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I NOMI DELLE STELLE

I nomi delle stelle più luminose del cielo sono legate a miti che risalgono alle radici
della nostra cultura e del nostro pensiero, cioè a quel mondo greco che ancora e
comunque rappresenta la matrice del nostro pensiero e del nostro vivere quotidiano.
La tradizione narra che le stelle furono fissate in cielo dagli dei per ricordare agli
uomini eroiche imprese e furono utilizzate come punti di riferimento nell’alternarsi
della notte e del dì e nel succedersi delle stagioni, utili alla navigazione e ai lavori
agricoli, alla semina e al raccolto. Nella realtà le antiche civiltà hanno cercato di
conoscere i movimenti celesti sia per interpretare la volontà degli dei sia per meglio
organizzare le attività pubbliche e private
Nel linguaggio corrente con il termine stelle si designano i punti luminosi che
popolano la volta celeste, anche se il termine esatto per esprimere questa nozione
generale di corpi celesti è astri.
L'idea che le stelle che vediamo in cielo non siano altro che oggetti simili al Sole
sembra a noi oggi una cosa ovvia, ma in realtà il termine stella è usato, in epoca
classica, per indicare qualsiasi oggetto celeste di cui viene specificata la natura con
un aggettivo (stelle fisse, stelle erranti, cioè i pianeti, stelle comete, stelle cadenti);
ancora Copernico (1472-1543) non riesce a cogliere l'identità tra Sole e stelle. Sono
le osservazioni di Galilei nel XVII secolo a fornire le argomentazioni pratiche
sull'identità Sole-stelle: i pianeti e i satelliti sono corpi che brillano di luce riflessa,
mentre il Sole e le stelle sono corpi che brillano di luce propria.
Ma cosa è una stella?
Le stelle sono oggetti globulari di gas caldissimo, a rigore plasma, tenuti insieme
dalla gravità e in grado di emettere radiazioni elettromagnetiche più o meno intense
in tutte le lunghezze d'onda dello spettro. Gli spettri variano da stella a stella, ma tale
differenza è da imputare non a differente composizione chimica, ma a diversa
temperatura superficiale, per cui a diverso colore corrisponde diversa temperatura
superficiale: O e B bianco-azzurre 10 000° C e oltre, A e F bianche fino a 6000°C, G
gialle intorno 5000-6000°C, K e M arancioni e rosse fino a 4000-3000°C.
Data la comune origine la composizione chimica delle stelle è abbastanza uniforme:
gli spettri di assorbimento mostrano che H (decisamente il più abbondante, infatti
costituisce il 50-75% della materia totale) ed He rappresentano dal 96 al 99% della
massa della singola stella, il resto è suddiviso tra gli altri elementi che gli astronomi,
genericamente, definiscono metalli.
E' bene ricordare che l'analisi spettroscopica fornisce la composizione chimica
dell'atmosfera stellare (gas situati al di sopra della superficie stellare), infatti nessun
esame è possibile per gli strati interni.
Oggi sappiamo che tutte le stelle sono dotate di un movimento, detto moto proprio
(arco descritto nella volta celeste nel volgere di un anno), la cui velocità è in genere
tanto maggiore quando più l'oggetto è vicino a noi. Anche la stella Sole presenta un
moto proprio: si muove alla velocità di circa 20 km/s verso la costellazione di Ercole,
apice del moto solare (per un osservatore esterno tutto il Sistema solare descrive nello
spazio una traiettoria di tipo elicoidale).

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L'energia prodotta nel nucleo di una stella, a seguito delle reazioni di fusione, è
liberata all'esterno e noi l'apprezziamo attraverso la sua luminosità. Più una stella è
grande, maggiore è la sua superficie e quindi la quantità di luce emessa: la diversa
luminosità dipende pertanto dal raggio (che è possibile calcolare se si conosce la
luminosità assoluta).
La semplice osservazione del cielo a occhio nudo mostra che le stelle hanno
splendore diverso, questo non vuol dire solo che hanno dimensioni diverse, ma anche
che si trovano a distanze diverse da noi.
Ipparco nel II secolo a.C. compila un catalogo di circa un migliaio di stelle (1087),
di cui fornisce posizione reciproca e stima dello splendore e le suddivide in sei ordini
(grandezze) ponendo nella prima classe le più splendenti (Sirio, Vega) e nella sesta le
più deboli, appena visibili ad occhio nudo; le altre sono disposte in classi intermedie
con il criterio che, passando da una classe all'altra, l'occhio giudichi sempre uguale la
differenza di splendore.
Dopo l'introduzione, ad opera di Galilei nel 1610, del telescopio nella pratica
astronomica la scala delle grandezze si allunga, ma solo nella metà del secolo XIX
con l'affermarsi dell'uso del fotometro (strumento capace di misurare il flusso
luminoso di una stella) è possibile tarare in modo preciso lo splendore di un astro.
Nel 1857 l'astronomo inglese Pogson scopre che fra le classi di Ipparco che
differiscono di un'unità vi è la differenza di splendore di 2,5 volte; pertanto fra stelle
di prima e di sesta grandezza esiste una differenza di 1001.
Attualmente non si usa più il termine grandezza, ma quello di magnitudine come
stima della luminosità apparente degli oggetti (parametro che tiene conto dello
splendore e della distanza delle stelle); la scala delle magnitudini contempla numeri
negativi (per il Sole abbiamo una magnitudine apparente di –26,8 e una magnitudine
assoluta di 4,8).
