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Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

STORIA DELL’ARTE MODERNA


L’arte moderna è la produzione artistica di età moderna, compresa tra ‘400 (1401, data del concorso che
segna l’esordio della prospettiva rinascimentale, precede la manifestazione storica e anche letteraria della
modernità) e fine ‘700.

La storia dell’arte è una disciplina storica, che analizza la produzione artistica in relazione alle vicende
politiche, economiche e culturali, con riferimenti a luoghi, date, eventi e persone. Ciò nonostante, i termini
cronologici convenzionali non coincidono perfettamente con il periodo storico.

La storia dell’arte viene periodizzata in base a categorie stilistiche, nodi critici intorno ai quali raggruppare
protagonisti, opere e momenti di dibattito, che fanno riferimento alla specificità del linguaggio artistico, la
quale viene ricondotta al contesto per configurare una “civiltà artistica” e ricostruire una congiuntura
culturale.

Sul versante delle arti si parla di una “rinascita”, un nuovo fervore, delle arti tra la fine del ‘300 e i primi
decenni del ‘500. Un importante elemento che entra nella definizione di “rinascita” è l’intenzione di far
rinascere la grandezza dell’arte antica, sia nelle forme che nei contenuti.

J. Burkhardt identifica il punto di partenza del fenomeno a Firenze (visione toscano- o fiorentino-centrica)
nelle innovazioni introdotte da Filippo Brunelleschi (1377-1446), Donatello (1386-1466) e Masaccio (1401-
1428) nei primi trenta anni del Quattrocento. Brunelleschi (architettura), il più anziano, è il “padre” degli
altri due, che però poi risalteranno Donatello per la scultura e Masaccio per la pittura.
Filippo Brunelleschi, Santa Maria del Fiore, cupola, dal 1418

Donatello, San Giorgio e il drago, 1416. Donatello costruisce in profondità una scena rappresentata in
superficie.
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Masaccio, Crocifissione di San Pietro, 1424-1426. Masaccio imposta prospetticamente la scena grazie alla
posizione di San Pietro (a testa in giù), ma anche le proporzioni del corpo umano all’interno di un canone
rielaborato dalla De Architectura di Vitruvio (fonte antica).

Il senso di “rinascita” era già percepito, non solo dagli artisti, ma anche dai contemporanei:

- Si assiste ad una ripresa economica, una stabilità dell’oligarchia mercantile e ai successi politici
della Repubblica, che generano un orgoglio civico e la ripresa dei cantieri, delle commissioni
pubbliche e una fioritura artistica;
- Fioriscono studi umanistici (l’umanesimo “civile” dei cancellieri della repubblica) mito
florentinitas, di origini romane, produce un recupero dei testi antichi, approcciati con metodo
filologico, e un recupero della grandezza del mondo antico e dei suoi valori;
- La supremazia di questo rinascimento fiorentino viene poi codificata da Giorgio Vasari (1511-1574),
artista e scrittore, autore delle Vite d’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, edite nel
1550 e 1558 (due libri diversi). È il testo alla base della storiografia storico-artistica (sempre con
visione toscano-centrica), basato però, su un’idea di progressivo sviluppo della storia dell’arte da
Giotto a Michelangelo che ha influenzato a lungo la visione critica e condiziona ancora oggi gran
parte degli studi e dell’immaginario comune.

07/10/2021

Anche dal punto di vista storico-artistico il panorama geografico della penisola italiana presenta una
ricchezza di forme espressive. Si configurano anche delle realtà sovrannazionali, quindi esiste una
dimensione internazionale con la quale i tanti stati che insistono sulla penisola italiana entrano in rapporto.

Il tardo-gotico
Persiste e si diffonde in tutta Europa un linguaggio tardo-gotico, legato al gotico trecentesco, ma che si
distingue da esso. Esso non scompare alla fine del Trecento, ma perdura ben oltre la metà del Quattrocento
(es. in Lombardia fino a fine secolo). Questo non va visto solo come ritardo vantando una diffusione
internazionale tra le corti a livello europeo (infatti è detto anche gotico internazionale o gotico cortese) e
rappresenta una tradizione assai radicata, vivacissima, essendo baluardo in alcune regioni (es. area padana)
di identità locali e ferma interlocutrice all’interno dello stesso contesto fiorentino delle avanguardie
rinascimentali.

I rapporti matrimoniali, militari, diplomatici fanno interagire le varie corti nella produzione artistica, tanto
da costruire una sorta di network tra esse. Gli scambi epistolari tengono aggiornati i signori sulle tendenze
dominanti delle varie corti. Si creano anche scambi di opere come oggetti di oreficeria, arazzi, disegni e
dipinti, che diventano dei tramiti di diffusione del gusto e dello stile.

I centri italiani del gotico internazionale è l’area padana (Milano). Ma anche a Firenze il linguaggio tardo-
gotico è molto presente: gli artisti di questa categoria sono partecipi del dialogo artistico e quindi si
intrecciano anche con l’avanguardia prospettica.
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Michelino da Besozzo, Sposalizio mistico di santa Caterina con san Giovanni Battista e sant’Antonio abate

Santa Caterina d’Alessandria: il suo attributo … e la corona la contraddistinguono iconograficamente. Lo


sposalizio è sancito dallo scambio dell’anello. Alcune caratteristiche del tardo-gotico, che si lega allo stile
gotico per lo stile della linea, ma assume una particolare evoluzione nell’articolazione dei panneggi e nel
ritmo che lega le figure, con una cadenza molto articolata, che va a definire le figure anche in termini di
raffinatezza e sviluppo decorativo, grazie all’oro. L’anatomia risulta completamente assorbita da questa
evoluzione dei panneggi, a parte le mani. Il decorativismo non è solo nella linea, ma anche nella scelta
cromatica, i colori servono ad identificare le figure protagoniste: Madonna, Gesù bambino e Caterina. Le
variazioni di blu e rosa si accostano tra tinte più accese e più spente. Gli incarnati sono molto delicati, i visi
stereotipati, ma caratterizzati da una finezza dei tratti. È una tradizione aristocratica che rappresenta la
regalità in queste figure. Il fondo oro è tipico della tradizione gotica, oltre a configurare una dimensione di
sacralità è di per sé prezioso. L’opera, seppur piccola, è quindi preziosissima.
Stile gotico fiorito decorazioni eleganti di carattere floreale.
I due santi barbuti sono caratterizzati iconograficamente per la loro la vicinanza alla vita eremita, quindi
della natura e degli animali: San Giovanni Battista con la pelle di cammello sotto la veste; Sant’Antonio
abate, santo eremita e pellegrino anziano (barba bianca e bastone) con il mantello nero. Il porcellino è in
dimensioni non proporzionate, ma come piccola mascotte ai piedi del santo Il rapporto proporzionale tra
le figure segue una gerarchia di sacralità.

Tutte queste caratteristiche possiamo trovarle nelle corti di tutta Europa, ma fa parte dello sottostile
lombardo.

Gentile da Fabriano, Adorazione dei magi (Pala Strozzi), 1425


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Piena stagione prospettica. Presenta il tema dell’adorazione dei magi con una cavalcata fiabesca di
cammelli e miriadi di personaggi che si snodano nel paesaggio senza alcuna attenzione agli stati
proporzionali, occupando completamente il campo dell’immagine e con un fiorire di ori e di decorazioni,
tanto all’interno della rappresentazione (ci sono inserti di materiali non dipinti), tanto nella cornice e al di
sopra della scena principale. La cornice è parte integrante dell’opera.
Proprio per questa presenza del sostrato tardo-gotico e per la frammentazione geo-politica della penisola
italiana, una volta uscita dalle mura di Firenze, la lingua prospettica ha un proprio sviluppo nelle varie aree
della penisola declinazioni differenti a seconda delle realtà locali e alle diverse situazioni di committenza.
Andrea Mantegna, Martirio e trasporto del corpo di San Cristoforo, 1457-1459 (Eremitani)

Della scuola padovana. Forza drammatica della scena rappresentata: il tiranno che ha ordinato il martirio di
S. Cristoforo viene colpito da una freccia scagliata dagli stessi soldati incaricati. C’è un’attenzione della
geometria delle forme e della luce che corrisponde ad essa, che blocca con grande tensione drammatica.
Cosmè Tura, Calliope (la Primavera), 1458-1463

Della scuola ferrarese, Cosmè Tura è il fondatore del rinascimento prospettico a Ferrara, realtà che dal
punto di vista artistico è definibile “l’officina ferrarese” (Roberto Longhi) Ferrara è uno dei centri di
elaborazione del rinascimento italiano. Inoltre, l’espressione rappresenta la lavorazione dei piani della
prospettiva come in una sostanza metallica. C’è un grande lavorio formale di questa musa.

Esiste anche il Rinascimento fiammingo, un linguaggio che è parimenti innovativo sul versante della resa
dello spazio e dell’uomo (come rinasc. Prospettico), ma che parte da altri presupposti culturali e utilizza
mezzi diversi: non la sintesi geometrica della prospettiva, ma una resa della terza dimensione costruita
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attraverso l’ottica. La luce non corrisponde ai piani geometrici, ma è naturale e quindi genera una
particolare versione di realismo.

Jan van Eyck, Ritratti dei coniugi Arnolfini, 1434

Due personaggi italiani che si scambiano una promessa matrimoniale restituiscono l’immagine di due figure
di mediazione attraverso la loro committenza e il collezionismo costituendo uno scambio tra il rinascimento
fiammingo e italiano. Una finestra si apre sulla sinistra, la luce entra nella stanza così che l’occhio dello
spettatore possa seguire il percorso di questa luce che si appoggia sullo stipite di legno della finestra, con la
forza di una luce diretta (ma è laterale). Questa luce invade la stanza e la ricostruisce visivamente
appoggiandosi alle doghe del pavimento di legno e incontrando tutti gli oggetti della realtà quotidiana dei
protagonisti (hanno anche un valore simbolico). Le figure hanno una loro tridimensionalità. Viene
connotata anche la diversa qualità dei materiali, che rimanda a una moda del tempo.
Lo specchio in fondo rappresenta che la scena è vista dall’artista, che infatti è riflesso in esso. L’artista
immortala la realtà come una sorta di autopsia, ma anche la moltiplica attraverso lo specchio l’arte
fiamminga gioca tra resa della realtà e sua dissimulazione con riferimento simbolico.
È la dimensione della borghesia mercantile e bancaria dei paesi fiamminghi: accumulano le proprie
ricchezze ma riflettono anche sull’aldilà nominalismo: ogni oggetto vale di per sé, è un oggetto concreto,
ma è anche la proiezione di un concetto che trascende la realtà.
Il colore è quasi liquido, lustro, grazie all’uso della pittura ad olio (=/ tradizione italiana che utilizza la
tempera). La resa fiamminga è più analitica, mentre quella italiana procede più per sintesi (per i tempi più
veloci per seccarsi).
Questi scambi avvengono in precise aree della penisola: tutta la zona transalpina (Piemonte, Trentino,
Veneto), le isole (Sardegna, Sicilia) e le coste (Regno di Napoli).

Antonello da Messina, Ritratto d’uomo, 1473


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Ritratto a busto di tre quarti (tradizione fiamminga). Antonello definisce attraverso la luce la peluria, i
capelli e la fisionomia, ma anche la texture del capo. La resa volumetrica costruisce il busto come se fosse
scolpito Naturalismo+ geometria.

Il primo rinascimento
Rinascimento: definizione storiografica

- Rinascita delle arti e del mondo antico intenzionale volontà di far rinascere forme e contenuti
della cultura classica.
- Studio sistematico dei testi classici gli studia umanitatis (Umanesimo) vengono affrontati
attraverso i testi ricopiati dai monaci amanuensi, che erano stati però corrotti. Il metodo filologico
studia questi testi attraverso l’analisi critica e comparativa delle diverse fonti. La verifica incrociata
consente agli studiosi di eliminare ciò che con trova riscontro in altre fonti e di conservare ciò che si
ripete nelle varie fonti, per restituire l’originale. Questo esercizio comporta la consapevolezza dei
contemporanei della frattura tra Medioevo e modernità.

Questi valori dell’arte antica diventano la base della ricostruzione del mondo moderno. Quindi cambia
anche l’atteggiamento rispetto al mondo antico, non ci si limita a copiare, ma ad emulare. L’emulazione
comporta la volontà di superare e rielaborare quel modello attualizzandolo. I moderni vogliono proporsi
con la stessa autorevolezza degli antichi (Giorgione si proporrà come un nuovo Apelle). Bisogna recuperare
i principi che quei testi e quelle forme hanno espresso: equilibrio, proporzione, armonia tra il tutto e le
parti, tra uomo e natura nuova visione dell’uomo, che la cultura rinascimentale così come quella classica
mettono al centro antropocentrismo.

L’uomo diventa capace di autodeterminarsi nello spazio attraverso la prospettiva e nella storia. Da qui
l’idea di un uomo in grado di cogliere l’occasione e di essere arbitro del proprio destino fondazione
dell’individualismo dell’uomo moderno, che però comporta anche un’altissima assunzione di
responsabilità, perché l’individuo è parte della società. Nascono così una morale/etica civile e l’idea di una
bella città, dominata dalla razionalità e pragmatismo dell’uomo moderno. L’uomo plasma questa natura,
che diventa paesaggio.

È una visione sostanzialmente laica, anche se per tutto il Quattrocento l’arte continuerà a rappresentare il
sacro (cristiano), la restituzione dello spazio, delle forme e del colore entra in un orizzonte di laicità,
ponendo al centro l’uomo, che diventerà popula mundi. L’uomo è essenza psicofisica, quindi ne viene
restituita la sua esistenza volumetrica nello spazio (resa geometrica e anatomica). Bisogna quindi
recuperare modi e mezzi per restituire naturalezza e verosimiglianza alla rappresentazione.

08/10/2021

Per comprendere l’estrema complessità e ricchezza di questo panorama, mettendo in luce le emergenze, i
momenti di innovazione, le forme di mediazione, ma anche le forme di resistenza attive alle tendenze
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dominanti (resistenze attive) che poi si registreranno anche in ritardo ad esse (resistenze passive). È
importante spostare l’occhio anche alle periferie, più distanti culturalmente dal messaggio dominante, che
però sono zone di sperimentazione di soluzione originali, anche individuali.

Nel 1401 fu indetto un concorso dall’Arte di Calimala (corporazione dei mercanti di panni) per la porta nord
del battistero di Firenze. Questo è l’episodio considerato convenzionalmente inizio dell’avventura
rinascimentale. Parteciparono 7 artisti (uno si ritira= 6), tra cui Filippo Brunelleschi, la cui formella si
conserva, insieme a quella di Lorenzo Ghiberti. A Firenze c’è una fortissima vocazione civica, espressa sia da
membri dell’amministrazione politica dello stato, sia dalle corporazioni, delle associazioni di arti e mestieri
che svolgono un ruolo importante nella tenuta di certe parti del tessuto sociale fiorentino, che si identifica
con l’oligarchia mercantile e artigianale che si assesta anche nei ruoli del potere (prima e durante i Medici).
L’attribuzione della commissione avviene attraverso un concorso, che anima la competizione e il dibattito
tra artisti, che coinvolge borghesia, intellettuali e artisti. La borghesia giudicherà poi la propria preferenza.
Il tema del concorso è quello del sacrificio di Isacco, episodio biblico: Dio, per mettere alla prova la fede
di Abramo, gli ordina di sacrificare il proprio figlio Isacco. Poi arriva un angelo a bloccarlo, proprio mentre
sta per sacrificarlo. Diventa una prefigurazione del sacrificio di Cristo.
È anche il periodo in cui si tenta di ricucire la frattura tra Chiesa d’Oriente e d’Occidente, dopo il Grande
Scisma. Firenze è uno dei centri in cui si configura questo tentativo.
Formella di bronzo con cornice polilobata, sul modello di altre porte.
Lorenzo Ghiberti, Sacrificio di Isacco, 1401

Ghiberti si dichiara appartenente alla stagione tardo-gotica. Ghiberti dà del soggetto un’interpretazione
definita “narrativa”: racconta l’episodio, perché ha un senso di lettura che va da sinistra a destra. A sinistra
due personaggi, a destra il loro colloquio. Sono i due servitori che Abramo lascia ai piedi della montagna
con l’asino che lo ha aiutato a trasportare la legna con la quale Isacco avrebbe dovuto poi bruciare. I due
personaggi sono nettamente separati dalla scena principale dalla roccia che taglia in diagonale la scena e
che, anche nella sua forma scheggiata, rimanda a una fantasia trecentesca. Questo taglio serve ad inserire
una seconda scena, quella del sacrificio vero e proprio, che ci mostra la figura di un vecchio caduto e togato
(Abramo) e di un giovane adolescente legato su un’ara decorata con un motivo a bassorilievo prezioso
(Isacco). Sopra di loro c’è la figura di un angelo. Ghiberti rappresenta il momento subito precedente
all’azione. C’è quindi un’atmosfera di sospensione. L’interesse di Ghiberti non è quello di rappresentare
l’azione, ma quello di descrivere la scena e gli elementi del racconto.
C’è un’aperta occupazione della superficie disponibile e un’attenzione al dettaglio. La figura di Abramo è
descritta nella decorazione del panneggio e nella precisione nella resa del volto e del braccio. Isacco è
invece un nudo che si sottrae con un’eleganza che rimanda ai caratteri di raffinatezza gotica, così come il
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preziosismo nei decori del fondo oro. C’è un gusto di restituzione analitica anche nella resa dell’asino e
della veste di Isacco che pende dalle rocce.
C’è anche un capro che attende di essere sacrificato al posto di Isacco (allusione all’agnello sacrificale).
Ghiberti mostra una grande maestria nella resa di questo rilievo. Ghiberti è a capo di una delle botteghe più
fiorenti di Firenze, partecipe al dibattito artistico. Per esempio, il nudo di Isacco dichiara una bellezza
ellenistica. Si ispira probabilmente al torso di fauno conservato negli Uffizi. Ghiberti sceglie questo modello
perché è un esempio dell’arte classica, che però si presta anche ad un uso tardo-gotico. È una citazione
assunta per la sua bellezza che si inserisce in un contesto in cui il racconto biblico è restituito ancora come
narrazione favolistica.
Filippo Brunelleschi, Sacrificio di Isacco, 1401

Brunelleschi può essere considerato il padre della prospettiva. Qui invece non c’è un verso di lettura, né un
senso di narrazione. C’è, invece, una volontà di rappresentare (=/ narrare) l’evento, infatti Abramo ha già
afferrato Isacco e lo stringe con una mano sotto il collo con violenza e sta per sferrare il colpo mortale. Su di
lui arriva l’angelo che sbuca non dal fondale come in Ghiberti, ma da sinistra verso destra con una sortita e
afferra il braccio di Abramo per trattenerlo. C’è un urto di tre volontà: quella di Abramo che uccide, quella
di Isacco che si sottrae e quella dell’angelo che blocca. Questo nodo di azione simbolico si pone al vertice di
una piramide: un lato è il corpo di Abramo e la base è il gruppo formato dai due servitori e dall’asino, che
sono sul primo piano. I due servitori non introducono quindi l’episodio come in Ghiberti, non hanno alcun
legame con ciò che accade sopra di loro, presi da diverse azioni (uno dei due è una citazione a una statuetta
romana che si trova agli Uffizi, inserendolo in una scena attualizzata per sottolineare che ciò che sta
succedendo è immediato).
L’approccio di sintesi geometrica non è solo nella composizione, ma anche nella resa dei corpi dei
personaggi: Isacco è addirittura sfigurato dalla sintesi geometrica, non percepiamo quasi più il corpo
umano, la preoccupazione non è di restituire la geometria, ma la realtà di Isacco, ovvero il suo tentativo di
sottrarsi alla furia paterna. Diventa quindi una figura quasi disarticolata, con angolosità delle ginocchia,
delle spalle, la testa è non descritta nei dettagli, ma concentrata nel suo urlo verso l’alto. Sintetizzato è
anche Abramo, meno proporzionato di quello di Ghiberti. Non è in posa come in Ghiberti, le figure di
Brunelleschi stanno agendo quindi è rappresentato il movimento (sintesi cinetica), come dimostra anche il
trattamento del panneggio di Abramo. Questa sintesi porta anche ad una semplificazione nella resa delle
figure.
Si sta raccontando la storia sacra come se fosse qui e ora, coinvolgendo lo spettatore in ciò che accade.
L’azione si svolge coinvolgendo anche coinvolgendo la figura del capro, che è in piedi e cerca di liberare le
corna.
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Brunelleschi sottolinea la maggiore grandezza delle figure più vicine all’occhio dello spettatore, ma non c’è
ancora una costruzione prospettica.
Mentre nella versione di Ghiberti c’è una descrizione del contesto paesaggistico e un’attenzione su tutta la
superficie del bronzo che tende ad avvolgere le figure, nella scena di Brunelleschi il piano di fondo non è
trattato e dà quasi un senso di vuoto, dentro cui si inscrive la piramide geometrica.
I committenti scelgono la versione più rassicurante di Ghiberti. Come qualsiasi avanguardia, Brunelleschi è
troppo avanti per queste date, la sua forma è inquietante e destabilizzante. La formella di Ghiberti è meglio
riuscita, anche perché aveva un’intera officina che lo aiutava. Brunelleschi invece ha una natura da
architetto, quindi lavora il bronzo in maniera più amatoriale. Ghiberti porta a termine la porta Nord
nell’arco di un ventennio, con un risultato altissimo, che evidenzia la genialità di Ghiberti e il suo
progressivo aggiornamento. I riquadri sono segnati da delle testine a tutto tondo, punti di geometria.
Alcune formelle sono più vicine a quella del concorso, alcune invece dichiarano l’adozione di partiti
prospettici.
L’anno 1401, aprendo il secolo, segna l’esordio di queste novità ma ne evidenzia anche la precocità. Perché
un’innovazione conquisti parti della produzione artistica intorno al nucleo di avanguardia deve passare il
tempo.
Dal punto di vista figurativo, l’elemento qualificante del linguaggio rinascimentale è la prospettiva lineare
centrica, che Brunelleschi arriva a mettere a punto negli anni immediatamente successivi al concorso. Non
è solo uno strumento tecnico, ma ha un valore culturale più ampio, di conoscenza e appropriazione della
realtà, interpretata laicamente (non guarda a Dio, è l’esaltazione dell’intelligenza umana). Rappresenta la
forma mentis rinascimentale.
Il metodo prospettico è basato su un’altissima competenza della matematica e della geometria e quindi fa
riferimento a quel sapere pragmatico appannaggio della borghesia rinascimentale: la misura delle quantità
e delle distanze, delle proporzioni di un carico… (aspetto pragmatico legato al mondo delle professioni).
C’è anche un aspetto intellettuale umanistico che matura nel corso del Quattrocento attraverso una
produzione teorica, fino ad arrivare alla trattatistica di fine secolo, che accompagna la realtà della
produzione artistica.
La prospettiva è un mezzo per rappresentare la terza dimensione su una superficie bidimensionale, ma la
tenzione di Brunelleschi è anche alla resa dei rapporti proporzionali degli oggetti in relazione alla loro
distanza e posizione nello spazio rappresentato. Non è una resa empirica (come Giotto), ma con
l’applicazione sistematica del calcolo e della geometria.
Antonio Manetti, autore della Vita di Filippo di Ser Brunellesco (circa 1482-1489), è un testimone di
eccellenza e un critico che coglie il senso più profondo dell’azione di Brunelleschi, che sta nella capacità di
utilizzare il metodo prospettico con scienza, regola e ragione.
Ci fornisce una descrizione del metodo di Brunelleschi, che ottiene dei risultati di calcolo non attraverso
l’astrazione, ma attraverso la visualizzazione materiale delle forme.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Brunelleschi non sceglie un soggetto sacro, ma due edifici reali della Firenze del tempo, misurabili e già
connotati in senso geometrico, per le forme squadrate (a broletto e ottagonale), che si proiettano nello
spazio circostante. Fa convergere tutte le linee in un punto di fuga, dove pratica un foro al centro della
rappresentazione, che era piccolo e si allargava sul retro. Osserva le immagini dal retro. Brunelleschi
sistema sulla soglia dell’ingresso del duomo di Firenze una tavoletta con questo foro, su cui appoggia
l’occhio per guardare l’edificio riflesso grazie a uno specchio, in modo tale che si riflettesse anche il cielo
rappresentare un’immagine verosimile.

Nella descrizione di questo esperimento sono inseriti una serie di dati teorici, espressi solo anni dopo da
Leon Battista Alberti nel De Pictura. Egli rappresenta una seconda fase di questo rinascimento fiorentino:
se Brunelleschi è pioniere e sperimentalista, Leon Battista Alberti rappresenta il momento della
sistemazione teorica. Alberti spiega il metodo per rappresentare il pavimento in prospettiva. Alberti
suggerisce al pittore di realizzare una proiezione geometrica facendo convergere tutte le linee ortogonali al
piano di base in un punto di fuga unico (A), costruendo la piramide. Poi si costruisce l’alzato, dove
l’orizzontale è proporzionale alla base del quadro, mentre la verticale corrisponde all’altezza. È una
rappresentazione del quadro visto di taglio. Poi, per la prima volta entra in scena l’osservatore: non c’è
rappresentazione senza spettatore. Per costruire la prospettiva bisogna postulare un punto di vista (B). A
questo punto bisogna tracciare la piramide, che parte dell’occhio dell’osservatore e va ad incontrare il
dipinto visto di taglio. In relazione all’occhio dello spettatore andranno considerate le proporzioni degli
oggetti. Ma l’occhio è mentale, come se lo spettatore fosse un ciclope.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Le rette segneranno degli intervalli, che riportati sul lato del dipinto consentono di creare le linee parallele
alla base e di ottenere una scacchiera con dei quadrati di ampiezza proporzionale, più grandi man mano
che ci si avvicina all’osservatore, più piccoli man mano che ci si allontana mentalmente Si proietta la
terza dimensione.
Il punto di fuga è il punto di maggior profondità, il punto di vista è l’angolo delle quantità. È fondamentale
la loro determinazione.
Questo metodo è geometrico matematico, non ottico.
12/10/2021
Questo dispositivo prospettico è un’invenzione che ha un altissimo valore intellettuale e simbolico. La
prospettiva si colloca al vertice di una nuova concezione dell’arte, che rappresenta simbolicamente una
nuova visione del mondo, che corrisponde anche a delle trasformazioni che si erano verificate all’interno
alla società del Quattrocento dopo l’affermazione della borghesia. La borghesia manifesta un’attitudine al
calcolo e un’esigenza di concretezza e pragmatismo. Valorizzavano gli studi matematici in una dimensione
intellettuale umanistica, basata anche sul recupero dei testi classici. Questo fa sì che l’opera d’arte non si
presenti più come un mezzo per entrare in contatto con la realtà trascendente, ma diventa la riproduzione
di una forma mentis laica e di un modo di approcciare la realtà, che diventa conoscibile e misurabile.
L’opera d’arte non è più una proiezione divina, ma diventa un prodotto della razionalità dell’uomo e che
riproduce lo spazio di vita dell’uomo. La prospettiva è quindi un’espressione dell’antropocentrismo
rinascimentale.
Inoltre, l’assunzione di alcuni principi dello spazio come il calcolo della distanza si proietta anche sulla
dimensione del tempo e comporta quindi l’acquisizione di una prospettiva storica che rende l’uomo del
Quattrocento consapevole della distanza che lo separa dal mondo antico, e che l’uomo del Quattrocento
tende a ripristinare attraverso il recupero del passato. Non è un fenomeno di mera imitazione, ma una
volontà di rinascita e riproposizione di principi dell’arte antica nel mondo moderno. Per cui l’uomo si pone
rispetto ai grandi modelli dell’antico in un rapporto di reinvenzione e rielaborazione.
Donatello, San Giorgio e il drago, 1416

È un bassorilievo che fa da predella alla statua di San Giorgio nella facciata di Orsanmichele. C’è un dialogo
molto diretto tra Donatello e Brunelleschi in questo periodo.
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È rappresentato un episodio caro alla tradizione medievale: San Giorgio, un santo cavaliere, libera una
principessa da un mostro. Il mostro rappresenta il demonio, il male. Donatello non aderisce all’immaginario
e alla dimensione favolistica medievale, perché colloca questo episodio all’interno di una costruzione
prospettica delimitata in primo piano da due quinte scenografiche (da una parte la caverna che simboleggia
una dimensione naturale non in armonia con l’uomo ma legata al mondo degli inferi; dall’altra una quinta
architettonica definita d auna successione di arcate digradanti di un portico in prospettiva, così come il
pavimento della stanza a da cui esce la principessa e dove si aprono delle stanze che alludono ad un
ulteriore sviluppo in profondità dello spazio architettonico. Prosegue nel piano di sfondo con degli alberi
agitati dal vento che indicano una dimensione naturale che Donatello mostra in movimento: il movimento
si accorda sul registro espressivo dei sentimenti e della condizione psicologica della principessa che sembra
tremare in primo piano.
Al centro si coglie il clou della narrazione, cioè lo scontro tra San Giorgio e il drago: la scena è ridotta ai suoi
protagonisti principali e all’hic et nunc, in cui l’azione si svolge al suo apice drammatico, come in un
proscenio teatrale.
Per ottenere quest’effetto di profondità, Donatello applica al rilievo una tecnica che desume dalla scultura
antica: lo stiacciato. Si tratta di un rilievo ottenuto con dei minimi passaggi di spessore: questo consente
all’artista di valorizzare il massimo effetto di profondità ottenendo delle figure massicce, che hanno una
spiccata volumetria. Anche nel passaggio dal tutto tondo delle figure in primo piano allo “sfumato” del
piano di fondo, c’è un ragionamento prospettico e volumetrico, perché le figure si collocano come volumi le
cui proporzioni sono calcolate sulla base di diminuzioni o accrescimenti avvicinandosi allo spettatore dal
punto di fuga.
Donatello, San Giorgio, 1417

San Giorgio qui è una statua a tutto tondo. L’idea della statua e del modo in cui si raccorda all’architettura
circostante rompe con la tradizione medievale. Donatello, nell’occasione di una scultura che deve ornare la
facciata della chiesa, la concepisce in senso classico come elemento autonomo. Ne fa l’occasione di uno
studio della figura umana, mettendo al centro l’individualismo e la riflessione sull’uomo moderno come
individuo parte integrante della società. San Giorgio smette di essere il cavaliere espressione di una società
aristocratica e diventa un soldato al servizio della repubblica, un giovane cives. Prelude il David di
Michelangelo.
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La posa è militaresca, le gambe aperte a compasso intorno a un asse geometrico, alludendo all’equilibrio
della figura che lo conquista grazie a una ponderazione dei pesi: l’asse geometrico, rappresentato dallo
scudo crociato, diventa il perno attraverso cui la figura compie un movimento, una rotazione. Le gambe
solo una più avanti dell’altra. Le braccia vanno a ritmo alternato rispetto alla posizione delle gambe.
Proseguendo verso l’alto si incontra la lieve rotazione della testa. C’è una correlazione tra la figura e lo
spazio circostante, che coincide con l’invaso semicircolare della nicchia, che ci fa cogliere meglio la
tridimensionalità dello spazio circostante. La superficie muraria della nicchia è decorata con un motivo a
mosaico, il quale disegno è geometrico, a scacchiera: questo per esaltare la definizione lineare geometrica
delle forme, ma anche il movimento interno alla nicchia.
La percezione della dignità del soldato non è data solo dalla sua posa e dalla restituzione di abiti all’antica
(armatura come soldati antichi), ma tocca anche i valori interiori del personaggio: la fierezza, la vitalità sono
percepibili anche dai dettagli del volto; il collo si tende, la capigliatura ricciuta e le pieghe della fronte
denotano uno sguardo di forte presenza immanenza della figura.
La funzione del bassorilievo e della statua di San Giorgio è comprensibile a pieno se ricondotta al contesto
di origine: la facciata di Orsanmichele è uno dei grandi cantieri della scultura fiorentina del Quattrocento,
insieme alla Loggia della Signoria e a Santa Maria del Fiore.
Chiesa di Orsanmichele, 1337
Era una loggia per il commercio del grano, ma che per volontà della signoria viene trasformata in un edificio
a due piani: la parte superiore è ancora un magazzino, ma sotto è una chiesa. Le arcate inferiori sono
tamponate con ampie trifore e nella parte alta degli archi intrecciati (tardo-gotico). Poi vengono alternate
delle nicchie dentro edicole che devono raccogliere le statue delle varie arti e mestieri (motore importante
della committenza artistica), i cui stemmi circolari sono nella parte superiore. Vi collaborano Ghiberti,
Donatello, Nanni di Banco, Verrocchio.
Si erge su un’asse che collega Piazza del Duomo a Piazza della Signoria.
La scultura di San Giorgio è stata poi sottratta ai danni degli elementi naturali, si trova ora al Museo del
Bargello.
Nanni di Banco (e Donatello), Assunzione della Vergine, 1414-21

È nella facciata di Santa Maria in Fiore. La decorazione di Porta della Mandorla fa riferimento all’iconografia
della mandorla, dentro cui si colloca la divinità: fa parte dell’immaginario gotico e indica il rapporto tra
umano e divino. Anche l’andamento triangolare del timpano insiste su un arco acuto. All’interno di queste
coordinate tardogotiche, Nanni di Banco mostra di compiere un salto verso la modernità, con uno slancio
verticale che dà movimento alla scena, aldilà dei limiti imposti dallo spazio gotico, con una resa delle figure
che non annulla il loro volume e movimento.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Si configura un dialogo tra Nanni di Banco e Donatello, che si mostrano spesso come collaboratori
all’interno di questi grandi cantieri. Entrambi giovani partecipi di temi e dei gusti aggiornati della
produzione artistica, ma con esiti differenti.
Vediamo le due sculture dei contrafforti della cattedrale nella zona del tamburo. Per entrambi c’è un
retaggio ancora tardo-gotico nel trattamento dei panneggi, che rimanda a Ghiberti, però c’è anche
un’attenzione alla scultura antica.
Nanni di Banco, Isaia, 1408-09

Risolve questa mescolanza di antico e moderno in forme che ancora indugiano su certi ritmi lineari della
scultura tardogotica: il corpo che si inarca in un’elegante posa aristocratica e con un ancheggiamento che
rigonfia la pancia e alleggerisce le spalle. L’idea della figura togata e la conformazione della testa rimandano
alla nobiltà della scultura antica.
Donatello, David, 1408-09
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Donatello avventa in maniera più aggressiva la modernità, concependo la figura di David come dentro una
sorta di cilindro e con una lieve rotazione segnata dal movimento delle braccia e della testa sopra il lungo
collo. Nei tratti del volto, la grazia del giovane della capigliatura ricciuta con corona, si nota un’adesione più
diretta alla scultura antica. I panneggi hanno pieghe più semplificate e la resa del nodo nella parte alta del
mantello è più realistica.
Erano scultura troppo piccole per il luogo in cui erano collocate, quindi si decide di spostarle più vicino
all’osservatore. Donatello quindi ne fa un'altra versione su scala monumentale, ma non in marmo, in
terracotta: ottenuta tramite la modellazione consente all’artista di sperimentale nel momento creativo.

Masaccio
Masaccio, Trittico di san Giovenale, 1422

Contiene molti elementi di novità, nonostante l’uso del fondo oro (gotico). È un elemento spesso richiesto
dalla committenza perché mostra la sua ricchezza, è esibizione di un investimento economico, ma anche un
mezzo di riscatto morale (più la committenza si fa ricca più ha necessità di restituire a Dio e alla società
attraverso l’investimento nel mondo della cultura e dell’arte). Il fondo oro rappresenta per Masaccio una
sfida e la possibilità di mostrare la capacità di superare il bidimensionale imposto dal fondo oro, applicando
la prospettiva. È uno dei primi dipinti in cui Masaccio si mostra precocemente padrone dei mezzi
prospettici.

Rappresenta una Madonna con Bambino su un trono costruito prospetticamente, che digrada in
profondità, lasciando anche uno spazio antistante dove si collocano i due angeli in ginocchio di spalle, che
però poggia su un piano unico, con cui l’artista supera la divisione del trittico. È un tipo di pala d’altare
ancora legato alla tradizione precedente, ottenuto dall’assemblaggio di più elementi, ma che attraverso
questa costruzione unica dello spazio l’artista può unificare. Le figure si collocano come volumi costruiti
attraverso una resa plastica ottenuta attraverso il chiaroscuro. Ottiene delle figure massicce, con una
saldezza e un peso concreto, ma anche una dilatazione.

Questa presenza della figura nello spazio esprime anche la dignità della figura umana e di una misura non
solo fisica, ma anche morale, una grandezza che corrisponde allo spessore morale. La Madonna infatti ha
delle proporzioni maggiori, non per scarto gerarchico, ma della dimensione etica (deriva da Giotto, che
però non lo fece in un’ottica geometrica e prospettica).

Giotto, Maestà di Ognissanti, 1310

Il trono è costruito prospetticamente, ma in maniera empirica, con ben diversa forza d’impatto dello
spettatore nell’aprirsi del trono di Masaccio, che si apre anche lateralmente alle figure dei santi. Si
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percepisce la diversa forza del bambino, che non è più un infante con la sua vestina, ma nudo ed erculeo,
che presenta la dilatazione delle masse vista anche in Donatello.

Anche le figure della Madonna con Bambino possono essere spia di un dialogo con Donatello, sul tema
della dignità della figura umana e del realismo: il bambino che si succhia le dita è chiaramente preso dalla
realtà e restituito con naturalezza. Ma ha anche un valore simbolico di prefigurazione della Passione di
Cristo. È un gesto che si trova anche in

Donatello, Madonna Verona, 1447

Il gesto è lo stesso, così come l’abbraccio della Madonna che stringe forte il Bambino. La Madonna è
partecipe del destino di salvezza di Cristo concetti sacri calati nella realtà.
La forza trainante del linguaggio di Masaccio si percepisce attraverso il meccanismo di confronto anche
nella reazione di un suo strettissimo collaboratore, Masolino da Panicale. Appartiene alla tradizione
tardogotica e nel passato era considerato maestro di Masaccio, oggi invece si tende a leggere più
collaborazioni di Masolino e Masaccio in termini di sodalizio professionale, laddove è Masaccio a trainare
avanti i progetti e quindi trascinare il più anziano artista. Questo fa di Masolino una figura di mediazione del
linguaggio, perché rimane tradizionalmente tardogotico, ma data la vicinanza con Masaccio ne assimila
alcune caratteristiche e cerca di cogliere i principi della prospettiva. Masolino così rappresenta un modo più
mediato di avvicinarsi alle novità prospettiche.
Masolino, Madonna dell’Umiltà, 1423
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Madonna che segue ancora nell’evoluzione del panneggio e nella decorazione del cuscino delle cadenze
decorative tardogotiche. È ritagliata contro il fondo oro, non plasticamente. La luce non plasma segnando i
passaggi di chiaroscuro, ma è una luce effusiva che esalta la tenerezza dei colori. È un modo diverso di
restituire la dimensione sentimentale della Madonna con Bambino, rispetto alla severità delle figure
masaccesche.

C’è comunque avvicinamento a Masaccio, per esempio nelle gambe del Bambino.

Questa Madonna di Masolino invece è più tardogotica, meno realistica (seno). La fisionomia del corpo è
totalmente assorbita dal panneggio che ha delle evoluzioni abbastanza improbabili, anche nei risvolti e
negli accostamenti molto forti di colori, che tendono a ritagliare attraverso la linea. I volti sono molto
generici. Il Bambino è una sorta di bambolotto, eccessivamente piccolo, ma vispo.
15/10/2021
Masaccio e Masolino, Madonna con il Bambino e sant’Anna, 1424

Questa pala viene commissionata per la chiesa di Sant’Ambrogio per un tessitore di drappi fiorentino,
infatti c’è una grande attenzione all’elemento del drappo nella composizione. Il tema è quella della
sant’Anna terza, terza rispetto alla Madonna e al Bambino, principali protagonisti. Sant’Anna qui ha il ruolo
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di protettrice della madre e del figlio: è un tema caro alla tradizione fiorentina che lo manterrà nel tempo; a
inizio Cinquecento una grande innovazione all’interno dell’iconografia sarà portata da Leonardo Da Vinci.
A Masaccio spetta la parte più importante, della Madonna e del Bambino. Masaccio individua la Vergine
con il Bambino nella quintessenza del linguaggio cinquecentesco: le due figure sono costruite l’una dentro
l’altra e composte come dei solidi geometrici, a cominciare dalla parte bassa delle gambe della Madonna
seduta sul trono. Il drappeggio non è tardo-gotico, esorbitante e ricco di pieghe innaturali, bensì le pieghe
sono evidenziate da luci e ombre facendoci percepire l’anatomia sottostante. In particolare, il puntello delle
ginocchia di Maria che allarga le gambe per sostenere questo Bambino erculeo. Questa parte circostante è
come un cubo, al di sopra della quale si percepisce un altro solido, formato dal busto e dal volto della
Madonna linguaggio nitidamente spaziale e rigorosamente geometrico, ripreso da Brunelleschi. Queste
geometrie occupano uno spazio e le percepiamo inserite nella terza dimensione. Masaccio è anche in
stretto contatto con Donatello che ha studiato da Giotto il senso plastico delle forme, evidenziato dal
chiaroscuro. Masaccio dialoga con Donatello, ma con i mezzi della pittura (chiaroscuro). Anche la nuance
verdognola è tipica di Masaccio: queste ombre verdastre accentuano la serietà e austerità delle figure.
Questo modo di costruire la Madonna con il Bambino restituisce una sintesi strutturale quasi
architettonica. Paragone (simbolico) con la cupola di Brunelleschi.
Brunelleschi, Santa Maria del Fiore, cupola (dal 1418)

1418: Concorso bandito dall’opera del Duomo, vinto da Brunelleschi e Ghiberti, poi marginalizzato.
Brunelleschi si configura come architetto in grado di affrontare problemi formali ma anche ingegneristici:
l’elemento di forza di Brunelleschi è il progetto nuova concezione dell’architetto, che non è solo il capo
mastro, ma esercita la propria arte anche in maniera non meccanica, ma liberale. La presenza del progetto,
di un momento ideativo, fa dell’architettura un’arte liberale a tutti gli effetti. Questo non significa che
rinunci però all’aspetto concreto. Si tratta di alzare una cupola di 40 m di diametro, montare ponteggi,
risolvere problemi di trasporto a quelle altezze e di organizzazione dei cantieri, prima ridotta a causa delle
pestilenze. Brunelleschi ha sempre un approccio di sintesi, sia dei problemi formali che materiali, ma anche
di tutte le spinte longitudinali e centripete presenti nella pianta così come si presentava quando interviene
Brunelleschi: vengono inserite delle cappelle radiali che espandono l’abside, sviluppandolo
multidirezionalmente. Brunelleschi raccoglie questo sviluppo nella forma della cupola, costruita in modo
tale da ingabbiare la struttura del tamburo attraverso gli 8 costoloni, che fanno effetto “ombrello”, gli
spicchi degradano verso l’alto e verso il centro con uno sviluppo che deriva dalla visione prospettica e
culminano nel punto definito dal tempietto circolare (punto di fuga ideale) per il quale viene indetto un
nuovo concorso (vinto da Brunelleschi). L’elemento della lanterna riduce il movimento della cupola in un
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punto unico che non si conclude nell’apice del cono, ma nella sfera (1466) sopra di esso. Brunelleschi
concepisce così una forma geometrica che mette l’edificio in rapporto con lo spazio circostante, ovvero lo
spazio urbano e del territorio: la cupola domina Firenze, ma anche i colli che si intravedono all’orizzonte. Si
tratta di una soluzione dall’altissimo valore simbolico, che concretizza visivamente l’idea di Firenze che
domina sull’intera Toscana.
Brunelleschi risolve l’estensione attraverso un sistema autoportante per cui la grande cupola che vediamo
dall’esterno: la cupola a sesto acuto poggia su una cupola interna e più piccola soluzione a doppia cupola.
Tra le due c’è un’intercapedine con funzione sia nel momento costruttivo sia successivamente per
controllare lo stato delle due cupole. Dai trattati di Vitruvio e dall’osservazione delle opere murarie antiche
trae la condotta a spina di pesce (nella muratura), tipico sistema romano, funzionale in relazione
all’esigenza di seguire l’inclinazione della curvatura della cupola e di essere autoportante (spinta contro
spinta).
Quest’opera è di una straordinaria linearità e sobrietà, che si nota anche nella scelta dei materiali (pietra
bianca e laterizio) che seguono una bicromia.
La Madonna di Masaccio si pone nello spazio con la stessa forza costruttiva e unificante di Brunelleschi.
Masaccio guarda anche a Donatello per forza plastica e per la predilezione di forme massicce, dilatate,
come quella del Bambino, che qui ha una forma scultorea.
Donatello, Madonna Pazzi

La mano della Vergine sta a reggere il Bambino con una forza che ritroviamo in Masaccio e dove notiamo il
modo di drappeggiare le pieghe in modo da sottolineare l’anatomia.
Masolino, invece, fa la figura di Sant’Anna e degli angeli, attribuzione notevole con rispetto alla Madonna:
Sant’Anna è una figura che ambirebbe ad acquisire monumentalità, che tenta di segnare con le pieghe la
figura, ma invece rimane confinata inesorabilmente nelle due dimensioni. Sant’Anna è stesa dietro la
Madonna e il Bambino come la tenda dietro. Anche i movimenti e il modo in cui le mani cercano di
appoggiarsi sulla spalla non sono riusciti pienamente, si schiacciano sulla spalla rattrappite, così come il
braccio e il gomito (il braccio risulta troppo corto). Il suo volto, invece, c’è una maggiore caratterizzazione,
che vorrebbe avvicinarsi a quelli della Madonna e del Bambino (gote rosse del Bambino, la luce scende con
forza sul naso di Maria), ma risulta assente.
Anche gli angeli hanno forme molto esili, lavorate con le vesti di colori tenui (rosa pesca, giallo quasi
iridescente) =/ il colore di Masaccio scolpisce le figure. Gli angeli imitano i toni verdastri del chiaroscuro di
Masaccio ma i volti hanno ancora una caratterizzazione generalizzata. L’unico angelo che Masolino non
dipinge, lo fa Masaccio (forse con volontà dichiarativa di rendere l’angelo come una figura reale), in alto a
destra. Il suo volto ha una caratterizzazione e severità che riconosciamo negli altri protagonisti della pittura
di Masaccio. Anche se le luci rispondono riprendendo i toni iridescenti di Masolino, lui ne fa quasi dei
riverberi di luce che vengono da dietro la tenda scolpendo perfettamente il cilindro del braccio: anche la
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figura in volo ha un peso. Le ali di Masolino sono ali della tradizione =/ le ali di Masaccio sono ali di uccello.
L’ombra va dentro il giro, fa percepire lo scheletro al di sotto delle piume.
È un’opera contemporanea a una più grande impresa che vede i due artisti collaborare in maniera ancora
più significativa:
Masolino e Masaccio, decorazione della Cappella Brancacci (Chiesa dei Carmini a Firenze), dal 1424

La cappella di Pietro Brancacci viene commissionata da Felice Brancacci a Masolino e Masaccio. Una serie di
eventi segna il destino dei due artisti e della cappella: Masolino è un artista molto girovago, si reca in
Ungheria legandoli a un committente, e quindi si assenta da Firenze; il cantiere rimane nelle mani di
Masaccio, che poi però lo raggiunge a Roma (forte legame tra i due); dopo pochi mesi Masaccio muore
(1428); i Brancacci vengono ostracizzati da Firenze con l’arrivo della famiglia Medici; la decorazione viene
portata a termine da Filippino Lippi nel 1481; negli anni ’40 del ‘700 viene distrutta la volta originaria e
costruita una più alta, quindi rimossa la volta di affresco originaria e riaffrescata con una decorazione
tardobarocca (disturba però la coerenza che dovrebbe esserci in una cappella del ‘400).
Le pareti laterali e le zone ai lati dell’altare invece sono originarie e si presentano come un esito
fondamentalmente unitario, perché Masaccio aveva concepito un sistema di alternanza delle mani: i due
artisti sfruttavano lo stesso ponteggio contemporaneamente, dipingendo uno la parete laterale, l’altro la
parete di fondo. Quando il ponteggio viene portato sulla parete di fronte si invertono i ruoli questo
scambio crea una maggiore amalgama delle mani. La concezione prospettica si deve a Masaccio che
concepisce le scene in maniera scandita, sequenziate da una struttura architettonica costruita con un unico
punto di fuga, rivolto allo spettatore (ciclope) che si trova al centro davanti alla cappella. Riferimento alle
Storie della Vergine e di Cristo di Giotto, 1303-05 (Cappella degli Scrovegni) =/ prospettiva applicata in
maniera empirica. La rappresentazione invece aveva diverse soluzioni e punti di vista a seconda della scena
(imperfezioni).
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Le scene rappresentate nella Cappella Brancacci sono dell’Antico Testamento: Il peccato originale
(Masolino) e La cacciata dal Paradiso (Masaccio). Sono due scene apparentemente molto simili. I due
artisti scelgono di dividersi il lavoro in questo modo anche in relazione al proprio registro espressivo. Infatti,
Masolino sceglie di rappresentare un momento che è ancora dentro la “favola” del paradiso terrestre, il
momento in cui Adamo ed Eva vivono ancora il sogno dell’innocenza/incoscienza: stanno per mangiare la
mela; non siamo in un luogo determinato, ma uno spazio indistinto caratterizzato però dalla presenza di un
albero dipinto quasi come se fosse un prezioso arazzo: tinte pregiate, attenzione al dettaglio, vegetale e
animale Il modo in cui l’albero disegna una specie di ombrello segue un gusto decorativo. Anche le figure
sono atteggiate con ritmi quasi di danza cortese, come il movimento meccanicamente alternato di braccia e
gambe. Masolino ha una concezione della figura umana che non riesce a vivere lo spazio. Si interessa al
nudo, ma l’anatomia non è calcolata secondo perfette proporzioni: la vita si stringe in maniera innaturale,
le figure non stanno solidamente nello spazio, ma sono disegnate dalle curve, non hanno peso, i piedi non
poggiano su niente, ma non solo perché non c’è un pavimento dipinto non hanno volumetria. Infatti, la
luce di Masolino è diffusa, ma non ha neanche una fonte precisa, quasi come se venisse dalle stesse figure,
come due lampadine. La luce quindi non definisce la loro posizione nello spazio. Anche i volti sono definiti
in maniera stereotipata (sono uguali tra loro), lo sguardo non è vitale.
Il serpente è quello dell’immaginario medievale, ha la faccia di donna.

