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Volendo dare una definizione, si può dire che la fotografia è qualsiasi sistema che
permetta di convertire, in modo più o meno permanente e visibile, immagini prodotte su
supporto con l’azione di radiazioni ultraviolette e infrarosse.
La sostanza chimica che, per le sue doti di fotosensibilità, è stata più usata è l’argento in
alcuni suoi composti come il nitrato d’argento.
MATERIALE SENSIBILE
Catturare la luce richiede però la comprensione dei materiali fotosensibili. Lo scienziato
tedesco Johann Heinrich Schulze, nel 1727 durante alcuni esperimenti con carbonato di
calcio, acqua regia, acido nitrico e argento, scoprì che il composto risultante,
fondamentalmente nitrato d'argento, reagiva alla luce solare.
Chiamò la sostanza scotophorus, portatrice di tenebre.
Una volta pubblicati, gli studi di Schulze provocarono fermento nell'ambiente della ricerca
scientifica.
Thomas Wedgwood
Nei primi anni dell'Ottocento l'inglese Thomas Wedgwood, ceramista inglese, sperimentò
l'utilizzo del nitrato d'argento, prima rivestendo l'interno di recipienti ceramici, poi
immergendosi dei fogli di carta o di cuoio esposti poi alla luce dopo avervi deposto degli
oggetti.
Si accorse che dove la luce colpiva il foglio, la sostanza si anneriva, mentre rimaneva chiara
nelle zone coperte dagli oggetti.
Queste immagini, però, non si stabilizzano e perdevano rapidamente contrasto se mantenute
alla luce naturale, mentre riposte all'oscuro potevano essere viste alla luce di una lampada o
di una candela.
Il 5 maggio 1816,
Joseph Nicéphore Niépce si interessò alla scoperta della fotografia e approfondì gli studi alla
ricerca di una sostanza che potesse impressionarsi alla luce in maniera esatta mantenendo il
risultato nel tempo, fece un esperimento, prese un foglio bagnato di cloruro d'argento ed
esposto all'interno di una piccola camera oscura.
L'immagine risultante apparì invertita, con gli oggetti bianchi su fondo nero. Questo negativo
non soddisfaceva Niépce, che proseguì la ricerca di un procedimento per ottenere
direttamente il positivo. Scoprì che il bitume di Giudea era sensibile alla luce e lo utilizzò nel
1822 per produrre delle copie di una incisione del cardinale di Reims, Georges I d'Amboise.
Il bitume di Giudea
è solubile all'olio di lavanda, che una volta esposto alla luce indurisce.
eliografia
Niépce cosparse una lastra di peltro con questa sostanza e vi sovrappose l'incisione del
cardinale. Dove la luce riuscì a raggiungere la lastra di peltro attraverso le zone chiare
dell'incisione, sensibilizzò il bitume, che indurendosi non poté essere eliminato dal
successivo lavaggio con olio di lavanda. La superficie rimasta scoperta venne scavata con
dell'acquaforte e la lastra finale poté essere utilizzata per la stampa.
Niépce chiamò questo procedimento eliografia e lo utilizzò anche in camera oscura per
produrre dei positivi su lastre di stagno. Dopo l'esposizione alla luce e il successivo lavaggio
per eliminare il bitume non sensibilizzato, utilizzò i vapori di iodio per annerire le zone l
avate dal bitume. A causa della lunghissima esposizione
necessaria, fino a otto ore, le riprese all'esterno furono penalizzate dalla luce solare che,
cambiando orientamento, rese l'immagine irreale. Maggior successo ebbero le eliografie con
luce controllata, ovvero in interni, e su lastre di vetro.
Nel 1827, durante il viaggio verso Londra per trovare il fratello Claude, Niépce si fermò a
Parigi e incontrò Louis Jacques Mandé Daguerre: quest'ultimo era già stato informato del
lavoro di Niépce dall'ottico Charles Chevalier, fornitore per entrambi di lenti per la camera
oscura.
A Londra Niépce presentò l'eliografia alla Royal Society, che non accettò la comunicazione
perché Niépce non volle rivelare tutto il procedimento.
Tornò a Parigi e si mise in contatto con Daguerre, con il quale concluse nel dicembre 1829 un
contratto valido dieci anni per continuare le ricerche in comune.
Dopo quattro anni, nel 1833, Niépce morì senza aver potuto pubblicare il suo procedimento.