La massa di una stella è un parametro di difficile valutazione, solo misurando la forza
di attrazione su un qualsiasi altro corpo vicino è possibile conoscerla. E' stato così
possibile misurare la massa del Sole (2  1030 kg, valore utilizzato come unità di
riferimento per le masse stellari) e di oggetti che formano i sistemi binari (due stelle
che orbitano intorno ad un baricentro comune).
Si ritiene che la massa possa variare da 0,08 masse solari (nane brune in cui la massa
non è tale da innescare le reazioni nucleari) a 100 masse solari; le stelle più comuni
sono quelle di piccola massa, cioè inferiore alle 2,5 masse solari (le stelle della
sequenza principale variano in un intervallo compreso tra alcuni decimi e 20 masse
solari). Anche il raggio di una stella è difficile da calcolare, in quanto tali oggetti si
presentano all'osservazione telescopica sempre puntiformi; solo recentemente è stato
possibile misurare tale parametro per alcune supergiganti a noi vicinissime.

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Questo fatto dipende dalle caratteristiche del nostro occhio e nel 1860 Weber
e Fechner chiarirono la relazione che esiste, nel vivente, tra sensazione e stimolo: la
sensazione (la risposta dell'organo) è proporzionale al logaritmo dello stimolo (la
sensazione varia in progressione aritmetica, 1+q, mentre lo stimolo cresce in
progressione geometrica, 1q).

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I raggi stellari possono variare moltissimo, da alcune migliaia di volte quello del Sole
(700.000 km circa di raggio) a 5-10 km. Questo fatto ci dice che i volumi delle stelle
possono essere enormemente diversi, mentre già sappiamo che le masse non lo sono
poi tanto: pertanto è la densità della materia stellare a variare in modo incredibile.
La vita di una stella è correlata in modo inversamente proporzionale alla massa:
maggiore è la massa minore è la durata di una stella.
Molti sono i nomi di astri e costellazioni creati in ogni epoca; ma se si eccettuano i
dintorni del polo celeste australe e pochi piccoli asterismi, si può dire che la mappa
del cielo dei tempi moderni è stata in gran parte costituita già dall’antichità classica.
Quello che più colpisce quando si considerano le diverse figure che popolano la sfera
celeste è l’aspetto eterogeneo (orientati in tutti i sensi anche capovolti) di questi
assembramenti di esseri o di oggetti così diversi: molto probabilmente queste figure
sono state create in epoche diverse e da popoli diversi.
La maggior parte delle stelle e delle costellazioni ha nomi che rivelano una mentalità
popolare, più istintiva che razionale, nomi che appartengono alla sfera della vita
quotidiana delle civiltà antiche: l’oggetto celeste non è percepito tanto per se stesso,
quanto per la visione che gli uomini ne hanno.
Molti nomi, ancora utilizzati ai nostri giorni, provengono da un’età molto arcaica,
sicuramente anteriore a ogni forma di espressione scritta. In mancanza della
possibilità di precisare le nomenclature primitive, possiamo comunque almeno
risalire al di là del periodo ellenico. E’ certo che una gran parte della carta celeste è
già costituita prima della guerra di Troia probabilmente avvenuta nel 1250 a.C.
altrimenti i suoi eroi sarebbero stati eternati sulla sfera celeste.
Occorre molta fantasia per riconoscere nel cielo le figure evocate dai nomi ma
sussiste in generale una certa rassomiglianza per giustificare questa o quella
denominazione, soprattutto se si considerano i cieli più limpidi del mondo antico.
Una prima categoria di denominazioni (la più importante) proviene dal mondo
pastorale, agricolo e marino, una seconda categoria più tarda rivela l’intervento di
gente di cultura, sacerdoti e poeti, e i nomi delle costellazioni si cominciano a
caricare di significati simbolici, mitici ed astrologici.
Secondo Le Boeuffle possiamo distinguere tre tappe nella scoperta della volta
celeste: all’inizio sono prese in considerazione e denominate le stelle molto luminose,
un astro isolato viene assimilato, lui solo, ad un vivente o a un oggetto terrestre. Poi
le configurazioni meglio riconoscibili attirano l’attenzione e sono concepite come
entità unitarie (se Omero si interessa soprattutto alle stelle, Esiodo parla piuttosto di
costellazioni). Infine, in una terza fase, un esame più approfondito conduce a
dettagliare gli elementi di queste figure e a compilare un catalogo delle principali
stelle che le formano: si dice quindi che la tale stella è situata sulla spalla destra del
tale personaggio celeste, tale altra sulla sua mano sinistra, o sul suo ginocchio destro,
e così di seguito.
Queste tre tappe si rivelano chiaramente nella costellazione dei Gemelli. Gli
osservatori inizialmente considerano due astri brillanti (le future  e  ) che, a
seconda dei paesi, sono assimilati a tutto ciò che va a coppie. Poi i cartografi greci
raggruppano queste due stelle con le loro vicine in un disegno rappresentante due
personaggi umani molto spesso considerati come i figli di Zeus e Leda (oltre ad altre
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interpretazioni mitologiche come Apollo e Eracle, fratelli ma non gemelli) e infine i
nomi di Castore (1,6 bianco-azzurra) mortale e Polluce (1,1 gialla) immortale
vengono riservati alle stelle situate sulla testa di ciascuno dei due Gemelli.