Masaccio, invece, non rappresenta l’episodio della favola, ma l’episodio drammatico della cacciata,
simbolicamente tesissimo. È il momento in cui Adamo ed Eva ormai hanno consumato il frutto, ora sono
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consapevoli della propria nudità e se ne vergognano e dell’errore che hanno commesso, che però segna il
distacco da Dio e quindi l’abbandono dello stato paradisiaco dell’Eden. È il passaggio dell’uomo dall’infanzia
alla maturità. Masaccio coglie tutta la simbolicità dei significati e porta dentro la realtà il racconto della
Genesi (è anche un esercizio di esegesi e filologia). È il destino di ognuno di noi uomini. Masaccio con
pochissimi tratti riesce a rappresentare la concretezza di una porta da cui Adamo ed Eva escono e non
torneranno mai più. I raggi dell’ira divina passano attraverso questa porta. Il dolore di Eva è dipinto in
maniera che scuote dall’interno: Masaccio non descrive il volto di Eva, ma sintetizza pittoricamente con
pennellate scure che segnano gli occhi, all’ingiù come una maschera, e la bocca, che si apre con un urlo
sordo. La potenza del chiaroscuro è al massimo. Il corpo di Eva da un lato riprende un gesto antico, quello
della Venere pudica (I sec.) e del suo pathosformel (=immagini archetipiche che ritornano in contesti
differenti attraverso i secoli della storia dell'arte): la riscoperta e lo studio di questa opera d’arte antica
hanno consentito di reimmettere questa forma dentro la realtà, è un gesto reale e concreto. Quello di
Adamo è un gesto di vergogna, ma anche di disperazione, inarca la schiena e trattiene il respiro, quindi il
ventre si ritrae: la figura di Adamo è molto reale. Queste due figure hanno i piedi piantati per terra, perché
non vivono sospesi nell’Eden, ma stanno camminando dentro la storia dell’uomo. Ce lo dicono anche le
ombre proiettate sul terreno. C’è un arcangelo, con la spada della giustizia, che si assicura che Adamo ed
Eva escano e vadano nella direzione indicata. Anch’esso ha un peso.
19/10/2021
Masaccio, Tributo a Cesare, Cappella Brancacci

Unifica tre momenti diversi del racconto in un’unica azione, in cui Cristo è il centro geometrico e spirituale,
intorno al quasi si articola l’emiciclo degli apostoli togati all’antica e il gabelliere di spalle in abiti
contemporanei. Il gesto di Cristo è ripreso da quello di Pietro, connotato iconograficamente dal mantello
giallo. Gli apostoli devono pagare il tributo a Cesare. Cristo ordina a Pietro di andare a pescare nel lago un
pesce, che Pietro pesca e dentro il quale si trova la moneta da venire tributata a Cesare. La parola
evangelica “Dare a Cesare quel che è di Cesare” rappresenta il problema della tassazione del clero ordinata
da Martino V, nell’ambito di una strategia di risanamento della Chiesa che questo papa promuove. È un
tema che segna una netta divisione tra gli affari di stato e ciò che concerne il potere temporale e la sfera
spirituale.
L’unificazione di tre momenti in un’unica scena/azione (come il teatro dell’antichità) è una soluzione già
vista per esempio nel Sacrificio di Isacco di Brunelleschi, che qui Masaccio realizza attraverso la prospettiva.
Dal centro (Cristo) si sviluppa per via prospettica un’articolazione dell’episodio: gli apostoli si dispongono
attorno a Cristo con la solidità e occupazione fisica dello spazio di un’architettura, come un “colosseo di
uomini” (potrebbe essere stato espirato dal viaggio a Roma di Masaccio). È un riferimento simbolico a
un’idea di classicità come monumentalità e equilibrio della composizione. All’interno di questo colosseo
troviamo una centricità allargata agli apostoli, che rappresentano l’espansione dell’azione, che va in due
direzioni: Pietro, che riprende il gesto di Cristo, il quale conduce verso il momento della pesca. San Pietro è
inginocchiato molto naturalmente, che sta per estrarre la moneta dal pesce. Dall’altro lato, invece, il terzo e
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conclusivo momento in cui Pietro paga il gabelliere. Pietro si riconosce in tutto il ciclo, nei tre diversi
momenti della narrazione.
La quinta fa riferimento all’ufficio del gabelliere, architettura civile che coincide con la funzione
amministrativa. Il gabelliere si distingue dagli altri per gli abiti contemporanei, mostra le gambe nude,
appartiene alla vita della città. Cristo e gli apostoli invece, configurandosi come figure all’antica, sono
togati, alludendo a una sacralità espressa attraverso la sobria e nobile solennità di una toga all’antica.
Si può proseguire dalla quinta prospetticamente verso i monti innevati e il cielo di nuvole. È una natura
scabra, severa, come l’umanità che abita il mondo di Masaccio, così come gli alberi spogli e le acque del
lago verdastre, colore freddo che indica anche la temperatura del lago idea di una natura quasi ostile,
perché così l’essenzialità esalta la tempra morale dei personaggi e la loro maggiore presenzialità.
La naturalezza del gesto di Pietro sul fondo è offerta con pochi tratti che sintetizzano la figura. Non c’è
descrizione, ma si coglie la verità attraverso questo accenno, anche perché non è l’azione principale. Le
figure in primo piano invece hanno un assoluto protagonismo e sono costruite con una forza data dalla
rigorosa progressione nello spazio, che si proietta sul pavimento da un’ombra, che tiene conto di una fonte
di luce ben definita che coincide con i piani prospettici e modula il colore in termini di progressione
prospettica. Il colore plasmato dal chiaroscuro masaccesco non è inteso in termini di percezione ottica, ma
inteso come forma prospettica.
Le aureole sono inclinate nello spazio come copricapi. Alla base di questo approccio c’è una visione
antropocentrica e individualista della figura umana: le aureole evidenziano la posizione e il ruolo di ciascun
personaggio.
Anonimo orafo fiorentino, Cristo libera un indemoniato, 1450-1460

È una placchetta di argento incisa e sbalzata che si ispira all’idea di Masaccio ambientandola in un contesto
più urbanizzato. Le nuvole sembrano quasi riprendere il dettaglio di quelle di Masaccio.
Nanni di Banco, I quattro santi coronati, 1413-1416
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Quattro santi coronati che Nanni realizza per la nicchia di Orsanmichele per l’Arte dei maestri della pietra e
del legname.
Costruisce queste figure a semicerchio seguendo la forma della nicchia. Sono unificate nella composizione
dell’assetto compositivo, ma anche nello scambio di sguardi unità e naturalezza. Il tutto con un
vocabolario all’antica: vesti togate, teste ricciute, profili nobili che rimandano alla statuaria antica e al senso
di gravitas, peso morale della figura (reso anche da Masaccio).
La testa di Pietro in Masaccio è costruita in termini volumetrici. Il chiaroscuro verdognolo dà plasticismo
alla figura. C’è anche naturalezza di costruire il dettaglio dei ricci, della barba, la vivacità dello sguardo
colpiti dalla luce. Le rughe e i segni del volto non sono casuali e convenzionali, ma individuano
un’espressione. È una testa all’antica.
Sulla parete opposta al tributo, a destra:
Masaccio e Masolino, Resurrezione di Tabita e guarigione dell’infermo, Cappella Brancacci

In questo caso la scena è tutta urbana e scenografica. Nel proscenio definito da due quinte laterali si svolge
l’azione, nel fondale episodi secondari, resi con una certa minuzia, che servono a dare un’ambientazione
quotidiana I miracoli di Pietro si svolgono tra le strade di Firenze.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Probabilmente è un’opera di collaborazione tra i due. C’è un gusto aneddotico, forze gusto più di Masolino
che di Masaccio, meno interessato agli sviluppi narrativi. Le due figure al centro hanno dei volti più generici
e convenzionali (occhi e bocche piccoli e grazia dei panneggi), meno severe di quelle di Masaccio.
La tavolozza è un elemento abbastanza unitario all’interno della Cappella, ma in Masaccio c’è un senso
della luce più evidente, che serve a determinare lo spazio che segue le profilature delle pareti, delle cornici
delle porte e delle finestre, in Masolino invece i colori si fanno più preziosi e squillanti e la luce non ha la
stessa forza costruttiva e spaziale.
Masolino, Predica di san Pietro, Cappella Brancacci

Il gesto di Pietro è più rigido. Il panneggio è tagliato come un triangolo, non come una piramide (geometrie
piane =/ solide). La stessa testa di profilo è su due dimensioni e l’aureola è come un piatto.
Masaccio, San Pietro battezza i neofiti, Cappella Brancacci
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Il mantello giallo di Pietro gira intorno e la figura è costruita come un cono nello spazio. Il gesto della
benedizione esce fuori tridimensionalmente con una forza maggiore. Non è un gesto schematico e
convenzionale, ma perentorio. Il dettaglio della manica rimboccata per versare l’acqua dalla scodella
denota un’osservazione attenta. L’aureola è messa perfettamente di scorcio.
Le figure si dispongono su una curva attorno al lago.
Masaccio lascia più spazio al cielo per dare modo alla luce di distendersi. C’è una naturalezza anche nelle
nubi.
Il neofita inginocchiato, che si raccoglie dal freddo, così come la figura alle sue spalle, che sembra tremi.
Uno si sta spogliando, con un gesto molto naturale, in secondo piano. C’è una verità nella resa anatomica
dei nudi che non è soltanto esteriore.
La linea del paesaggio e di orizzonte è la stessa. Ma le stesse montagne, nella scena di Masolino, sono come
addizionate le une sulle altre con una resa dello spazio ancora bidimensionale. Lo stesso gruppo in primo
piano, per quanto Masolino tenti di articolarlo nello spazio giocando sullo scatto direzionale delle teste
(masaccesco), ma rimanendo dentro una logica bidimensionale. Le montagne di Masaccio sono stemperate
dal chiaroscuro verde in senso prospettico.
In altri due affreschi vengono messe in scena la malattia e la povertà, in scorci urbani, per evidenziare
nell’infermità e nella bruttezza la permanenza dei valori dell’uomo: la dignità di ogni essere umano è
affermata dal linguaggio di Masaccio e attraverso episodi in cui Pietro entra a far parte della stessa
dimensione della povera gente incarnando il messaggio evangelico.
Masaccio, San Pietro risana gli storpi, Cappella Brancacci

Questo tema iconografico è reso in termini prettamente prospettici, rappresentando l’azione di Pietro in
una progressione diagonale, che è un percorso di guarigione. Dalla figura storpia, poi il vecchio che sta per
riprendersi, fino alla figura in piedi appena risanate.
La quinta e l’inclinazione delle ombre seguono la stessa diagonale. L’ombra di Pietro risana l’umanità.
San Pietro viene avanti verso lo spettatore, ma visto dal basso verso l’alto (vedi Donatello, pag. successiva).
Masaccio, Distribuzione dei beni, Cappella Brancacci
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

La figura di Pietro si accampa lateralmente e si confronta con le figure dei poveri, tra i quali spicca la figura
di una madre che tiene in braccio il proprio figlio. Il paesaggio invernale rende più urgente e drammatica la
situazione di indigenza dei protagonisti, malvestiti. Le braccia nude restituiscono una naturalezza dei gesti e
evidenziano l’anatomia di una donna forte, che riprende la Madonna Pazzi di Donatello: capacità di presa
sui corpi.
Lo stesso può dirsi sulle figure della scena del risanamento degli storpi, in cui anche la caratterizzazione
quasi brutale delle figure dialoga con l’arte di Donatello e in particolare con le sculture che Donatello stava
realizzando quasi contemporaneamente per il campanile di Giotto. Sono molto caratterizzate fisicamente,
probabilmente ha usato come modelli gli operai del cantiere. Non è l’armonia e la grazia ad interessare a
Donatello, ma la resa della figura. Sono molto allungate perché si adeguavano alla forma delle nicchie e
perché dovevano essere viste dal basso verso l’alto.

Probabilmente Masaccio ripensa anche il senso di dignità giottesca della Cappella Scrovegni, in termini
prospettici.
Giotto, Incontro di Gioacchino ed Anna alla porta aurea, 1303-1305, Cappella Scrovegni
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Il bacio tra Gioacchino ed Anna è una delle prime rappresentazioni nella storia dell’arte e in un contesto
sacro di una scena di bacio, reso così realisticamente. Si contrappone al bacio di Giuda sulla parete opposta.
Giotto articola questa composizione sulla diagonale del ponte che parte dalla porta aurea e lungo la quale
le figure si dispongono con uno scorcio che mette in evidenza i due protagonisti e il loro incontro nella
parte più vicina allo spettatore.
Questa scena è un esito di grandissima modernità per i tempi, ma Giotto agisce in un contesto e mentalità
non moderni. Infatti la resa della prospettiva è empirica. Si nota la differenza con la soluzione sistematica e
geometrica e matematica. Inoltre, nell’architettura del bugnato dei mattoni a vista di Masaccio intuiamo la
forma in maniera molto più concreta e tangibile che nella porta aurea.
La prospettiva quattrocentesca rende tutto molto più credibile e misurabile.
La figura di Pietro protagonista del ciclo della Cappella Brancacci fa riferimento al nume tutelare della
famiglia, Pietro Brancacci. È anche un santo pescatore che nella sua opera di evangelicazione compie molti
viaggi, quindi è una figura che si adatta per bene con una famiglia di commercio come quella dei Brancacci.
Ma è una chiesa carmelitana, che in questi anni si schiera con il papa per mantenere buoni rapporti. Pietro
ovviamente rappresenta la Chiesa e ha una funzione salvifica e protettiva nella storia della Chiesa. Siamo
nel periodo del Grande Scisma/Scisma d’Occidente, in cui il papato si trasferisce da Roma ad Avignone
(1309-1377) cattività avignonese. Dal 1378 vengono nominati papi e antipapi per il controllo del soglio
pontificio, c’è una guerra aperta. Questo periodo drammatico si conclude con il Concilio di Costanza con
l’elezione di Papa Martino V Colonna, che riporta la sede a Roma. Deve mostrarsi molto risoluto sia sul
piano politico che culturale, infatti farà riprendere l’attività artistica, per ridare alla Chiesa lo splendore
artistico antico.
Masaccio e Filippino Lippi, Resurrezione del figlio di Teofilo e san Pietro in cattedra, 1424-1428 e 1484-
1485, Cappella Brancacci
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La doppia paternità è data dalla morte di Masaccio nel 1428, per cui Lippi completa gli affreschi.
Masolino, Ciclo di affreschi nella cappella di Santa Caterina, 1426-30

Masolino prosegue per una strada di divulgazione delle novità masaccesche, ma dentro un linguaggio
ancora tardogotico.
Sulla parete d’ingresso la scena dell’Annunciazione, che introduce al Nuovo Testamento, quindi si adatta al
punto di vista funzionale ad una porta. Masolino costruisce questo ingresso con un’impalcatura
architettonica, che sembrerebbe in prospettiva masaccesca, ma dal punto di vista della mancata coerenza
(due punti di vista, a dx e a sx) mostra un cedimento.

Nelle scene all’interno la moltiplicazione dei punti di vista è evidente. C’è un’insistenza sulla prospettiva,
ma tradotta frammentariamente e non coerentemente. All’interno di queste scene l’assemblaggio degli
elementi architettonici è altrettanto fantasioso: un’unica colonnina sorregge una balaustra squadrata e
sulla destra abbiamo delle arcate fin troppo alte e ravvicinate, che rimandano poco a un porticato.
La figura sembra ritagliata come una silhouette senza reale peso e senso di occupazione dello spazio.
Masolino, Banchetto di Erode, 1435
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Masolino mostra di aver seguito il corso dei tempi, ma permane la cultura fondamentalmente gotica e
cortese. Le fisionomie dei volti sono bombate, il chiaroscuro masaccesco è adottato senza mai capire fino in
fondo, sempre risolto poi con una condotta che non plasma le forme, ma le impreziosisce.
21/10/2021
Masaccio, Polittico di Pisa, 1426

Masaccio lo realizza per il notaio Giuliano Nicolino degli Scarsi per la cappella nella Chiesa del Carmine di
Pisa.
Il notaio commissiona a Masaccio un polittico di impostazione tradizionale, con un’articolazione in diversi
pannelli distribuiti su più ordini. È un’opera monumentale, doveva essere alta più di 5 m, e all’interno di
una cornice che aveva un disegno gotico, con archi acuti. L’altro elemento tradizionale che il committente
chiede a Masaccio è l’uso del fondo oro, per il quale spende una somma importante, è espressione visiva
della ricchezza del committente.
Oltre al registro principale, nel registro superiore le figure dei santi si affacciano come a delle finestre, con
braccia tagliate come per suggerire un proseguimento oltre i confini della tela. I pilastrini laterali con santi a
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figura intera erano collocati anche con orientamenti diversi come sculture che si animano e prendono
colore.
Ingaggia un artista di straordinaria modernità: Masaccio riesce a superare l’implicita frammentazione del
polittico attraverso l’unificazione del mezzo prospettico. Masaccio applica secondo insegnamenti
Brunelleschiani una prospettiva lineare centrica con un unico punto di fuga e calcolando attentamente il
punto di vista dell’osservatore.
Utilizza il fondo oro come elemento non di determinazione indefinita dello spazio (gotico), ma come sfondo
luminoso che consente di esaltare il chiaroscuro e la modulazione della luce in funzione prospettica. Gli
scomparti sono delineati anche dalla luce e dalla sua direzione. La luce modella plasticamente.
San Paolo: scomparto laterale del registro superiore. La figura di San Paolo è molto giocata con la veste
giallo d’orata di una gradazione più accesa rispetto al fondale, come a segnare una differenza tra superficie
retrostante e tunica. Il panneggiò dà anche animazione alla figura che regge la spada simbolo del martirio e
il libro: gli attributi iconografici diventano un pretesto per rendere l’anatomia umana. La figura umana è
ancora in dialogo con l’opera di Donatello, nel senso dell’animazione e individualizzazione delle figure di
santi/profeti in termini di un’umanità dinamica e corporea.

Madonna con il Bambino in trono ed angeli musicanti, 1426: predella. Lo scomparto centrale del registro
principale è esattamente all’altezza dell’occhio dello spettatore (il gradino). È una struttura monumentale
con proporzioni massicce, soprattutto nel trono, che scandisce diversi livelli di profondità. Il gradino su cui
poggiano gli angeli musicanti è più vicino allo spettatore; il livello intermedio è della Vergine e del Bambino;
il livello retrostante è occupato dagli angeli. Questi tre piani sono graduati in proporzione anche dal calcolo
della luce, che coincide con la collocazione geometrica: è una luce con una fonte ben precisa. Il chiaroscuro
verdastro tipico di Masaccio, così severo, cede alla tenerezza delle gote rossicce o dello sguardo del
bambino, con la manina che infila le dita tra le labbra per gustare il frutto. L’ombra del braccio sul torace e
l’aureola poggiata di scorcio.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Crocifissione di San Pietro: pensata per una visione rialzata. Pensata per una visione dall’alto al basso.
Pietro rifiuta di farsi crocifiggere come Gesù.

Crocifissione: nella cuspide, imposta la scena dal basso all’alto, attraverso le direttrici prospettiche. Lo
scorcio delle gambe di Cristo, pensate per essere viste da sotto, mentre la testa appare come incassata tra
le spalle, la figura di Maddalena che con il gesto disperato di apertura delle braccia indica le direttrici visive
con una forza che coincide con la forza drammatica della figura accesa dal rosso fuoco della veste e della
passione per Cristo. La prospettiva, la luce, la forma e il colore sono utilizzate da Masaccio per indicare la
Vergine come pietrificata dentro il suo manto, dove escono però le mani giunte. San Giovanni, nel giro del
mantello e delle pieghe, mostra un dolore meno urlato, ma ugualmente umano. In questo tema del
crocifisso, Masaccio dialoga con Donatello e Brunelleschi: riprende i toni più drammatici e realistici del
linguaggio donatelliano (1406-1408) e di Brunelleschi (1415), ma opera una sintesi tra queste due
indicazioni.
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Il Cristo di Donatello è pesante, quasi cede sotto il peso del proprio corpo, immagine di sofferenza fisica
anche nella caratterizzazione del volto asimmetrico e sfigurato dal dolore. Non ha la corona, a
rappresentare il Cristo uomo. Presenta dei caratteri non ancora compiuti del linguaggio di Donatello, è
un’opera giovanile. (aneddoto del contadino in croce riportato dal Vasari)
Il Cristo di Brunelleschi, il tema dell’uomo nudo in croce è uno studio del corpo umano attraverso i principi
vitruviani. Restituisce la realtà di un corpo umano ma idealizzato grazie al riferimento all’antico e
all’esattezza delle proporzioni: la larghezza è pari alla lunghezza.

L’uomo vitruviano di Leonardo Da Vinci è il frutto di una ricerca condotta attraverso l’operare e la
trattatistica artistici di architetti, artisti, scultore del Quattrocento prospettico.
Gentile da Fabriano, Adorazione dei magi, 1423
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Rappresentante della tradizione tardo gotica, Gentile si muove per importanti corti e città italiane. È un
artista molto richiesto che ha un raggio di diffusione e un arco di attività notevole, attraverso il quale entra
in contatto con tradizioni locali diverse, sviluppando il proprio linguaggio espressivo. Firenze rappresenta
nella sua storia una tappa importante, infatti si trova a lavorare lì durante il dibattito prospettico tra
Brunelleschi, Masaccio e Donatello. Entra anche in contatto con il fervore di studi e interesse per l’antico. È
un’opera che rappresenta un aggiornamento nel suo percorso, anche in relazione al committente, Palla
Strozzi, importante banchiere e uomo di profonda cultura classica e di interessi umanistici. Si adopera
perché a Firenze venga istituito lo studio del greco. Ma appartenendo a una fazione diversa rispetto a
quella medicea viene esiliato: vive esule a Padova. Palla vede in Gentile un artista affermato, ma i suoi gusti
artistici si attestano sulla forma tardo-gotica, ma che non rompe con la tradizione precedente.
Commissiona opere anche a Ghiberti e Pisanello.
Gentile utilizza una cornice che ha una scansione tripartita, ma all’interno di questa la scena dell’adorazione
dei magi si svolge su un unico campo volontà di unificazione, ma non c’è capacità di restituzione unitaria
dello spazio: Gentile non ha alcuna dimestichezza con il mezzo prospettico. Guarda ancora ad
un’interpretazione da favola aristocratica cortese.
Questo fastoso corteo di magi che portano doni, che si snoda lungo la superficie della tavola in un’unica
linea sinuosa. C’è l’idea di un’unificazione della scena, ma non di uno sguardo unitario prospettico: questa
linea si snoda come un serpente. C’è uno scarto di proporzioni delle figure davanti rispetto a quelle più
indietro, ma non calcolato, approssimativo. Lo spazio è appastellato di dettagli ed episodi l’uno sopra
l’altro, in logica addizionale, quindi che rimane sulla superficie e non sfonda nella profondità. C’è un gusto
della ricchezza del dettaglio anche per rendere gli episodi più minuti approccio analitico, non sintetico.
Nella storia di Gentile questo è comunque un momento di aggiornamento. C’è il tentativo di dare maggiore
corpo alle figure in primo piano, dei cavalli, del gruppo sacro a sinistra e soprattutto dei re magi. I re magi
hanno una maggiore corporeità umana rispetto ai modi tardo gotici più leggeri.
Masaccio, Adorazione dei magi, 1426, Polittico di Pisa:
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Non è un corteo, è un silenzioso drappello di visitatori a cavallo che si avvicinano. La Madonna è sotto una
capanna, impostata prospetticamente e dove sono collocati in perfetto scorcio il bue e l’asinello e la sella
appoggiata per terra. Anche nella resa del dettaglio, qui il dettaglio intensifica il realismo della scena.
L’adorazione di Masaccio sta nello spazio della predella, non al centro come Gentile.
Ottiene un effetto di sfondamento anche nel piccolo spazio grazie alla proiezione in profondità dei
personaggi e animali, ma anche degli elementi naturali come cielo e montagne.
Appaiono probabilmente anche i committenti, vestiti in abiti contemporanei con copricapo e mantello dai
colori molto sobri. All’alternanza delle gambe delle figure umane segue quella delle zampe dei cavalli, con
l’idea che non esiste una gerarchia. Le gambe sono anche segnate dalle ombre sul selciato.
L’unica nota di preziosismo all’interno di questa severa e semplice scena della natività è connotata dalle
aureole, dalle corone dei re e dalla sedia su cui siede la Vergine: è una sedia all’antica, introdotta nel
linguaggio fiorentino come sedile della Madonna da Donatello.
Masaccio, Trinità, 1426-28, Santa Maria Novella:

Masaccio dipinge la trinità sulla parete della navata di Santa Maria Novella, dove si trovava il Crocifisso di
Brunelleschi. È evidente la maggiore vicinanza di questo esito di Masaccio al modello brunelleschiano,
anche se le considerazioni realistiche di Donatello sono comunque sempre ben presenti al pittore.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

La trinità è anche un traguardo del dibattito di questi tre protagonisti della prospettiva del primo
Quattrocento, che traduce anche riflessioni sull’architettura e sulla scultura.
La Trinità fa parte di un’invenzione più alta con cui Masaccio mostra di rifarsi al rigore architettonico della
prospettiva brunelleschiana.
Brunelleschi, navata della chiesa di San Lorenzo a Firenze, 1418

Tre navate con cappelle laterali, transetto e cupola all’incrocio dei bracci: perfetta simmetria delle parti,
che sono legate tra loro attraverso il calcolo rigoroso dei singoli elementi e dei rapporti proporzionali.
Gli archi a tutto sesto seguono una sequenza ritmica. C’è perfetta corrispondenza tra le arcate che dividono
le navate e le paraste di ordine corinzio che nelle due navate laterali incorniciano gli archi a tutto sesto
delle cappelle. C’è una perfetta corrispondenza, un calcolo delle proporzioni che coincide perfettamente
con il calcolo della progressione in profondità.
Ancora Trinità:
Masaccio si rifà al modello proiettando su parete quel calcolo prospettico che Brunelleschi aveva fatto nello
spazio e restituendo un’illusione di profondità. Sviluppa in termini illusionistici della prospettiva lineare
centrica. Si parla di illusione perché Masaccio si inventa le navate laterali, che Santa Maria Novella non
aveva. Le realizza con un inganno prospettico realizzato a partire dallo sguardo dello spettatore, sempre
tenendo conto della distanza dal punto di vista e il punto di fuga dell’invenzione pittorica, che si trova
all’altezza dell’occhio dell’osservatore.
Masaccio dipinge un finto altare in una finta cappella, sotto il quale c’è una tomba con la scritta “memento
mori”. Pone sopra l’altare le figure dei due committenti, che alludono alla dimensione civile che nobilita
l’uomo. Subito dopo si apre un vano, coperto da una volta a botte cassettonata scorciata dal basso verso
l’alto che sfonda lo spazio e incombe sullo spettatore, dove sono collocate le figure di Maria e San Giovanni,
modello di santità. Sopra di loro il crocifisso, fisicamente eretto da un Dio padre, che poggia con i piedi su
una sorta di impalcatura e che con le proprie mani regge la croce di Cristo. Tra le due teste sta la colomba
dello spirito santo.
Il tema sacro, il dogma della santità è restituito in termini laici e in uno spazio reale in rapporto con lo
spettatore, ricostruito attraverso la prospettiva mentale del calcolo geometrico reso concreto allo
spettatore.
Le due figure dei committenti, che spiccano dentro i loro manti, sono costruite come statue inginocchiate
grazie alla definizione del chiaroscuro. La resa plastica chiaroscurale definisce anche i diversi atteggiamenti
di Maria, che guarda dall’alto e indica allo spettatore l’oggetto delle sue riflessioni, e di San Giovanni. Sono
modelli di santità.
Prelude alla ieratica solennità dei personaggi di Piero della Francesca.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Nel 1428 la vita di Masaccio si chiude. Questo grande artista riesce ad aprire le possibilità espressive e
spaziali del linguaggio prospettico. Quindi queste opere di Masaccio costituiscono delle vere e proprie
pietre miliari perché contengono tutti gli sviluppi successivi.

Donatello
Donato di Niccolò di Betto Bardi (1386-1466) è stato un innovatore e sperimentatore in diversi campi
(statue monumentali, rilievi, pulpiti, altari), materiali (bronzo, marmo, terracotta, legno) e tecniche
(scultura, modellazione a cera persa e creta, fusione, intaglio, incisione, oreficeria) della scultura. La sua
esperienza è molto ampia, in cui mostra una perizia tecnica straordinaria appresa alla bottega di Ghiberti,
ma anche l’attitudine sperimentale che gli veniva dal dialogo con Brunelleschi e dal viaggio a Roma (1402-
1404).
Donatello, Crocifisso, 1406-1408; Nanni di Banco e Donatello, Profetini, 1404-1409 e I profeti dei
contrafforti, 1408; San Luca; San Giovanni Evangelista, 1408-1416; …
Donatello e Michelozzo di Bartolomeo Michelotti realizzano dei monumenti tombali che diventano modelli
della nuova tomba monumentale rinascimentale e tenderanno a costruire questi monumenti con un forte
impianto architettonico e utilizzando elementi sia strutturali che decorativi di stile classico.
Donatello, Monumento funebre dell’antipapa Giovanni XXIII, 1422-28

Sita nel battistero di San Giovanni.


Tomba del cardinale Rainaldo Brancaccio, 1426-28
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Più programmatico e dichiarativo nel suo assetto classicheggiante


Donatello e Michelozzo, Pulpito del duomo di Prato, 1428-38

viene concepito in logica brunelleschiana, nell’impianto della vasca circolare scandita da colonne binate che
corrisponde all’ombrello a motivi lacunari di sopra. La purezza di linee rende Michelozzo mediatore
dell’avanguardia prospettica in termini più vicini anche ai gusti di pubblico. Dentro a questa struttura
equilibrata, la danza di putti che Donatello mette in scena sui rilievi della vasca è animata da un dinamismo
che sempre prorompere rispetto al rigore di Michelozzo. Questo perché Donatello nel 1431-33 è
nuovamente in viaggio a Roma, dove conduce uno studio sugli antichi rilievi, che lo porta a considerare non
solo gli esempi classici, ma anche quelli della scultura ellenistica e dell’arte tardoantica, dove c’è l’idea di
movimento e linguaggio sensibile agli aspetti emotivi, che colpisce Donatello nei suoi intenti espressivi. Si
apre un ulteriore confronto legata alla commissione dei due pulpiti del duomo di Firenze a Luca della
Robbia (sull’ingresso della Sacrestia delle messe) e Donatello (porta opposta)
Luca della Robbia, Cantoria, 1431-38
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

L’elemento dell’iscrizione in eleganti caratteri capitali denota il suo carattere chiaro e un linguaggio puro ed
elegante. L’opera è scandita secondo principi geometrici brunelleschiani in maniera molto chiara:
perfettamente bipartita in orizzontale e scandita verticalmente da mensole nella parte bassa e coppie di
lesene scanalate a scarso aggetto nella parte alta. Entro questi profili si inseriscono dieci formelle.
I rilievi svolgono il tema del Salmo 150, cioè la danza, ma con figure composte e belle (è erede del
classicismo purista di Nanni di Banco). C’è molta naturalezza. Definiscono una sorta di girandola nella loro
danza, mostrando l’importanza della formazione di Luca di Ghiberti, che ha questa grazia e ritmo
cadenzato.
Donatello, Cantoria, 1433-38

Mette in scena una danza sfrenata e concepisce sia i rilievi che la parte architettonica in senso dinamico.
Concepisce una vasca che è come un palcoscenico perché è realizzata su un piano più arretrato rispetto a
quello della scansione architettonica delle colonnine binate (a tutto tondo, non a scarso aggetto) che si
pongono su un piano diverso rispetto a quello di fondo creando profondità e movimento nello spazio. A
queste colonne corrispondono anche delle mensole che, diversamente da quelle di della Robia, non
inquadrano elementi identici, ma formelle alternate con delle teste di bronzo e dei rilievi con coppie di
putti su fondo oro. Tra gli elementi decorativi volute di acanto e conchiglie anfore.
Usa anche il mosaico, derivato dai mosaici cosmateschi che Donatello aveva potuto vedere a Roma. serve
ad animare la scena di vibrazioni luminose e a segnare lo stacco tra gli elementi architettonici del fondo e
delle colonnette e le figure umane che corrono attraverso. Corrono con delle mosse non eleganti e
composte come quelle di Luca della Robbia, ma che sottolineano un vitalismo sfrenato, dionisiaco, con pose
più dinamiche, accompagnate dall’andamento del panneggio.
I putti sono spettinati, i nasi e le guance sono molto pronunciate, c’è carica nei muscoli del volto.
Si muovono su un pavimento di foglie che sembra accompagnare la scena con un fruscio quasi sinestetico.
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Questa concezione della scultura come un insieme di figure all0interno di un’architettura che fa da
proscenio la troviamo anche in:
Donatello, Annunciazione, 1435

Utilizza degli inserti dorati ma non con fine meramente ornamentale, bensì per sottolineare le cornici
architettoniche e il movimento delle figure. Dentro questa sorta di tabernacolo a muro le figure sono
inserite come se stessero recitando. L’angelo entra come da una quinta laterale e si inginocchia
raccogliendosi l’ampia veste (gesto ripreso dalla realtà, non lasciato al caso, serve per caratterizzare
l’angelo nel gesto di entrata e offerta del saluto). La Madonna interpreta invece il gesto di sorpresa. Anche
qui la veste accompagna il gesto.
In alto si collocano delle figurine di putti. Donatello a partire da modelli classici sta riflettendo sul tema del
putto, del genio, nella tradizione dall’antico al moderno. Si incontrerà spesso questo tema. Sono realizzati
in terracotta.
Donatello rappresenta l’angelo Gabriele che cerca di convincere la Vergine con una resa puntuale
dell’espressione del volto incorniciato da capelli dorati.
Donatello, David con testa di Golia/Ermes con testa di Argo, 1440:
Commissionato Cosimo de’ Medici. È un adolescente nudo a tutto tondo in dimensioni reali. La luce
colpisce guizzante il bronzo. Utilizza il canone classico di Policleto. Il corpo non è ancora maturo, nella
pienezza delle forme, ma elegante. il braccio piegato sul fianco sembra dare un punto di appoggio al
movimento del resto del corpo. Questo bronzo così pulito sta su tutta la parte della base, trattata con
un’insistenza di cesello molto ricca di decoro, che serve anche a fare da punto di vista visivo. Sotto la tesa
del cappello il volto ha un’espressione monella che riprende l’espressività irrequieta dei putti della
Cantoria. È una concezione della figura del giovane che è carica di vitalità ed energia, anche nella
realizzazione della statua a tutto tondo.
La scultura fu poi tolta dal cortile del palazzo Medici dopo la loro caduta e portata in piazza come simbolo
delle libertà repubblicane., 1435-43
Donatello e Michelozzo, Sacrestia vecchia di San Lorenzo
È la chiesa dei Medici per eccellenza, fatta da Brunelleschi che ha il vantaggio di essere pensata
interamente dall’architetto. Tra queste sta anche la sacrestia, detta vecchia perché poi Michelangelo ne
costruirà una nuova. C’è un vano cubito coperto da una cupola a ombrello attraverso cui si accede ad un
altro vano. l’interno è decorato da tondi in stucco e terracotta policroma da Donatello e Michelozzo.
Creano degli effetti di profondità utilizzando il punto di vista dal basso verso l’alto. Le composizioni sono
molto articolate.
Realizza gli evangelisti come se fossero degli umanisti alla loro scrivania.

Firenze dopo Masaccio


Dopo la morte di Masaccio si verifica un vero e proprio pellegrinaggio alla cappella Brancacci, segno
dell’importanza del magistero che Masaccio rappresenta per tutti gli artisti successivi. Gli artisti più giovani
colgono ciascuno degli aspetti del linguaggio di Masaccio e sviluppano degli spunti con tendenze diverse,
che rendono il contesto artistico più animato.
Queste tendenze derivano da diversi elementi di Masaccio:
1. La luce masaccesca, che plasma i corpi, particolarmente rappresentata da Beato Angelico;
2. La linea di contorno, che ha una forza costruttiva e che prelude a uno dei primati di Firenze, il
disegno. I pittori si trovano attraverso questa tendenza più in contatto con gli scultori, tra cui
Filippo Lippi.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

3. La prospettiva, che però assume moltissime declinazioni e viene sperimentato in modo diverso da
per esempio Paolo Uccello.
1. Beato Angelico è stato un frate dominicano che esprime attraverso la sua arte anche concetti dottrinali
molto forti, come il pensiero dominicano. La sua prima formazione guarda al tardogotico, ma in
particolare quei pittori che appartenevano all’ordine dominicano, tra cui Gherardo Starnina (corrente
valenzana, colori molto accesi) e Lorenzo Monaco (il suo colore gioca su tonalità molto luminose in
relazione all’interpretazione del tema sacro).
Angelico però entra in contatto con le ricerche di Brunelleschi e Masaccio, da cui deriva una concezione
geometrica dello spazio: anche nella miniatura tende a distribuire in maniera chiara testo e immagine e
giocare sulle simmetrie; tende a dare volumi alle figure.
Messale, 1425

Trittico di san Pietro Martire, 1425

Le pieghe del manto della Madonna segnano la figura. Anche i quattro anti dominicani sono definiti
come volumi solidi.

Tabernacolo dei Linaioli, 1433


Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Dà ancora più corpo alla figura di Maria, che assume una monumentalità all’interno dello spazio della
nicchia, dove sta seduta su un sedile e poggia su una pedana che cerca di sfondare lo spazio in
profondità.
C’è un gusto prezioso che appartiene a Beato Angelico, ma che ha ragion d’essere perché i linaioli
lavoravano i tessuti. Il preziosismo serve nel suo linguaggio per riconfigurare lo spazio del sacro:
Angelico riesce a prendere il realismo dello spazio e delle forme da Masaccio, ma senza la volontà
dissacrante costruisce uno spazio reale, prospettico e lo sacralizza nuovamente.

Pala di Annalena, 1424-25

È una pala unificata. Supera l’idea di una tripartizione dello spazio e inscena un tema nuovo, quello
della sacra conversazione, della Madonna con il bambino e i santi che si riuniscono intorno a loro come
se stessero parlando di temi dottrinali e teologici alla sedes sapiantiae.
Lo spazio è unificato da un’architettura scandita dalla parete colorata verde e rosa. Anch’essa è
scandita da nicchie coordinate alla posizione dei santi, ma senza dividerli. La nicchia del trono è una
nicchia a conchiglia.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

L’incoronazione della Vergine

Pensa la scena dell’incoronazione in uno spazio unificato con prospettiva lineare centrica. I santi gli
sanno le spalle su un pavimento piastrellato costruito secondo principi albertani. Sovrapponendo questi
solidi geometrici si arriva alla sommità del trono dove si svolge l’azione principale.
Anche qui la luce scandisce i piani proporzionali e prospettici.
A questa fase di Angelico guarderanno Piero della Francesca e alcuni artisti fiamminghi.
26/10/2021
Il convento di San Marco è una concessione di Papa Eugenio IV ai domenicani che si deve a Cosimo de’
Medici, che si occupa della ristrutturazione, la quale affida a Michelozzo. Scandisce con rigore
geometrico l’intero convento con un’essenzialità di linee che si adatta alla concezione monastica e al
raccoglimento che un luogo simile esige, espresso già nell’architettura brunelleschiana dalla nudità
degli intonaci, dalla limpidità delle strutture e dall’austerità. La luce in questo luogo assume anche un
valore mistico.
Ciò viene espresso anche da
Michelozzo, Veduta della sala della Biblioteca, 1436-1444
Ritroviamo il pragmatismo quattrocentesco.

Si crea una stretta correlazione tra pittore e architetto:


Beato Angelico, Annunciazione, 1438-46
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

In questo ciclo di affreschi che realizza nel convento si rapporta all’essenzialità delle linee e alla
limpidezza delle linee all’architettura di Michelozzo.
Il tema è ridotto alle figure essenziali: la Vergine e l’angelo. L’architettura è spoglia e si raccorda alle
linee della volta a botte dello spazio in cui si svolge. L’immagine, che rappresenta la visione sacra, e lo
spazio reale in cui il frate vive, si nota l’atmosfera di raccoglimento che presiede a quest’ambientazione
sacra: c’è spesso la presenza di un frate domenicano dentro alle rappresentazioni. Questa presenza
diventa per lo spettatore (il frate vero) un modello di comportamento e di preghiera c’è l’idea di
aiutare il frate a trovare la giusta attitudine devozionale e mettersi dinanzi a quest’immagine in
raccoglimento. Si apre su queste pareti quindi una finestra verso la visione sacra, ma non è una finestra
medievale (mandorla, che sottolinea la distanza tra l’uomo/frate e la dimensione del frate), c’è invece
un realismo dell’immagine ottenuto attraverso la prospettiva. Questa finestra ideale ha un rapporto
evidente funzionale con la finestra reale che si apre in questa cella, attraverso la ripresa della cornice
arcuata nella parte superiore.
L’idea di un rapporto concreto con lo spazio della rappresentazione è ottenuta anche attraverso la luce,
elemento identitario del linguaggio di Beato Angelico.
Angelico mette in piedi un vero e proprio cantiere elaborando anche dei modelli di immagine che poi gli
allievi moltiplicano. Questo in particolare nelle celle dei novizi, dove sceglie come tema unico quello
della crocifissione.
Beato Angelico, Domenico in preghiera dinanzi al Crocifisso

Beato Angelico, Trasfigurazione


Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Le celle dei chierici sono invece decorate in modo diverso, ma sempre con temi del pensiero
dominicano.
Qui ricompare il tema della mandorla (gotico), ma riformulato all’interno della struttura geometrica. Le
figure dei tre apostoli che assistono alla scena della trasfigurazione sono affiancate a quelle dei due
santi, che fanno da modello di devozione, ai piedi di una roccia, costruita come un solido per
un’apparizione di Cristo che è quasi una statua: il tema del bianco gioca con l’analogia con la statuaria,
ma in canone geometrico e vitruviano.
Il bianco è fonte di luce, perché Cristo diventa emanazione di questa illuminazione con una potenza che
gareggia con quella della luce reale che entra dalla finestra della cella.
L’approfondimento dell’opera teologica non è un elemento di ritardo nell’opera di Angelico, ma di
modernità, perché sta avvenendo una grande trasformazione anche nel mondo della religione,
necessitando di un rapporto più intimo tra l’uomo e il divino. L’esigenza di vivere in maniera più
individualista e con maggiore trasporto emotivo è il fenomeno della devozione moderna che Angelico
interpreta in maniera dotta come il pensiero domenicano. Tutto ciò si svolge nel segreto delle stanze
domestiche, dove si può riflettere su questi concetti.

Beato Angelico, Madonna delle ombre, 1439

Il tema della sacra conversazione sui grandi dogmi della Chiesa vede al centro la Madonna con il
Bambino in trono, ad indicare che la Madonna è la figura che contiene dentro di sé tutto il sapere
teologico.
Il titolo vuole mettere in evidenza l’attenzione da parte dell’artista al tema della luce. Che scandisce e
unifica questo spazio. La posizione dei santi viene raccordata alle lesene scanalate corinzie, che
scandiscono la parete, al centro della quale sta dentro una nicchia con catino dorato il trono della
Madonna: si crea un rapporto tra la composizione e l’architettura calcolato in termini prospettici, ma
con una giustificazione iconografica: Madonna al centro, vicini i santi evangelisti, poi altri, e ai margini
due santi domenicani. Queste figure sono scalate in profondità: i santi dominicani stanno più vicini allo
spettatore, mentre i due gruppi un po’ più arretrati, mentre la pedana del trono spinge in profondità.
La luce unifica. Viene da sinistra, come indicano le ombre. Le ombre però sono minime, perché è una
luce molto alta, quasi meridiana, quindi con ombre corte, ma molto essenziali e severe. La luce
sostanzia anche la percezione del colore, perché le aureole in catino della nicchia sono realizzate
attraverso la scomposizione dei colori primari, che danno l’effetto dell’oro (il rosso, il verde e il giallo)
unificati nell’occhio dello spettatore. Anche la luce e il colore nascono dal punto di vista
dell’osservatore.
La decorazione è a riquadri in tinto marmo che riprendono i colori essenziali dell’affresco, come una
paletta cromatica.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

2. Filippo Lippi
È un frate carmelitano. Da novizio segue i lavori di Masaccio nella Cappella Brancacci e rimane
suggestionato dal suo lavoro, ma soprattutto dal suo realismo, aspetto che connota anche la religiosità
carmelitana.
Entra in contatto con scultori come Luca della Robbia.

Filippo Lippi, Madonna dell’Umiltà, 1430-32

È una Madonna accovacciata nel prato attorniata dagli angeli, dalla Maddalena e da due carmelitani.
Le opere carmelitane tendono a un realismo maggiore.
Il fatto che sia una Madonna dell’Umiltà la mette più alla portata di tutti. Poi la concretezza non è data
solo dalla luce, ma anche dal volume che essa dona ai corpi, che sono ottenuti anche dalla linea. La
linea non è gotica, che evolve in maniera decorativa, ma una linea che definisce la figura in maniera
geometrica e costruttiva. è una linea che ha la stessa forza plastica dello scalpello dello scultore. La
stessa composizione è sviluppata come se fosse un bassorilievo.
Dentro questa forma volumetrica però le figure sono reali non solo perché sono concrete, ma perché
c’è un’idea di quotidianità della rappresentazione, come se il gruppo si fosse disposto per una foto di
gruppo. Gli angeli sono un po’ monelli (come cantorie di Donatello e Della Robbia), ma anche
sorridenti. Si capisce che sono angeli, ma solo perché sono bambini e vestiti di bianco: non hanno le ali,
connotano il realismo.
Anche i due santi sembrano ottenuti come delle figure abbassate verso il piano di fondo, come lo
stiacciato donatelliano.
Senso di umanità (angeli sorridenti), sono persone vere. Hanno una concretezza quasi scultorea.
Il Bambino è vivace, scappa dalla presa della madre, guardando lo spettatore. La Madonna ha lo
sguardo rivolto altrove: è triste perché prevede la morte del figlio, ma consapevole della provvidenza
divina.
È importante il soggiorno a Padova di Lippi per la sua produzione.

