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3. Il San Giorgio
Le statue che scolpisce, in varie riprese tra il 1411 e il 1436, per il Duomo, Orsanmichele e il
Campanile, mostrano come evolva la sua concezione della persona storica; e non si dimentichi ce
accanto a lui, più o meno tra il 1410 e il 1415, Nanni di Banco cercava di ridar vita, tra le teste dei
Quattro Santi, a una ritrattistica romana studiata sugli originali. Donatello conosce altrettanto bene
le fonti antiche e non è dubbio che, in tutte queste statue, si proponga di ritrovare la nobiltà di
atteggiamento e la gravità plastica delle statue classiche; ma non si dà pace finché il modello ideale
antico non coincide col dato reale dei volti della gente che passa per le vie di Firenze. Prima di
mettere in croce un contadino, mette borghesi, artigiani, facchini fiorentini nei panni degli
evangelisti e dei profeti, e un bel ragazzo del popolo nell’armatura di San Giorgio; e non per futile
gusto veristico, ma perché veramente ritrova nelle fattezze, negli atti, e più ancora, nella struttura
morale della gens toscana la grandezza, la forza, il sentimento concreto della vita, la virtus degli
antichi celebrata come prima virtù del “cittadino” da Coluccio Salutati e da Leonardo Bruni. È già il
rapporto passato-presente, che ritroviamo in Masaccio, e che costituisce la ragione etica della storia.
Che sia così è provato dalla solennità parca dei gesti, dal grave ricadere dei panni all’antica, dai
segni di una matura esperienza nei volti pensosi e veramente “vissuti”: sono figure arrivate, discese
attraverso i secoli, ma ora incontestabilmente presenti. Non ombre evocate, ma uomini “certi”,
giunti qui ed ora, rifacendo all’inverso il viaggio di Dante: la luce li colpisce, proiettano ombre. La
luce, infatti, è per Donatello la sostanza fisica, la realtà dello spazio, il presente. E qui sta tutto il
problema, di cui si parlava in quegli anni, della statua. Un pittore dà alle figure del suo quadro la
luce che vuole, e non cambia più; lo scultore che fa un bassorilievo regola profondità e risalti in
modo da fare entrare una certa quantità di luce in una certa direzione. Ma la statua è una forma
immersa nella luce naturale, che muta continuamente d’intensità e direzione. Tutto sta nel captarla,
impegnarla con la qualità plastica, la capacità di presa dello schermo, cioè della forma. Il moto a
spirale del gotico graduava indefinitamente il chiaroscuro; la continuità del ritmo faceva sfuggire la
figura, la concretava per un istante e sùbito la restituiva a un moto che, infine, era pur sempre il
volgersi eterno ed universale delle sfere celesti. Donatello, invece, vuole che la luce inchiodi nel
presente l’immagine discesa dall’antico; vuole toccarla per persuadersi che è lì, presente. Scava
profondamente la pietra perché il contrasto violento dell’ombra costringa la luce a condensarsi nella
massa, diventi pieno contrapposto a vuoto; dà un peso fisico alle pieghe dei manti, perché la gravità
delle loro masse faccia sentire il movimento celato del corpo; libera dalle masse addensate pochi
tratti rapidi e volitivi, perché sia chiaro che il moto non è il moto del cosmo o della luce o del vento,
ma l’atto di una volontà umana; computa attentamente l’equilibrio delle linee e dei piani, perché
vuole che quel moto volitivo si concentri e non divaghi, non si dissipi in uno spazio vago o
fluttuante.
Si confronti il San Giorgio (1420) col primo David. Le gambe, che nel David formavano un
congegno di appoggio e di scatto, nel San Giorgio sono aperte a compasso per portare il peso del
busto; le braccia che là formavano due archi qui precisano, rispettivamente, l’appiombo e la breve
rotazione del busto. La croce sullo scudo definisce l’asse della figura e due direzioni del suo
sviluppo: in altezza, con la verticale del corpo eretto, in larghezza con la orizzontale delle spalle.
Nel David la luce scorreva rapida sui piani slittanti, nel San Giorgio costruisce il volume.