Un altro esempio significativo di questa evoluzione ci viene fornito dalla
designazione della Grande Orsa. I popoli indoeuropei vedono nelle sette stelle
un’orsa (quadrilatero , , , ) seguita dai suoi tre cuccioli (le stelle , , η), un
quadretto adatto alla mentalità di un popolo di cacciatori. La denominazione greca fa
invece apparire una concezione più astratta della figura attraverso l’eliminazione
degli orsetti, infatti già in Omero è designata come l’Orsa: il quadrilatero non forma
più che il corpo dell’orsa, la testa viene cercata a NW, tra le stelle meno brillanti, le
zampe si estendono verso S e la coda ha dimensioni poco naturali al fine di inglobare
l’allineamento di stelle ad E (Hood nel 1500 spiega l'enigma della coda). I greci
l’hanno anche denominata elica o spirale, a causa del suo movimento rotatorio
attorno al polo boreale, movimento il cui raggio, tre o quattromila anni fa, era minore
di oggi.
Il mondo romano chiama queste sette stelle Septem Triones, “i sette buoi”:
l’immaginazione popolare ha probabilmente comparato i sette astri impegnati in una
lenta rotazione intorno al vicino polo, a sette buoi che girano in cerchio su un’aia per
battere il grano. Presso i Babilonesi questa costellazione è stata interpretata come un
carro a quattro ruote, formato dal quadrilatero già visto, mentre le tre stelle in linea
che lo precedono ad E suggeriscono un tiro di tre cavalli o, più spesso, di tre buoi, la
cui pesante marcia meglio si paragona al lento spostamento della costellazione
intorno al polo.
Quanto al conduttore, esso è Arturo2 (0.0 arancione), l’astro che brilla non lontano di
una vivida luce rossa ed appartiene alla costellazione del Bovaro: esso è, a seconda
delle diverse concezioni del vicino asterismo, sia il conduttore del Carro, sia il
guardiano dell’Orsa (dal greco guardiano), nel senso che si guarda da essa per
proteggere la sua mandria, rappresentata dalle altre stelle della costellazione, dagli
attacchi del feroce animale (nel III millennio era circumpolare).
Nei nomi delle stelle, sempre secondo Le Boeuffle, possiamo trovare i riflessi
dell’arcaica società patriarcale fortemente gerarchizzante; in diverse regioni della
sfera celeste si hanno associazioni di una singola stella brillante con un gruppo vicino
con cui formare un quadro coerente.
Il raggruppamento di una stella luminosa (la futura Aldebaran (1.0 rossa) del Toro)
e di alcune altre più deboli ha potuto suggerire all’immaginazione antica il quadretto
rustico di una scrofa accompagnata dai suoi maialini (in greco Hyades 3, e in latino
Suculae, maiale).

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E’ stata la prima stella a essere osservata con il telescopio di giorno nel 1635
da Morin, astronomo di corte di Luigi XIV. Nel 1933 un suo raggio è stato utilizzato
per spegnere le luci della Fiera Mondiale del Progresso di Chicago, perché 40 anni
prima si era tenuta la precedente Fiera e si riteneva che Arturo fosse distante 40 anni-
luce da noi (in realtà 37).
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Circa 200, distanti 150 al e formatesi circa 600 milioni di anni fa.
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L’ammasso delle Pleiadi (circa 300, 400 al) è talora concepito come una gallina (la
stella  coi suoi pulcini (in molti paesi i contadini le chiamano ancora le
“Gallinelle”), oppure come un volo di colombe (in greco Peleyàdes). Altre possibili
derivazioni sono da pleos, abbondante, o da pleo, navigare (la prudenza suggeriva ai
marinai di navigare soltanto quando le Pleiadi brillavano in cielo, cioè dalla
primavera all’autunno “ …venti violenti di ogni tipo infuriano quando le Pleiadi,
inseguite dall'impetuoso Orione, si tuffano nel mare scuro…Esiodo). Questo gruppo
di stelle è visto come una costellazione, sarà Tolomeo ad accorparlo al Toro.
Molto antica e sicuramente collegata ad un mondo di cacciatori è la costellazione del
Leone, già nota nel mondo babilonese, infatti scavi archeologici hanno trovato in
Armenia tavolette della fine del IV millennio a.C. rappresentanti tale costellazione.
Stranamente costante è la tradizione che conferisce attributi regali alla sua stella più
luminosa, Regolo ( 1,4 bianco-azzurra): nel mondo mesopotamico è il Re della sfera
del cielo, per gli ebrei è la Stella di David, per i greci , il piccolo re. E’
curioso constatare che il nome latino Regulus non è mai stato utilizzato dai romani, e
non è attestato che a partire dall’epoca di Copernico.
La α del Cane, Sirio (dal greco sfavillante, che fa inaridire, -1,5 bianca) o Canicula,
perché essa sola all’inizio ha tale nome, accompagna il gigante cacciatore Orione, la
scena di caccia è completata dalla rappresentazione di una Lepre in fuga (la
disposizione delle stelle suggerisce un animale dal corpo allungato e dalle orecchie
dritte).
Nel cielo appare un altro quadro rustico: la Capra, Capella (0.0 gialla), ed i Capretti
( e η Aur) che formano la costellazione dell’Auriga. Come è possibile collegare
un conduttore di carri con capre e capretti? Probabilmente in origine doveva esistere
presso un popolo la rappresentazione di una capra con i suoi piccoli, mentre altrove
nella stessa regione della volte celeste veniva rappresentato un carro, il cui conduttore
era identificato con la stella più brillante. Quando le due immagini sono entrate in
concorrenza, si è cercato di amalgamarle: l’insieme delle stelle della costellazione
suggerisce una forma umana, e il Cocchiere smette di essere assimilato alla sola stella
principale, anche se purtroppo perde il suo carro e guadagna capra e capretti...
