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Il Rinascimento ad Urbino

Il ducato di Urbino vive, nella seconda metà del Quattrocento, una


delle stagioni più ricche del Rinascimento italiano, che coincide con la
salita al potere di Federico da Montefeltro, nel 1444. Federico venne
educato a Mantova dall’umanista Vittorino da Feltre ma, estromesso
dalle mire dinastiche, si dedicò al mestiere delle armi come capitano di
ventura.
La morte in una congiura del fratellastro lo portò al governo di Urbino,
che in pochi anni si trasformò da borgo medievale, in uno dei più
prestigiosi centri di cultura umanistica. Abilissimo condottiero, Federico
unì la sua competenza militare ad una lucida politica di alleanze; ma al
tempo stesso il Duca fu al tempo stesso un raffinato mecenate e
amante degli studi classici realizzando, anche una delle più prestigiose
biblioteche d’Italia, ricca di codici miniati latini e greci. La Pace di Lodi
del 1454, d’altra parte, ponendo fine al decennale conflitto tra Venezia
e Milano, garantì alla penisola una fase di stabilità politica, che consentì
ai governanti di promuovere le arti e le lettere.
Il Rinascimento ad Urbino prende avvio negli anni Cinquanta, con i
lavori di ampliamento del Palazzo Ducale, con il quale Federico da
forma visibile alla sua idea di potere illuminato. Egli guarda al modello
del mecenatismo mediceo di Firenze, ma sa dare alla sua corte
un’identità originale, chiamando personalità provenienti da aree
culturali diverse, orientando gli studi degli intellettuali urbinati
all’ambito matematico e gli artisti alla sperimentazione prospettica.
Alla morte di Federico la stagione rinascimentale fiorita attorno alla sua
figura si esaurì e Urbino tornò ad una dimensione provinciale.
Piero della Francesca
• Assieme a Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, nato Borgo
San Sepolcro, oggi Sansepolcro, tra il 1415 e il 1420, ha avuto il
merito di portare a compimento le premesse dell’arte fiorentina del
primo Quattrocento e di diffonderne le prime conquiste teoriche.
Come Alberti, egli ha unito saldamente la sua opera pittorica a quella
di trattatista e allo studio delle discipline care agli umanisti, come la
matematica, la geometria e l’astronomia. Il suo linguaggio espressivo
ha mantenuto un carattere di piena autonomia rispetto a quello che
si andava affermando a Firenze nella metà del Quattrocento, dove gli
artisti ancora affondano nelle radici della tradizione gotica, ma sono
affascinati dalle ricerche prospettiche, sperimentando la
rappresentazione della luce e dei suoi effetti sui corpi, misurandosi
sempre con lo studio sull’antico. Piero della Francesca, costituisce un
anello di congiunzione tra la cultura prospettica del Rinascimento
italiano e un’altra rinascita italiana, quella fiamminga, attenta ai
fenomeni luministici e all’indagine analitica della realtà.
• Profondamente legato alla propria città natale, l’artista le rese
omaggio inserendone il profilo edificato a sfondo dei dipinti come nel
Battesimo di Cristo e realizzò per committenze locali opere
memorabili come il Polittico della Misericordia, dipinto in un arco di
almeno quindici anni.

Piero della Francesca, Polittico della Misericordia, 1445 -1462.


Sansepolcro, Pinacoteca Comunale.
Probabilmente, Piero svolse l’apprendistato a Borgo San Sepolcro,
presso Antonio D’Anghiari. Il primo documento conosciuto che porta il
suo nome lo attesta nel 1439 accanto a Domenico Veneziano,
impegnato nell’esecuzione degli affreschi ora perduti, nel coro della
chiesa fiorentina di Sant’Egidio. A Firenze Piero si confronta con l’opera
di Masaccio, con le sue figure solide ed austere; osserva le opere di
Beato Angelico e la solenne spazialità. Da Domenico Veneziano, poi,
Piero acquisisce una particolare attenzione per la luce chiara e i colori
tersi, capaci di costruire una spazialità ariosa e nitida.
