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STRATEGIE DELLA SCELTA.

INTRODUZIONE ALLA TEORIA DELLA


DECISIONE
Introduzione
Nell’ambito delle scienze sociali, lo studio scientifico di come si prendano le
decisioni, di come si possa cercare di renderle ottimali o soddisfacenti, e di quali
siano i fattori che possono influire su di essi è noto come teoria della decisione. Si
tratta di un’area di ricerca interdisciplinare in quanto si fonda sui contributi di
matematica, statistica, economia, sociologia, filosofia, psicologia e management. Al
suo interno si riconoscono due approcci teorici principali. Da un lato quello
riconducibile alle ‘teorie normative’ (o prescrittive), che indicano quali criteri
decisionali dovrebbero seguire degli individui completamente razionali, informati e
dotati di perfette capacità di ragionamento per prendere la decisione ottimale, ovvero
scegliere il mezzo migliore per raggiungere un certo fine. Dall’altro lato vi è
l’approccio tipico delle ‘teorie descrittive’(o positive), le quali, muovendo dalla
constatazione empirica, che non sempre gli individui si comportano in modo ottimale,
sono tese a descrivere i meccanismi decisionali ‘reali’ seguiti dagli individui nelle
diverse situazioni. Teorie normative e teorie descrittive differiscono anche in quanto
fanno ricorsi a metodi differenti: le prime a modelli logico-matematici per
formalizzare il processo decisionale individuale, le seconde a metodi sperimentali al
fine di manipolare alcune variabili per isolarne gli effetti sul piano cognitivo e
comportamentale.
Lo studio delle decisioni è stato a lungo oggetto dell’economia, nell’ambito della
quale sono state sviluppate alcune teorie normative che possono essere ricondotte a
quello che nelle scienze sociali viene definito modello dell’homo economicus o anche
teoria della scelta razionale. Il modello dell’homo economicus implica una visione
della razionalità definita ‘economica’, ‘normativa’ o ‘strumentale’, che affonda le
radici nel pensiero di alcuni tra i più celebri nomi della storia del pensiero economico,
come Adam Smith e John Stuart Mill, che legavano all’idea di accumulazione della
ricchezza o del profitto. Bentham invece è considerato il fondatore della dottrina
utilitarista, definiva l’utilità come ciò che produce vantaggio e che rende minimo il
dolore e massimo il piacere. L’utilità misura la soddisfazione individuale procurata
da un bene, da un’attività o da un risultato e, secondo l’approccio economico
neoclassico, un individuo che debba decidere tra diverse alternative sarà portato a
scegliere quella che massimizza la sua utilità.
Il modello dell’homo economicus ha riscosso un grande successo nell’analisi delle
decisioni individuali in contesti certi in cui ad ogni azione è associata una sola
conseguenza. In tal caso, se le preferenze individuali sulle conseguenze delle
decisioni vengono descritte con una funzione di utilità, un individuo è razionale se
massimizza la sua utilità.
Neumann e Morgenstern hanno elaborato una teoria normativa della decisione
razionale in condizioni di rischio nota come teoria dell’utilità attesa. Questa teoria si
fonda su alcuni assiomi formali di coerenza logica delle preferenze del decisore e su
altri relativi al calcolo delle probabilità, in base ai quali la massimizzazione
dell’utilità attesa è il criterio razionale di decisione tra alternative rischiose.
Attraverso i lavori di alcuni economisti quali Olson, Buchanan, Becker, l’approccio
dell’economia alla teoria della decisione si è affermato nelle scienze sociali come
strumento di analisi sia delle scelte individuali sia di quelle sociali o collettive. Esso
si colloca nel paradigma dell’individualismo metodologico,dove l’unità di
osservazione nella ricerca sociale è l’individuo dotato di ragione in grado di
esercitare una sua autonomia attraverso le decisioni che prende in base a intenzioni,
preferenze e valori senza essere ostacolato da determinismi sociali. Questo paradigma
si contrappone a quello del collettivismo o olismo metodologico, in base alla quale
l’individuo è considerato come passivamente ‘spinto’ all’azione non dalle proprie
preferenze ma da strutture e norme sociali.
In sociologia, infatti, l’approccio dell’economia alla teoria della decisione, ovvero la
teoria della scelta razionale, si è sviluppato in opposizione sia ad una psicologia di
tipo irrazionalista che tendeva a considerare l’individuo in balia di pulsioni
incoscienti, sia a quelle correnti di pensiero marxiste e strutturaliste dominanti dagli
anni 50 agli anni 70 del secolo scorso che privilegiavano un approccio metodologico
della spiegazione dei fenomeni sociali di tipo collettivista. Fu proprio il successo
riscosso in quel periodo in economia dal modello dell’homo economicus a spingere
molti sociologi a domandarsi se la loro disciplina non potesse trarre vantaggio da un
approccio che analizzava i comportamenti come il risultato di scelte individuali.
A ciò si aggiunge che il successo della teoria economica della decisione è anche
dovuta al fatto che gli economisti hanno saputo svilupparli ampliando l’analisi a
decisioni più sofisticate che implicano interazioni tra più decisori attraverso la teoria
dei giochi. Questa è una branca della matematica applicata che studia le decisioni
individuali razionali in situazioni di interazione strategica tra soggetti, ovvero tali per
cui a ogni azione razionale tese a massimizzare la propria utilità possono influire sui
risultati conseguibili da un altro individuo.
Simon ha criticato la nozione di razionalità normativa centrata sul concetto di
ottimizzazione ponendo l’accento sui limiti umani in termini di capacità cognitive e
valutative e ipotizzando che gli individui agiscano in base ad una razionalità
‘limitata’ rispetto a quella economica.
Ma è soprattutto la ricerca nell’ambito della psicologia, in particolare quella
cognitiva, ad aver messo in luce alcune violazioni dei modelli normativi, ad aver
delineato diversi criteri basilari del comportamento decisionale umano e ad aver
elaborato teorie descrittive della scelta in grado di cogliere i meccanismi alla base
della formazione delle preferenze, del ragionamento e delle decisioni reali prese dagli
individui in determinate condizioni.
La rilevanza degli studi in questo ambito è dimostrata dal conferimento nel 2002 del
premio Nobel per l’economia allo psicologo cognitivo Daniel Kahneman per i suoi
lavori sui processi umani di giudizio e scelta. Queste ricerche hanno portato molti
economisti a dover prendere atto del fatto che spesso nella realtà il decisore si
allontana dal modello dell’homo economicus mostrando incoerenza nelle preferenze
e limiti nelle capacità cognitive; egli può, ad esempio, essere influenzato dal modo in
cui si è mentalmente rappresentato un problema decisionale e le sue scelte possono
essere manipolate a seconda di come gli viene presentata l’informazione.
1.Epistemologia della decisione
In un’affollata sala cinematografica suona per errore l’allarme antincendio. Tra gli
spettatori è il panico. Per paura di restare intrappolati tra le fiamme, molti di loro
cominciano a correre in direzione delle uscite ammassandosi, spingendosi a vicenda,
causando un deflusso caotico. Il cinema in più non è a norma di legge in quanto le
porte della sala si aprono verso l’interno: la calca tra gli spettatori in fuga rende
difficile trovare lo spazio per aprirle, cosa che rallenta e rende ancora più
complessa l’uscita del pubblico. Molte persone vengono calpestate dalla folla in
corsa o schiacciate contro le porte, e quello che era un falso allarme si trasforma in
un tragico bilancio di morti e feriti. Una situazione appena descritta rientra tra i
fenomeni di ‘panico collettivo’. Si tratta di semplici reazioni istintive a stimoli esterni
dettate dalla paura oppure va ipotizzata l’esistenza di una qualche ‘entità collettiva’ la
folla, il gruppo, l’inconscio collettivo che trascende e determina i singoli
comportamenti individuali.
Uno dei temi fondamentali delle scienze sociali riguarda il rapporto e le eventuali
contraddizioni tra comportamenti e decisioni individuali da un lato, e azioni e
fenomeni collettivi o sociali dall’altro (problema micro - macro). Da un punto di vista
epistemologico, ossia relativo all’indagine su teorie, metodologie, strumenti
concettuali e linguaggi,affrontare simili tematiche vuol dire confrontarsi con alcuni
problemi, come quello della scelta dell’unità di osservazione nella ricerca sociale, se
muovere cioè dallo studio dei singoli individui e dei loro comportamenti e decisioni
per spiegare azioni e fenomeni collettivi e sociali o se abbracciare invece un
approccio olistico. A questo problema sono legate sia la più generale questione
dell’esistenza delle conseguenze intenzionali e inintenzionali delle azioni
intenzionali, sia importanti riflessioni sul tema della razionalità dell’azione umana.
1.1.Decisioni individuali e fenomeni sociali tra individualismo e collettivismo
metodologico
Gustave Le Bon, nella Psicologia delle folle, spiegava come la caratteristica
principale di una folla fosse quella di ridurre e cancellare la coscienza degli individui
facendoli regredire ad esseri primitivi, istintivi e irrazionali, facilmente ipnotizzabili,
prede passive di meccanismi quali l’imitazione, il contagio, l’emotività. Una
psicologia di tipo collettivo, inconscio e irrazionale aveva quindi la meglio, secondo
Le Bon, su una di tipo individuale, cosciente e razionale. Anche Tarde spiegava le
azioni collettive e i processi sociali rinconducendoli a meccanismi d’interazione
individuale sulla base di un principio di imitazione o contagio passivo. Tarde
immaginava che tale ‘sonnambulismo sociale’ annullasse l’autonomia dell’azione
individuale. Anche Freud si confrontò con il problema dei comportamenti collettivi e
in particolare con le idee di Le Bon. Egli infatti spiegava come, a suo giudizio,
l’individuo che faccia parte di una massa nel venga influenzato a tal punto da subire
una profonda trasformazione psichica. Tuttavia, Freud non era d’accordo con Le Bon
nel ridurre l’inconscio ad un elemento collettivo, bensì riteneva che esso fosse
riconducibile ad una componente libidica orientata al puro piacere egoistico e che
questa fosse la chiave per spiegare comportamenti quali l’adesione individuale alle
folle e l’idealizzazione dei loro capi.
Le Bon ha dato un notevole contributo per il collettivismo metodologico. Gli approcci
teorici che ne fanno parte assumono come unità di osservazione nella ricerca sociale i
fenomeni sociali e gli eventi collettivi che vengono ‘reificati’, ovvero considerati
cose realmente esistenti, autonome e in grado di determinare comportamenti e
decisioni individuali. Gli individui sono di fatto considerati passivi in quanto spinti
all’azione da cause sociali, strutturali, culturali o contestuali che agiscono per lo più a
loro insaputa. Le preferenze, le motivazioni e le intenzioni individuali hanno un ruolo
del tutto marginale nella spiegazione delle azioni collettive dei fenomeni sociali;
quello che conta, come asseriva Durkheim sono i fatti sociali in quanto tali. I
fenomeni sociali sono fatti sociali, cioè entità collettive reali aventi esistenza
autonoma dagli individui che ne fanno parte e dotate di un potere deterministico e
coercitivo su di essi. Per capire meglio questo punto consideriamo il celebro studio su
Il suicidio. Egli cercò di dimostrare che una decisione così individuale come il
suicidio potesse essere considerata il prodotto di forze sociali sulla base delle quali
spiegare l’esistenza nello spazio e nel tempo di regolarità del fenomeno. Il suicidio
deve essere considerato un fatto sociale perché il sociologo deve considerare
l’insieme di suicidi commessi nell’ambito di una società in un dato periodo di tempo
come un ‘fatto nuovo e sui generis’, dotato di una propria natura e individualità
prevalentemente sociale.
In ogni momento della propria storia ogni società ha, secondo Durkheim, una
caratteristica attitudine al suicidio che si misura considerando il rapporto tra il
numero globale delle morti volontarie e quello della popolazione di ogni età e sesso.
Questo dato costituisce il ‘tasso della mortalità- suicida proprio della società
considerata’.
L’individuo sa che si uccide ma non sa perché, o meglio, si sbaglia sulle ragioni che
lo spingono ad agire. Egli riteneva che il tasso di suicidi dipendesse dal livello di
coesione e di regolamentazione sociale. Ciò lo portò a distinguere alcuni tipi di
suicidio. Un suicidio egoistico che dipende dall’insufficienza di coesione sociale. Un
suicidio altruistico dovuto a un eccesso di coesione sociale(l’individuo è talmente
attaccato ai gruppi di appartenenza da essere pronto a sacrificare la propria vita per
essi). E il suicidio anomico dovuto all’insufficienza di regolamentazione sociale
(caratteristico delle società moderne ed è diffuso durante i periodi di instabilità e di
crisi economiche).
Una gran parte degli scienziati sociali ritiene sempre più che il rapporto tra azioni e
decisioni individuali da un alto e fenomeni collettivi e sociali dall’altro possa essere
spiegato in modo più efficace abbracciando il paradigma dell’individualismo
metodologico, in base al quale non esistono in realtà delle entità collettive
impersonali, ma esistono solo individui che agiscono e interagiscono tra loro dando
luogo a conseguenza intenzionale e intenzionali. Per gli individualisti metodologici
(Hume, Smith, Weber, Popper, Boudon, Coleman), l’unità di osservazione da cui
muovere nella spiegazione delle azioni collettive e dei fenomeni sociali è l’individuo
che è attivo, ragiona e agisce intenzionalmente al fine di perseguire i propri obiettivi.
Dai comportamenti individuali e dalla loro aggregazione con i comportamenti altrui,
possono scaturire degli esiti intenzionali o non che sono i fenomeni collettivi e
sociali. In base all’individualismo metodologico, azioni e decisioni individuali sono
le cause dei fenomeni collettivi e sociali, ed è quindi a queste che bisogna guardare
per spiegare il sociale. Ciò implica il rifiuto del sociologismo, ovvero quella dottrina
per cui intenzioni e comportamenti individuali dovrebbero essere considerati come
effetti e non come cause. In base all’individualismo metodologico, al contrario,
strutture, istituzioni, fenomeni collettivi e sociali, possono ‘condizionare’ i
comportamenti individuali.
1.2. Il problema delle conseguenze inintenzionali
Bernard de Mandeville, medico del 700, aveva messo in luce l’importanza delle
conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali. Servendosi delle favole
di Esopo, Mandeville racconta una storia sugli usi e costumi di una società di api per
riferirsi implicitamente alle società umane. Egli evidenzia l’importanza del ruolo
delle componenti micro sociali (individuali) nella formazione di esisti macrosociali
(collettivi) inattesi. Egli immagina un alveare popolato da api immorali e sentine di
tutti i vizi (invidiose, egoiste, disoneste), le quali adottano comportamenti corrotti,
invece di mettere a repentaglio il benessere e lo sviluppo della società in cui vivono,
contribuiscono in modo inintenzionale ad accrescerne la prosperità. In sostanza,sia
pure assumendo comportamenti spesso moralmente riprovevoli e orientati al
perseguimento del benessere e dell’interesse personale, e sia pure non essendo
consapevoli di perseguire un fine collettivamente desiderabile, con i loro vizi le api
dell’alveare immaginato da Mandeville contribuivano alla felicità pubblica.
Mendeville fu criticato da Smith che accusò che la favola di ‘moralismo rovesciato’.
Ciò nonostante, l’intuizione di Mandeville fu ripresa e sviluppata da Hume, Ferguson
e Smith, il quale sostenne l’idea secondo cui perseguendo i propri interessi personali
ogni individuo contribuisce all’accrescimento del benessere collettivo, infatti Smith
utilizzò la metafora della ‘mano invisibile’, per sviluppare una visione di
un’economia in cui la produzione di beni, motivata dal desiderio di accrescere la
propria ricchezza, dà luogo ai migliori esiti possibili per l’intera società.
Sia Mandeville che Smith affermavano che dalle intenzioni individuali scaturiscono
delle conseguenze non intenzionali che sono all’origine dei fenomeno collettivi.
L’importanza del ruolo delle conseguenze inintenzionali frutto delle azioni umane
intenzionali nella spiegazione dei fenomeni sociali e la tendenza a considerarle
vantaggiose e benefiche dal punto di vista collettivo sono state condivise da molti
scienziati sociali. Menger, fondatore della Scuola austriaca di economia, aveva messo
in luce come gran parte delle istituzioni umane fosse il risultato inintenzionale e non
progettato delle azioni individuali. Secondo Menger, il denaro è sorto
spontaneamente in numerosi centri civili a seguito dello sviluppo economico a mano
a mano che gli individui hanno preso coscienza del fatto che, scambiando merci
meno esitabili contro altre più esitabile, il loro interesse economico era
avvantaggiato.
L’analisi dell’origine spontanea di numerose istituzioni sociali è stata messa al centro
dei contributi degli altri esponenti della Scuola austriaca, in particolare da Hayek.
Egli infatti ha sottolineato come gli effetti non intenzionali delle azioni individuali
siano da considerarsi la diretta conseguenza della fallibilità e dell’ignoranza della
conoscenza umana, punto su cui Popper ha dato un contributo centrale.
Scheda1.2. Hayek si interessa all’epistemologia, dedicando gran parte dei suoi studi
all’elaborazione di una teoria della conoscenza per l’economia. Egli considera punto di partenza di
qualsiasi teoria l’ipotesi della fallibilità, parzialità, diffusione e dispersione delle conoscenze
individuali. Secondo gli economista della Scuola austriaca la conoscenza non è disponibile a tutti e
gli individui non la acquisiscono tutti nello stesso modo. La conoscenza viene trasmessa agli
individui dalle loro istituzioni sociali ed essi non ne possiedono che dei frammenti. A loro volta gli
individui selezionano, assimilano e rinviano solo quella parte di conoscenza indispensabile alla
realizzazione dei propri interessi personali. Il problema centrale della scienza economica diviene
così quello di indagare la spontanea interdipendenza di un certo numero di individui, ciascuno dei
quali in possesso di uno specifico ammontare di conoscenze particolari di tempo e di luogo, possa
determinare uno stato di cose tale per cui si realizzi il buon funzionamento di un’economia.
Ammettere che l’uomo abbia una conoscenza dispersa e una ragione limitata e fallibile significa
ammettere che il ruolo che esse possono giocare nelle cose umane sia a sua volta limitato. Ciò
implica che i fenomeni sociali siano un prodotto spontaneo. Questa convinzione è ciò che accomuna
il pensiero di Hayek e quello di Popper, il quale ha fatto del fallibilismo della conoscenza umana il
cardine della sue epistemologia e della sua filosofia politica. Secondo Popper la situazione di
normalità degli individui è l’ignoranza e gli uomini non possono che eliminare e correggere
all’infinto i loro errori sottomettendo le loro conoscenze ad una critica costante.