Un analogo conflitto tra differenti rappresentazioni dello stesso complesso di stelle si
manifesta anche a proposito del gruppo dei due Asini (Aselli) e del Presepio, quadro
immaginato evidentemente da una società pastorale, ma al quale si è sovrapposta una
figura eterogenea, quella di un granchio o di un gambero, la costellazione del
Cancro. Gli asini sono così divenuti le stelle  e  Can.
Oltre a queste designazioni c’è un’altra categoria nata dall’immaginazione dei
marinai o quanto meno dei pescatori (“Il navigatore numerò e nominò le stelle” dice
Virgilio nelle Georgiche).
E’ certamente il caso della costellazione del Delfino (di origine fenicia, mentre per i
Babilonesi è un maiale), o di quella dei due pesci zodiacali, Pesci, da non confondere
con il Pesce Australe inizialmente rappresentato da una sola stella brillante che gli
Arabi più tardi chiamano Fomalhaut, “la bocca del pesce”, che sembra bere l’acqua
dell’Acquario.

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I marinai si orientano mediante le costellazioni polari, che servono loro da bussola
durante le traversate notturne. E’ luogo comune presso gli scrittori greci e latini
ricordare che i fenici si orientano mediante l’Orsa Minore, più raccolta su sé stessa e
più vicina al polo (Seneca in Medea, 696: “la Grande conviene ai Pelasgi, la Piccola
ai Sidonii”).
Tra queste immagini ben delimitate sussistono lungo linee sinuose: esse sono
assimilate dallo spirito popolare a rettili o a correnti d’acqua e così abbiamo il
Dragone4 polare, l’Idra vicina all’equatore celeste, il Serpente tenuto dal
Serpentario, il fiume Eridano e le correnti d’acqua che fuoriescono dall’urna
dell’Acquario.
In questo stadio della carta celeste vediamo già costituito un grande affresco di
personaggi e di animali, orientato principalmente verso la guerra e la caccia. Questa
carta celeste non ha nulla di astratto e non si limita a degli allineamenti geometrici,
ma appare come una vasta pantomima in cui ognuno ha il suo posto.
Ed ecco le costellazioni volute dai sacerdoti, Ara (dalla quale pare uscire il fumo
dell’incenso, rappresentato dalla Via Lattea), e dai sapienti, il Triangolo.
Gli antichi non ignorano la nebulosa di Andromeda (M 31), ben visibile ad occhio
nudo. Noi abbiamo conservato un unico testo che vi fa allusione: “...che delle nubi
leggere serrano le sue braccia in nodi complicati”, Avieno IV secolo d.C.,
Fenomeni di Arato). La nebulosa viene poi riscoperta da As-Sufi nel X secolo
(pubblica un catalogo di 1018 stelle con la rispettiva magnitudine non copiata da
Tolomeo ma revisionata) e nel 1612 da Simon Mayer.
Cortigiani creano nuove costellazioni: la Chioma di Berenice, immaginata
dall’astronomo Conone per compiacere la sua sovrana, sposa di Tolomeo III
Evergete (247-222 a.C.) citata da Eratostene ma riconosciuta ufficialmente da Brahe,
o l’asterismo di Antinoo (ribattezzato solo nel 1922 nella costellazione dell’Aquila),
inventato per consolare l’imperatore Adriano (76-138 d.C.) per la morte del suo
giovane favorito.
Tutte queste figure danno origine ad un vero e proprio genere letterario, nel quale
viene descritta questa raccolta di immagini, come in un’opera d’arte: è la letteratura
dei Catasterismi5 di Eratostene III secolo a.C., della Astronomia di Igino I d.C. e
delle Metamorfosi di Ovidio I secolo a.C./d.C. Questi racconti eroici servono da
meraviglioso alibi, dispensando i loro autori (e anche i loro lettori) da qualsivoglia
spiegazione scientifica.
La scoperta di una nuova stella nello Scorpione, nel 134 a.C., spinge Ipparco a
realizzare, nel corso degli anni successivi, un catalogo di stelle (cfr. Plinio) che
purtroppo non ci è pervenuto. Prima di lui, Eratostene ne ha redatto uno contenente
solo 710 stelle e che ci è noto solo attraverso l’Astronomia di Igino.

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La alfa è Thuban (3,7), il dragone o testa del dragone, ma ci sono altre 5 stelle
più luminose nella costellazione. Quella più splendente è γ o Eltanin (2,2) il
dragone.
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Questo termine deriva da un verbo greco che significa collocare tra gli astri. Di
questa opera abbiamo solo un riassunto di cui non sappiamo neanche l’epoca;
secondo alcuni studiosi l’opera originale non è neanche di Eratostene.
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Il catalogo stellare di Tolomeo è quello di Ipparco, corretto e trasferito al proprio
tempo mediante l’applicazione alle longitudini della costante di precessione. Esso
contiene 1022 stelle disposte in 48 costellazioni (alle 45 di Eudosso aggiunge
Triangolo, Corona Boreale e Bilancia), per ogni stella abbiamo una descrizione della
sua posizione nella costellazione, supposta tracciata su un globo, della latitudine,
della longitudine e della grandezza.
Tolomeo, secondo la consuetudine del mondo greco stabilita da Eratostene e da
Ipparco, non identifica le stelle con un nome proprio, ma descrive la posizione di
ciascuna di esse nella figura ("quella che sta nella radice della coda" per indicare 
Ursae majoris, Aldebaran è "quella rossastra sull'occhio sud") e queste sono
interpretate come vere e proprie figure esistenti nel cielo.
