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L’Umanesimo nell’Italia meridionale:

Antonello da Messina
1. La formazione e la poetica di Antonello nel San Gerolamo nello studio
Napoli e la Sicilia, fino alla metà del Quattrocento, sono alla periferia della cultura fiamminga: alla
quale è ancora strettamente legato il più noto pittore napoletano del Quattrocento, Colantonio.
Alfonso d’Aragona possedeva una raccolta di pittura fiamminga, con originali di Jan van Eyck e di
Rogier van der Weyden; e diffusa per via diretta o attraverso la Spagna, la cultura figurativa
fiamminga aveva largo corso anche in Sicilia. Qualche arrivo sporadico da diverse sorgenti non ha
grandi conseguenze: nemmeno quando si tratta di opere rivoluzionarie come l’Assunzione di
Donatello per Sant’Angelo a Nilo (1427). La prima opera con cui Napoli dimostra di voler mettersi
al passo con la cultura figurativa italiana è l’arco di Alfonso d’Aragona, che tuttavia rievoca,
ideologicamente e tematicamente, la porta di Federico II a Capua.
L’ambiente napoletano in cui si forma, nella bottega di Colantonio, Antonello da Messina (1430 ca.-
1479) è dunque un ambiente nettamente fiammingo, in cui tutt’al più cominciano a circolare le idee
che daranno vita, più tardi, al raffinato umanesimo letterario napoletano.
Il confronto del San Gerolamo nello studio di Antonello con il quadro dello stesso soggetto del suo
maestro Colantonio, rivela sùbito una differenza profonda, e non soltanto di qualità. Colantonio
colloca il santo in primo piano e gli raduna attorno una quantità di oggetti (libri, carte, penne,
forbici e, bene in vista, il cappello cardinalizio) che hanno significato di attributi e, più che occupare
uno spazio (come avrebbe detto l’Alberti), descrivono l’ambiente dove lavora il santo studioso. Nel
quadro di Antonello gli stessi oggetti occupano uno spazio e, occupandolo, lo definiscono. Ciò
avviene perché Antonello ha costruito uno spazio prospettico, la cui vastità e profondità sono
misurate dalla distribuzione delle cose rappresentate e dal degradare proporzionale delle grandezze
con la distanza. Ora, la prospettiva non è un fatto oggettivo che chiunque, purché guardi la realtà
senza pregiudizî, può constatare: è una concezione dello spazio con un’origine storica ben precisa e
che, quando Antonello ha dipinto questo quadro, aveva già avuto vasti e importanti sviluppi. Che
cosa ne sa Antonello? Il dipinto non ha certamente alcun rapporto con la pittura toscana, ma è
concepito nello spirito della cultura umanistica. Il santo non è l’eremita nella sua cella, ma lo
studioso nel suo scrittoio; e questo è situato in un vasto e nobile edificio con alte volte e ànditi a
colonne. È veduto dall’esterno, attraverso una larga porta a d arco ribassato, cioè secondo la
direzione della luce che vi penetra e, seguendo le linee prospettiche del pavimento, va a
concentrarsi sulla figura posta al centro, molto vicina al vertice di una “piramide visiva” di cui il
muro con la porta è la sezione. La coincidenza di “razzi” prospettici e raggî luminosi è assoluta, al
punto che la concentrazione della luce sul volto del santo è ottenuta col riflesso dei piani inclinati
delle pagine del libro aperto. Indubbiamente Antonello si pone, come se lo erano posto i fiorentini,
il problema della rappresentazione dello spazio; ma lo risolve con un procedimento inverso, che gli
è suggerito dall’esperienza fiamminga. Non è la figura che domina lo spazio col gesto dell’azione,
ma lo spazio che si restringe e concentra fino a trovare nella figura il suo punto focale.
2. Vergine Annunciata
Se nel Salvator mundi la determinazione fisionomica del volto di Cristo coincide palesemente con
la determinazione prospettica dello spazio, in modo anche più evidente, nella Annunciata (Palermo)
i piani della tavola, del leggìo, della mano protesa (in una timorosa e umanissima reazione
all’Annunciazione) riflettono sul volto la luce che scende dall’alto, attenuandone l’intensità e
premettendo così alla forma del volto e del velo di assumere, nell’equilibrio delle due incidenze
luminose, una regolarità quasi geometrica. Alla luce che il volto del Salvatore riceve e riflette e a
quella che scende dall’alto a colpire l’Annunciata l’artista attribuisce probabilmente un significato o
un motivo ideologico-religioso; ma è tanto più notevole, allora, che lo esprima in termini “naturali”
di luce e di spazio quasi per affermare, con l’Alberti, che “solo studia il pictore fingere quello (che)
si vede”. Partendo dallo spazio empirico dei fiamminghi invece che dallo spazio teorico e (non
dimentichiamolo) architettonico del Brunelleschi, Antonello è giunto a conclusioni molto vicine a
quelle di Piero della Francesca. Esclusa o quanto meno ridotta l’importanza della mediazione di
Francesco Laurana, che imitava le forme ma ignorava la problematica di Piero, rimane da stabilire
se e quando, prima del viaggio di Antonello a Venezia, sia avvenuto l’incontro dei due artisti.

