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La scienza, l’uomo, la vita.

Temi e problemi di
bioetica

A cura di Jaime Vigliano Girando

“Giunti ai confini della medicina scientifica, senza filosofia non si può dominare la stoltezza”
Karl Jaspers

1. La bioetica. Storia della disciplina


La bioetica è una disciplina accademica e un ambito di riflessione interdisciplinare che si occupa
dell’analisi razionale dei problemi morali emergenti nell’ambito delle scienze biomediche,
proponendosi di definire criteri e limiti di liceità alla pratica medica e alla ricerca scientifica,
affinché il progresso avvenga nel rispetto di ogni persona umana e della sua dignità.
Il termine bioetica comparve per la prima volta nel 1970, in un articolo dell’oncologo americano
V.R. Potter (“Bioethics. The science of survival”, in Perspectives in Biology and Medicine, 1970,
14, 1, pp. 127-153), che tornò a utilizzarlo nel suo libro Bioethics. Bridge to the future (Englewood
Cliffs, New Jersey, 1971). Di fronte al rapido progresso del sapere biomedico e biotecnologico, alle
scoperte nel campo dell’ingegneria genetica e alle crescenti possibilità di manipolare la vita umana
e l’ecosistema, Potter riteneva che il solo modo per garantire la sopravvivenza dell’umanità fosse
quello di costituire «una nuova disciplina che combinasse la conoscenza biologica (bio) con la
conoscenza del sistema dei valori umani (etica)»: una disciplina che facesse da ‘ponte’ tra il sapere
scientifico e il sapere umanistico per usare con ‘saggezza’ le nuove conoscenze, così da migliorare
la qualità della vita delle generazioni future. Occorre ricordare che negli Stati Uniti i problemi etici
attivati dalla sperimentazione indiscriminata sull’uomo avevano portato già nel 1969 alla nascita
dell’Hastings Center, il primo centro impegnato nella definizione di norme nel campo della ricerca e
della sperimentazione biomedica. Nel 1971, a Washington, A. Hellegers fondò il Kennedy Institute
for the Study of Human Reproduction and Bioethics, il primo centro intitolato alla b., che nel 1979
venne annesso alla Georgetown University, all’interno del quale sorse in seguito il Center for
Bioethics. Nel 1978 venne pubblicata la prima edizione della Encyclopedia of Bioethics edita da
W.T. Reich (seguita nel 1995 e nel 2003 da altre due edizioni, l’ultima delle quali curata da Stephen
G. Post), unica nel suo genere, cui seguì la Biblio;graphy of Bioethics, rassegna di tutte le
pubblicazioni annuali concernenti l’ambito scientifico della b., affiancata da un servizio di
informazione bibliografica on line (Bioethicsline).
L’istituzionalizzazione della bioetica, avviata negli anni 1970, si è realizzata in maniera molto
rapida grazie alla sua connessione con la medicina e i temi sulla salute pubblica: ovunque sono sorti
centri, istituti di ricerca e insegnamenti universitari di bioetica; diverse sono le società e le
associazioni per il coordinamento e la ricerca bioetica, i comitati ad hoc per le consulenze di
politica sanitaria, nonché i comitati etici per regolare la sperimentazione farmacologica e la prassi
clinica. Tra i primi centri sorti in Europa, vanno ricordati l’Instituto Borja de bioética in Spagna
(dove si è imposto il contributo teorico di Diego Gracia), il Centre for Bioethics and Public Policy
in Gran Bretagna, il Centre d’études bioéthiques in Belgio. In Australia, si distingue l’attività del
Center for Human Bioethics diretto da Peter Singer, uno dei fondatori del movimento animalista, e
quella della IAB (International Association of Bioethics). In Italia va ricordato il Centro di bioetica
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, presso la facoltà di Medicina e chirurgia di Roma,
fondato e diretto da E. Sgreccia, che nel 2004 ha istituito la FIBIP (Federazione Internazionale dei
Centri e Istituti di Bioetica di Ispirazione Personalista); tale centro, che cura la pubblicazione della
rivista Medicina e Morale, è affiancato da un Istituto di bioetica universitario. A livello nazionale
opera il Comitato nazionale per la bioetica.
Tra i principali organismi internazionali di consulenza in bioetica vanno ricordati: il Comité ad hoc
d’experts pour les problèmes de bioéthique del Consiglio d’Europa, istituito nel 1985 e divenuto nel
1992 Comité directeur pour la bioéthique (CDBI), che nel 1996 ha approvato la Convention sur les
droits de l’homme et la biomédicine, nota come Convenzione di Bioetica, ratificata dall’Italia a
Oviedo nel 1997 e il Comité international de bioéthique dell’UNESCO, sorto nel 1993.