Soltanto poche stelle hanno un nome proprio, denominazioni assegnate da Eudosso
nel IV secolo a.C. e tramandateci da Arato nel III secolo a.C., e precisamente
Arturo, Capella, Procione, Sirio e Vindemmiatrix (il suo sorgere eliaco nel mese
di agosto indicava l’inizio della vendemmia). A questi Tolomeo aggiunge Aetus
(oggi Altair), Antares, Basiliscos (Regolo) e Lira (oggi Vega).
Tutta la scienza astronomica subisce il contraccolpo dei diversi sconvolgimenti
storici che caratterizzano il periodo tra V e VIII secolo: propagazione del
cristianesimo, invasioni barbariche e conquista araba arrestata nel 732 da Carlo
Martello nella battaglia di Poitiers.
Con la diffusione dell’Islam nel bacino del Mediterraneo gli arabi vengono in
contatto con la cultura scientifica ellenistica e con le tradizioni indiane e persiane, le
fanno proprie rielaborandole e la loro supremazia politica trasforma la lingua araba
nel linguaggio predominante nel campo scientifico e quindi astronomico (per quanto
riguarda le stelle fisse la fonte principale è l’Almagesto di Tolomeo): molti nomi di
stelle sono semplicemente la trasposizione in arabo dei nomi antichi, altri rivelano
concezioni differenti e originali.
Gli arabi vedono nel quadrilatero del Grande Carro la bara di un nobile guerriero
trucidato da un assassino (nel Piccolo Carro una piccola bara e nella Polare
l’assassino condannato all’immobilità) e nelle stelle del timone le prefiche che
accompagnano il morto, la prima delle prefiche da cui il nome di Benetnash dato in
particolare alla stella  Uma, che è anche Alkaìd, la capofila. Le altre stelle della
costellazione sono: Dubhé α Ursae majoris il dorso dell’orsa, Mérak β e ζ Ursae
majoris le reni dell’orsa perché i lombi dell’orsa sono due (ζ Ursae majoris viene
detta da Scaligero nel XVI secolo Mizar, cintura di stoffa o grembiule, ma forse
corruzione di Merak), Phecda γ Ursae majoris la coscia dell’orsa, Megrez δ Ursae
majoris l’inizio della coda, Alioth ε Ursae majoris la coda folta. Vicino a Mizar
troviamo Alcor (secondo alcuni termine che deriva dall’arabo cavallo, ma detta dagli
arabi stessi Suha la dimenticata) e il primo che la riporta è Al-Sufi C. indicandola
come un test di acuità visiva (l’espressione araba per indicare una persona grossolana
è: “Gli ho mostrato Suha e costui mi mostra la Luna.”
In Perseo la β è detta Algol, la testa del diavolo, equivalente alla testa della Gorgone
Medusa nella mitologia antica (è una doppia ad eclisse e passa dalla seconda alla
quarta magnitudine in meno di tre giorni, Goodricke 1782). La più luminosa è
Mirfak, il gomito, o Algenib, il fianco, secondo la descrizione di Tolomeo.
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Per arabi Altair (al nasr al tair) è l’aquila volante, la Lira rappresenta l’avvoltoio in
picchiata (al nasr al waki, da cui deriva per semplificazione il nome di Vega),  Tauri
è al dabaram, colei che segue, la damigella delle Pleiadi, appunto Aldebaran.
Il nome Betelgeuse risulta da successive alterazioni e correzioni: è la spalla di al
Jauza, il gigante, nel 1246, Jean de Londres trascrive Bedalgeuse, che nel 1600 con
Giuseppe Scaligero diventa Betelgeuse. Le altre stelle della costellazione sono:
Rigel β Orionis dall’arabo piede, Alnilam ε Orionis dall’arabo filo di perle, Mintaka
δ Orionis dall’arabo cintura, Alnitak ,  Orionis dall’arabo cintura, mentre  Orionis
viene detta Bellatrix, “la guerriera”, in rapporto al nome Bellator dato talvolta ad
Orione; il genere femminile del nome è in accordo col genere del vocabolo stella.
Quando l’Europa viene a contatto con le conoscenze del mondo islamico, preferisce
mantenere i nomi arabi delle stelle sia per la difficoltà della traduzione sia perché, in
tale lingua, appaiano più concisi e immediati.
Alcune stelle ricevono nel corso del Medio Evo, e anche più tardi, nomi latini mai
conosciuti dai romani. In un’epoca imprecisata, la stella principale della Corona
Boreale è chiamata Gemma in riferimento alla rappresentazione della costellazione
sotto forma di una corona ornata di pietre preziose – quella di Arianna nella mitologia
greco-latina.
La prima stella variabile osservata è  Ceti, situata sul collo della Balena: le sue
variazioni sono notate inizialmente da Fabricius nel 1596, e Hevelius, a metà del
XVII secolo, la chiama Mira Ceti.
Altra denominazione latina assai tardiva, è quella della stella  Bootis, che W. Struve
nel XIX secolo qualifica come Pulcherrima, in quanto è formata da una coppia dalla
colorazione squisita: una giallo brillante, l’altra blu marino.
Il cristianesimo marca profondamente la civiltà medioevale in tutti i suoi aspetti, ma
non in cielo che conserva intatta l’impronta del paganesimo antico.
Alla fine del VI secolo Gregorio di Tours (De cursu stellarum) chiama la
costellazione del Delfino Croce minore, e quella del Cigno Croce maggiore e
nell’VIII secolo Beda suggerisce di cambiare i nomi pagani delle costellazioni ma
tale proposta non ha particolare seguito.