Alla fine degli anni Quaranta, il pittore è in viaggio tra le Marche e
l’Emilia Romagna: a Pesaro, Ancona, quindi a Ferrara e a Rimini, dove
realizza un affresco nel Tempio Malatestiano. Nel 1454 compie il primo
viaggio a Roma, chiamato da Niccolò V per gli affreschi della Basilica di
Santa Maria Maggiore, di cui restano pochi frammenti; vi ritornerà tra il
1458 -59 per decorare, su incarico di Pio II, alcune stanze
dell’appartamento papale. Questi affreschi sono andati perduti, in
quanto ad essi si sono sovrapposti, all’inizio del Cinquecento, i dipinti di
Raffaello. Nel corso di questi anni itineranti, Piero ha sviluppato contatti
privilegiati con uno dei centri umanistici, la corte urbinate di Federico
da Montefeltro, di cui è considerato il maggiore esponente. Piero non
tornerà più a Firenze, la sua presenza a Ferrara, Rimini e Urbino,
innalzerà queste corti ad un ruolo culturale di primo piano e contribuirà
ad unificare le diverse esperienze attraverso il sapere prospettico.
Domenico Veneziano, Pala di Santa Lucia de’ Magnoli, 1445 -1447,
Firenze, Galleria degli Uffizi
Partendo dalle ricerche di Masaccio, Beato Angelico e Domenico
Veneziano sulla luce e sul rapporto tra forme solide e spazio, Piero
elabora un linguaggio di forte rigore. La sua pittura è composta per
accordi di misure e rapporti cromatici; le forme naturali sono trattate
come corpi geometrici pervase da un nitido chiaroscuro e generatrici di
ombre nette.
Le figure sono immobili, perfettamente calibrate entro impianti costruiti
secondo una logica della geometria, con ritmi dettati dalle leggi
armoniche del numero; ogni cosa visibile è collocata entro composizioni
generate dalla prospettiva, rispondendo ad un ordine che non trova
affinità nell’esperienza diretta della realtà. Gli sguardi dei personaggi sono
fissi e proiettati in lontananza. All’origine di questa monumentale
astrazione c’è la conoscenza dell’arte classica, e in particolare, una
riflessione sulla statuaria classica, consolidata attraverso i viaggi romani.
Così, di fronte alla varietà e alla mutevolezza dei fenomeni, egli costruisce
un repertorio di forme di essenziale chiarezza; il quadro è concepito come
un microcosmo, che traduce l’intima realtà dell’universo, utilizzando le
proporzioni divine dei numeri.
Questa ricerca si manifesta già nel dipinto raffigurante il Battesimo di
Cristo ora collocata alla National Gallery di Londra.
Piero della Francesca, particolare,
Battesimo di Cristo, 1445 ca., Tempera su
tavola, Londra, National Gallery
Sull’asse verticale si trova la figura di Cristo, immobile come
una colonna, occupa il centro della tavola. A destra San
Giovanni Battista nel gesto di versare l’acqua sulla testa di
Gesù battezzandolo, mentre a sinistra si collocano tre angeli
che assistono alla scena. L’episodio come è noto dal vangelo
di Marco, avviene tra le acque del Giordano, in Palestina, ma
Piero qui dipinge una veduta della Valle del Tevere con una
città fortificata alle pendici di un colle: Sansepolcro, la sua
città natale. La solidità del corpo di Cristo è ripetuta a
sinistra dall’albero che svolge un ruolo dominante, con la
sua chioma determina una sorta di cupola che dona
all’immagine un carattere di equilibrio e di pacata solennità;
d’altro canto un albero posto in primo piano, non fa altro
che alludere al legno della Croce.
Alla destra del Battista un giovane si sta spogliando, questo
gesto del togliersi le vesti prima del battesimo alludeva allo
spogliarsi dei peccati; al contrario può essere inteso come
un giovane che si sta rivestendo di una veste candita e in tal
caso è un rimando alla rinascita di una nuova vita dopo il
battesimo.