2. Principali tematiche e campi d’indagine


L’insegnamento della bioetica ha contribuito a meglio definire questa disciplina e il suo statuto
epistemologico, sebbene quest’ultimo aspetto resti ancor oggi molto dibattuto. Lo stesso termine b.
viene talvolta sostituito con le espressioni etica biomedica o etica della ricerca scientifica. Per
quanto la bioetica affronti problemi morali già tradizionalmente analizzati dall’etica, dalla morale
medica di tradizione ippocratica e dalla riflessione teologico-morale di ispirazione cristiana, è pur
vero che questi problemi hanno assunto nel 20° sec. dimensioni e prospettive inedite grazie alle
straordinarie evoluzioni delle conoscenze scientifiche applicate alla medicina e alla biologia. Si
pensi alle questioni antropologiche sollevate dagli interventi, oggi possibili, sulle fasi iniziali della
vita umana, come la fecondazione assistita, la sperimentazione sugli embrioni, l’ingegneria
genetica, la clonazione; o, in riferimento alla fine della vita, ai problemi sollevati dall’accanimento
diagnostico-terapeutico, dalla richiesta di eutanasia, dalla medicina dei trapianti, dalla
sperimentazione sull’uomo e sugli animali. La nascita della bioetica è stata, infatti, sollecitata
dall’esigenza di integrare tra loro nuove conoscenze e nuovi saperi per fondare in maniera forte e
razionale i criteri di regolamentazione della prassi biomedica e garantire la libertà di ricerca
scientifica nel rispetto dei diritti umani fondamentali. È fuor di dubbio, infatti, che sotto il profilo
epistemologico la bioetica sia contraddistinta dalla interdisciplinarità: essa nasce dal dialogo e dal
confronto tra biologia, medicina, filosofia, teologia, sociologia, antropologia, economia, diritto e
politica. Tutte queste discipline entrano, con modalità e in misura diversa, nel sapere bioetico, per
conferire all’etica quei dati moralmente rilevanti che servono a formulare il giudizio bioetico.
L’interdisciplinarità, in altre parole, consente di individuare il metodo della riflessione bioetica, che
avvalendosi del contributo delle diverse discipline, giunge a una visione integrale dei problemi.
In particolare, laddove le scienze bioetiche descrivono un problema empirico, ossia ‘come’ si
manifesta un fatto naturale o artificiale, le scienze umane offrono dati e interpretazioni del
fenomeno, mentre la filosofia riflette sul senso della natura, andando alla ricerca del fondamento dei
valori sulla base dei quali giustificare il comportamento dell’uomo nei confronti della natura. In tal
modo, il fine del giudizio bioetico non è solo quello di dire ‘come’ si deve agire, ma ‘perché’ si deve
agire in quel modo sulla base di ragioni ‘forti’. Si configura così un aspetto fondamentale della
riflessione bioetica, ossia la ricerca di una ‘metabioetica’ che sappia rendere ragione in termini
filosofici del giudizio bioetico. In tal senso, la bioetica possiede una chiara identità epistemologica
razionale, che, a partire dalla descrizione del dato scientifico, biologico o medico, esamina la liceità
dell’intervento dell’uomo sull’uomo, avendo come orizzonte di riferimento la persona umana
integralmente considerata, in tutte le sue dimensioni: fisiche, psichiche e spirituali. Il metodo
proprio della bioetica è, dunque, quello della filosofia morale, che razionalmente indaga i
fondamenti dei principi e dei valori che devono orientare il comportamento umano innanzi alle
numerose e nuove possibilità dischiuse dal progresso medico e tecnologico.

