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LE ORIGINI DELLA FOTOGRAFIA

Il termine fotografia significa scrittura con la luce. L’atto di scattare una foto fissa il tempo, ma
anche lo ruba, stringe il passato in una morsa e imprigiona ermeticamente la storia in un continuo
presente. Erano in uso la camera obscura che era utilizzata dagli artisti, ai quali presentava
un’immagine rovesciata e ricalcabile, una resa accurata del riflesso della luce; e la camera lucida. 
Prima della scoperta della fotografia si faceva così, con le ombre, per cercare di catturare la realtà.
Nel 18° secolo abbiamo imparato a fissarla grazie alla macchina disegna ritratti. L’ombra del
modello veniva disegnata su un foglio. Basta ricalcare i contorni, ritagliare e montare il tutto su un
foglio. I nobili e le persone borghesi si facevano tracciare il profilo per avere un buon ritratto. 
Un passo in avanti si compie quando la luce stessa può lasciare un’impronta e cercare di colorare
un’immagine. 
Nel medioevo si creavano degli adesivi che venivano applicati su un soggetto e con i raggi solari si
riusciva a colorare il contorno, questa proprietà è chiamata “fotosensibilità”. 
Il primo infatti a sfruttare le proprietà dei nitrati d’argento è stato Wegdwood e Davy (in Inghilterra)
realizzando “i fotogrammi”. I quali nel 1802, utilizzarono carta bianca inumidita con una soluzione
di nitrato d’argento per catturare oggetti di piccole dimensioni, ma anche in questo caso non si
trattava di immagini permanenti. 
Il primo a fissare un’immagine fotografica fu, nel 1826, il francese Nicéphore Niépce; fotografando
una veduta dalla finestra della sua soffitta a Gras, nei pressi di Chalon-sur-Saone, con
un’esposizione di circa 8 ore. Si tratta della foto “Vista dalla finestra a Gras” e viene definita
un’eliografia, ha un aspetto sfocato che trasmette una certa misteriosità che si addice all’atto
stesso di fotografare e vedere.

Vista dalla finestra a Gras, 1826, Niépce.


Proprio la qualità insufficiente, del resto, indusse Niépce a collaborare con un altro francese ovvero
Daguerre. 
Nel 1839 il francese Louis-Jacques-Mandé Daguerre pubblicò il suo nuovo procedimento
fotografico chiamato Dagherrotipo. Mentre Niépce aveva definito l’eliografia la riproduzione
automatica, tramite l’azione della luce con le relative gradazioni di toni dal nero al bianco, delle
immagini ottenute nella camera obscura; un dagherrotipo era la riproduzione spontanea delle
immagini della natura ricevute dentro la camera obscura. Una delle caratteristiche straordinarie del
dagherrotipo era la capacità di riprodurre i dettagli: un esempio è la fotografia scattata da Daguerre
nel 1837 chiamata “Interno di atelier”; molto diversa dalla fotografia di Niépce, vediamo come la
fissità esanime del soggetto è tipica del dagherrotipo, poiché il prolungato tempo di esposizione
costringeva a immobilizzare il soggetto prima dello scatto. 

Interno di atelier, 1837, Daguerre.

Mentre invece una delle prime scene urbane fotografate fu quella di Daguerre intitolata “Boulevard
du Temple, Paris” del 1838, è dotata di una tonalità e capacità di dettaglio proprio come vuole il
dagherrotipo. 
Boulevard du Temple, Paris, 1838, Daguerre.