1.3. Interdipendenza tra le azioni ed esternalità(influenza che ciascun individuo


esercita sulle scelte altrui).
Le conseguenze inintenzionali delle azioni umani intenzionali, ovvero i fenomeni
collettivi o sociali, sono dunque il più delle volte il risultato dell’interdipendenza dei
comportamenti e delle decisioni individuali. Un sistema di interazione è caratterizzato
da relazioni di ruolo, mentre un sistema di interdipendenza è caratterizzato da
relazioni che, pur non essendo riconducibili a dei ruoli, sono comunque in atto in
quanto la scelta di ogni individuo ha un effetto sulle conseguenze che ogni altro
individuo può aspettarsi dalla propria scelta.
Si parla di esternalità ogniqualvolta i costi o i benefici associati alla scelta di un
individuo sono influenzati dal comportamento di qualche altro individuo. Si potrebbe
cioè dire che le esternalità si verificano quando il comportamento di un individuo A
impone dei costi ad altri individui (B,C,D).
Il problema delle esternalità riguarda gli ambienti più diversi della nostra vita come
musica troppo alta di uno stereo sulla spiaggia o del fumo di sigaretta in un ristorante.
Alcuni individui considerano un evento un costo, mentre altri lo considerano un
beneficio, anche se nella gran parte dei casi le esternalità impongono o creano dei
costi o dei benefici.
Per chiarire meglio il concetto di esternalità, consideriamo il caso della salute e delle
malattie contagiose, ad esempio un semplice raffreddore. Uno starnuto impone un
costo agli individui che si trovano vicino a colui che starnutisce in quanto aumenta il
loro rischio di prendersi il raffreddore, cosa di cui la persona che starnutisce non tiene
pienamente conto nelle decisioni che prendere rispetto al proprio raffreddore.
Le esternalità sono dunque il prodotto dell’interdipendenza tra i comportamenti
individuali. Ed è proprio a questi che vanno ricondotte le conseguenze intenzionali e
inintenzionali, anche dette effetti di aggregazione, che possono essere semplici o
complessi. Gli effetti semplici scaturiscono dalla somma di un insieme di
comportamenti individuali concepiti isolatamente gli uni dagli altri. La nascita e lo
sviluppo del capitalismo moderno di stampo occidentale in base alla ricostruzione di
Weber avviene secondo questo meccanismo: la somma di comportamenti simili di
possessori di capitale e imprenditori dell’epoca, ognuno dei quali in sé avrebbe una
rilevanza solo marginale, provoca l’emergere di un nuovo sistema socio-economico.
Gli effetti di aggregazione complessi scaturiscono invece dalla situazione di
interazione in cui si trova una pluralità di individui, ossia una situazione in cui gli
individui aggiustano il proprio comportamento in funzione di quello atteso altrui. In
questi casi l’aggregazione dei comportamenti individuali non conduce sempre
all’interesse collettivo o individuale .
Le situazioni di panico collettivo sono spiegabili come degli effetti di aggregazione.
Questi possono agire in base alla prudenza e ciò nonostante dare origine a fenomeni
collettivi inintenzionali e indesiderabili che sono il semplice esito dell’aggregazione
di comportamenti individualmente razionali. È il caso dell’euforia finanziaria,
facendo ricorso al concetto di profezia che si auto adempie (Merton). Il meccanismo
è descritto da Boudon: negli anni 30 si diffonde la voce di una possibile insolvibilità
delle banche. Ogni cliente si presenta quindi allo sportello per ritirare i suoi aceri
prima che la banca si dichiari fallita. L’aggregazione di queste azioni individuali
mette realmente la banca in condizioni di insolvibilità. La profezia si realizza quasi
autonomamente, ovvero in modo spontaneo e non intenzionale in quanto nessuno dei
risparmiatori agisce con l’obiettivo di indurre il fallimento della banca, bensì in modo
razionale e prudente dal punto di vista individuale.
Sul carattere emergente degli effetti collettivi si è soffermato l’economista Schelling,
il quale ha fornito una serie di esempi in cui l’aggregazione dei micro motivi
individuali da emergere dei macrocomportamenti molto spesso estranei alle
intenzioni degli attori. Spesso il carattere emergente degli effetti collettivi è la
conseguenza dell’interdipendenza delle singole decisioni e delle esternalità a cui esse
danno origine. Schelling sostiene ad esempio che, se casualmente i neri sono
praticanti battisti e i bianchi praticanti metodisti, le due razze saranno segregate la
domenica mattina a messa, indipendentemente dal fatto che essi intendo esserlo o
meno. Se poi i neri frequentano una chiesa di neri in quanto si sentono più a loro
agio tra persone dello stesso colore, e i bianchi una chiesa di bianchi per la stessa
ragione, le scelte individuali indirette possono dare luogo alla segregazione.
1.4. La questione della razionalità.
Principio fondamentale dell’individualismo metodologico è quello della razionalità
dell’azione e della decisione. Secondo il senso comune, razionale è ciò che è logico,
coerente, efficace, mentre irrazionale è tutto il contrario.
Nell’ambito delle scienze sociali si può dire che la questione della razionalità
dell’azione e della decisione è riconducibile alla distinzione tra teorie normative e
teorie descrittive della scelta e alle relative nozioni di razionalità su cui esse
poggiano.
Le teorie normative sviluppano modelli di individui o decisioni razioni per poterne
generalizzare le ipotesi di fondo al fine di semplificare la realtà individuandone
regolarità a livello delle decisioni individuali. Queste teorie possono essere ricondotte
al modello dell’homo economicus.
Le teorie descrittive sono invece orientate alla descrizione dei comportamenti e delle
decisioni reali degli individui al fine di individuare quei fattori socio- cognitivi che
possono causare valutazioni e decisioni incoerenti ed essere alla base delle differenze
tra comportamenti e decisioni individuali in contesti simili. Queste teorie muovo
dalla constatazione delle difficoltà ad applicare le teorie normative a contesti
decisionali reali in cui raramente gli individui dispongono della conoscenza perfetta e
dei requisiti formali di coerenza imposti dalla razionalità normativa. Esse implicano
una nozione di ‘razionalità limitata’ che è più realistica di quella normativa, in quanto
tiene contro dei limiti socio- cognitivi umani.
Scheda 1.3. Il dibattito sul tema della razionalità di azioni e decisioni ha una lunga storia nelle
scienze sociali. Pareto distingueva le azioni umane in azioni ‘logiche’ e azioni ‘non logiche’ e
considerava le prima razionali e le secondo irrazionali. Un’azione è logica in senso paretiano
quando i mezzi adottati da un individuo che la compie sono adeguati ai fini che si è prefissato di
raggiungere. Mentre azioni non logiche in senso paretiano sono tutte le azioni che non possono
essere ricondotte alla moderna logica economica.
Un contemporaneo di Pareto, Weber, differenziava l’azione razionale dall’azione tradizionale
dall’azione affettiva. Mentre l’azione tradizionale è guidata dai costumi e dalle tradizioni e quella
affettiva dalle passioni, l’azione razionale lo è dall’obiettivo che prefigge l’individuo. Tuttavia
Weber ha distinto anche le azioni razionali in azioni ‘razionali rispetto allo scopo’, determinate
dalla volontà di raggiungere obiettivi specifici e fondate dell’efficacia del’adeguatezza dei mezzi ai
fini, e azioni ‘razionali rispetto al valore’, che non ricercano l’efficacia ma la coerenza
dell’individuo rispetto ai suoi valori, idee, o principi etici che definiscono il modo in cui operare.
Su questo tema ha poi dato un importante contributo Popper, il quale ha legato il concetto di
razionalità a quello di ‘logica situazionale’ asserendo che un individuo è razionale quando agisce in
modo adeguato alla situazione nella quale si trova. Mentre di ‘razionalità limitata’ ha parlato Simon
per sottolineare come l’individuo non cerca la soluzione ottimale ma quella soddisfacente, non
agisce isolatamente ma in interazione con altri individui.
L’opera di Simon ha influenzato quella del sociologo Boudon che ha parlato di razionalità
soggettiva per definire una concezione della razionalità in grado di rendere conto anche
dell’intangibilità di azioni e decisioni intenzionali non riconducibili al principio dell’adeguamento
mezzi-fini in vista della massimizzazione di un obiettivo. Secondo Boudon, il comportamento o la
decisione X di un individuo sono razionali quando è possibile asserire che quell’individuo ha delle
buone ragione per comportarsi in quel dato modo X in quanto…
Anche Elster si interessa al tema della razionalità muovendo una critica alla nozione di razionalità
perfetta di tipo normativo. Egli ritiene che vi siano molti casi di ‘razionalità imperfetta’ come quello
riassumibile con l’esempio di Ulisse e le sirene. Secondo Elster l’uomo è spesso irrazionale in
quanto mostra ‘debolezza di volontà’.
2. L’homo economicus e i suoi limiti
Esempio pag 22.
Il valore atteso (speranza matematica) della vincita è quel valore dato dalla somma
delle possibili vincite, ognuna ponderata per la sua probabilità di occorrenza. Pascal
propone un principio generale: il valore della partita per ogni giocatore corrisponde in
sostanza alla somma delle vincite possibili, moltiplicate per le loro rispettive
probabilità di concorrenza, a cui devono essere sottratte le perdite possibili a loro
volta ponderate. Fu così che Pascal, assieme a Fermat, gettò le basi del calcolo
probabilistico.
2.1. Alle origini della teoria della decisione
Bernoulli elaborò una teoria della presa di decisione individuale. Modificando il
criterio del valore atteso, egli ha posto i fondamenti della teoria decisionale moderna
ed è divenuto celebre per aver proposto una spiegazione al paradosso di San
Pietroburgo che si riferisce ad una situazione di gioco, e in più in particolare al
comportamento atteso di un individuo che giochi a testa o croce. Questo paradosso
deve il nome a Bernoulli, il quale insegnava matematica all’accademia di San
Pietroburgo e aveva constatato appunto come, in base al criterio del valore atteso, in
un contesto di gioco caratterizzato da quelle regole, un giocatore dovrebbe sempre
accettare di partecipare al gioco qualsiasi sia il diritto d’entrata da pagare essendo il
valore atteso del gioco infinito.
Il Paradosso di San Pietroburgo mette in evidenza il fatto che il criterio del valore
atteso a volte si rivela inadeguato a rendere conto dei comportamenti decisionali reali.
Bernoulli propone una soluzione distinguendo il valore atteso di un risultato, ossia il
suo valore oggettivo, dalla sua utilità attesa, ossia il suo valore psicologico o
soggettivo. L’utilità coincide con la soddisfazione soggettiva procurata da un
risultato, mentre l’utilità attesa corrisponde al prodotto dell’utilità del risultato per la
sua probabilità di occorrenza. Per chiarire il concetto di utilità attesa, Bernoulli
sottolineava ad esempio come il prezzo di un bene dipenda solamente dal bene in
questione e sia lo stesso per tutti, mentre coma la sua utilità possa essere valutata
differentemente da ogni individuo in quanto dipendente da circostanze soggettive
particolari, inoltre precisava che l’utilità attesa di un aumento della ricchezza cresce
all’aumentare di questa, ma in modo inversamente proporzionale alla quantità
posseduta. In base a questa logica, un beneficio di mille euro è molto più significativo
per un povero che per un ricco, ciò malgrado il fatto che la somma sia identica per
entrambi.
Il ragionamento bernoulliano ha introdotto una variabile di tipo psicologico o morale.
Se si passa dalla logica della matematica alla logica della decisione individuale reale
o alla psico-logica, ci si rende conto che la razionalità di una decisione non può
essere valutata considerando unicamente il valore atteso nel senso matematico del
risultato in quanto bisogna dare il ‘giusto posto’ al rischio. Se l’utilità di una vincita
aumenta in modo logaritmico allora, dal punti di vista soggettivo, si può essere
disposti ad accettare una somma certa inferiore al valore atteso del gioco piuttosto
che giocare a quella lotteria e assumersi il rischio di non vincere nulla.
La maggior parte di noi sceglie la vincita certa piuttosto che giocare la lotteria e
correre il rischio di restare senza nulla alla fine del gioco. Questo atteggiamento è
detto avversione al rischio.
2.2 La teoria dell’utilità attesa
La nozione di utilità proposta da Bernoulli contiene già gli elementi fondamentali
dell’homo economicus. Operando una semplificazione si può dire che le teorie
normative riconducibili a questo modello ipotizzano che una decisione razionale sia
l’esito di un calcolo costi-benefici che avviene in base ad una informazione perfetta
circa le alternative di scelta e le loro conseguenze, comprese le loro probabilità di
occorrenza nel caso di un contesto rischioso o incerto. Knight parla di ‘rischio’
quando le probabilità associate ai vari esiti possibili di una scelta sono ‘oggettive’ e
di ‘incertezza’ quando sono ‘soggettive’. Le teorie normative ipotizzano altresì che le
preferenze individuali tra le alternative in questione siano caratterizzate in base al
loro ordinamento dalla peggiore alla migliore.
Si ipotizza, inoltre, che i decisioni siano in grado di selezionare i mezzi (decisioni)
migliori sulla base di una calcolo teso a massimizzare i vantaggi o i benefici e
minimizzare gli svantaggi o costi. Una decisione è razionale quando un individuo
compara costi e benefici di tutte le alternative di scelta e tra queste seleziona quella
che offre le migliore remunerazioni.
La variante del modello dell’homo economicus che riguarda le decisioni in
condizioni di rischio è la teoria dell’utilità attesa elaborata da Neumann e
Morgenstern. Si tratta di una teoria normativa in quanto l’obiettivo principale non è
descrivere il comportamento reale degli individui, ma indicare come essi dovrebbero
agire in base ad alcuni criteri formali di coerenza logica per prendere decisioni
razionali. Essa si basa infatti su alcuni assiomi logici che caratterizzano la razionalità
delle scelte del decisore, in particolare la coerenza delle sue preferenze e su quelli
relativi al calcolo delle probabilità che si ipotizza guidino il decisore
nell’elaborazione dell’informazione. In tal senso, il decisore è rappresentato come un
‘attore bayesiano’ in grado di assegnare agli eventi dei valori di probabilità. È in base
a questi assiomi che hanno dimostrato l’esistenza di una funzione di utilità attesa data
dalla somma delle utilità associate a dei risultati possibili moltiplicate per le loro
probabilità di occorrenza.
La massimizzazione individuale dell’utilità attesa è un criterio razionale di decisione
tra alternative rischiose. Ad esempio: immaginiamo che un individuo debba decidere
se accettare l’offerta di lavoro di una società A o in quella di una società B, le quali
pagheranno entrambe allo stesso salario d’entrata. Supponiamo altresì che nella
società A si abbia il 50% di possibilità di avere un 20% di aumento nel corso del
primo anno e che nella società B si abbia il 90% di possibilità di avere un 10% di
aumento nel corso del primo anno. Cosa sceglierà un decisore razionale in base alla
teoria dell’utilità attesa? Si possono indicare le utilità che l’individuo associa ai due
aumenti salariali con U(20) e U(10). L’utilità attesa delle due alternative lavorative si
ottiene moltiplicando l’utilità del risultato di ogni alternativa (l’aumento salariale del
corso del primo anno) per la probabilità di ottenere quel risultato: l’utilità attesa
associata all’accettazione dell’offerta della società A sarà quindi 0.50 xU(20) e quella
relativa all’offerta della società B sarà 0.90xU(10). In questo caso, l’offerta della
società A ha un’utilità attesa maggiore di quella della società B in quanto esse sono
rispettivamente 10 e 9. La teoria prevede quindi che un decisore razionale
massimizzerà la propria utilità scegliendo la prima offerta , quella della società
A(20%).
Le funzioni di utilità sono tipicamente classificate in tre figure. Si dice che un
individuo è avverso al rischio se preferisce un risultato certo x a giocare una lotteria
che gli permetterebbe di ottenere un risultato atteso uguale a x. Un individuo è neutro
rispetto al rischio se è indifferente tra ricevere x con certezza e giocare alla lotteria,
ed è propenso al rischio se preferisce giocare la lotteria alla certezza di x.
La teoria dell’utilità attesa ipotizza l’avversione al rischio dei decisori, come ad
esempio i premi di assicurazione che si pagano contro certi rischi( in questo casi si è
avversi al rischio perché si preferisce una perdita certa di entità ridotta- il costo del
premio- rispetto ad una perdita aleatoria di grande valore). Tuttavia, l’avversione al
rischio non è un atteggiamento generalizzabile, ad esempio il caso del giocatore
d’azzardo alla roulette che, sapendo che il gioco è leggermente a vantaggio del banco
che deve garantire il proprio profitto, sembra comunque preferire il rischio e la
perdita in valore atteso.
2.3. Limiti e paradossi principali della teoria dell’utilità attesa
La teoria dell’utilità e il modello dell’homo economicus sono strumenti rigorosi per
l’analisi di numerose situazioni decisionali umane. Essi sono stati criticati soprattutto
per quel che riguarda le capacità descrittive in quanto, nella realtà, molte decisioni
individuali si allontanano dalla logica che essi sottendono. Spesso i decisori non
hanno a disposizione un’informazione completa circa il problema decisionale oppure
la loro percezione e il loro ricordo delle situazioni e delle alternative di scelta
possono essere ‘distorti’ e non rispondere a quei criteri di coerenza o di razionalità
imposti dagli assiomi della teoria.
In base all’assioma di transitività se un individuo preferisce A a B e B a C, dovrebbe
preferire anche A a C. è stato dimostrato come questa regola spesso sia violata
(Tversky). Nell’ambito di un esperimento, a degli studenti universitari venivano
presentate cinque lotterie. Agli studenti veniva domandato di scegliere la lotteria
preferita tra coppie di lotterie differenti. L’esperimento ha messo in luce che quando
gli studenti erano confrontati a delle coppie di lotteria adiacenti (a,b; b,c; c,d; d,e)
tendevano a scegliere la lotteria sulla base dell’importanza della vincita
corrispondente ( le probabilità di vincita erano percepite come simili e di
conseguenza non influenzavano la scelta). Quando erano confrontati a delle coppie di
lotterie le cui differenze tra le probabilità di vincita superavano un certo livello, gli
studenti tendevano a scegliere la lotteria sulla base della probabilità di vincita
piuttosto che su quella dell’entità della vincita. Questi risultati hanno dimostrato
come vi possono essere alcune condizioni in cui le preferenze individuali sono
intransitive.
Di fronte a delle alternative di scelta multidimensionali, le violazioni dell’assioma di
transitività sono frequenti. Consideriamo un altro esempio di Tversky: la valutazione
dei requisiti di diversi candidati per un lavoro (l’intelligenza, il livello di esperienza,
la conoscenza delle lingue, ecc). Supponiamo che la scelta del candidato avvenga in
base alla seguente regola: se la differenza tra i candidati rispetto alla dimensione I
(intelligenza) è più grande di α, sarà il candidato la cui dimensione I è di valore
superiore ad essere scelto. Al contrario, se la differenza tra i candidati per la
dimensione I è uguale o inferiore ad α, si sceglierà il candidato che presenta il valore
più elevato rispetto alla dimensione II(specializzazione).
Se si suppone che α=20, le differenze tra a e b e tra b e c per la dimensione I non sono
superiori ad α, e la scelta tra i candidati a,b e c si fa sulla base della dimensione II; b è
dunque preferito ad a (in base al suo livello di specializzazione) e c a b (per la stessa
ragione). Ma il confronto tra il candidato a e il candidato c mostra chela differenza tra
i due per la dimensione I è superiore ad α, cosa che implica che a sia preferito a c in
quanto più intelligente.
Esempio pag 34-35.
Si consideri un altro esempio di violazione dell’assioma d’indipendenza. Ad un
primo gruppo di studenti venia chiesto di fornire una risposta al seguente problema
decisionale: ‘dovete comprare un lettore di CD e non avete ancora deciso il tipo di
modello. Passate davanti ad un negozio che fa un unico giorno di saldi e in vetrina è
esposto un SONY popolare a 99$. Cosa farete: comprate il SONY o aspettate di avere
maggiori informazioni sui vari modelli disponibili?’ Davanti a questa situazione, il
66% degli studenti ha scelto di acquistare il lettore CD in saldo, mentre solo il 34%
ha deciso di attendere per acquistare ulteriori informazioni sui diversi modelli.
Ad un secondo gruppo di studenti veniva chiesto: ‘dovete compare un lettore CD e
non avete ancora deciso il tipo di modello. Passate davanti ad un negozio che fa un
unico giorno di saldi e in vetrina è esposto un SONY a 99$ e un AIWA a 169$. Cosa
fate: comprate l’AIWA, comprate il SONY, o aspettate di avere maggiori
informazioni sui vari modelli disponibili?’ in questo caso il 27% degli studenti ha
scelto la prima opzione, il 27% la seconda e il 46% ha deciso di aspettare.
I risultati di questo studio mostrano che l’aggiunta di un’ulteriore alternativa al
contesto di scelta aumenta la tendenza a ritardare la decisione e contribuisce a far
cambiare il tipo di scelta. Nella seconda situazione di scelta si sperimenta un forte