3. I nodi principali del dibattito bioetico e i principali orientamenti teorici


3.1. La definizione di bioetica e i tentativi di fondazione teorica della disciplina
Nel dibattito epistemologico, fondamentale è anche la questione della definizione della bioetica. La
più nota è quella che Reich ha inserito nell’Encyclopedia of bioethics del 1978: «studio sistematico
della condotta umana, nell’ambito delle scienze della vita e della salute, esaminata alla luce di
valori e principi morali». Il riferimento ai principi e ai valori morali trovò negli Stati Uniti una
prima giustificazione nel volume di T.L. Beauchamp e J.F. Childress, Principles of biomedical
ethics (1979). Tali autori, richiamandosi ai principi di beneficialità e non maleficenza, di autonomia
e giustizia, tentavano di fornire un modello teorico efficace in grado di superare l’alternativa tra le
prospettive etiche deontologiche e teleologiche; la ‘b. dei principi’, tuttavia, non riuscì nel suo
intento e venne sottoposta a severe critiche, poiché, richiedendo un bilanciamento tra principi,
finiva col trasformarsi in una morale della situazione, incapace di fondare in maniera oggettiva e
razionale il proprio giudizio etico. Altri autori hanno in seguito definito la bioetica una «filosofia
della ricerca e della prassi bioetica» (Sgreccia); «l’etica applicata ai nuovi problemi che si
sviluppano alle frontiere della vita» (C. Viafora); un «settore dell’etica che studia i problemi inerenti
la tutela della vita fisica» (S. Leone). Lo stesso Reich, nella successiva edizione dell’Encyclopedia
(1995) estese la definizione, includendovi i concetti di interdisciplinarità e di pluralismo delle
metodologie etiche. Se, infatti, appare immediatamente chiaro il riferimento della b. all’etica e ai
valori, non è scontato come si debbano giustificare questi valori, né quali debbano essere i principi
di riferimento. Il pluralismo, cioè, sembra riguardare sia l’antropologia di riferimento sia le teorie
sulla fondazione del giudizio etico.
Nel dibattito bioetico si possono individuare almeno quattro orientamenti teorici che cercano di dare
differenti fondazioni alle norme etiche e ai valori: a) l’orientamento socio-biologista; b)
l’orientamento liberal-radicale; c) l’orientamento utilitarista-contrattualista; d) l’orientamento del
personalismo ontologicamente fondato.
L’orientamento socio-biologista propone un’etica descrittiva, che si evolve di pari passo con la
società e che, pertanto, si riduce a un’espressione della cultura e del costume: un modello che
riesce, così, a giustificare qualsiasi possibilità dischiusa dal progresso scientifico, a prescindere da
un’autentica tutela dei diritti di ciascun individuo umano.
L’orientamento liberal-radicale fonda l’etica sulla scelta autonoma dell’individuo, avendo come
unico criterio di riferimento la libertà soggettiva intesa come valore assoluto.
L’orientamento utilitarista integra l’impostazione soggettivista all’interno di un’etica pubblica che
diviene un ‘soggettivismo della maggioranza’, nel quale il principio ispiratore dell’azione morale
deve essere il perseguimento del massimo piacere, e la minimizzazione del dolore per il maggior
numero di persone, in base a un semplice calcolo costi-benefici nelle scelte che si debbono
compiere. Uno dei più noti esponenti di questo modello è P. Singer, il quale ha sostituito il principio
della ‘sacralità della vita’ con quello di ‘qualità della vita’ e ha riformulato la nozione di persona, la
quale – non più fondata sulla sua sostanzialità, ma solo sulle sue qualità – può includere anche i
mammiferi non umani, purché in grado di esprimere forme di autonomia e di relazionalità. Nel
modello utilitarista viene meno, pertanto, l’identificazione tra essere umano e persona, con
significative conseguenze nella formulazione dei diritti dell’uomo, non essendo più sufficiente
appartenere alla specie umana per essere titolari del diritto alla vita e alla cura e qualificandosi,
invece, come necessaria la presenza di alcune caratteristiche funzionali e relazionali dell’individuo.
Sulla stessa linea utilitarista, ma in una prospettiva più marcatamente contrattualista, si pone H.T.
Engelhardt, che ritiene di fondare l’etica sull’accordo intersoggettivo stipulato all’interno della
comunità degli adulti, che stabiliscono ciò che è lecito e ciò che è illecito. Infine, il modello del
personalismo ontologico fonda l’oggettività dei valori e delle norme sul concetto sostanziale di
persona, intendendo quest’ultima come un’individualità costituita da un corpo animato e da uno
spirito incarnato. Persona, dunque, è ogni individuo umano, dal momento del concepimento alla
morte naturale, e sul rispetto della sua dignità e dei suoi diritti inalienabili deve essere fondata ogni
decisione etica del singolo e della società. Questa lettura permette di individuare nella salvaguardia
della persona l’orizzonte antropologico di riferimento della condotta morale, avendo come
principali criteri di comportamento il rispetto della vita umana e della sua integrità, il principio di
libertà e responsabilità, il principio terapeutico e di cura e il principio di solidarietà e sussidiarietà
nelle scelte individuali e sociali.