Il dagherrotipo tuttavia, presentava una serie di gravi svantaggi che, nonostante la popolarità in
Francia e negli USA, ne causarono il rapido declino come mezzo di rappresentazione fotografica.
In primo luogo il dagherrotipo richiedeva tempi di esposizione lunghi. In un arco di tempo
relativamente breve dopo la sua invenzione i tempi si ridussero a minuti, anziché a ore, ma la
scelta del soggetto era comunque limitata. Anche il minimo movimento causava una sfocatura
nell’immagine, una limitazione evidente nel documentare immagini di città, persone e scene
documentarie.
Nella fotografia di ritratti il dagherrotipo si diffuse moltissimo, il soggetto doveva essere tenuto
fermo, a volte ricorrendo a speciali sostegni per favorire la posa. Era adatto a fotografare defunti.
Non esisteva alcun processo Negativo/Positivo e, pur essendo un’immagine riflessa dell’originale,
non era riproducibile. La sua superficie delicata e sensibile ai graffi doveva essere attentamente
protetta, spesso da una custodia in pelle foderata in velluto.
Per la realizzazione di un dagherrotipo serviva un buon laboratorio, serve del mercurio, sale, iodio,
del cloruro e bisogna avere una competenza chimica. Le immagini vengono catturate su lastre di
rame ricoperte da uno strato d’argento e poi sensibilizzate da vapore di iodio. Una volta posta nella
camera oscura la lastra è sviluppata con vapore di mercurio. Nel 1841 delle nuove sostanze
acceleranti permettono di impiegare meno tempo di posa, permettendo di scendere a meno di 10
secondi.  
L’artista inglese William Fox Talbot elaborò le basi della fotografia moderna, mise a punto il primo
procedimento fotografico negativo/positivo, permettendo la realizzazione di copie multiple da un
singolo negativo. Nel 1834 si dedicò al “Disegno fotografico”, il quale prevedeva l’impiego di nitrati
d’argento su carta ed era una delle più elementari forme di fotografia. Servendosi di felci, merletti o
fiori, il fotografo riproduceva immagini dell’oggetto, privo di tridimensionalità, semplicemente
appoggiandolo sulla carta sensibilizzata ed esponendo questa alla luce. La pianta nella fotografia,
viene messa su un foglio di carta con una soluzione a base di sale da cucina e nitrato d’argento.
La pianta e il foglio vengono esposti alla luce, e la carta fotosensibile annerisce tutto intorno alla
pianta che agisce come una maschera.

Disegno fotografico, 1834, William Fox Talbot.

Nel 1840 Talbot produsse il Calotipo (dal greco bella immagine). Fu il primo, autentico processo
fotografico positivo/negativo, ancora oggi alla base di tutti i metodi fotografici. Pur senza la
precisione del dagherrotipo, offriva un grande vantaggio: per la prima volta era possibile, da una
singola immagine, ricavare un numero infinito di stampe in positivo. 
Il primo negativo di Talbot è ambiguo. “Finestra con telaio a griglia” del 1835 ritrae una finestra
della casa di campagna di Talbot, la fotografia è di minuscole (2,5 x 2,5 cm) e l’immagine parla
dell’atto di fotografare e della foto in quanto tale, poiché guardiamo una finestra che suggerisce un
gioco misterioso di presenza e assenza.
Finestra con telaio a griglia, 1835, Talbot.

La storia della fotografia dell'800 fu segnata da una serie di innovazioni. Infatti, nel 1851 Frederick
Scott Archer produsse il procedimento al collodio: un sistema basato su lastre di vetro umide, che
soppiantò il calotipo di Talbot. Queste lastre all’albumina diedero negativi eccellenti, di una
lucentezza e di una finezza di particolari che si avvicinavano a quelle del dagherrotipo. Il difetto
principale però era la scarsa sensibilità e che lo sviluppo doveva avvenire immediatamente dopo la
cattura dell’immagine. Nel 1870, invece, la lastra umida fu a sua volta superata; infatti, nel 1871
Richard Leach Madox mise a punto le prime lastre da utilizzare con la gelatina e nel 1877 nacque
la lastra alla gelatina secca. 
Nel decennio successivo all’invenzione della fotografia, le miniature di ritratti dipinti scomparvero
quasi del tutto come forma d’arte.