Il figlio Isidore prese il posto nell'associazione con Daguerre, ma non fornì alcun contributo,
tanto che Daguerre modificò il contratto e impose il nome dell'invenzione in dagherrotipia,
anche se mantenne il contributo di Joseph Niépce. Isidore firmò la modifica pur ritenendola
ingiusta. Il nuovo procedimento era molto diverso rispetto a quello originario preparato da
Joseph Niépce, quindi si può ritenere in parte corretta la rivendicazione di Daguerre.
DAGUERRE E IL DIORAMA
Prima di entrare in società con Niepce, nel 1829, Louis Jacque MandèDaguerrefu pittore e
disegnatore.
Insieme a Charles Bouton fu l'ideatore e il costruttore del famoso diorama, uno spettacolo
pittorico in cui le scene venivano proposte su di uno spazio circolare.
Le immagini dipinte su tele sia sul fronte sia sul retro venivano sapientemente illuminate da
luci frontali o retrostanti, capaci di riprodurre, quasi fedelmente, le varie situazioni luminose
naturali, dal tramonto all'alba, dall'uggioso alla nebbia.
Fu proprio grazie a questa arte teatrale che Daguerre si fece conoscere e poté venire a
contatto con la Parigi che contava in quell'inizio di secolo, ancora piuttosto difficile per la
Daguerre utilizzò la camera oscura sfruttando le possibilità che offriva nel copiare in modo
corretto le prospettive delle scene.
Proprio lavorando con tale attrezzatura venne a conoscenza degli studi effettuati da Niepce
proprio in quegli anni. L'incontro tra i due avvenne il 2 aprile del 1827 ma solo nel dicembre
del 1829 e solo dopo che Niepce tentò, invano, di contattare la Royal Society di Londra,
venne stipulato un accordo commerciale tra i due per sviluppare congiuntamente le ricerche
sulla nuova e possibile forma d'arte.
Daguerre scartò quasi subito l'idea di perfezionare la vecchia tecnica eliografica per
indirizzarsi verso qualche cosa di più snello, più veloce e di più facile fruibilità. Sfruttò una
scoperta di Niepce riguardante le proprietà dello ioduro d'argento e lo utilizzò al posto del
bitume di giudea che era l'agente sensibile dei primi esperimenti del suo socio.
Cercava un supporto che fosse capace di ottenere immagini in tempi molto inferiori alle 8 ore
e, soprattutto, cercava la nitidezza, convinto che solo con essa sarebbe stato in grado di
stupire le folle.
I CALOTIPI
LA STAMPA FOTOGRAFICA
La prima carta su cui viene stampata la fotografia è un foglio imbevuto di soluzione salina,
detta “carta salata”.
Questa, nel 1850, viene soppiantata dalla carta all’albumina inventata da Blanquart-Evrard
usando le chiare d’uovo.
Questa carta ha una finitura lucida e compatta e, una volta preparata, può essere conservata
per molto tempo prima dell’uso.
Sempre nel 1839 lo scozzese Mungo Ponton scopre la fotosensibilità del bicromato di
potassio e inventa, così, la prima tecnica fotografica non argentica: il bicromato, esposto alla
luce, diventa insolubile e, una volta lavato, le particelle non sensibilizzate vengono eliminate
dal foglio; tale procedimento si rivelerà fondamentale per la fotoincisione. Questa scoperta
permette, nel 1856, a Alphonse-Louis Poitevin di inventare sia le stampe al carbone,
estremamente stabili e che possono essere create in diversi colori in base ai pigmenti usati;
sia la tecnica fotomeccanica della collotipia per riprodurre fotografie con inchiostro
tipografico.
Nel 1851 L’inglese Frederick Scott Archer(1813-1857) inventa il procedimento al collodio
umido, un metodo per sensibilizzare lastre di vetro e farne negativi mescolando i sali
d’argento al collodio (fulmicotone).
In questo modo si elimina sia l’unicità e la delicatezza del dagherrotipo sia la brunosità delle
stampe ottenute da calotipi a causa della fibrosità della carta.
Il collodio soppianta, così, tutte le altre tecniche fino agli anni Ottanta dell’Ottocento.
Dalla tecnica del collodio nascono quelli che vengono chiamati i “dagherrotipi dei poveri”.
Tra i primi:
- Roger Fenton (1829-1869) che seguì la guerra in Crimea.