4. La fondazione filosofica della bioetica. Alla ricerca di una nuova etica


L’invadenza della medicina nei confronti di aspetti privati della vita umana, la pianificazione
politica della tutela della salute, considerata anche in termini di efficienza economica, l’interferenza
tra ricerca scientifica e religione nella disputa tra salvezza del corpo e dell’anima (e i riflessi di
questa dialettica nelle decisioni assunte nella sfera pubblica e nella coscienza individuale), la
sperimentazione di tecniche – anzitutto la clonazione – che prospettano scenarî per taluni
affascinanti e per altri inquietanti rispetto al futuro della specie, sono i principali problemi di cui si
occupa la bioetica.
Si potrebbe far risalire agli scritti raccolti nel Il medico nell’età della tecnica, composti tra il 1950 e
il 1955 da Karl Jaspers, l’inizio della riflessione filosofica sulla bioetica contemporanea. L’oggetto
principale di Jaspers era in realtà l’analisi critica della psicoanalisi, ma nei saggî si ritrova anche il
motivo della necessità di saldare la ricerca medica con l’etica, perché, “giunti ai confini della
medicina scientifica, senza filosofia non si può dominare la stoltezza”. L’appello di Jaspers è stato
raccolto e la bioetica tenta di affrontare questo compito: nel lanciare un dibattito pubblico relativo ai
problemi sopra citati, in maniera che non sia l’autorità politica o amministrativa o che non siano i
laboratorî di ricerca e le aziende farmaceutiche in perfetta solitudine a decidere cosa sia lecito o
illecito, si riconosce il vero fattore su cui concordano i diversi autori che si sono accostati alla
bioetica provenendo da tradizioni anche molto distanti ideologicamente, basti citare Ronald
Dworkin, Jürgen Habermas e Hans Jonas. Un altro principio su cui la bioetica concorda è che non
sia sufficiente l’approccio etico tradizionale, basato sul riconoscimento dei diritti nel presente, ma si
debba fare riferimento anche a quelli delle generazioni future, che pure non possono istituire con
noi un rapporto di reciprocità. Il principio responsabilità, formulato nell’omonimo libro di Hans
Jonas – Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979) –, vale a dire
l’assunzione della consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni, costituisce il cardine non
della bioetica ma anche dell’etica ambientale. Chi possiede autorità politiche, amministrative,
scientifiche per determinare il futuro deve agire con maturo senso di responsabilità per tutelare
anche coloro che non sono ancora, o – come dice Jonas – “per lasciare che l’Essere sia”.
Su questi due punti, tuttavia, si esauriscono le convergenze dei varî interpreti della bioetica, i quali
sostanzialmente si contrappongono in base al proprio universo ideologico e di credenze nel
declinare il principio del diritto alla vita. Alcuni interpretano questo principio in senso religioso,
intendendolo come “sacralità della vita”, che non lascia spazio alla modifica di un concetto di
“natura” assunto come modello immutabile, coincidente sostanzialmente col piano del progetto
divino. Altri interpretano il principio come “qualità della vita”: ciò non esclude il riconoscimento
del valore intrinseco della vita umana, ma afferma il diritto che siano gli individui, soggetti
razionali e autocoscienti, a decidere quali diritti e doveri ne derivino, configurando un modello di
“natura” assunto come parzialmente o interamente modificabile dall’uomo, pur sempre all’interno
di un progetto responsabile.
Tra queste posizioni le barriere sono molto nette e l’assolutizzazione delle posizioni impedisce un
dialogo sereno su questioni importanti, decisive, relativamente alla vita degli individui e della
comunità. Per questo è più facile trovare punti di convergenza su obiettivi minimi, come “evitare i
danni”, piuttosto che su quelli massimi, come “realizzare il bene”, che implicano scelte di campo
religiose e ideologiche con le relative difficoltà evidenziate. Tale approccio può ottenere maggiori
risultati, consolidando i punti acquisiti passo per passo e rinunciando all’imposizione per tutti gli
individui di comportamenti dettati dalle convinzioni di pochi o di molti.