L’idea viene ripresa in diverse epoche, e realizzata, con scarsissimo seguito,
principalmente nel XVII secolo sotto l’impulso della Controriforma: i padri gesuiti
Jeremias Drechsel (Zodiacus christianus, Monaco, 1618) e Julius Schiller (Caelum
stellarum christianum, Augsburg, 1627: Boote è San Michele, Orione San Giuseppe,
Perseo san Paolo, Cassiopea la Maddalena, la Nave Argo l’Arca di Noè) modificano
la nomenclatura siderale, in particolare i dodici segni zodiacali, e anche i pianeti
ricevono nomi di santi, o relativi alle Sacre Scritture. Padre Athanasius Kircher
(Itinerarium exstaticum caeleste, 1660) vede nell’Orsa Maggiore il sepolcro di
Lazzaro nel quadrilatero delle stelle , , , , mentre le stelle ,  e  raffigurano
Maria, Marta e Maddalena. Una certa tradizione popolare perpetua alcune
identificazioni cristiane: la Via Lattea è il cammino di Santiago di Compostela, la
Cintura di Orione è conosciuta sotto il nome dei tre Re Magi (in Spagna, le tre
Marie).

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Sulle antiche carte celesti un grande vuoto caratterizza la regione del polo australe
che tra il XV e il XVI secolo le esplorazioni dei navigatori nei mari del sud colmano.
E’ Plancius (1552-1662) cartografo e teologo olandese a incaricare Keyser,
capopilota ed esperto di matematica e astronomia, di osservare il cielo australe
durante la prima spedizione olandese nelle Indie occidentali nel 1595. Egli individua
135 stelle che divide in 12 costellazioni: Ape, Camaleonte, Fenice, Gru, Idra
maschio, Indiano, Pavone, Pesce d’oro, Pesce volante, Triangolo australe,
Tucano e Uccello del Paradiso.
Nel 1598 tutte queste sono incluse nel mappamondo di Plancius. A queste si
aggiunge la Croce del Sud che Andrea Corsali così descrive nel 1516: “Così
leggiadra e bella che nessun altro segno celeste vi può essere paragonato”.
Nel Cinquecento l'impresa di dare un nome ad ogni stella sembra fuori dalla portata
della creatività degli astronomi e nelle mappe celesti pubblicate (Dürer nel 1515) le
stelle vengono indicate con numeri progressivi, sulla base della comparsa nel
catalogo tolemaico che rimane sino a dopo il Medioevo il punto di riferimento.
L’anno 1603 segna una tappa importante nella storia della nomenclatura siderale
perché si pubblica l’Uranometria (circa 2000 stelle) di Jean Bayer, giurista ad
Augsburg, in cui vengono incluse le nuove costellazioni (in più anche la Mosca
introdotta da Bayer stesso) e le stelle sono posizionate secondo la descrizione di
Tolomeo e di Brahe.
Una prima novità riguarda la designazione delle stelle non più in base al posto
occupato nella costellazione ma in base al loro splendore. Alla stella più splendente
di ciascuna costellazione è assegnata la prima lettera dell'alfabeto greco, esaurito
l'alfabeto greco minuscolo si passa a quello latino minuscolo e solo in rari casi si
arriva alle cifre arabe, alla sigla si aggiunge il nome latino al genitivo della
costellazione; nel caso di stelle con apparente luminosità uguale si procede dall’alto
al basso. L'ordine di splendore non sempre è seguito rigorosamente, talvolta la
successione delle lettere segue l'allineamento della figura mitologica. Bisogna
sottolineare che Bayer applica la sua nuova nomenclatura solo alle costellazioni
tolemaiche, sarà Lacaille nel 1763 a classificare anche quelle australi.
La seconda innovazione sostanziale riguarda la rappresentazione del cielo non più
come visto da Dio, cioè dall’esterno, ma come realmente ciascuno di noi lo
percepisce dalla Terra, all’interno dell’immaginaria sfera celeste.
E’ doveroso ricordare che l’arcivescovo Alessandro Piccolomini già nel 1561
nell’opera “Della sfera del mondo e delle stelle fisse” introduce le lettere
dell’alfabeto latino per identificare in ciascuna costellazione e in ordine di luminosità
le stelle: questa innovazione non ha successo e ancora oggi noi utilizziamo le lettere
greche per designare le stelle in una costellazione.
Nel 1613 Plancius osservando alcune stelle poco luminose nell’emisfero Nord
propone 7 nuove costellazioni di cui solo 3 sono oggi accettate, Colomba, Giraffa
Unicorno.
Il 1609 segna una vera e propria svolta nell’astronomia: Galileo (1564-1642)
rivolge per primo verso il cielo il cannocchiale da lui costruito e in grado di
ingrandire otto volte. Non sappiamo esattamente a chi si deve l’invenzione del
cannocchiale, ma una leggenda attribuisce tale scoperta a un gruppo di ragazzi
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olandesi che, verso il 1607, giocavano con delle lenti di ingrandimento. Pare che un
fisico italiano, G. B. Porta, avesse già scoperto il principio dello strumento verso il
1590, ma si ritiene che questi cannocchiali rudimentali venissero utilizzati solo in
ambito militare e quindi fossero protetti da segreto (nulla di nuovo sotto il cielo!).
Grazie al cannocchiale il rilievo della Luna si manifesta progressivamente agli
sguardi degli astronomi: nel XVII secolo sono gli italiani Riccioli e Grimaldi che
stabiliscono la nomenclatura delle formazioni lunari, trasformando il nostro satellite
nel “cimitero degli astronomi e Pantheon dei sapienti” e utilizzando per le montagne i
toponimi terrestri. Quanto ai mari, quelli visibili al Primo Quarto hanno nomi
favorevoli, mentre quelli visibili all’Ultimo Quarto nomi inospitali.