conflitto decisionale. Conflitto che invece non si presenta quando, come nella prima
situazione di scelta, esiste una sola alternativa.
Altra violazione della teoria dell’utilità attesa scaturiscono degli effetti di
rovesciamento dovuti all’influenza esercitata dal contesto di scelta e dal modo in cui
sono descritti i problemi decisionali. Il processo decisionale può essere scomposto in
due fasi: la prima detta di ‘incorniciamento’ e la seconda di ‘valutazione’. La fase di
incorniciamento consiste in un’analisi preliminare del problema decisionale in cui il
decisore incornicia le opzioni disponibili, i loro risultati possibili e le probabilità dei
risultati condizionatamente alle azioni scelte. L’incorniciamento è controllato sia dal
modo in cui è presentato il problema decisionale, sia da norme, abitudini e aspettative
del decisore. Uno degli scopi della fase di incorniciamento è quello di organizzare e
riformulare le alternative di scelta al fine di semplificare la seconda fase del processo
decisionale, cioè la valutazione e la scelta vera e propria. L’incorniciamento sembra
avere un’influenza fondamentale sul processo decisionale e valutativo degli individui.
Spesso le stesse domande o affermazioni poste intermini diversi o inversi provocano
risposte o reazioni contraddittorie. Si può ad esempio essere colpiti da un chirurgo
che dica ‘la vostra malattia è grave, ma esiste un nuovo tipo d’intervento chirurgico
che in un terzo dei casi salva la vita’, piuttosto che da uno che dica ‘la vostra malattia
è grave: in due terzi dei casi gli interventi falliscono’. In realtà, non vi è alcuna
differenza tra le qualità dei due interventi, in quanto entrambi hanno una probabilità
di successo in un terzo dei casi. L’esempio classico per illustrare l’effetto
dell’incorniciamento è conosciuto come problema della malattia asiatica,
un’epidemia che farà 600 vittime. Sono possibili due diverse scelte:
1) con il programma A, 200 persone saranno salvate.
2) con il programma B, c’è una probabilità di 1/3 di salvare 600 persone e una
probabilità di 2/3 di non salvare nessuno.
Davanti a queste alternative, il 72% dei soggetti interrogati ha preferito la prospettiva
più rassicurante, cioè il programma A, piuttosto che il programma B.
Cambiando la cornice delle domande, le risposte differivano molto rispetto a quelle
fornite nella prima situazione. In questo secondo caso le opzioni erano:
1) con il programma C, 400 persone moriranno
2) con il programma D, c’è 1/3 di probabilità che nessuno muoia e 2/3 di probabilità
che 600 persone muoiano.
Il 78% ha preferito la scelta rischiosa D, espressa in termini negativi di vite perse, alla
certezza della morte di 400 persone ipotizzata dall’opzione C (pur avendo anche i
programmi C e D lo stesso valore atteso, i soggetti erano favorevoli al rischio).
La differenza tra i due problemi di scelta consisteva nel fatto che i risultati erano
descritti nel primo problema in termini di vite salvate e nel secondo problema in
termini di vite perse. La differenza nell’incorniciamento dei problemi era alla base
del rovesciamento delle risposte e del passaggio da un atteggiamento favorevole al
rischio.
2.4 Modelli decisionali descrittivi
Spiegare violazioni e paradossi della teoria dell’utilità attesa vuol dire ammettere che
le capacità cognitive individuali sono molto più complesse di quanto può sembrare se
si abbraccia una visione normativa della razionalità del decisore. A partire dalla fine
degli anni 60 si è cercato di indagare i reali processi cognitivi coinvolti nella presa di
decisione individuale. Alcuni studiosi, come Hayek e Simon hanno messo in luce non
solo come spesso le decisioni che prendiamo non siano ideali ma come non siano
nemmeno completamente razionali in senso normativo.
Simon ritiene che vi sia una distanza tra la razionalità postulata dalle teorie normative
e la razionalità limitata che, a suo giudizio, caratterizza il comportamento umano
reale. La razionalità limitata tiene conto dei limiti cognitivi umani in termini di
selezione, acquisizione, trattamento e memorizzazione delle informazioni nel corso
del processo decisionale. Tali limiti possono essere dovuti alla mancanza di
informazione quando si conosce solo un numero limitato di alternative possibili, cosa
che implica che non sia possibile valutare e prevedere esattamente i risultati che
scaturiranno da queste alternative e le probabilità associate ad ogni risultato. O
possono essere dovuti all’incapacità gestionale della situazione decisionale quando,
se anche si dispone di tutte le informazioni rilevanti rispetto ad essa, non sempre si
possono svolgere tutti i calcoli necessari per identificare i possibili risultati di ogni
alternativa di scelta e le corrispondenti utilità. Questi limiti rendono impossibile la
massimizzazione che, secondo Simon, deve essere sostituita da una soluzione
‘soddisfacente’ tale per cui un decisore analizza le alternative una ad una e poi,
quando ne individua una soddisfacente o abbastanza buona in base al proprio livello
minimo di accettabilità, la sceglie.
L’approccio del ‘satisficing’(soddisfacente) è stato applicato anche allo studio delle
organizzazioni operando un parallelo tra processi di risoluzione dei problemi e di
scelta negli uomini e nelle organizzazioni. Altri lavori hanno portato Simon a
introdurre la nozione di ‘razionalità procedurale’ secondo cui la buona decisione non
è la migliore intermini di risultati ma in base alla rappresentazione che un individuo
si fa del problema decisionale e delle potenziali soluzioni prima di scegliere.
Molti ricercatori hanno poi cercato di mettere in evidenza differenti regole o
procedure decisionali che tengano conto delle reali capacità cognitive umane. Ad
esempio, quando siamo confrontati a molte alternative di scelta e, da un punto di vista
cognitivo, sarebbe difficile considerarle tutte, spesso usiamo il cosiddetto ‘approccio
dell’eliminazione per aspetti’. In base a questa regola, eliminiamo le alternative
considerando ad uno ad uno gli aspetti di ognuna: si considera uno tra gli aspetti delle
varie alternative, gli si assegna un qualche criterio minimo di valutazione, si
eliminano le alternative che, rispetto a quell’aspetto, non rispondono a quel minimo.
Per le alternative rimanenti si individua un secondo aspetto: si attribuisce un altro
criterio minimo di valutazione in base al quale eliminare le ulteriori alternative, e
tutto ciò sino a che non abbiamo eliminato tutte le alternative e non ne resta che una.
Uno tra i modelli decisionali descrittivi delle scelte rischiose più importanti è la
teoria del prospetto. Questa teoria muove dalla teoria dell’utilità attesa e si propone
di modificarla introducendo delle variazioni in grado di rendere conto in modo più
soddisfacente delle decisioni individuali reali.
La teoria del prospetto non fa riferimento al concetto di utilità, bensì a quello di
valore: in pratica le decisioni non vengono prese tanto in base all’utilità delle loro
conseguenze, quanto in base a dei punti di riferimento ancorati alla posizione reale
della persona.
Un’altra differenza tra teoria del prospetto e teoria dell’utilità attesa riguarda il modo
in cui vengono considerate le probabilità associate agli esiti. In base alla teoria
dell’utilità attesa, un decisore valuta una probabilità del 50% di vincere una certa
somma come un’opportunità che ha proprio il 50% di probabilità di verificarsi. Al
contrario, la teoria del prospetto considera le preferenza come funziona di ‘pesi
decisionali’ che non sempre corrispondono alle probabilità e che riflettono lì
importanza relativa di queste probabilità. I pesi decisionali tenderebbero a
sovrastimare le probabilità basse e a sottostimare le probabilità alte.
La teoria del prospetto descrive quindi una serie di violazioni della teoria dell’utilità
attesa e alcuni fenomeni ampiamente studiati da economisti e psicologi della
decisione, coma ad esempio il fenomeno dei costi affondati. A proposito di questi
ultimi effetti, la teoria prevede che le preferenze individuali dipendano dalla
rappresentazione mentale del problema decisionale: se i prospetti vengono presentati
in termini di vincite(ossia si il punti di riferimento è stabilito in modo tale che un
certo risultato sia considerato un guadagno) si avranno delle scelte contrarie al
rischio, mentre se essi vengono presentati in termini di perdite si avranno scelte
rischiose.
3.Interazioni tra decisori
Paolo e Gianni sono sospettati di aver commesso assieme un grave crimine per il quale non
vengono arrestati per insufficienza di prove. Mentre commettono un furto, essi però vengono colti
in flagrante, arrestati e condotti in prigione. La polizia spera di riuscire a farli condannare sia per
il furto che per l’altro crimine precedente, per il quale però ha bisogno della confessione di uno dei
due. I prigionieri vengono allora interrogati separatamente e a Paolo viene fatta la seguente
proposta: <Se nessuno di voi due confessa il primo crimine, possiamo condannarvi solo per il
furto, ossia a 5 anni di prigione ciascuno. Ma se tu confessassi e Gianni no, tu sarai rilasciato e
Gianni sarà condannato a 30 di prigione. Faremo la stessa proposta a Gianni, e se confesserete
entrambi, sarete condannati a 15 anni ciascuno>. La stessa proposta viene fatta anche a Gianni.
I due prigionieri scelgono entrambi di ‘confessare’ in quanto a ciascuno sembra la
decisione migliore dal punto di vista dei propri interessi, ossia la più razionale se letta
intermini di massimizzazione della propria utilità. Compiendo questa scelta Paolo e
Gianni evitano la penda massima e possono sperare di essere liberati. Solo che il
risultato finale che ottengono confessando entrambi è la rispettiva condanna di 15
anni di prigione. Per quanto razionale dal punto di vista individuale, la decisione dei
nostri due prigionieri non è la migliore se considerata dal punto di vista dell’esito che
scaturisce a livello collettivo o sociale dell’interazione tra le scelte di Paolo e Gianni.
L’analisi di questo esempio (dilemma del prigioniero) ci fa capire come a volte lo
studio di un problema decisionale dal punto di vista individuale sia parziale, in
quanto non permette di tenere conto dei condizionamenti che l’interazione con altri
individui può esercitare sulle preferenze individuali, sulle probabilità associate agli
esiti di scelta e sulle reali possibilità e capacità decisionali dei soggetti. La teoria della
decisione deve tenere conto dei sistemi di interdipendenza tra i comportamenti
individuali, e che possono essere analizzate con il ricorso alla teoria dei giochi.
3.1. Qualche concetto introduttivo sulla teoria dei giochi
La teoria dei giochi è lo studio dei comportamenti di scelta razionale di decisori in
situazioni di interazione strategica. Si tratta di situazioni in cui la decisione di un
soggetto, detto giocatore, può modificare la decisione o il benessere di un altro
giocatore, ovvero in cui le conseguenza associate ad ogni decisione dipendono non
solo dalle scelte del soggetto che decide ma anche da quelle effettuate da altri
giocatori. La teoria dei giochi propone di descrivere i meccanismi di interazione tra
decisioni individuali con dei modelli astratti generalizzabili a situazioni reali.
Un gioco è costituito da un insieme di regole che permettono a dei giocatori in
interazioni di effettuare delle scelte (strategie) dalle quali scaturiscono dei pagamenti,
che rappresentano l’utilità che ogni giocatore trae dalla situazione in cui si trova a
seguito dell’interazione della sua scelta con quelle degli altri giocatori e che possono
essere positivi, negativi o nulli. La teoria dei giochi fornisce delle soluzioni o risultati
ai giochi che definiscono le decisioni prese dai giocatori nelle diverse situazioni.
La teoria dei giochi ipotizza che il comportamento dei giocatori sia razionale
nell’accezione che al termine viene attribuita dai modelli normativi della decisione.
Per modellizzare le scelte in contesti di rischio la teoria dei giochi fa ricorso in modo
quasi automatico alla teoria dell’utilità attesa sviluppata da Neumann e Morgenstern
in quanto ipotizza che il decisore si comporti come un massimizzatore di utilità
attesa.
I contesti di interazione strategica si distinguono sulla base del tipo di informazione
che hanno a disposizione i giocatori ogni volta che devono scegliere un’azione e sulla
base della quale valutano le loro strategie.
Si dice che un gioco è a informazione completa se ogni giocatore conosce la struttura
del gioco, cioè l’insieme dei giocatori, le loro preferenze, la regola del gioco. Il
dilemma del prigioniero è a informazione completa in quanto ogni giocatore conosce
perfettamente l’utilità dell’altro giocatore e la regola del gioco stabilita dalla polizia.
Al contrario, quando almeno uno dei giocatori non conosce perfettamente la struttura
del gioco questo è detto a informazione incompleta. Un gioco è poi a informazione
perfetta se, come avviene nel gioco degli scacchi, quando deve scegliere la propria
strategia ogni giocatore è perfettamente informato circa le decisioni prese
precedentemente dagli altri giocatori. Un gioco è, al contrario, a informazione
imperfetta se, al momento del gioco, uno dei giocatori non conosce le scelte effettuate
dagli altri giocatori, o perché questa informazione gli viene nascosta, o perché i
giocatori giocano simultaneamente.
Un’altra dimensione sulla base della quale distinguere i contesti d’interazione è
quella relativa al tipo di relazione esistente tra i giocatori. Si dice che un gioco è non
cooperativo se i giocatori non hanno la possibilità di concludere degli accordi
vincolanti tra loro, o perché non possono comunicare, o perché dei fattori esterni lo
impediscono. Nel caso contrario è un gioco cooperativo.
Vi è una distinzione tra giochi simultanei e giochi sequenziali. Nei primi ogni
giocatore valuta tutte le azioni possibili la migliore, una volta per tutte, all’inizio del
gioco e decide di conseguenza. Nei sequenziali, invece, ogni giocatore valuta tra tutte
le azioni possibili la migliore non solo all’inizio del gioco ma anche ogni volta
successiva che deve nuovamente prendere una decisione nel corso dello svolgimento
delle varie fasi del gioco.
3.2. Rappresentazioni delle situazioni di interazione strategica.
I giochi simultanei vengono rappresentati sotto forma di una tabella (gioco in forma
normale), mentre per i giochi sequenziali si ricorre ad un albero di gioco (gioco in
forma estesa), che permette una rappresentazione completa dell’informazione relativa
allo svolgimento di tutte le fasi del gioco.
Un gioco in forma normale è definito da un insieme di giocatori che dispongono di un
insieme di strategie dalla cui combinazione scaturiscono degli esiti possibili del
gioco, tra i quali gli individui scelgono in base alla propria funzione di utilità.
Un gioco sequenziale(gioco in forma estesa) in cui le decisioni vengono prese in
momenti differenti e in cui ogni giocatore può giocare diverse volte è rappresentabile
con un albero di gioco che ha un punto di partenza che rappresenta la decisione del
primo giocatore e che è collegato con dei rami ad altri nodi decisionali in
corrispondenza dei quali è il giocatore successivo a poter scegliere. Una volta che
tutti i giocatori hanno preso le loro decisioni, si giunger ai possibili risultati del gioco,
ai quali sono associati i pagamenti corrispondenti.
3.3 Equilibrio di Nash
Un gioco può portare ad alcuni risultati detti equilibri. Esistono giochi con un
equilibrio unico, giochi con equilibri multipli e giochi che non hanno alcun
equilibrio. Uno dei concetti fondamentali della teoria dei giochi è quello di equilibrio
di Nash che prende il nome dal matematico Nash. Questo concetto è utilizzato per
formalizzare il risultato delle interazioni tra differenti giocatori nel caso di giochi non
cooperativi. Un equilibrio di Nash può essere descritto come un insieme di strategie,
una per ogni giocatore, tale che nessun giocatore tragga il minimo profitto dal fatto
dal fatti di allontanarsi dalla propria strategia di equilibrio. Un equilibrio è dunque
una situazione tale per cui ogni giocatore sceglie la strategia ottimale essendo date le
possibili strategie degli altri giocatori.
Per testare se un risultato è un equilibrio di Nash, dobbiamo verificare se almeno uno
dei giocatori non abbia interesse a scegliere un’altra strategia. Se ciò non accade
allora quel risultato è un equilibrio di Nash.
Quando esiste ed è l’unico, l’equilibrio di Nash consente di predire in modo chiaro e
intuitivo il risultato di un gioco. Questa condizione è presente in pochi giochi. Come
nel caso di altri giochi, l’equilibrio di Nash può non essere unico o non esistere.
Vediamo ad esempio il caso di un gioco con due equilibri di Nash rileggendo alla
luce della logica della teoria dei giochi la parabola della partita di caccia illustrata da
Rousseau nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini.
Nel suo racconto Rousseau ipotizza uno stato di natura in cui due uomini, dovendo
cacciare un cervo, possono cooperare tra loro mantenendo la propria postazione,
oppure, quando ne vedono passare una, inseguire e cacciare una lepre l’uno
indipendentemente dall’altro. Ognuno preferisce il cervo alla lepre e questa a nulla.
È facile verificare che in questo gioco non esistono delle strategie dominanti e quindi
non è possibile individuare l’equilibrio di Nash attraverso l’eliminazione delle
strategie dominate utilizzato nel caso del dilemma del prigioniero. Per determinare
l’equilibrio di Nash si può procedere in un altro modo, cioè per ogni strategia di un
giocatore valutare tutti gli esiti associati a tutte le strategie dell’altro giocatore e
vedere quale sia la sua risposta ottima, ossia quella che massimizza la sua utilità
attesa. La reciproca defezione e la reciproca cooperazione sono i due equilibri di
Nash del gioco.
In questo gioco, senza disporre di informazioni supplementari, non siamo in grado di
predire esattamente quale sarà la soluzione o equilibrio di Nash del gioco in quanto
ve ne sono due possibili entrambi verosimili: una in cui i giocatori cooperano e
cacciano insieme il cervo, e un’altra in cui i giocatori defezionano e cacciano ognuno
una lepre. Questa situazione messa in luce da Rousseau con la sua parabola e
rappresentabile con la teoria dei giochi mostra che paradossalmente il fatto che
entrambi i cacciatori preferiscano l’equilibrio della reciproca cooperazione per
cacciare il cervo non assicura affatto che poi ognuno scelga la strategia cooperativa.
L’esistenza e la presa di coscienza di un interesse collettivo non assicura, notava
Rousseau, che esso sia perseguito. Entrambi i cacciatori hanno infatti paura di
ritrovarsi nella situazione peggiore (decidere di cooperare quando l’altro defeziona e
trovarsi così con nulla mentre l’altro si ritrova con una lepre) e sanno che, se si
presenta l’occasione, defezionando potranno evitare questa possibilità.
Rousseau voleva mettere in guardia dalla convinzione che, in presenza di un interesse
generale, gli individui decidano di cooperare e coordinarsi per la sua realizzazione.
Scheda 3.1. abbiamo detto che il concetto di equilibrio corrisponde a particolari meccanismi di
coordinamento delle strategie individuali. Nei giochi non cooperativi ogni giocatore cerca di
migliorare la propria situazione. Ora ci domandiamo: ma il risultato che scaturisce da questi
meccanismi di coordinamento dato dall’equilibrio di Nash è ottimale dal punto di vista sociale? Per
rispondere a questa domanda bisogna fare riferimento al criterio di Pareto.
Si dice che un risultato x è Pareto-superiore (o Pareto- dominante) a un risultato y se tutti i giocatori
le cui strategie combinandosi danno origine a quei risultati preferiscono x a y. Ciò vuol dire che un
equilibrio è valutato Pareto-superiore ad un altro solo dagli individui che partecipano a quel
risultato e che, affinché esso sia valutato tale, è necessario che vi sia l’unanimità tra gli individui in
quanto basta un solo individuo che abbia preferenza differenti affinché il risultato x non si Pareto-
superiore al risultato y.
Si dice inoltre che un risultato x è Pareto- ottimale (ottimo paretiano) se non esiste alcun altro
risultato che gli sia Pareto- superiore, ovvero se non vi sia nemmeno un risultato y preferito
all’unanimità a x. Ciò non vuol dire però che un risultato Pareto-ottimale abbia una valenza
necessariamente positiva nel senso di ‘buon risultato’: anche una guerra può essere risultato Pareto-
ottimale in quanto un risultato Pareto-superiore a questo avrebbe bisogno dell’unanimità e quindi se
anche un solo individuo preferisce la guerra ad un altro risultato, questa può essere Pareto-ottimale.
Va inoltre aggiunto che una situazione che non sia Pareto-ottimale deve essere rifiutata in quanto
esiste una situazione che gli sarà Pareto-superiore, ovvero preferita da tutti.
Consideriamo il dilemma del prigioniero. Il nucleo di questo è che la razionalità individuale può
condurre a risultati ottimale nel senso di Pareto, ossia ad un’irrazionalità sul piano dell’esito
positivo. La tentazione di confessare è molto forte in quanto si tratta di una strategia dominante:
indipendentemente da ciò che fa l’altro ognuno ha interesse a confessare. Se entrambi confessano,
giocano le loro strategie dominanti dando luogo ad un equilibrio dominante che è sub-ottimale
all’equilibrio di reciproca cooperazione.