Le idee del Brunelleschi sulla prospettiva impressionano Donatello: la statua è bensì una forma
plastica che ha la forza di sostenere ed equilibrare la pressione dello spazio e della luce, ma può la
scultura rappresentare lo spazio, realizzare una profondità e una luce “figurative”? Sorge il
problema del rilievo, e Donatello non è affatto d’accordo con la soluzione ghibertiana per le porte
del battistero. Il rilievo del Ghiberti ha parti assai sporgenti, che captano la luce e la trasmettono,
con un abile gioco di piani inclinati, verso il fondo: dove dilaga come nel fondo d’oro di un dipinto.
Per Donatello, bisogna anzitutto rispettare la sezione della “piramide visiva”, il piano: i suoi rilievi
sono infatti molto bassi, ma la loro spazialità è molto più profonda che nei rilievi alti del Ghiberti. Il
primo rilievo “schiacciato” donatelliano è l’uccisione del drago per lo zoccolo della nicchia del San
Giorgio. Solo in alcuni punti i massimi risalti sfiorano il piano della cornice: le masse sono
appiattite e dilatate, limitate da un segno profondamente inciso (spesso scavato dietro e sotto i
risalti, con la tecnica del sottosquadro), che si oppone come un solco di ombra alla luce battente
sulle parti rilevate. Così è ottenuta la prospettiva del portico e della grotta; e al di là solo una
minima ondulazione del fondo suggerisce uno spazio indefinito, vuoto, con alcuni alberi appena
accennati, ma in cui s’avverte il peso di un’atmosfera carica di una luce arida, soffocata. Da questa
luce bassa, impastata nella materia del marmo, discende (e basta un rapido confronto a provarlo) la
densità opprimente dello spazio vuoto del Tributo di Masaccio.
4. Il banchetto di Erode
Tra il 1423 e il 1427 Donatello è chiamato a collaborare, insieme a Ghiberti, a Jacopo della Quercia
ed altri, alla realizzazione del fonte battesimale del battistero di Siena. In quest’occasione egli
realizza una straordinaria formella in bronzo raffigurante Il banchetto di Erode. In essa l’artista
pone ogni cura sia nella rappresentazione prospettica, sia nella composizione dei personaggî. La
scena mostra in primo piano, a sinistra, un servo inginocchiato che offre a Erode la testa tagliata di
San Giovanni Battista. Il vecchio sovrano, che pur ne aveva comandato la decapitazione, è
rappresentato da Donatello nell’atto di ritrarsi, con le palme delle mani aperte, in un gesto quasi di
orrore di fronte a quella terribile vista. Il racconto, così, assume aspetti di drammatico realismo e
l’allegro banchetto sfociato in turpe delitto diventa un atto di accusa che Donatello lancia contro la
crudeltà e l’insensatezza degli uomini.
Anche gli altri partecipanti al banchetto si ritraggono, agghiacciati dalla crudele esecuzione di
quell’innocente e, in tal modo, viene a crearsi un vuoto proprio al centro della composizione.
Questo artificio compositivo, insieme alla fuga prospettica del pavimento e degli oggetti posti sulla
tavola imbandita, crea un senso di profondità e di realismo mai visti prima in un bassorilievo. Il
geometrico succedersi degli archi nello sfondo, grazie all’uso di un rilievo progressivamente sempre
più schiacciato e all’impiego di un secondo e più elevato punto di fuga prospettico, contribuisce a
dare ulteriore profondità all’intera scena. Al di là degli archi, del resto, si sta svolgendo un’altra fase
della narrazione, con il servitore che, in un momento precedente, mostra la testa del Battista anche a
Eroiade e una sua ancella. Con tale invenzione Donatello definisce la lontananza nello spazio quello
che è anche lontano nel tempo (cioè avvenuto prima) e, viceversa, vicino nello spazio (in primo
piano), ciò che è vicino nel tempo (cioè avvenuto dopo). Questo nuovo modo di scandire la
narrazione, rappresentando tempi diversi all’interno della medesima scena, sostituisce di fatto, il
ciclo narrativo medioevale nel quale ad ogni avvenimento successivo corrispondeva una diversa
scena.