5. Fecondazione artificiale e clonazione. È possibile limitare in senso etico la ricerca


scientifica?
5.1. Clonazione umana. Un vaso di Pandora?
Ai suoi esordî, la fecondazione artificiale era considerata una minaccia per la stessa umanità. Oggi
la clonazione suscita analoghe paure. Ma il timore dei governi finisce spesso per lasciare carta
bianca alla ricerca privata: quale futuro ci aspetta?
Louise Brown, assistente in una scuola materna, appare oggi come una giovane donna del tutto
normale, una biondina tranquilla e un po’ timida che di tanto in tanto si diverte a giocare a freccette
nel pub locale. Ha poco meno di trent’anni, e un tempo era una persona davvero speciale. La suatro
nascita fu accolta da titoli in prima pagina che la definivano “la bambina del secolo”. Louise era la
prima neonata concepita tramite fecondazione artificiale. Oggi qualcuno ricorderà il suo nome, o
quello dei medici che effettuarono l’intervento, Steptoe ed Edwards. Ma il quarto di secolo
trascorso ha offuscato il ricordo di uno dei più importanti aspetti della nascita di Louise: molti ne
furono inorriditi. Anche alcuni scienziati temettero che Patrick Steptoe e Robert Edwards avessero
fatto qualcosa di temerario. La nascitura sarebbe stata normale o le manipolazioni di laboratorio le
avrebbero lasciato orribili difetti genetici? Quali sarebbero stati i risvolti psicologici della
consapevolezza della sua nascita anomala? E sarebbe stata la prima di una genìa di esseri innaturali
che avrebbero potuto essere creati specificamente, magari per fini terribili? Ora che la fecondazione
artificiale ha permesso la nascita di circa un milione di bambini in tutto il mondo, simili timori e
speculazioni possono sembrare infondati, e persino assurdi. Ma le stesse obiezioni che allora
venivano sollevate riguardo alla fecondazione artificiale vengono riproposte oggi, talvolta in forma
identica, a proposito della clonazione umana. È possibile che quest’ultima, come è avvenuto per la
fecondazione in vitro, finisca per trasformarsi, ai nostri occhî, da pratica mostruosa a tecnica
comune? E se la clonazione umana e altre forme di intervento genetico sull’embrione diverranno
comuni, dovremo temerle o accettarle? Le lezioni fornite dall’esperienza della fecondazione in vitro
potranno agevolare le decisioni da prendere.
5.2. Storia della fecondazione artificiale. Affinità e differenze con il problema della clonazione
Quando la fecondazione artificiale, da possibilità ipotetica, divenne un fatto reale, alcuni la
considerarono niente più che una forma di esibizionismo scientifico: “lo sviluppo di bambini in
provetta – notò un oppositore – può essere paragonato alla messa a punto di trapianti alari per
consentire ai porci di volare”. Ma altri ritennero la fecondazione artificiale un pericoloso insulto alla
natura. La rivista inglese “Nova” pubblicò nella primavera del 1972 un servizio nel quale si
affermava che i bambini in provetta erano “la peggiore minaccia dopo la bomba atomica” e si
chiedeva che l’opinione pubblica bloccasse gli studî coinvolti. “Se oggi non accettiamo la
responsabilità di dirigere i biologi – continuava l’articolo – domani pagheremo un prezzo molto
alto: la perdita della nostra libertà di scelta e, con essa, della nostra umanità. Non ci resta molto
tempo”.
Uno dei più accaniti fra i primi nemici della fecondazione artificiale fu Leon Kass: un biologo
dell’Università di Chicago che si interessava professionalmente del nuovissimo campo della
bioetica. Se la società avesse permesso a simili esperimenti di proseguire – scrisse dopo la nascita di
Louise Brown – sarebbero stati in pericolo valori fondamentali: “L’idea dell’umanità della nostra
vita e il significato del nostro venire al mondo, del nostro essere generati da un atto sessuale e
quindi del nostro rapporto con progenitori e discendenti”.
Kass è tuttora un detrattore di ogni nuova forma di tecnologia riproduttiva. “La clonazione minaccia
la dignità della procreazione umana, dando a una generazione un controllo genetico senza
precedenti sulla successiva” ha scritto nel 2003 sul “New York Times”. “È il primo passo verso un