Scheda 3.2 Nel film Gioventù bruciata interpretato da Dean vi è una situazione che può essere
analizzata alla luce della teoria dei giochi con lo schema del gioco del pollo.
Due giovani si sfidano ad una corsa automobilistica guidando l’uno diretto verso l’altro in una
strada stretta. Colui che sterza per primo per evitare lo scontro è il pollo che sarà deriso da tutti gli
amici, mentre colui che continua a guidare dritto senza fermarsi è il vincitore. Se entrambi
continuano a guidare senza fermarsi le due macchine si scontreranno. L’ordinamento delle
preferenze di ogni giocatore è tale che ognuno preferisce in primo luogo vincere invece di essere il
pollo, poi sterzare tutti e due anche se in tal caso, pur rimanendo in vita, si è entrambi polli e, in
ultimo luogo scontrarsi con l’altra macchina.
Un altro modello di gioco caratterizzato da equilibri multipli è quello della battaglia dei sessi. Paolo
e Francesca si conoscono da alcuni mesi e devono scegliere cosa fare la sera. Possono scegliere tra
andare ad un incontro di boxe o al teatro. Entrambi preferiscono stare assieme e quindi il come è
secondario anche se Paolo ha una preferenza per la boxe e Francesca per il teatro. Anche in questo
caso è possibile determinare lì equilibrio del gioco costruendo le funzioni delle migliori risposte di
Paolo e Francesca e constatare che esistono due equilibri di Nash possibili: uno in cui i due
scelgono entrambi la boxe e uno in cui i due scelgono entrambi il teatro. Però a volte, l’equilibrio di
Nash può anche non esistere. Immaginiamo ad esempio che Paolo e Francesca siano sposati da 20
anni. Ora la situazione tra i due è in parte mutata: Francesca non ha più molta voglia di passare le
proprie serate con Paolo, mentre Paolo ha mantenuto ancora saldo questo desiderio. I pagamenti del
gioco in questa situazione sono quindi cambiati.
In effetti, qualsiasi sia la scelta di Francesca l’utilità di Paolo è comunque più elevata se sta con
Francesca, mentre lo stesso non è più valido per Francesca. In questo gioco non esiste un equilibrio
di Nash.