Il cielo è terso, solcato da nuvole bianco grigie e il paesaggio è
messo in risalto dall’intensa luminosità, nel quale la lunga strada
leggermente ondulata che conduce alla città, le anse del fiume,
gli alberelli conici e i tronchi d’albero tagliati che proiettano la
loro ombra sul prato verde, danno la profondità dello spazio
prospettico. Sui corpi, si dilata una luce morbida ed egualmente
distribuita, che non crea ombre violente, ma tutto avvolge
definendo un’atmosfera sospesa e irreale.
Questo perfetto bilanciamento tra le parti e l’atmosfera sospesa
che ne deriva alludono ad una perfezione che va oltre gli aspetti
concreti del reale: comprendiamo , quindi, il motivo per cui i
volti degli angeli sono simili tra loro, anche se un guizzo
espressivo appena visibile li distingue dal carattere di impassibile
distacco di Cristo e di Giovanni.

Piero della Francesca, Battesimo di Cristo, particolare dei tre angeli, 1445, tempera su tavola,
Londra, National Gallery.
Si osservino le figure specchiate nel corso d’acqua: tra i primi
esempi del genere, esse non mirano tanto alla ricchezza
descrittiva, presentandosi piuttosto come esercizio
compositivo volto a fissare anche gli elementi illusori entro un
disegno compiuto.
Il Battesimo di Cristo è stato realizzato per i monaci camaldolesi
di Borgo San Sepolcro in memoria di Ambrogio Traversari,
priore dell’Ordine e umanista di spicco nel convento fiorentino
di Santa Maria degli Angeli, morto nel 1439. Egli aveva operato
per la riconciliazione tra Chiesa cristiana d’Occidente e
d’Oriente, e durante il Concilio di Firenze del 1439 (Si
procedette alle approfondite riflessioni teologiche per
raggiungere la riunificazione tra Oriente e Occidente. La
riunificazione sarebbe dovuta avvenire sul piano dogmatico e
disciplinare, ma si sarebbero dovute mantenere le differenze
sul piano liturgico), aveva svolto un ruolo di rilievo nel
difendere la tesi della Chiesa romana in merito alla Trinità di
Dio. Nell’opera ricorrono, allusioni al mistero teologico della
Trinità di Dio: si può riferire ad esso la ricorrenza del numero
tre, che regola la disposizione di alcuni elementi al suo interno,
o come i tre angeli, estranei all’iconografia del battesimo ma
che indossano abiti dai colori rosso, bianco e blu; sono legati da
gesti reciproci delle mani, che la critica ha interpretato come
allusione all’unita tra la Chiesa greca e quella latina. Il palmo
abbassato dell’angelo a sinistra è poi, un antico simbolo di
concordia.
Storie della Croce
• Nel 1447, ad Arezzo, la famiglia dei Bacci aveva commissionato a Bicci
di Lorenzo la decorazione ad affresco del coro della Chiesa di San
Francesco. Alla morte dell’artista, nel 1452, erano state dipinte
soltanto ampie volte a crociera. Probabilmente nello stesso anno viene
assegnato a Piero della Francesca l’incarico di proseguire l’intervento.
Gli affreschi narrano la Leggenda della Vera Croce, tratta dalla legenda
Aurea di Jacopo da Varagine (è una raccolta medievale di biografie
agiografiche composta in latino); il soggetto era rappresentato spesso
nelle chiese francescane con diverse interpretazioni e varianti. Piero
elimina ogni elemento fantasioso o di costume, concentrandosi sugli
episodi fondamentali con rigorosa essenzialità.
• Il ciclo comprende dieci scene disposte su tre registri. Lungo le due
pareti laterali si dispongono quattro riquadri e, in alto, due lunette;
quattro scene di minore dimensioni sono poste nella parte di fondo,
sormontate da due figure di profeti. Piero sceglie di disporle secondo
una logica compositiva . Così nelle lunette superiori colloca scene
all’aperto, nel registro intermedio scene ambientate in contesti
architettonici, in quello inferiore battaglie. Sulla parete di fondo si trova
l’Annunciazione, cui corrisponde, in posizione simmetrica, l’annuncio
dell’angelo a Costantino dormiente.