mondo eugenetico nel quale i bambini diventano oggetti di manipolazione e prodotti della volontà”.
I commenti di Kass sono particolarmente degni di nota, in quanto egli non è un opinionista
qualsiasi: è stato a capo del Consiglio per la Bioetica, istituito dal presidente George W. Bush,
l’organo a cui è stato attribuito, come primo compito, quello di fornire la consulenza sulla
regolamentazione della clonazione umana.
Oggi possiamo constatare che la fecondazione artificiale non ha affatto prodotto legioni di bambini
subumani né tantomeno ha portato alla disintegrazione della famiglia nucleare, conseguenze temute
dai primi detrattori. E nell’ultimo decennio sono stati introdotti metodi di riproduzione assistita così
nuovi e sofisticati che la tecnica di base usata per generare Louis Brown oggi sembra davvero di
routine. Una delle previsioni avanzate allora, si è rivelata veritiera. Negli anni Settanta ammonirono
che la fecondazione in vitro ci avrebbe fatto precipitare in una china scivolosa verso forme di
tecnologia riproduttiva sempre più complesse, e per alcuni riprovevoli, e che una volta iniziato il
processo non avrebbe potuto più essere fermato.
Se si considerano tutte le tecniche che fra breve tempo potrebbero essere disponibili per manipolare
un embrione in fase di sviluppo, sembra che gli avversarî della fecondazione in vitro non avessero
tutti i torti al riguardo. Dopotutto, nessuno degli interventi genetici che oggi vengono discussi –
dalla diagnosi prenatale e dal trapianto di geni in cellule sessuali o in embrioni a fini terapeutici fino
alla creazione di nuove linee di cellule staminali embrionali e, opzione particolarmente scomoda,
alla clonazione – sarebbe nemmeno lontanamente ipotizzabile se gli scienziati non avessero
imparato a fecondare le cellule uovo umane in laboratorio.
Ma l’esistenza di questa china scivolosa significa davvero che le attuali ricerche sulle tecnologie
riproduttive condurranno inevitabilmente a sviluppi deplorevoli quali la generazione di embrioni
come banche di organi, la produzione di ibridi fra uomo e animale o la clonazione umana?
Chiaramente sono in molti a pensarlo, e ciò spiega perché il governo statunitense abbia cercato di
limitare la possibilità di manipolare gli embrioni ancora prima che essa diventi realmente fattibile.
Ma questa opposizione solleva il problema se le ricerche scientifiche che hanno profonde
implicazioni etiche debbano semplicemente essere proibite. Oppure dovrebbero procedere, con la
debita attenzione verso l’evoluzione di taluni settori della ricerca, in modo che la società possa
prendere una decisione informata sull’eventuale necessità di una regolamentazione?
5.3. Senza regole. Sulla necessità di regolamentazione pubblica e statale della ricerca scientifica
Il forte interesse nel regolamentare o nel vietare del tutto la clonazione nasce in parte, negli Stati
Uniti, dalla deliberata volontà di non permettere che si ripeta ciò che è accaduto con la
fecondazione artificiale, un settore in cui si è assistito a un fiorire di attività senza alcuna forma di
controllo federale o etico né di coordinamento scientifico. Ironicamente, il motivo per cui la
fecondazione artificiale si è trovata in una situazione simile negli Stati Uniti è da rintracciare nel
fatto che gli oppositori, e in particolare gli attivisti antiabortisti, hanno tentato di bloccarla
completamente. L’obiezione principale degli antiabortisti era che i procedimenti di fecondazione in
vitro richiedevano la generazione di embrioni in eccesso che alla fine sarebbero stati distrutti senza
riguardo: un genocidio peggiore, ai loro occhî, di tutto ciò che veniva perpetrato nelle cliniche degli
aborti. Pertanto, essi ritennero che la strategia migliore fosse quella di impedire al governo federale
di finanziare le ricerche sulla fecondazione artificiale.
A partire dal 1973, una serie di commissioni presidenziali ha discusso gli aspetti etici della
fecondazione assistita, ma senza arrivare a conclusioni chiare. Alcune di esse si impantanarono
nelle polemiche sull’aborto; altre conclusero che le ricerche sulla fecondazione artificiale erano
eticamente accettabili purché gli scienziati rispettassero la condizione dell’embrione come “essere
