neoclassico europeo
1. Lo strettissimo rapporto con le arti figurative: dal “Falso stile” del Rococò al “Vero stile”
neoclassico
Va innanzitutto ricordato che il gusto neoclassico ha origine nell’ambito delle arti figurative, in
seguito alla “riscoperta” settecentesca dell’arte greca. Il neoclassicismo letterario manterrà sempre
uno strettissimo legame con pittura e scultura, sia in sede di elaborazione teorica di principî e
canoni estetici, sia in campo pratico, con intensi rapporti di collaborazione, noi oggi diremmo,
interdisciplinare. Si consideri come emblematico il caso di Parini che, sempre più affascinato da
questo sogno di far comunicare le arti all’insegna di un gusto comune (sulla base dell’oraziano ut
pictura poesis [come nella pittura, così nella poesia] di nuovo in voga), compone il trattato
Principii delle belle lettere applicati alle belle arti (1777), che poi spiega dalla cattedra di
eloquenza alla neonata Accademia di Belle Arti di Brera; mentre ai pittori impegnati in quegli anni a
decorare le volte dei palazzi milanesi suggerisce direttamente i soggetti per i loro affreschi
mitologico-allegorici, derivandoli dalla letteratura classica. Ancora più stretto sarà poi il rapporto tra
Foscolo e lo scultore Canova al tempo delle Grazie.
Gli artisti neoclassici si proponevano come il movimento del “Vero stile”: essi si contrapponevano
non al Barocco, ma al Rococò, linguaggio lezioso e talora stucchevole. Contro il “falso” del
Rococò, dunque, gli artisti propongono, caricando l’arte di una missione etica, uno stile finalmente
“Vero”.
2. Le scoperte archeologiche e la teoria del “bello ideale” di Winkelmann
Un ruolo fondamentale nella formazione del gusto neoclassico ebbero gli scavi archeologici nei siti
di Ercolano (scoperta nel 1709-11), Pompei e Paestum (scoperte tra gli anni ‘40 e ‘50 del secolo),
promossi in grande stile a partire dalla metà del secolo. Venendo alla luce un’ingente quantità di
affreschi, pitture vascolari, oggetti lavorati, preziosi o d’uso comune sepolti da secoli, fu come se la
Magna Grecia stesse tornando in vita. I reperti di Ercolano vennero pubblicati tra il 1757 e il 1792
dall’Accademia Ercolanense di Napoli, col finanziamento dello stesso sovrano, in otto ricchissimi
volumi illustrati, le Pitture antiche d’Ercolano e contorni (dette anche Antichità di Ercolano), che
diffusero un repertorio iconografico ellenizzante, di cui gli artisti si impadronirono con immediato
entusiasmo.
In questo fermento archeologico, giunse in Italia un eccezionale studioso dell’antichità, il tedesco
Johann Joachim Winkelmann (1717-68) che, sulla base di una vasta ricognizione di collezioni
antiquarie e di quanto vide tra le rovine dissotterrate, elaborò una teoria estetica del “bello ideale”
destinata a influenzare in modo decisivo non soltanto gli sviluppi dell’arte ma altresì il corso dela
letteratura. Winkelmann era convinto di aver riscoperto l’arte greca al di là delle interpretazioni
deformanti del classicismo rinascimentale; in realtà nei suoi scritti (ricordiamo i Pensieri
sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, 1755; i Pensieri sulla bellezza e il
buon gusto nella pittura, 1762; e la Storia dell’arte dell’antichità, 1764, tradotta in italiano nel
1779; che gli valsero la carica di sovrintendente alle antichità di Roma) egli proponeva una visione
idealizzata dell’arte greca, trasfigurando in un paradigma assoluto della grecità quelli che invece
erano documenti in una fase artistica storicamente circoscritta. Winkelmann non sapeva che il
Laocoonte e la statuaria che egli credeva essere l’espressione classica dell’antico spirito greco
fossero invero copie romane di quelle opere in età ellenistica; ma proprio grazie a tale ignoranza
trasportò la Grecia dalla storia al mito, la reinventò come un’epoca di compiuta armonia spirituale,
un mondo intatto e primitivo manifestatosi in forme di pura e assoluta bellezza. Winkelmann
riconosceva come carattere essenziale dello spirito greco la “serenità olimpica”, cioè il dono del
sovrano dominio delle passioni, che nell’arte trovava il suo corrispettivo formale nel principio della
“nobile semplicità e quieta grandezza”. Egli additava all’imitazione dei moderni un’arte che
raffigurava le nobili anime e le intense passioni di uomini e dei, còlte in uno stato di metafisico
“riposo” entro forme equilibrate, armoniche, di imperturbabile dignità e casta bellezza, spogliate da
ogni machia di realismo. Con Winkelmann, per la prima volta si pone un problema teorico rispetto
all’arte (elemento che resterà comune a tutti i movimenti che seguiranno).