3. Paolo Uccello, secondo il Vasari, coglie un elemento di sofisticazione della prospettiva, con virtuosismi
prospettici che non puntano al realismo, ma al costruire paesaggi impossibili capovolge l’assunto
prospettico.
La sua prima formazione è tardogotica e passa anche per lui da Ghiberti.
Nel 1425 Uccello è a Venezia, dove esegue un mosaico per la facciata di San Marco, quindi non a
Firenze proprio durante gli anni del dibattito Masaccio-Brunelleschi-Donatello. Il contesto veneto è
fortemente attaccato alla tradizione tardogotica. Quindi viene indotto a mantenere una predilezione
per la favola cortese, ma poi torna a Firenze e rimane colpito dalla novità della prospettiva, quindi la
approccia, ma in maniera autonoma e originale. Sperimenta e varia la prospettiva in mille modi, non
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per costruire uno spazio razionale, ma in maniera sofisticata. Il suo sperimentalismo viene recepito
anche a Venezia, Padova, Urbino, Ferrara.

San Giorgio e il drago, 1425

È un’opera giovanile di San Giorgio e il drago in chiave tardogotica, sia per l’ambientazione fantastica
che per la resa formale. La principessa è una silhouette, con un profilo prezioso. Il drago è
rappresentato come un personaggio delle favole. Notiamo subito una propensione verso l’astrazione
geometrica delle figure, bloccate dentro delle forme. Il cavaliere, in particolare, con il cavallo che si
impenna, e il drago, sono come dentro delle ellissi.

Battaglia di San Romano, 1436-40


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Quest’opera è composta da tre tavole, che componevano un ciclo sul tema della battaglia di San
Romano, dove l’esercito fiorentino aveva avuto la meglio su quello senese (schierati con il duca di
Milano Visconti). Per questo i fiorentini si propongono come difensori della repubblica di fronte a tutta
la regione.
Le tre tavole erano state commissionate da Leonardo Bartolini Salimbeni, sostenitore di Cosimo il
Vecchio (De Medici). Cosimo si presenta come padre della patria e garante delle libertà repubblicane.
Queste opere celebrano quindi la vittoria di Firenze, dividendo la battaglia in 3 momenti, colti dalle
direzioni prospettiche geometriche che sono segnate dalla diversa inclinazione delle lance, ma anche
dalla variazione della luce. È una luce che scandisce tre momenti diversi del giorno.
- Nicolò da Tolentino alla testa dell’esercito fiorentino: la battaglia è rappresentata come un torneo
cavalleresco, reso anche dal dettaglio del decoro e delle armature in uno spazio impossibile e
irreale. I colori tendono a forti contrasti. La prospettiva non unifica lo spazio, lo disarticola: ci sono
almeno due punti focali in questo dipinto; le linee prospettiche portano lo spettatore ad essere
continuamente distratto, perché vanno in direzioni diverse. Ciascun elemento è però studiato
prospetticamente, ma non coordinato con gli altri per sorprendere lo spettatore. Lo spazio diventa
quasi surreale, tanto che anche le figure umane sono come bloccate con un senso di sospensione
quasi magica. La prospettiva però viene sempre ribadita. Anche il pavimento è fatto da scorci, il
caduto per terra è in uno spazio ridotto/abbreviato, in cui sta insieme alle lance spezzate (indicano i
caduti).
- Disarcionamento del capitano senese Bernardino Ubaldini della Carda: contrasto tra bianco avorio
e rosso. Il primo piano è studiato di scorcio per terra, sono i cavalieri disarcionati. Non c’è pathos in
questa caduta. La visione del paesaggio a volo d’uccello, con il dettaglio dei campi e dei contadini
che stanno per lasciare il lavoro nei campi, sono resi in maniera tardogotica, ma con la prospettiva.
- Intervento dei rinforzi fiorentini guidati da Micheletto da Cotignola: ambientato in notturna. Le
armature dei cavalieri erano rivestite di foglie d’argento per sottolineare i bagliori lunari. La
composizione del gruppo avviene attraverso il tema delle lance, che si aprono a ventaglio a sinistra.
C’è corrispondenza tra posizione dei cavalli e delle figure e delle lance.
Paolo Uccello, Monumento a Giovanni Acuto, 1436

Monumento equestre a Giovanni Acuto, un condottiero inglese, vincitore della battaglia di Cascina. Si
trova in Santa Maria del Fiore: nel duomo si celebrano gli eroici vivi. Uccello rappresenta in pittura un
monumento equestre (insieme di architettura e scultura) come Masaccio nella Trinità: ma non gioca
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

con l’illusionismo della prospettiva per aprire uno spazio che non c’era; Uccello torna alla
bidimensionalità usando la prospettiva, ma simulando un arazzo (negazione della prospettiva).
Utilizza due punti di vista, uno frontale per il monumento, e uno dal sotto in su per la parte della
mensola.
La monumentalità e il riferimento all’antico si riferisce al valore del personaggio rappresentato.
Usa un monocromo della parte scultorea (e dell’arazzo), ma con una colorazione verdastra, tecnica che
nella trattatistica del tempo va sotto la denominazione di “verde terra”.
Andrea del Castagno, Monumento a Nicolò da Tolentino, 1456

Si rifà all’opera di Uccello. La linea ha una funzione plastica e restituisce durezza statuaria e un’enfasi
retorica. È quasi caricaturale.
Paolo Uccello, Chiostro verde di Santa Maria Novella

Uccello vi lavora a più riprese.


- Storie di Noè, 1446- 48: la visione frontale della parte alta è in scorcio più pronunciato rispetto alla
parte inferiore, c’è uno scarto più violento. C’è una sorta di imbuto prospettico lungo le direttrici
dell’arca, che riprende due punti di fuga per dare un effetto di straniamento: come se l’apparizione
della terra dopo il diluvio universale spalancasse una situazione surreale.
28/10/2021
Rinascimento fiammingo
Si configura come un’alternativa al rinascimento fiorentino negli stessi anni.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Jan van Eyck è uno dei padri di questa corrente. Quest’immagine è significativa di una capacità di rendere
la realtà, anche nella profondità dello spazio, non però attraverso la matematica e la sintesi geometrica, ma
attraverso una perlustrazione ottica analitica dei singoli oggetti, che riesce a restituire anche la terza
dimensione per via di suggestione visiva. Questa nuova concezione della realtà e dell’uomo viene restituita
come uno specchio, sia dal punto di vista della lucentezza ottica dei particolari, sia perché questa realtà si fa
immagine di una realtà superiore, di significati simbolici dalla concretezza del visibile si rimanda a
concetti invisibili. Si parla quindi di simbolismo dissimulato o realismo simbolico.
Questa resa ottica della realtà viene ottenuta anche grazie alla tecnica della pittura ad olio, che i
fiamminghi introducono e di cui detengono il primato per buona parte del Quattrocento, quando nella
penisola italiana si usa ancora prevalentemente la pittura a tempera su tavola o ad affresco la soluzione
tecnica coincide con una diversa esigenza espressiva e con dei tempi di lavorazione diversi. La pittura ad
olio ottenuta attraverso leganti con medium oleosi asciuga più lentamente e quindi consente al pittore di
ottenere degli effetti molto analitici e lenticolari nella resa del dettaglio. È anche una pittura lustra,
luminescente, che esalta la lucentezza delle cose =/ la pittura a tempera comporta dei tempi ridotti ed
un’esigenza di sintesi nella resa formale.

I paesi fiamminghi comprendono la fiandra e l’Artois, Brabante, l’Olanda, la Zelanda… Sono tutti territori
che vengono annessi sotto Filippo l’Ardito e poi Filippo il Buono al Ducato di Borgogna.
La corte del ducato si trasferisce a Bruxelles, per sfrancesizzare il ducato e affermare la propria
indipendenza rispetto alla Francia. Questi centri del nord stavano vivendo uno sviluppo economico per il
commercio, le banche e filiali di banche straniere (anche italiane). Questo promuove anche una fioritura
culturale e sociale: queste città diventano sedi di una società cosmopolita e molto aperta, si fondano
università e fiorisce una società non più aristocratica, ma borghese. È una borghesia diversa da quella
fiorentina, molto legata al commercio ma senza l’afflato civico dell’umanesimo fiorentino.
È una società anche fortemente connotata in senso religioso: il fenomeno della devotio moderna (=
esigenza di trovare un rapporto più intimo e personale con Dio, nasce qui). Si diffondono libri di preghiere
con preziose miniature e immagini di devozione. L’aspetto di realismo e resa concreta dal pinto di vista
visivo delle immagini si lega a queste esigenze devozionali.
Quest’area ha inizialmente una connotazione ancora tardogotica, come mostra anche il prevalere nelle arti
figurative delle opere in miniatura, legate ai libri di preghiere. La miniatura è prevalente fino agli anni ’40
del Quattrocento.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Mentre in Italia anche le fonti coeve di intellettuali si sono preoccupate di evidenziare e celebrare il
cambiamento, questo non avviene nei paesi fiamminghi, dove non c’è inizialmente questo sodalizio tra
artisti e intellettuali.
L’attenzione alla realtà nella resa della natura e dello spazio è un aspetto già presente nella tradizione
tardogotica.
Fratelli Limbourg, Febbraio; Marzo. 1412-16

La produzione miniata nordeuropea raggiunge il suo apice con i fratelli Limbourg, al cui atelier si formano
tantissimi artisti fiamminghi. Dal volume “Ore del duca di Berry”, la composizione segue il calendario dei
mesi: la parte superiore è caratterizzata dai segni zodiacali e dalla divinità che domina il mese, a imitazione
di una sorta di ordine cosmico da cui deriva anche un ordine sociale, segnato dalla presenza dei castelli del
duca di Berry. Il potere politico del duca domina le diverse attività umane.
Si coglie un amore per il dettaglio: per esempio le donne che si scaldano davanti a un braciere si sollevano
la gonna (febbraio), gli uccelli cercano di piluccare qualcosa in mezzo alla neve… C’è un’attenzione alla
natura e alle varie pratiche della semina (marzo). È un’attenzione però frammentata, rivolta al singolo
dettaglio, e inserita in un ordine ancora aristocratico.
In questo contesto si forma Jan van Eyck. I suoi primi saggi sono nell’ambito della miniatura, è probabile
che si sia formato presso l’atelier dei Limbourg.
Jan van Eyck, Nascita del Battista
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Mentre nella scansione paratattica dei fratelli Limbourg le figure sono ritagliate senza peso e senza
attenzione ai rapporti proporzionali, nell’opera di Jan van Eyck lo spazio ha una propria coerenza
tridimensionale. È anche uno spazio in cui il realismo non è limitato al dettaglio, ma riguarda l’intera
invenzione e impaginazione della scena. La nascita del Battista viene rappresentata in un interno
domestico, in una stanza da letto di cui vediamo le travi del soffitto, il grande letto a baldacchino con la sua
profondità, la cassa con il corredo della donna da cui sono stati tirati fuori gli oggetti necessari al parto.
Notiamo anche minuti dettagli come le ciabattine di legno, la figura di una delle levatrici colta mentre sta
trattenendo un bambino, il cane e il gatto mangiano, oggettistica…
La luce si appoggia e perlustra l’insieme dello spazio e i singoli elementi. Oltre la porta vediamo anche un
altro interno: gli spazi si aprono uno dentro l’altro, ma non come in Donatello con il gusto della costruzione
prospettica, ma come in un cannocchiale ottico, per far entrare la luce. La luce entra da tagli laterali, da
finestre che noi non vediamo ma di cui intuiamo la presenza.
La minuzia descrittiva di van Eyck viene anche dalla formazione nell’ambito della miniatura e nel gusto di
restituire gli spazi interni della vita domestica borghese. Questo vale anche se il committente è aristocratico
perché comunque la dimensione sociale del pubblico è legata al prevalere della borghesia.
Anche nella rappresentazione dell’esterno, il paesaggio è dominato da castelli, alberi, con l’effetto di
maggiore profondità grazie alla capacità dell’occhio e della luce di perlustrare micrograficamente anche
nelle lontananze.
La qualità lucente restituisce addirittura il riflesso del cielo nelle acque in cui si svolge il battesimo di Cristo.
Queste caratteristiche trovate nello spazio ridotto della miniatura crescono nella dimensione monumentale
del polittico. La produzione di Jan van Eyck è abbastanza ricca, è molto richiesto e prolifico, di cui
possediamo molte opere.
Hubert e Jan van Eyck, Polittico dell’agnello mistico, 1424-32

Il tema è quello della redenzione dell’uomo attraverso il sacrificio di Cristo significato dall’Eucarestia
(agnello). È un’opera iniziata dal fratello Hubert e poi portata avanti largamente da Jan.
Il polittico che viene realizzato per la cattedrale di San Bavone a Gand è una macchina molto complessa, in
cui van Eyck supera la frammentazione tardogotica del polittico e consegue un’unità di visione si a in
termini di spazio che di iconografia. Lo spazio è concepito come un’architettura.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

I profeti e le sibille che abitano le nicchie delle cuspidi si affacciano con i filatteri (delle profezie di salvezza)
sulla scena inferiore, dove c’è un registro superiore con il tema dell’Annunciazione, soggetto immaginato
come nella casa di Maria. Le quattro tavole distinte vengono unificate in uno spazio unico, in cui a sinistra
c’è l’angelo che appare monumentale sotto le travature del tetto, proiettando sulla parete l’ombra della
figura e delle ali; a destra la Vergine che ha già sulla testa la colomba dello spirito santo. Queste figure sono
su un pavimento a mattonelle, sui cui l’occhio scivola verso la profondità fino alla balaustra, sulla quale si
aprono delle nicchie con gli accessori della cura personale e quindi la tovaglia di lino bianco, il bacile (allude
a una purificazione interiore) …
Il paesaggio che si apre alla finestra è un paesaggio urbano che si mette in rapporto con lo spazio interno
topos della letteratura fiamminga. Serve all’artista a saggiare la modulazione della luce tra interno ed
esterno. Spesso la diversa qualità della luce interna ed esterna trova una soglia di osmosi sul limite del
davanzale. Ma un’altra soglia è quella che separa questo spazio della suggestione visiva dallo spazio
dell’osservatore: i fiamminghi rinnovano il linguaggio in funzione dello spettatore, ma non uno spettatore
matematico che misura, ma uno che contempla e perlustra lo spazio della finzione figurativa.
Il tema dell’illusione e della dissimulazione dell’immagine è anche nella contrapposizione delle figure reali
dei committenti, Joos Vijd e moglie, con i due Giovanni, Evangelista e Battista. Sono collocati nello spazio
delle nicchie, ma i committenti resi con realismo ritrattistico nella fisionomia dei volti e nella qualità
epidermica, avvolti da vesti restituite otticamente nell’articolazione delle pieghe, ma anche con la capacità
di restituire la materia morbida dei tessuti. Le statue invece sono rese attraverso la luce nella consistenza
dura della pietra gusto virtuosistico della contrapposizione tra figure reali dipinte come statue e finte
statue che si animano come figure reali.

Nel registro superiore il polittico mostra all’interno nel registro superiore la figura in maestà di Cristo in
trono, con la corona, lo scettro e la mitria papale, come nell’apparizione apocalittica del giudizio, quindi con
la veste porpora e i segni della regalità così come Maria e San Giovanni che lo affiancano. È un’apparizione
preziosa e monumentale, come se fossero sculture in pietra dura.
La luce rileva la qualità preziosa delle gemme, delle vesti, che troviamo anche nei pannelli ai lati degli angeli
suonatori e angeli cantori: i loro abiti hanno ricami dorati, le canne dell’organo dipinte una ad una
attraverso la linea luminosa del rilievo…
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Ai lati, Adamo ed Eva sono come rappresentazione dell’uomo e della donna ad immagine di Dio, ma nella
loro nudità.
Nella parte inferiore la scena è unificata con un’unica visione di paesaggio e della natura, con al centro
l’apparizione dell’agnello mistico di Cristo sopra l’altare contornato dagli angeli. Le schiere di fedeli, ordinati
secondo gerarchie religiose, accorrono: a sinistra i giudici integri e cavalieri di Cristo, a destra gli eremiti e i
pellegrini
 visione del macrocosmo della divinità e visione microscopica del paesaggio.
L’unificazione è ottenuta anche attraverso la luce, che passa tra i singoli oggetti con una qualità unica. Ciò
che è vicino allo spettatore ha la stessa evidenza di quello che è lontano (passa continuamente da
particolare a universale).

- L’Adamo di Masaccio avanza sul terreno con i piedi saldamente piantati per terra, gravato dal peso
della propria colpa, colto da una luce che ne restituisce l’essenza formale di volume e di massa, ma
anche quella drammatica. C’è sintesi formale.
- L’Adamo di Jan van Eyck è visto da sotto in su, si nota il dettaglio della pianta del piede che sbuca
fuori dalla cornice. L’atteggiamento è di sospensione, di malinconia, come immagine del primo
uomo creato a figura di Dio, ma che dopo il peccato si copre e riflette su sé stesso. È un’immagine
concreta, resa con grande dettaglio, grazie ad una luce che non è più il lume di Masaccio del
chiaroscuro, ma il lustro che consente di rilevare anche gli aspetti più minuti. I capelli sono rilevati
uno ad uno, la peluria è rada ma ispida, che interrompe la resa liscia dell’epidermide nella zona
delle ascelle, del torace e del pube. La resa sensibile è molto naturalistica della zona coperta però
dalle foglie del fico. La mano fa intravedere le vene che pulsano.
Il riporto delle ombre è sensibilissimo. Anche le cavità e le protuberanze create dalla tensione dei
muscoli e dei tendini sono molto analitiche.
La differenza di tempistiche degli strumenti coincide con l’esigenza espressiva: per il fiorentino
rappresentare l’hic et nunc, per il fiammingo l’attenzione ai dettagli.
Jan van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

A Bruges Jan van Eyck incontra un commerciante lucchese che si fa immortalare con la propria moglie
all’interno di una stanza nel momento in cui si scambiano la promessa matrimoniale. È un ritratto che si
carica di un valore simbolico, espresso da alcuni elementi presenti: il letto, l’interno domestico, simboli
come la candela accesa, il cane (fedeltà), i frutti dell’amore, le pantofole tipicamente fiamminghe… Questi
oggetti connotano in senso concreto la descrizione dell’interno. La volontà dell’artista è quella di affermare
una presa d’atto diretta della realtà.
I pittori fiamminghi non hanno un corrispettivo letterario che li celebra, ma la loro operazione di
rinnovamento è comunque consapevole: van Eyck ha una consapevolezza altissima di sé stesso e del
proprio lavoro, tant’è che firma e data in questo dipinto sono posti al di sopra dello specchio che ritrae il
pittore stesso mentre entra nella stanza insieme a un testimone. Dichiara una presa d’atto autoptica della
scena, che ambisce ad essere specchio del reale, all’interno però di una cornice decorata dalle scene della
Passione di Cristo la realtà visibile rimanda a significati religiosi.
L’immagine riflessa si percepisce per via di luce, questa è una dichiarazione del principio luminoso che il
pittore ha eletto come valore formale del proprio linguaggio. È una luce reale, entra dalla finestra rilevando
la soglia che noi percepiamo attraverso i vetri molati, diretta dove invece non ci sono. Rileva tutti gli oggetti
(concreti e simbolici).
Anche la capacità dell’occhio reagisce diversamente anche a seconda della qualità della materia: possiamo
indovinare la diversa qualità dei materiali, così come nella realtà. Così percepiamo il lino bianco che
incornicia la testa della giovane sposa. La veste è ricca di velluto verde, con i risvolti di pelliccia. Dall’altro
lato Giovanni Arnolfini è colto nella qualità luminosa del lucco di panno. La tesa larga del cappello ricopre il
volto molto affilato del committente, reso con la luce diretta che gli tocca la guancia e la penombra
nell’altra guancia.
Jan van Eyck, Madonna del cancelliere Rolin, 1434-1435
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Nell’interno il cancelliere sta in preghiera di fronte alla visualizzazione delle proprie preghiere, cioè la
Madonna regnante con Bambino. l’uomo e il sacro si affrontano monumentali dentro questo spazio,
caratterizzato dal pavimento in piastrelle colorate, i capitelli corinzi con rilievi all’antica, le finestre
istoriate… Si sposa architettura nordeuropea e rinascimentale.
Oltre l’interno, si apre il paesaggio, reso con una minuzia di dettagli (es. figure che si affacciano dalla
balaustra). Mostra una caratteristica fiamminga: è uno spazio che va in profondità attraverso la luce, ma dal
punto di vista geometrico si ribalta verso lo spettatore le figure in primo piano si spingono verso lo
spettatore per effetto di ribaltamento, una suggestione molto forte che in questo momento si distingue da
quella fiorentina, ma quando si fonderanno raggiungeranno una potenza illusiva piena.
29/10/2021
Robert Campin è un pittore che parte da una formazione vicina al gotico internazionale, ma non dalle
miniature dei Fratelli Limbourg, quanto da altri modelli.
Melchior Broederlam, Annunciazione, 1393-99
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Tema sacro con accenti di carattere quotidiano. La scena è ambientata in un interno, con una stanza che si
apre in profondità. L’angelo si inchina alla Vergine come se fosse entrato nel giardino della casa di Maria e
l’avesse colta sotto il portico. C’è un orientamento verso la quotidianità. È ancora gotico per la sinuosità
delle linee, la leggerezza delle figure e la mancanza di coerenza dello spazio e la tendenza alla preziosità dei
dettagli.
Robert Campin, Annunciazione, 1430

Campin invece costruisce la composizione con un’idea di profondità, ma indagata attraverso il dettaglio. La
luce si incontra con quella che viene dall’esterno con il cielo e le nuvole: viene da una finestra che si apre
con dei battenti articolati. La stessa luce prosegue verso il camino, dove troviamo un sostegno con la
candela e uno senza. Nel tavolo ritorna la candela, appena spenta, ma ci sono anche oggetti che alludono
alla vita quotidiana della Vergine, la brocca con dentro un giglio (simbolo di purezza), il libro che ha appena
tirato fuori dalla borsa dentro cui si custodivano i testi preziosi. La Vergine, secondo la tradizione, legge la
profezia di Isaia. Notiamo il dettaglio del panno bianco con la quale la Vergine sostiene il libro per non
rovinarlo.
La Vergine è colta in un atteggiamento molto disinvolto, stesa per terra e appoggiata alla panca. C’è una
capacità di osservazione e di saper fissare il reale anche negli atteggiamenti delle persone. Vicino al camino
notiamo lo schermo di protezione.
Rispetto all’opera di van Eyck il ribaltamento in Campin questo è ancora più accentuato. C’è meno capacità
di penetrare nella profondità dello sguardo della luminosità dei piani.
La sua formazione deriva dal gotico borgognone:
Claus Sluter, Pleurant
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Claus Sluter, Pozzo dei Profeti

Le figure dei profeti sono monumentali e solide e vengono fuori da queste nicchie con un risalto
tridimensionale notevole per una scultura ancora in un orizzonte gotico. Lo sviluppo dei panni acquista una
consistenza, una sostanza e anche un’illusione nel rendere i diversi materiali (per quanto possibile nel
marmo). La barba di Mosè si divide in due come il Mar Rosso, percorsa da una linea ondulata che è
un’evoluzione gotica.
Campin accosta la monumentalità e solidità con la vita quotidiana nel
Robert Campin, Trittico di Mérode, 1430

Coglie i committenti mentre spiano dalla porta socchiusa ciò che sta avvenendo in casa della vergine. Anche
la bottega di San Giuseppe è un saggio di realismo nel dettaglio degli strumenti del mestiere. La porta-
vetrina della bottega lascia la possibilità allo spettatore di cogliere il dettaglio della città.
C’è un realismo come nel Polittico di Gand di van Eyck, ma interpretato con un linguaggio più concreto nella
sostanza delle cose, più solido. È un’interpretazione meno magica e contemplativa di quella di van Eyck.
La luce nella dimensione della scuola borgognona è chiara, meno lustra e più diffusa. Squilla meno sul
colore, che è meno liquido di quello di van Eyck. È un modo diverso di utilizzare la tecnica. La pittura è
meno oleosa, si asciuga di più.
Roger van der Weyden è un artista che guarda sia al dettaglio micrografico e lustro di van Eyck che al senso
plastico e la concretezza borgognona di Campin e fonde queste due suggestioni, per trovare una propria
predilezione di linguaggio che si lega anche ai temi rappresentati, drammatici. Accentua i tratti patetici
della rappresentazione. Questo patetismo lo porta a legare le figure tra loro in una sorta di catena di
movimenti spezzati.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Roger van der Weyden, Deposizione, 1435

Le figure sono quasi a grandezza reale. Van der Weyden costruisce questa deposizione come se fosse un
compianto c’è una tendenza ad esaltare il momento più drammatico del racconto. Costruisce il gruppo
come il gruppo scultoreo, ma dentro una sorta di teca monumentale, poco profonda, vediamo la parete di
fondo. La cornice ha decori agli angoli traforati. Dà l’idea delle figure che stanno in uno spazio poco
profondo.
È una sorta di blocco monumentale chiuso dentro una teca. Suggerisce il gusto per la dissimulazione della
realtà (come specchio di van Eyck). L’intero compianto è costruito come se fosse un presepe monumentale.
Dentro a questa finzione i personaggi però interpretano con esasperata emotività il tema del compianto, sia
dal punto di vista compositivo perché sono tra loro legati da concatenazione di gesti spezzati o ripetuti: la
curva di Cristo= curva dello svenimento della Vergine; li distingue il fatto che uno è nudo (esercizio di
anatomia), l’altra vestita, la testa di Cristo è abbandonata al suo peso, quella di Maria è una testa
sofferente, esangue di chi si sente venir meno, ma è dritta la Vergine è compartecipe del mistero della
Passione di Cristo (simbolismo+ realismo). Le ciglia di Maria sono contratte, è ancora viva. Il volto è bianco
come una statua di cera e viene accostato al bianco del velo.
Intorno al corpo di Cristo si raggruppano Nicodemo, Giuseppe d’Arimatea, la Maddalena in un gesto di
disperazione nel congiungere le mani, disegnando una curva che chiude lateralmente, come quella di San
Giovanni Evangelista.
In questo dipinto piangono tantissimo: tutte le figure lacrimano e le lacrime sono dipinte con un’illusività
ottica, una liquidità. Si formano grosse gocce all’interno dell’occhio e traboccano dalle ciglia. Rende il bulbo,
la cornea, la pupilla in cui si riflette la luce della finestra.
I dettagli (unghie, barba ispida, l’occhio arrossato, occhiaia) sono molto curati. C’è una sensibilità molto
dettagliata nella resa dei tratti del volto, ma anche un’accentuazione emozionale che non c’è in van Eyck.
Nel 1449 viaggia in Italia nell’anno del giubileo e fa tappa in diversi centri, segnando con la sua presenza gli
artisti locali, ma anche registrando le novità di linguaggio della penisola. Si ferma alle corti di Milano,
Mantova, Ferrara e Napoli, dove sono molto apprezzati i prodotti della cultura nordeuropea, ma si ferma
anche a Firenze. Lo notiamo nel
Roger van der Weyden, Compianto e sepoltura di Cristo, 1450
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Apre il vano del sepolcro nella roccia creando una geometria che guarda alla composizione di Beato
Angelico, Compianto e sepoltura di Cristo, 1438-43.

Beato Angelico inscena il tema del Compianto legandolo ad un altro elemento iconografico, quello della
pietra dell’unzione: l’angelo sta posando il Cristo su una sorta di pietra dove sarà unto con gli oli della
Maddalena. Il modo in cui Cristo è disposto allude alla posizione della crocifissione, ma è anche studiato per
rientrare nelle proporzioni vitruviane. Ma non è più un corpo eretto, sta per essere adagiato e e per questo
è costruito in perfetta prospettiva. È quasi come una scultura che si sta trasformando nella sostanza del
marmo. Però l’angelo che lo sostiene è colpo con un dato di realismo, sta facendo un grande sforzo per
sostenere e adagiare lentamente per terra la figura di Cristo. Ai lati Maria e San Giovanni sono costruiti per
simmetrie di forme e atteggiamenti, ma anche di colori. Il tutto è mantenuto su una variazione di bianchi,
grigi, azzurri e rosa.
Van der Weyden invece non riesce a costruire geometricamente lo spazio, le sue geometrie rimandano al
piano: la diagonale del coperchio del sepolcro risponde alla diagonale del corpo di Cristo, con un’idea di
complessità di linee segmentate, spezzate e ribaltate sul piano, anche laddove c’è l’idea di andare oltre con
l’occhio, cogliendo i dettagli del paesaggio =/ essenzialità del paesaggio di Beato Angelico.
Non c’è differenza tra la resa del dettaglio del primo piano o piano di fondo.
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Rispetto all’astrazione e rarefazione della deposizione di Beato Angelico, van der Weyden interpreta il tema
con la cadenza patetica e drammatica che ci riporta al tema della sacra rappresentazione.
Il colore gioca sul contrasto del rosso accesso di San Giovanni e il blu notte del manto di Maria. Il colore va a
rilevare i preziosismi di Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea nei loro abiti.
Prende alcuni dettagli di Angelico e li inserisce in una visione che non ha ancora la capacità di costruzione
organica dello spazio della pittura fiorentina.
Berthélemy d’Eyck era noto come maestro di Re Renato d’Angiò (conte di Provenza e duca d’Anjou), che
scende in Italia per rivendicare il Regno di Napoli, scontrandosi con le pretese di Alfonso I d’Aragona che
avrà la meglio e costringerà Renato d’Angiò a tornare nei propri territori.
D’Eyck realizza per Re Renato le miniature di un codice, il Livre du coeur d’Amour épris, il cui protagonista è
il dio Amore. Sono miniature che devono molto alla tradizione dei fratelli Limbourg. Probabilmente d’Eyck
ha realizzato l’ultima miniatura (dicembre) del codice del duca di Berry. Guarda moltissimo alla pittura di
Jan van Eyck, ma anche alla tradizione fiammingo borgognona di Campin.
Barthélemy d’Eyck, Amore dona a Desiderio il cuore del re malato, 1440

Ambientata nel notturno di una camera da letto. La luce è riverberata dal braciere sulla destra: l’effetto è di
illuminazione dal basso e penombre.
A lui si deve negli anni del viaggio in Italia il
Berthélemy d’Eyck, Trittico dell’Annunciazione, 1443-45
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Al centro c’è l’Annunciazione e ai lati il Profeta Isaia e Geremia, le cui profezie sono legate al tema
dell’annunciazione. Il tentativo di rappresentazione dello spazio che unifica riprendendo l’idea italiana di
una fuga prospettica delle arcate, anche se in uno spazio gotico, è ovviamente derivata dal suo viaggio in
Italia.
C’è un maggiore equilibrio nel rapporto tra le figure e lo spazio: le figure non sono più fin troppo grandi per
lo spazio che le contiene. D’Eyck ha maggior capacità di equilibrare le figure con lo spazio e anche di
collocarle in esso: l’angelo e la Vergine si inseriscono in questo scorcio di chiesa in maniera non casuale, ma
con distinzione dello spazio dell’angelo (cappella laterale) in modo da isolare la figura, sovrastata dal Padre
eterno di cui porta il messaggio. Fa coincidere lo scritto del messaggio Ave Maria gratia plena con la parte
superiore; sulla socia dell’arcata si collocano gli altri profeti. In basso due oggetti: il vaso con il giglio e il
leggio, riccamente istoriato, con i libri di Maria. Segna così lo spazio della Vergine dietro la quale la
progressione di arcate nello spazio della narrata della Chiesa sottolinea anche il ruolo di Maria mater
ecclesiae. C’è grande controllo di tutti gli elementi formali iconografici e di resa spaziale.
Le figure dei profeti sono finte statue che si animano. C’è un modo di coglierle nel segreto delle loro nicchie
come se stessero studiando. I libri sono sistemati in maniera un po’ disordinata sopra la mensola come su
una scrivania e colti nella verità della luce come vere e proprie nature morte. La natura morta non è ancora
un genere a sé, ma all’interno di questi dipinti fiamminga troviamo queste nature morte, che anche se
connesse con il tema principale sono sviluppate come frammenti indipendenti: la mensola fa corpo a sé.
Jan van Eyck, Madonna con Bambino in un interno di chiesa, 1425-30

La Madonna qui è sovradimensionata nello spazio della navata rispetto alle dimensioni più congrue di
Barthelemy. Sono però strettamente dipendenti l’una dall’altra: il modo in cui sono ritagliate e aperte sul
pavimento le pieghe del pavimento; la fisionomia e i capelli attraverso cui filtra la luce, sono leggeri, colti
uno ad uno; il modo in cui la luce fluisce dalle finestre.
D’Eyck è l’esponente della cultura fiandro-borgognona che poi Renato d’Angiò porterà in Italia.
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Jean Fouquet è un artista che viene in Italia (ritrae Papa Eugenio IV).
Jean Fouquet, Etienne Chevalier presentato da Santo Stefano, 1450-55
La figura del santo e il ritratto risentono molto dell’influenza italiana, del modo di costruire lo spazio.

Jean Fouquet, Madonna che allatta il Bambino in trono, 1452-55


Forse la Madonna è stata fatta prima del viaggio in Italia, perché è ancora molto francese. È costruita come
una statua d’avorio su un trono intarsiato di perse e contornato da angeli di corallo e lapislazzulo. Ha una
certa solidità, ma con proporzioni improbabili.
Queste due immagini fanno parte del dittico di Melun, concepite come due parti di un insieme unico.
Mettono insieme l’immagine della Madonna con il tema del ritratto. Il ritratto moderno nasce dal grande
contributo dei pittori fiamminghi.
Enguerrand Quarton guarda anch’esso alla cultura italiana, ma dall’esterno quindi mettendo insieme
linguaggi e artisti anche distanti tra loro, nello spazio e/o nel tempo.
Enguerrand Quarton, Incoronazione della Vergine, 1454

La parte bassa ricorda un dipinto senese del Trecento per il modo di costruire per strisce sovrapposte, per
le figurine senza peso…
La parte alta con il Cristo e il Padre eterno e la Madonna è costruito guardando al Rinascimento toscano per
la consistenza e la geometrizzazione, ma senza lo spazio prospettico italiano.
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La luce così provenzale si ricollega invece al linguaggio fiammingo, così come per il preziosismo della corona
e la resa dei tessuti.
A partire dagli anni ’60 del Quattrocento le due esperienze rinascimentali andranno a fondersi (luminismo+
prospettiva).
Nei primi anni del Quattrocento gli episodi di incontro sono meno sistematici e per ora la forma italiana
tende a vincere sugli spunti fiamminghi.

1431: concilio di Basilea per l’unione delle due Chiese, trasferito poi a Ferrara, in cui uomini di chiesa e
letterali si impegnano a promuovere l’unione tra chiesa latina e greca. Viene sospeso per la caduta di
Costantinopoli.
02/11/2021
Diffusione della pittura fiamminga in Italia
Filippo Lippi, Madonna di Tarquinia, 1437

C’è senso plastico massiccio dei corpi (di derivazione masaccesca), dilatazione delle forme, ma anche per la
vivacità espressiva un rapporto con la scultura.
Il bambino si lancia verso la madre quasi a pizzicarle il volto (come Madonna Pazzi).
Lo spazio è impostato in maniera da tendere verso lo spettatore con un grandangolo. Il fondo prosegue a
cannocchiale denotando un’apertura verso un’altra stanza: elemento fiammingo, come la maggiore
attenzione alla lucentezza delle gemme.
Nel 1434 soggiorna a Padova. Sia nelle collezioni dei privati che in quella del vescovo di Padova ci sono delle
opere su tavola che miniature che provengono dal gusto fiammingo.
Probabilmente viaggiò a Tournai nel 1435. Ma comunque a Firenze ci sono molti tramiti fiamminghi in quei
tempi.
Il Cardinale Albergati è uno di questi italiani che collezionano opere d’arte fiamminga.
Il cardinale Giovanni Vitelleschi, il committente di questo dipinto, infatti era originario di Tarquinia, era un
umanista che in intorno al 1435-37 arcivescovo di Firenze. Viene incaricato dal Papa di seguire le vicende
della successione del Regno di Napoli. È uno scontro importante tra Re Renato d’Angiò (appoggiato da
papato, Venezia, Firenze e Siena) e Alfonso d’Aragona (appoggiato da Milano).
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Giovanni di Consalvo, Storie di San Benedetto, 1436-39


Giovanni di Consalvo è un artista portoghese, chiamato a Firenze quando un portoghese era abate di
questo monastero di san Benedetto. Anche il Portogallo è stato toccato dalla cultura fiamminga.
Queste sono le Storie di San Benedetto nel chiostro degli aranci.
A Firenze, guarda molto anche al linguaggio di Beato Angelico, che aveva trovato una chiave religiosa
meditativa di interpretare il linguaggio prospettico.
Giovanni di Consalvo, Miracolo del pane avvelenato consegnato dal prete Fiorenzo e portato via dal
corvo

Nelle scene del chiostro degli aranci troviamo impaginature di scene in architetture severe, una luce
diafana che tende a sottolineare l’impianto architettonico e a organizzare i volumi e i rapporti proporzionali
attraverso la scansione cromatica, che gioca anche con il bianco della mensa, il fondo semplice degli
intonaci del refettorio e il nero dei monaci di Santa Giustina (benedettina).
C’è una componente più descrittiva di origine fiamminga, che dà il dettaglio dello strofinaccio appeso sul
limite della scatola prospettica, che proietta l’ombra sul muro.
Giovanni di Consalvo, Miracolo della roncola

È un saggio di lustro ottico, che deriva dall’insegnamento di van Eyck.


Giovanni di Consalvo, Benedetto eremita nel Sacro speco di Subiaco
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C’è una natura morta sul tavolo, certe fisionomie sono più vicine al mondo europeo. Le ali degli angeli sono
poco piumate, da corvo. La cesta che cala san Benedetto. proietta l’ombra.

Domenico Veneziano è un artista che si firma veneziano e che arriva a Firenze in questi anni, anni
importanti per l’affermarsi della figura di Cosimo de Medici, perché attorno a lui inizia ad aggregarsi un
contesto culturale e di committenza.
Da Perugia scrive a Piero de Medici chiedendogli di lavorare per lui. Un’opera che riteniamo che possa
essere stata eseguita per Piero è
Domenico Veneziano, L’adorazione dei magi, 1438-41

È un tondo che mostra le componenti della formazione di Domenico Veneziano e la fusione di un sostrato
tardogotico con l’aggiornamento sulle novità fiamminghe e fiorentine.
La formazione tardogotica di Domenico probabilmente è stata compiuta tra Firenze e Roma dove potrebbe
aver guardato a Gentile da Fabriano e Pisanello, dai quali riprende quel gusto per il dettaglio naturalistico
associato a un preziosismo aristocratico e a un interesse per l’antico, ma il tutto dentro un’immagine
ancora frammentata della realtà.
Gentile da Fabriano, Adorazione dei Magi, 1425

Pisanello, Congedo di san Giorgio dalla principessa, 1436-38

Legge l’episodio in chiave romantico-cavalleresca.


Si coglie lo spirito da favola aristocratica che condividono queste tre immagini, anche negli atteggiamenti
delle figure nel gusto del vestiario, nel profilo. Si coglie un gusto flori-faunistico, in cui il dettaglio botanico è
ben studiato.
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Quello che fa la differenza tra le tre opere è la scansione rigorosa dello spazio che Domenico Veneziano
riprende dal linguaggio prospettico fiorentino nel modo di costruire lo spazio e i volumi all’interno di questo
spazio. (Adorazione dei magi di Masaccio).
Il tondo è una tipologia di manufatto che ha a Firenze una tradizione molto longeva, che va da questo
tondo ai tondi dipinti o scolpiti di Michelangelo. Questa tipologia è utilizzata da Domenico in senso
geometrico, diventa un limite rispetto al quale è concepita la composizione, che è inscritta in esso. Questo
cerchio è anche una sorta di cannocchiale ottico, derivata dalla tradizione fiamminga.
La cornice che lo attornia ha 4 iscrizioni (due in latino, due in francese). Forse era una intenzione quella di
fare “alla fiamminga”. Infatti c’è un gusto descrittivo micrografico che appartiene a questa maniera.
“Pari ai fiamminghi nella verità lenticolare delle “province” (nei paesaggi lontani), pari a Masaccio nella
presa di possesso dello spazio, pari all’Angelico nei colori “amichevoli” (armoniosi), è una delle opere più
esemplari della formazione del maestro.” – Roberto Longhi.
Domenico Veneziano è uno di quei pittori degli anni ’30 e ’40 a Firenze che ha suggerito la definizione di
pittura di luce. È una luce che ha la qualità cristallina dei fiamminghi, ma questa natura è anche prismatica
e geometrica nella tradizione fiorentina (= “ma nel pugno prismatico della prospettiva”).
Domenico Veneziano, Madonna con il Bambino in trono tra i santi Francesco, Giovanni Battista, Zanobi e
Lucia, 1445-47

È la pala di Santa Lucia de’ Magnoli.


È una sacra conversazione risolta come scena unificata, senza la suddivisione del trittico, ma con una
soluzione spaziale che allude a quella tripartizione superandola. Domenico realizza un impianto
architettonico che unifica la scena, ma scandisce allo stesso tempo l’ordine geometrico della composizione,
che va letto sia nell’ordine orizzontale che nella progressione prospettica.
Le figure dei santi, costruiti come solidi, stanno su un pavimento a piastrelle colorate realizzate secondo i
principi di Leon Battista Alberti (appena pubblicati). Su questo pavimento le figure sono ben piantate.
Oltre i santi si colloca la Vergine al centro sul trono, su due piedistalli, costruiti con specchiature
geometriche, all’interno delle quali corre un’iscrizione e che hanno una forma geometrica pentagonale.
Dietro alla Vergine sta un porticato, costituito da tre arcate, che divide lo spazio verticalmente e quindi
distingue la Vergine dalle due coppie di santi, ma separa anche queste figure dallo spazio retrostante,
un’esedra pentagonale (come gradini e mattonelle): questo pentagono è articolato con tre nicchie che
hanno un catino a conchiglia (i due laterali più scanalati) e due vani ai lati.
La distribuzione dell’architettura del fondo ha una corrispondenza con le figure in primo piano.
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Oltre l’esedra, un cielo azzurro e tre alberi di agrumi: c’è il rimando a una realtà naturale. Quest’apertura
consenta alla luce di entrare e di tagliare diagonalmente l’ombra. È una luce laterale ma comunque molto
alta, forse con l’allusione simbolica alla luce del mattino (della Vergine). È una luce che schiara il
chiaroscuro masaccesco ed esalta i colori di tonalità pastello. Quest’esaltazione del colore quasi purifica il
disegno, i contorni.
Santa Lucia ha un profilo purissimo sullo sfondo verde dell’architettura, tenuta su quei toni verdi e rosa, che
ritroviamo su Santa Lucia.
San Zanobi, vescovo e protettore di Firenze, ha una mitria riccamente colorata e si raccorda ai toni più
vivaci del passaggio tra vano e nicchia che gli stanno dietro. La veste talare è di un tessuto che casca con
delle pieghe che ci fanno capire la diversa consistenza tra quella e i guanti. Il decoro dei suoi accessori è
reso con un preziosismo che dialoga molto bene con i dipinti fiamminghi.
San Giovanni Battista ha la pelle di cammello e un mantello tra rosso e azzurro. Con la mano indica Gesù
come oggetto della benedizione, facendo eco al gesto di San Zanobi.
San Francesco legge, racchiuso in questo saio, che sembra un involucro d’argento tanto è schiarito dalla
luce. Si raccorda insieme all’incarnato un po’ pallido con i colori verde, blu e fondo avana dell’architettura.
Santa Lucia-San Francesco, San Zanobi-San Giovanni.
I riferimenti iconografici servono anche ad essere caratterizzati per la loro moralità.
Domenico Veneziano utilizza una luce più reale, cala la luce diafana di Beato in una condizione più concreta,
forse per una vena naturalistica che viene dall’origine veneziana. Il dettaglio della Madonna serve a cogliere
il senso di maggiore concretezza nel taglio della luce, recupera nella fisicità della Madonna col Bambino
anche l’insegnamento masaccesco, ma inserito in un contesto più ornato. Lo si nota sia nell’architettura,
che nei dettagli del giardino e nel resto.
Domenico Veneziano, Madonna con Bambino, 1445

La “narrativa ornata” di Domenico influirà sui pittori umbri, perché sarà presente tra l’Umbria e le Marche.
Pittori come Giovanni Boccati, Bartolomeo Caporali e Benedetto Bonfigli guarderanno a lui e a Beato
Angelico.
Beato Angelico, Annunciazione, 1447-50
Nel Convento di San Marco. Notiamo le analogie di linguaggio, ma anche le differenze. Beato è più immerso
nella dimensione del convento.
Infatti viene chiamato a decorare la Cappella Nicolina nel palazzo Apostolico a Roma. Dopo la cattività
avignonese, Roma necessitava di restauri e di essere ripristinata anzitutto nelle sedi del potere papale. Ma
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mancava una sede locale, quindi i papi iniziano a chiamare artisti affermati da tutt’Italia, con l’idea di
restaurare i luoghi del potere. Niccolò V si preoccupa di creare una cittadella religiosa a San Pietro. Inizia
così un percorso di renovatio urbis con l’idea di restaurare Roma ricollegando il potere religioso al mondo
antico.