Il cannocchiale rivela un numero sempre crescente di stelle e questo spinge gli
astronomi a immaginare nuove costellazioni.
Tra il 1660 e il 1680 il polacco Hevelius (non utilizza mai il telescopio e ottiene
nelle sue osservazioni la precisione di un minuto d’arco, migliorando i due minuti di
Brahe, già notevole rispetto ai precedenti 10’’) propone nuove costellazioni per
riempire i vuoti del cielo boreale e presenta un catalogo accompagnato da un atlante
(Firmamentun sobiescianum, 1690) da lui stesso inciso e pubblicato postumo
contenente 1500 stelle. Delle 11 costellazioni proposte ne restano 7: il Piccolo Leone
(in cui gli Arabi vedevano una gazzella con i suoi piccoli) e la Lince a sud della
Grande Orsa, la Piccola Volpe tra il Cigno e la Freccia, i Cani da Caccia, la
Lucertola tra Andromeda e il Cigno, il Sestante. E la settima? Non appena il re di
Polonia Giovanni III Sobieski gli attribuisce un vitalizio ecco che appare in cielo lo
Scudo di Sobieski, gruppo di stelle presso l’Aquila e il Serpente.
Halley nel 1667 per onorare re Carlo II, suo protettore, denomina la stella  dei Cani
da Caccia Cor Caroli. Un esempio di nomenclatura senza successo è quello di
Weigel che pubblica a Jena nel 1688 il Caelum Araldicum, in cui vede nelle
costellazioni le rappresentazioni degli stemmi appartenenti alle più illustri famiglie
d’Europa: l’Aquila diviene l’Aquila di Brandeburgo, la Grande Orsa l’Elefante di
Danimarca, il Bovaro il Giglio, Orione l’aquila bicefala, lo Scorpione un cappello da
cardinale, etc.
Nel 1725 si pubblica postumo Historia coelestis britannica di J. Flamsteed, primo
direttore dell’osservatorio di Greenwich, in cui sono descritte circa 3000 stelle con
una notevole precisione e 4 anni dopo esce Atlas coelestis in 25 carte in cui le stelle
di ogni costellazione sono elencate in ordine di ascensione retta (da W a E).
Non è stato però lui ad introdurre il sistema numerico che noi oggi chiamiamo numeri
di Flamsteed: de Lalande pubblicando nel 1783 l’edizione francese dell’Historia
coelestis britannica aggiunge una colonna dove indica le stelle di ogni costellazione
con numeri consecutivi secondo l’elenco di Flamsteed.
L’abate de Lacaille, durante un soggiorno a Città del Capo tra il 1751 e il 1754,
redige un catalogo di circa 10 000 stelle delineando 14 nuove costellazioni australi:
l’Atelier dello scultore, la Bussola, il Bulino, il Compasso, la Squadra o Regolo, il
Forno Chimico, l’Orologio, la Macchina Pneumatica, il Microscopio, l’Ottante, il
Reticolo, il Telescopio, la Montagna della Tavola, in onore all’omonimo rilievo
che domina Città del Capo e divide la Nave Argo in tre parti, Poppa, Carena e Vela.

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Troviamo ancora qualche creazione siderale nel corso del XVIII secolo ma non
hanno fortuna e vengono successivamente dichiarate obsolete.
De Lalande non ha successo con l’invenzione di 5 costellazioni, tra cui il Quadrante
Murale tra il Bovaro e il Dragone (da notare che in tale zona è situato il radiante di
uno sciame meteorico detto delle Quadrantidi, visibile all’inizio di gennaio).
Bode direttore dell’osservatorio di Berlino pubblica nel 1801 la sua Uranographia,
che è uno degli ultimi atlanti illustrati nello stile antico e contenente 108
costellazioni: esso rappresenta tutte le stelle visibili ad occhio nudo, cioè fino alla
sesta magnitudine in totale 17 000.
E’ decisamente un cielo affollato dove trionfa la fantasia umana!
In tutti questi atlanti però variano continuamente i confini tra le varie costellazioni e
nel 1922 la Unione Astronomica Internazionale approva nella sua prima assemblea
l’elenco delle attuali 88 costellazioni e incarica il belga Delporte di tracciare una lista
definitiva dei loro confini pubblicata poi nel 1930.
Ho parlato di tante stelle ma non ancora della stella per definizione e nota a tutti, ma
si sa… le prime donne si fanno sempre attendere!
La stella Polare, Polaris (cefeide periodo di 4 giorni, 2,1/2,2 –700 supergigante
gialla, doppia fisica compagna 9), è anche nota come Cynosaura, nome di origine
fenicia che significa coda del cane, presso i babilonesi era detta Carro del cielo e
nell’alta valle dell’Eufrate si chiamava l’Alta sfera, per gli arabi, che vedono la sfera
celeste come una macina rotante e il polo nord il foro in cui gira l’asse del mulino, è
il foro del piolo del mulino, mentre per Schiller è l’arcangelo Gabriele.
Precessione luni-solare e precessione degli equinozi.
Polare non è fissa ma descrive in 25 765 anni una circonferenza di 47° di diametro
intorno all’asse perpendicolare al piano dell’eclittica. Nel III millennio il polo non è
lontano dalla stella principale del Dragone,  o Thuban, all’inizio del I millennio
a.C. la stella più vicina al polo è  Draconis, poi il polo si trova a metà distanza tra 
Ursae minoris e  Draconis, ma lo stesso Igino nel IV secolo d.C. afferma che la
Polare è situata all’inizio della coda dell’Orsa Minore (si tratta di  Umi).