Se in un primo momento l’estetica winkelmanianna venne recepita all’ombra del gusto del
classicismo rococò allora dominante, tra cammei e miniature, intorno agli anni Ottanta si fissò
decisamente nelle forme austere e grandiose del neoclassicismo maturo (manifesto di questo
orientamento è il celebre Giuramento degli Orazi, 1784, del pittore Jacques-Lous David). Infatti,
mentre l’Europa si avvicinava ai tempi tumultuosi della Rivoluzione e della guerra, sul sogno
estetizzante di Winkelmann si innestava una forte componente ideologico-politica, tendente a
enfatizzare il lato eroico e virile del mondo classico: prima al servizio degli ideali repubblicani
rivoluzionarî e poi dei trionfi napoleonici. La teoria winkelmanniana dell’imitazione travalicava il
campo artistico-estetico per esprimere il desiderio di un ritorno a una sorta di Eden perduto:
l’Europa intera si lasciò affascinare da questo sogno di evasione verso un mondo più nobile,
composto e sereno (oppure eroico), e lo declinò in ogni maniera immaginabile, fino a dar luogo nel
primo Ottocento ad un colossale “travestimento” all’antica. Questo processo interessò non soltanto
l’arte (dove ogni Napoleone divenne un Giove o un Marte dell’Olimpo classico) e la letteratura
(dove ogni scarpa fu nobilitata in un “coturno” e ogni letto in un “talamo”) ma anche la moda
(soprattutto femminile), l’arredamento, i monili, l’argenteria… Questi fenomeni, è vero, si imposero
in modo clamoroso soltanto con l’età napoleonica, di cui diremo, tuttavia la loro genesi si situa nel
secondo Settecento.
3. Il linguaggio artistico neoclassico: dall’empirismo all’idealismo, il rapporto con la storia, la
mitologia, il presente e la tecnica
Il Neoclassicismo non è un riallacciarsi alle fonti della storia, al classico: è invece la coscienza
dell’impossibilità del recupero del classico come storia, e la malinconia, il senso del presente come
vuoto che ne ridiscendono. L’antico è scienza, o archeologia; oppure è l’ideale, filosofia. L’arte si
mette sulla via della filosofia: e, come tale, può essere un’estetica (Canova) o un’etica (David).
Dalla scienza dell’antico, invece, non si prende che qualche spunto: l’archeologia, che assume l’arte
come documento, non può indicare modelli. Il Neoclassicismo, dunque, non è storicistico, ma
antistoricistico; questo è uno dei motivi del suo diffondersi indiscriminatamente in tutti i paesi
d’Europa, mettendo in crisi tutte le relazioni nazionali. Non è più, però, l’antistoricismo
illuministico, fondato sull’idea del progresso continuo e, quindi, dell’assurdità di prendere ad
esempio chi, vissuto prima, era meno progredito; allo scetticismo succede l’idealismo storico,
fondato sul pensiero, che sarà poi romantico, del non-progresso storico, del continuo processo
dell’umanità verso la “caduta” del presente, cioè del positivismo e del materialismo
dell’industrialismo in ascesa.
Il problema ha anche un altro aspetto. Il passaggio dall’empirismo all’idealismo è anche il
passaggio dal campo delle infinite possibilità a quello della necessità: si apre, con Kant, il problema
del dovere, dell’imperativo categorico. Come nell’ordine etico-politico l’individuo ha il dovere
della libertà, così nell’ordine estetico l’artista ha il dovere dell’arte. Come sempre, la libertà implica
un maggiore, non un minor rigore della coscienza. L’artista deve fare l’arte e solo l’arte; abbandona
al mondo economico, allo spirito borghese, una tecnica ormai contaminata dall’industria. Con un
processo opposto a quello che era stato il processo del Barocco, l’artista non lega più l’invenzione
formale alla tecnica; a rigore rinuncia anche all’invenzione (perciò si propone dei modelli) e
assimila il proprio processo mentale a quello della filosofia, della pura speculazione.
I due centri maggiori dell’Europa neoclassica sono Roma e Parigi; i due massimi protagonisti sono
il Canova e il David (nel movimento neoclassico emergeranno pochissimi veri originali artisti e una
serie infinita di vuoti imitatori) . Con Canova il Neoclassicismo si pone come puro ideale estetico,
al di sopra della storia. Col David si pone come assunzione del presente – la Rivoluzione, l’Impero
– a valore di modello, uguagliato solo dalla storia di Roma repubblicana. Nell’uno e nell’altro,però,
più che come antistoria l’arte si pone come sublimazione della storia: perciò può dirsi che, nel suo
insieme, il Neoclassicismo europeo si pone come poetica del sublime contrapposta alla poetica del
pittoresco, tipica dell’empirismo settecentesco e del “rococò”.