3.4 Selezione degli equilibri multipli


Nei giochi in cui esiste una molteplicità di equilibri di Nash può essere difficile
prevedere quale sarà il risultato che emergerà tra quelli possibili. Gli studi un questo
ambito hanno indicato alcune soluzioni che possono aiutarci in questo senso.
Vediamone due in particolare che sono più interessanti per le implicazioni in termini
socio-culturali che comportano.
1) una prima soluzione scaturisce dal fatto che a volte alcuni fattori o motivi possono
far sì che un particolare equilibrio venga percepito da tutti i giocatori come il modo
‘ovvio’ di giocare. Questa scelta è ‘ovvia’ per tutti i giocatori e può essere definita un
punto focale. L’idea è quella che i giocatori convergono spontaneamente su un
equilibrio particolare quando tutti pensano che tra i possibili equilibri del gioco
dell’equilibrio sia il più ovvio ossia il punto focale in base agli indizi forniti dalla
situazione. La conoscenza dei punti focali può aiutare a determinare l’equilibrio
effettivamente giocato anche qualora i giocatori non possono comunicare prima del
gioco e il gioco non sia ripetuto. La convergenza su un punto focale può avvenire in
molti modi. Il primo equilibrio sarà scelto in modo naturale perché conveniente in
termini di pagamenti. In altre situazioni la soluzione dei punti focali e la convergenza
spontanea dei giocatori su un equilibrio unico sono facilitate da ‘norme’ e
‘convenzioni’ e da caratteristiche socio-culturali.
Dal punto di vista della teoria dei giochi, una convenzione emerge se è un equilibrio
di Nash, ovvero se ogni giocatore ritiene opportuno uniformarvisi e se pensa che
anche gli altri vi si uniformeranno. Un esempio per chiarire questo punto può essere
considerato il gioco dell’ultimatum.
Immaginiamo che due individui debbano decidere come dividersi 400€ senza avere la
possibilità di coordinarsi comunicando tra loro. Un individui A deve proporre una
cifra per se stesso e lasciare quindi il resto all’individuo B. B può solo accettare o
rifiutare la proposta di A. gli individui sanno però che se B accetta la proposta di A la
suddivisione si fa secondo la cifra proposta; mentre se B rifiuta la proposta di A
nessuno dei due riceverà dei soldi. L’equilibrio che emerge nella maggior parte delle
volte in cui questo gioco viene giocato 200/200, ossia una suddivisione uguale.
Questo equilibrio, invece di riflettere la logica rigorosa della massimizzazione della
propria utilità secondo cui A dovrebbe proporre delle suddivisioni ineguali a suo
vantaggio in quanto B avrebbe in ogni caso interesse ad accettarle, emerge come un
punto focale che può essere ad esempio ricondotto alle convenzioni sociali, basate sul
valore dell’uguaglianza e/o della lealtà. La selezione o la convergenza su un
equilibrio comune possono essere oggetto di convinzioni tra i giocatori.
2) Un’altra soluzione al problema della selezione dell’equilibrio è di tipo ‘evolutivo’.
Biologi e sociobiologi spiegano i comportamenti degli animali e degli esseri umani in
termini di vantaggi evolutivi. Da un punto di vista evolutivo la messa in atto di
comportamenti cooperativi viene letta in termini di massimizzazione del successo
della specie. La selezione dell’equilibrio di un gioco non avviene in base a concetti di
soluzione sofisticati come quello dell’equilibrio di Nash che poggiano sull’ipotesi di
una forte razionalità dei decisori orientata all’ottimizzazione, ma fa leva su una sorta
di razionalità limitata. In tal senso, i giochi evolutivi si ispirano ai meccanismi
dell’evoluzione biologica per studiare le soluzioni che possono emergere dalle
interazioni tra giocatori privi di una razionalità forte.
Inoltre, se un comportamento diviene dominante non è solo perché è selezionato
rispetto ai comportamenti che non riscuotono successo, ma anche perché è il frutto di
un apprendimento in base a un processo o per tentativi ed errori o per imitazione dei
comportamenti che riscuotono successo. L’idea di fondo è che la possibilità di
ripetere il gioco possa avere influenza sulle scelte individuali: quando esistono
diverse ripetizioni, la scelta di un individuo non si situa più solamente tra due
strategie, ma anche tra altre strategie eventuali e complesse a lungo termine. Si
ipotizza che la ripetizione di un gioco comporti la creazione di una serie di
convinzioni implicite che stimolano i giocatori a scegliere delle strategie di lungo
periodo che tendono alla cooperazione
Lo schema dell’’occhio per occhio’, proposto dallo psicologo sociale Rapoport, si
basa su due indicazioni: cooperare al primo round e poi fare ciò che ha fatto
l’avversario. Dato che i giocatori sanno che la cooperazione, nel lungo termine, è più
conveniente per tutti, tenderanno a non ingannarsi reciprocamente. È proprio nel
momento in cui si insatura un clima di cooperazione che uno dei due giocatori può
pensare che defezionare possa essere una strategia vantaggiosa. A questo punto,
l’altro giocatore risponderà con un atteggiamento ugualmente non cooperativo sino al
momento in cui i clima cooperativo non si sarà ristabilito. La strategia dell’occhio per
occhio nel dilemma del prigioniero ripetuto è considerata molto efficace e stabile dal
punto di vista evolutivo in quanto i giocatori realizzano che nel lungo termine la
cooperazione è la strategia più vantaggiosa per tutti.
Tornando alla biologia, un gene mutante con una strategia differente avrà poche
chance di sopravvivere alla selezione. In altri termini, un organismo determinato dal
gene dell’occhio per occhio sarà in grado di produrre un atteggiamento cooperativo
stabile anche se i suoi obiettivi sono puramente egoisti.
Scheda 3.3. l’interpretazione dei comportamenti sociali in chiave biologica sulla base di una lettura
che tiene conto del loro valore adattivo, vale a dire dei vantaggi che essi presentano dal punto di
vista evoluzionistico, è stata sostenuta dalla moderna sociobiologia, una rivisitazione del cosiddetto
‘darwinismo sociale’ ottocentesco. Il padre della sociobiologia Wilson è partito dall’analisi dei
comportamenti dei cosiddetti ‘insetti sociali’, come la api le formiche, i cui ruoli sono fortemente
determinati da fattori genetici, per passare poi allo studio dei comportamenti umani. La
suddivisione della società degli insetti sociali in caste, ognuna delle quali è caratterizzata da un
comportamento utile al gruppo, viene interpretata in termini di vantaggi evolutivi, vale a dire la
possibilità di lasciare una prole più numerosa. Nel caso degli insetti sociali la suddivisione dei ruoli
è utile per aumentarne il success riproduttivo: il sacrificarsi per gli altri membri della specie, il
curare le uova, ecc, non sarebbero altro che un meccanismo di tipo sociobiologico.
In sostanza, qualsiasi forma di comportamento viene vista in relazione alla sopravvivenza
dell’individuo o, anche, dell’intero gruppo sociale cui esso appartiene. In quest’ottica, Wilson
rovescia il punto di vista secondo cui sono gli individui (i fenotipi) a riprodursi per trasmettere il
loro DNA, cioè i propri geni: per la sociobiologia sarebbero invece i geni ad utilizzare opportuni
comportamenti sociali, ossia i fenotipi dipendono da genotipi che massimizzano il successo
riproduttivo di una specie.

3.5 ‘Free-riding’, problema dell’azione collettiva e razionalità sociale


Nell’ambito della teoria dei giochi una decisione di definizione può essere definita di
free-riding(passeggero clandestino) quando si vuole indicare il comportamento di un
giocatore che defeziona dalla cooperazione con gli altri giocatori tesa alla
realizzazione di un interesse collettivo, pur beneficiando dei vantaggi che
scaturiscono dai comportamenti cooperativi altrui.
Comportarsi da free-riding può anche voler dire ottimizzare nell’immediato un
vantaggio personale, ma contribuire però al concretizzarsi di una situazione futura
svantaggiosa dal punto di vista sociale o collettivo. Le situazioni di questo tipo sono
innumerevoli. In una regione in cui scarseggi l’acqua, ad esempio, gli individui
devono affrontare decisioni immediate in vista di risultati a lungo termine: se il
desiderio di ogni singolo abitante di fare una doccia più lunga si scontra con la
prospettiva di avere meno acqua in futuro per l’intera comunità. Sulla base di questa
logica, ogni pesatore ‘massimizzerebbe’ il proprio interesse pescando quanto più
pesce possibile e, tuttavia, se tutti i pescatori se comportassero in questo modo si
giungerebbe ad una situazione in cui il pesce scarseggerebbe sino all’estinzione.
Queste situazioni sono analizzabili con la teoria dei giochi e costituiscono dei giochi
collettivi noti come dilemmi sociali. I dilemmi sociali possono essere distinti in base
a come vengono ripartiti costi e benefici tra i giocatori. Vi è così un primo tipo tale
per cui la realizzazione di un potenziale interesse collettivo all’interno di un gruppo o
di una comunità implica un costo immediato per gli individui che dà origine in un
momento successivo ad un beneficio condiviso da tutti. In questo caso, ogni giocatore
può avere un incentivo a comportarsi da free - rider non contribuendo ai costi
dell’azione collettiva (cooperazione in vista del beneficio comune), sia pur
beneficiando dei vantaggi che essa può comportare. Vi è poi un secondo tipo di
dilemmi in cui ogni giocatore è tentato dalla possibilità di approfittare del beneficio
immediato legato ad un comportamento da free- rider che tuttavia in un secondo
momento produce un costo condiviso da tutti e che nuoce all’interesse collettivo.
Entrambi i dilemmi sociali possono dare origine ad esiti collettivi socialmente
negativi.
Il problema di fondo relativo al primo tipo è stato delineato da Olson. Già prima di lui
molti economisti avevano messo in luce come la realizzazione e la manutenzione dei
beni pubblici non potessero essere assicurate da contributi individuali volontari: un
individuo ‘economicamente razionale’ non contribuisce volontariamente alla
realizzazione di simili beni in quanto preferisce comportarsi da free- rider e
usufruirne senza pagarne i costi. Il dilemma messo in luce da Olson mostra come ,
piuttosto che sopportare i costi di un’azione collettiva, gli individui preferiscano
defezionare comportandosi da free- rider, ossia lasciando pagare i costi della
partecipazione agli altri individui per beni di cui beneficeranno o che useranno
comunque.
La natura del bene sarebbe tale che comportarsi da free- rider, ossia non contribuire
alla realizzazione del bene ma utilizzarlo comunque, è infatti l’unica risposta
‘economicamente razionale’ da parte degli individui. Ogni individuo farebbe infatti
il seguente ragionamento: dato che potrò utilizzare il parco sia che io vi contribuisca
che io non vi contribuisca, per me è più conveniente lasciare pagare gli altri per la sua
realizzazione senza dover contribuire anche io. Il risultato collettivo che ne
emergerebbe sarebbe quindi la non realizzazione del parco. Olson ha sostenuto
proprio come dice Rousseau che in simili casi l’interesse collettivo non sarà
realizzato a meno che un governo non intervenga in modo coercitivo.
L’esempio più noto del secondo tipo di dilemmi sociale è il cosiddetto ‘problema
della pastura comune’. Questo tipo di dilemma sociale è il contrario del precedente.
Nel caso precedente un individuo ha un incentivo personale molto forte ad astenersi
dalla partecipazione alla realizzazione di un determinato bene, dato che può
comunque goderne i benefici anche comportandosi da free- rider. In questo caso
invece, ogni individuo ha un forte incentivo personale a sfruttare al massimo una data
risorsa comune facendo pagare a tutti gli altri il costo legato al necessario venir meno
di questa risorsa. Immaginiamo un gruppo di contadini che hanno a disposizione un
terreno comune per far pascolare il loro bestiame. Ogni contadino ha interesse a far
pascolare sul terreno comune il maggio numero di animali possibile, tuttavia ciò
comporta che il terreno sia ben presto danneggiato e privo di erba da pascolo a
sufficienza per il bestiame di tutti. Tuttavia, qualora tutti i contadini facciano questo
ragionamento razionale e continuino a far pascolare sempre più animale sul terreno
comune, il risultato collettivo sarà il rapido esaurimento dell’erba, le cui conseguenze
negative saranno sopportate da tutti.

4. Cognizione e decisioni
Linda ha 32 anni, è single e molto intelligente. Ha una laurea in filosofia e quando era studentessa
era molto attiva sul fronte dei diritti umani e della giustizia sociale, e partecipava a manifestazioni
anti-nucleari.
Indicate quale tra le seguenti affermazioni su Linda è la più probabile:
a) Linda è un’impiegata di banca
b) Linda è un’impiegata di banca ed è un’attivista del fenomeno femminista

L’affermazione più probabile è la b, come ha affermato l’88% di soggetti intervistati.