umano potenziale”: una posizione di principio, più che una guida pratica. Nel 1974 il governo
proibì il finanziamento federale delle ricerche sul feto, norma estesa anche a quelle sull’embrione
umano (definito come un feto di meno di otto settimane), compresa la fecondazione in vitro. Nel
1993 il presidente Bill Clinton firmò il NIH Revitalization Act, che permetteva il finanziamento
delle ricerche sulla riproduzione assistita; ma nel 1996 il Congresso bandì nuovamente la
sperimentazione sugli embrioni. In definitiva, nonostante una serie di raccomandazioni delle
commissioni di bioetica, secondo cui il sostegno statale alle ricerche sulla fecondazione artificiale
può essere accettabile a certe condizioni, il governo statunitense non ha mai sostenuto un solo
progetto di ricerca in tal senso.
La mancanza di un intervento federale ha portato a un vuoto del quale hanno prontamente
approfittato scienziati-imprenditori spalleggiati dal capitale privato. Costoro essenzialmente hanno
fatto ciò che volevano e ciò che era economicamente conveniente, trasformando il settore della
riproduzione assistita in un mercato senza alcuna forma di controllo. La professione medica tentò di
stabilire un’autoregolamentazione – nel 1986, per esempio, la American Fertility Society diffuse ai
suoi membri linee-guida etiche e cliniche – ma solo occasionalmente i controlli su base volontaria si
rivelarono efficaci. La qualità dei centri specializzati – nel 1990 erano più di 160 – rimase assai
ineguale, e coloro che desideravano sottoporsi a fecondazione assistita avevano ben poche
informazioni obiettive che li guidassero nella scelta. In seguito il governo federale si è attivamente
impegnato nel regolamentare la clonazione. All’annuncio, nel 1997, della nascita di Dolly, il primo
mammifero clonato da una cellula di adulto, il presidente Clinton stabilì norme per proibire attività
analoghe sull’uomo. Il Congresso ha compiuto varî tentativi per rendere illegale la clonazione
umana, fra i quali una proposta di legge che renderebbe ogni forma di questa pratica punibile con
un’ammenda di un milione di dollari e fino a dieci anni di detenzione. I politici hanno quindi messo
sullo stesso piano due tipi di clonazione che gli scienziati cercavano di mantenere distinti: la
clonazione “terapeutica”, o “di ricerca”, destinata a produrre cellule staminali embrionali con la
capacità di differenziarsi in tessuti umani specializzati per curare le malattie degenerative; e la
clonazione “riproduttiva”, intrapresa specificamente per produrre un essere umano clonato. Una
seconda proposta di legge tutelerebbe esplicitamente la clonazione di ricerca, pur dichiarando
illegale quella riproduttiva.
5.4. I rischî della fecondazione in vitro e i timori nei confronti della clonazione
Una conseguenza della mancata regolamentazione delle pratiche di fecondazione artificiale è che
sono occorsi quasi 25 anni per riconoscere che i bambini nati dalla provetta sono effettivamente
soggetti a rischî. Per gran parte degli anni Ottanta e Novanta, si è ritenuto che la fecondazione in
vitro non avesse alcun effetto sull’esito delle nascite, con l’eccezione dei problemi associati ai parti
gemellari: un terzo di tutte le gravidanze artificiali ha portato alla nascita di due o tre bambini, come
conseguenza non voluta di impiantare 6, 8 o persino 10 embrioni durante ogni ciclo di trattamento,
nella speranza che per almeno uno di essi riuscisse l’annidamento in utero. (Questo metodo ha dato
origine anche in Italia ad alcuni casi famosi di parti plurigemellari). Quando alcuni studî
sollevarono dubbî sulla sicurezza della fecondazione in vitro – rilevando un’incidenza doppia di
aborti spontanei, tripla di morte prima della nascita o neonatale e quintupla di gravidanza ectopica –
molti attribuirono questi problemi non al metodo di fecondazione in sé, ma all’associazione con
gravidanze multiple.
A partire dal 2002, tuttavia, il lato oscuro della fecondazione in vitro è diventato innegabile. Il
“New England Journal of Medicine” (vol. 346, n. 10, 7 marzo 2002) ha pubblicato due studî che
tenevano conto della maggiore incidenza di nascite gemellari nei casi di fecondazione artificiale e