Beato Angelico, Storie dei santi Lorenzo e Stefano, 1447-48

Parte dalle origini della storia della Chiesa, collocando le vicende dei protomartiri di Lorenzo e Stefano
dentro strutture monumentali all’antica che riprendono la storia di Roma, impostate però in chiave
fiorentina. Le figure sono costruite come solidi all’interno di questi spazi.
Gli abiti e le tuniche dei santi, le armature dei soldati sono tutti giocati in senso cromatico.
La suddivisione su registri con architetture che organizzano i diversi episodi.
Notiamo un certo preziosismo, soprattutto sulle vesti, su cui si forma anche l’allievo di Beato, Benozzo
Gozzoli.
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Piero della Francesca


È la persona che intorno agli anni Quaranta del Quattrocento arriva a Firenze e si mostra in grado di
operare una sintesi di diverse tendenze (linea, luce, prospettiva) che abbiamo visto manifestarsi fino ad ora
e definire un linguaggio moderno. Le traduce in una sintesi basata sull’assunto geometrico intellettuale
sintesi ragionata, formula che diventa modello in grado di unificare anche le diverse esperienze della
penisola e quindi di superare i confini di Firenze e diventare un paradigma sovraregionale. È l’asse che
consentirà ad artisti diversi di dialogare.
Piero della Francesca diventa un patrimonio dell’intera penisola. È definito anche monarca della pittura
italiana. Svolge un ruolo molto simile a quello di Leon Battista Alberti (architettura) per la pittura, i due
sono in dialogo aperto.
Affianca all’attività artistica anche una teorica-trattatistica, è un intellettuale umanista vero e proprio.
Nasce a Borgo San Sepolcro, un piccolo centro che si trova lungo le vie di comunicazione che collegano la
Toscana alle Marche (centro di Urbino) e all’Umbria (città di Castello). Lungo queste vie di comunicazione
siamo anche vicini all’Emilia, infatti lavorerà anche a Ferrara e a Rimini, che fa parte dello stato della Chiesa,
e a Roma. È presente anche a Mantova. È attivo in questi centri, che reagiranno alla sua presenza.
Borgo San Sepolcro è dimostrazione che la provincia italiana non è luogo di ritardo, ma laboratorio di
esperienze, centro di culture. Ha subito un imprinting per la prospettiva in queste scuole, ma lo svilupperà
nei centri predominanti (Firenze).
Piero non vive la Firenze repubblicana dell’umanesimo civile, ma entra a Firenze nel momento in cui l’arte
fiorentina sta già declinando verso la signoria dei Medici. Non coglie quindi la dimensione civile come gli
artisti d’Avanguardia, ma coglie comunque la prospettiva brunelleschiana, il senso plastico masaccesco, e la
luce dei pittori di luce. Piero guarda anche ai pittori fiamminghi. La volontà di spostamento è un’esigenza
dell’artista di fare esperienze e rinnovarsi.
Il suo linguaggio è basato sulla rigorosa applicazione delle leggi matematica, che gli dà la capacità sintetica e
di astrazione, con una coerenza interna che lo rende traducibile in qualsiasi contesto. La geometria e la
matematica non sono condizionate dall’ambiente culturale, ma assunte come modello unico reductio ad
unum.
Piero trova anche una misura classica, nel senso di equilibrio, di rapporto e armonia tra le parti, riformulata
nel senso geometrico quattrocentesco.
Questa classicità dà al linguaggio di Piero una sorta di fissità fuori dal tempo, per cui le sue opere sono
connotate da una ieraticità e potenza dell’immagine che ha un valore universale, ma è astratta come un
teorema geometrico. I dipinti di Piero della Francesca sono silenziosi, c’è una sorta di solitudine di queste
forme pure e perfette. Questa atemporalità comporta anche problemi di datazione insormontabili.
04/11/2021
Piero della Francesca, Battesimo di Cristo, 1442 circa o 1450-1460

Masaccio, Tributo a Cesare


Da Masaccio Piero della Francesca trae il senso plastico dei corpi, all’interno di uno spazio costruito
secondo i principi brunelleschiani. Questi principi di primo Quattrocento appaiono schiariti da una luce che
tende a diradare le ombre e a intridere i colori, che vengono utilizzati per scandire gli intervalli
proporzionali, anche giocando le scelte cromatiche secondo delle sequenze alternate, che consentono di
percepire anche la profondità delle forme nello spazio assunto luministico dei “pittori di luce” come
Beato Angelico, Compianto e sepoltura di Cristo, 1438-43
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Il nudo di Cristo è avvolto in un sudario, perno di una composizione giocata su tonalità pastello e schiarita
nel primo piano e nel paesaggio.
Beato Angelico, Resurrezione di Napoleone Orsini, 1434-35

Le colonne sorreggono il portico in prospettiva, ma a sinistra si apre la prospettiva più profonda del
paesaggio con la comparsa del cavallo che esce da un piano più profondo
Domenico Veneziano, Madonna con il Bambino in trono tra i santi Francesco, Giovanni Battista, Zanobi e
Lucia
Può essere considerato uno dei maestri di Piero della Francesca, dato che nel 1439 Piero realizza con
Domenico la decorazione ad affresco nella Chiesa di Sant’Egidio a Firenze. La sensibilità di Piero nei
confronti della pittura fiamminga supera le tracce presenti nell’opera di Domenico e si concretizza in uno
scambio collettivo. A confermare questo magistero di Domenico Veneziano c’è anche
Domenico Veneziano, predella della Pala di Santa Lucia de’ Magnoli, 1442

Nudo con il fondale delle rote in cui si nota il gusto per la narrativa ornata e un cielo vero.
Domenico Veneziano, Adorazione dei magi
In primo piano, i dettagli di volatili che vengono fissati dalla luce nel volo che si immobilizza hanno un gusto
quasi venatorio che fa parte della fantasia dell’artista, che ha un retaggio ancora tardogotico e che però si
carica di simbolismi (pavone che si poggia sulla capanna della natività.
In Piero della Francesca, Battesimo di Cristo, 1442 circa o 1450-1460 vediamo un paesaggio riflesso
nell’acqua, le sequenze di verdi e bruni che segnano la composizione del paesaggio con una minuzia
derivata dalla tradizione fiamminga. Nel paesaggio vediamo dei dettagli ma regolati da una sequenza
prospettica di piani e una geometria nella scansione delle varie parti del paesaggio.
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In primo piano, i dettagli di volatili che vengono fissati dalla luce nel volo che si immobilizza hanno un gusto
quasi venatorio che fa parte della fantasia dell’artista, che ha un retaggio ancora tardogotico e che però si
carica di simbolismi (pavone che si poggia sulla capanna della natività.
La colonna dello spirito santo si libera sopra la testa di cristo (simile ai volatili di Domenico). Le iconografie
complesse ed enigmatiche caricano di mistero e di fascino i dipinti di Piero.
Gli angeli in genere nel battesimo di Cristo reggono le vesti di Gesù, invece qui sono colti in una triade che
simboleggia il mistero trinitario. I due angeli si danno la mano in seno di concordia, potrebbe essere
un’allusione al tentativo di sanare lo scisma tra Chiesa d’Oriente e d’Occidente, nella formazione del
mistero trinitario condivisa dai teologi delle due parti. Il cardinale Ambrogio Traversari, camaldolese, forse il
committente, presenzia questa concordia.
Gli abiti orientali farebbero riferimento ai teologi della Chiesa d’Oriente.
Il riflesso delle figure nell’acqua dà un effetto a specchio che rimanda all’uso degli specchi in ambito
fiammingo per collegare la realtà visibile del quotidiano a una realtà superiore che la trascende, ma di cui il
quotidiano è simbolo.
Rispetto agli esempi che Piero ha la forza intellettuale di raccogliere e fondere nel proprio linguaggio,
l’artista introduce con maggior rigore e spirito speculativo un assunto geometrico che domina e coordina
l’intera composizione. La coppa con quale San Giovanni Battista battezza e consacra Cristo come figlio di
Dio e la figura di Cristo che si erge colonnare (l’anatomia umana è assimilata ad una forma architettonica,
persino nella scena del bianco del tono dell’incarnato che trasforma questa apparizione in una sorta di
colonna marmorea) nel centro della composizione. Cristo si fa colonna del mistero dell’esistenza.
La linea verticale è uno degli elementi della geometria del dipinto che è giocato anche sulla rispondenza tra
queste geometrie e il significato simbolico dell’immagine. Accanto a Cristo, leggermente a sinistra sta
l’elemento altrettanto colonnare dell’albero di noce (albor vitae), componente che si pone in
corrispondenza con gli altri elementi. Questa corrispondenza la possiamo cogliere nell’incrocio di questa
perpendicolare con l’orizzontale segnata dall’apertura delle ali della colomba, che definiscono un quadrato
dentro cui si inscrive la parte sotto del dipinto, che si interseca con un elemento circolare che definisce la
parte superiore (mezzaluna della centina). La colomba è al centro del cerchio come Cristo è al centro del
quadrato.
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Il centro è l’asse mediano del quadrato coincidono, anche dal punto di vista simbolico.
Il principio proporzionale che usa Piero della Francesca è quello della sezione aurea o della “divina
proporzione”, un principio già colto dagli antichi e che regola in maniera perfetta e costante il rapporto tra
due grandezze diseguali, che possiamo definire come a e b: la maggiore (a) diventa il medio proporzionale
tra la minore (b) e la somma delle due. È un rapporto che genera un numero irrazionale costante che
possiamo approssimare a 1,618. Tutta la composizione vede le singole parti rapportate tra loro in base a
questo principio. L’intero, costituito dalla somma di queste due grandezze, sta a una delle parti (a) come
questa parte sta all’altra metà. In questa concezione, il rapporto tra il tutto e le sue parti è costante.

Questo rapporto possiamo anche costruirlo all’infinito, aumentando (o diminuendo) e avremo sempre la
stessa forma (rettangolo e quadrato), all’interno del quale si delineerà una curva a chiocciola. È una forma
che troviamo in natura nella chioccola, ma anche nella composizione di piante grasse, di cavolfiore… (grazie
alla sequenza di Fibonacci). A partire dai greci, questa divina proporzione si ritrova nel rapporto tra la
pianta e l’alzato di un tempio. Anche Leonardo da Vinci ha costruito le proprie opere su questo principio.
Piero della Francesca studia i solidi platonici (poliedri regolari, che possono essere inscritti in sfera) in uno
dei trattati pubblicati, De quinque corporibus regularibus (1482).
Altri umanisti hanno portato avanti le ricerche di Piero, tra cui Luca Pacioli, che scrive il De divina
proportione, con disegni di Leonardo da Vinci.
Jacometto Veneziano, Ritratto del matematico fra’ Luca Pacioli e giovane allievo, 1495
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È un ritratto di Luca Pacioli con un suo allievo dove la figura è colta nello studio di una forma euclidea che
poi vediamo proiettata nella terza dimensione nel solido di vetro che pende, con un liquido dentro per
studiare anche la rifrazione della luce. Il libro allude alla De divina proportione. Gli strumenti del calcolo
(squadra e compasso) si trovano sul tavolo.

Questo studio associa sempre l’attività dell’intellettuale umanista a partire dalle fonti antiche.
Questa maturazione geometrica induce a ritenere il Battesimo un dipinto non così giovanile come si
pensava. In realtà, abbiamo un dipinto datato:
Piero della Francesca, San Girolamo penitente, 1450

Sembra molto vicino al Battesimo dal punto di vista stilistico, quindi anche quello ora viene considerato
vicino a questa data.
Piero della Francesca, Polittico della Misericordia, 1445 (contratto) – 1462 (pagamento)
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Abbiamo un contratto di commissione dalla confraternita di Misericordia di Borgo San Sepolcro. Ma la


realizzazione di questa potrebbe essere stata portata avanti lungamente nel tempo.
San Bernardino però viene canonizzato solo nel 1450 quindi almeno questa parte non può essere stata
eseguita prima. Ci sono però anche casi di devozione ottimistica, magari in quelle date era solo beato, non
ancora santo.
È una macchina complessa, potrebbero anche esserci delle parti, come il San Sebastiano e San Giovanni
Battista che ci appaiano in un atteggiamento un po’ nodoso, più vicini all’insegnamento masaccesco quindi
forse più vicini agli anni giovanili.
Nella tavola di San Bernardino e Sant’Andrea troviamo l’elemento centrale con la Madonna della
Misericordia, assimilata a una forma geometrica persino nella formazione del volto, perfettamente ovoide,
e della corona e aureola definiscono in forma di solido. Il mantello si apre ad accogliere i confratelli sotto la
propria ombra come una sorta di abside di chiesa, un’architettura con perfetta geometria che non è solo di
forma, ma anche di luce e colore. Le scanalature della veste della Madonna sono perfettamente a piombo,
ispirate a un principio di astrazione geometrica più maturo.
Questa maturazione architettonica va vista in rapporto al percorso di Leon Battista Alberti, l’equivalente
architettonico della pittura di Piero. Approda all’architettura a partire da una formazione di umanista
letterato, ma anche di linguista, che si compie anche in gran parte a Roma presso la corte papale (primi
anni ’30), vicino alle testimonianze antiche.
Poi si sposta nei vari centri della penisola, Ferrara, Bologna, Venezia, Firenze, corti di Mantova, Rimini e
Napoli. Qui si creano altrettante occasioni di incontro con Piero.
Stringe legami molto forti con Firenze negli anni del Concilio e dell’ascesa della signoria medicea. Anche lui
(Domenico e Piero) si lega al fervore delle committenze medicee e dei Rucellai, molto vicini ai Medici, che
diventano committenti dell’artista.
Facciata di palazzo Rucellai a Firenze, 1447-51

Risolve problemi pragmatici come l’approccio ingegneristico di Brunelleschi. È una via stretta, in cui
l’architetto risolve gli elementi architettonici non tanto in aggetto (per il poco spazio), ma nel puro disegno
lineare delle lesene che segnano i tre piani verticalmente, e nelle orizzontali con il disegno dei mattoni,
interrotto al piano terra dalle porte e dai finestrini quadrati. Nei due piani superiori si inscrive una bifora
con arco a tutto sesto, con il cerchio che riunisce il tema delle due arcate. Percepiamo subito la costruzione
dell’insieme a partire da un elemento modulare che si ripropone secondo principi aurei.
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Leon Battista Alberti, facciata di Santa Maria Novella, 1457

Qui si confronta con una preesistenza romanica e la trasforma in elemento geometrico. Le tarsie marmoree
della parte inferiore vengono proseguite attraverso l’elemento del quadrato ripetuto in termini modulari,
per esempio nella fascia che divide sopra e sotto.
Inventa due volute che inscrivono un cerchio, che ripetono il modulo del rosone. Anche nel timpano e nei
centri dei quadrati che compongono la tarsia.
Anche nello studio della lingua i motivi classici vengono eletti a modelli e composti con rigore geometrico n
base a un principio di ripetizione modulare.
Leon Battista Alberti, Tempietto del Santo Sepolcro, 1457-67

Costruisce il tempietto a partire da una pianta rettangolare proiettato come parallelepipedo. Le pareti sono
scandita da paraste corinzie scanalate. Inquadra degli elementi decorati con tarsie marmoree, con il tema
del quadrato all’interno di cui sono inscritte delle forme derivate da forme geometriche, ma che assumono
un significato simbolico.
Le paraste nella parte superiore reggono un cornicione con un’inscrizione in caratteri lapidari (elemento
anche formale, che soggiace a regole di calligrafia). Al di sopra del cornicione, una merlatura a giglio
(allusione ai Medici), ma che riprende e geometrizza anche le volute di acanto del capitello corinzio. Questa
complessa seppur pura geometria è completata dalla lanterna che scende in un punto del parallelepipedo
segnando la sezione aurea, così come la colomba nel Battesimo.
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Leon Battista Alberti, Rivestimento esterno della chiesa di San Francesco, 1450-54

Alberti e Piero della Francesca si trovano alla corte estense di Ferrara e poi a Rimini nel 1451. Questa
collaborazione ruota intorno alla figura di Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, capitano di
ventura al servizio del suo stato.
Sigismondo chiama Alberti a riconfigurare la chiesa gotica di San Francesco. Alberti si trova a dover
intervenire come architetto moderno, ma con anche attenziona al problema del restauro. Non demolisce
l’assetto preesistente, ma lo riveste di un guscio all’antica, creando un rivestimento su un piedistallo su cui
si ergono colonne scanalate corinzie di ordine gigante, che inscrivono le arcate del portale centrale, ma che
si definiscono anche ai lati sul modello dell’arco di trionfo (a Rimini c’è l’arco di Augusto, che Alberti rievoca
intenzionalmente).
La facciata si sarebbe conclusa in altezza con un altro arcone e poi con una cupola che avrebbe dovuto
essere realizzata sul modello di quella del Pantheon e da una medaglia che il medaglista Mateo de’ Pasti
realizza per commemorare il permesso che il papa accorda a Sigismondo per erigere questo tempio. (foto
della medaglia)
Alberti non viene a compierla perché con la morte di Pandolfo si chiude questa esperienza.
Le arcate proseguono il tema della facciata lungo i lati della chiesa, in fuga prospettica. Si ispirano agli
acquedotti o ai ponti romani. Alberti li utilizza per inscrivere le finestre gotiche dentro le finestre gotiche a
tutto sesto, dove si collocano le arche degli uomini illustri riminesi. Diventa una sorta di sacello degli
exemplum virtutis di Rimini.
Piero della Francesca, Sigismondo Pandolfo Malatesta inginocchiato davanti a San Sigismondo, 1451

Legittima il potere della signoria del Malatesta. Piero imposta una geometria compositiva che coincide con
questi contenuti simbolici. al centro sta Sigismondo Malatesta, al centro dell’architettura scandita dalle
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lesene scanalate in modo che l’architettura coordini le figure. La figura di Sigismondo si inscrive in un
rettangolo che sta in proporzione aurea con il tutto.
Anche i colori e le luci soggiacciono a questo principio. Il pavimento a scacchiera è in prospettiva, con
elementi cromatici, uno scuro e uno chiaro, che ritroviamo nei due levrieri (uno bianco e uno nero), a
simboleggiare la signoria sia di giorno che di notte di Sigismondo. Configurano una sorta di impresa del
signore.
L’immagine di Rimini si inscrive nel cerchio sulla destra.
Dopo Rimini, Piero della Francesca compie la decorazione della cappella della Vera Croce ad Arezzo.
Piero della Francesca, Storie della vera croce, dopo 1452

È un ciclo importante perché è l’unico che ci è pervenuto come ciclo su più registri. Il tema è quello della
vera croce, una leggenda ricostruita dalla Legenda aurea di Jacopo da Varazze, testo che raccoglie racconti
agiografici e legati alla vita di Cristo che appartengono alla tradizione della Chiesa, che appartengono anche
ai vangeli apocrifi. Questo testo fa da mezzo di trasmissione di tutte queste leggende.
Piero distribuisce la leggenda su tre registri, non con una logica cronologica, ma secondo dei nessi di
carattere simbolico, compositivo e formale/estetico. Nella parte alta troviamo due episodi all’aperto. A
sinistra la morte e il seppellimento di Adamo, dalla cui terra germoglierà l’albero con cui viene realizzata la
croce di Cristo.
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A destra il tema del trionfo della croce di Cristo.


Nella zona mediana troviamo due episodi di corte, l’incontro tra Salomone e Regina di Saba (vuole forse
alludere a Chiesa di Oriente e Occidente).
A destra il ritrovamento delle tre croci (Cristo e due ladroni) e quindi la verifica della croce di Cristo, di
fronte alla quale si inginocchia l’imperatrice Elena. La croce deve essere portata a Roma, dove c’è la
battaglia di Costantino e Massenzio sul Ponte Milvio e la battagli tra l’imperatore d’Oriente Eraclio e il re
persiano Cosroe, dove ovviamente vince la Chiesa contro il paganesimo.
Nella Morte e seppellimento di Adamo notiamo le somiglianze con il Tributo a Cesare di Masaccio.
La regina di Saba adora il sacro legno e poi incontra Salomone con un’architettura che distingue e coordina
le due scene al chiuso e all’aperto, tra loro in rapporto aureo. Il ritmo è lento, solenne, da “cerimonia”.

Gli spazi hanno zone più riempite e zone più sgombre, a indicare il silenzio e l’astrazione che dominano.
All’interno di questi, le figure si inseriscono come solidi geometrici (più che nel Battesimo) e diventano
colonne, con i panneggi disegnati come elementi architettonici. Lo studio del volume delle figure è
accentuato dal fatto che Piero utilizza spesso lo stesso cartone, magari rovesciandolo, così può studiare una
stessa figura da punti di vista differenti.

Gli abiti diventano forme geometriche, così come i cilindri, le teste ovoidi.
Nell’incontro tra Salomone e la regina di Saba (in realtà non si parlano) vediamo una figura di spalle che
assiste, con un copricapo visto di scorcio. I copricapi sono particolari in tutte le parti del polittico.
Anche nelle venature del legno nel trasporto della croce notiamo una spiccata geometria.
Le scene di battaglia sono riprese da Paolo Uccello, Battaglia di san Romano, ma in maniera più rigorosa.
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Le immagini sono sempre fissate, schierate secondo linee prospettiche. La cinta di mura è ripresa dalla
muraglia umana di figure inginocchiate. La figura in piedi sta in rapporto aureo con la torre.

L’architettura prende sempre più la fisionomia, il decoro dell’architettura albertiana. Nella scena
dell’Annunciazione, la Madonna si colloca monumentale sotto il portico, nella sezione aurea rispetto alla
zona aperta dove entra Gabriele. Sopra e in sezione aurea sta il Padre eterno. Queste geometrie sono
anche coincidenti con il percorso della luce.

Il sogno di Costantino: primo chiarore dell’alba. La figura assorta, siede sul letto dell’imperatore, bagnata
dalla luce dall’alto, che è la luce dell’angelo, colto in perfetto scorcio su un cielo ancora stellato.
Questo ambiente è stato scelto come luogo per una delle scene di The English Patient.
Piero della Francesca, Madonna del Parto, 1455-60
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Lo realizza ad Arezzo, raffigura la Madonna all’interno del baldacchino aperto simmetricamente. Le pieghe
perfettamente geometrizzate in tanti rettangoli. La Madonna si erge in questa perfetta geometria solenne,
monumentale, ma anche con il gesto naturale di puntare una mano sul fianco e tenersi la pancia.
05/11/2021
La presenza di Piero della Francesca a Urbino sarà significativa, tanto che la sua personalità artistica
diventerà un elemento qualificante del rinascimento urbinate. Un’opera che attesta i precorsi rapporti con
la corte urbinate è
Piero della Francesca, Flagellazione, post 1444, 1459 ca.

Sono raffigurati tre personaggi in primo piano, in rapporto con l’episodio della flagellazione rappresentata
però sullo sfondo. Le identificazioni dei personaggi si intrecciano con le diverse proposte di cronologie per
questo dipinto: il giovane in piedi biondo con lo sguardo quasi assente potrebbe essere Oddantonio,
assassinato nel 1444, la datazione corrispondente sarebbe appunto post 1444 volendo alludere
all’assassinio; c’è chi pensa invece che alluda alla caduta di Costantinopoli del 1453 o al Concilio di Mantova
del 1459, quindi la figura a destra dovrebbe essere Giovanni Bacci che promuove il progetto di crociata
discussa al Concilio, mentre quello a sinistra potrebbe essere il Cardinale Bessarione, figura imminente
nell’ambito culturale; il personaggio giovane biondo potrebbe anche essere Bonconte, figlio illegittimo del
duca Federico e pupillo di Bessarione.
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C’è anche una logica di stratificazione dei contenuti, nel senso che l’opera potrebbe alludere tanto alle
vicende famigliari del duca, tanto al progetto di crociata sostenuto anche da umanisti che vedono il crollo
dell’Impero Romano d’Oriente in una prospettiva di dramma culturale.
Piero cala l’opera in un linguaggio in cui il dato simbolico si traduce in teorema matematico: il rapporto tra
l’elemento architettonico che divide e allontana in progressione prospettica la scena della flagellazione
(riferimento simbolico), rispetto alla scena all’aperto che porta innanzi le figure davanti che fanno parte
della contemporaneità. Questi due elementi sono il quadrato e il rettangolo, che stanno tra loro in
proporzione aurea, e se calcolassimo le proporzioni anche nella sequenza in profondità troveremmo la
stessa costante numerica.
Ci sono due centri, quello del punto di fuga costruito secondo lo schema prospettico, ma anche il centro
della geometria aurea, che cade sulla figura di Cristo, che pur essendo in secondo piano viene catturata
dallo spettatore. Piero riconduce a questa costruzione geometrica e il rigore matematico anche l’aspetto
della luce e del colore. Le figure che sono spinte sul primo piano hanno colori più vividi e sono colti in
un’illuminazione naturale, mentre le figure che sono nel fondo prospettico che hanno un ruolo di rimando
simbolico sono illuminate da un’altra fonte di luce e con un effetto di risalto dei bianchi. Dentro il portico, il
percorso della luce è tale da accendere il quadrato che sta sopra Cristo studio molto attento.

La costruzione del pavimento e dell’architettura si rifà a principi ed elementi strutturali albertiano.


Piero della Francesca, Ritratto di Battista Sforza, post 1472; Ritratto di Federico da Montefeltro, 1465;
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È il ritratto dei due coniugi, Federico duca d’Urbino e moglie. L’aspetto della duchessa sembra rimandare a
una maschera mortuaria, rispetto alla vivacità ritrattistica del volto di Federico, infatti probabilmente è
stata ritratta dopo la sua morte di parto.
I due ritratti sono confezionati come dittico. Si presentano di profilo, affrontati, a formare le valve di un
dittico, unificati dalla luce e dal medesimo fondo di paesaggio, continuo e reso con una minuzia di dettagli e
gusto di restituzione dei lontani. Il paesaggio indugia sull’insenatura delle acque, con attenzione
morfologica: la natura si fa paesaggio a partire dallo sguardo dell’uomo, che modifica la percezione della
natura in relazione anche alla dimensione culturale. Il modo in cui Piero guarda alla pianura padana è uno
sguardo allenato anche sulla visione e sull’apprezzamento della pittura fiamminga.
La qualità della luce è cambiata: c’è una luce con una maggiore sottigliezza, nel modo in cui per esempio
investe da dietro la figura di Federico, come accarezzando il feltro del cappello o la stoffa della veste da
dietro, giocando con i riccioli un po’ ribelli dei capelli controluce e lavorando nell’ombra invece tutte le
caratteristiche del viso, molto marcate e con molti difetti, che però l’uomo rinascimentale elegge a tratto
distintivo della propria individualità con il senso di dignità umana che nell’ambiente di corte si fa elemento
di distinzione personale e sociale. L’occhio che secondo la tradizione Federico aveva perso (dall’altra parte
del profilo) è intuito dalla forma del naso, che sembra sia stata modificata dallo stesso Federico per avere
una visuale più ampia con un solo occhio. La sensibilità epidermica è stata probabilmente maturata sui
ritratti fiamminghi. Lavora nell’ombra anche per esaltare l’incarnato un po’ scuro della pelle, l’ombra di
un’occhiaia, di una ruga o di una barba che affiora appena sotto la pelle e che poi scivola sul busto. Di
fronte a lui sta la moglie, investita in pieno dalla luce che schiarisce l’incarnato del volto e però valorizza la
complicazione e il preziosismo dell’acconciatura con la moda del tempo e con i gioielli, sia in testa che al
collo e sul petto, su cui la luce gira valorizzando ogni grano.
Questa luce intensifica le figure sul primo piano grazie all’effetto di controluce che porta l’occhio ad entrare
dentro i lontani e a perlustrarli con la sottigliezza fiamminga.
Cogliamo il rigore e la solida consistenza dei volumi delle figure che stanno come delle sculture sul primo
piano: quella di Battista Sforza costruita come una statua in marmo, mentre quella di Federico con il solido
del cappello e della veste che hanno forza costruttiva e a cui il colore rosso conferisce ulteriore potenza,
esaltando il volto emerge la sintesi tra pittura fiamminga e italiana.
Piero della Francesca, Trionfo di Battista Sforza, 1446-72; Trionfo di Federico da Montefeltro, 1422-82

Anche qui c’è da leggere una sintesi di dati culturali fiamminghi e italiani: il dittico nasce in ambito
fiammingo, ma altri elementi ci riportano al contesto culturale italiano, innanzitutto il fatto stesso che il
dittico venga adeguato a un modello ritrattistico che è quello della numismatica antica, che portavano sul
retto il ritratto rigorosamente di profilo, imperiale, e sul verso invece una rappresentazione allegorica
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connessa alle virtù del ritrattato. Piero traduce questi elementi in pittura, quindi il ritratto è svolto con
sensibilità fiamminga, ma il modello è ancora come la numismatica antica italiana.
Sono due trionfi sul modello petrarchesco e corredati da un’iscrizione all’antica.
Quest’attività di Piero si inquadra nella vicenda del rinascimento urbinate di cui il duca è promotore. La
ricchezza della vicenda rinascimentale italiana si lega a questa varietà e policentricità della geografia
politica. Federico è capitano di ventura, prima al servizio di Firenze dove diventa amico con Cosimo de’
Medici che segna la cultura urbinate in termini fiorentini, il che rende Urbino uno dei centri più ricettivi
delle conquiste fiorentine. Ebbe un ruolo cruciale nella pace di Lodi del 1454. Federico svolge sul piano
politico un ruolo di aggregazione, diffusione e scambio: unisce una serie di forze contro Rimini,
sconfiggendo Sigismondo Malatesta. Così acquista una rilevanza culturale importantissima.
Dal punto di vista culturale ha una formazione umanistica, si forma alla scuola di Vittorino da Feltre, il
mentore di questi signori italiani. Deve equilibrare la formazione culturale con la vita attiva, tema che
diventa centrale anche nelle discussioni di corte. Inizia questi signori all’amore per la matematica, che
diventa un terreno di dialogo tra Federico con Leon Battista Alberti e Piero della Francesca, ma anche
architetti come Luca Pacioli, Francesco di Giorgio... Con Alberti Federico intravede nella matematica anche
un mezzo per riscattare l’arte come arte liberale, cioè come attività intellettuale, non solo meccanica.
Federico coltiva un interesse per la cultura fiamminga.
A questa strategia culturale si conforma anche la decorazione interna del palazzo ducale.
Veduta dello studiolo di Federico da Montefeltro

È il luogo dell’otium intellettuale umanistico, decorato da una serie di ritratti di uomini illustri sapienti, che
devono ispirare l’attività del duca, realizzati dagli artisti fiamminghi sottoforma di ritratto. Sotto, una serie
di tarsie lignee, decorate con motivi geometrici e prospettici.
Pedro Berruguete, Ritratto di Federico da Montefeltro col figlio Guidobaldo, 1475
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Il duca è ritratto accanto all’erede. Il duca compare con tutti gli elementi che rimandano alla sua vita attiva,
cioè al mestiere delle armi, che è anche base della signoria e del comando politico, e con tutte le
onorificenze di cui era stato insignito dalle altre signorie. È colto del momento dello studio nel suo studiolo,
completamente concentrato.
Qui l’aspetto fiammingo è predominante, risolto nella resa materica e lucente dell’armatura, negli infiniti
dettagli delle decorazioni, delle borchie, della sedia… c’è una proliferazione di dettagli e una qualità più di
sostanza, per esempio nelle mani, sono vere, la luce si posa su di esse lentamente, a toccare falange per
falange e a rilevare la nodosità delle ossa e lo spessore dell’epidermide.
È un’immagine analitica non sintetica del duca, che rinnova non solo le stanze interne del palazzo, ma
l’intero palazzo, che diventa un “palagio in forma di città”: Federico fa ristrutturare e mettere insieme le
varie componenti del palazzo unificandole in una struttura che poi si proietta su tutta la città, qualificando il
paesaggio circostante. La facciata è caratterizzata da due torri perfettamente cilindriche, che inquadrano
una parete a tre piani, ispirate al modello dell’arco trionfale. È un esempio del linguaggio di Luciano
Laurana (da Mantova, educazione albertiana), principale responsabile della ricostruzione del palazzo
ducale.
Il portico ha arcate a tutto sesto, con colonne con capitale corinzio che corrispondono alle lesene al livello
superiore, che scandiscono le finestre. Poi c’è un piano con mezzanini. Si riconosce subito l’elemento
modulare appreso da Alberti, con cui costruisce sia il chiostro che la proiezione della geometria sul
pavimento.
Ma l’immagine emblematica di questo rinascimento urbinate è un’immagine architettonica dipinta:
Pittore urbinate, Prospettiva di città, Urbino

È un’opera che è stata diversamente attribuita. Rappresenta la città ideale, è immagine significativa della
cultura urbinate di carattere razionale e matematico, che si proietta anche nella dimensione della città. La
piazza è deserta e silenziosa, costruita con perfetta geometria. C’è un tempio circolare, da qui in poi la
riflessione sull’edificio a pianta circolare sarà molto presente come tema centrale del rinascimento. Qui
diventa perno di direttrici spaziali che si proiettano sul pavimento e sugli edifici intorno restituendo
l’immagine di una città dominata dalle leggi della ragione e quindi una versione del buon governo di
Federico, che si esprime attraverso il linguaggio rinascimentale. L’esercizio della razionalità dell’uomo
garantisce anche una giustizia e un benessere allo stato: concetto affrontato anche nella trattatistica
politica (fino a Machiavelli).
Francesco Laurana, Battista Sforza, 1472-1475
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A questi principi si rifanno anche altri artisti operanti in ambito urbinate come Francesco Laurana, che
soggiorna brevemente a Urbino, sulla scorta dei rapporti con il regno di Napoli. Ha una sua attività in
Francia. Sposa il linguaggio pierfrancescano e si specializza sui busti ritratto che esegue per le corti di
tutt’Italia (in particolare Napoli e Urbino) in cui ritroviamo una purezza di forme assimilate a principi
geometrici.
Si rifà ad un modello ovoidale che ritroviamo nella pittura di Piero e che si accentua nelle opere eseguite
per Urbino tra le quali la:
Piero della Francesca, Madonna di Senigallia, 1474

La Madonna con il Bambino e gli angeli sono all’interno di un ambiente che ricorda sia gli interni del palazzo
ducale, che quello della Rocca Roveresca di Senigallia.
Il modo in cui l’interno è reso, con una porta che si apre su un’altra stanza inondata da un raggio di sole, è
un ulteriore grado di approfondimento della cultura fiamminga. C’è una qualità della luce lustra. Si tratta di
un livello di sintesi tra le predilezioni fiamminghe e il rigore geometrico e prospettico.
La luce proietta l’ombra sullo stipite, ma con una rigorosa geometria che fa intuire il disegno delle vetrate,
con insistenza geometrica, che è propria della forma mentis pierfrancescana. Anche il percorso della luce è
fiammingo, ma evidenzia la geometria delle forme. Per esempio, il controluce della chioma dell’angelo
(azzurro) ha un effetto vaporoso, cotonato, ma perfettamente circolare, che ci riporta all’elemento
geometrico; la luce che si appoggia sulle modanature, rilevando il dettaglio della porta, ma sottolineandone
anche la geometria, come sulla cesta e sulla scatola.
La fisionomia delle figure si è intenerita, c’è una maggiore sensibilità nella resa per esempio delle gote
paffute del bambino, della luce che si poggia sulle dita della manina benedicente, ma con un senso del
volume astratto, quindi la figura rimane come congelata. Il rametto di corallo ha un valore apotropaico
nella tradizione iconografica, è reso con un gusto per l’oreficeria, ma con senso di astrazione per esempio
nella perfetta simmetria della collana e nel modo in cui questo rosso si staglia sull’incarnato: gusto
luministico + astrazione, coglie la verità, ma poi la congela, come nello sguardo del bambino. Ha degli occhi
molto penetranti, vividi nell’accensione del bianco della cornea e del nero intenso della pupilla, però non
sono comunicativi, è uno sguardo assolutamente immobile, con fissità ieratica che congela l’umanità di
Piero. Anche la veste di seta bianca, che vorrebbe alludere simbolicamente al sudario di Cristo, di cui noi
percepiamo la morbidezza, ma poi nella forma si congela come un’ingessatura.
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Piero della Francesca, Sacra Conversazione, 1465-1474

Piero realizza questa pala per la chiesa di San Bernardino, spesso indicata come Pala di Brera. Questa sacra
conversazione è inserita in un’architettura unificata e unificante: è un’architettura di gusto albertiano (non
brunelleschiano). Le arcate sono coperte da volte a botte cassettonata. Albertiane sono anche le
specchiature marmoree, che accompagnano l’architettura scandita da lesene di ordine corinzio, che
seguono e sottolineano il percorso della luce e sono legate da nessi molto rigorosi e netti con le figure.
I personaggi si collocano in corrispondenza geometrica luministica e cromatica con l’architettura
retrostante, formando con i tre gruppi laterali una sorta di sequenza rispetto al transetto, che divide gli
angeli dietro la vergine seguendo invece la concavità dell’abside. Sul primo piano, vicino allo spettatore, sta
in ginocchio Federico, committente della pala, che si presenta con l’armatura e con diverse insegne.
1472: nascita di Guidobaldo e morte di Battista, è considerato da molti un termine utile per la datazione,
volendo vedere nella figura del bambino, adagiato su Maria in un sonno che prelude alla morte, come un
riferimento alla morte di Battista e alla nascita dell’erede.
1465: datazione funzionale a considerare questa pala come modello per altre pale d’altare che sembrano
ispirarsi a questa.
All’architettura non si collegano solo le figure all’interno dell’opera, ma anche l’architettura della chiesa di
San Bernardino, in cui abside il dipinto era posto, incorniciato da una cornice con un certo aggetto. La
chiesa aveva una sua struttura architettonica ben precisa e la pala si trovava in fondo rispetto a un arcone
di cui costituiva la proiezione. La pala si concepiva meglio nella posizione originale, ma anche nelle sue
dimensioni originali (è stata tagliata ai lati e sopra e sotto, aveva un pavimento che si estendeva più verso
lo spettatore e un accenno dei pilastri che sorreggevano un altro arcone). La decurtazione ha cambiato
anche il rapporto tra la geometria dello spazio e della luce, in relazione alla posizione dello spettatore che
veniva dal buio della navata verso la luce del transetto, in cui la pala si inseriva mettendo in evidenza la
centralità della Madonna, sulla testa della quale l’uovo di struzzo (forma perfetta e simbolo di rinascita),
inserito dentro la conchiglia che orna la calotta dell’abside, si collocava in posizione di medio aureo (come
colomba nel Battesimo di Cristo).
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C’è un infinito incontro di direttrici geometriche che valorizzavano le direttrici di luce, spaziali, centrali…
L’uovo si collocava al centro di tutte queste forme geometriche e sullo stesso asse verticale della Vergine,
con una funzione compositiva e simbolica che si lega al concetto di morte e resurrezione.
C’è anche una declinazione alla fiamminga della luce nella verità della direzione che coincide con la finestra
reale, che non vediamo ma percepiamo riflessa nell’armatura di Federico da Montefeltro, pezzo più
realistico nel dipinto, anche nella resa del volto e delle mani. Roberto Longhi ipotizzò che il dettaglio delle
mani di Federico fosse opera di Pedro Berruguete.
09/11/2021

Padova nel Quattrocento da Donatello a Squarcione


Tra terzo e quarto decennio del Quattrocento si verifica una presenza di opere e artisti fiorentini, tra i quali
Filippo Lippi, Paolo Uccello e Donatello (soggiorno di 10 anni).

Le presenze sono anche favorite dal trasferimento in città di Palla Strozzi, ricco banchiere e uomo di
cultura, committente della Palla Strozzi di Gentile da Fabriano. È esponente del partito antimediceo, ma
con il ritorno di Cosimo de’ Medici Palla deve trasferirsi a Padova. Il Palazzo di Palla Strozzi in Prato della
Valle diventa un punto di riferimento per artisti e umanisti e un vero e proprio avamposto della cultura
fiorentina a Padova. Si trova vicino al Monastero di Santa Giustina e alla chiesa di Santa Maria di Betlemme
(distrutta) dove Palla si fece seppellire. Palla trasferisce anche le sue ricche attività commerciali a Padova.

Arriva per primo a Padova Filippo Lippi fra il 1434-37, che così conosce dipinti e opere di provenienza
fiamminga: compie la Madonna di Tarquinia, 1437, dopo il soggiorno, l’Incoronazione della Vergine
affrescata, sul primo pilastro a sinistra della basilica di Sant’Antonio (perduta), gli affreschi della cappella
palazzo del Podestà con Nicolò Pizzolo e Ansuino da Forlì (perduti), Cristo in pietà con angeli, 1437 e San
Giovanni Evangelista, 1434. In queste opere ritroviamo le caratteristiche del linguaggio di Filippo Lippi che
a Padova vedono intensificarsi il dialogo con la scultura coeva, come nell’idea di Cristo in pietà con angeli,
che viene fisicamente calato nel sepolcro da due angeli.

L’altro protagonista è Paolo Uccello, che era stato a Venezia per realizzare i mosaici della facciata di San
Marco. Nel 1435 Paolo torna in Veneto a Padova, dove esegue degli affreschi in terra verde di figure
gigantesche sulla facciata di palazzo Vitaliani (perduti). Questi affreschi ebbero una lunga fortuna nella
cultura padovana del Quattro- e Cinquecento. Al soggiorno a Padova si tende a risalire la Madonna con
Bambino, 1445, in cui Paolo Uccello riprende le referenze della Madonna con bambino di Lippi e Donatello.

La presenza che più di tutte è destinata a segnare Padova è quella di Donatello, tra il 1443 al 1453. Sono
molte le opere che Donatello esegue in terra padovana: tre in particolare motivano il suo soggiorno a
Padova. Un’importante commissione è:
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Donatello, Monumento equestre a Erasmo da Narni, detto Gattamelata, 1444-1453

C’è una ripresa che mette in evidenza il valore autonomo di questo monumento, che non è in rapporto ad
un’architettura. Donatello insegue l’idea di sganciare la statua dal contesto architettonico. Il tema del
monumento equestre lo attrae ed è oggetto di studio da parte degli artisti di formazione umanista.

Nella dimensione prospettica, la statua della figura isolata diventa un elemento che si raccorda allo spazio
circostante, non architettonico, ma urbano. Donatello studia una collocazione vicina, ma staccata rispetto
alla facciata della basilica e in asse con i principali accessi viari alla basilica, garantendo la molteplicità della
scultura da diversi punti di vista, che diventa una statua a tutto tondo.

La statua viene finanziata dalla vedova di Erasmo, Giacoma da Leonessa, che appartiene a una famiglia che
vanta celebri condottieri e quindi la celebrazione del marito diventa anche una celebrazione famigliare. È
partecipe di questa commissione anche il Senato veneziano, che autorizza con una delibera l’erezione del
monumento, che diventa anche celebrazione della presenza della Serenissima in terra ferma (1405, Padova
diventa dominio di Venezia). Padova esercita una strategia di dominazione simbolica attraverso una serie di
immagini che visualizzano la presenza del governo veneziano, come gli stemmi dei presidenti veneziani, le
colonne con il leone di San Marco e il monumento equestre di questo condottiero: da una parte celebra
l’individuo, e quindi è una traduzione dell’ideale umanistico di celebrazione dell’individuo che costruisce da
solo le proprie fortune, dall’altra parte è anche una celebrazione del governo di Venezia.

Per tradurre questo ideale, Donatello fa appello a dei modelli classici: al Monumento equestre a Marco
Aurelio, 161-180 a.C.; il cosiddetto Regisole di Pavia (monumento equestre tardoantico, VI sec?); la
Quadriga bronzea, che era stata trasferita dall’ippodromo di Costantinopoli a Venezia e collocata
sull’ingresso della Basilica di San Marco. L’altro esempio e attestazione del monumento equestre
nell’immaginario quattrocentesco è il Monumento equestre a Marco Acuto di Paolo Uccello.
Donatello riprende dal Marco Aurelio l’idea del condottiero all’antica sul cavallo, al passo, ma colto nel
movimento, però è diverso per esempio il rapporto tra animale e umano, più equilibrato e calcolato nelle
proporzioni. È evidente la volontà di ingigantire l’immagine del condottiero rispetto all’animale nel Marco
Aurelio, mentre Donatello calcola le proporzioni dando più evidenza al cavallo, tenuto conto del punto di
vista dell’osservatore che guarda dal basso.
Se la solennità della figura guarda al modello antico, l’abbigliamento è invece reso in termini
contemporanei, quindi con il dettaglio dell’armatura e della cavalcatura: sella, speroni, staffe, allineati
secondo una serie di direttrici di carattere geometrico. Donatello inscrive il monumento dentro una figura
geometrica che incrocia l’orizzontale del corpo del cavallo e la perfetta verticale del condottiero con una
forma invece triangolare, suggerita dalla diagonale della lancia, che si allinea lungo la testa e la gamba
posteriore del cavallo e si incrocia con il lato di base e quello frontale. Questo assetto geometrico dà un
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

effetto di stabilità e solidità, ma all’interno di queste forme Donatello inscrive sempre il movimento. Il
movimento si assesta sulla palla su cui il cavallo pone lo zoccolo anteriore (escamotage che gli consente un
effettivo sostegno e anche di suggerire un ruotare virtuale e quindi una prosecuzione in avanti).
Donatello riesce a tradurre in una soluzione formale la figura di un uomo in azione (vita attiva), guidato
però dal pensiero razionale. È una caratteristica che troviamo anche nel volto del condottiero, che esprime
un’energia trattenuta: forza di volontà e anche attitudine al comando, concentrazione e integrità morale.
Coglie anche la dimensione emotiva del personaggio, espressa anche dagli attributi (bastone). Sono
caratteristiche che troviamo anche nella testa del cavallo, negli accessori e nell’armatura dello stesso
Erasmo. È un’armatura all’antica, ma di fattura contemporanea, dove anche l’elemento della testa si carica
della vitalità che riconosciamo anche al personaggio che la indossa.
Il basamento che regge il monumento si rifà a quello del Regisole, ma è decorato con lo stemma di Erasmo
da Narni tenuto da due genietti alati, che ci rimandano al motivo che Donatello aveva reinventato a partire
dai modelli antichi. Questa parte del basamento allude alle ceneri del condottiero, ma in realtà la tomba di
Erasmo da Narni è all’interno della Basilica, e quindi questo basamento è un richiamo al cenotafio, luogo
che celebra la tomba ma in cui non vi si trovano le spoglie.
Donatello, Crocifisso, 1443-46

Il Crocifisso è attualmente collocato sopra all’altare del Santo, ma non è un assetto pertinente alla sua
creazione.
Il Crocifisso viene realizzato per essere esposto sospese in alto in corrispondenza del tramezzo (come il
Presepe di Greccio di Giotto). Nelle chiese francescane esistevano dei diaframmi murari che separavano la
parte della navata da quella del coro e dei religiosi.
Il Crocifisso è bronzeo, che Donatello esegue tenendo conto dell’illuminazione reale e del modo in cui la
luce interferisce sul bronzo, mettendo in evidenza i tratti del volto attraverso il fremito della capigliatura o
della barba, il dolore fisico del corpo di Cristo attraverso il disegno della cassa toracica, di cui intuiamo la
corolla. Il perizoma è svolazzante, come una sorta di vessillo della fede, agitato da un vento che non
vediamo ma che suggerisce l’idea di movimento.
A questo crocifisso se ne affianca un altro che è una scoperta degli ultimi anni, che si deve a due studiosi
che si accorgono che un Crocifisso nella Chiesa dei Servi è in realtà un’opera di Donatello.
Donatello, Crocifisso nella Chiesa dei Servi
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Il suo restauro spiega il tardivo riconoscimento della mano di Donatello. L’allestimento tardobarocco
valorizzava la natura sacra del Crocifisso che veniva particolarmente venerato. Questa venerazione
eccessiva era anche il motivo delle superfetazioni barocche che ne avevano modificato l’aspetto. Questo
crocifisso è un’opera matura di Donatello, che mostra un Cristo non più contadino; sta perfettamente
dentro le proporzioni vitruviane, ma non per questo è idealizzato. Si vede benissimo dal dettaglio del volto
che è un Cristo-uomo, esposto nella sua nudità, che è una nudità asessuata, perché doveva essere avvolto
da un perizoma, ma ciò non gli toglie umanità, perché Donatello l’ha comunque pensata nudo nella sua
integrità. Notiamo anche la sua essenza anagrafica, è un Cristo giovane: è un’immagine intensamente
patetica, è un corpo consumato.
Anche per la natura del materiale, Donatello sfrutta di più l’aspetto espressivo della materia, lo scavo.
Nel crocifisso bronzeo, che tra l’altro era esposto molto in alto e dove il materiale (bronzo) è lavorato in
maniera indiretta, Donatello gioca più l’aspetto espressivo sul riflesso della luce sulla materia.
Donatello, Altare del Santo e Crocifisso, 1446-50

Oggi è allestito secondo la ricostruzione successiva di Camillo Boito. Donatello aveva realizzato una pala
d’altare scultorea, una monumentale sacra conversazione, con un suo ingombro tridimensionale,
all’interno di una cornice architettonica in pietra che simulava un portico tripartito retto da colonne che
poggiava su un alto basamento, in cui alcuni rilievi erano inseriti a mo’ di predella.
Nelle ipotesi di ricostruzione della veduta frontale e posteriore, l’elemento centrale consentiva di guardare
oltre verso la navata.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Le statue dovevano essere posizionate secondo rotazioni differenti, a suggerire una sorta di movimento a
due archi, secondo le consuetudini della sacra conversazione.
Donatello, Madonna con Bambino, tra i santi Francesco e Antonio da Padova

La Madonna in trono Donatello la interpreta proprio come maestà, connotata da una corona che in questa
ieraticità sembra un’imperatrice bizantina, ma in realtà a ben guardare non è una figura statica, perché
realizzata nell’atto di rialzarsi dal suo trono per mostrare il Bambino ai fedeli. Ha una funzione di ostensione
del corpo sacro di Cristo, che viene fuori quasi come se lo stesse generando dal proprio ventre e dalle
pieghe del panneggio che formano una sorta di asola. La Madonna è quindi rappresentata nella sua
funzione di mater ecclesiae, è partecipe del dogma dell’immacolata concezione. Quest’idea di un centro
generativo attraverso il movimento si espande alle figure laterali, che stanno partecipando a questa
conversazione su temi teologici, quindi anzitutto i due numi tutelari dell’ordine francescano: San Francesco,
scavato nella sua dimensione più ascetica, e il Santo titolare della basilica Antonio, nella veste di dottore
della chiesa.
Ai lati stanno poi due coppie di protomartiri e vescovi che sono patroni della città di Padova: Giustina e
Daniele, con il modelletto della città in mano e con un atteggiamento simmetrico della mano, ma variato,
indicando un colloquio. Le figure dei santi vescovi invece benedicono con la propria mano. I panneggi sono
ricchissimi, ma non per questo fagocitano l’anatomia, ma la connotano come anatomia nello spazio e
assecondano il movimento interiore espressivo della figura. Per fare ciò utilizza la tecnica della cera persa,
una tecnica che si ritiene recuperata dagli antichi, ma che ha una sua fortuna e un suo sviluppo anche nei
tempi moderni.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Gli artisti hanno apportato alla tecnica un proprio personale contributo. Il processo parte dalla
modellazione di una forma, che può essere realizzata in argilla o in silicone, che costituisce la cosiddetta
anima. Questa forma si ricopre con dei fogli di cera sulla quale è possibile definire alcuni dettagli.
Attraverso questa cera vengono creati dei canaletti. Poi si ricopre con un altro strato di argilla la forma e lo
si cuoce in maniera tale che l’argilla si indurisca, mentre la cera coli via, creando un’intercapedine.
Attraverso i canaletti si mette dentro la materia fusa che va a colmare lo spazio vuoto. A questo punto si
comincia a rompere l’involucro esterno, fino ad arrivare alla forma in bronzo o vetro e poi la si rifinisce.
Questa tecnica implica un controllo da parte dell’artista di tutte le fasi del processo, sia dirette (interviene
materialmente nello scolpire, rifinire…) sia indirette (realizzate gettando per esempio il materiale fuso
all’interno).
In questo senso l’artista esplica l’attività della scultura in tutte le sue caratteristiche, nella modellazione,
nell’intaglio, nella fusione, nell’incisione e nella rinettatura. È un’impresa da parte dell’artista.
L’esperienza riguarda sia le statue a tutto tondo della sacra conversazione, sia i bassorilievi del basamento
con la tecnica dello stiacciato, che Donatello trasferisce all’elemento bronzeo. Suggerisce una progressione
prospettica anche nello spazio ridotto del bassorilievo, che nel bronzo è accentuata anche dagli effetti
luministici della materia e dagli intarsi nero e oro, che servono ad animare il forno e a distinguerlo dal
trattamento delle figure in primo piano.
Donatello, Cristo passo, 1446-50

Percepiamo l’aggetto, i diversi piani in cui si collocano Cristo e i diversi piani rispetto alla parete di fondo,
decorata dai motivi geometrici, anche nelle aperture a motivo circolare.
Sul primo piano vediamo il dettaglio del sudario che i due angeli sorreggono quasi a svelare agli occhi dei
fedeli il Cristo morto che viene da loro deposto davanti al sepolcro come l’ostia dentro l’altare. I due angeli
ai lati hanno un piede sul bordo del sepolcro di Cristo e un altro una cornice esterna, che segna il limite
dell’immagine, su cui sopravanza l’ala. Le espressioni indicano la partecipazione patetica al dolore di Cristo.
Sono loro compagni altre formelle di angeli
Donatello, Angeli musici, 1446-50
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Riprende il tema degli spiritelli all’antica, sia nei due angeli cantori che in quello musico, che suona un
flauto a due canne e viene danzando verso lo spettatore, con le ali aperte e la veste che lascia scoperta una
gamba su cui la luce guizza.
A questi rilievi di formato ridotto si aggiungono quattro bassorilievi di formato più grande, orizzontali, che
contengono temi narrativi legati ai miracoli del Santo.
Donatello, Miracolo di Sant’Antonio, 1446-50

Dà forma a questi episodi utilizzando scarti minimi per suggerire l’effetto di profondità. Le tre arcate a tutto
sesto ad arco a botte viste dal basso verso l’alto suggeriscono la posizione alla giusta altezza sull’altare.
L’architettura di impianto brunelleschiano serve ad unificare ma anche articolare la composizione,
mettendo al centro il dettaglio principale e ai lati la reazione emotiva degli astanti al miracolo che si
esprime attraverso il groviglio di figure, percorse negli atteggiamenti dei corpi da un fremito che suggerisce
la dinamica, che arriva a sopravanzare il limite architettonico, salendo al di sopra dei pilastri che
scandiscono lo spazio con dei punti ad aggetto quasi a tuttotondo che servono a catturare l’attenzione dello
spettatore.
Il virtuosismo dell’incrocio delle grate suggerisce un ulteriore sviluppo in profondità dello spazio attraverso
un rigore geometrico del disegno, giocando sulla perfetta rispondenza di queste geometrie.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

In realtà, i rilievi sono una variazione su tema di queste caratteristiche.