Sono soprattutto gli americani che vanno alla scoperta del loro territorio: memorabili le foto
di
- Timothy O’Sullivan(1840-1882) per la GeologicalGeographicalSurvey (1873) o
quelle di
- Alexander Gardner (1821-1882) per la costruzione di parte della Union Pacific
Railway. Fa parte di questa produzione anche la fotografia stereoscopica, scatti
presi da macchine con due obbiettivi che danno l’illusione della tridimensionalità se
visti attraverso uno stereoscopio.
LE SEQUENZE FOTOGRAFICHE
Nel 1877 il fotografo inglese Eadweard James Muybridge esegue la prima serie fotografica di
soggetti animali in movimento, riuscendo in tal modo a bloccare ed analizzare le varie fasi e
ponendo direttamente le basi per quelli che saranno i futuri sviluppi della cinematografia.
Sostituì l’albumina con la più sensibile gelatina al bromuro d’argento per avere tempi
d’esposizione veloci e montò una batteria di 24 apparecchi fotografici uguali ed equidistanti
parallelamente alla pista che il cavallo avrebbe percorso. Gli otturatori venivano fatti scattare
da in sequenza tramite fili strappati in rapida successione.
Tali ricerche permetteranno a molti artisti, tra cui Degas, di approfondire lo studio dal vero,
riuscendo a cogliere posture e movimenti mai prima rappresentati.
CRONOFOTOGRAFIA
Ricerca svolta da Etienne-Jules Marey che a differenza di Muybridge, che scompone il moto
in una serie di lastre fotografiche separate, sottopone un’unica lastra ad esposizioni multiple.
Dall'inizio del XIX secolo, le tecniche di costruzione dei prodotti industriali, che avevano
subìto una forte evoluzione, vennero impiegate anche nell’edilizia e nei lavori pubblici. La
novità più significativa è il nuovo approccio alla prefabbricazione e al montaggio dei pezzi.
Gli elementi venivano prodotti in serie in diversi materiali, quali ghisa, ferro, acciaio, vetro e
venivano successivamente montati; un approccio seguito sia per la costruzione di edifici
pubblici, sia per le infrastrutture, come i ponti.
In questo modo, la struttura delle costruzioni era messa in evidenza, mentre le superfici in
muratura potevano in gran parte sostituite da grandi vetrate. Allo stesso tempo, gli elementi
ornamentali potevano essere applicati addirittura sui telai in ferro.
ingegnere - architetto
Le gallerie urbane
Attraverso l’uso di moduli prefabbricati, nelle grandi città europee si poterono realizzare
grandi spazi, di cui venivano esaltate, però, anche le potenzialità estetiche. Lo spazio fra i
nuovi edifici sorti al centro delle città veniva coperto da grandi superfici in ferro e vetro, che
avevano come modello di riferimento i passages parigini, cioè piccole gallerie realizzate a
partire dalla fine del Settecento. Sorte per iniziativa pubblica, esse erano solitamente formate
da più gallerie che si diramavano da una grande cupola centrale. Erano destinate al passeggio
e ospitavano, quindi, negozi prestigiosi, illuminati a tutte le ore del giorno e della notte, tanto
da diventare, alla fine dell’Ottocento, uno dei simboli della modernità.
Nella Galleria sono stilisticamente eclettici: sulle loro facciate, ovvero, convivono elementi
rinascimentali e decorazioni settecentesche.
Interventi simili realizzati in altre città italiane nello stesso periodo, come la Galleria
dell’Industria Subalpina a Torino e
Destinati a evolvere fino agli attuali shopping centers, i grandi magazzini sono esempi di
architettura nata come mass medium, legati a un tipo di produzione a basso costo e a un modo
di organizzazione del commercio che segnano l’ascesa della classe media e l’affermazione di
nuovi stili di vita.