Il banchetto di Erode ha una costruzione prospettica rigorosissima per sezioni parallele in
profondità e linee convergenti al punto di fuga: eppure mai la rappresentazione è stata così
concitatamente drammatica e intensamente luministica. Per Donatello la prospettiva è anche la
dimensione della storia; ma la storia è azione, dramma, intensificazione del movimento delle
persone, della luce nello spazio. Proprio questa perenne drammaticità del mondo – umanità e natura
– questo continuo tendere a effondersi, spaziare, uscir dal limite è il sentimento cristiano e moderno
della storia.
7. Il Gattamelata
Nelle decorazioni dell’altare di Sant’Antonio da Padova (Sacra Conversazione, Deposizione,
Miracoli del Santo) Donatello stesso distrugge l’ideale umanistico della persona, che aveva
contribuito a fondare: apre cioè la crisi dell’Umanesimo che culminerà di lì a poco in Leonardo. Ma
come spiegare che, proprio quando scopre ed esalta in queste opere un antico anticlassico, compie
con il monumento equestre a Erasmo di Narni (detto il Gattamelata), terminato nel 1453, quella che
viene considerata la più classica delle sue sculture, nel tema (il basamento-saccello) e nella forma
(ispirata alla statua di Marco Aurelio e ai cavalli ellenistici della facciata di San Marco)? Il
riferimento tematico all’antico e alla morte (il saccello) già dice da quale remota profondità del
tempo giunga l’immagine, ora così vicina e presente che di essa si vede tutto, fino alle cinghie della
spada e alle rotelle degli speroni. Con l’evidenza dei particolari l’artista vuole attestare la verità, la
concretezza dell’immagine. Ma l’immagine è un’apparizione che sùbito dilegua. Il Gattamelata è
appunto un’immagine antica, che appare, si fa pensare e trascorre: quanto di meno “monumentale”
si possa immaginare. La mole compatta del cavaliere e del cavallo attraversa la storia, e questo suo
attraversare la storia risalta nella struttura compositiva: secondo una prima interpretazione, l’opera è
data per fasce rettangolari che si susseguono nello spazio, il tutto racchiudibile in un quadrato, di
cui il bastone e la sciabola formano la diagonale (senso di profondità e dinamismo, dato dall’uomo
che ha segnato la storia e diventa modello di condottiero); secondo un’altra interpretazione, il
modulo di base dell’intera composizione sarebbe la sfera posta sotto lo zoccolo del cavallo, e la
struttura sarebbe data allora da un ritmo ripetuto di curve (la coda, la groppa, il collo del cavallo),
che suggerisce il movimento ondulante del passo, accentuando l’universalità della figura che non
sta, ma passa nello spazio e nel tempo. Nel volto non vi è nulla di volitivo o di eroico, il ritratto non
idealizza i tratti: il volto è vicino e presente che par quasi di toccare le rughe della pelle e i peli delle
ciglia, tradisce la meditazione e la malinconia di chi guarda all’avvenire dalla prospettiva di un
lontano passato (è quasi un ritratto psicologico).
8. La Maddalena
Realizzata per il Battistero, è conservata al Museo dell’opera del Duomo. È la figura più tragica del
Quattrocento: rappresenta la Maddalena che fa penitenza nel deserto (è il simbolo della storia,
concepita non più come razionalizzazione del tempo e dimensione dell’agire dell’homo faber ipsius
fortunae, ma come dramma dell’esistenza subito dalle masse). Il suo corpo, coperto solo dai lunghi
capelli, è debole, smagrito, corroso. Il volto è una maschera tragica, è scavato, gli occhî sono quasi
orbite vuote. Con la sua estrema sensibilità alle situazioni storiche, Donatello avverte, nell’ultima
fase della sua opera, il progressivo dissolversi dei grandi ideali del primo Umanesimo: da quello
della persona a quello della storia. Abbandona, contro il neoplatonismo dominante, ogni ideale di
bellezza salvifica: la Maddalena è volutamente brutta, ancora una volta anticlassica, (tanto che si
parla, anacronisticamente, di “espressionismo donatelliano”), che rivela nell’esasperazione dei suoi
tratti l’angoscia che oggi chiameremmo esistenziale: dell’autodistruzione, del dissolversi della
forma umana in una materia che a sua volta si disgrega in una luce senza raggio, morta.