Ai nostri giorni il polo è a circa 50’ dalla stella  Ursae minoris, nel 2102 si troverà
alla minima distanza di 27’ 31’’ da essa e poi la distanza aumenterà, ma nessuna si
avvicinerà al polo come l’attuale Polare.
Oggi il numero delle stelle è aumentato e aumenta in modo vertiginoso. Sono così
stati redatti cataloghi, comprendenti anche gli astri che hanno un grado di
magnitudine oltre la decima, nei quali si usa indicare ogni stella con un numero, che
corrisponde a quello d'ordine, e con la sigla o con il nome del catalogo (SAO, BD,
HD, Hypparcos, Tycho, Ross, Wolf, ecc..).
 Prodromus Astronomiae – 1553 stelle elencate e pubblicate nel 1690 da J.Hevelius.
 Historia Coelestis Britannica – 3310 stelle catalogate da J.Flamsteed, e successivamente
numerate progressivamente per costellazione dall'astronomo J.Lalande, nel 18° secolo, che
avrebbe così introdotto il sistema di nomenclatura stellare basato sui numeri.
 Bonner Durchmusterung - pubblicato nel 19° secolo da F.Argelander, riporta oltre 450
000 stelle, comprese fra il PNC ed i -23°, che vengono indicate con la sigla BD, seguita dal
grado di declinazione corrispondente e dal numero d'ordine (BD +40°1000).

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 Henry Draper Catalogue - compilato dall'osservatorio di Harvard ai primi del '900, riporta
oltre 225 000 stelle classificate secondo il tipo spettrale di appartenenza (HD più numero
d'ordine);
 General Catalogue - redatto nel 1936 da L.Boss, riporta 33 000 stelle fino alla 7 a
magnitudine (GC più numero d'ordine);
 Catalogue of Bright Stars - pubblicato nel 1964 dallo Yale Observatory, elenca tutte le
stelle più brillanti fino alla 6a magnitudine.
 SAO Catalogue - pubblicato nel 1966 dallo Smithsonian Astrophysical Observatory,
contiene 259 000 stelle fino alla 9a magnitudine.
 Hipparcos stilato sulla base dei risultati ottenuti dalla missione dell'omonimo satellite
dell'ESA, contiene dati di posizione di 120 000 stelle e di 40 000 fra variabili e doppie.
 Tycho dati derivanti dalla missione Hipparcos dell'ESA (1989-1993) sulla posizione,
magnitudine ed indice di colore di oltre 1.000 000 di stelle.
 Tycho 2 oltre 2 000 000 fino alla magnitudine 12.
 HST Guide Star Catalog con 19 000 000 fino a magnitudine 15.
 USNO (U.S. Naval Observatory) con oltre mezzo miliardo di stelle fino a magnitudine 20
Per l'individuazione delle stelle sono complementari ai cataloghi stellari le diverse
mappe celesti stilate nel corso degli ultimi secoli, le più recenti delle quali
permettono a tutt'oggi di rintracciare con precisione, non solo le stelle più brillanti,
ma anche quelle visibili solamente con strumenti ottici. Le prime raffigurazioni della
sfera celeste sono incisioni su globi di marmo, ma dall'epoca rinascimentale in poi si
adottano carte piane, riportanti in scala le posizioni delle stelle, sino ad arrivare ai
giorni nostri con le dettagliate mappe fotografiche ottenute dai grandi telescopi degli
osservatori astronomici.
 Uranometria - pubblicato da Bayer nel 1603, comprende 48 carte celesti (una per ognuna
delle costellazioni allora esistenti) con tutte le stelle fino alla 6 a magnitudine che vennero
indicate con le lettere dell'alfabeto greco, in ordine decrescente di luminosità, a partire dalla
più brillante indicata con la prima lettera, Alfa.
 Uranographia - pubblicato nel 1687 da Hevelius, era composto da 56 carte celesti.
 Atlas Coelestis - 28 carte del cielo boreale redatte da Flamsteed e pubblicate nel 1729.
 Uranographia di Bode pubblicata nel 1801, l’ultimo e il più bello degli atlanti stellari
vecchio stile (sono raffigurate oltre a cento costellazioni, oggi 88), con oltre 17 000 stelle.
 Bonner Durchmusterung - 65 carte celesti, redatte da F.Argelander nella seconda metà
del 19° secolo, che si rifanno all'omonimo catalogo stellare.
 Uranometria Argentina - 14 carte del cielo australe pubblicate nel 1879, e comprendenti
quindi le stelle fino alla 7a magnitudine comprese fra -23°lat S ed il PSC.
 Atlas of the Heavens del cecoslovacco A. Becvar che riporta il cielo del 1950 fino a
magnitudine 7,5.
 SAO Atlas - redatto dallo Smithsonian Astrophysical Observatory, consiste in 152 carte
celesti comprendenti tutte le stelle dell'omonimo catalogo.
 Palomar Sky Survey - atlante fotografico redatto dall'osservatorio di Monte Palomar nel
1951, comprendente 1870 carte celesti riportanti tutte le stelle fino alla 21a magnitudine e
comprese fra il PNC ed i -33° di declinazione.
 ESO-SRC Sky Atlas - pubblicato dall'ESO (European Southern Observatory) negli anni
'70, è un atlante fotografico del cielo australe composto da 606 carte celesti che riportano
tutte le stelle fino alla 23a magnitudine che si trovano comprese fra i -17° di declinazione ed
il PSC.
 SkyAtlas2000.0 con 43 000 stelle fino a magnitudine 8 e 2500 oggetti di profondo cielo
pubblicato nel 1981.

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