I primi grandi magazzini degni di questo nome si realizzano a Parigi verso la fine degli anni
Sessan- ta: sono i Magasins Réunis fondati nel 1867 da una società belga e costruiti
dall’architetto Gabriel Davioud. La loro facciata è tradizionale, con una composizione che
ricorda il Palais du Louvre, ma vi compaiono per la prima volta le grandi vetri- ne verso la
strada e la caratteristica hall vetrata. La nuova sede dei Magazzini Le Bon Marché, costruita
tra il 1867 e il 1874, segna una tappa fondamentale per lo sviluppo della nuova tipologia
architettonica, che sarà caratterizzata dalla strut- tura portante in ferro, dalla centralità dello
scalone, che intercetta e distribuisce a tutti i livelli, dalle coperture in lamiera, e resa unica, in
questo caso, dalla lanterna vetrata a doppio sviluppo realizzata su progetto di Armand
Moisant e Gustave Eiffel. Sull’esempio del Bon Marché vengono aperti altri magazzini a
Parigi: i Printemps (1882), la Samari- taine, le Galeries Lafayette (sulla riva destra della
Senna, nella città nuova dei boulevards haus- smaniani), con repliche nelle altre capitali e
città occidentali, come Harrods e Liberty a Londra o Macy’s a New York. A questa tipologia
appartiene, in Italia, La Rinascente, aperta a Milano dal 1889.
Francia e Inghilterra furono i paesi in cui si ebbero i maggiori interventi, che in Italia furono
intrapresi dopo l’Unità (1861). A Parigi vennero aperti i grandi boulevard che tuttora
caratterizzano la città e in Inghilterra ebbe impulso la costruzione di ponti e stazioni in ferro e
ghisa, nuovi materiali edilizi prodotti dall’industria. Nelle principali città del regno d’Italia
vennero edificati monumenti rappresentativi dello Stato, quali la Mole Antonelliana a Torino,
il Vittoriano a Roma, e grandi Gallerie in ferro e vetro, delle quali la prima fu costruita a
Milano.
QUANDO e DOVE
Grandi masse di persone si erano spostate dalle campagne nelle città per lavorare nelle
industrie. Così le città crebbero rapidamente e furono necessari interventi urbanistici. Gli
edifici monumentali furono l’espressione della borghesia (classe sociale che si andava sempre
più affermando con il progredire dell’industria), e mirarono all’esaltazione delle possibilità
offerte dalle nuove tecnologie. A differenza degli altri paesi europei, l’Italia aveva una
situazione economica e industriale alquanto arretrata. Di conseguenza, solo dopo l’Unità
(1861), nelle principali città italiane vennero compiuti interventi urbanistici e furono
realizzate opere di carattere monumentale.
Parigi e Londra furono le città che, nel corso dell’Ottocento, conobbero i maggiori
cambiamenti, con l’abbattimento di interi quartieri per consentire l’apertura di nuove strade e
la costruzione di edifici monumentali.
Risentì delle nuove tecnologie soprattutto l’ingegneria dei ponti, delle stazioni ferroviarie, dei
padiglioni di esposizione. L’uso del ferro permise di creare ponti a una sola arcata, o con
poche arcate amplissime, sostenute da piloni in acciaio e cavi metallici.
Roma: Monumento a Vittorio Emanuele II, a Roma, detto anche Altare della Patria,
celebrativo dell’unità nazionale. Il monumento è opera dell’architetto Giuseppe Sacconi
(simmetria, colonne doriche e corinzie, marmo bianco, richiami agli antichi edifici romani).
Milano: Galleria Vittorio Emanuele II, ideata dall’architetto Giuseppe Mengoni (copertura in
vetro e ferro moderni, ma decorazioni in stile rinascimentale).
COS’È L’URBANISTICA: attività di creazione e sistemazione dei centri urbani; che ha per
oggetto l’analisi del territorio in generale e la messa a punto dei mezzi tecnici, legislativi,
amministrativi, politici, finalizzati alla progettazione, o all’adeguamento a nuove esigenze,
sia di centri urbani sia di infrastrutture, che si avvale dell’apporto delle scienze economiche,
statistiche, sociali e tiene conto delle modificazioni che le nuove strutture generano
nell’ambiente
Grandi masse di lavoratori inurbati finirono per concentrarsi nelle stesse zone, molto spesso
in centro. Da circa la metà dell’Ottocento, le classi borghesi imprenditoriali avviarono un
corposo piano strategico per riappropriarsi delle aree centrali delle città, realizzando nuovi
condomini multipiano e nuovi servizi infrastrutturali (gas, elettricità, metropolitana).
Gli interventi si proponevano sia di superare le problematiche relative alla scarsa igiene sia di
adeguare gli spazi alle nuove densità di traffico; la riqualificazione dei quartieri inoltre
permetteva ai proprietari di elevare le proprie vendite, mediante l’incremento del prezzo dei
terreni e la vendita di nuovi alloggi e dei locali per banche, assicurazioni, attività produttive.