Donatello, Deposizione, 1446-50

L’immagine è risolta all’interno dello spazio fagocitato, ingombrato dalle immagini, che sottolinea la
concentrazione drammatica dei partecipanti, su cui lo scalpello taglia delle linee spezzate non solo nei
panneggi, ma anche nelle espressioni dei volti, che ricordano i compianti lignei tipici della tradizione
dell’Italia settentrionale.
Usa il porfido (antico) e intarsi in pietre di colore diverso.
11/11/2021
Padova nel Quattrocento è un centro di elaborazione della cultura laica, aristotelica o averroistica, grazie
alla presenza dello Studio (dal 1222).
Al principio del Cinquecento si andrà ad innescare un recupero di Platone, nell’ottica del filone
neoplatonico che prende piede. Si cercherà dentro e fuori le aule dell’Ateneo di Padova di recuperare il
filone di studi del pensiero platonico. La tradizione aristotelica è ancora oggi uno dei saperi e delle
discipline più seguite ed identificative dell’ateneo patavino.
Si studia un recupero filologico di testi antichi di carattere storico e delle testimonianze archeologiche,
attraverso soprattutto epigrafi. Fiorisce a Padova una cultura preumanistica già nel Trecento, di cui uno dei
principali promotori è Francesco Petrarca, che soggiorna a Padova negli anni dei Carraresi, la cui strategia
punta a valorizzare le origini romane della città per distinguerla dalla Venezia bizantina. Le origini della città
diventano una specola per costruire l’autonomia di Padova rispetto a Venezia. Padova vive il rapporto con
Venezia come una dialettica tra la fedeltà alla dominante e la necessità di affermare un’autonoma realtà.
Pittore padovano, Francesco Petrarca nello studio, anni Settanta del XIV secolo.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Petrarca ci guarda da un lato della stanza, c’è una finestra aperta verso i colli euganei. È l’unico frammento
rimasto della restaurazione voluta dai Carraresi, il cui programma viene dettato dallo stesso umanista, sulla
base della tradizione letteraria illustre del genere letterario derivano dalla tradizione romana. Negli anni ’40
del Cinquecento, la decorazione della sala fu completamente rifatta.
Già al tempo di Petrarca, la storia della città di Padova viene costruita anche sulla base della ricostruzione di
testi antichi. Inizia una tradizione di collezionismo di tipo antiquario: le raccolte pubbliche e private
mettono insieme monete, medaglie, iscrizioni, codici, calchi in gesso… sono pezzi singoli che insieme
restituiscono in maniera frammentaria il rapporto con l’antico. Questo avviene grazie a uno scambio tra
collezionisti, umanisti, letterati e artisti, che poi metterà capo nel Cinquecento alla formazione delle
accademie cittadine (= circoli culturali, in cui gli artisti hanno un ruolo importante nella raccolta di pezzi
antichi o pitture moderne).
Una delle raccolte più antiche fu quella di Francesco Squarcione, di cui poco ci rimane dal punto di vista
della composizione della raccolta originaria, ma che rispondeva all’idea di una messa insieme di anticaglie,
con l’intento di farne uno strumento di esercizio per i giovani artisti. Infatti, Squarcione è definito “pictor
gymnasiarca singularis”: è una figura singolare che nasce come sarto che avvia un’attività di pittore e di
imprenditore di opere d’arte, ha una schiera incredibile di allievi, con cui intrattiene un rapporto ambiguo:
da un lato li inizia come in una sorta di accademia, dall’altra stabilisce un rapporto molto gerarchico, che
diventa però anche personale; li adotta come propri figli, anche per avere manodopera a basso costo e non
pagare le tasse previste per un’attività di apprendistato.
La sua personalità è singolare perché si pone in bilico tra vecchio e nuovo. La tradizione medioevale e la
personale apertura allo studio dell’antico viene portata avanti anche grazie a questa collezione in cui ci
sono anche opere moderne, soprattutto toscane o calchi o copie dall’antico.
Questa contraddizione di visione e di gusto caratterizza anche il linguaggio pittorico di Squarcione, pronto a
cogliere le novità donatelliane e fiorentine, ma le mette insieme in maniera frammentaria, non
perfettamente coerente.
Francesco Squarcione, Polittico de Lazara, 1449-52

Nella Chiesa del Carmine di Padova. Al centro la figura di San Girolamo, venerata dai carmelitani e i santi
Giovanni battista (con la pelle di cammello), Antonio abate (abito nero dei carmelitani, spesso
accompagnato da campanella e tau e dal porcellino che aveva addomesticato), Lucia (lampada) e Giustina
(con palma del martirio) ai lati.
San Girolamo ha la veste dell’eremita, ma anche con il cappello cardinalizio, spesso in attività di studio per
celebrarlo per la vulgata (tradizione in latino del testo biblico).
La composizione del polittico, con le figure costruite come statue e in diverse posture, fa riferimento
all’altare del santo, di cui squarcione coglie l’elemento linearistico come strumento di definizione dei corpi
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

e di resa espressiva. Il modo in cui mette in atto questa definizione linearistica è legato alla tradizione
tardogotica: non dà vero volume ai corpi, li indurisce e rende legnosi.
La cornice oro ci riporta a un gusto tardogotico, anche per la decorazione a pastiglia di tradizione
medievale.
Ma dentro questa ambientazione c’è il tentativo di delimitare in maniera diversa lo spazio della figura
umana, creando nicchie e mettendole sui basamenti marmorei. Le figure però tendono a rimanere sul
piano, non si riesce neanche a cogliere un punto di vista uniforme.
Nel pannello centrale, il Santo è rappresentato come santo eremita, con aspetto un po’ selvatico, con una
sorta di recinto di legni intrecciati dentro una sorta di caverna, con l’idea della tebaide (luoghi aspri in cui i
primi anacoreti vanno a ripararsi). Dentro questa ambientazione c’è anche la volontà di rappresentare il
santo come l’umanista, intento alla lettura, con una sorta di scrivania davanti e un accenno di studiolo. Lo
spazio architettonico è visto di scorcio, con l’arco della nicchia a tutto sesto e le due colonne con capitello
all’antica, ma l’impostazione prospettica è scorretta e incoerente. La parete ha come una breccia
scheggiata che apre un paesaggio ancora gotico. L’immagine è quasi come ritagliata su un fondo oro.

Francesco Squarcione, Madonna con Bambino, 1455

Sono figure più piene nelle forme. Il dettaglio del Bambino che si porta le dita in bocca è ripreso da
Donatello (Madonna Verona), Lippi (Madonna di Tarquinia) e Uccello (Madonna di Dublino). La Madonna e
il Bambino sono allacciati in un percorso che li annoda e sottolinea la relazione tra madre e figlio, con l’idea
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

della preveggenza di Maria per l’attuarsi del disegno divino e lo slancio del Bambino, che è affettivo, ma
reso con un’attenzione alla realtà e con tenerezza, come soprattutto in Donatello, per l’energia e vitalità
espressive. Il tratto però è meno leggero anche per l’approccio più artigianale all’arte, che lo avvicina più
alla tradizione padovana della scultura lignea. Inoltre, traduce lo slancio del Bambino in modo bloccato. Lo
snodo del polso è una cifra donatelliana, per l’eleganza e l’espressività.
Le scelte decorative e cromatiche sono un po’ bizzarre e rimandano a Paolo Uccello, anche per i colori scuri,
verdastri e per i riverberi della luce con effetti di sbattimento nelle figure in primo piano, che sembrano
sculture bronzee.
Il fondo ha nuvole toccate da filamenti di luce, ma disegnate in maniera quasi astratta, con un gusto per la
decorazione che ritroviamo anche nel dettaglio del candelabro e nelle ghirlande di frutti e fiori. Sul
parapetto in primo piano viene appoggiato un frutto con significato simbolico.
Certi dettagli e modelli trapassano poi nei suoi allievi, che ricevono questo imprinting a Padova e poi magari
tornano in diverse città di origine diffondendo questo linguaggio: si viene così a creare una “coinè”
squarcionesca. L’area di espansione segue spesso quella dei traffici commerciali di Venezia lungo la
terraferma. Uno di questi è l’artista croato, detto Schiavone.
Schiavone, Madonna con Bambino, 1456-59

Assume questo vocabolario di festoni di fiori e frutta e un’impostazione con il davanzale e gli angeli
musicanti che rimandano anche a Donatello. Trasforma quella linea così legnosa di Squarcione in un profilo
più sottile, quasi metallico.
Schiavone, Madonna con Bambino e angeli musici
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Era cuspide di un polittico. La pietà riprende la pietà che Filippo Lippi aveva realizzato per la Chiesa del
Santo, con l’idea quindi di ripetere questi modelli in maniera riconoscibile.
Un’altra figura protagonista del Quattrocento, anche nei suoi spostamenti tra Padova, Venezia, le Marche…
è Marco Zoppo, che si lega anche all’ambiente umanistico padovano.
Marco Zoppo, Madonna con il Bambino, 1445

Cosmè Tura diventa il capostipite della pittura ferrarese del Quattrocento.


Cosmè Tura, Calliope (la Primavera), 1458-63

Il gusto squarcionesco trova una tradizione più fiabesca, che rimanda al gusto per i romanzi cavallereschi.
Carlo Crivelli è un artista che poi lavora e si sposta in vari luoghi, ma soprattutto nella costa adriatica. Invia
opere nelle corti italiane e si distingue per i polittici complessi e ricchi in cui è molto apprezzato il suo
controllo tecnico.
Carlo Crivelli, polittico del Duomo di Ascoli, 1472
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Carlo Crivelli, Madonna con Bambino e angeli con i simboli della Passione, 1460

Complica lo spazio su più livelli. Esalta diversi materiali con un’accentuazione dei dati preziosi e con una
resa espressiva sempre molto caricata.
Andrea Mantegna è l’artista che più di tutti segnò la vicenda figurativa padovana e che degli insegnamenti
di Squarcione seppe cogliere e sviluppare in senso moderno la componente umanistica dell’antiquaria e
della prospettiva, superando il maestro. Inizia a lavorare da giovanissimo con Squarcione, che lo fa
esercitare su calchi in gesso da statue antiche e quadri di pitture in tela che si fa venire dalla Toscana e da
Roma.
Anche Mantegna si trova legato a Squarcione come “figliuolo”, ma nel ’48 rivendica in un processo un
risarcimento economico per le opere che aveva eseguito sotto la sua supervisione, ma che egli si sente già
come proprie, mostrando una consapevolezza del proprio linguaggio. L’artista si era probabilmente già
legato all’ambiente umanistico padovano, era già apprezzato dalla committenza quindi rivendica la propria
autonomia.
Andrea Mantegna, San Marco, 1448

Questo dipinto mostra la filiazione con Squarcione (festone di fiori e frutta, presenza del parapetto con il
cartiglio), ma rispetto al maestro è chiaro che Mantegna ha recepito in modo più chiaro il lineamento
prospettico toscano nella resa dello spazio: la nicchia con balaustra, l’impostazione della figura con un
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

chiaroscuro che non è lo sbattimento di luci irreali come in Squarcione, ma un chiaroscuro che plasma i
corpi. Probabilmente Mantegna desume ciò da uno studio diretto dell’opera di Donatello e Lippi. In questa
immagine ci sono dei segni di perfetta comprensione della prospettiva, come il dettaglio del libro, che quasi
va verso lo spettatore, così come il braccio del santo, che ha uno scorcio volutamente esagerato. Si tratta di
una proiezione forte sul primo piano della figura del santo, così come l’attributo del libro o del frutto, che
vengono anche verso la luce del primo piano. La parte del busto e del volto invece stanno nella parte della
nicchia. L’aureola sottolinea la provenienza dal basso della luce, proiettando l’ombra corta della testa
sull’oro dell’aureola.
Questa maturità di Mantegna fa sì che egli diventi uno dei principali protagonisti della decorazione della
Cappella Ovetari nella Chiesa degli Eremitani, che è il cantiere dei linguaggi della modernità nella Padova
del Quattrocento.
Prima dei bombardamenti della Seconda Guerra mondiale, la veduta della parete sinistra e dell’abside
erano così:

La committente è l’Imperatrice Capodilista, vedova di Antonio Ovetari, notaio, in ottemperanza alle volontà
del marito. Al centro di entrambe le pareti trionfano gli stemmi delle due famiglie.
Al centro della cappella c’è il tema dell’assunzione della Vergine, mentre sulle pareti laterali ci sono le storie
di San Giacomo e San Cristoforo.
Ovetari era beneficiario degli ospedali dei Santi Giacomo e Cristoforo, destinato alla cura dei pellegrini in
viaggio verso Roma. Gli episodi alludono a un percorso di resurrezione, ma anche al tema del viaggio e del
pellegrinaggio come metafora del viaggio della vita.
Con questo programma iconografico, l’Imperatrice Capodilista convoca un team di artisti, tra i quali si
distinguono una componente più tradizionalista e una più d’avanguardia: quella più anziana è costituita da
Vivarini e d’Alemagna, soci di una bottega di Murano che era un punto di riferimento per le vicende di
Venezia e Padova nel Quattrocento, grazie a d’Alemagna. Questi due artisti sono a Venezia interpreti di un
Rinascimento “umbratile”, quindi con ancora retaggi tardogotici, ma aperti alle novità; Nicolò Pizolo e
Andrea Mantegna rappresentano invece l’avanguardia umanista. Pizolo realizza i Dottori della Chiesa e
Mantegna i santi del catino absidale, ma quando passano alle pareti di sinistra iniziano a litigare e quindi le
scene vengono redistribuite, ma a quel punto Mantegna si allontana da Padova e va a Ferrara. Nel
frattempo d’Alemagna muore e Vivarini abbandona l’impresa, a quel punto avevano realizzato solo i festoni
della volta e i quattro evangelisti. Vengono sostituiti da Ansuino da Forlì e da Bono da Ferrara. Pizolo però
viene ammazzato, Mantegna ritorna e diventa il protagonista, una volta liberatosi delle figure autorevoli
veneziane e del suo giovane antagonista. Mantegna prende in mano la seconda fase dei lavori,
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

completando la parte sinistra, destra e centrale (Assunzione della Vergine). A causa dello spazio ristretto
non inserisce il numero previsto degli apostoli e l’Imperatrice gli fa causa.
Nella parete destra ci sono le Storie di San Cristoforo.

Ricapitolando: l’Assunzione è sulla parete di fondo. Gli spicchi dell’abside con figure di Santi sono perlopiù
di Mantegna, ma anche il Pizolo. I tondi raffigurano i dottori della Chiesa. sulla volta gli evangelisti di
Vivarini e d’Alemagna. Sulle parete laterali, gli episodi di San Giacomo quasi interamente condotti da
Mantegna e una parete (dx) commissionata a Vivarini e d’Alemagna, ma viene iniziata da Da Forlì e Da
Ferrara e terminata da Mantegna (nella parte bassa)

Grazie all’azione dei monuments’ men abbiamo dei frammenti di queste pitture. Erano volontari, soldati e
direttori di museo, che si adoperano per mettere in riparo le opere dopo i bombardamenti della guerra.
Questi frammenti sono stati rimessi insieme grazie al The Mantegna’s project che attraverso l’anastilosi le
ha ricostruite attraverso le vecchie fotografie e la tecnologia informatica.
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Antonio Vivarini e Giovanni da Ulma hanno a Venezia una bottega, antagonista di quella di Jacopo Bellini. Il
loro stile è ancora tardogotico fiorito nel polittico della Cappella di San Zaccaria.
Antonio Vivarini e Giovanni d’Alemagna, Madonna con Bambino in trono e i 4 padri della Chiesa, 1446

La scena è unificata secondo il modello della sacra conversazione: i quattro dottori sono su una pedana,
riuniti da un recinto, intorno al trono della Vergine. Sia il baldacchino che il decoro del trono della Vergine o
la fisionomia pallida e preziosa della Madonna con Bambino sono ancora dello stile gotico cortese. La
fisionomia dei quattro cortesi mostra un aggiornamento dal punto di vista prospettico.
Antonio Vivarini e Giovanni d’Alemagna, polittico di Praglia, 1448

La fisionomia della Vergine e del Bambino riprende quella masaccesca, non ha più l’esito esile aristocratico.
I santi si collocano in edicole in fondo oro, ruotando in posizioni e atteggiamenti diversi. Le figure del
registro superiore si affacciano come se fossero al secondo pianto (punto di vista dal basso verso l’alto). Il
progresso di stile è notevole, ma ci appare ancora arcaico se confrontato con il linguaggio che alle stesse
date avevano già acquisito Nicolò Pizolo e Andrea Mantegna.
Nicolò Pizolo, Dottore della Chiesa, 1448-53

Ha la tiara papale, è San Gregorio Magno. Pizolo lo raffigura come all’interno di una finestra ad oculo che ha
anche una cornice decorata a riquadri geometrici e scorciata in modo da proiettare l’immagine, non solo
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

come vista dal basso verso l’alto ma come un’immagine che si affaccia allo spazio dello spettatore. Il punto
di incontro tra lo spettatore e l’immagine è sul limite estremo della finestra, dove Pizolo spinge la figura del
Dottore, raffigurato come un umanista nel proprio studio, con sportelli che si aprono verso lo spettatore in
perfetto scorcio, a mostrare al proprio interno i libri. Gregorio guarda da un doppio leggio sul tavolo dei
testi. Ci sono altri accessori che connotano lo studio dell’umanista.
Tutto questo è definito all’interno di una rigorosa geometria. Oltre la figura, la stanza è come se
precipitasse in uno spazio in cui si apre un’altra finestra. In questo, il Pizolo mette a frutto uno studio
accurato dei rilievi di Donatello.
Anche le altre figure avevano queste ambientazioni a cui lo stesso Mantegna mostra di ispirarsi nel Polittico
di San Luca.
12/11/2021
Andrea Mantegna decora l’abside con i santi, ispirandosi ai profeti affrescati nel 1442 da Andrea del
Castagno a Venezia, nella Chiesa di San Zacaria. Sono per Mantegna un’idea di aggiornamento perché
dipinte come statue saldamente piantate sulle nubi che fanno da piedistallo. Questi profeti ebbero nella
vicenda veneziana un ruolo di scardinamento di vecchie consuetudini di decorazione degli ambienti delle
volte.
Andrea del Castagno, San Giovanni Battista, 1442

Nell’abside era collocata la pala d’altare che in passato si tendeva ad attribuire a Nicolò Pizolo, ma non
aveva questa abilità scultorea. Oggi si attribuisce questo lavoro a Giovanni da Pisa, che a Padova ha
l’occasione di aggiornarsi. Riprende lo schema dell’altare bronzeo di Donatello a Firenze per realizzare la
Pala Ovetari.
Giovanni da Pisa, Pala Ovetari, 1448-49
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Il fregio ha putti danzanti. La decorazione del fastigio aveva un puttino adagiato con naturalezza sull’arcata
della cuspide nel gesto di sostenere la ghirlanda. È un inserto di gusto donatelliano.
Mantegna e Pizolo iniziano a decorare la parete sinistra. Non sappiamo realmente cosa il Pizolo abbia
realizzato perché poi muore assassinato.
La parete è un impianto unitario diviso in sei episodi scompartiti da cornici, ma unificati da un punto di fuga
unico e quindi da un’applicazione dei principi prospettici che riguarda il complesso delle scene e anche i
diversi registri in cui le coppie di episodi sono unificate prospetticamente. In questo modo, abbiamo una
scansione per livelli che tiene sempre conto del punto di vista dello spettatore.
Nel primo livello abbiamo la Vocazione di Giacomo e la Predica di Giacomo, che hanno un aspetto più
squarcionesco rispetto alle scene successive: si avvertono dei tratti più duri e dei gesti più meccanicamente
bloccati. Ma Mantegna già nel 1448 supera l’insegnamento di Squarcione grazie a una maggiore regia
prospettica, che notiamo anche dall’unificazione del cielo.

Andrea Mantegna, Vocazione di Giacomo, 1448-49


La montagna rocciosa ha una tipica conformazione stalattitica, data probabilmente anche dal contrasto
cromatico. Questi contrasti e la durezza del paesaggio (la quinta violacea di rocce che si staglia sul cielo blu)
la ritroviamo anche nelle figure, che hanno la stessa rocciosità, ma regolate da una definizione prospettica
molto attenta (aureola in scorcio). Già in queste opere Mantegna dà alle figure la consistenza di pietra delle
statue e anche il risalto monumentale, grazie al punto di vista basso. Nel processo di formulazione
dell’immagine usava vestire i modellini in creta con panni bagnati per ottenere l’effetto di aderenza ai
volumi dei corpi.

Andrea Mantegna, Predica di Giacomo


Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

L’ambientazione è urbana e connotata da una geometrizzazione delle forme, come nel balcone da cui si
affaccia San Giacomo. Guarda ai rilievi di Donatello all’altare del Santo, come l’arcata squarciata verso l’alto
con colorazione bicroma, le pareti con porte che si aprono, le figure colte nell’atto di uscire. Sono citazioni
prese a prestito rispetto a un’opera che era già diventata un punto di riferimento per il mondo e
l’immaginario padovano: è una citazione che vuole essere riconoscibile e rimandare ad un’opera così
autorevole. Infatti la citazione a Donatello sta accanto alla citazione più antica ad Altichiero, in particolare
agli affreschi della cappella di San Giacomo, che viene però reinventata con una concitazione ripresa
dall’esempio donatelliano.
Queste due scene sono più strettamente legate alla cultura padovana agli anni Quaranta.
Sul livello successivo, invece:
Andrea Mantegna, San Giacomo battezza il mago Ermogene

Le due scene sono più strettamente unificate dalla prospettiva, non solo dal fondale, ma anche dal
pavimento, con un maggior controllo delle proporzioni e della fuga prospettica delle mattonelle (Alberti). Le
architetture sono all’antica, come la quinta di un portico sorretta da pilastri in scorcio prospettico che si
incrocia con una parete ad arcate, nella quale sono inquadrate le botteghe all’antica di vasai, con un inserto
a rilievo entroclipeo.
Andrea Mantegna, San Giacomo davanti a Erode Agrippa
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Oltre la transenna in cui Erode sta sotto un baldacchino, su un seggio con braccioli a forma di sfingi alate,
incontriamo un arco di trionfo all’antica, decorato con rilievi e con un’iscrizione che rimanda a quella
dell’Arco dei Gavi. Notiamo un gusto albertiano nelle architetture e un accentuarsi del gusto antiquario
condotto non più nel modo frammentario di Squarcione, ma con la capacità di ricreare una scenografia
all’antica, con una ricostruzione dal sapore filologico, anche nei costumi, negli oggetti d’uso, nel dettaglio
delle botteghe.
Nel livello più basso:
Andrea Mantegna, San Giacomo condotto al martirio converte e benedice lo scriba Giosia inginocchiato
ai suoi piedi

Le figure sono come statue all’antica, con ricostruzione filologica anche delle armature. C’è una citazione
anche al San Giorgio di Donatello, ambientata sotto un .. che rimanda all’altare del santo, ma con un
riferimento più preciso all’antico. Rispetto alla fase più strettamente squarcionesca e donatelliana delle due
scene superiori, queste due scene mostrano un maggiore interesse antiquario e un dialogo con Leon
Battista Alberti, questo in relazione a due fattori: Mantegna stringe rapporti più forti con gli umanisti
antiquari padovani; Mantegna viaggia a Ferrara e ha la possibilità di incontrare Leon Battista Alberti.
Andrea Mantegna, Martirio di San Giacomo, 1455-57

Il punto di vista adottato è a tu per tu con lo spettatore, ma si trova calcolando che lo spettatore è
comunque al di sotto della scena affrescata. C’è una forte insistenza sulla soglia più vicina allo spettatore,
dove le figure si trovano spinte con una forza illusiva, che probabilmente era anche accentuata dal dettaglio
naturalistico della staccionata di legno. Mantegna mette a frutto forse con attenzione il gusto naturalistico
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ricavato dai pittori fiamminghi, ma l’intensificazione dell’oggetto sul primo piano serve ad intensificare
l’illusionismo dell’immagine, che poi rimane però bloccata dentro le forme dei volumi e della prospettiva. Il
carnefice è rappresentato come un operaio che sta sferrando il colpo sul santo con una grande mazza. C’è
una caratterizzazione delle figure, è un uomo un po’ rozzo, dalla pelle bruciata, con la camicia aperta sul
petto, ma bloccato in questo gesto come una statua di pietra, così come il corpo del santo, che è messo di
scorcio in basso, avvolto come un sudario, mentre la testa è spinta in avanti. Un saggio di virtuosismo
prospettico è anche quello dei cavalli, con l’idea che si passi dallo spazio reale a quello dipinto.
Dietro c’è un paesaggio maturato probabilmente a Ferrara, con una collina che si inerpica attraverso livelli
stratificati di vigne, di terrazzamenti e di vestigia dell’antico e città o castelli turriti, con una particolare
orografia.
A questa seconda fase di lavori appartiene anche la scena con cui Mantegna conclude l’altra parete, a
destra, dove sono rappresentate le storie di San Cristoforo, assegnate a Vivarini e d’Alemagna, ma poi
condotte da dei sostituti: le scene della parte mediana sono di Bono da Ferrara, con uno stile all’incontro
tra Andrea del Castagno nella linea e Piero della Francesca per l’ambientazione, e Ansuino da Forlì, che
invece ha decorato la cappella del Podestà con Lippi e Pizolo, quindi ha uno stile più donatelliano, che si
riconosce nell’organizzazione della scena di San Cristoforo che converte i soldati in Licia. A Girolamo di
Giovanni o Ansuino sono attribuite invece le scene superiori, Congedo di san Cristoforo dal re e San
Cristoforo e il re dei demoni. Il gigante cananeo Cristoforo cerca il re più potente per servirlo: un giullare
cantò una canzone in cui compariva il diavolo, il re allora si fece il segno della croce e spiegò a Cristoforo
che aveva paura del diavolo, perché più potente di lui. Cristoforo allora seguì il diavolo, ma questi aveva
paura della croce. la leggenda parla di un cananeo, per alcuni un gigante, che faceva il traghettatore su un
fiume. Era un uomo burbero e viveva da solo in un bosco, di cui era padrone. Secondo alcune storie il fiume
era in Licia. Una notte gli si presentò un fanciullo per farsi portare al di là del fiume; Reprobus (questo era il
nome dell'uomo prima del battesimo, secondo alcune versioni), anche se grande e robusto, si sarebbe
piegato sotto il peso di quell'esile creatura, che sembrava pesare sempre di più ad ogni passo. In alcune
versioni sarebbe cresciuta anche la corrente del fiume, che si faceva più vorticosa. Il gigante sembrava
essere sopraffatto, ma alla fine, stremato, riuscì a raggiungere l'altra riva. Al meravigliato traghettatore il
bambino avrebbe rivelato di essere il Cristo, confessandogli inoltre che aveva portato sulle sue spalle non
solo il peso del corpicino del bambino, ma il peso del mondo intero. Dopo aver ricevuto il battesimo,
Cristoforo si recò in Licia a predicare e qui subì il martirio.
Andrea Mantegna, Martirio e trasporto del corpo di San Cristoforo, 1455-57

Mantegna unifica due momenti diversi attraverso lo spazio architettonico prospetticamente impostato,
rifacendosi alla predella dell’altare del Santo di Donatello, anche per l’organizzazione razionale della scena.
Ci sono dei personaggi che travalicano la cornice architettonica, come nel Miracolo del neonato
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(Donatello): l’armigero a destra e il santo legato al pilastro a sinistra. San Cristoforo è quindi rappresentato
a sinistra sulla finta cornice con le sue proporzioni gigantesche, ma non lo vediamo.
C’è una capacità di inquadrare la scena in primo piano all’interno di uno spazio architettonico che ha al
centro una colonna ionica e a destra e a sinistra i due pilastri. C’è una forte potenza illusiva e un’osmosi tra
lo spazio reale e dipinto: quanto più è disegnato il punto in cui la parete entra nella dimensione della
finzione pittorica, tanto più lo spettatore viene coinvolto. Oltre questo limite segnato dall’architettura, lo
spettatore viene attratto dalle direttrici prospettiche, fortemente segnate dalla pittura, come le quinte
prospettiche in marmo colorato e la pergola che parte dalla cornice architettonica in primo piano ed entra
in fortissimo scrocio dentro la rappresentazione, forando l’architettura di fondo all’antica, che si incontra
poi con dei caseggiati di gusto veneziano. Mantegna ambienta la scena del martirio in una piazza urbana
che rimanda a quella reale, ma travestita attraverso la rievocazione dell’antico.
Nel palazzo di fondo, i rilievi mostrano ritratti tombali all’antica, iscrizioni, e dei tondi di diverso colore di
gusto più albertiano.
Le figure a destra sono molto affollate ma scandite prospetticamente in forte connessione con
l’architettura a cui si appoggiano. Davanti alla folla schierata, il corpo morto di Cristoforo è trasportato
come una statua colossale, posta in forte scorcio.
Rispetto alle prime scene, è cambiata anche la condotta pittorica. Il modo di distribuire le luci è diventato
più naturale, così come la tavolozza. Per esempio nel dettaglio delle frecce che vanno a colpire il tiranno
Danno che aveva ordinato il martirio. La scena è inquadrata da Mantegna nella finestra in modo da darle un
certo risalto. La freccia va a cogliere una direttrice che è la stessa segnata dal pergolato. Le due figure sono
colte da questi riflessi di luce: il profilo dell’uomo che urla è stagliato sul nero di fondo; la luce passa sulla
freccia. È una luce ferma, non mobile e lascia le figure bloccate come statue. La decorazione della cappella
da parte di Mantegna riguarda anche la scena sulla parete di fondo, che Mantegna adatta allo spazio
ristretto dell’abside in maniera molto intelligente:
Andrea Mantegna, Assunzione della Vergine

raccoglie in basso le figure degli apostoli che si accalcano creando una V c eh sottolinea il verticalismo per
dare slancio all’immagine della Vergine in alto. Sopra di essa, il padre eterno dipinto da Pizolo.
Mantegna sposa Nicolosia Bellini, a conferma del dialogo con Giovanni Bellini fatto di scambi reciproci, che
inizia in queste date.
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Andrea Mantegna, Polittico di San Luca, 1453-55

È realizzato per la basilica di Santa Giustina. È un polittico in più scomparti a fondo oro, che Mantegna
unifica adottando un unico punto di fuga e rappresentando le figure con il risalto monumentale di statue
che rimandano al modello mantegnesco. Lo vediamo nelle statue a figura intera nel registro inferiore.
Quelle del registro superiore si affacciano, come da un balcone. A destra San Benedetto (ampolla con cui
battezza) e Santa Giustina (palma e pugnale).
Al centro Luca evangelista, seduto su un trono decorato all’antica, con specchiature marmoree policrome,
così come il tavolo dove appoggia il suo strettoio. Mette insieme il gusto per l’antico e per i materiali
preziosi di Squarcione ma con una coerenza e forza di impatto straordinarie amplificate dalle proporzioni
monumentali di San Luca che viene innanzi con una gamba.
Anche Giustina viene in avanti, che ha però colori più inteneriti. Questo incontro tra colori tenui e più
metallici lo troviamo in:
Andrea Mantegna, Sant’Eufemia, 1454

Commissionata da un notaio lucano che si era trasferito a Padova dove era stato rettore della Chiesa di San
Daniele che conservava il corpo della Santa. La santa è sottoforma di statua viva entro un’arcata aperta
verso il cielo e affiancata dal leone che le mordicchia il braccio come un animale domestico, senza
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aggressività. Le tinte sono scure per questioni di conservazione, dovrebbero essere più vivaci con cielo
azzurra. La monumentalità della figura dialoga, anche nell’atteggiamento, con la statua donatelliana della
Santa.
Grande omaggio a Donatello è:
Andrea Mantegna, Madonna con il Bambino in trono e santi (Polittico di San Zeno), 1456-59

Si ispira alla Sacra Conversazione sotto portico marmoreo, che è stata menzionata come documento della
fortuna dell’altare di Donatello. Viene commissionata dall’abate benedettino veneziano Gregorio Corner.
L’opera di Mantegna è una tappa importante nello sviluppo della pala d’altare rinascimentale, perché
grazie al modello di Donatello, Mantegna supera la tripartizione del trittico e unifica la scena all’interno di
un quadriportico, che attrae i personaggi come dentro la scatola prospettica. Il portico ha pilastri ornati da
intarsi marmorei e da medaglioni all’antica, regge un architrave decorato con fregi di putti in stucco sul
fondo oro.
Questo portico aperto sul cielo azzurro crea un telaio geometrico che attrae le figure scalandole dentro la
progressione geometrica con un ritmo solenne, anche perché le figure hanno una fisionomia di statue e
seguono la progressione dell’architettura, a partire dal risalto monumentale del San Pietro in primo piano,
con il manto giallo montato sulla spalla con consistenza rocciosa. Dietro di lui le figure seguono
l’andamento dei pilastri. Nell’articolazione dell’architettura è molto importante anche la cornice che
Mantegna ha pensato, agganciata e ripresa poi dall’architettura interna alla pala, con l’idea che questo
punto sia il punto di passaggio tra lo spazio reale e quello dipinto.
I festoni di fiori e frutta che Mantegna riprende da Squarcione è svolto con capacità illusionistica e rigore
delle simmetrie più marcato. I festoni vanno a scorrere illusivamente giusto nello spazio tra la cornice di
legno e i pilastri dipinti secondo delle arcate che sono rigorosamente simmetrie. La simmetria la ritroviamo
in tutte le parti della composizione, anche nel dettaglio dell’uovo di struzzo, al di sopra di una lampada su
cui la luce gira a indicare la trasparenza e che cade giusto in asse sulla testa della Vergine.
È una parte investita dalla luce, che si accende di colori vivaci, mentre tutta la parte destra è più in ombra e
giocata in toni più scuri, con anche variazioni procedendo dal primo piano verso il fondo: il manto rosso di
San Giovanni è sfiorato dalla luce, sfuma nell’arancione di San Zeno, passa al verde più cupo di San Lorenzo
e affonda nel nero di San Benedetto. Mantegna fa coincidere la fonte di luce reale con quella dipinta,
modificando quella reale, quindi facendo aprire nel fianco destro del coro di San Zeno una finestra che non
c’era: così accentua anche l’effetto di raccordo tra i due spazi.
Grazie alla luce anche i colori si addolciscono, come nel Polittico di San Luca: questo comporta anche
maggiore dolcezza sentimentale nell’immagine della Madonna e degli angioletti che cantano addensandosi
attorno al trono, decorato con decori marmorei di gusto rinascimentale e di perfetta simmetria, per
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esempio nel motivo intrecciato della cornice del trono, nel decoro a cerchio sulla sommità che amplifica
l’aureola oro della Vergine. Questi dettagli ci rimandano al rapporto con Bellini e a Piero e Alberti per il
gioco di limpide simmetrie.
Nella predella al polittico:
Andrea Mantegna, Orazione nell’Orto e Resurrezione, 1456-59

L’orazione nell’orto è un tema che Mantegna riprenderà in un dipinto autonomo.


Il paesaggio è roccioso, la montagna ha livelli stratificati di vigne, ma anche di città turrite all’interno delle
quali si riconoscono delle presenze antiche. Le rocce stalagmitiche e di colore rossastro sono costruite con
una stretta connessione con i personaggi in primo piano. La roccia con la figura dell’angelo che scende a
portare il calice a Cristo fa da appoggio allo stesso Cristo, inginocchiato su della pietra. In basso, gli apostoli
dormono, realizzati con gli scorci visti anche nei martiri ai piedi della Cappella Ovetari.
Al centro della predella sta con una prospettiva rigorosamente centrata la scena della Crocifissione in cui
troviamo lo stesso paesaggio, che diventa quasi un modulo formale: la rispondenza tra il paesaggio e le
figure, per esempio il gruppo dello svenimento di Maria retta dalle altre donne oppure la quinta lungo cui si
dispongono i personaggi a cavallo e il selciato in primo piano sferico che simula il cranio. Questa calotta è
condotta geometricamente, con l’idea della stratificazione di rocce geometrizzate.

La scena è interpretata con un patetismo esasperato che rimanda a Donatello (la corona e le ossa sul
ventre), accentuato dai colori che Mantegna sa accostare con maestria, giocando sulle tinte più tenui del
rosa e dell’azzurro e quelle più aspre e discordanti del verde e del giallo.
Nel 1460 Mantegna si trasferisce a Mantova come pittore di corte.
16/11/2021
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Gianfrancesco Gonzaga è il primo marchese di Mantova per investitura imperiale. Ha il merito di aver
chiamato alla corte di Mantova Vittorino da Feltre come precettore dei propri figli, umanista che fonda la
Ca’ Zoiosa, presso cui si era formato anche Federico da Montefeltro. Qui si sostiene il principio di armonia
tra la vita attiva del signore, che si esplica nell’attività politica e militare e l’attività intellettuale, nell’ambito
della quale particolare attenzione viene riservata allo studio della matematica.
È con Ludovico II Gonzaga (figlio), secondo marchese di Mantova, che si verifica la svolta rinascimentale
della città intorno al 1460. La vicenda viene poi proseguita da Francesco II Gonzaga, che sposa Isabella
d’Este, consolidando i legami tra le corti di Mantova e Ferrara, che anche per una questione di vicinanza
sono sempre stati molto forti.
Intorno al 1460, a favorire questa decisa vicenda rinascimentale, sono alcuni fatti che coincidono. Nel 1459
a Mantova si tiene il Concilio di Mantova, indetto da Papa Pio II, che chiama a raccolta la cristianità in una
crociata contro l’espansione turca. Nel 1460 si verificano il trasferimento di Andre Mantegna e la presenza
a Mantova di Leon Battista Alberti, che segnano la svolta artistica.
Due eventi emblematici sono documentati intorno a questa data: la lettera che Barbara di Brandeburgo
(moglie di Ludovico Gonzaga, nipote dell’imperatore) che nel ’61 annuncia al figlio che su consiglio di
Mantegna ha decido di licenziare Belbello da Pavia dal ruolo di miniatore di corte e di affidare la
decorazione del suo messale a Girolamo da Cremona, “creato” dallo stesso Mantegna. Questo segna il
passaggio da una cultura tardogotica (Belbello), per l’affermazione di una scelta rinascimentale autonoma
(Mantegna). Mantegna cessa di essere un pittore venuto da Padova, e diventa il rappresentante del
rinascimento mantovano, non solo attraverso la propria produzione artistica, manche attraverso il ruolo di
consulente. Dietro a questa scelta c’è da parte dei Gonzaga una forte consapevolezza del ruolo della cultura
nelle sorti della città. L’altro episodio emblematico è la gita sul lago di Garda che nel 1464 Mantegna
compie in compagnia di Felice Feliciano, Giovanni Marcanova e Samuele da Tradate, esponenti della cultura
umanistica di ispirazione antiquaria mantovana. Questo ci mostra un nesso tra produzione letteraria e
figurativa, dato dal legame personale tra artisti e letterati; in questa gita si travestono da antichi romani,
dando vita a una vera e propria messinscena, cantando con la cetra le memorie degli imperatori Antonini.
Questo è significativo di una concezione dell’antico, rievocato con un’operazione retorica, però in funzione
celebrativa, quindi come una rappresentazione visiva del potere. In questo c’è l’idea di celebrare
l’autorevolezza della dinastia attraverso la nobiltà del passato classico, secondo un’equazione nobiltà-
antichità ancora presente nella tradizione. I mezzi del linguaggio figurativo sono fondamentali: quella
prospettiva, nuova visione del mondo indicata come chiave di modernità, diventa strettamente funzionale
a questa celebrazione-teatralizzazione del potere: le arti figurative diventano travestimento scenico per la
comunicazione del signore.
Il Castello di San Giorgio è sede del potere dei Gonzaga e rappresenta l’insediamento medievale della
signoria, rispetto al quale ci sarà uno straordinario sviluppo degli ambienti della corte in relazione anche
alla città e all’esigenza di presenza rispetto al pubblico cittadino (nel Quattro e Cinquecento).
Già con Gianfrancesco Gonzaga si inizia a decorare questo ambiente, ma inizialmente segue dal punto di
vista figurativo ancora un gusto tardogotico, di cui può essere esempio la decorazione di Pisanello del
Palazzo Ducale di Mantova. L’idea di questa battaglia-torneo ispirata a diversi romanzi cavallereschi. Questa
visione del mondo è legata ancora all’aristocrazia sia nel preziosismo dei dettagli che nella delicatezza e
squisitezza delle figure, ma anche nel tono sentimentale (tradizione arturiana). Pisanello ha un’attenzione
anche alla figura umana, ai dettagli delle armature, della natura… ma inserita in uno spazio non unificato
prospetticamente e in cui le figure non hanno forma plastica: ogni figura è studiata individualmente e
naviga in uno spazio indistinto e senza idea di organizzazione dello spazio. La sinopia ci mostra l’attenzione
al disegno e al tema della battaglia, in cui Pisanello guarda anche agli esempi del mondo classico, perché è
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un artista attento alla tradizione antica (infatti è attivo come medaglista), ma poi reinterpreta con gusto
ancora medievale.
Con Pisanello però ci lasciamo alle spalle tutto questo, a partire anche da una trasformazione del castello
da fortezza militare medievale a residenza principesca, grazie all’intervento di Andrea Mantegna, che ha un
suo momento celebre nella decorazione della Camera degli Sposi. Il primo intervento di Mantegna nel
castello è in realtà la decorazione della Cappella di corte, a cui appartiene il trittico dell’Adorazione e la
Morte della Vergine.
Andrea Mantegna, Trittico dell’Adorazione, 1460-64

Ha il tema dell’Adorazione al centro, a destra la circoncisione e la Resurrezione di Cristo a sinistra. Il


paesaggio roccioso ricorda la consistenza della predella del trittico di San Zeno. Nella scena della
resurrezione, le figure sono raccolte in semicerchio in basso e Cristo in alto sulla nube. È molto vicina
all’esito del polittico di San Zeno, in cui c’è la capacità di definire molto bene lo spazio in profondità e
attirare l’occhio dell’osservatore dentro all’opera dipinta.
Oltre al paesaggio roccioso, torna anche il gusto per la decorazione all’antica dell’architettura, soprattutto
nella Circoncisione, in cui vediamo il Sacrificio di Isacco e la Consegna delle tavole della Legge. Il tema della
Circoncisione di Cristo richiama questi episodi nella vicenda neotestamentaria. Il tema teologico è rivestito
di questo gusto classico all’antica, che è svolto in un’architettura molto impreziosita dai marmi variegati e
dai riquadri che ricordano il marmo e le pietre dure con idea di preziosismo. Questi rilievi all’antica sono
dipinti in oro, con un arricchimento di lusso che ci fa capire il passaggio dell’artista a un contesto di corte.
Nella cappella c’è anche la:
Andrea Mantegna, Morte della Vergine (Transitio); Cristo in Gloria accoglie l’animula di Maria
(Assumptio), 1460-64
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L’opera è concepita anche dal punto di vista iconografico come un tutt’uno. Noi la chiamiamo Morte della
Vergine perché è il titolo tradizionale, ma in realtà l’iconografia esprime il tema della Transitio, perché
Maria in quanto immacolata non muore, ma viene assunta in cielo corpo e anima. Il funerale di Maria è
quindi in realtà il momento della transitio. L’assumptio in cielo avviene con lei come animula nelle mani di
Cristo.
L’opera ha una coerenza prospettica, con l’idea di questa arcata che accoglie le due ali degli apostoli ai lati,
a scandire la progressione prospettica, così come il pavimento (albertiano), conducendo l’occhio verso il
catafalco, dove si svolge questo silenzioso funerale con un’austerità che la prospettiva e il rigore
matematico coglie e restituisce in termini di astrazione concettuale del tema per attrare l’occhio dello
spettatore in una dimensione altra, che non è solo quella celeste, ma anche quella del paesaggio che
diventa una proiezione spirituale dell’uomo: è un paesaggio vero, la laguna del Mincio vista dal castello, con
il sistema di razionalizzazione del corso fluviale che è un dato osservato dalla realtà, ma che diventa
emblematico dell’intervento razionale dell’uomo sulla natura. In questa restituzione dello spazio, e con
questa chiave simbolica e sentimentale, è anche importante la restituzione del colore in maniera
ammorbidita, dovuto al rapporto con i Bellini, ma che si arricchisce con la conoscenza di Piero della
Francesca (luce chiara).
La resa statuaria e l’ispirazione antiquaria non cedono mai; la concezione della figura umana e dello spazio
è sempre monumentale e statuaria e connotata in senso antiquario. L’artista non rinuncia a cesellare i due
candelabri o l’incensiere con cui viene sparso l’incenso sul corpo di Maria, non rinuncia a segnare con
pennellate giallo oro le luci sul corpo della Vergine, a indicare la chiave di preziosismo vista nel trittico
dell’Adorazione.
Andrea Mantegna, La Camera degli Sposi (camera picta), 1465-74

Era la stanza da letto dei duchi, luogo in cui il duca riceve anche gli ospiti e svolge attività diplomatica.
Questo ambiente della vita che è privata e pubblica della corte viene concepito e ripensato come una aula
all’antica attraverso una finta architettura che trasforma lo spazio medievale della torre e che è costituita
da uno zoccolo in finto marmo, ornato da motivi a disco serpentino e porfido, in cui leggiamo
l’insegnamento albertiano. Su questo zoccolo si impostano poi dei finti pilastri che sostengono la volta del
soffitto, disegnato attraverso vele intrecciate, decorate con finti rilievi all’antica, immaginati con stucco
bianco su fondo oro che raffigurano scene mitologiche, con le storie di Orfeo e di Ercole, che reggono delle
ghirlande le quali circondano clipei con busti imperiali. In alto si spalanca una finestra a oculo aperta verso il
cielo, con una balaustra su cui si affacciano degli angeli (come il Pantheon ma ripensato come ambiente di
corte).
In questa stanza, tra i finti pilastri, si trovano delle aste da cui pendono dei tendaggi che coprono quasi
interamente lo spazio, lasciando intravedere nelle lunette il cielo che si immagina aldilà di queste tende. Il
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pittore finge una sorta di loggia aperta verso l’esterno, oltre le pareti e oltre il soffitto, verso il cielo. Nelle
lunette ci sono dei tondi con delle insegne gonzaghesche, al centro tra dei festoni, disposti con lucida
simmetria e adattati a spazi ordinati prospetticamente. Il gusto è quello proprio di Mantegna delle imprese
araldiche, che si inizia a diffondere presso le corti italiane. Questo gusto si legherà al concetto dell’impresa
che esprime la personalità di chi la porta.
Le altre due pareti di est e ovest simulano queste aste con le tende, ma immaginando che le cortine
vengano sollevate a mostrare delle scene di vita contemporanea della corte, che si aprono su queste pareti
a rivendicare come una sorta di proiezione, della vita che si svolge dentro la stanza, celebrativa della nobiltà
del passato antico. Creando questa cornica all’antica Mantegna celebra la nobiltà della vita di corte, in
maniera anche ingegnosa, trasformando il camino in una sorta di podio, piedistallo per il marchese e per la
corte.
Andrea Mantegna, Arrivo di una lettera in cui Bianca Maria Visconti comunica l’aggravarsi delle
condizioni di salute di Francesco Sforza e chiama Ludovico a Milano, 1465-74

Secondo l’interpretazione storica, questa scena rappresenterebbe l’arrivo di una lettera in cui la duchessa
di Milano comunica a Ludovico l’aggravarsi delle condizioni di salute del marito Francesco Sforza e gli
chiede aiuto. Celebra il rapporto tra la corte mantovana e milanese.
Nell’immagine si vede Ludovico seduto in veste da camera che riceve i diplomatici. Accanto a lui sta la
moglie Barbara di Brandeburgo e i figli e alcuni dignitari di corte. C’è una restituzione attenta dei dettagli
del costume o delle figure, come la nana in rosso o il giullare, che fanno parte della vita e del codice
comportamentale della corte, ai quali è riconosciuta un’altissima dignità.
Sulla parete successiva c’è una trasformazione evidente delle preferenze cromatiche e della materia,
perché la tecnica è ad affresco, senza parti in tempera, realizzata non a pontate, ma a giornate:
Andrea Mantegna, Ludovico II Gonzaga incontra il figlio Francesco Gonzaga, 1470-74
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L’ambientazione è a cielo aperto. Rappresenta l’incontro tra Ludovico e il figlio cardinale sulla strada per
Roma. il personaggio di profilo è Ludovico Gonzaga, in vesti signorili e ufficiali. Di fronte a lui si staglia un
personaggio in abiti cardinalizi, il figlio Francesco, il quale assume il titolo di cardinale appena diciasettenne
nel 1461. La carica serviva anche ad attestare il potere signorile nella curia romana.
Il dipinto sembra eseguito in un tempo più avanzato rispetto alla scena dell’altra parete (1470). Francesco
diventa vescovo di Mantova nel ’66, ma nel ’74 è incaricato direttamente dal Papa di ricevere a Roma
Cristiano I re di Danimarca (suo zio), quindi potrebbe essere questo l’episodio clou, perché le figure in
secondo piano sono state identificate con Cristiano e Federico III d’Asburgo. Questo affresco in realtà
rappresenta una celebrazione simbolica della famiglia e della successione. All’estrema destra, di fronte a
Ludovico e di profilo, è rappresentato il figlio di Ludovico, futuro marchese, a cui sarebbe spettato il ducato
di Mantova. Mente il cardinale secondogenito tiene per mano il terzo figlio di Ludovico, che tiene per mano
il figlio di Federico, Sigismondo. L’altro figlio di Federico viene rappresentato sotto la sagoma del nonno ed
è Francesco II. È quindi un’immagine molto simbolica.
Andrea Mantegna, Ritratto di Francesco Gonzaga (prima del 1460) o Ludovico Gonzaga (dopo il 1460)

Ludovico diventa protonotario apostolico nel 1460. Il problema della somiglianza fisionomica può indurre in
errore nell’identificazione di un ritratto, che a volte va in contraddizione con gli aspetti dello stile e della
forma.
La luce è chiara e scandisce l’ambientazione, la natura è cristallina ed eternizza queste immagini, già
emblematiche, fuori dal tempo, anche se caratterizzate da dettagli di costume, di bellezza stravolgente
come i cavalli. La resa dei decori è preziosa. La luce diffusa e il colore azzurrino dialogano con il verde della
natura. Il corteo si snoda nello spazio illusivamente rappresentato dietro ai pilastri, ad un’altezza
lievemente sopraelevata rispetto al pavimento, in modo da mettere lo spettatore a tu per tu con i
personaggi rappresentati, ma a un livello sottomesso, dando quindi a questi personaggi un risalto
monumentale e un’autorevolezza per cui lo spettatore che si trova all’interno della stanza percepisce anche
da un punto di vista simbolico.
Mantegna è abile nello sfruttare il camino come piedistallo per la scena della visita degli ambasciatori nel
ricevimento della lettera, qui usa il piedistallo della porta per realizzare dei putti in volo, con proporzioni
all’antica, ma con ali di farfalla, che reggono una targa con la dedica a Gonzaga e sposa, e la data 1474, che
segna la fine dell’impresa.
Mantegna dipinge come un finto graffito nelle venature marmoree dipinte nello sguincio di una finestra con
la data 1465.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Nell’oculo, Mantegna dipinge un gioco illusivo tra spazio reale e dipinto, che qui va a sfondare il soffitto che
si apre verso un cielo azzurro di nuvole. La balaustra riprende i tondi delle pareti. Le figure si affacciano con
uno scorcio accennato, obliquato per fare in modo che l’occhio dello spettatore possa a sequenze scorrere
lungo la prospettiva della figura, in maniera da passare dai piedi alla testa. Il gusto dell’artista nella
restituzione di questi putti è in bilico tra l’astrazione geometrica e la fantasia divertita dell’artista, che gioca
a far entrare in parallelo con l’orizzontalità del soffitto la testa di uno dei putti, che va a incrociarsi con la
perpendicolare dell’altro putto.