Ciò viola un principio probabilistico elementare: la probabilità che due eventi
indipendenti si producano assieme non può essere maggiore della probabilità che
ognuno degli eventi si produca separatamente. Le impiegate di banca femministe
costituiscono un sottoinsieme della popolazione totale delle impiegate di banca. Però
l’affermazione impiegata di banca attivista del movimento femminista, sembra più
rappresentativa della descrizione di Linda rispetto alla semplice affermazione
impiegata di banca. Questo fenomeno è un esempio di errore logico nel giudizio noto
come fallacia della congiunzione.
4.1. Euristiche e ‘bias’
Nella teoria della decisione comportamentale o giudizio e presa di decisione, si
alimenta dei contributi dell’economia e soprattutto della psicologia cognitiva, che
hanno anche dato impulso all’emergere di nuovi settori disciplinari volti a indagare i
fattori responsabili delle deviazioni delle scelte individuali effettive dai modelli
decisionali normativi. Ciò è dimostrato dal crescente successo riscosso dalle nuove
discipline dell’economia cognitiva e della neuro economia.
Nell’ambito della psicologia del giudizio e della decisione, è molto sviluppata la
branca delle euristiche e dei bias tesa a mettere in luce gli schemi, le strategie, o le
‘scorciatoie cognitive’ a cui gli individui ricorrono e i ‘sistematici errori’ che spesso
commettono nella formulazione di valutazioni e nella presa di decisione specialmente
se in condizioni di rischio.
Le euristiche sono delle regole cognitive pragmatiche spesso utilizzate in modo più o
meno cosciente o intuitivo nel trattamento dell’informazione per ridurre la
complessità nella soluzione dei problemi. Per comprenderne il senso, si pensi agli
‘stratagemmi semplificatori’ che sono alla base della percezione visiva e che vengono
applicati per rappresentare la prospettiva: siamo ad esempio indotti a ritenere che una
figura umana che si percepisce più alta di una casa debba essere in primo piano
rispetto ad essa. Il ricorso ‘semi-cosciente’ a questa euristica percettiva permette di
concludere rapidamente, senza che sia necessario procedere ad alcuna misurazione,
che la persona non è realmente più alta della casa. Le euristiche riguardano numerosi
aspetti della vita quotidiana e si basano su esperienze pratiche, dirette o indirette, che
funzionano in un gran numero di casi.
Malgrado il fatto che le euristiche siano utili in un gran numero di casi per
‘economizzare’ le capacità cognitive umane, nonché le risorse e il tempo a
disposizione, per produrre percezioni e valutazioni corrette, e per consentire di
prendere buone decisioni, esse possono spesso far cadere la nostra mente in alcune
sistematiche trappole, fallacie, o ‘errori’ (bias) percettivi e valutativi che possono
anche tradursi in serie conseguenze nell’ambito del processo decisionale.
Scheda 4.1 La ricerca di modelli più realistici dei processi razionali di decisione individuale che si
è sviluppata nell’ambito della psicologia cognitiva ha coinvolto anche l’economia, come dimostra
l’affermarsi di una nuova disciplina, l’economia cognitiva e sperimentale. Questa attraverso l’uso
della sperimentazione, si avvale dei contributi della psicologia cognitiva, dell’intelligenza artificiale
e della teoria dei giochi per criticare postulati, assiomi e predizioni della teoria economica
normativa e individuare dei fondamenti più realistici del comportamento decisionale umano.
I primi studi di neuroscienze nell’ambito del processo decisionale che sono consistiti nell’esame
sistematico di individui con chiare lesioni cerebrali hanno aperto la strada a quella che oggi è
l’indagine delle basi naturali dei comportamenti decisionali in ambito economico, oggetto di studia
della neuro economia.
Scheda 4.2 Il mondo della percezione sensoriale si caratterizza per stratagemmi ed errori simili a
quelli che regolano la percezione cognitiva. È stata la scuola della psicologia della Gestalt a indicare
l’esistenza di principi o leggi in base a cui le percezioni si organizzano in unità coerenti e regolari.
Una delle leggi fondamentali che regolano la percezione visiva è ad esempio le immagini e gli
oggetti sono visti come delle figure che si staccano da uno sfondo. Il nostro cervello ha la tendenza
a strutturare le informazioni in modo che tutto ciò che è più piccolo che un significato per noi, si
percepito come una figura autonoma rispetto ad uno sfondo meno strutturato e preciso che ci appare
staccato e distante.
Un altro principio evidenziato dai gestaltisti è quello della chiusura basato sul fatto che il nostro
cervello tende a completare le figure o i suoni. Perciò, quando un oggetto, una figura, o una frase
presentano un aspetto di incompletezza o un contorno non sufficientemente definito, il cervello
tende a regolarizzare, a completare le parti che considera mancanti.
Noi diamo per scontate queste capacità percettive che sono preziose per orientarci. Ma spesso esse
possono indurre a illusioni percettive. I casi più frequenti di illusione si hanno quando le
caratteristiche obiettive dell’oggetto non corrispondono alla percezione che ne abbiamo. Rientra in
questo ambito l’illusione della luna all’orizzonte che tutti possono sperimentare in una sera limpida
di luna piena: per un effetto ottico la luna, che è sempre della stessa grandezza, sembra molto più
grande all’orizzonte di quanto non sembri quando è alta nel cielo. Un altro esempio è l’illusione di
Muller-Lyer dove la lunghezza dei segmenti sembra dipendere dal senso delle punte delle frecce.

4.2. Euristica della disponibilità


Si valuta la frequenza o la probabilità di un evento sulla base della facilità con cui si
ricordano circostanze o associazioni rilevanti. Per stimare la disponibilità non è
necessario mettere in atto le operazioni che consentono di ricordare circostanze o
associazioni. È sufficiente stabilire la facilità con cui queste operazioni possono
essere messe in atto proprio come è possibile valutare la difficoltà di un puzzle senza
dover considerare le soluzioni specifiche.
Generalmente, le circostanze o le associazioni relative ad eventi frequenti o più
probabili sono più facili da ricordare di quelle relative ad eventi meno frequenti o
probabili. Fare affidamento su questa euristica vuol dire semplificare valutazioni e
previsioni che spesso possono essere molto complesse. Tuttavia, ci sono casi in cui il
ricorso a tale scorciatoia mentale dà origine ad errori sistematici, la disponibilità di un
evento è infatti influenzata anche da fattori non correlati con la frequenza e la
probabilità oggettive dell’evento stesso, come la familiarità (ossia la frequenza con
cui un evento simile si presenta alla memoria, la salienza emotiva (ossia la
limpidezza con cui un evento simile viene ricordato) e la distanza temporale percorsa
dall’ultima occorrenza dell’evento simile in questione. Quando la disponibilità di un
evento e la frequenza o la probabilità oggettive del verificarsi di un evento simile
sono tra loro divergenti, ricorrere a questa strategia mentale può voler dire
sovrastimare la frequenza o la probabilità del verificarsi degli eventi rari ma
memorabili, familiari o recenti e sottostimare quelle degli eventi meno eclatanti e
disponibile ma più comuni.
Un punto importante che merita di essere ancora sottolineato è come l’aumento dei
disponibilità mentale di un evento (ossia quanto sia facilmente evocabile) possa
dipendere non solo dal ricordo riconducibile ad un’esperienza personale significativa
o a quella di persone conosciute, ma anche da quello indotto dalla pubblicizzazione
fattane dai media. Pensiamo al caso del nucleare. Se è fuori dubbio il forte successo
mediatico che possono riscuotere servizi centrati su aspetti drammaticamente
eclatanti del problema nucleare come l’incidente di Chernobyl, è anche evidente che
ciò contribuisce a rendere molto disponibile nel pubblico il ricordo di tragedie passate
e, di conseguenza, l’associazione tra queste e il nucleare più che tra nucleare e
potenziali benefici. Ciò malgrado il fatto che gli esperti dichiarino che i rischi
associati al nucleare siano oggettivamente bassi. Questa eccessiva disponibilità di
ricordi negativi fa sì che il pubblico stimi come molto elevata la probabilità di
incidenti legati alla produzione di energia nucleare, cosa che si traduce in un rifiuto
basato sull’emotività più che su argomentazioni scientifiche.
Va comunque detto che l’influenza dei media sulla disponibilità individuale del
ricordo di alcuni eventi può avere anche conseguenze positive. Ad esempio il caso
del rischio HIV/Aids. La pubblicizzazione da parte dei media può tradursi in un
cambiamento della percezione del rischio individuale (nel senso di una maggiore
presa di coscienza del problema) e, eventualmente, anche in cambiamenti
comportamentali in direzione di una maggiore prevenzione. Pensiamo alla diffusione
della notizia che un personaggio pubblico molto noto ha contratto l’HIV o malato di
Aids. La grande attenzione riportata dai media sul destino di queste celebrità è stata
seguita da un aumento della familiarità e della salienza emotiva del rischio HIV/Aids
(ovvero sia della frequenza con cui un evento associato a tale rischio si presenta alla
memoria, sia dalla limpidezza con cui esso viene ricordato.
Scheda 4.3. Le ricerche sulle euristiche utilizzate per la valutazione del rischio si avvalsa il
paradigma psicometrico attraverso cui vengono misurati quantitativamente percezioni e
atteggiamenti individuali di fronte al rischio. Il primo studio in questo ambito si proponeva di
sviluppare un’analisi storica delle preferenze individuali relative ai rischi per misurare
l’accettabilità rispetto ai benefici di alcune tecnologie o attività rischiose. In questo lavoro, il fatto
che una persona si esponesse volontariamente al rischio veniva considerato come fattore decisivo
per comprendere la relazione tra rischio percepito, benefici percepiti e accettazione del rischio.
Veniva così messo in luce come i rischi percepiti come volontari erano considerati come più
accettabili e meno probabili rispetto ai rischi percepiti come imposti.
Tra i risultati più significativi di questi studi è stato messo in luce come la rappresentazione mentale
del rischio si fondi su due elementi: il rischio terrificante caratterizzato da un basso grado di
controllo personale, da sentimenti di paura, e il rischio sconosciuto caratterizzato dal livello di
conoscenza personale e scientifica rispetto ad aspetti reputati sconosciuti nuovi.