Cinque anni dopo l’invenzione della fotografia, Henry Fox Talbot pubblicò una delle più
ragguardevoli pubblicazioni fotografiche di tutti i tempi. “The Pencil of Nature” è stato definito un
classico ed importante perché preannunciò e impostò il modello in base al quale la fotografia
sarebbe stata vista per gran parte dell’800. Uno dei principali punti di riferimento per capire la
fotografia del XIX secolo è la misura in cui essa veniva intesa in rapporto alla pittura. Il titolo stesso
del libro accentua l’analogia con il disegno; la parola arte ricorre in continuazione nel testo, a
sottolineare quanto Talbot intendesse la fotografia in termini pittorici. Nell’opera dello stesso Talbot
ritroviamo una tensione simile: singoli oggetti specifici meritano la stessa attenzione di
composizioni. “La porta aperta” (1843) è una delle più importanti fotografie di Talbot, non ultimo
per il senso pittorico della composizione. Non è certo uno scatto poco studiato o frettoloso, anzi è
calcolato e ordinato come un dipinto, con chiari riferimenti all’arte fiamminga del 600 e a un
vocabolario connotativo più elevato che rende coesa la composizione. Una struttura estremamente
formale collega una serie di elementi simbolici scelti con attenzione: la porta aperta, la scopa, la
lanterna. 

La porta aperta, 1843, Talbot.


La seconda illustrazione del libro “The Pencil of Nature” voleva forse competere con Boulevard du
Temple di Daguerre, che Talbot conosceva. Talbot in “Vista di un boulevard, Parigi” (1844)
descrisse i particolari di questa immagine e si sforzò di mostrare che anche il suo metodo poteva
fissare dettagli precisi.

Vista di un boulevard, Parigi, 1844, Talbot.


William Fox Talbot inserì “Il pagliaio” (1844) nel libro “The Pencil of Nature”. Nel testo affermò che
la fotografia avrebbe “permesso di inserire nelle immagini una enorme quantità di dettagli che
contribuiscono a rendere la rappresentazione più vera e realistica, ma che nessun artista si
sarebbe assunto l’onere di copia fedelmente dalla natura”. In effetti, grazie alla elevata definizione,
al contrasto tra luci e ombre e alle forme geometriche definite, il cumulo di fieno con la sua
sfericità, i blocchi squadrati delle balle sulla sinistra, la scala bianca con la sua ombra scura che si
staglia su un angolo in piena luce, offre una chiara prova delle possibilità della fotografia. La
tecnologia era così innovativa che Talbot aggiunse una nota per il lettore, sottolineando come le
lastre fossero state create puramente dalla luce, senza alcun intervento da parte dell’artista. Il
tempo e la luce sono gli elementi essenziali di ogni fotografia.

Il pagliaio, 1844, Talbot.


“Natura morta” (1844) invece è l’ultima illustrazione di The Pencil of Nature ed è importante perché
è una delle prime fotografie di nature morte.

Natura morta, 1844, Talbot.


“La biblioteca” (1845) è una riprova dell’ossessione ottocentesca per le cose, al tempo stesso però
conferma il contesto in cui Talbot fotografava: è la sua biblioteca, lo specchio letterario attraverso
cui leggeva il mondo.

La biblioteca, 1845, Talbot.


Nel 1861 C. Jabez Hughes suddivide la foto in tre livelli principali. Facevano parte della fotografia
meccanica le foto che ambiscono a una semplice rappresentazione degli oggetti verso cui si
rivolge l’apparecchio fotografico. La fotografia artistica dove il fotografo si impegna a diffondere la
propria mente negli oggetti sistemandoli, modificandoli o altrimenti disponendoli, così da farli
apparire in maniera più appropriata o più bella. E, terza, la fotografia di alto livello artistico,
composta da alcune immagini i cui scopi sono più elevati rispetto alla maggior parte delle fotografie
artistiche, e che non mirano solo a divertire bensì a istruire, purificare, nobilitare.

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