L’effetto illusivo di scherzo non è meno evidente nei punti dipinti invece come finti stucchi, che reggono le
ghirlande con al centro i clipei con i busti degli imperatori, dove si apprezza lo studio della luce che
accentua l’effetto di finta tridimensionalità.
Nel dettaglio di un finto ritratto, l’artista ha inserito un ritratto che si pensa sia il suo autoritratto in forma
fitomorfica.
18/11/2021
Leon Battista Alberti arriva a Mantova nel 1460, ma è preceduto dall’attività di Luca Fancelli, architetto
toscano che diventerà dopo il passaggio di Alberti il principale esecutore delle sue opere, per le quali è
percepito come una figura gregaria a quella di Alberti. È un personaggio che ha una sua fisionomia e un suo
ruolo importanti di mediazione del linguaggio di Leon Battista Alberti.
Alberti arriva a Mantova dopo un percorso a Firenze e alla corte papale dove approfondisce le conoscenze
sull’antichità che si saldano a una formazione umanista che l’intellettuale aveva già avviato durante i suoi
primi studi a Padova e Bologna. Si muove poi da Ferrara a Urbino, a Rimini. Fonda quindi un linguaggio
interregionale che ritroviamo nell’attività mantovana, dove quegli aspetti di ispirazione classica, rigore
prospettico e geometrico e ripetizione modulare si concretizzano in una serie di opere.
Leon Battista Alberti, Veduta e pianta della Chiesa di San Sebastiano, 1460
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

È un’opera che Alberti realizza per i Gonzaga come mausoleo. Ha una funzione nella Mantova gonzaghesca
molto simile al tempio malatestiano nella Rimini dei Malatesta. Qui Alberti trova una soluzione di grande
originalità, infatti non viene immediatamente compresa dai committenti. Il modello della sagrestia vecchia
è brunelleschiano, ma qui si articola attraverso una pianta a vano centrale cubica, coperta da volta a
crociera ma con intorno tre bracci più corti rettangolari absidati e un altro vano rettangolare che si collega a
un atrio con cinque aperture.
L’ispirazione è data ai vari modelli antichi, come l’idea del frontone del tempio, elevato su un podio a cui si
accede attraverso uno scalone, prima più esteso e quindi copriva completamente la cripta che si trova al
livello più basso. La soluzione del podio aveva anche una funzione in relazione allo spazio sottostante, che
veniva risolto attraverso un modello antico. In realtà poi questa soluzione è stata manomessa ai principi del
Novecento quando sono state create le scale laterali e trasformate in aperture quelle che originalmente
erano due finestre. Le cause di ciò potrebbero essere che la zona era paludosa e quindi era possibile un
allagamento. La manomissione ha compromesso la percezione del valore all’antica di questa facciata, che
però è conservato nella parte arta, dove c’è una trabeazione che sorregge un timpano. I due elementi sono
spezzati dall’innesto al centro di un arco siriaco (su esempio tardo-antico), come l’arco romano di Orange.
Un’idea, una memoria dell’originaria facciata è ritenuta la rappresentazione di un tempio dedicato a San
Sebastiano sul verso di una medaglia coniata da un medaglista toscano.
Questi aspetti di manomissione, l’originalità troppo radicale del progetto lo rendono meno compiuto e
meno fortunato dell’altro grande cantiere mantovano:
Leon Battista Alberti, Veduta dell’interno della chiesa di Sant’Andrea, 1472

Assume nel contesto mantovano un valore di modello. L’osservatore/visitatore è inglobato in un sistema di


carattere prospettico e architettonico che è monumentale e ha un’estrema coerenza, a partire
dall’impianto a croce latina, con una navata unica, affiancata da cappelle rettangolari. C’è una
corrispondenza di tutti gli elementi, non solo della misura della pianta, ma anche dalle coperture: la navata
è coperta da una volta a botte con lacunari che si ripete nelle cappelle laterali, nel transetto, secondo il
principio di un modulo formulato che individua una parte e che poi si ritrova nel tutto, secondo un sistema
di proporzioni aureo.
Questo sistema che tiene insieme le parti e il tutto è poi fatto convergere verso il centro sotto la cupola che
aveva una funzione di attrazione verso il centro. La cupola è stato oggetto di un rifacimento da parte di
Filippo Juvarra nel Settecento, con delle proporzioni diverse, ma era strettamente legata a questo insieme,
in cui noi riusciamo a percepire la struttura architettonica attraverso la chiarezza delle nervature che
partono dall’elemento della lesena corinzia che regge la trabeazione su cui si innestano poi le coperture a
volta che rispetta un ordine gigante dimensione monumentale.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Nella formulazione di questo insieme che rispecchia le moderne conquiste prospettiche, Alberti si è basato
sul trattato vitruviano. I principi geometrici e prospettici, l’impianto modulare, il rapporto proporzionale
sono messi insieme a uno studio dell’antico e una fortissima ispirazione a testi e monumenti antichi (es.
Terme di Caracalla, Arco di Tito, Basilica di Massenzio). Il dettaglio delle decorazioni viene ripreso anche
nell’atrio, che media attraverso un ampio scalone il rapporto tra l’interno e la piazza e che ci porta a
considerare anche la facciata, in cui ritroviamo l’idea di fronte di tempio, ma anche l’idea di arco trionfale,
(arco di Giano, per le aperture sovrapposte). Le aperture accentuano lo slancio verso l’alto, sottolineato
anche da un secondo arcone (ombrellone), che serve a raggiungere in altezza la navata illuminandola.
Quest’illuminazione è un po’ tradita dalla cupola settecentesca, perché ai tempi di Alberti era meno
accecante e più equilibrata con la luce che entrava dalla facciata.
Durante gli anni ’70 muore Ludovico Gonzaga e gli succede il figlio Federico (poi Francesco II, i tre Gonzaga
presso cui Mantegna lavora come pittore di corte e consulente artistico). Mantegna decora spazi, oggetti, la
tavola del signore, consiglia acquisti di opere sia moderne che antiche, grazie alle sue competenze
antiquariali. Ha una ricchissima attività come incisore di invenzioni che vengono poi messe a stampa e che
si diffondono al di fuori di Mantova, anche se con una matrice mantovana evidente. Così Mantegna
scavalca le frontiere del secolo e dell’Italia.
In queste stampe si inseriscono anche temi di carattere antico e mitologico:
Andrea Mantegna, Baccanale con sileno

Nelle sue botteghe si affermano invenzioni e temi cari all’artista.


Andrea Mantegna, San Sebastiano, 1481
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Negli anni di Federico Gonzaga, Mantegna realizza un San Sebastiano come dono di nozze per il matrimonio
tra Chiara Gonzaga e Gilberto di Borbone. Questo San Sebastiano si offre a un confronto con un Sebastiano
più antico (opera padovana, 1459) che mostra lo stesso tema di Sebastiano rappresentato come eroe
classico, legato a una colonna, che è come una rovina di un monumento all’antica, corredato da una serie di
testimonianze all’intorno, ma gli stessi elementi mostrano in questo esito più maturo i traguardi dello
sviluppo del linguaggio dell’artista.
Nelle frecce del Sebastiano ‘59 che stanno martoriando il suo corpo c’è una crudezza, non solo nel trapasso
della testa, ma anche nell’ossessività di ciò. Invece nell’altro San Sebastiano c’è una maggiore compostezza.
Nel primo, i colori sono più carichi e crudi nella forza dei contrasti, nel secondo una luce più diffusa, che
schiarisce la tavolozza. Il punto di luce è più alto contributo pierfrancescano.
Nel primo, il disegno del contorno è più insistito e aspro; questo Sebastiano è contratto, non c’è ancora una
competenza di proporzioni e una solennità monumentali come nell’altro.
Il secondo Sebastiano ha una distensione e amplificazione più monumentale e le proporzioni sono più
regolari. Questo dà alla quinta architettonica oltre che alla figura il senso di tridimensionalità; la posa ha
acquisito un bilanciamento più classico. Il perizoma fa da massa intorno al bacino di San Sebastiano: il santo
sembra cresciuto anche anagraficamente rispetto a quello più antico. I dettagli rendono con esattezza
micrografica anche gli elementi in lontananza.
Andrea Mantegna, Cristo morto, 1475? - 83?

La datazione è controversa. Si è ipotizzato anche che il dipinto fosse stato realizzato dall’artista per la
propria cappella funebre. Di fatto è ancora nello studio di Mantegna alla sua morte.
La figura di Cristo è distesa su una lastra di marmo rosso e un cuscino. Cristo è in fortissimo scorcio
prospettico, abbreviato, ma anche dall’alto, come se lo spettatore fosse al cospetto di un cadavere sul
tavolo di un obitorio. Infatti, il modo in cui Mantegna rappresenta Cristo, i colori cadaverici, l’ostentazione
delle ferite sul costato, sulle mani e sui piedi, che vediamo dalle palme con il tessuto della pelle, ma anche
della carne, aperto, da cui non cola più il sangue perché il rigor mortis è arrivato a uno stadio tale per cui
non c’è neanche più flusso di sangue. Per ottenere questo risultato che coinvolge visivamente ed
emotivamente lo spettatore, Mantegna ha adottato un escamotage prospettico che non è squisitamente
albertiano o pierfrancescano, ma che gioca con punti di vista diversi e con una sorta di abbreviazione della
resa prospettica come in una fisarmonica, tanto che il corpo di Cristo è segmentato da cesure sequenziali
che rallentano la fuga nella profondità, in modo da non deformare il corpo di Cristo, come era accaduto in
esempi passati (putto nella Camera degli Sposi in piedi sulla balaustra; San Cristoforo trascinato nella
cappella Ovetari…). Altrimenti avremmo visto solo i piedi schiacciati contro il volto di Cristo. Invece alzando
il punto di vista dello spettatore e giocando tra l’orizzontalità con cui sono visti la Madonna e San Giovanni
Evangelista riusciamo a vedere il volto di Cristo in questo modo. La luce segue questa condotta prospettica,
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

evidenziando il costato e i dettagli del volto, con un effetto che porta lo spettatore ad andare verso la figura
di Cristo, con un coinvolgimento emozionale che deriva anche dal valore che questa immagine del cadavere
del Cristo sul tavolo dell’unzione ha come archetipo, nel senso che lo stesso Mantegna nel costruire
quest’immagine ha attinto a un’immagine archetipica che ognuno porta verso di sé dalla prima volta che un
uomo sta davanti a un corpo morto, visione che è entrata nella memoria collettiva come esperienza visiva e
psicologica, emotiva implicita.
Questo valore dell’immagine di Mantegna ha investito anche il problema espositivo, laddove l’esposizione
dell’opera d’arte è un aspetto della disciplina museografica che però tocca anche componenti di mise en
scene. Da questo punto di vista questo caso è diventato molto emblematico, perché è stato oggetto di un
allestimento da Ermanno Olmi, che ritenne di aver messo il dipinto nella disposizione voluta dall’artista:
all’altezza in cui il corpo si trovava, quindi molto in basso, mettendo il visitatore nella posizione di
osservarlo dall’alto, in un ambiente “affogato nel nero, nello spazio infinito, nell’assoluto”. Nonostante
questo, l’opera usciva dal continuum del percorso museografico dell’allestimento temporaneo.
Andrea Mantegna, Trionfo di Cesare, 1486-1506

È una rappresentazione in sequenza come per fotogrammi della processione del Trionfo di Cesare, che
Mantegna realizza per la corte di Mantova. Il soggetto del trionfo è antico e Mantegna lo restituisce con
l’acribia filologica che qui è arrivata a un livello tale, nella restituzione degli stendardi, degli elementi del
trionfo delle armature, per cui le scene sono tutte identificate a partire dagli oggetti che vengono portati
nel trionfo, che sono una sorta di repertorio dipinto di antichità, con i quali traguardiamo all’inizio del
nuovo secolo.

Il Quattrocento a Ferrara
Un’altra corte dell’Italia settentrionale in cui transitano anche scambi artistici è quella estense a Ferrara.
Questa corte prende un nuovo splendore culturale e artistico negli anni di Leonello d’Este (1441-1450),
fondatore dell’avventura umanistica della città. Sotto i suoi auspici fiorisce una scuola umanistica,
caratterizzata dal neoplatonismo e neoellenismo di Guarino Veronese, precettore di Leonello e figli, che lo
spinge a collezionare monete e antichità. Il gusto artistico di Leonello d’Este si indirizza però anche verso il
moderno, attirano presenze artistiche come Alberti, Jacopo Bellini, Pisanello, Piero della Francesca (1449),
Andrea Mantegna (1449), Roger van der Weyden (trittico). Il gusto degli Este si rivolge anche verso la
cultura d’oltralpe, acquistando arazzi, oreficerie, codici miniati. La passione per la miniatura arricchisce
preziosi codici che alimentano una ricchissima biblioteca.
Questa attenzione alla cultura d’oltralpe porta anche a un perdurare dell’apprezzamento per l’arte
tardogotica, perché a Ferrara permane il fascino della cultura cortigiana e cavalleresca, in tutte le
manifestazioni, nelle celebrazioni, nella letteratura (apprezzamento per i romanzi cavallereschi) come
genere di evasione e svago aristocratico).
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Gli Estensi si impegnano negli anni a rinforzare il proprio casato e a difenderlo dalle mire della Chiesa che
vorrebbe reclamarlo.
Pisanello, Ritratto di Leonello d’Este

Ritratto di profilo, come da tradizione numismatica. Gli elementi ornamentali dei fiori o del prezioso abito
con borchie e la fisionomia (testa bombata) è gotica. Si apprezza però l’attenzione ai dettagli e la capacità di
rendere per esempio i capelli uno per uno e la delicatezza dell’epidermide.
Agli anni di Leonello, seguono quelli di Borso d’Este, duca di Ferrara dal 1450 al 1471. Porta avanti molte
imprese avviate da Leonello, con la finalità di propaganda e celebrazione del proprio potere attraverso le
arti.
La Bibbia di Borso d’Este è una di queste imprese nel campo della miniatura dei codici. Sono attivi diversi
maestri che aggiornano il proprio linguaggio sulle novità prospettiche all’interno del vocabolario
ornamentale molto prezioso e connotato da segnali del potere dell’Este: es. l’aquila estense.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Lo Studiolo di Belfiore è una delle sedi del potere, dove lo svago aristocratico era espressione del potere e
del gusto della corte. All’interno della Delizia di Belfiore viene allestito uno studiolo sul tema delle muse,
allegorie che tutelano le arti. All’interno di questo studiolo vengono realizzati una serie di dipinti attraverso
i quali vediamo crescere una lingua che assorbe le novità prospettiche dalla Padova di Donatello,
Squarcione e Mantegna e dalla Urbino di Piero della Francesca, dalla Mantova di Mantegna più evoluto, che
approdano però alla definizione di una lingua di identità ferrarese.
Michele Pannonio, Talia, 1456

C’è un’accelerazione prospettica, ma anche un disegno e dei colori aspri e taglienti di scuola Squarcionesca.
Pittore dello studiolo, La musa Polimnia, 1458-60

La figura è in primo piano contro un orizzonte luminoso dove leggiamo un accrescimento pierfrancescano.
Cosmè Tura, Calliope, 1458-63
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Cosmè Tura è considerato il capostipite dell’officina ferrarese.


La figura in primo piano si prospetta con una monumentalità e con una resa sicura dei piani prospettici. è
ruotata, a segnare gli spazi, anche con un dinamismo interno, che deriva dagli insegnamenti di Donatello
degli anni di un apprendistato padovano di Tura. Il contorno è anche più tagliente e con degli effetti che
sbalzano la materia, dando un effetto metallico. C’è un gusto prezioso di corte nel modo in cui viene
sbalzato non solo il panneggio della figura, il ricamo prezioso della manica, l’architettura del trono con i
delfini dorati che lo ornano, in cui sono incastonate pietre preziose.
Lo stesso estro bizzarro e fantastico lo troviamo in
Cosmè Tura, Pietà, 1460

È una declinazione patetica della pietà, dove Tura si ispira a un modello nordico del Vesperbildt. La
Madonna sostiene sulle ginocchia un Cristo contratto, sedendo su un sarcofago all’antica ornato di
bassorilievi con caratteri dalla complessa simbologia.
Così è concepita anche la montagna sullo sfondo che cresce come una sorta di spirale con delle rocce
stalagmitiche, che sono mantegnesche, ma con un’accelerazione ancora più fantastica.
Cosmè Tura, Annunciazione
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

È dipinta sulle pareti esterne dell’organo del duomo di Ferrara. Si coglie l’importanza dell’ambientazione
monumentale, all’interno della duplice arcata con volta a botte cassettonata e scorciata dal basso verso
l’alto a lacunari, che rimanda agli impianti donatelliani, ma anche ripresi da Mantegna nella cappella
Ovetari e con rimandi alla Chiesa di Sant’Andrea.
L’idea all’antica è anche nei bassorilievi con figure astrologiche, i pianeti, che sviluppano con una sintassi
all’antica un tema medievale (quello astrologico). In questa ambientazione sono accolte queste due statue
monumentali: angelo e annunciata. L’annunciazione è suggerita attraverso l’udito dalla colomba che
“spiffera” nell’orecchio di Maria.
Cosmè Tura, San Giorgio e la principessa, 1469

Il tema medievale è concepito in termini moderni, dando monumentalità alle figure in primo piano, rese
come statue, sbalzate dal segno duro e aspro che esprime il rovello formale con un’esagerazione delle
espressioni, bloccandole in un dinamismo esasperato.
Lo sfondo della montagna ricorda il martirio di San Giacomo nella cappella Ovetari.
La storia di Cosmè Tura continua negli anni Settanta.
Cosmè Tura, Polittico Roverella
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Nella chiesa di San Giorgio. Il tema centrale è quello della Madonna con Bambino in trono, che riprende la
tipologia pierfrancescana. Con colori squillanti e un bizzarro e fantasioso decoro che mette insieme
elementi diversi dalla simbologia molto diversa anche legata al committente vescovo Roverella, attento al
rapporto con la Chiesa d’Oriente, all’interno di una concezione prospettica unificata, in cui c’è anche l’idea
della doppia arcata, ripresa nella scena della Deposizione in alto (rimando albertiano).
Ferrara, Palazzo Schifanoia, Salone dei mesi, 1467-70

Il complesso è una sintesi dell’officina ferrarese, sotto la regia di Cosmè Tura, ma eseguito da Francesco del
Cossa e Ercole de Roberti. Interessa tutte e quattro le pareti della stanza. Sviluppa su 12 riquadri una
complessa iconografia astrologica legata ai mesi dell’anno. In ogni riquadro, il singolo mese è scandito su
tre livelli: uno di carattere mitologico, con l’allegoria della divinità che è il nume tutelare del mese, che
arriva su un carro al centro, affiancata dalle attività connesse a quel mese; uno con figure allegoriche che
vengono anche dall’astrologia medievale, i decani, i segni zodiacali (temi sospesi tra scienza antica e
moderna); l’ultimo rappresenta scene della vita di corte legate a quel mese, con un’ambientazione nel
quotidiano.
Francesco del Cossa è un artista che a partire dall’insegnamento di Tura, ma anche con il viaggio in Toscana
e i rapporti con Piero, adotta una disciplina prospettica e del colore luminoso con forme più composte e un
estro meno deformante ed esasperato di quello di Tura. Si trasferisce da Ferrara a Bologna, legando le due
corti.
Francesco del Cossa, Pala dell’Osservanza

Dialoga con l’Annunciazione di Tura. L’angelo è di scorcio e la prospettiva prosegue al di là dell’arcata in


primo piano, con rapporto più diretto con Piero della Francesca.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Francesco del Cossa, Polittico Griffoni, prima 1473

È un complesso con al centro la figura monumentale di San Vincenzo Ferrer, affiancato da San Pietro e San
Giovanni Battista. In alto, altri comparti con la scena della Crocifissione, dell’Annunciazione e le figure di
San Floriano e di Santa Lucia, concepita con fondo oro, ma in forte scorcio prospettico: San Floriano poggia
il piede sul davanzale dall’alto. Il linguaggio è fortemente controllato dal punto di vista prospettico, molto
più pierfrancescano.
Ercole de’ Roberti, Settembre, 1469

Nel Salone dei mesi. Ercole si mostra molto più vicino allo stile di Cosmè Tura per l’asprezza formale, la
materia spigolosa, che rende anche i panneggi rigidi e scheggiati, con un’esasperazione espressiva che
caratterizza uomini e animali. Marte e Venere sono nel letto, con un lenzuolo roccioso.
Ercole de’ Roberti, Scene della vita di san Vincenzo Ferrer
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Si avvicina allo stile di del Cossa. È la predella del Polittico Griffoni. Addolcisce e rende più limpido dal punto
di vista prospettico il suo linguaggio.
Ercole de Roberti, Pala di San Lazzaro

La soluzione è sul modello di Piero della Francesca. La pala d’altare è aperta verso il paesaggio, visto grazie
al rialzo del trono attraverso il diaframma del trono e dell’arcata che lo accoglie.
Ercole de’ Roberti, Maddalena urlante, 1477-90

Si trasferisce a Bologna, dove dialoga anche con la presenza di Niccolò dell’Arca, scultore celeberrimo per la
realizzazione di complessi scultorei che riprendono le scene dalle sacre rappresentazioni (Compianto sul
Cristo morto, 1463-90, drammatizzazione esasperata, teatrale).
19/11/2021

Il Quattrocento in Italia meridionale


Nel momento del passaggio dalla dinastia angioina a quella aragonese, il Sud Italia è un crocevia di un flusso
di cultura policentrica, che si svolge lungo le rotte mediterranee dei traffici marittimi e commerciali.
Ferdinando Bologna è il punto di riferimento della produzione artistica rinascimentale al Sud Italia. La
vivacità degli scambi è assicurata dalla circolazione delle opere, che viaggiano attraverso i canali del
collezionismo artistico, ma sono anche strettamente collegate ai traffici commerciali in generale, non di
meno attraverso i doni diplomatici che suggellano delle alleanze politiche.
Non viaggiano solo le opere, ma anche gli artisti. Spesso i confronti stilistici aiutano ad individuare questi
spostamenti, perché le opere d’arte sono anche documento visivo.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

In questo circuito entrano in comunicazione il mondo mediterraneo, al quale la penisola appartiene, e


quello nordeuropeo dove circolava la cultura fiamminga. Quindi un’altra definizione utile è il formarsi di
un’asse nord-sud, che mette in comunicazione queste due culture.
Napoli diventa un melting pot di esperienze in questi anni e precocemente rispetto ad altre zone della
penisola.
Pittore della fine del Quattrocento, Veduta della città di Napoli dal mare (cosiddetta Tavola Strozzi), 1472

È un dipinto celeberrimo, ma che presenta ancora diversi punti interrogativi, perché il soggetto (città), con
una flotta, potrebbe riprodurre un evento reale: rientro della flotta aragonese dopo la vittoria su Giovanni
d’Angiò; oppure potrebbe essere una rappresentazione dell’idea di città che gli aragonesi stavano
costruendo per Napoli e quindi ci potrebbe essere una traccia dei progetti di ristrutturazione della cinta
difensiva. Anche l’autore non è ancora stato riconosciuto, anche se sono state avanzate tantissime
proposte che sottolineano la forte connotazione prospettica della veduta, perché spesso vengono indicati
autori toscani (come Francesco di Giorgio Martini).
È una veduta di forte carattere prospettico, con un punto di vista dal mare, ma costruita in maniera fittizia,
perché il punto di vista scelto punta a una restituzione aerea della città, che invece è probabilmente stata
costruita a tavolino. La ricostruzione è realizzata mettendo insieme in realtà diversi punti di vista e questo è
quello che si verifica con altre prospettive aeree che si incontra nelle vedute aeree dipinte in questi anni.
È interessante l’insistenza sul sistema difensivo, a partire dal mare: schieramento della flotta connotata
dagli stendardi aragonesi. È da qui che gli aragonesi ripensano la difesa della città attraverso le mura, ma
anche costruendo una rete di castelli che gli aragonesi ristrutturano e potenziano anche rispetto ai nuovi
strumenti difensivi.
Vediamo Castel dell’Ovo, l’avamposto in mezzo al mare della Torre di San Vincenzo, Castelnuovo e altri
castelli. Sulla collina si nota la mole di Castel Sant’Elmo, ai piedi del quale si trova la Certosa di San Martino.
La veduta mette anche l’accento sulle varie chiese che sono luogo della produzione artistica in età
aragonese (Santa Chiara, San Domenico, San Lorenzo, duomo…) con un’espansione della città verso destra
dove si trova l’insediamento della Neapolis romana.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

L’Italia meridionale vive in questi anni la successione non pacifica dal dominio angioino a quello aragonese,
che si afferma per tutta la metà del secolo. La successione è quello dal regno di Giovanna II d’Angiò
Durazzo, che deve difendere continuamente il proprio regno da continui attacchi, compresi quelli del papa
Martino V, per difendersi dal quale trova aiuto da Alfonso d’Aragona, che Giovanna nomina erede. Alfonso
poi tende a prendere il sopravvento, così Giovanna rescinde l’eredità a beneficio di Alfonso e nomina
Renato d’Angiò (figlio di Luigi).
La situazione che Giovanna lascia è abbastanza confusa, ma alla sua morte l’erede legittimo sembra essere
Renato, che scende a Napoli e vi soggiorna per alcuni anni. Ma nel frattempo, Alfonso torna a rivendicare il
regno con notevole veemenza, tanto da prendere con la forza il Regno di Napoli nel 1443. Alfonso riunifica
il Regno di Napoli con la confederazione aragonese, di cui facevano parte i regni in rosa.
Il successore di Alfonso sarà Ferrante I d’Aragona, poi Alfondo II che abdica frettolosamente in favore del
nipote, che deve subire la discesa di Carlo VIII di Francia, che riesce però a contrastare. Muore però
prematuramente nominando erede lo zio Federico che però dovrà cedere il passo all’arrivo degli spagnoli
castigliani. Da quel momento in poi Napoli e Sicilia cessano di essere indipendenti e diventano viceregno
spagnolo.
Gli anni di Re Renato d’Angiò determinano anche dal punto di vista degli orientamenti culturali una prima
svolta in direzione fiamminga borgognona, rappresentata da Barthélemy d’Eyck. Nel suo Trittico
dell’Annunciazione tra i profeti Isaia e Geremia (1443-45) è evidente la componente borgognona, ma anche
l’aggiornamento sulle novità fiorentine.
Alfonso d’Aragona (1443) non devia da questa linea fiamminga, anzi la sostiene inserendovi anche però un
dato più specificamente iberico. Apre anche l’Italia meridionale ai rapporti con gli altri stati italiani e con le
diverse lingue rinascimentali. Viene detto il “Magnanimo” perché è un mecenate artistico, ma anche
interessato all’orizzonte umanistico. Tra i tanti momenti significativi c’è la chiamata dell’umanista Antonio
Beccadelli, che forma un’Accademia letteraria poi detta “Pontaniana” da Giovanni Pontano. Alfonso
colleziona anche molte opere, fiamminghe, francescane e di antiquaria (acquista monete antiche e si fa
realizzare una serie di medaglie all’antica, questo spiega la presenza di Pisanello a Napoli).
Pisanello, Medaglia di Alfonso V d’Aragona, 1448

L’elmo rimanda alle sue virtù militari, ma c’è anche un libro, perché Alfonso costruisce una ricchissima
biblioteca di codici antichi e moderni, per il quale fa produrre anche importanti miniature.
Come per i Gonzaga, la sede del potere è uno dei luoghi che per primi vengono ristrutturati e ripensati in
termini rinascimentali. In basso a destra la mole di Castelnuovo si staglia, evidenziando la figura più antica
del Maschio angioino, una tipica struttura militare ristrutturata in età aragonese con l’inserimento delle
torri in piperno (pietra molto dura grigia) che si incontra con il tufo (giallo) delle pareti.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Il re riuniva l’aristocrazia della sua corte nella Sala dei Baroni in Castelnuovo, realizzata da Guillen Sagrera
(molto vicina allo stile maiorchino), in cui si inserisce anche l’elemento del marmo (più rinascimentale),
utilizzato anche per una delle opere simbolo del rinascimento aragonese, cioè l’Arco trionfale, che riprende
il modello degli archi imperiali e in questo denuncia una consapevole rievocazione dei modelli antichi.
Questo impianto è anche decorato con dei rilievi che rimandano a quelli degli archi trionfali, con la
celebrazione dell’ingresso di Alfonso a Napoli. La forma all’antica viene utilizzata per rappresentare un
episodio di storia contemporanea: l’antico viene utilizzato per affermare l’autorità e la nobiltà della casa
regnante. Questa struttura si sviluppa verticalmente tra le due torri che si rivolgono verso la città, con un
impianto molto complesso e originale, dove si inseriscono anche putti che reggono ghirlande, iscrizioni
all’antica e nella parte alta le edicole con le Virtù e le divinità pluviali. In alto troviamo la figura di San
Michele arcangelo. Sposa quindi anche elementi medievali. Partecipa Francesco Laurana, Paolo Taccone,
Pietro da Milano, Isaia da Pisa, Pere Joan (borgognone)… ispirati a Donatello, Leon Battista Alberti, i
fiamminghi…

Un’altra opera emblematica di questi scambi e stratificazioni culturali che si verificano in questo breve
scatto di tempo (anni Quaranta del Quattrocento) è la “cona” per la chiesa francescana, di San Lorenzo
Maggiore commissionata da Alfonso. È un’opera che viene condotta in un arco di un paio d’anni.
Colantonio è un artista importante che viene ricordato nelle fonti per essere maestro di Antonello da
Messina.
Colantonio, San Girolamo nello studio, 1444-46

Sono tavole staccate che componevano un complesso con pilastrini laterali in cui erano rappresentati santi
francescani. La parte ritenuta più antica è quella che rappresenta San Girolamo nel suo studio: rappresenta
i frati francescani. L’artista lo coglie seduto nel proprio studio mentre toglie la spina dal piede al leone
accucciato davanti a lui come un grande cagnone. La scena è ambientata in genere nel deserto, mentre qui
no, segnale di una volontà di ambientazione umanistica del santo. All’interno del proprio studiolo,
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l’iscrizione d’ambiente e l’organizzazione dello spazio rimandano al periodo angioino, infatti Alfonso era
appena arrivato, e a Barthélemy d’Eyck, per la resa del volume, ma anche Robert Campin e Claus Sluter. La
luce è fiamminga e perlustra, rendendo per esempio il riflesso di una finestra sull’ampolla, i diversi
materiali, l’accartocciarsi delle lettere spiegate, dei fogli arrotolati e delle pagine dei libri. La capacità del
pittore è anche quella di rendere la diversa sostanza della carta.
Colantonio, San Francesco consegna la regola

Sembra registrare un aggiornamento sulla cultura vaneyckiana con un innesto iberico: per esempio la
fisionomia degli angeli con le ali nere con l’interno dorato, ma anche la solidità dei santi francescani che
hanno questi sai con pieghe a cannule, che creano un effetto più scultoreo. Il confronto con Barthélemy
d’Eyck è molto forte, anche nella luce, chiara e provenzale, che bagna i volti e le vesti di frati e clarisse (vedi
anche Incoronazione della Vergine, di Jean Fouquet)
Colantonio, Santi e beati francescani

Sui pilastri laterali.


Alfonso aveva conosciuto Jan van Eyck ed era rimasto talmente folgorato dalla sua opera da mandare i
propri artisti catalani a formarsi nella sua bottega. Acquista il Trittico Lomellini di Jan van Eyck, i cui angeli
ricordano quelli di Colantonio.
Altra presenza fiamminga importante è quella di van der Weyden, a cui Alfonso acquista gli arazzi con le
Storie della Passione. Anch’essi dialogano bene con l’opera di Colantonio.
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A queste componenti fiamminghe, prima borgognone (d’Eyck, Fouquet), poi propriamente fiamminghe
(van Eyck, van der Weyden), va però aggiunto un argomento più peculiare dell’ambiente catalano che
troviamo confrontando il dipinto di Colantonio con quello di Louis Dalmau, un pittore di Alfonso che va a
studiare da van Eyck.
Louis Dalmau, Madonna dei consiglieri, 1445

Usa la luce fiamminga nelle figure, sul paesaggio, sugli elementi preziosi, con un’accentuazione iberica, per
esempio nella moda, nell’attenzione ai volti… Un altro elemento in comune con Colantonio è il pavimento,
ribaltato e caratterizzato dalle insegne aragonesi, che ci rimandano all’arrivo nel ’46 di moltissime
mattonelle da Valencia per coprire il pavimento della Sala dei Baroni, con decori bianchi e blu e lo stemma
della casa aragonese.
Colantonio ha uno stile iberico catalano anche per la caratterizzazione dei volti che troviamo in Dalmau, ma
anche in Jaime Baço (valenciano). Le sue opere sono caratterizzate da volti marcati e triangolari, che
ritroviamo nell’opera di Colantonio. Un altro dato flandro-iberico è il trattamento dell’oro di fondo, con un
decoro che ritroviamo nelle opere di scuola valenziana.
L’arrivo di Alfonso determina anche una serie di accordi con gli altri centri del rinascimento italiano.
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Intorno alla metà del Quattrocento, si possono distinguere cinque stati maggiori e diversi principati, legati
tra loro da rapporti politici e commerciali, ma anche matrimoniali che favoriscono gli scambi culturali e
l’interazione tra i vari linguaggi. Questo è un momento in cui si comincia a diffondere anche una formula
che diventa sempre più trasversale a queste realtà geopolitiche strada facendo, contraddistinto dal
pierfrancescanesimo.
Il Regno di Napoli è il più esteso e la sua forza si appoggia anche alla confederazione aragonese, quindi
Alfonso ha un ruolo di primo piano, regge con i propri accordi diplomatici le sorti della penisola ed è ago
della bilancia molto prima di Lorenzo il Magnifico.
Una prima rete di rapporti lega Napoli a Ferrara: ci sono continui matrimoni tra le principesse aragonesi e i
duchi di Ferrara, come quello tra Lionello d’Este e Maria d’Aragona. Questa alleanza porta presenze
ferraresi a Napoli (es. Pisanello), ma anche un’attenzione per i costumi iberici alla corte ferrarese e
influenze iberiche nella scuola ferrarese, anche nell’architettura.

L’alleanza con Urbino invece inizia con Alfonso Federico da Montefeltro in funzione antimalatestiana
soggiorno di Piero a Napoli e diffusione del pierfrancescanesimo che influenza Colantonio, Francesco
Laurana e Antonello da Messina.

Isabella d’Aragona andrà sposa a Galeazzo Maria Sforza a sugellare i rapporti tra Napoli e Milano.
Alfonso tiene a sancire anche rapporti con il vicino di casa scomodo, cioè il papa, grazie agli accordi con Pio
II Piccolomini. I rapporti con Roma determinano il muoversi di Piero tra le due città in questi anni.
Dentro questa rete di rapporti si compie anche la formazione di Antonello da Messina, allievo di
Colantonio, infatti in un’opera mostra di avvicinarsi alle componenti decodificate nell’opera di Colantonio
(fiamminga, iberica, borgognona), per esempio il fondo consonato, la sagoma solida, la fisionomia allungata
dei visi, che oltre ad essere molto appuntiti hanno occhi piccoli e vicini e nasi lunghi.
Antonello da Messina, Vergine annunciata, 1452
Rispetto a Colantonio però, Antonello coglie di più l’aggiornamento vaneyckiano iberico portato da Alfonso
a Napoli, per la qualità della luce capace di rendere la consistenza tattile dei materiali (velo, qualità
epidermica, la lucentezza dell’occhio) e il passaggio dal pallore del volto al bianco del velo. Il linguaggio di
Antonello mostra già una predisposizione per la resa dello spazio e del volume: l’idea di mettere la figura di
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tre quarti e non frontale, come se fosse dietro a questo rotolo del cartiglio con forma ancora gotica, ma che
gira intorno e ha una consistenza più corposa.
Questa promessa di forma matura successivamente sempre in un accrescimento sia in direzione fiamminga
che prospettica italiana.
Antonello da Messina, Madonna “Salting” con Bambino, 1460

L’artista mostra già una maturazione e un superamento della fase più strettamente fiamminga in direzione
di una forma più italiana pierfrancescana, nell’idea per esempio di serrare le figure in una volumetria
geometrica, anche nella pulizia delle forme: es. ovale del volto della Vergine. Su questa volumetria, la luce
gira con una capacità costruttiva: è una luce che è più vicina a Piero della Francesca, e lustra (fiamminga).
Le gemme della corona sono lucenti, le ali degli angeli sono come delle lamine d’oro appuntate sulla veste
con uno spillone. La luce gira anche all’interno del metallo della corona e scivola con una qualità diversa sul
velo della Madonna che ha una leggerezza quasi di toulle e rileva la qualità del velluto della veste con
disegni ricamati in raso d’oro. La capacità di restituzione epidermica deriva dal fatto che Antonello è uno
dei primi italiani ad utilizzare con grande competenza la pittura ad olio, probabilmente ha appreso questa
tecnica direttamente dai fiamminghi.
Lo stesso Antonello, tornato dalla Provenza, compie altri viaggi in Italia, prima centrale, poi anche a
Venezia. Una prova di questi suoi viaggi e quindi accrescimenti di competenze e di linguaggio può essere il
Antonello da Messina, Cristo benedicente, 1465 e ripresa nel 1473
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In una prima versione la veste era più accollata e la mano rivolta verso l’alto. Anche prima del ’73 era
un’opera più provenzale, con luce diffusa e tenera nei colori. L’elemento del davanzale è fiammingo, con il
cartiglio spiegato sotto gli occhi dello spettatore. Rispetto alla Madonna Salting, la figura sta perfettamente
nello spazio, cosa accentuata nella versione successiva.
La mano appoggiata al davanzale sonda lo spazio in maniera diversa. La volontà di resa dello spazio e della
forma è più matura e l’uso della luce è più naturale e rileva dito per dito le mani in due condizioni di luce
diverse. Questo studio della luce viene spesso realizzato dagli artisti anche replicando uno stesso modello,
come per il tema di:
Antonello da Messina, Ecce Homo, 1470

C’è una semplificazione della forma dove c’è uno stesso modulo, ovoide allungato che segna il girare della
corda intorno al collo, ma anche la curva delle spalle, del volto e la bocca all’ingiù, un’idea geometrizzata,
ma inverata dalla luce, che dà una botta sulla spalla in evidenza, poi va in ombra nella parte più arretrata e
segna i giri della corda.
Antonello da Messina, Vergine leggente, 1473

Questo modello colpisce ancora di più nella versione di Piacenza, dove la figura ha un ingombro anche nel
modo in cui è colta dietro la soglia con il cartiglio in primo piano, dialoga con lo spettatore. È avvolta in
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questo manto azzurro sotto l’ombra del quale si inscrive l’ovoide perfetto del volto e l’intreccio delle mani,
il tutto dietro una soglia che è il leggio della madonna, su cui stanno appoggiati un libro chiuso e uno
aperto. Utilizza i mezzi del linguaggio pierfrancescano e l’illusionismo fiammingo.
Sarà apprezzatissimo anche come ritrattista e importante per lo sviluppo del genere. La posa di tre quarti
consente di collocare la figura rivolta verso lo spettatore e di sondare meglio lo spazio
Antonello da Messina, Ritratto d’uomo, 1475

Antonello colloca così la figura come un solido diagonale nello spazio. La capacità di restituzione dei dettagli
deriva dalla cultura fiamminga
Petrus Christus, Ritratto d’uomo

Anche questo è di ¾ su fondo nero e connotati con elementi della moda del tempo come il cappello frigio e
la veste abbottonata da cui fuoriesce il colletto della camicia. La resa del dettaglio fiammingo restituisce la
verità del volto (occhiaie, capelli, occhi).
Ma non ha lo stesso senso di immanenza che Antonello raggiunge anche grazie alla forma italiana.
Restituisce la forma della testa, non solo la pelle. La intuiamo nella struttura ossea del volto
23/11/2021

Venezia dal Tardo gotico al Rinascimento «umbratile»


Nella laguna veneta, durante i primi decenni del Quattrocento permane la cultura del tardogotico (che è in
realtà un linguaggio molto radicato a Venezia che costituisce una forma di aggiornamento rispetto alla
tradizione bizantina), in un momento in cui a Venezia anche di fronte all’avanzata turca nei primi anni del
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Quattrocento inizia un fenomeno di espansione e di consolidamento dei territori della terraferma che sarà
elemento guida nel corso del secolo successivo.
L’assetto politico della Serenissima repubblica è un governo repubblicano ma di estrazione di base
aristocratica e oligarchica.
A Venezia, che gradualmente si proietta verso l’occidente, il gotico internazionale presenta una forma di
distacco dalla tradizione bizantina verso un linguaggio più europeo, occidentale. In questo modo tra fine
Trecento e primo Quattrocento, il gotico internazionale assume anche nell'architettura veneziana e negli
interventi di ristrutturazione di palazzi pubblici o privati cittadini, il ruolo di linguaggio identitario della città.
In questi anni Venezia inizia una strategia consapevole di propaganda visiva del proprio mito, della
Serenissima repubblica che sorge in questo contesto naturale di straordinaria bellezza e che assicura anche
i valori della pace, della giustizia e che vengono celebrati attraverso una propaganda per immagini che
riguardano il linguaggio del gotico internazionale, soprattutto nella decorazione dei palazzi che si affacciano
sulla laguna, a cominciare dalla sede del potere.
Venezia, Palazzo Ducale, facciata verso la laguna, 1340; proseguimento verso la piazzetta, 1422.