4.3. Euristica della rappresentatività


In generale, si ricorre all’euristica della rappresentatività quando, dovendo
determinare la probabilità di appartenenza di un oggetto, un evento o un individuo.
Sostanzialmente noi tendiamo spesso a valutare la probabilità di un evento in base al
grado di somiglianza o rappresentatività intuitiva della popolazione da cui è derivato
e in base al grado in cui riflette le caratteristiche salienti del processo da cui è
generato, come ad esempio la casualità. Quindi, se ad esempio giochiamo alla
roulette e il rosso esce diverse volte di seguito, tenderemo a considerare imminente
l’uscita del nero in quanto essa, rispetto all’uscita del colore rosso, renderebbe la
sequenza totale degli eventi più rappresentativa della casualità caratteristica di questo
gioco. Questo fenomeno, che è sostanzialmente uguale a quello del lancio della
monetina, è noto come errore del giocatore d’azzardo.
Uno dei motivi per cui ricorriamo alla rappresentatività è che spesso crediamo in
quella che Tversky e Kahneman hanno chiamato legge dei piccoli numeri che ci
induce a ritenere che dei piccoli campioni siano altamente ‘rappresentativi’ della
popolazione da cui sono estratti proprio come garantito statisticamente dalla legge
dei grandi numeri per campioni molto ampi della popolazione. In statistica, con il
termine popolazione si fa riferimento all’insieme di tutti i soggetti oggetto di studio,
mentre con quello di campione si riferisce ad un sottoinsieme di soggetti della
popolazione che permetta poi di generalizzare i risultati dell’intera popolazione.
Questo campione deve presentare una numerosità adeguata secondo la popolazione di
origine e il tipo di studio e deve rispecchiare la struttura della popolazione. In tal
senso si dice che esso è ‘rappresentativo’ delle caratteristiche della popolazione.
Immaginiamo ad esempio di avere un grande recipiente con 300 palline: 100 sono
bianche, 100 rosse e 1001 verdi. Supponiamo di selezionare un campione di 30
palline. Un campione rappresentativo conterrà 10 palline di ogni colore. Un campione
che avesse 25 palline bianche e 5 rosse non sarebbe rappresentativo. In base alla
legge dei piccoli numeri, la mente tende a confondere la rappresentatività intesa nel
senso di ‘ciò che è tipico di’ o ‘ciò che è caratteristico di’ con la rappresentatività
statistica, e a ritenere quindi statisticamente vero per le piccole serie quello che è
quasi vero per le serie molto lunghe e vero soltanto per le serie infinitamente lunghe.
L’euristica della rappresentatività si rivela spesso molto utile. Ad esempio, se stiamo
per uscire di casa e non abbiamo sentito le previsioni del tempo, proveremo a fare
una previsione informale basandoci su quanto le caratteristiche della giornata sono
rappresentative di una giornata di pioggia o di sole. Tuttavia, anche la
rappresentatività può indurre in errori sistematici e prevedibili. Così, ad esempio, nel
corso di un ragionamento probabilistico si può cadere nella fallacia della
congiunzione.
La rappresentatività può scaturire nell’omonimo errore anche a causa della nostra
difficoltà nel comprendere il concetto di probabilità di base, anche detta probabilità
iniziale o a priori cosa che può dare origine ad un errore logico detto fallacia della
probabilità di base. Un’ampia letteratura in materia dimostra come di fronte ai
compiti decisionali più diversi la gran parte degli individui valuti la probabilità di un
evento solo sulla base di informazioni specifiche al singolo caso, ignorando la
probabilità di base relativa all’intera popolazione di riferimento anche quando questa
venga fornita. Lo dimostra il fatto che in alcune professioni, come ad esempio un
medico, venga detto che un bambino di 10 anni ha dei dolori al petto. È molto meno
probabile che il medico si preoccupi di un incipiente infarto in questo caso che in
quello in cui gli fosse detto che un paziente di 50 anni presenta gli stessi sintomi.
Questo proprio perché, guardando all’intera popolazione, la probabilità di basse degli
infarti è molto più elevata tra gli uomini di 50 anni che tra i bambini di 10.
Cerchiamo di capire meglio questo fenomeno facendo riferimento al ritratto di un
soggetto scelto casualmente da un campione composto da 70 avvocati e 30 ingegneri.
Esempio: Jack non ha interessi sociopolitici, nel suo tempo libero si dedica ai suoi
hobby tra cui il bricolage, la barca a vela e gli enigmi matematici.
Questo tipo di esperimenti ha dimostrato che tendiamo a ignorare la probabilità di
base nelle nostre valutazioni finali. Che Jack appartenga al gruppo di ingegneri meno
numeroso o a quello più numeroso sembra non fare differenza nelle risposte fornite
che, nell’ambito di questo esperimento, in media sono state molto simili nelle due
condizioni. La valutazione finale circa la probabilità che Jack sia un ingegnere o un
avvocato sembra piuttosto essere basata sulla informazione rilevante fornita dal
ritratto di Jack (le caratteristiche di Jack rispetto allo stereotipo degli ingegneri). Il
numero di ingegneri presenti nel campione viene trascurato nella valutazione in
quanto meno rappresentativo dell’informazione specifica.
Dick ha 30 anni. È sposato e non ha figli. È un uomo dalle grandi abilità e molto
motivato. È promettente nel suo ambito. È molto amato dai suoi colleghi. I soggetti
dell’esperimento confrontati ai medesimi quesiti precedenti hanno stimato che la
probabilità che Dick fosse un avvocato o un ingegnere fosse la stessa. Ciò, come
nell’esperimento precedente, indipendentemente dalla probabilità di base relativa al
numero di ingegneri e avvocati presenti nel campione.
Questo risultato è stato interpretato come una conferma che la fallacia della
probabilità di base si verifica anche quando l’informazione caratterizzante risulta
neutra.
4.4Altri fenomeni legati alla valutazione e alla decisione
Nell’ambito di un altro esperimento, ad un gruppi di studenti veniva domandato di
stimare nel tempo massimo di 5 secondi un prodotto. Allo stesso tempo, un altro
gruppo di studenti doveva fare la stima del prodotto inverso. I risultati non furono
corretti e sono l’esito dell’ euristica dell’ancoraggio e dell’aggiustamento in base a
cui tendiamo a fare le nostre valutazioni in relazione ad un implicito punti di
riferimento iniziale detto ‘ancora’. È a partire da questo punto di riferimento che
facciamo poi i dovuti aggiustamenti per arrivare al giudizio finale anche se,
generalmente, gli aggiustamenti sono sempre imprecisi e insufficienti.
In base alla stessa logica ad esempio, per qualcuno che debba esprimere un giudizio
sulla preparazione, timidezza, intelligenza di una persona, il punto di riferimento per
il giudizio finale ‘aggiustato’ potrà essere il proprio livello di preparazione,
timidezza. A seconda del livello cui si fa riferimento, quello della persona in esame
potrà essere sovra o sottostimato.
Nell’ambito di un esperimento a un campione di studenti americani fu rivolto il
seguente quesito: Quale città ha un maggio numero di abitanti, San Diego o San
Antonio? I due terzi degli studenti rispose correttamente San Diego. La stessa
domanda fu poi rivolta ad un campione di studenti tedeschi tra i quali alcuni avevano
sentito parlare di San Diego ma quasi tutti ignoravano San Antonio. Il 100% di questi
studenti fornì però la risposta corretta. I ricercatori spiegano questo fenomeno
sostenendo che gli studenti tedeschi hanno fatto ricorso all’ euristica del
riconoscimento, in base alla quale si devono valutare due oggetto tra i quali uno è
riconosciuto e l’altro no, si considera che l’oggetto riconosciuto abbia il valore più
elevato rispetto al criterio di valutazione.
Questa euristica viene spesso utilizzata da tutti noi quando facciamo la spesa al
supermercato e, dovendo scegliere tra un gran numero di prodotti simili, tendiamo a
preferire quello del quale conosciamo la marca perché reputiamo chi sia il migliore.
Come è facile capire, questa euristica può indurre in errore.
Un altro errore del giudizio diffuso deriva dall’errore dell’ottimismo irrealistico
anche detto dell’invulnerabilità personale. Si tratta di un errore di valutazione della
probabilità di occorrenza degli eventi dovuto alla tendenza a considerarsi
personalmente invulnerabili o meno degli altri individui ad incorrere in eventi
negativi e/o più suscettibili della media delle persone ad andare incontro ad eventi
positivi.
L’effetto dell’errore dell’ottimismo è stato osservato in molteplici situazioni.
Mettendo in atto un ragionamento del tipo ‘non accadrà a me, tendiamo a ritenere di
essere meno suscettibili degli altri ad essere vittime di un incidente della strada, del
divorzio, di disastri naturali e così via. Sebbene queste percezioni siano irrealistiche
in termini probabilistici, in base a questo errore un gran numero di eventi rischiosi
può ad esempio sembrare trascurabile se considerato dalla prospettiva dell’esperienza
personale di ogni individuo. Ad esempio la guida automobilistica. Vi sono dei
guidatori, che conducendo l’auto in stato di ebbrezza, continuano a viaggiare senza
mai incorrere incidenti. Questa esperienza personale può farli convincere di essere
dei guidatori provetti ed estremamente prudenti. Inoltre, l’esperienza indiretta che
possono acquisire tramite i media, mostra che quando gli incidenti accadono
riguardano gli altri. Queste esperienze possono rafforzare l’ottimismo irrealistico di
questi guidatori, inducendoli a considerarsi abbastanza giustificati dal rifiutare di
mettere in atto comportamenti preventivi come ad esempio l’uso delle cinture di
sicurezza.
Un aspetto particolare associato alle euristiche è che generalmente i nostri giudizi non
sono perfettamente calibrati. Un giudizio si definisce calibrato quando la fiducia
nella propria valutazione coincide con l’esattezza. In sostanza, per valutare
l’affidabilità di un individuo nel valutare la probabilità di un’ipotesi è spesso
necessario considerare intere classi di eventi probabilistici.
Quando non si producono delle valutazioni perfettamente calibrate si può incorrere in
due tipi di errore che consistono nel sovrastimare o sottostimarle probabilità che un
evento si verifichi. Gli studi in questo ambito mostrano che generalmente gli
individui ripongono un ‘eccesso di fiducia’ nelle proprie valutazioni.
La tendenza molto diffusa a cercare o ad interpretare l’informazione in modi che
confermino i propri preconcetti può sfociare nell’errore della conferma. Popper
sottolineava come nella scienza fosse una mossa metodologicamente scorretta quella
di cercare di salvare a tutti i costi una teoria introducendo appositamente delle ipotesi
a sua conferma per sottrarla al controllo e alla falsificazione.
Un altro errore comunemente riscontrato dalla ricerca sui comportamenti decisionali
e descritto dalla teoria del prospetto è la fallacia del costo affondato. Esso riguarda la
decisione di continuare ad investire in qualcosa, ad esempio in alcune azioni di borsa,
solo perché si è investito in essa precedentemente e si spera di migliorare il proprio
investimento. Nell’ambito dell’economia i costi affondati sono costi già sopportati
che non possono essere recuperati. Immaginiamo di aver comprato un computer che
si rivela un bidone. Per aggiustarlo abbiamo già speso 300 euro e ora dobbiamo
decidere de affrontare il costo di un’altra riparazione importante che potrebbe non
essere l’ultima. Pensiamo a quanti soldi abbiamo già speso per riparare il pc e
decidiamo che per giustificare questa spesa vale la pena spendere ancora del denaro
per fare un’altra riparazione. In realtà, i soldi spesi nelle prima riparazioni sono già
persi e non saranno recuperabili spendendo altri soldi in ulteriori riparazioni.
Secondo gli economisti, la scelta razionale sarebbe di non frasi influenzare dai costi
affondati nelle proprie decisioni e quindi, in questo caso, non continuare a spendere
ancora soldi per questo pc e comprare uno nuovo, ma pochi di noi si comportano
realmente così. Questo effetto viene detto anche effetto Concorde in riferimento al
fatto che i governi inglese e francese continuarono a finanziare il progetto congiunto
del Concorde anche dopo che divenne chiaro che si trattava di un disastro
commerciale.
Spesso si ha l’inclinazione a ritenere che gli eventi passati avrebbero potuto essere
facilmente prevedibili o che avrebbero potuto essere ragionevole aspettarsi che si
sarebbero verificati, mentre se si fosse dovuto attribuire a tali eventi una probabilità
prima del loro accadimento, essa sarebbe stata inferiore rispetto a quanto stimato a
posteriori. Questo fenomeno molto comune che forse si basa sul fatto che ha a che
fare con eventi più disponibili alla memoria rispetto ai possibili eventi che non si
sono verificati è noto come errore del senno di poi.
Quando ad esempio un rapporto tra due persone comincia a vacillare, spesso non
riusciamo a rendercene contro sino a che i problemi non raggiungono le proporzioni
di una crisi.
La letteratura sperimentale mette in luce come a posteriori gli individui generalmente
credano di sapere di più di quanto realmente sapessero e come, dopo il verificarsi
degli eventi, tendano a ricordare le proprie previsioni come molto più accurate di
quanto non lo fossero realmente, in quanto sono ingannati dal fatto che conoscono
quanto si è nel frattempo verificato.
Con la correlazione illusoria si tende a considerare due variabili correlate quando in
realtà non lo sono.
5. Decisioni collettive
Il 28 gennaio 1986, lo shuttle Challenger decollò da Cape Canaveral in Florida ed esplose dopo
appena un minuto di volo, provocando la morte di tutti e sette gli astronauti a bordo. La tragedia fu
vissuta in diretta da milioni di persone che stavano seguendo l’evento in televisione. Prima del
disastro, il lancio della navetta spaziale era stato rimandato di alcuni giorni per le cattive
condizioni atmosferiche. Inoltre, i tecnici avevano espresso un parere negativo al lancio anche per
il giorno in cui il Challenger fu effettivamente fatto decollare, in quanto ritenevano che le
condizioni non fossero sicure a causa di una temperatura dell’aria troppo bassa. Ciò nonostante, i
vertici decisionali della NASA non tennero conto di questi pareri negativi e autorizzarono una
partenza che si trasformò in una tragedia.

Alcuni esperti hanno cercato di spiegare il processo decisionale che è sfociato nel
lancio del Challenger ricollegandolo ad un fenomeno noto nell’ambito della
psicologia sociale come pensiero di gruppo. Questo fenomeno si riferisce a situazioni
in cui, come nel caso del Challenger, un gruppo di individui apparentemente
ragionevoli e intelligenti, decisioni che sono l’esito della pressione, esercitata sui
singoli dal gruppo, a conformarsi e a garantire una lealtà nei confronti di valutazioni e
scelte collettive. Ogni individuo, cioè, introietta ciò che egli ritiene essere il punto di
vista del gruppo del quale fa parte, e contribuisce in tal modo al realizzarsi di una
situazione in cui il gruppo prende delle decisioni che ogni singolo membro isolato
considererebbe insensate.
Tra le cause principali di questo fenomeno vi sono una forte coesione del gruppo e
una sua chiusura nei confronti dell’esterno, nonché situazioni di forte stress o di
pericolo, assenza di norme per valutare le alternative disponibili e presenza di un
leader direttivo. Tra i sintomi invece, si può citare un’illusione di invulnerabilità
condivisa dai membri del gruppo, che può farli cadere nel bias dell’ottimismo
irrealistico circa le conseguenze delle decisioni da assumere. Poi, una forte
convinzione nella moralità della causa perseguita dal gruppo, una condivisa illusione
di unanimità e coerenza interna, una negazione di qualsiasi dissenso dal punto di
volta della maggioranza anche attraverso forse di autocensura, una chiusura nei
confronti di quanti sono esterni al gruppo, che spesso divengono vittime di
stereotipizzazione ed emarginazione.
Fenomeni come questo del pensiero di gruppo ci devono far riflettere su come nei
processi decisionali che si sviluppano nell’ambito di un gruppo possano intervenire
fattori diversi da quelli che riguardano le decisioni puramente individuali.
5.1.Due teste sono meglio di una?
La nostra vita è ampiamente condizionata da decisioni prese da gruppi. I gruppo sono
caratterizzati dal fatto che i membri che ne fanno parte interagiscono con una certa
continuità per conseguire scopi comuni o per condurre specifiche attività ed ognuno
dipende dall’altro.
Vi sono alcune ragioni a favore delle tesi che in alcune situazioni il processo
decisionale di gruppo sia più accurato ed efficace di quello individuale. Generalmente
rispetto ai singoli individui il gruppo è considerato più in grado di produrre idee,
alternative e soluzioni nuove o originali in quanto può trarre vantaggio dalla
condivisione di conoscenza, esperienze, capacità e competenze di ogni suo membro.
La produttività delle decisioni di gruppo è spesso considerata più elevata di quella
delle scelte strettamente individuali in quanto frutto della somma degli sforzi di più
soggetto. A ciò si aggiunga da un lato che una decisione di gruppo ottiene
generalmente un consenso e una legittimazione più ampi rispetto a quelli che può
riscuotere una decisione unilaterale presa da un singolo individuo, e dall’altro che
alcuni studi mettono in luce come la partecipazione a processi decisionali di gruppo
sembri contribuire all’aumento della soddisfazione, dell’autostima e dello sviluppo
personali. Queste ragioni dovrebbero costituire uno stimolo a privilegiare sempre più
i processi decisionali di gruppo.
Alcuni gruppi prendono poi decisioni migliori di altri e ciò in base a molti fattori,
anche le dimensioni di un gruppo possono avere un impatto notevole sulla sua
efficacia: quando un gruppo è troppo piccolo le sue capacità e conoscenze possono
essere troppo esigue, mentre quando è troppo grande al suo interno possono emergere
conflitti e sottogruppi in competizione. Un fattore importante è poi il sentimento di
appartenenza al gruppo.
Va infine detto che non sempre le decisioni prese dai gruppo sono migliori di quelle
prese dai singoli in quanto essi sono esposti all’effetto, talvolta positivo ma per lo più
negativo, di alcuni processi di influenza sociale e di gruppo.
Scheda 5.1 Tra i concetti chiave di riferimenti della teoria dell’organizzazione, un posto centrale è
occupato dalla decisione.
Le prime teorie amministrative, che hanno come obiettivo il miglioramento dei sistemi organizzati,
sono all’origine della ricerca contemporanea sulla decisione dell’organizzazione.
Ad esempio Taylor (taylorismo), quando egli immagina forme di razionalizzazione dei processi
produttivi quali la divisione tra compiti concettuali di pianificazione e compiti esecutivi, pensa in
pratica ad una struttura organizzativa caratterizzata da centralizzazione decisionale in
corrispondenza dei vertici gerarchici. È con Simon che la decisione diviene centrale nella scienza
amministrativa la quale ha come obiettivo il miglioramento dei processi e qualità decisionali
individuali nell’ambito delle organizzazioni.
Crozier e Friedberg integrano la nozione di ‘razionalità limitata’ per definire la teoria dell’analisi
strategica, in base ad essa, gli individui sono considerato dotati di gradi di autonomia che consente
loro di compiere azioni razionali elaborando strategie decisionali in vista dell’accrescimento
dell’influenza personale e in base a modalità che sono funzione dei propri valori, delle relazioni con
gli altri, della percezione della situazione e dei mezzi di influenza di cui dispongono.