Salomone e la regina di Saba, il Sogno di Costantino
• Una ferrea geometria divide in due parti uguali gli spazi
dedicati ai distinti episodi della regina di Saba che venera il
legno della Croce e di Salomone che incontra la regina, nel
riquadro mediano della parete di destra. Il primo episodio, a
sinistra, si svolge all’aperto, il secondo a destra, all’ombra di un
portico reso in prospettiva. Venuta da un lontano regno della
penisola arabica, la regina di Saba riconosce la santità di un
legno gettato tra le sponde di un corso d’acqua a mò di ponte,
si inginocchia e lo venera. Attorniata dalle dame del suo
seguito, silenziose e meravigliate, la regina, coperta da un
mantello azzurro, è a mani giunte e con la testa leggermente
chinata in avanti. Il legame fra la regina e le sue dame e la
partecipazione di queste al mistero dell’intuizione della loro
sovrana sono resi visibili dai gesti delle braccia che quasi si
uniscono quasi a formare una sorta di catena prospettica. Una
serva poco lontano aspetta e dei nobili giovani parlano fra
loro, mentre si occupano dei cavalli al riparo di un albero.
• L’incontro, invece avviene in un sontuoso portico con colonne
scanalate. Il centro della composizione in questo caso è
costituito da Salomone che stringe nella mano destra la
sinistra della regina, inchinatasi al suo cospetto.
Un ampio mantello di damasco giallo oro ricade in pieghe regolari dalle
spalle del re d’Israele. Le donne e gli uomini che accompagnano i due
sovrani si dispongono a cerchio attorno a loro e osservano la scena.
Le donne del seguito all’esterno sono le stesse che si ritrovano
all’interno dell’edificio, perciò Piero per raffigurarle nelle due occasioni
ha fatto ricorso agli stessi cartoni, che ha semplicemente rovesciato,
cambiando poi, in piccola misura, solo alcune pose.
L’importanza e la solennità dell’evento, infine, sono enfatizzate dalla
prospettiva con una linea d’orizzonte molto bassa che produce l’effetto
di conferire monumentalità ai personaggi, in quanto sono visti dal
basso.
Nel sogno di Costantino, un chiarore comincia a diffondersi in un cielo
ancora stellato. Un angelo in volo, con le braccia tese, e recante una
piccola croce luminosa, dalla quale la luce si irradia tutto intorno, porta
a Costantino il sogno con la rivelazione che, nel giorno che si appresta
a cominciare, avrebbe vinto la battaglia contro Massenzio se avesse
apposto sugli scudi dei soldati la croce di Cristo.
La luce emanata dalla croce illumina la tenda da campo entro l quale,
vegliato da un servitore, dorme l’imperatore.
Due armati proteggono il sonno di Costantino ed entrambi
sono portati alla ribalta dalla luce. Di quello a sinistra, che
impugna la lancia ed è visto di spalle, si nota l’armatura
riflettere, del secondo a destra, in veduta frontale, si è
catturati dai giochi delle ombre, effetto della luce forte ed
improvvisa.
La flagellazione di Cristo
• La Flagellazione di Cristo presenta due scene ben distinte, ma fra
loro connesse, si svolgono una all’aperto e una all’interno. In una
strada con edifici antichi e rinascimentali tre uomini colloquiano,
mentre a sinistra, in uno spazio perfettamente misurato, è
rappresentato il Cristo legato alla colonna e flagellato.
• La tavola, nonostante le sue ridotte dimensioni, mostra grandi
spazi grazie all’applicazione della prospettiva.
• L’edificio della flagellazione è costituito da un portico di marmo
con colonne di ordine composito dal fusto scanalato che reggono
una trabeazione. Per accrescere la monumentalità e la spazialità
dell’ambiente, all’interno non vi sono colonne intermedie. Sulla
parete di fondo, posta in risalto da due ampie specchiature di
marmo rosso e di serpentino verde si aprono due porte: quella di
destra ha i battenti serrati, l’altra invece è aperta e lascia
intravedere delle scale che conducono ad un piano superiore.
• Com’è consuetudine nei dipinti di Piero, i personaggi sono
immobili. I fustigatori appaiono irrigiditi con le braccia levate, per
colpire Gesù, dal corpo perlaceo, simbolo della sua purezza
incorrotta. Pilato, seduto, guarda fisso dinnanzi a sé, come fosse
una divinità arcaica. Il colloquio dei tre personaggi sulla destra
sembra congelato.