Si affaccia sulla laguna. Era già stato decorato circa a metà del Trecento con un linguaggio tardogotico; il
suo proseguimento della facciata verso la piazzetta viene introdotto su modello della facciata preesistente,
continuando le caratteristiche proprie del gotico veneziano.
Le pareti colorate, di delicati colori, il traforo marmoreo è condotto come le trine di un merletto, con archi
intrecciati e motivi polilobati (motivo dell’arco acuto del portico viene ripreso nella loggia da elementi
binati che corrispondono all’arco sottostante, con questi trafori). Il coronamento a merlature ha un effetto
come di trascolorazione dei riflessi dell’edificio tra mare e cielo, condotti con grande leggerezza, fino a
smaterializzare l’elemento architettonico e a trasferirlo su un registro di decorazione leggera e raffinata.
Filippo Brunelleschi, Loggia dell’ospedale degli Innocenti, 1419

Le due esperienze contemporanee sono diametralmente opposte: la ricchezza, il gusto aristocratico, la


smaterializzazione dall'elemento architettonico appena notati nella decorazione di Palazzo Ducale
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contrastano con i principi geometrici del linguaggio rinascimentale, dove gli archi del portico a tutto sesto
scandiscono un ordine dello spazio che anche nella decorazione è caratterizzato dalla sobrietà e dalla
linearità del disegno, delle nervature in pietra serena su fondo bianco.
Giovanni e Bartolomeo Bon, Porta della Carta, 1438-42

Sul versante della scultura, un esempio della cultura tardo gotica è l’opera che Giovanni e Bartolomeo Bon
(padre e figlio) nel vano di passaggio tra il Palazzo Ducale la basilica di san Marco, realizzando questo
portale detto “porta della carta”, dove vediamo le sculture del Doge Francesco Foscari inginocchiato
davanti al leone di San Rocco (iconografia: doge eletto si mette a servizio della repubblica ruolo
funzionale del Doge rispetto all’autorità dello stato).
La scultura è di grandi dimensioni ma strettamente legata alla decorazione architettonica, (diversa dalla
statua individuale del Gattamelata che quasi contemporaneamente Donatello andava realizzando sul
sagrato del santo a Padova).
Completano la decorazione le edicole con le statue delle virtù di origine medioevale, all’interno di un
disegno caratterizzato dalla grande finestra (trifora ad archi intrecciati) al centro e i due elementi a guglia
con forte verticalismo, pinnacoli e decorazioni in tipico stile fiorito.
Dal punto di vista della pittura, tra il 1409 e il 1414 alla decorazione interna dell’appartamento ducale
contribuiscono diversi artisti quali Michelino da Besozzo, Pisanello, Gentile da Fabriano. Quest'ultimo è
colui che ha più influenza sui pittori locali (realizza nel Palazzo Ducale un ciclo ad affresco perduto, così
come altre opere per altari delle chiese cittadine ecc..). Di questo soggiorno non ci rimane quasi nulla.
Gentile da Fabriano, polittico di Valle Romita, 1410
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Realizzato a Milano negli stessi anni, è un esempio del linguaggio di Gentile da Fabriano a queste date. Il
linguaggio si caratterizza anche per la ricchezza delle cornici (parte integrante della logica del polittico)
entro le quali sono iscritti questi polittici.
Le colonnine esile tortili sorreggono gli archetti acuti decorati all'interno con motivi polilobati all’esterno
con motivi fiammeggianti. Ci sono elementi verticali che terminano al di sopra delle parti dipinte con delle
cuspidi e in corrispondenza delle colonnette con pinnacoli molto alti ornati da elementi fiammeggianti o
fioriti.
In pittura questa ricchezza (che troviamo anche nelle trine marmoree di Palazzo Ducale) si impreziosisce
dell'elemento dell’oro.
Gentile da Fabriano, Incoronazione della Vergine, 1410

La ricchezza dei tessuti e degli ori si sposa con l'inclinazione al lusso dell'aristocrazia veneziana, così come le
pieghe dal ritmo fluente e sinuoso.
Le figure sono anch’esse sinuose e senza peso, seguono cadenze decorative come steli che salgono dal
terreno senza la gravità che stavano contemporaneamente sperimentando i pittori fiorentini.
I colori sono molto accesi, talvolta accordati con grande raffinatezza → gusto ancora legato al gusto del
gotico, è comunque aggiornato rispetto alle rigidità della tradizione bizantina esempio di icona bizantina. Le
linee seguono schematismi rigidi, angolosi. Anche la distribuzione dei colori e delle luci è caratterizzata da
separatezza, non c’è capacità di fusione e modulazione.
Per accedere a un linguaggio più moderno bisogna aspettare la contaminazione graduale con lo stile
fiorentino, grazie a contatti toscani e con Padova che fa da testa di ponte in Veneto di questa cultura
rinascimentale. Il passaggio non è brusco e immediato ma graduale, prevede dunque una prima fase di
compromesso tra la fase di gotico internazionale e alcuni aggiornamenti di senso prospettico che vengono
etichettati come Rinascimento “umbratile”.
Il percorso dal tardo gotico, al rinascimento umbratile, al pieno rinascimento avviene attraverso l’attività di
due botteghe che a partire dagli anni ‘40 tengono campo in laguna che si riuniscono intorno a:
- i Vivarini: attraverso l'attività di Antonio e Giovanni d’Alemagna (cognato), matura e prosegue la
tradizione di famiglia anche attraverso l’attività di Bartolomeo (fratello), e Alvise (figlio).
- i Bellini: Capostipite Jacopo, padre dei due fratelli Gentile e Giovanni Bellini.
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Di Antonio Vivarini e Giovanni d’Alemagna ne avevamo già parlato prendendo in analisi il polittico nella
cappella di san Tarasio del 1443, a Venezia nella chiesa di san Zacaria, che mostra ancora un impianto
tradizionale con una ricchissima cornice che contiene parti scultoree e dipinti, con un tripudio di
decorazioni fiorite e fiammeggianti.

Per Antonio e Giovanni l’attività nella cappella consente un contatto con una presenza fiorentina
importante a Venezia, quella di Andrea del Castagno che nel ‘42 decora la volta della cappella di san
Tarasio; al di sopra di questo pastoso polittico tardo gotico Andrea del Castagno dipinge negli spicchi della
volta quelle figure di santi come statue assise sulle nuvole che fanno da piedistallo (viste a confronto con i
santi di Mantegna nella cappella Ovetari).
Andrea del Castagno, San Giovanni Evangelista; San Giovanni Battista, 1442

San Giovanni Evangelista è rappresentato con l'aquila, il vangelo sotto braccio, ma anziano come nel
momento in cui ha la visione dell’apocalisse (mentre quando viene rappresentato sotto la croce in genere è
un giovane).
San Giovanni Battista è rappresentato come l’eremita con la pelle di cammello sopra la quale veste un
mantello solido quasi roccioso, che porta il rotolo con la profezia. Sono collocati di scorcio dal basso verso
l’alto, con le rispettive aureole rappresentate come copricapi di scorcio.
Negli stessi anni realizza anche uno dei mosaici per la basilica di San Marco, nella zona del transetto dove
imposta contro il fondo oro del mosaico delle architetture di disegno rinascimentale e impostate e costruite
prospetticamente, che danno ordine alle figure delle due scene della Visitazione e la Morte della Vergine.
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Antonio Vivarini e Giovanni d’Alemagna, Madonna con il bambino in trono e quattro padri della chiesa,
1446

Di fronte a queste novità, mentre maturano i rapporti anche con Padova grazie al legame che Giovanni
d’Alemagna ha con la città (di cui ha anche assunto la cittadinanza), i due cognati e soci in affari
progrediscono verso un modello di sacra conversazione, per la Sala dell’Albergo per la Scuola Grande della
Carità.
La decorazione del trono e del baldacchino della Vergine, così come la delicatezza degli incarnati, ha ancora
un sapore tardo gotico, ma l’unificazione dello spazio, attraverso la pedana, il recinto marmoreo e giardino
retrostante mostra un aggiornamento in direzione prospettica, e un senso più solido dei volumi soprattutto
nelle quattro figure dei dottori della Chiesa.
Antonio Vivarini e Giovanni d’Alemagna, Polittico di Praglia, 1448
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L’aggiornamento prosegue nella città di Padova dove il Polittico di Praglia rappresenta bene l’attenzione a
artisti passati per la città in quegli anni, come Filippo Lippi, Paolo Uccello, Donatello e Squarcione.
I santi schierati, anche se divisi negli elementi del polittico, hanno però un unico punto di vista. Sono
collocati come statue dentro uno spazio definito da una bassa nicchia e dai piedistalli.
La Madonna in trono con il Bambino riprende modelli filippeschi e donatelliani, con una monumentalità
nuova.
Gli elementi della parte superiore sono costruiti come visti dal basso verso l’alto.
Si coglie il riferimento all'altare del Santo di Donatello e anche alla stessa attività di Mantegna e Squarcione
in questi anni.
Bartolomeo Vivarini è il fratello più aperto alle influenze padovane e mantegnesche. Il rapporto con
Padova sala il sangue al fratello di Antonio, Bartolomeo, più aperto alle novità e meno influenzato da
questo gusto tardo gotico, il quale, attraverso una serie di opere tra cui due polittici che si trovano alle
Gallerie dell’Accademia e una pala unificata che si trova al museo di Monte, mostra una chiara apertura
verso la scuola squarcionesca e mantegnesca, in cui ritroviamo tutto il repertorio decorativo padovano:
festoni fioriti, architettura decorata con elementi marmorei anche colorati, il riferimento alla linea che dà
fortissimo risalto e durezza scultorea alle figure.
Bartolomeo Vivarini, Sant'ambrogio benedicente tra i santi Luigi, Pietro, Paolo e Teodoro (?), Polittico
della Scuola dei Tagliapietra 1477

L’esito è aggiornato, solido nell’impianto prospettico.


Bartolomeo Vivarini, Madonna col bambino dormiente e i santi Andrea, Giovanni Battista, Domenico e
Pietro, 1464
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Si trova nella cappella Diedo della chiesa di sant'Andrea della Certosa.


Bartolomeo Vivarini, Madonna con Bambino e santi, 1469

Jacopo Bellini (1396-1470) è ancora vicino al tardo gotico di Gentile da Fabriano.


La scala dimensionale è gerarchizzata. La ricchezza caratterizza i panneggi e il linearismo le pieghe. Tipica
del tardogotico è anche la gentilezza dei volti e delle pose e il paesaggio favolistico, ma nelle luci dell’alba
che toccano gli edifici e le cime dei monti erge una nota originale.
Jacopo Bellini, Madonna con il bambino e il donatore Lionello d’Este, 1440

Sono gli anni in cui artista soggiorna a Ferrara, nella città degli Este. L’opera è ancora vicina allo stile di
Gentile nella delicatezza delle figure, nella tipologia fisionomica dei volti come negli occhi che sono ancora
delle fessure molto tirate. Gli incarnati sono delicati, così come la caratterizzazione gentile delle pose, la
delicatezza della mano di Maria che solleva il velo leggerissimo di Gesù.
Usa una dimensione gerarchica nella scala delle figure: la Madonna e il Bambino sono rappresentati a
proporzioni monumentali rispetto al donatore che è più piccolo. L’ambientazione del paesaggio è
favolistica.
Si inizia a notare la peculiarità dello stile di Jacopo, che in questo paesaggio inserisce una nota personale,
nelle luci di alba che si alzano e toccano appena gli edifici e le cime dei monti, e dal basso trascolorano le
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nuvole l’osservazione che non è solo naturalistica ma è poetica. Vediamo sullo sfondo di questa
madonna alzarsi e sorgere un sentimento poetico del paesaggio che maturerà attraverso l’opera stessa di
Jacopo ma anche in senso rinascimentale nella produzione di Giovanni Bellini poesia del paesaggio
rapporto tra uomo e natura, peculiarità veneziana, lagunare.
Bellini incontra Leon Battista Alberti a Venezia nel 1437 o a Ferrara tra il 1438 e il 1441 per la corte di
Leonello d’Este e sviluppa così una fascinazione per lo studio della prospettiva e dell’antichità classica ma in
un contesto fantastico. Non c’è un punto di fuga unico e persiste il gusto tardogotico (animali, merlature,
balcone con guglie e pinnacoli)
Per la crescita rinascimentale dello stesso Jacopo questo soggiorno a Ferrara è determinante, in quanto la
città non c’è solo la sopravvivenza del gusto tardo gotico, che è importante alla corte di Leonello d’Este,
non solo la presenza di Pisanello con il quale si confronta sul tema del ritratto, ma anche la presenza di
Leon Battista Alberti e Piero della Francesca, che saranno un primo assaggio di nozioni prospettiche che
produrrà un effetto di fascinazione per la prospettiva e per lo studio dell’antico.
L’infatuazione che l'artista vive all’interno di un orizzonte culturale che è ancora quello fantasioso del tardo
gotico trova un esempio nei disegni di Jacopo Bellini che sono raccolti in due album di bottega: uno
custodito presso il dipartimento di arte grafica al Louvre, uno al British Museum di Londra. Sono importanti
perché sono esempio di un repertorio messo insieme nella bottega e di pratiche operative che si sviluppano
poi e arricchiscono nel corso del Quattrocento e Cinquecento. Un disegno che ben rappresenta questa
commistione di gusto prospettico, elementi all’antica e fantasia tardo gotica è
Jacopo Bellini, Festa di Erode, 1440-45

Al centro troneggia una fontana con più livelli, sostenuta da putti all’antica dove però ciascuna vasca è stata
presa con un punto di vista diverso: l’applicazione della prospettiva non è ancora razionalizzata.
Sul fondo si staglia un edificio che nella decorazione a merlature della parte alta e in questa balconata in
forte aggetto con guglie e pinnacoli riprende proprio il gusto dell'architettura fiorita veneziana.
L’elemento che annuncia la fantasia dell’artista è l’inserimento degli animali come l’orso legato, il levriero
che salta, il nano con la scimmia, che deriva dalla fantasia del gotico internazionale (produzione di
Pisanello, e dall’esperienza ferrarese, esempio Sant'Eustachio nel bosco 1438, attenzione al dettaglio
animalistico inserito in un contesto caleidoscopico).
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L'influenza di Alberti sembra maturare in un altro foglio che continua il tema:


Jacopo Bellini, Predica del Battista, 1440-45

Il dipinto è inquadrato da un arco a tutto sesto, con decorazioni a cassettoni. La prospettiva qui è applicata
con maggiore controllo. Inoltre, si inserisce elemento di monumentalità nuova
Giovanni Bellini vede la sorella Nicolosia sposarsi con Andrea Mantegna nel 1453.
Il suo stile è caratterizzato dalla monumentalità delle figure, simili a statue nel plasticismo risentito e nella
nobiltà conferita loro dallo scorcio dal basso. È tipica la conformazione scheggiata, stratificata e squadrata
dalle rocce. I colori e le luci sono più teneri.
Il percorso di Jacopo è fondamentale per l’avvio dell’attività artistica dei figli, in particolare per Giovanni
Bellini. Il primo tratto di attività arriva fino agli anni ‘80-‘90 del Quattrocento e si snoda attraverso delle
tappe fondamentali: l’apprendistato alla bottega del padre e l’avvio sotto l’ombra del padre; il dialogo con
Mantegna negli anni ’50; l’aggiornamento su Piero della Francesca negli anni ‘70-’80. A partire dal ‘73 inizia
anche un dialogo con Antonello da Messina. La maturazione del suo linguaggio si crea attraverso questi
snodi fondamentali. Il costante il dialogo con Mantegna dura per tutta la produzione dell’artista. Mantegna
si lega ai Bellini sposando la sorella nel ‘53 (spia anche di un rapporto professionale), è un rapporto che
perdura fino alla morte di Mantegna nel primo decennio del Cinquecento e di volta in volta lo scambio tra i
due artisti si svolgerà con temi e caratteristiche diverse in base all'evoluzione dei distinti linguaggi e dei
contesti in cui si trovano ad operare.
Giovanni Bellini, Trasfigurazione, 1453
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C’è un senso monumentale della figura umana, che assume il risalto statuario e il plasticismo risentito che
deriva da Mantegna, grazie a questo disegno che delimita i volumi e che dà una consistenza
particolarmente rocciosa e dura alle figure. Il tutto è visto attraverso uno scorcio dal basso verso l’alto che
esalta la nobiltà e l’autorevolezza in un percorso che culmina in Gesù vestito di bianco tra Mosè ed Elia. Il
percorso visivo e la solidità monumentale sono segnati dal paesaggio, dalla scala naturale che Bellini
costruisce attraverso i rialzi del terreno a cui dà una conformazione scheggiata e squadrata desunta dal
vocabolario del Mantegna.
Tuttavia, il trattamento della luce più tenero, Giovanni lo aveva ereditato dal padre e a sua volta trasmette
ad Andrea Mantegna. I due si influenzano a vicenda.
Andrea Mantegna, Orazione nell’orto del Getsemani, 1459

Nella predella del polittico di San Zeno, Mantegna utilizza questo tema, e anche in un altro dipinto. È
un’opera autonoma di natura devozionale che Bellini riprende con la stessa funzione, entrambe si trovano
alla National Gallery e sono facilmente confrontabili:
Andrea Mantegna, Agonia nell’orto

Giovanni Bellini, Agonia nell’orto


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L’impianto è il medesimo: un palcoscenico naturale costruito come una struttura architettonica, con rialzo
di roccia e una specie di inginocchiato di pietra, alla cui base sono addormentati gli apostoli. Cristo si
confronta solo con il calice del dolore che lo aspetta.
Sullo sfondo il paesaggio. La modalità in cui l’evento sacro dell’uomo è collocato in un contesto naturale è
interpretata in modo eroico, con l’idea antropocentrica dell’evento sacro. Immaginiamo che Mantegna con
i suoi studi sull’antico e sulle confrontazioni umanistiche abbia avuto un ruolo guida nei confronti di Bellini.
Notiamo nel confronto il diverso modo in cui Bellini ha sviluppato il tema del paesaggio: adotta un formato
più orizzontale, distende le linee del paesaggio e lo svuota dall’ossessività del dettaglio e della costruzione
architettonica di città stratificate che abbiamo avuto modo di trovare nell’arte di Mantegna. La sua
interpretazione si svuota per dare più spazio ai sentimenti umani. Il paesaggio è come espressione dei
sentimenti dell’uomo, dell’uomo Cristo che vive il dolore. È come una cassa di risonanza di questo dolore
vissuto in maniera elegiaca, lirica. Tutto si accorda con questa visione poetica: lo spazio sgombro della
campagna è lo spazio del dolore ma anche del silenzio, della riflessione.
A questa visione poetica concorrono la luce e il colore che pure sono più dolci e soffusi, in particolare la
capacità di cogliere un’ora precisa del giorno: infatti l’episodio avviene all'alba, dopo aver pregato tutta la
notte Cristo chiede a Dio di allontanare il calice di dolore. La luce rosa sorge come un soffio leggero
all’orizzonte e va a scolorarsi sotto le nuvole e a schiarire quell’umidità della notte che è ancora percepibile
nella parte più alta del cielo dove si materializza un’apparizione straordinaria dell’angelo. L’angelo non è più
una pattuglia di spiritelli, ma un solo angelo che sembra materializzarsi come vetro nella trasparenza del
cielo, con una materia fantasmatica e che porta quell’unico calice di dolore.
Le profilature delle rocce si sono addolcite anche nel colore, più mielato, e le curvature non sono più
angolose ma ondulate, grazie alla luce che contribuisce a distendere anche il rialzo su cui si posa in
ginocchio Cristo.
Donatello, Cristo passo, 1444-53

Giovanni Bellini, Cristo morto sorretto da angeli, 1460


Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Gli elementi in comune con il rilievo di Donatello sono la composizione e l’interpretazione del soggetto:
rende umano e presente il modello rinascimentale; lo spazio è impostato prospetticamente; le espressioni
degli angeli sono dolenti; il Cristo è rappresentato nel classico modello del nudo donatelliano (vedi anche
crocifissi donatelliani: bocca aperta, vene del braccio).
25/11/2021

Firenze nella seconda metà del Quattrocento


La vicenda di Firenze si lega sempre più alle sorti della signoria medicea, che prosegue dopo Cosimo con
Piero “il Gottoso” e raggiunge il massimo splendore sotto Lorenzo il Magnifico. Alla sua morte, le sorti della
famiglia vengono prese in mano dal figlio Piero “il Fatuo”, che però si mostra debole, soprattutto nella
contrattazione con Carlo VIII re di Francia, che scende nella penisola, favorendo il sovvertimento del
governo da parte di Savonarola, che ristabilisce la forma repubblicana, ma in una forma fortemente legata
alla sua predicazione moralista e penitenziale. Questa esperienza termina sulla via del ritorno di Carlo VIII
con il rogo di Savonarola, dopo il quale il gonfaloniere Pier Soderni fa risorgere una nuova stagione
repubblicana, prima del ritorno dei Medici.
Con Piero, negli anni Cinquanta e Sessanta si assiste ad uno sviluppo in direzione neoaristocratica e
estetizzante, che poi si lega con Lorenzo al fenomeno del neoplatonismo, che condiziona anche il linguaggio
artistico, insieme ad un’aspirazione verso il mondo classico, che però non si realizza ancora nelle forme di
una maniera moderna di dipingere e che si può definire protoclassicismo. Ci sono degli elementi anche di
crisi all’interno di questo linguaggio, che spesso cooincidono con aspetti drammatici della repubblica di
Savonarola.
Negli anni Cinquanta e Sessanta si assiste a un ripiegamento delle tendenze artistiche su formule stilistiche
quasi neoaristocratiche, che tendono a riaffermare le tendenze che si erano già rivelate nei decenni
precedenti, ma accentuando in queste i dati estetizzanti e di carattere decorativo.
Benozzo Gozzoli, Cavalcata dei Magi, 1459-62

È un affresco nella cappella di Palazzo Medici. Gozzoli era stato un collaboratore di Beato Angelico. La
composizione si svolge come un corteo lungo tutte le pareti della cappella, con personaggi che si
contraddistinguono per lo sfarzo dei vestiti, le dorature sulle bardature dei cavalli, la qualità brillante e
preziosa dei colori, in cui ritroviamo modelli degli anni Trenta e Quaranta, dagli stilemi tardogotici
dell’Adorazione dei Magi di Fabriano a quella di Domenico Veneziano. Ma rispetto a questi esempi, si
accentua il carattere profano della rappresentazione, che ha un valore celebrativo della famiglia Medici, i
cui membri appaiono ritratti nella rappresentazione nelle vesti dei Magi e del corteo che li segue. È una
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sorta di allegoria del potere: le tendenze neoaristocratiche vanno insieme al consolidarsi del potere
mediceo, che si lascia alle spalle l’afflato civico che aveva sostenuto lo sperimentalismo prospettico di quei
decenni.
Filippo Lippi, Adorazione del Bambino con san Giovannino e sullo sfondo san Romualdo in preghiera,
1458-60

Anche qui il linguaggio rinascimentale è impreziosito dalla decorazione del bosco, nelle decorazioni in oro
della raggera trinitaria o dell’aureola della donna, e reso più elegante nella definizione delle figure. La
Madonna ha un’acconciatura elegante e leggera, dal viso delicato.
Rispetto a queste tendenze, il rientro di Donatello nel 1454 e la sua ultima attività a Firenze suonano come
una voce fuori dal coro. Donatello non demorde dai principi dinamici espressivi, dall’energia che sostiene il
suo linguaggio. Le sue opere al suo ritorno non trovano un immediato riscontro presso la committenza se
non per Cosimo.
Donatello, Giuditta e Oloferne, 1453-57

Riconosciamo molte caratteristiche dello stile che l’artista aveva maturato a Padova: la capacità di
realizzare un’opera in bronzo a partire dai riflessi della luce, che sottolineano l’energia drammatica e
dinamica del gesto di Giuditta che sta per sferrare il colpo, rispetto alla figura di Oloferne, già inanimata e a
peso morto, che l’eroina biblica sostiene per i capelli.
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Donatello, Resurrezione, dopo 1460

Nella chiesa di San Lorenzo, che è una sorta di tempio della famiglia Medici.
Questa energia vitale, ma anche fortemente espressiva, di Donatello arriva a esiti di quasi brutale e spietata
caratterizzazione nella:
Donatello, Maddalena penitente, 1460

La scolpisce in legno per il battistero di San Giovanni, restituendo la dimensione ascetica della santa
attraverso uno scavo della materia, che ha un’intensità tale da non cedere al grottesco, ma da restituire con
forza drammatica il volto della santa, quasi ridotto a un teschio di cui vediamo tutta la struttura, con gli
occhi infossati nelle orbite, le profonde occhiaie, la bocca aperta da cui intravediamo una sdentatura, ma
senza alcuna caratterizzazione grottesca e con la forza spirituale che anima anche la serpentina dei capelli e
la pelle di cammello di cui è rivestita la santa. È un linguaggio di straordinaria modernità, che doveva
suonare disorientante nella Firenze che puntava invece verso una ricerca raffinata della bellezza.
Ma la voce di Donatello risuona comunque alle orecchie di certi artisti, che la colgono e la riaccordano sul
linguaggio estetizzante dei tempi, come nella bottega del Pollaiolo (conduzione famigliare), in cui si
formano Jacopo, Piero e Antonio. Le loro opere mostrano accenti comuni.
Antonio del Pollaiolo, Battaglia di dieci uomini nudi, 1460-65
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È una stampa che mette in evidenza la sua formazione anche da orafo oltre che scultore e la crucialità del
tema dello studio del nudo in questi anni a Firenze, in cui Antonio coglie anche la funzione plastico-
dinamica del linguaggio di Donatello, ma legando le figure tra loro anche con grande eleganza.
Antonio del Pollaiolo, Ercole e l’Idra; Ercole e Anteo, c. 1475

Il tema di Ercole si diffonde particolarmente a Firenze in questi anni, legandosi alla famiglia Medici: Ercole
diventa una sorta di nume tutelare della città di Firenze. Questo fa capire come comincino anche a partire
dagli anni Sessanta e Settanta ad entrare nell’iconografia temi profani e mitologiche, che derivano anche
dall’approfondirsi del recupero con l’antico, non più solo nelle forme, ma anche nei soggetti.
Le due tavolette raffigurano due fatiche.
Antonio del Pollaiolo, Ercole e Anteo, 1475

È un bronzetto in cui Ercole si presta ad approfondire la resa del nudo in movimento come sforzo di energie
fisiche che si esprimono sia nella versione dipinta che in quella in bronzo, dove è colto anche il valore
donatelliano della luce sulla materia per esaltare l’azione in atto. Antonio studia la composizione per una
visione a 360°. L’energia del movimento si riflette anche nell’espressione dei volti.
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Piero e Antonio del Pollaiolo, Apollo e Dafne, 1475-76

Le due figure sono allacciate l’una all’altra nello slancio del volo contro il cielo. Dafne ha già le braccia
trasformate come in due ali di alloro. Il tema dell’alloro si lega poi alla figura di Lorenzo, sia per il
riferimento onomastico, sia come cifra della passione di Lorenzo per le arti e la poesia.
Anche la bottega di Filippo Lippi è importante per la formazione di artisti in quel tempo, come quella di
Andrea del Verrocchio, figura polivalente, che è attivo come orafo, pittore, scultore, intagliatore e musico,
da cui passano diversi artisti e prenderà le mosse anche Leonardo Da Vinci. Tra le opere del Verrocchio:
Andrea del Verrocchio, Monumento funebre di Piero e Giovanni de’ Medici, 1469-1472
È una sorta di opera di oreficeria su scala monumentale, sia per il prezioso decoro della vasca funebre, che
della cornice, ma anche per il diaframma che Verrocchio crea attraverso una grata intrecciata e operata
come una sorta di lavoro in filigrana. Ciascuno di questi elementi metallici dell’intreccio è inciso con grande
maestria e l’effetto finale è di smaterializzazione: è un elemento che non chiude la parete, ma la
smaterializza, rendendola quasi atmosferica, dandole grande leggerezza. È evidente lo spunto di Verrocchio
a Leonardo.
Andrea del Verrocchio, David, 1476

Riprende il David donatelliano, quindi adolescente, ma gli conferisce una grazia efebica, giocano con la
preziosa decorazione della veste con lo scatto della figura. Anche conferendo alla figura un’espressività
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diversa da quella donatelliana, più sottile, quasi sognante, che allenta l’energia donatelliana e la risolve in
termini di grazia.
Tutto questo introduce alla dimensione culturale della Firenze di Lorenzo il Magnifico, segnata dal
diffondersi del neoplatonismo propiziato dalla scuola di Marsilio Ficino, che fonda a Firenze l’Accademia
Neoplatonica, frequentata da artisti, i Medici, filosofi… Questo pensiero pone al centro la figura dell’uomo,
ma in una formulazione dell’antropocentrismo diversa da quella prospettica del primo Quattrocento. Qui
l’uomo neoplatonico è concepito come copula mundi, un microcosmo che tiene insieme corpo e anima.
Questo microcosmo è connesso a una dimensione universale di macrocosmo attraverso il principio
dell’eros, dell’amore che è principio di elevazione spirituale, concepito attraverso un percorso di graduale
ascesi, dai gradi più bassi della materia alle sfere del macrocosmo, del mondo ideale, che coincide con il
divino. Ficino e Pico della Mirandola riprendono dall’idea platonica il concetto dell’eternità dell’anima.
All’interno di questa visione, ad alimentare l’eros, l’amore come motore di tutte le cose, è la bellezza: la
bellezza, concepita non solo da un punto di vista sensuale, fisico, ma ideale, cioè come un insieme di valori
di grazia “charis”, armonia, proporzione, ritmi non più solo matematici, ma anche di corrispondenze quasi
musicali. All’interno di questi valori formali spirituali e ideali, vengono recuperati anche i miti antichi, che
sono sia in chiave cristiana che profana allegorie di valori spirituali che si riconoscono nelle persone e quindi
nel committente.
Pietro Perugino, Apollo e Dafni, 1490-95

Dafni è il pastore di cui Apollo si innamora, ma la storia ha un significato molto vicino a quella di Dafne e al
valore della poesia e della pianta dell’alloro e della stessa figura di Apollo come cifra della personalità di
Lorenzo.
Questa dimensione culturale che si esprime attraverso la poesia, ma anche attraverso le arti, diventa anche
il mezzo per Lorenzo e per la sua politica di espansione ed equilibrio tra gli altri stati italiani per diffondere
la cultura come elemento identitario di Firenze e con cui Firenze si prospetta nella penisola come faro delle
arti. Lorenzo invia una serie di artisti in giro per le varie corti e le varie regioni della penisola. I rapporti più
delicati sono sempre con lo stato della Chiesa. Lorenzo arriva a sanare il conflitto che la propria famiglia si
era trascinata con il pontefice, attraverso un percorso in cui le arti giocano un ruolo importante. La nuova
alleanza con Sisto IV viene sugellata dall’invio di un team di artisti di formazione laurenziana a Roma, a
decorare le pareti della Cappella Sistina. La Cappella Sistina aveva un’impronta marcata dalle storie che si
sviluppavano sulle pareti laterali, su cui si confronta la vicenda di Gesù con quella di Mosè (prefigurazione
di Cristo) sotto un cielo stellato. Tra gli artisti più legati alla corte medicea c’è la figura di Sandro Botticelli, il
quale muove i primi passi nella bottega di Lippi dove si forma fino al 1467 circa, cogliendo dal maestro
diversi spunti e l’idea di una definizione della forma attraverso la linea e la grazia sofisticata.
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Filippo Lippi, Madonna con il Bambino e angeli, 1465-67

L’acconciatura di Maria è elaborata, con una grazia sofisticata. Il bambino si slancia, è una tenera
espressione degli affetti. I boccoli degli angeli sembrano scolpiti.
Sandro Botticelli, Madonna con il Bambino e Angeli, 1465-69

In Botticelli, l’insegnamento di Filippo si lega a un accento più monumentale nella figura della Vergine e
degli stessi angeli. Questo è derivato invece dall’insegnamento di Verrocchio. Oltre all’insegnamento di
Lippi, nella storia di Botticelli entra anche la storia dei Pollaiolo, nella linea che scioglie la tensione dinamica
di Donatello in una soluzione più legata.
Sandro Botticelli, Fortezza, 1470
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È un’opera che realizza a completamento di una serie di virtù per l’Arte della Mercanzia. Le altre allegorie
sono realizzate dai Pollaiolo: c’è un’occasione di scambio e dialogo con la produzione pollaiolesca, che si
cogli in questa allegoria. La figura si stacca dal trono per il ritmo della linea, che la fa scattare in avanti con
un dinamismo nuovo, ma anche con un risalto monumentale, che ci ricorda l’insegnamento di Verrocchio.
Non avvertiamo però un risalto tridimensionale: la linea del contorno finisce col ritagliare la figura e
ritagliarla a valori di superficie. Questo ritorno a una dimensione bidimensionale si trova anche in:
Sandro Botticelli, La Primavera, 1477-78

È un’opera commissionata da Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici (cugino del Magnifico), il quale è una
figura di spicco: nella sua villa si riuniscono gli esponenti dell’ambiente neoplatonico, in quest’ambito si
formano Lorenzo e Giuliano.
L’iconografia è complessa e legata all’ambiente neoplatonico, descritta anche da Vasari: è una
rappresentazione della primavera, da leggersi da destra verso sinistra, dall’ingresso del vento Zefiro che
insegue la ninfa Clori, fecondandola (esce dalla bocca il ramo fiorito). Clori si trasforma nella
rappresentazione di Flora (Primavera), che espande i suoi fiori. Al centro è Venere, che veste di colori
bianco, azzurro e rosso, e che è la personificazione dell’amore e dell’eros platonico, accompagnata dal figlio
Eros, che sta per scoccare le sue frecce sulle tre Grazie danzanti. A sinistra Mercurio agita le nubi
diradandole e provocando così le prime piogge primaverili.
Il significato della rappresentazione però è più complesso e si lega ai testi di Ficino e Poliziano, ma non è
univoca: i traguardi interpretativi più alti sono stati raggiunti dalla scuola di Warburg (Panofsky). È centrale
Venere come forza sensuale che è fonte di vita della natura e dell’uomo, ma anche come elemento ideale
che determina l’elevazione dell’anima verso il mondo dell’iperuranio. È una dea che nasce da Uranio. È una
rappresentazione di tutti i valori che si legano al concetto dell’amore. In questo senso, anche le tre ninfe,
che sono rappresentazioni di splendore, gioia e letizia e prosperità, raffigurano il significato dell’amore
come un dare, ricevere e restituire, che cresce su se stesso concedendo all’uomo di ascendere al mondo
delle idee.
La figura di Mercurio conduce verso le sfere celesti: è capace di volare, con il caduceo indica non solo le
nuvole e la dimensione meteorologico, ma anche quella ultraterrena.
Questa complessità concettuale non si esprime in un trattato filosofico o in una poesia o opera letteraria,
ma attraverso la pittura, quindi con un linguaggio che siamo tenuti a leggere anche per i suoi valori formali.
Botticelli sviluppa l’accento sinuoso e ritmico della linea non solo nella resa delle singole figure, ma anche
nel modo di legarle tra loro, allacciandole attraverso corrispondenze che descrivono quasi un passo di
danza, per le cadenze ritmiche. Il concetto è reso dal gruppo delle tre grazie, tenute insieme attraverso il
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movimento dei corpi, la leggerezza delle vesti e il nodo delle mani come in una danza rinascimentale.
Questo ritmo restituisce anche un’armonia di proporzioni e afferma un ideale di bellezza astratto, anche se,
soprattutto nella figura di Venere e Flora si è voluto vedere un ritratto di Simonetta Vespucci, la donna
amata da Giuliano de’ Medici (fratello di Lorenzo) e Giuliano in Mercurio. In realtà Giuliano e Simonetta
vengono scelti da Botticelli, che si mostra molto vicino a queste due figure, quasi come un aedo del loro
amore o terzo membro della relazione, che è amorosa, ma dove il legame sentimentale viene vissuto in una
dimensione anche culturale.
Sono due immagini che ritornano in molti dipinti di Botticelli come ritratti veri e propri o come modelli
idealizzati di bellezza, così come i loro corpi, che sono modellati sulla perfezione classica, ma anche resi con
la materia pittorica che si fa più raffinata, quasi evanescente, che va rarefacendosi. Coglie comunque peso,
spessore e tridimensionalità delle figure, che infatti si muovono nello spazio per via dei ritmi, ma senza una
resa prospettica. Lo stesso ambiente del giardino di Venere è disteso con un dettaglio della resa botanica,
ma un’astrazione nella ripetizione delle forme e quasi bidimensionalità, come un arazzo. Questo aspetto lo
cogliamo anche nel decoro della veste di Flora.
Le tre Grazie sono esemplate sul modello antico: una delle possibili fonti è il gruppo che si trovava a Roma e
poi collocato a Siena. Le tre Grazie diventano una presenza fissa nel giardino di Venere (vedi Francesco del
Cossa). Rispetto a questi modelli, il linguaggio di Botticelli mostra la volontà di trovare un’altra forma di
legame tra le figure, inseguendo i principi di delicata armonia ed eleganza.
Sandro Botticelli, Nascita di Venere, 1483-84

Viene realizzata per la stessa committenza della Primavera, ma con uno scatto di anni che si avverte nello
sviluppo del linguaggio. Dal punto di vista tematico è una nascita di Venere urania, cioè nata dalla spugna
del mare, generata dall’unione di Uranio con il mare e portata da una conchiglia. La vediamo approdare
sulla riva accolta da una personificazione della Primavera come ninfa di generazione della terra, sospinta
dai venti. Le fonti sono classiche (Ovidio, Omero). Un esempio di questo rapporto con l’antico rielaborato
attraverso significati neoplatonici, allegorici e celebrativi dei valori e delle figure della corte medicea. Tutto
ciò si esprime in un linguaggio più elegante e sinuoso nell’andamento lineare, che va disegnando cifre
astratte.
La Venere è eseguita nel modello antico della Venere pudìca, ma resa attraverso un incarnato eburneo,
molto delicato, ma anche freddo nelle nuance e nella consistenza del colore, che si fa più leggero e
trasparente. Lo stesso il mare: le onde sono disegnate in maniera astratta e rese con la trasparenza dei
riflessi, con un colore freddo che torna nelle figure di Zefiro e Aura, allacciate in una posa ripresa da Tazza
Farnese. Questo gusto per l’antico consente a Lorenzo de’ Medici di mettere insieme delle testimonianze su
cui poi gli artisti del suo tempo elaborano delle soluzioni di estrema eleganza. Il modo in cui lo spunto
antico dei due venti viene ripreso e intrecciato in una sigla decorativa con colori freddi, trasparenti,
impreziositi anche da inserti in oro e da una linea che disegna anche i capelli in maniera importante,
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nervosa ma estremamente graziosa. Il soffio che esce dalle bocche dei due venti è la rappresentazione del
soffio vitale che spinge la dea dell’amore verso la terra.
In questa idealizzazione delle figure si perde ancor più la determinazione dello spazio, perché la figura di
Venere è in un equilibrio improbabile sulla conchiglia. Il paesaggio non è realizzato attraverso la
progressione prospettica, ma con l’iterazione e astrazione del linguaggio.
È evidente che in questa fragile grazia è insito anche il principio di crisi del linguaggio, che tende a ripiegarsi
su se stesso: servirà un cambiamento completo di orizzonte per arrivare a un linguaggio rinascimentale,
condotto avanti da Leonardo, Michelangelo, Raffaello… intanto, Botticelli realizza i frutti più alti di questa
stagione di “serra” della stagione laurenziana. I primi segnali di crisi si notano in
Sandro Botticelli, Calunnia di Apelle, 1491-95

È un dipinto realizzato a partire dalla descrizione letteraria di un dipinto antico (ecfrasis) di Apelle sul tema
della Calunnio. La composizione è giocata sul legame tra le figure che però rispetto all’equilibrio rarefatto
della Primavera e Venere appare qui concitata, drammatica, in relazione al soggetto. Le furie trascinano
l’accusato di fronte al giudice. Il fondale all’antica presenta delle figure nelle nicchie che si animano
attraverso dei risalti in oro, ma con un segno nervoso e spezzato.
Sta avanzando anche sul fronte politico la crisi della signoria medicea e l’affermazione di Savonarola, che
mette in crisi anche i principi estetici e la cultura profana legata alla corte medicea, mettendo in crisi artisti
come Botticelli che erano stati parte integrante di quell’orizzonte culturale. Un’opera che risente di questo
clima è
Sandro Botticelli, Natività mistica, 1501
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Il tema della natività di Cristo viene da un lato declinato in senso mistico e con un’interpretazione di
carattere simbolico, ma anche con un accento devozionale, che trasmette quella dimensione inquieta
contrita di quegli anni.
Altri artisti attraversano questo anello di fuoco della repubblica savonaroliana, manifestando nel loro
linguaggio dei segnali di inquietudine, tra questi Filippino Lippi, che si forma nella bottega del padre e in
stretto contatto con Botticelli.
Filippino Lippi, Tre arcangeli

È un’opera che dialoga strettamente con i modelli di Botticelli, nell’andamento leggero, sinuoso dei
panneggi che ritroviamo anche sullo sfondo. È un nodo di cultura tra Filippo Lippi e Sandro Botticelli.
Rispetto a Botticelli recupera un senso più concreto della forma, ma mantiene il ritmo lineare.
Filippino Lippi, San Filippo scaccia il dragone del tempio di Hierapolis, 1487-1503

A caratterizzare la sua storia è l’invio da parte di Lorenzo de’ Medici a Roma nel 1489, da cui trae un
ricchissimo repertorio archeologico di grottesche, cioè decorazioni appena riscoperte nella domus aurea,
che Filippino riprende lasciandole proliferare nelle proprie opere come una sorta di incrostazione
decorativa, che si accompagna al segno nervoso, configurando un insieme inquieto che sembra deviare
dall’idea di una ricerca di equilibrio classico e trasmettere un rapporto con la religione vissuto in modo più
inquieto e caricato. Sono aspetti del linguaggio che possiamo rintracciare negli affreschi che decorano la
cappella di Filippo Strozzi (Santa Maria Novella)
Un altro artista mandato a Roma è Domenico Ghirlandaio che da Roma deriva un gusto per
un’ambientazione scenografica meno concitata e bizzarra, più composta che sviluppa in una vena narrativa
in Santa Maria Novella.
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Domenico Ghirlandaio, Natività del Battista, 1486-90

Le figure non si agitano, seguono un ritmo più pausato e piano.


Anche Perugino è uno dei protagonisti di questa stagione e il massimo rappresentante del
“protoclassicismo”, ovvero una serie di aspirazioni e fermenti che preparano la maturazione del pieno
classicismo. È lo stile che definisce una vera e propria temperie culturale, ma definito per difetto rispetto a
ciò che maturerà nella stagione immediatamente successiva. È in realtà una stagione che ha già una sua
piena autonomia. La definizione di classicismo prematuro indica la presenza in questo linguaggio di
aspirazioni a un nuovo classicismo, ma che si esprimono in modo ancora molto didascalico, in simmetrie di
ritmi bilaterali e in un senso di pacata compostezza.
È un linguaggio che si lega anche alla circolazione di cultura neoplatonica, che si diffonde nelle corti italiane,
e che si sposa al clima dell’ambiente signorile, che insegue ideali di eleganza e idealizzazione della bellezza
e dei gesti. Questo riguarda sia l’aspetto formale che la nuova attenzione al mondo dei sentimenti,
giocando su un registro ancora cortese. È un linguaggio molto adatto anche alla cultura devota e agli
ambienti religiosi (corte papale). Si recuperano anche stilemi e preziosismi neogotici, che fanno riferimento
anche a un ripiegamento quasi neofeudale dell’aristocrazia italiana. È un linguaggio al crepuscolo della
stagione prospettica, sospeso tra anticipazione del nuovo e recupero di tradizioni medievali.
Perugino ha una formazione umbra, si muove in un ambiente molto vicino a Perugia. L’Umbria si colloca tra
il linguaggio toscano e quello urbinate, quindi è il luogo in cui diffonde la cultura prospettica, punto di
partenza di Perugino. A Firenze frequenterà anche la bottega del Verrocchio, entrando in contatto con
Botticelli, Leonardo. Si muove tra Perugia e Firenze nel primo periodo di attività.
Perugino, Miracolo di san Bernardino che risana una fanciulla, 1473
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Serie di 8 tavolette che ornavano le porte di una nicchia nell’oratorio del Gongalone. Le figure sono inserite
in uno spazio definito dall’architettura (pierfrancescano), che è monumentale e sovradimensionata rispetto
alle figure e su cui prolifera un gusto per l’ornamentazione preziosa. C’è una tendenza ad aprire lo spazio a
farfalla, secondo una simmetria semplificata, e a scandire la prospettiva avvicinando i piani prospettici, con
un effetto quasi di addizione delle strutture architettoniche una sopra l’altra.
Questi elementi si accentuano nel percorso successivo, soprattutto dopo il viaggio a Roma e la decorazione
della Cappella Sistina.
Gli aspetti anticipatori del classicismo sono le simmetrie, che sono però ancora didascaliche ed elementari,
con composizioni bilaterali, figure statiche e ordinate gerarchicamente, che cercano una resa più dolce, che
non è psicologica, infatti i volti sono stereotipati. Il suo modello non è la bellezza raggelata di Botticelli, ma
un modello più addolcito, ma sostanzialmente imperturbabile, dove non si riesce ad individuare il volto, ma
si reclinano le teste per indicare un addolcimento dei sentimenti. La semplicità e la dolcezza si adattano
molto bene alla pittura devota, a una dimensione contemplativa.
Perugino, Madonna con il Bambino in trono tra i santi Giovanni Battista e Sebastiano, 1493

Le figure sono inserite all’interno di ambientazioni architettoniche che si aprono su paesaggi di fondo, ma
non c’è un inserimento delle figure nel paesaggio, che fa solo da “schermo luminoso” per creare atmosfere
schiarite e rasserenate. Alla fine del secolo, Perugino riesce a trovare una formula che si adatta a le sue
aspirazioni religiose, anche trovando una nota di coinvolgimento in più superando la visione prospettica.
Perugino, Visione di San Bernardo, 1493
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Antonello da Messina, San Sebastiano, 1476

Lo spazio che Antonello mette in piedi è prospettico, il pavimento in prospettiva e le architetture


definiscono un vero e proprio corridoio che attrae lo sguardo dal primo piano fino alla profondità.
Antonello sospinge la figura principale verso il primo piano e la definisce come un solido nello spazio. la
luce, che è una sintesi di valori fiamminghi e pierfrancescani, tornisce la figura come un volume. Anche i
dettagli delle frecce, una per una in scorcio sottolineano le linee prospettiche, e del perizoma, che non
ricopre l’anatomia ma la sottolinea nei suoi valori classici, creano un effetto di assimilare a un assioma
geometrico la figura del martire cristiano, legata all’albero al centro della composizione, ma anche
connessa al solido del tronco di colonna (riferimento simbolico al passato).
Perugino, San Sebastiano, 1495

Nel 1494 Perugino è per la prima volta a Venezia (ci tornerà altre due volte entro fine secolo), dove si
avvicina ai traguardi che sul fronte del colore e della luce erano maturati nell’opera di Bellini e della
tradizione. Ma sono anche soggiorni importanti per le sorti della pittura veneziana e in particolare per la
formazione di Giorgione. È un periodo che va insieme ad altri movimenti che Perugino compie. Ha successo
in tutta Italia, inizia ad essere richiestissimo, si fa imprenditore della cultura e dell’arte, impianta botteghe
in giro per l’Italia.
Il pavimento è in prospettiva, c’è l’architettura e il paesaggio, ma questo spazio è definito per piani più
orizzontali che verso il punto di figa. L’architettura quindi non è lo spazio urbano in cui è inserita la figura di
Antonello, ma un’architettura che ha la funzione di incorniciare la figura.
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La figura non insegue i valori di eroismo cristiano, è una figura che si pone come un esempio di dolcezza,
rapimento sentimentale, trafitto dall’amore divino. L’artista mette in scena una sorta di languore,
rapimento mistico, attraverso il reclinare della testa, ma anche una resa più dolce di tutta la figura, che
cerca un equilibrio classico, ma non lo raggiunge a fondo, e crea così un ancheggiamento, una danza, che è
stilizzato quasi come una figura gotica. È una stilizzazione che riguarda la resa dell’anatomia, anche del
perizoma che è una sciarpa preziosa, ricamata e annodata con gusto decorativo (ma non naturalistico),
nello stesso modo in cui sono annodate le braccia dietro la schiena per appoggiarla con delicatezza
all’albero.
Nella stilizzazione dei gesti c’è un’affettazione, che risponde anche a dei codici formali che riflettono la vita
di corte e il galateo signorile.
L’architettura non ha una funzione spaziale e prospettica, ma serve quasi a incorniciare il fondo luminoso,
che è come uno schermo che fa risaltare i contorni della figura, non come un disegno, ma addolcendo i
contorni. Il carattere ornamentale di questa architettura si legge anche nel disegno sui pilastri laterali di
candelabre a grottesca, che ci riportano al gusto della decorazione all’antica, che viene ritrovata nel
sottosuolo di Roma (da qui “grottesca”). Sono invenzioni di esseri mostruosi o ibridi o fitomorfi, intrecciati
con elementi di frutti, vegetali o linee, definendo una resa che nega lo spazio e decora superficialmente. È
un repertorio che si diffonde anche attraverso i codici miniati, per esempio le incisioni a stampa, che va ad
alimentare anche le botteghe dei maestri di legname, che vi si ispirano per le cornici in legno e che si
diffonde anche nella pittura.
Pinturicchio, Annunciazione, 1492-1495

Pinturicchio decora con questa condotta grottesca, orata e dettagliata l’appartamento del papa Borgia.
Donatello recupererà queste grottesche di Pinturicchio e Perugino, ma in ambito pienamente
rinascimentale.
Perugino, Apollo e Dafni, 1490-1495
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Il canone prassitelico è il modo in cui viene definito un certo principio di equilibrio classico della statua o
pittura della figura umana. La figura di Apollo è impostata su questo canone, non lontano dal San
Sebastiano nella proporzione delle forme e nel modo di bilanciarle, che ha un’eleganza nell’appoggio dei
piedi, nella curva della figura, nella distribuzione delle braccia. Dall’altra parte, anche la figura di Dafni che
suona, impostata su un marmo di Lisippo (modulo della figura seduta), traducendo questo modello in
maniera ancora non matura, ma molto fragile, e di grazia (pancino protuberante e sigla degli arti). Non
sono figure di massa, potenti, bensì molto esili, efebiche e che hanno perso la tornitura e pienezza dei
volumi prospettici.
Perugino, San Sebastiano, 1493-1494

Il pittore incide la propria firma sulla freccia, facendo capire il valore di questa freccia che viene ripensato
anche in termini poetici e petrarcheschi come la freccia della poesia. C’è una lettura del San Sebastiano in
chiave profana. Nella dimensione neoplatonica, l’amore, che è un’esperienza sentimentale profana, è il
motore in grado di elevare l’uomo verso il divino.
Resa preziosa del dettaglio.
Perugino è anche un artista che si muove per la penisola ed è molto richiesto. Lavora anche a Bologna, dove
lascia
Perugino, Madonna con il Bambino in gloria e i santi Michele Arcangelo, Caterina d’Alessandria,
Apollonia e Giovanni Evangelista, 1497
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Le figure sono collocate direttamente nel paesaggio. La pala d’altare riprende il tema della sacra
conversazione pierfrancescana, ma la ripensa attraverso la collocazione delle figure nel paesaggio e
attraverso l’organizzazione della composizione secondo corrispondenze simmetriche: i santi si aprono a
farfalla rispetto all’asse centrale. Le posture sono giocate a chiasmo, cioè con un’inversione nella posizione
delle teste o nell’atteggiamento degli arti. La scansione non è solo orizzontale, ma anche in verticale,
perché definisce dei piani gerarchizzati, i santi, e la Vergine più in alto con gli angeli. La scansione è anche
per piani in profondità, non conseguita attraverso la progressione prospettica, ma attraverso l’apertura del
fondo del paesaggio. Ma non c’è una vera fusione tra le figure e il fondo, che è come una quinta che sta alle
spalle delle figure, avendo però anche importante ruolo nell’illuminare il primo piano e addolcire i contorni.
Le teste dei santi e della Madonna sono intercambiabili, ma orientate in maniera diversa. Il San Michele ha
una veste preziosa e un copricapo ornato in volute quasi ioniche.
Perugino, San Michele Arcangelo, 1496-1500

Nell’atteggiamento e nell’ornamentazione dell’armatura, mostra il gusto prezioso e ornato che


accompagna lo stile dolce e che caratterizza anche la produzione di queste armature da parata nelle corti di
fine Quattrocento. Il lusso viene ostentato come status symbol, come il fiocco sulla testa o la gemma sul
cappello. Le armature non erano poi usate in guerra, ma diventavano reperti da collezione e utilizzate in un
corteo o parata per poi arricchire le collezioni. Anche sulle armature vengono utilizzate le ornamentazioni
all’antica di intrecci a grottesche, con elementi ibridi, fitomorfi, animali, resi con gusto per il dettaglio e il
prezioso.
Lo realizza per un polittico commissionato da Milano, di cui un altro scomparto raffigura:
Perugino, San Raffaele Arcangelo e Tobiolo, 1496-1500
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Il linguaggio di Perugino si è affinato, anche in direzione della dolcezza degli affetti e di legame
sentimentale tra le figure, che però non si traduce in una vera comunicazione, però è declinato
nell’eleganza del gesto.
Questa dolcezza va insieme anche a una dolcezza dei colori, che diventano più uniti e limpidi.
Lorenzo Costa, Sposalizio della Vergine, 1505

Il tema dello sposalizio è inquadrato non all’interno di un’architettura ma nel paesaggio. Le figure sono
annodate tra loro attraverso un passaggio di gesti, che hanno lo stesso esito formale del nodo che lega le
due tende tirate in alto, in questa quinta che non accoglie le figure, fa solo da sfondo. È come una
scenografia. Anche se le architetture sono dipinte in prospettiva, hanno poi una leggerezza che le fa
sembrare bidimensionali.
Francesco Francia, Vergine annunciata e santi, 1500

Si rifà alla pala d’altare di Perugino, ma la Vergine non è in alto, dove c’è invece l’angelo. Maria viene in
quel momento fecondata. È un tema che esprime la verginità di Maria, che è un corollario della sua
immacolata concezione. Anche la religione e la filologia vanno speculando su temi più raffinati.
L’umanesimo è vissuto anche dal punto di vista spirituale su un registro più prezioso e erudito.
L’impianto bidimensionale, l’alternanza dell’inclinazione delle teste, l’idea di figure contro lo schermo
luminose dialogano con le opere di Perugino.
Perugino decora lo studiolo di Isabella d’Este a Mantova quando è ancora presente Andrea Mantegna,
sostituito poi da Costa e Perugino, che fanno di questo ambiente un’espressione del clima di serra della
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cultura protoclassica, affrontando temi di carattere mitologico e allegorico che traducono le aspirazioni di
Isabella e l’affermazione di questa figura, che ha un proprio statuto nei codici di corte.
Poi Perugino a Venezia.