che continuavano a evidenziare problemi clinici. Uno studio ha confrontato il peso della nascita di
oltre 42.000 bambini concepiti mediante tecniche di riproduzione assistita negli Stati Uniti nel 1996
e 1997 con quello di oltre tre milioni di bambini concepiti naturalmente. Escludendo i casi di
nascite premature e gemellari, i “figlî della provetta” avevano una probabilità due volte e mezza più
elevata rispetto ai controlli mostrare un peso alla nascita inferiore ai 2500 grammi.
L’altro studio ha esaminato oltre 5000 bambini nati in Australia fra il 1993 e il 1997, il 22% dei
quali era stato generato tramite fecondazione in vitro. Si è visto che questi ultimi avevano una
probabilità doppia – rispetto ai bambini concepiti naturalmente – di presentare molteplici difetti
congeniti, in particolare anomalie cromosomiche e muscolo-scheletriche. I ricercatori australiani
hanno ipotizzato che queste differenze possano essere dovute ai farmaci impiegati per indurre
l’ovulazione o per sostenere la gravidanza nelle prime fasi. Inoltre anche i fattori che determinano
l’infertilità potrebbero aumentare il rischio di difetti congeniti. La stessa tecnica di fecondazione in
vitro potrebbe non essere esente da colpe. In uno dei procedimenti comunemente utilizzati si inietta
uno spermatozoo in una cellula uovo; può quindi accadere che lo spermatozoo fecondante sia
anomalo, mentre in una situazione naturale la stessa cellula non avrebbe l’opportunità di generare
un bambino con un difetto dello sviluppo.
Chiaramente, questi rischî hanno potuto rimanere nascosti per oltre 20 anni di esperienze con la
fecondazione artificiale proprio perché non è mai stato messo a punto un sistema per valutarne gli
esisti. “Se il governo avesse sostenuto la fecondazione artificiale, il settore avrebbe compiuto
progressi molto più rapidi” afferma Duane Alexander, direttore del National Institute of Child
Health and Human Development. “Il fatto è che questo istituto non ha mai finanziato alcuna forma
di ricerca in tal senso”. Una circostanza che Alexander definisce incredibile e imbarazzante.
La storia della fecondazione in vitro rivela i pericoli che si manifesteranno inevitabilmente se gli
Stati non assumeranno e manterranno una linea decisa e coerente rispetto alla clonazione. Ma,
nonostante l’analogia nelle reazione dell’opinione pubblica verso la clonazione e la fecondazione
artificiale, le due tecnologie sono assai differenti da un punto di vista etico. Lo scopo della
fecondazione in vitro è quello di consentire la riproduzione sessuale per produrre un essere umano
geneticamente unico; solo il sito del concepimento cambia, ma poi gli eventi procedono come in
una gravidanza naturale. La clonazione non ha nulla a che fare con la riproduzione sessuale, dato
che il suo scopo è quello di imitare un essere già esistente, e non il processo generativo.
Forse la principale differenza fra le due tecniche sta nel punto su cui si concentrano le nostre paure,
e le attenzioni degli studiosi di bioetica. Negli anni Settanta il timore più grande era che la
fecondazione in vitro fallisse, conducendo a sofferenze, delusioni e forse alla nascita di bambini
grottescamente anormali. Oggi la più grande paura riguardo alla clonazione umana è che possa
riuscire.

6. Bibliografia e fonti
- “Bioetica”, in Enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it/enciclopedia/bioetica/
- Giovanni Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Mondadori, 2009.
- Giovanni Fornero, Massimo Mori, Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un confronto, Le
lettere, 2012.
- Istituto Superiore di Sanità, Tesauro italiano di bioetica, Supplemento n. 1 al n. 4 vol. 19 del
Notiziario dell’Istituto Superiore di Sanità, 2006.
- Roberto Lolli, Nuove teorie etiche. La bioetica, in “Storia della filosofia”, Vol. 8. Il Novecento:
Filosofie e scienze, a cura di U. Eco e R. Fedriga, La Biblioteca di Repubblica, 2015.
- Robin Marantz Henig, Clonazione umana: un vaso di Pandora?, in “La Scienza. Vol. 9. L’uomo”,
La Biblioteca di Repubblica, DeAgostini, 2005.

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