità dell’immagine e la sua gamma dinamica; sarà però anche
maggiore il tempo necessario per la sua “lettura”, e l’immagine occuperà poi una
maggior quantità di memoria.

Mentre le camere CCD, così come le macchine fotografiche digitali, sono


progettate per effettuare riprese di singole immagini, con tempi di posa anche
lunghi, le webcam sono progettate per generare sequenze di immagini in
movimento, con una cadenza che generalmente va da 5 a 30 fotogrammi al
secondo. Il che implica che il tempo di posa di ogni immagine può al massimo
essere poco meno di 1/5 di secondo (poco meno perché dal tempo di posa teorico
calcolato in base alla velocità di ripresa occorre sottrarre il tempo di lettura, o
readout time).
Volendo usare una webcam in astronomia, si possono seguire due strade:
“catturare” singoli fotogrammi durante la ripresa (alcune webcam prevedono
normalmente tale opzione, altre possono farlo mediante opportuni software di
gestione), oppure registrare un filmato, generalmente in formato .AVI
(Audio/Video Interleave, è lo standard video di Windows) da cui estrarre in un
secondo tempo uno o più singoli fotogrammi mediante appositi programmi.
In entrambi i casi, dato il tempo di posa relativamente breve, le possibilità di uso
sono limitate ad oggetti molto luminosi (Luna, Marte, Giove, Saturno, oppure il
Sole attraverso adeguati filtri).
Per migliorare la qualità delle immagini è possibile, mediante appositi programmi,
combinare uno o più fotogrammi “sommando” i livelli dei vari pixel. Ovviamente, il
processo di somma (in inglese “stacking”) deve avvenire tra immagini tutte
rigorosamente a registro tra di loro per evitare “strisciate”, quindi occorre che
durante la ripresa degli N fotogrammi da sommare il nostro soggetto non si
muova (ma questo vale anche per riprese a lunga posa con camere CCD o
fotografiche).
I vantaggi di tale tecnica sono molteplici: oltre a rendere possibili sintetizzare
pose relativamente lunghe, la somma ha soprattutto l’effetto di migliorare il
rapporto segnale/rumore dell’immagine risultante, in quanto il soggetto viene
sommato linearmente, mentre il rumore di fondo, di natura stocastica, viene in un
certo senso “mediato”. Lo stacking può essere effettuato durante la ripresa,
oppure a posteriori; in quest’ultimo caso si ha il vantaggio di poter scegliere,
tra i fotogrammi della sequenza video registrata, solo i migliori, ovviando a
momentanei peggioramenti del seeing. In effetti, soprattutto nel campo della
fotografia planetaria, questa tecnica si è rivelata la migliore in assoluto,
consentendo risultati impensabili fino a pochi anni fa, con immagini che possono
rivaleggiare con quelle dei grandi Osservatori. Tale tecnica viene
vantaggiosamente usata anche con le moderne reflex digitali.

Si possono riprendere soggetti astronomici anche di giorno: in questo caso i


tempi di posa sono generalmente molto brevi, e la foto può essere ripresa a mano
libera. Di notte occorrono tempi di posa molto lunghi, e quindi si può usare un
treppiede, ma… attenzione! La volta celeste ruota, rispetto ad un osservatore,
di 15 primi d’arco (circa metà del diametro apparente della Luna) ogni minuto di
tempo: riprendendo con un obiettivo grandangolare, già dopo 30 secondi le
stelle lasciano una strisciata; con teleobiettivi o telescopi il tempo massimo si
riduce drasticamente, ed occorre allora “inseguire” la volta celeste. Si può
allora effettuare la ripresa attraverso un telescopio motorizzato, oppure
montando la fotocamera col suo teleobiettivo in parallelo (“piggy back”) a tale
telescopio, in questo caso usato solo come supporto di guida.