I tre personaggi in primo piano, sullo sfondo di un paesaggio urbano
quattrocentesco, legano il dipinto alla contemporaneità. L’uomo a
destra ha l’abito e il volto curati con una tale perizia da far pensare a una
volontà ritrattistica: è forse Giovanni Bacci; di fronte a lui un altro
personaggio che, invece, veste abiti di foggia greca e porta la barba
all’orientale.
Torna nuovamente il riferimento alla caduta di Costantinopoli e alla
crociata che, nel 1459, Pio II aveva cercato di organizzare durante il
Concilio di Mantova, con l’obbiettivo di scongiurare il pericolo di
un’avanzata di Maometto II in Europa.
La figura a sinistra rappresenterebbe la Chiesa d’Oriente chiamata di
nuovo al concilio. Significativamente, il gruppo richiama i tre angeli del
Battesimo di Cristo. Ed è ancora un’ipotesi, ma fondata su fonti
documentarie, che l’opera sia stata donata a Federico da Montefeltro
per convincerlo a sostenere il progetto di papa Pio II.
La scena della flagellazione di Cristo simboleggerebbe, allora, la
sofferenza della Chiesa cristiana di fronte alla storia recente, come
sembrano confermare l’uomo di spalle con turbante e la figura di Pilato,
che assiste immobile alla scena.
Alla corte di Urbino
• La permanenza di Piero ad Urbino dura dalla fine degli anni
Sessanta alla metà del decennio successivo: sono gli anni in
cui è presente in città anche il pittore fiammingo Giusto di
Gand, che vi introduce l’interesse per lo studio minuzioso
della realtà e la qualità della tecnica ad olio.
• In questo periodo Piero giunge ad una compiuta sintesi tra
la concezione prospettica del Rinascimento italiano e
l’analisi fiamminga della natura. Il contatto con la pittura
fiamminga era già avvenuto a Ferrara, alla corte di Lionello
d’Este; esso consente a Piero di affinare uno dei temi
centrali della sua arte: lo studio e la rappresentazione dei
fenomeni luminosi, nonché il rapporto tra luce e colore
nella costruzione della forma. Questa ricerca giungerà i
risultati più alti nella Madonna di Senigallia e nella Pala di
Montefeltro. L’influenza nordica si coglie anche nella
sempre più nitida cura per i dettagli e nella brillantezza dei
colori, che consente a ogni cosa di risaltare con la
medesima precisione, sia essa vicina o lontana. Il Doppio
ritratto dei Duchi di Urbino è un esempio di perfetta
concordanza tra rigore volumetrico e analisi fiamminga,
entrambi piegati a celebrare il prestigio politico della
casata.

Piero della Francesca, Dittico dei Duchi di Urbino, 1465, Firenze, Galleria degli
Uffizi, Firenze.
Nel Dittico compaiono i ritratti di Federico e della
consorte Battista Sforza. Nelle due tavole di piccola
dimensione, eseguite probabilmente dopo la morte di
Battista, i signori di Urbino sono presentati di profilo, sullo
sfondo del territorio ordinato di Montefeltro. Battista ha
un incarnato chiarissimo ma rivestita di un abito prezioso
e adorna di gemme. Federico appare invece, con un volto
segnato dalle rughe, indossa una veste ed un berretto
rossi. I due personaggi si guardano e la loro unione, che è
stata serena e consolante, è sottolineata dal tranquillo
ordine del paesaggio.
Le due tavolette sono dipinte anche sul retro con i trionfi
allegorici di Federico e della moglie Battista. Nella parte
inferiore si trovano delle scritte latine, realizzate come se
fossero scolpite su transenne di marmo, inneggiano si a
Federico, che viene celebrato come gli antichi condottieri,
sia a Battista che celebra le sue lodi.
Il dittico vuole dunque essere, un dolce ricordo del Duca,
il quale desidera essere per sempre legato alla giovane
consorte morta a soli ventotto anni, da un profondo ed
eterno sguardo.

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