5.2. Su alcuni processi di influenza sociale…


Ognuno di noi quando esprime dei giudizi, mette in atto dei comportamenti o prende
decisioni è spesso influenzato da una serie di fattori sociali. Ad esempio, partecipare
ad una gara sportiva, lavorare o impegnarsi in qualche attività in presenza di altri
individui a volte può migliorare le nostre performance (facilitazione sociale) e a volte
può inibirle (inibizione sociale). Questo tipo di effetti dipende dal fatto che l’essere in
presenza altrui contribuisca ad aumentare la motivazione individuale. Generalmente
essere in gruppo facilita l’esecuzione dei compiti più semplici o rispetto ai quali si è
più esperti, mentre inibisce l’esecuzione di quelli più complessi o rispetto ai quali si è
meno esperti. La presenza altrui può anche essere letta come una distrazione che può
creare un conflitto tra la tendenza a prestare attenzione agli altri e quella di prestare
attenzione all’obiettivo da raggiungere o al compito da svolgere.
Può poi capitare che partecipando ad un’attività collettiva rispetto alla quale il
contributo di ogni singolo partecipante non può essere valutato singolarmente,
ognuno si impegni di meno di quanto farebbe se fosse solo. Questo fenomeno è noto
come inerzia sociale. Alcuni esperimenti sulla produttività nel gruppo avevano messo
in luce come gli individui mettano meno forza nel tirare una fune quando lo fanno
con altri in gruppo rispetto a quando lo fanno da soli. Ulteriori esperimenti hanno poi
mostrato che quando a dei soggetti viene richiesto di urlare o applaudire il più forte
possibile, l’intensità della loro performance decresce all’aumentare delle dimensioni
del gruppo nel quale sono inseriti e ai cui membri viene richiesto di svolgere lo stesso
compito contemporaneamente. Questo tipo di fenomeno può verificarsi sia nei
compiti fisici che in quelli intellettuali e uno dei fattori responsabili, oltre la
valutazione individuale del risultato di gruppo, sta nel fatto che quando gli individui
svolgono compiti o lavorano in gruppo possono essere meno motivati rispetto a
quando lo fanno da soli se non percepiscono in modo diretto il legame tra il loro
sforzo e il risultato di gruppo.
Gli effetti su decisioni e comportamenti individuali dovuti al fenomeno dell’inerzia
sociale dipendono anche dal fattore ‘responsabilità’ individuale associata al risultato
finale. Ciò può implicare che quando ognuno di noi è coinvolto in attività di gruppo,
si senta meno incentivato a contribuirvi in quanto non si percepisce come
direttamente responsabile dei risultati che ne scaturiranno. Questo fenomeno è noto
come diffusione della responsabilità. Questa tendenza umana viene spiegata da alcuni
psicologi sociali con la nozione di deindividuazione, che rinvia alla teoria degli effetti
di una folla sui comportamenti individuali elaborata da Le Bon. Nell’ambito di gruppi
molto estesi gli individui prenderebbero la propria identità e individualità divenendo
anonimi. Ciò contribuirebbe alla perdita delle inibizioni, all’abbandono dei valori
personali e all’indebolimento del senso di responsabilità personale: le azioni
antisociali non sarebbero dunque l’effetto di motivazioni soggettive, ma della
situazione del momento e dell’appartenenza al gruppo.
Il fatto che l’anonimato, la mancanza di cooperazione e la diffusione di responsabilità
siano tanto più evidenti quanto più un gruppo tende ad essere esteso, è emerso dai
risultati ottenuti da studi compiuti sui comportamenti individuali nelle situazioni di
crisi ed emergenza. In particolare, gli psicologi sociali hanno cercato di analizzare le
differenze di reazione tra gli individui di fronte ad estranei in situazioni di bisogno o
pericolo in contesti di volta in volta più o meno anonimi e affollati. Essi hanno
constatato che è più probabile che gli individui decidano di intervenire quando sono
soli piuttosto che quando sono presenti altri individui. Questo fenomeno psicologico
è noto come effetto del bystander. Per testare questo effetto sono stati condotti alcuni
semplici esperimenti. Alcuni studenti universitari venivano reclutati per rispondere a
delle interviste. Essi venivano fatti sedere in una sala d’attesa o soli o con altri due
soggetti ‘complici’ degli sperimentatori. Dopo una decina di minuti, nella stanza
veniva fatto entrare del fumo che aumentava fino a riempire tutto l’ambiente. Come
si comportano gli studenti ‘naif’ (ovvero ignari dell’esperimento in corso)?
Cercarono qualcuno per riferire del fumo oppure no? I risultati dello studio misero in
evidenza che quando i soggetti naif erano soli nella stanza, il 75% di loro si alzò per
andare a cercare qualcuno a cui riferire il problema, quando invece erano nel contesto
di gruppo, allora solo 1 su 10 andò a chiamare qualcuno mentre gli altri, pur tossendo
e a volte alzandosi per aprire la finestra non si mossero. Il fatto che altri individui
fossero presenti introduceva i soggetti naif a pensare che qualcun altro sarebbe
intervenuto al posto loro e così si astenevano dal farlo: questo è un esempio di come
la diffusione della responsabilità porti all’inerzia sociale. Ciò smentisce quanto
potrebbe sembrare ovvio, ovvero che più è elevato il numero di persone che assistono
ad una emergenza, maggiori sono le possibilità che qualcuno intervenga
immediatamente.
L’uniformità di vedute è una garanzia della compattezza e della sopravvivenza del
gruppo, ma come ci mostra il fenomeno del pensiero di gruppo essa è anche un limite
al suo sviluppo e arricchimento. Esistono alcune soluzioni al pensiero di gruppo. Il
leader di un gruppo riunito per valutare se e quali decisioni prendere dovrebbe ad
esempio rimanere imparziale per tutta la discussione, esprimere le proprie opinioni
alla fine e incoraggiare obiezioni e dubbi circa le alternative proposte. Sarebbe poi
opportuno che il gruppo si dividesse in sottogruppi per discutere indipendentemente e
poi riunirsi e confrontarsi. Importante sarebbe aprirsi alle opinioni di esperti esterni
che discutano e critichino le decisioni del gruppo.
Cadere all’influenza di un gruppo può tradursi nei fenomeni della normalizzazione e
del conformismo. La normalizzazione riguarda quelle situazioni in cui non esiste una
norma nell’ambito di un gruppo e si assiste alla sua spontanea formazione in base a
processi di influenza reciproca tra i membri del gruppo. Il conformismo di gruppo,
che può divenire problematico quando influisce sulla presa di decisione, riguarda
situazioni in cui una norma già esiste ed è sostenuta dalla maggio parte del gruppo.
Esso può essere definito come la modifica del comportamento e/o dell’atteggiamento
di un individuo per armonizzarlo con il comportamento e atteggiamento di una
maggioranza costituita da un gruppo. Il conformismo è stato illustrato da Asch in un
classico esperimento. Egli riuniva ogni volta sette soggetti attorno ad un tavolo
comunicando loro che avrebbero partecipato ad una ricerca sulla percezione. Il
compito consisteva nell’individuare quale tra tre linee di diversa lunghezza (a,b,c)
fosse uguale ad una linea di riferimento. Una delle linee (b) era esattamente della
stessa lunghezza della linea di riferimento, mentre le altre due erano differenti. Ogni
soggetto doveva fornire a turno la propria valutazione ad alta voce. Nei gruppi
sperimentali sei soggetti erano complici dello sperimentatore e solo uno era ignaro
delle vere finalità dell’esperimento. Dato che il compito era semplice e la risposta
corretta evidente, nelle prime due prove non vi furono disaccordi. Nella terza prova,
però, i primi cinque soggetti cominciarono a scegliere un alinea sbagliata. Quando fu
il turno del sesto soggetto, ingenuo, egli era in difficoltà in quanto era chiaro che gli
altri avessero dato unanimemente risposte sbagliate. Così anche il soggetto ingenuo
dava la risposta errata conformandosi a quella del gruppo. Dall’esperimento emerse
che pur di evitare il disagio di sentirsi isolati, i soggetti ingenui si conformano
all’opinione della maggioranza. Al contrario, i soggetti dei gruppi di controllo in cui
era assente lo stimolo e che valutavano le linee isolatamente, espressero giudizi quasi
sempre corretti. La pressione di un gruppo unanime aveva avuto degli effetti
importanti sui singoli individui. La pressione al conformismo è maggiore quando si è
privi di appoggio sociale.
Festinger ha definito dissonanza cognitiva quella condizione di disagio psicologico in
cui ci troviamo quando abbiamo atteggiamenti, opinioni, conoscenze e credenze che
sono in contrasto o tra loro o con i nostri comportamenti e che cerchiamo di ridurre o
eliminare cambiando o i comportamenti o gli atteggiamenti.
La tensione ad uniformarsi non è limitata ai contesti di gruppo e che essa può
scaturire da una pressione esplicita da parte di qualcuno. In questo casi si parla di
sottomissione all’autorità. Esiste una forma di sottomissione all’autorità di tipo
distruttivo che può portare le persone a prendere decisioni e a compiere atti aggressivi
e antisociali nei confronti degli atti nella convinzione che si tratti di azioni legittime:
atti che eseguono in quanto sono stati loro ordinati da persone gerarchicamente
superiori. Gli studi hanno messo in luce come molte atrocità militari e poliziesche
vengano commesse per eseguire ordini superiori.

Scheda 5.2 Il problema degli effetti che può avere la presenza di altri individui sul comportamento
delle persone che si trovano ad assistere a situazioni di emergenza e sulla eventuale decisione di
intervenire divenne di grande attualità tra gli psicologi sociali dopo che a New York accadde questo
episodio: nel 1964 una giovane donna, Kitty Genovese, fu aggredita di sera da un pazzo fuori dal
complesso residenziale nel quale abitava. Per oltre mezz’ora Kitty lottò con l’aggressore che la
accoltellava e urlò chiedendo aiuto. Almeno 38 vicini riferirono successivamente di aver sentito le
urla e le richieste di aiuto, ma nessuno intervenne o chiamò i soccorsi. Solo dopo 35 minuti, quando
Kitty era ormai morta, qualcuno si decise a telefonare alla polizia che arrivò poco dopo.
Alcuni psicologi sociali arrivarono alla conclusione che i vicini di Kitty che non erano intervenuti
non dovessero essere considerati dei mostri di crudeltà o di indifferenza in quanto, nella stessa
situazione, la maggior parte delle persone si sarebbe comportata allo stesso modo. Poiché vi erano
molti testimoni, si creò una situazione di diffusione della responsabilità e ognuno pensò che
sicuramente qualcun altro stesse telefonando alla polizia.
A volta, l’individuo che ha bisogno di aiuto, essendo sconosciuto, è percepito come un estraneo e
non ci sentiamo emotivamente coinvolti nella sua richiesta di soccorso.

5.3. …e di gruppo
La decisione collettiva di gruppo è l’esito della convergenza finale di un certo
numero di posizioni individuali di partenza spesso almeno in parte diverse tra loro.
Per prevedere di volta in volta tale esito, importanti sono sia le posizioni iniziali dei
singoli individui che le regole decisionali adottate dal gruppo.
Un gruppo però non funziona sempre in base a regole chiare e razionali in quanto a
volte esso segue processi che lo spostano verso posizioni e decisioni che fuoriescono
da una logica lineare e immediata. Un gruppo può, ad esempio, avere la tendenza ad
abbracciare opinioni o prendere decisioni molto radicali rispetto a quella dei singoli
membri. Questo fenomeno è noto come polarizzazione. Originariamente esso fu
osservato sotto forma di spostamento verso il rischio: le decisioni prese da un gruppo
sono spesso più rischiose dei punti di vista individuali riferiti dai singoli membri
prima della discussione di gruppo rispetto alla decisione.
Una delle spiegazioni del fenomeno della polarizzazione di gruppo si fonda
sull’ipotesi del confronto sociale in base alla quale un individuo in un gruppo sarebbe
sempre interessato al confronto delle proprie opinioni con quelle degli altri membri
del gruppo. Nel corso della discussione di un gruppo un individuo può constatare che
vi sia qualcuno con delle opinioni più radicali rispetto a quella degli altri e ciò può
portarlo a spostarsi verso posizioni più estreme rispetto a quelle degli altri membri.
Un’altra spiegazione fa invece leva sull’idea degli ‘argomenti persuasivi’ in base alla
quale opinioni e decisioni individuali rispetto ad un problema sarebbero funzione del
numero e della persuasività degli argomenti pro e contro di cui l’individuo si ricorda
quando deve prendere una posizione.
Inoltre, un’altra spiegazione riguarda ai ‘processi di identità sociale’, che al momento
della discussione, indurrebbero gli individui a focalizzarsi sulla loro appartenenza al
gruppo e a identificarsi con esso. Ciò implica che gli individui sentano la pressione a
spostare le proprie opinioni per conformarsi alle norme del gruppo che percepiscono
come più estreme e a conformarsi a ciò che credono essere la posizione del gruppo.
Lo psicologo sociale Leavitt ha messo in evidenza come le reti di comunicazione che
si instaurano tra i membri di un gruppo assumano alcune forma differenti che
possono variare da un massimo di centralizzazione ad un massimo di apertura. Nella
struttura a ruota vi è un membro del gruppo, un leader, al centro che può comunicare
con tutti gli altri, ma gli altri possono comunicare solo attraverso di lui. Si tratta di
una modalità comunicativa che, se da un lato può godere di un vantaggio in termini di
efficienza a rapidità alla soluzione di problemi, da un altro lato può produrre
insoddisfazione di fondo nei membri del gruppo che si sentono del tutto marginale
nel processo decisionale.
Segue la struttura a catena in cui la comunicazione segue un ordine sequenziale e
non vi è alcun membro che possa comunicare con tutti gli altri. Ciò implica che la
comunicazione possa essere lenta e che non lasci spazio alla discussione.
La struttura a y combina la ruota e la catena e la centralizzazione è più moderata,
mentre la struttura a cerchio è quella più aperta e che garantisce il maggior livello di
soddisfazione per la sua decentralizzazione e può essere più efficiente nella soluzione
di problemi decisionali.
Quando un gruppo si trova a dover prendere decisioni o risolvere problemi che
richiedono delle soluzioni nuove e creative spesso la comunicazione è condotta con al
tecnica del brainstorming, una sorta di tempesta che agita il cervello, o meglio più
cervelli, attraverso libere associazioni e forme di pensiero metaforico e analogico e
che può generare lampi che illuminano aspetti della realtà non percepiti sino a quel
momento.
5.4. Stili di leadership e decisionali
In quasi tutti i gruppi è presente il ruolo del leader, ovvero quel soggetto il cui
attributo principale è l’influenza sociale essendo colui che ha il maggior impatto su
credenze, opinioni e comportamenti del gruppo.
Queste tematiche possono essere affrontate guardando a differenti visioni della
leadership e, di conseguenza, dello stile decisionale. La prima tra queste suggerisce
che alcuni individui presenterebbero determinate caratteristiche della personalità,
abilità sociali, capacità e competenze emotive che ne favorirebbero il ruolo di leader
e quindi l’efficacia decisionale. Tra queste vi sono alcune capacità che aiutano il
gruppo a perseguire i propri obiettivi come l’intelligenza. Ma fondamentale è anche
la motivazione che scaturisce da maggiore ambizione, desiderio di riconoscenza e di
successo. Importante è poi l’abilità di gestire i rapporti interpersonali che facilita
l’interazione nel gruppo: la tendenza alla cooperazione.
Un’altra visione della leadership enfatizza il peso giocato dalle caratteristiche della
situazione. Può accadere, ad esempio, che in un particolare periodo di crisi o di
difficoltà che minaccia gli obiettivi di un gruppo, qualcuno emerga come figura
leader per affrontare la situazione.
Oggi però la gran parte dei ricercatori ritiene che la leadership sia da ricondursi a un
insieme di caratteristiche sia personali che richieste della situazione a cui è
confrontato il gruppo. Il cosiddetto modello della contingenza è stato sviluppato per
mostrare che una leadership efficiente è l’esito dell’interazione tra lo stile del leader e
il controllo della situazione che egli ha e che lo stile decisionale debba essere
calibrato a seconda delle richieste della situazione specifica nell’ambito della quale la
decisione va presa. Lo stile di leadership può essere centrato sul compito quando la
preoccupazione principale del leader è quella di realizzare correttamente gli scopi
comuni. I leader centrati sul compito impartiscono comandi e spingono il gruppo al
rispetto delle regole. Lo stile di leadership può poi essere socio-emozionale se il
leader accorda priorità a emozioni, umori, affetti e armonia tra i membri del gruppo e
cerca di mantenere un benessere nelle relazioni interindividuali.

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