3. San Sebastiano
Il legame con Piero è evidente nel San Sebastiano; ma, d’altra parte, non si può dimenticare che
questo è anche il tema su cui il Mantegna ritorna più volte, sempre insistendo sul nesso ideologico
tra eroe classico e martire cristiano, e, per associazione simbolica, tra la figura nuda del santo e il
frammento di architettura antica a cui è avvinto. A questa interpretazione storico-simbolica si
oppone chiaramente l’interpretazione mitologico-naturalistica di Antonello. Antitetico all’ideale
mantegnesco della forma tormentata, spezzata, tutta spigoli è anche l’ideale formale che Antonello
dichiara col frammento di colonna a terra: rette e curve, cilindro e sfera. Cilindriche le forme tornite
del nudo, cilindrici il tronco dell’albero, i comignoli sui tetti; piane le pareti della piazza; ovoidale,
quasi sferica, la testa del santo. Il piano riflette la luce, la superficie curva, il cilindro, la diffonde
tutt’in giro, uniformemente. Un’alta luce meridiana invade infatti la piazza, avvolge il fusto levigato
del nudo, che la diffonde. La vita si è fermata: la gran luce fissa le piccole figure lontane; aderisce,
quasi rientra nel disegno del pavimento, il soldato dormiente; la donna che appare lontana con il
bambino in collo è come invischiata nel raggio che la raggiunge e la ferma. Il santo, con la bellezza
un po’ molle, lisippea, del corpo nudo, non soffre e guarda lontano, ma la sua non è un’estasi
mistica; le frecce confitte nel suo corpo segnano l’ora con le ombre corte, come fossero meridiane.
Non è un fatto storico, questo martirio, ma un’apparizione mitica, un personificarsi dello spazio e
del tempo: tanto è vero che l’albero (non una colonna, dunque, ma una forma della natura) sorge
come per incanto dal pavimento di marmo. Se l’albero rappresenta dunque il passato mitico, la
colonna rappresenta il drammatico presente, dove il martirio di Sebastiano è posto in relazione con
quello di Cristo
Il tema del mito, come tramite o comunicazione profonda tra umanità e natura, aveva già ispirato a
Giovanni Bellini opere come l’Orazione nell’orto di Londra e la Pietà di Brera; per Antonello, che
ha vissuto più profondamente l’esperienza pierfrancescana la comunicazione diventa identità, il
mito rivelazione, il sentimento della natura conoscenza. Il 1475-76, l’anno dell’incontro di
Antonello e Giovanni Bellini a Venezia, decide il futuro della pittura veneta. Ciò che d’ora in poi si
cercherà nel mondo classico non sarà più la filosofia, ma la poesia della natura.

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