Tutti i sensori digitali, siano essi CCD o CMOS, presentano una serie di problemi,
legati principalmente alla temperatura, che vanno accuratamente considerati.
Iniziamo dai cosiddetti pixel “caldi” e pixel “freddi”: i primi sono pixel che si
saturano prima degli altri, comparendo come punti bianchi sull’immagine; i
secondi sono invece pixel di sensibilità molto più bassa degli altri, o addirittura
inerti, che compaiono quindi come punti neri.
Essi sono statisticamente sempre presenti, ma solo sulle camere CCD semi-
professionali c’è a volte la possibilità di scegliere, al momento dell’ordine, il grado
di bontà del sensore (pagandolo di conseguenza), mentre negli apparati
commerciali dipende solo da quanto si è fortunati… se ci sono te li tieni.
Il problema dei pixel caldi, ovviamente, è ancora più marcato quando si va su
tempi superiori ai 4-5 secondi.
Esistono però tecniche adeguate per ovviare all’inconveniente effettuando la
cosiddetta sottrazione del dark frame, o immagine di buio. Si effettua una
posa alle stesse condizioni di tempo e temperatura delle altre, ma senza che la
luce raggiunga il sensore, mettendo il tappo sull’obiettivo. L’immagine ottenuta
sarà ovviamente tutta nera, tranne uno o più puntolini bianchi in corrispondenza
dei pixel “caldi”; sottraendo tale immagine da quella normale, i puntolini bianchi
verranno sottratti, annullandosi. Anche alcuni programmi commerciali di
elaborazione di immagini, come Paint Shop Pro o Photoshop, hanno una funzione
denominata “despeckle” che minimizza l’effetto dei singoli pixel anomali mediante
operazioni statistiche che li confrontano con i pixel adiacenti.
Nelle camere CCD tradizionali il rumore di origine termico viene minimizzato
mediante raffreddamento (circolazione di liquido refrigerante, uso di “ghiaccio
secco”, ma soprattutto uso delle cosiddette celle di Peltier che, attraversate da
corrente, raffreddano da un lato e scaldano dall’altro). Fotocamere, webcam
e digicam non sono raffreddate, quindi all’aumentare della temperatura e/o del
tempo di posa il problema è maggiore; occorre quindi effettuare le correzioni di
cui sopra soprattutto nelle notti estive, o in caso di pose molto lunghe.
Altri difetti, come ad esempio la vignettatura, la presenza di granelli di polvere
sul sensore o sulle lenti, impurità dei vetri ottici, disuniforme risposta dei vari
pixel, etc. possono essere eliminati con un’adeguata tecnica di ripresa ed
elaborazione detta “flat field”.
Vediamo ora rapidamente altri tipi di elaborazione delle immagini, e cominciamo
parlando dell’istogramma: esso è un diagramma cartesiano che rappresenta la
distribuzione statistica dei pixel in funzione del loro valore (cioè della loro
luminosità).
Le immagini astronomiche hanno istogrammi molto diversi da quelle convenzionali,
essendo in genere caratterizzate da una predominanza di zone scure con poche
parti luminose. Per sfruttare al meglio la gamma dinamica disponibile, è
possibile effettuare lo stretching, che consiste nel traslare le parti medio scure
dell’istogramma su valori più bassi, e quelle medio-chiare su valori più alti, magari
facendo saturare le immagini delle stelle più luminose pur di evidenziare ad
esempio i bracci a spirale di una galassia.
Non dimentichiamo infatti che, essendo l’immagine composta da “numeri”, è
possibile effettuare su di essa QUALUNQUE operazione matematica.
Un altro potente mezzo di elaborazione è l’applicazione dei cosiddetti filtri
digitali: si tratta di analizzare per ogni pixel tutta la zona adiacente (in
genere un quadrato di 3x3, 5x5 o 7x7 pixels) e modificare il livello del pixel
centrale in funzione della distribuzione statistica dei livelli che lo circondano.
I filtri digitali più semplici sono quelli Passa Basso e Passa Alto, che hanno
rispettivamente l’effetto di rendere l’immagine più morbida o più incisiva.
Altri filtri digitali agiscono in modo non simmetrico, per creare ad esempio
effetti di bassorilievo, o evidenziare particolari dissimmetrie nei nuclei cometari
o nei bracci delle galassie; la loro trattazione è molto complessa, è più facile
imparare ad usarli in pratica agendo per tentativi, piuttosto che spiegarli.
Infine, esiste un’importante tipo di elaborazione statistica, la deconvoluzione.
Il suo uso più frequente è per minimizzare l’effetto della turbolenza atmosferica
quando, durante una lunga posa, i fotoni si disperdono su un’area tanto più ampia
quanto maggiore è la turbolenza stessa.
Scelta una stella nel campo inquadrato, il programma effettuerà quindi una serie
di elaborazioni statistiche iterative, calcolando come modificare a ritroso la
macchia sfocata di dispersione della stella per ottenere un’immagine stellare
quanto più possibile puntiforme, ed applicando la stessa serie di modifiche a tutto
il resto dell’immagine. L’elaborazione complessiva può durare parecchi minuti, a
seconda della potenza del computer, ma i risultati sono in genere notevoli.
Da quanto detto finora, si comprende come le enormi possibilità di manipolazione
delle immagini digitali rispetto alla vecchia pellicola fotografica abbiano decretato
il declino di quest’ultima. L’aumento delle dimensioni dei sensori e del numero di
pixel, l’avvento di sensori sempre più sensibili e con basso rumore, il
miglioramento delle tecniche di elaborazione, fanno sì che la fotografia digitale
possa ormai competere alla pari con quella analogica, avendo dalla sua parte gli
enormi vantaggi di poter operare più rapidamente, valutare subito il risultato, e
cancellare eventuali riprese sbagliate dalla memoria senza sprecare tempo e
pellicola.

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