Verso la “maniera moderna” del Cinquecento


L’avvio della maniera moderna secondo Vasari spetta a Giorgione a Venezia e a Leonardo tra Firenze e
Milano.
Secondo Vasari, Leonardo fu il primo a dare alle figure regola, misura, ordine, grazie… ma anche il moto e il
fiato, che sono la conquista di una nuova espressione vitale organica della realtà, che è appunto la maniera
moderna. Gli esordi di Leonardo si inquadrano nella bottega del Verrocchio negli stessi anni in cui operato
Pollaiolo, Botticelli, Filippino… però Leonardo fu colui che fu in grado di cogliere dall’insegnamento di
Verrocchio degli aspetti e di svilupparli in maniera assolutamente innovativa.
Andrea del Verrocchio e Leonardo, Battesimo di Cristo, 1470-74

Il giovane Leonardo esegue le figure degli angeli e il paesaggio sul fondo. Qui la dolcezza e il senso
atmosferico, già visto in Verrocchio, sono colti da Leonardo in maniera tale da farci sentire le stesse figure
del Verrocchio come rigide e nodose. Nelle due figure di San Giovanni Battista e di Cristo l’impianto è
scultoreo e monumentale. L’angelo leonardesco ha una dolcezza e leggerezza ed è connesso alla visione del
paesaggio, allo sguardo sulla natura, che Leonardo sperimenta anche attraverso il disegno.
Leonardo, Studio per paesaggio della Val d’Arno, 1473
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La pittura per Leonardo è un’operazione scientifica di analisi della realtà. In questa visione, la foschia sale
dalla vallata, dilaga sia come realtà meteorologica sia come filtro mentale, intellettuale, con cui l’uomo
posa il proprio sguardo sulla natura. È comunque una visione antropocentrica.
Leonardo innova schemi e generi, come lo schema del ritratto:
Leonardo, Ritratto di Ginevra de’ Benci, 1475-76

È uno dei primi saggi degli anni fiorentino. La figura è posta contro una quinta arborea, resa nel dettaglio
botanico del ginepro e che fa da schermo, ma non bidimensionale: il cespuglio crea una zona d’ombra da
cui la figura in primo piano si stacca per via di una luce che la illumina e che la accarezza delicatamente con
effetti di avvolgimento sottili, che rendono anche i dettagli dei capelli, e suggerisce un’indefinita
caratterizzazione psicologica. È una figura che inizia ad emergere nella sua individualità, resa anche in
maniera simbolica attraverso il riferimento al ginepro, allusione al nome della figura.
Dall’impresa sul retro della tavola si capisce che il dipinto è stato tagliato e in origine includeva le mani, che
comunicavano la condizione psicologica ed espressiva di Ginevra. Già in questo ritratto, Leonardo inizia a
studiare le mani, che reggevano un fiore, promessa d’amore. Le mani sono studiate attraverso la punta
d’argento che lascia una traccia sulla carta, che è una tecnica che Leonardo utilizza negli anni fiorentini
insieme alla penna.
La luce è protagonista nel linguaggio di Leonardo, che sta elaborando il concetto di sfumato, cioè di minimi
passaggi di luce e ombra che non solo rendono la forma, ma la collocano in un filtro atmosferico, e sono in
grado di restituire il respiro della figura nello spazio. Questo sfumato, nei primi anni fiorentini, è ancora
legato all’insegnamento di Verrocchio, che però guarda all’allievo e reagisce alle innovazioni messe in
campo da questo genio.
Verrocchio, Dama con il mazzolino, 1475-76
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Dialoga con il ritratto di Ginevra de’ Benci, traducendo nel marmo i delicatissimi effetti della tornitura,
definizione dei tratti del volto, che sono da un lato ammorbiditi, dall’altro individualizzati nella capigliatura.
Il movimento della veste, delicato, accompagna e fa da sfondo a quello delle mani.
Leonardo, Profilo di capitano antico, 1478

Nel contesto del dialogo Verrocchio-Leonardo c’è anche un episodio narrato da Vasari, che riferisce che
Verrocchio aveva realizzato su commissione del Magnifico due teste di profilo di due condottieri antichi
(Alessandro Magno e Dario) da inviare al re di Ungheria. Siamo nel contesto di doni diplomatici che
sugellano rapporti intrecciati tra le corti italiane ed europee, in cui vediamo Lorenzo molto attivo, Ludovico
il Moro, ma anche altri principi delle corti italiane, che in questo modo mettono in atto una sorta di
conquista culturale, campagna di affermazione e prestigio della propria nazione culturale. Verrocchio si
confronta con il tema del ritratto di condottiero all’antica e crea un prototipo che viene anche replicato.
Leonardo coglie l’opportunità e riprende il modello del Dario III di Verrocchio in un ritratto di condottiero
all’antica di profilo.
Nell’interpretazione di Leonardo l’individualità del condottiero si carica in una volontà di resa fisionomica
anche aggressiva del volto, che si trasmette dalla figura all’insieme della rappresentazione. L’armatura si
anima quasi ruggendo con la testa del leone che sta sul decoro sulla corazza. Un esempio di questa carica
vitale e di questo moto e fiato che hanno le figure di Leonardo sin dalle prime opere.
Leonardo, Adorazione dei Magi, 1481-82
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Inizia a dipingerla per i monaci di San Donato a Scopeto e la lascia incompiuta a Firenze a causa della
partenza per la Milano di Ludovico il Moro. Rispetto ai modelli passati, è un’adorazione molto innovativa.
Al centro la Madonna con Bambino, non al centro di un telaio prospettico, ma fulcro di un’azione che si
sviluppa intorno attraverso la folla dei personaggi, che non si snodano come in un corteo, ma definiscono
un’ala drammatica intorno alla Vergine e reagiscono alla rivelazione del divino. Leonardo coglie il fulcro
emotivo, drammatico del soggetto, che diventa fulcro dell’azione che si svolge intorno. La piramide dei
personaggi in primo piano non è prospettica, ma un assetto bilanciato attorno al quale la scena si svolge
come rivelazione in atto. Anche il paesaggio vive e respira ed è in divenire nel nodo dei cavalli e nella rovina
dell’architettura classica, che crolla sotto i nostri occhi nel passaggio dall’età antica a una nuova epoca. Per
la prima volta in quest’opera lo spazio prende forma dalle figure stesse, dall’azione stessa. È uno spazio
generato dalla vita delle figure, da ciò che il soggetto significa nel suo farsi nello spazio. quindi i rapporti tra
le figure sono di ritmi interni, di un’armonia già piena e vitale.
26/11/2021
Leonardo si trasferisce in terra lombarda al principio degli anni Ottanta, ma nei decenni precedenti Milano
aveva comunque vissuto e sperimentato anche sul versante delle arti una serie di linguaggi con i quali
Leonardo si confronterà.
Intorno alla metà del Quattrocento, il ducato milanese passa dai Visconti agli Sforza. La dinastia dei Visconti
caratterizza la prima metà del secolo attraverso Gian Galeazzo, Giovanni Maria (assassinato) e Filippo Maria
(fratello di Giovanni), alla cui morte il ducato passa nelle mani del marito della figlia di Filippo Maria Bianca
Maria, Francesco Sforza. In realtà, questa successione non è chiara e merita di essere consolidata dagli
Sforza attraverso un’attenta strategia di alleanze politiche, ma anche di propaganda che avviene anche
attraverso il canale della cultura e delle arti. Filippo Maria da i due matrimoni non aveva avuto figli, mentre
dall’amante sì. Questa figlia Bianca Maria viene poi legittimata.
Il figlio Galeazzo Maria prende le redini del ducato nel 1466, sposa Bona di Savoia nel tentativo di
controllare le mire del vicino di casa piemontese, che tende a espandersi e riaffermare eventuali diritti di
successione. Tra gli anni di Francesco Sforza e Galeazzo Maria si assiste a un’apertura verso Firenze,
seguendo una strategia di alleanza politica con i Medici.
Galeazzo Maria muore nel 1476 e viene succeduto da Giangaleazzo Maria, allora minorenne, la reggenza
viene presa dalla madre Bona di Savoia e dal suo consigliere Cicco Simonetta. Dal 1480, viene gradualmente
esautorato e la reggenza viene presa in mano dallo zio, Ludovico “il Moro”, figlio di Francesco Sforza, il
quale nel 1494 assumerà il titolo di duca, dopo la morte di Giangaleazzo, forse avvelenato.
Ludovico il Moro tende a relegare Giangaleazzo ai margini, così come sua moglie Isabella d’Aragona, che si
vede sempre più messa in disparte. Nel frattempo il Moro sposa Beatrice d’Este, consolidando i rapporti
con Ferrara.
Bonifacio Bembo, Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, 1460
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Maestro della Pala sforzesca, Madonna con Bambino e santi Dottori della Chiesa, 1494

Costituisce una sorta di manifesto dei diritti di successione e anche delle diverse correnti di linguaggio che
caratterizzano le età di Ludovico il Moro.
Negli anni dei Visconti e ancora sotto Francesco e Giangaleazzo Maria Sforza, la vicenda artistica è
caratterizzata da una forte continuità della tradizione tardogotica. La scuola milanese rappresenta un
elemento di continuità che a lungo la corte mantiene: ouvrage de Lombardie, l’amore per lo sfarzo e il lusso
si identifica molto bene con Giangaleazzo, rispetto a Francesco. Il duomo di Milano, cattedrale del gotico
milanese, è ancora un cantiere aperto.
Per il castello sforzesco, la sede del potere, lavorano artisti come Bonifacio Bembo e una serie di altri nomi
che decorano la cappella ducale, 1473. Il Cristo risorto e mandorla è inserito in un cielo azzurro stellato,
senza segni di verosimiglianza.

Accanto a questa persistenza del gotico lombardo, si registrano in linea con l’alleanza medicea i primi
avvicinamenti al rinascimento toscano. Tra gli episodi significativi di queste penetrazioni fiorentine a
Milano, citiamo il soggiorno di Filarete, un architetto toscano, che era stato attivo anche a Roma, che a
Milano realizza un’opera trattatistica in cui riprende gli insegnamenti brunelleschiani e albertiani, ma senza
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l’impronta fortemente pragmatica. Quella di Filarete è un’opera letteraria di impronta retorica, in cui la
matematica e l’architettura diventano l’esercizio di una disciplina astratta che vira verso l’utopia, come ben
rappresentato dal disegno di città ideale di Filarete, che la immagina contenuta dentro un cerchio e una
stella:
Filarete, Sforzinda, 1460-65

Pigello Portinari, invece, è il responsabile della filiale del Banco Mediceo a Milano. Questa presenza
fiorentina è perseguita da Lorenzo il Magnifico, ma già negli anni di Cosimo vengono spediti in diversi centri
della penisola responsabili di filiali del banco, che interpretano non solo una presenza economica, ma anche
una strategia di alleanze politiche e di diffusione culturale. Questo vale particolarmente per Pigello
Portinari, che commissiona la ristrutturazione della sede del banco a architetti probabilmente toscani.
Michelozzo (?), Portale del Banco Mediceo, 1459

Portale a tutto sesto, affiancato da figure di statue di soldati all’antica e vittorie alate, di impronta
toscaneggiante.
Guiniforte Solari, Cappella Portinari
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L’edificazione e decorazione della cappella della chiesa di Sant’Eustorgio è oggi attribuita a Guiniforte
Solari, perché anche se l’impianto, grande spazio cubico sovrastato da una cupola e con un disegno molto
pulito e lineare, rimanda a Brunelleschi, questo modello brunelleschiano è poi tradotto con elementi
strutturali e decorativi propri della tradizione lombarda, come ad esempio l’uso del laterizio e gli stucchi
nella decorazione del tamburo. Questo si nota anche nella cupola, con gli spicchi con aperture circolari alla
base, e nell’esterno, che riporta ai materiali propri della tradizione lombarda.
Nella cappella Portinari incontriamo un altro interprete del graduale aggiornamento sulle novità
rinascimentali, Vincenzo Foppa, pittore di origine bresciana che lavora a Milano, diventerà poi il padre della
scuola rinascimentale bresciana. Si era formato dopo un primo contatto con il tardogotico a Padova. Entra
qui in contatto con le novità di Donatello e della bottega di Squarcione e della cappella Ovetari.
Vincenzo Foppa, San Siro, 1455?

Nell’impianto della figura e nella caratterizzazione del volto guarda alle statue di Donatello del Santo e alla
fisionomia del Gattamelata. A Padova, Foppa apprende anche l’uso del mezzo prospettico per
l’inquadramento dello spazio:
Vincenzo Foppa, Tre crocifissi, 1456

I tre crocifissi sono inquadrati da un arco rinascimentale con medaglioni all’antica. Alla base, c’è uno spazio
costruito prospetticamente, ma in cui la luce si appoggia lateralmente accarezzando, dando allo spazio una
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

verità di esistenza che prescinde dalle vicende umane. Lo spazio in Bellini e Mantegna diventa cassa di
risonanza delle vicende umane; lo spazio invece di Vincenzo Foppa ha una verità di esistenza da natura
morta.
Vincenzo Foppa, Cicerone bambino che legge, 1464

Affresco di Cicerone bambino. Una caratteristica del linguaggio di Foppa porta tutto il linguaggio retorico
del rinascimento padovano su un piano più umano e naturalistico attraverso l’uso della luce. La luce ha una
particolare tonalità argentina, vira verso il grigio. Non è una luce diretta, violenta, ma una luce che gioca tra
l’ombra e la penombra, rallentata come passo di lettura. Non è assoluta, come quella dei pittori di luce
fiorentina, ma laterale, incidentale, un caso reale di luce, che quindi ha la capacità di inverare, calare nella
realtà tutto ciò che viene rappresentato, le vicende umane, l’architettura e lo spazio.
Vincenzo Foppa viene coinvolto nella decorazione della cappella di San Pietro Martire:
Vincenzo Foppa, Dottori della Chiesa, Storie della Vergine e di San Pietro Martire, 1463-68

I tondi sono scorciati dal basso verso l’alto e aprono la prospettiva. All’interno di questa nuova logica
prospettica, Foppa rappresenta scene della vita di San Pietro martire con un tratto di verità “colto
all’angolo della strada”, ma interpretate da un’umanità non eroica, bensì con personaggi che vivono in una
dimensione più quotidiana e interpretano quindi anche un mondo di affetti quotidiani, che segue il passo
lento della luce. Grazie a una luce meno violenta e più sfumata dai mezzitoni del grigio, si apre anche un
mondo di valori che non a caso prolifera e si sviluppa soprattutto nelle zone di provincia, mentre nei centri
si affermano linguaggi più perentori.
Il putto si affaccia dal balcone ad osservare il miracolo di un piede risanato, con un atteggiamento
disinvolto e tenero, carezzato dalla luce.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Il senso di normalità lo ritroviamo anche nella scena drammatica dell’uccisione di San Pietro martire,
evento che viene riportato alla realtà di un fatto di cronaca, che si svolge in un paesaggio che non sente
l’esigenza di accordare sui toni forti della scena in primo piano, ma che ha una sua naturalezza che
prescinde da ciò che avviene nella storia dell’uomo.
I putti cantori e la Vergine assunta mostrano la tenerezza nell’atteggiamento e nei volti degli angeli e la
sfumatura argentina che intenerisce la volumetria della Vergine.
Accanto agli aggiornamenti da Firenze e Padova, dagli anni Settanta del Quattrocento, si registra un’altra
ondata di novità che viene da Ferrara (accordi matrimoniali e diplomatici). Questo rapporto si riflette
nell’attività di pittori come Bernardino Butinone e Bernardo Zenale, autori della pala d’altare, il Polittico di
Treviglio, o Cristoforo Menegazza e Giovanni Antonio Amadeo che lavorano per la Certosa di Pavia.
In entrambi notiamo linee spezzate, angolose e una caricatura espressiva che rimandano alla scuola
ferrarese. In realtà, su tutti e quattro, interviene un altro elemento di aggiornamento, dovuto all’arrivo di
Bramante in terra lombarda.
Bramante nasce e si forma a Urbino e attraverso un percorso che lo porta a toccare Ferrara, Mantova,
arriva prima di tutto a Bergamo.
Bramante, interno di un tempio con figure, 1481
Le figure sono scandite in progressione nello spazio e messe in risalto da un disegno potente. In
quest’opera si legge il percorso formativo dell’artista, l’impianto urbinate nel rapporto determinato tra
architettura e figure, ma anche la presenza di un’accentuazione antiquaria di derivazione mantegnesca e un
risalto delle fughe prospettiche, già presente nell’illusionismo mantegnesco. Si avverte anche una
formazione ferrarese.
Giovanni Antonio Amadeo, Flagellazione di Cristo
Notiamo le linee spezzate, ma anche il busto all’antica di Cristo e l’architettura con la testa cesarea entro
oculo.
Bernardino Butinone e Bernardo Zenale, Polittico di Treviglio, 1485-90

Lo sfarzo di ori è della tradizione tardogotica (che la corte milanese non abbandona), ma ora organizzato
prospetticamente con anche un rapporto tra la cornice e il dipinto. Ricorda Mantegna per i festoni. Si
accentua la monumentalità delle figure (soprattutto nella parte alta) che vengono verso il primo piano
mentre lo spazio alle loro spalle precipita.
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Sia nell’attività architettonica che pittorica, Bramante riprende la tradizione mantegnesca e albertiana.
Donato Bramante, finto coro, 1479-82

Nella Chiesa di Santa Maria presso San Satiro. Bramante si rifà all’impianto della chiesa di sant’Andrea a
Mantova con l’idea di un incrocio di navata e transetto di identiche dimensioni e centralizzate dalla
copertura della cupola all’incrocio dei bracci. Il modulo di ogni campata (coperte da volte a botte
cassettonata) è amplificato.
Mancando concretamente lo spazio per un’estensione del coro e per la realizzazione di questo modulo
nella zona del coro, ne dipinge uno in stucco, utilizzando la prospettiva in funzione illusionistica (Mantegna)
su scala monumentale, amplificando lo spazio reale del coro, che ha un impianto di pilastri, arcate e la
copertura a botte interamente in stucco.
Quest’amplificazione monumentale si può notare anche in
Donato Bramante, tribuna di Santa Maria delle grazie

Bramante sviluppa il tema dell’impianto centralizzato, con una scala molto accresciuta di proporzioni e
dimensioni, ma che comincia da una fase di ambientamento in area lombarda a tradurre attraverso i
materiali delle costruzioni lombarde: il cotto nelle decorazioni.
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Donato Bramante, Cristo alla colonna, 1480-85

La figura statuaria di Cristo viene non solo dilatata nelle proporzioni, ma proprio spinta verso lo spettatore
sul primo piano, anche grazie alla presenza del pilastro a cui si appoggia. La crescita monumentale deriva
quindi anche da uno studio dell’antico, ma anche da un uso particolare della luce, di derivazione urbinate e
ferrarese. È una luce che esalta la figura e sottolinea l’illusività sul primo piano, inanellando i riccioli della
capigliatura, andando a sottolineare la materia come di marmo del corpo negli incavi del volto o
dell’anatomia del busto: è una luce che scolpisce.
Questi aspetti vengono interpretati da:
Bartolomeo Suardi detto Bramantino, Cristo alla colonna, 1490

Riprende l’iconografia del Cristo alla colonna, ma non in una scena di flagellazione, ma di resurrezione, che
assume però caratteri quasi spettrali, grazie a una declinazione più lunare della luce, che deriva anche
dall’idea stessa di un notturno che sta sparendo all’alba, ma che è comunque presente in tutta l’opera di
Bramantino. È una luce che sbalza le pieghe del sudario di Cristo come se fossero quasi sbalzate in una
materia metallica. Si forma nell’ambito dell’oreficeria.
C’è una geometrizzazione estrema e un risalto prospettico, che diventa astratto.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Dentro al sudario metallico, risorge un Cristo ancora cadaverico, che ha anche nel dettaglio del volto una
forza di segno che spezza e geometrizza le linee del volto. Il principio di verosimiglianza del modello classico
in Bramantino si perde, complicandosi in una bizzarria dovuta all’applicazione di una geometria radicale.
Bramante, accanto al Cristo di Brera, realizza un affresco, nella camera della casa di Gottardo Panigarola già
di Gasparo Visconti. Una serie di nicchie si aprono nelle pareti, dentro le quali colloca degli uomini d’arme.
Donato Bramante, Uomo d’arme, 1487-88

Preminenza della figura che rappresenta uno sviluppo dei presupposti mantegneschi a Milano, ma
amplificati nella teatralità della rappresentazione e in uno spazio dilatato. Il punto di vista è ribassato. La
volumetria è forte. L’Uomo dallo spadone è costruito attraverso la geometria del mantello, che lo avvolge
seguendo l’andamento circolare della nicchia.
Bramantino, Argo, 1490

Bramantino mette alla guardia del castello Sforzesco un Argo, che si inserisce all’interno di un’architettura
dipinta, che ha una tale forza da sfondare il limite della parete, grazie anche agli elementi dell’architettura
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che hanno questo linguaggio che mette insieme la realtà degli elementi della struttura architettonica
(mensole, plinti che emergono dalla parete), ma anche tutto un formulario di scudi, rilievi in finto porfido o
il finto bronzo, elementi che rimandano al gusto delle imprese di corte, quindi con una forza
programmatica e dichiarativa dei nuovi gusti e del nuovo linguaggio della Milano rinascimentale.
In questo contesto arriva Leonardo. Per tutti gli anni Ottanta sarà però Bramante e la sua bottega ad
esercitare una decisa influenza sull’ambiente milanese, mentre l’attività di Leonardo si lega alla dimensione
più privata della corte. Poi anche la presenza di Leonardo si farà sentire, generando una corrente di
leonardismo milanese e un impianto di influssi che investe tutti gli artisti.
L’arrivo di Leonardo a Milano apre un periodo che dura circa 17 anni. Secondo alcune fonti fu proprio
Lorenzo il Magnifico a inviarlo agli Sforza come corriere di un domo prezioso:
Leonardo, Lira zoomorfa, 1487-92

Una lira da braccio a testa di drago (l’originale era di cavallo). Questo episodio ci riporta all’ingegno
multiforme dell’artista, che realizza uno strumento musicale e lo suona. È un oggetto creato e realizzato da
lui.
Leonardo, Studi di clavi viola

Sono degli studi per la clavi viola, uno strumento che Leonardo realizza ragionando sugli elementi interni.
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Leonardo viene ingaggiato però a Milano, secondo la lettera di autopresentazione scritta da Leonardo
stesso, per svolgere attività per Sforza, soprattutto come ingegnere militare, punto su cui Leonardo stesso
insiste, mettendosi al servizio di Sforza. La sua attività in questo campo è documentata da moltissimi
progetti grafici e disegni.
Leonardo, Arsenale

Sollevamento di un cannone.
Leonardo, Carri d’assalto muniti di falci

Carri d’assalto con falci rotanti.


Sono disegni che mostrano un’idea di movimento e di ambientazione delle scene.
Solo all’ultimo punto della sua lettera, Leonardo cita le attività artistiche:

architettura, scultura e infine pittura.


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Leonardo mostra di saper toccare le porte giuste, infatti il primo progetto commissionatogli è il
monumento equestre a Francesco Sforza, per il quale Leonardo lavorerà per tutto il suo soggiorno
30/11/2021
Leonardo si recherà alle scuderie per studiare l’anatomia dei cavalli. L’approccio dell’artista parte
dall’osservazione della realtà fisica dell’animale. Nel 1493 viene presentato un modello in argilla, ma non si
procederà alla fonditura in bronzo, perché verrà inviato a Ferrara per fare i cannoni.
Leonardo studiò inizialmente una soluzione con il cavallo impennato sul nemico, che è a terra. I diversi studi
sono
Leonardo, Studio di cavallo e cavaliere, con il cavallo che si impenna su un soldato a terra, 1485

È un disegno in punta d’argento su carta preparata in azzurro. Sfrutta l’azzurro a fini luministici. Sul fondo
azzurro, la punta metallica, con un segno molto sottile, anche ripassato più volte nei contorni, tracciando
linee diagonali, dà senso di animazione e di sfumato, nell’accezione che lo sfumato aveva assunto negli anni
fiorentini: suggerisce il senso di movimento indistinto.
Da questa prima soluzione, poi Leonardo passa a:
Leonardo, Studi di cavallo, 1490-91

Soluzione al passo, non più in movimento. Si rifà ai monumenti classici, quindi il Marco Aurelio e il
monumento di Donatello e del Verrocchio. Non vengono contraddette le precedenti soluzioni sull’anatomia
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

dell’animale, ma vengono ripensate alla luce del modello classico: si fa un passo in più verso una
formulazione rinascimentale del monumento equestre.
La soluzione al passo è anche più pragmatica per un monumento di dimensioni gigantesche e funzionale
all’opera. Abbiamo diversi studi che documentano il processo ideativo dell’artista.
È realizzato con la stessa tecnica della punta d’argento su carta preparata in azzurro. Il ductus è però
cambiato in relazione a una diversa esigenza espressiva: il segno è più deciso e forte, che evidenzia il senso
di risalto scultoreo, l’aggetto. Il tratteggio è cambiato, sempre diagonale ma più fitto, gioca su un senso più
forte di chiaroscuro.
Il confronto tra queste due prove ci fa capire meglio il passaggio dalla prima alla seconda versione della
Vergine delle rocce:
Leonardo, Madonna con il Bambino, san Giovannino e l’angelo “Vergine delle rocce”, 1483-84

È la versione più antica e più legata agli anni fiorentini, quindi al primo periodo del soggiorno milanese.
Le due composizioni sono molto simili, con la stessa ambientazione e lo stesso gruppo di figure: Madonna,
Bambino, san Giovannino e un arcangelo. È un’iconografia apparentemente identica, ma in realtà c’è uno
scarto tra le due versioni, reso esplicito dalla scelta delle piante che fanno da contorno al gruppo e che sono
chiavi simboliche di interpretazione.
La luce non ha una funzione costruttiva, plastica, anzi suggerisce l’affondo delle figure nell’atmosfera
dell’ambientazione, immersa nella penombra pulviscolare: lo sfumato è più mobile e indistinto (primo
cavallo). Le figure si dispongono lungo una diagonale.
La figura è più adolescenziale, verrocchiesca nella grazia fragile del personaggio e nella condotta elegante
delle luminescenze che si appoggiano sui capelli. È più quattrocentesca.
Entrambe le composizioni partono dall’idea dell’Adorazione dei Magi del 1481 (interrotta a Firenze), quindi
c’è una continuità con le opere fiorentine di Leonardo, per la costruzione piramidale. C’è una ricerca di una
maggiore unità compositiva che serra le figure.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Il tema ha un contenuto simbolico e narrativo: è l’incontro di Gesù e san Giovanni Battista adolescenti nel
deserto durante il ritorno dall’Egitto.
L’angelo introduce lo spettatore alla scena indicando il battista. Il Bambino è sul ciglio di una pozza d’acqua,
dipinta con una materia indistinta e leggera.
Il dipinto è stato sottratto al contesto originario, la Chiesa di san Gottardo in Corte a Milano, edificio
strettamente connesso al tema del battesimo.
Il battista è al lato della Madonna, che lo accoglie sotto il proprio mantello, descrivendo con il braccio e le
pieghe del mantello un movimento sofisticato (fiorentino verrocchiesco). Con l’altra mano viene verso lo
spettatore e verso la testa del figlio, in segno di protezione. L’attenzione si sposta alla funzione della
Vergine, che da un lato adotta il nipote e dall’altro protegge il figlio, legando così la profezia del Battista al
destino di salvezza che si attua attraverso il figlio. Gesù benedice il cugino, affidandogli il ruolo di
precursore di questo disegno di salvezza. C’è una circolarità di gesti, sguardi e atteggiamenti, che crea
anche grazie all’uso dello sfumato, immersivo, che crea un’atmosfera di dolcezza, ma carica anche di attese
per il destino dell’uomo.
L’incontro delle mani della Vergine, angelo e Gesù è il nodo simbolico e formale della composizione. La
mano dell’angelo è sviluppata con eleganza, suggerendo la traiettoria diagonale del gruppo. La mano di
scorcio di Maria colpisce lo spettatore con la stessa forza dello sguardo dell’angelo. è una mano significativa
del ruolo del personaggio, che esprime la sua interiorità e storia nell’azione dell’uomo. È una mano di
madre, che viene fuori con una certa immediatezza a proteggere il figlio. È protesa verso lo spettatore con
forza, vitalità, che indica tenerezza ma anche sacralità. È un gesto molto teatrale, perché la maniera
moderna che Leonardo elabora è un modo di comunicare più moderno. Il gesto di Cristo, con la manina
piccola di un bimbo, ha una sua tenerezza con il pugnetto chiuso e le due dita che interpretano il gesto del
pantocrator.
Leonardo ambienta questa invenzione in una grotta, con piani di acqua e una vegetazione legata a una
situazione di umidità della grotta. Potrebbe rappresentare l’utero materno, se riportiamo la grotta a
un’ambientazione nelle viscere della terra, come se ci trovassimo in un contesto primordiale. Il tema che
Leonardo sta rappresentando è collocato alle origini della storia dell’uomo moderno, della cristianità. È
un’idea di paesaggio propriamente leonardesca, che Leonardo svolge anche in altri dipinti e disegni, di
paesaggi reale, ma come passati al filtro celebrale dell’idea di un paesaggio fatto di rocce, fiumi, piani
d’acqua, che si presta a una modalità di visione (sfumato e prospettiva) per la quale, tra lo spettatore e il
paesaggio, c’è in mezzo la realtà dell’aria, il filtro di una visione atmosferica: quello che è più lontano ha
colori più pallidi, azzurrini, perché l’aria si inframette e determina l’effetto che trascolora. È un approccio
visivo che contiene in sé delle riflessioni anche di carattere scientifico sulla visione e su come i colori
reagiscono alla luce, che Leonardo affronterà anche in una serie di appunti sulla pittura e sul modo di
rappresentare il tema del paesaggio, raccolti poi sottoforma di trattato.
Questo tipo di paesaggio ha anche una sua connotazione storica, che riguarda i racconti dell’infanzia di
Cristo e del Battista. La grotta è quella che secondo la tradizione apocrifa era stata aperta miracolosamente
da un arcangelo, Uriele, che aiuta Elisabetta e il figlio Battista a fuggire dall’Egitto e che alla morte della
madre si prende cura del Battista. Al ritorno dall’Egitto Maria e Gesù vanno a fargli visita e adottano il
piccolo Battista. Il luogo si chiamava Sapsafa, una pianta che spunta nel dipinto nella parte alta. Di questo
episodio e luogo ci parlano diversi testi orientali del teatro di strada. Se per noi questo è un ruolo
misterioso, non era così nella Firenze di fine quattrocento e per Leonardo. Questo luogo esiste in
Terrasanta, sulle rive del Giordano. In questa grotta scorreva anche una sorgente d’acqua. Quindi Leonardo
ha con la fantasia e con la propria idea di paesaggio, reinterpretato questo luogo lontano dai resoconti dei
pellegrini e dai testi teatrali con degli inserti ripresi dagli studi botanici.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

In questo luogo esiste anche un altro santuario, che riguarda la storia dell’infanzia di Cristo, che troviamo
nei resoconti dei pellegrini, la quarta chiesa: Santa Maria della Cava, una caverna di pietra. Quindi il titolo
Vergine delle rocce coglie la centralità della Vergine e l’ambientazione rocciosa e combacia perfettamente
con questo santuario in Terrasanta. Leonardo ha saputo reinventare questo santuario, trasformando la
Santa Maria della Cava nella Vergine delle rocce. Le due caverne si sovrappongono: questo sottolinea il
tema presente nei vangeli del racconto dei due bambini, cioè l’incontro dei loro destini. Questo incontro è
presieduto da Maria, che si trova al culmine della piramide e che ha il ruolo di preveggenza rispetto alla
passione di Cristo. Maria partecipa al disegno di salvezza, perché non è come noi, ma concepita senza
peccato: questo tema si lega a quello dell’immacolata concezione della Vergine. Quindi Leonardo, dopo
questo dipinto, i francescani commissionano a Leonardo un altro dipinto sul tema dell’immacolata
concezione, quindi Leonardo ripensa questa soluzione nel 1490 per il pannello centrale di quel polittico. ↓
A questa interpretazione alludono tutte le specie botaniche in primo piano.
Questa è anche una commissione ducale per la cappella di corte.
Lo studio delle piante è scientifico e botanico: anche nella botanica c’è attenzione alla forma, alla natura
organica dell’elemento, alle sue applicazioni in ambito medico o nella colorazione di particolari tessuti o
nella realizzazione di pigmenti e ai valori simbolici.
Leonardo, Madonna con il Bambino, san Giovannino e l’angelo “Vergine delle rocce”, 1490

C’è un venire più innanzi del gruppo delle figure, che si offrono a una luce più forte con una qualità
argentina, che costruisce in primo piano il gruppo.
La figura della Madonna è più matura, sia anagraficamente, sia per la definizione della rotondità, più decisa,
che la identifica meglio e dà una certezza di questa forma piena e viva nello spazio.
Il tema centrale è Maria, quindi sparisce l’acqua e compaiono piante legate a Maria e ai suoi misteri. Qui
accade lo scarto iconografico tra le due Vergini delle rocce. Dalla rappresentazione dell’incontro dei
bambini a quello del dogma dell’immacolata concezione della Vergine, elaborato in questi anni in ambiente
francescano.
Leonardo studia una serie di disegni:
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Leonardo, Studio di paesaggio, 1480-1483

Leonardo, Studi per la Madonna con il Bambino e san Giovannino, 1485 circa

Disegno preparatorio per un’opera che Ludovico il Moro voleva inviare al re di Ungheria. Nel disegno si
vede la stessa composizione ripresa più volte variandola: il pensiero dell’artista cresce e riflette sullo stesso
tema. Probabilmente il dipinto devozionale doveva avere una cornice molto simile a quella della Vergine
delle rocce. Manca il personaggio dell’arcangelo, che è quello che attira di più l’attenzione.
Leonardo, Ritratto di Cecilia Gallerani “La dama con l’ermellino”, 1486-87
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Leonardo esplica la sua versatilità e il suo genio creativo ideando costumi per feste e spettacoli, congegni
per rappresentazioni teatrali, poesie o motti di spirito… Nell’ambito della corte e per la sua capacità di
cogliere la personalità dei diversi membri della corte, è anche un abile ritrattista. La produzione ritrattistica
inizia a Firenze e cresce a Milano, restituendo figure di grande fascino che appartengono all’ambiente della
corte. Tra queste, la dama con l’ermellino, la giovane amante del duca, che Leonardo ritratta nel 1486
quando aveva appena 12-13 anni. Il Moro vuole ingravidarla, cosa che avviene 5 anni dopo, a coronamento
di una relazione duratura, di cui si parla in tutte le corti italiane, soprattutto nel 1490 quando il duca si sta
per sposare con Beatrice d’Este.
Il ritratto che Leonardo realizza mette in scena il forte legame di questa figura con il duca.
L’ermellino è un’allusione all’Ordine dell’Ermellino di cui Ludovico il Moro era stato insignito da parte del re
di Napoli. È citato in varie missive come cifra del Moro. Cecilia stringe lo stesso ermellino, il Moro, che è
una sorta di dono che il duca le fa. Questo è il dono di sé stesso, quindi l’animale è molto denso di
significato. L’ermellino è anche un riferimento al cognome di Cecilia, perché il greco l’ermellino si chiama
galee. È anche un animale che Leonardo presenta come esempio di purezza e moderazione. Leonardo
quindi gioca con le parole, un rebus, come fa con i suoi motti di spirito.
È un ritratto di spalla e in movimento. Ha il busto voltato da una parte e la testa dall’altra come se stesse
rispondendo a una chiamata (ovviamente del duca). In questo atteggiamento disegna un movimento a
spirale, istintivo come quello dell’ermellino, ma anche molto aggraziato: ricorda lo studio del cavallo in
movimento e la prima versione della vergine delle rocce, hanno la stessa cifra di stile, così come le mani.
Cecilia si appropria delle stesse caratteristiche dell’animale, sofisticazione ed eleganza, che il Moro
riconosceva a questa bellissima e acerba (come la prima Vergine) amante. C’è un ideale estetico nelle corte
che apprezza la bellezza dell’adolescente non ancora del tutto definita e con fragile grazia, che
riconosciamo anche alla nobile, formosa e onesta Cecilia. Questa maturità precoce ci viene testimoniata
dalla stessa Cecilia, che scrive a Isabella d’Este, la quale voleva vedere questo ritratto. Ora Cecilia ha 25
anni, diventata musa di letterati e poeti. Lei scrive che non si riconosce più in quel ritratto, non per difetto
del maestro, ma perché è completamente cambiata.
Leonardo, Ritratto di dama (Isabella d’Aragona?) “La belle Ferronière”, 1491-92

La principessa aragonese ha sposato Giangaleazzo Sforza, che viene gradualmente esautorato dal duca. Si
pone quindi in un atteggiamento di scontro, ma passa davanti allo spettatore dietro il davanzale in maniera
diversa, con un movimento non più sofisticato, ma con una propria solidità che viene avanti nella luce
(come secondo cavallo e seconda Vergine).
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Leonardo, Ultima cena, 1495-97

L’approdo del percorso di Leonardo è quasi alla fine del suo soggiorno milanese, L’ultima cena. Leonardo la
dipinge sulla parete del refettorio di Santa Maria delle Grazie.
Gli apostoli appaiono ingranditi nella forma, ma anche nella sostanza, esprimendo ciascuno il proprio ruolo
nell’episodio del cenacolo, episodio del dogma eucaristico. È un riferimento sia al banchetto divino che alla
mensa dei monaci quando consumano i pasti. Questo legame è realizzato da Leonardo proiettando le figure
quasi a grandezza naturale, quindi con le stesse proporzioni dello spettatore, ma anche a proiezione di una
prospettiva che connette spazio dipinto e reale.
Leonardo, al termine del suo percorso milanese, si è rapportato alla cultura prospettica bramantesca:
L’ultima cena, al termine del soggiorno, è anche l’opera più milanese di Leonardo, che mostra la sua
capacità di sintonizzarsi con l’ambiente locale. La prospettiva gli è utile nel contesto per creare questo
legame con lo spettatore. Lo spazio allunga illusionisticamente quello reale del refettorio, anche se la quota
è rialzata, questo perché allude a una dimensione più alta. La figura di Cristo, nel momento dell’istituzione
eucaristica, veniva a trovarsi esattamente sopra la testa dell’abate, a sottolineare il rapporto tra il modello
istituito da Cristo e apostoli e il modello della vita monastica.
Il tema dell’Ultima cena viene rinnovato da Leonardo, anche scegliendo di rappresentare non il momento
dell’annuncio della propria morte, ma del tradimento di Giuda. Questo annuncio determina l’isolamento di
Cristo al centro della scena, che dopo aver pronunciato le parole si ritira nella riflessione del proprio
destino, davanti alla finestra che lo inquadra, mentre ai suoi lati si propaga l’effetto delle sue parole
determinato dalle reazioni degli apostoli, di sgomento, sorpresa, dolore, che esprimono attraverso viso,
movimenti e mani. Sono in gruppi di tre. Ognuno di questi gruppi ha una propria compattezza, ma è
correlato agli altri. All’interno di questa continuità però ogni apostolo interpreta un ruolo e uno status fisico
ed emotivo che Leonardo studia per trovare la via espressiva di resa della dimensione interiore dell’uomo. Il
movimento dei volti, dei corpi e delle mani devono tramettere un moto interiore.
La tecnica è innovativa, Leonardo continua a sperimentare nel corso della sua vita, andando anche incontro
a fallimenti. La tecnica esecutiva di Leonardo, che mischia la pittura ad olio alla tempera e rifinisce in olio e
argento, ha condannato poi l’opera al degrado, nonostante le opere del restauro.
Ci aiutano studi e disegni, che sono disegni di insieme, ma soprattutto di teste e mani (soprattutto al
Windsor Castle). Sono realizzati in diverse tecniche (matite, pastelli creati con pietre colorate, carte
preparate per valorizzare il segno e gli effetti di luce e sfumato…).
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Leonardo, Studio per la testa di Giuda, 1495-97

Matita rossa su carta preparata in rosso. Si passa dalla punta d’argento alla matita perché consente di
disegnare con immediatezza (che deve essere ripassata), ma ha i contorni più sfumati, quindi consente di
cogliere il divenire delle espressioni umane. Mette in evidenza la tensione dei muscoli del collo e dà una
carica di sentimenti negativi che preludono al suo suicidio. È la stessa carica che metterà nello stringere con
la mano la borsa dei denari, con le vene che si gonfiano.
Leonardo, Studio per la testa e la mano di san Giacomo, 1495-97

È realizzato in matita rossa su carta bianca, per dare grande densità di ombra nell’incavo degli occhi e della
bocca per la carta bianca. Giacomo apre le braccia e spalanca la bocca e gli occhi, indicando con tutto il suo
corpo la reazione. Il suo atteggiamento è molto più sentimentale. Facendosi avanti con il petto dichiara la
propria innocenza.
Tommaso chiede se è lui il traditore. L’atteggiamento di Tommaso è indicativo, è il dito che metterà nel
costale di Cristo.
Leonardo, Studio per la testa di san Simone
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Dialoga con gesto teatrale delle mani. È una testa di due anziani, cioè tra due sapienti. I due apostoli hanno
l’aspetto di due apostoli dell’antichità: uno barbuto e uno calvo. Il disegno insiste sul profilo corrucciato del
volto, speculare a quella del cranio che si ripiega dietro la nuca ad indicare anzianità e forza di carattere. Il
profilo è caratterizzato dall’insistenza per esempio del segno rosso dell’occhio sotto il sopracciglio o del
mento sporgente o della gola con il pomo in evidenza. Tutto questo è reso attraverso un segno forte e
definito rispetto a un piano di fondo che ha una sua verità atmosferica. Ecco perché utilizza la carta
preparata, in maniera tale da collocare il profilo in rosso dentro una situazione atmosferica che riverbera
dello stesso rosso.
Leonardo, Studio di testa imperiale coronata di foglie di quercia, circondata da quattro teste che la
deridono, 1491-95

A partire da questo e altri disegni si svilupperà un filone di teste di carattere. È a penna, ma rende molto
bene la resa atmosferica e luministica che tiene insieme queste figure. Al centro sta una figura di profilo
coronata di alloro. Ha una sua nobiltà pur nella vecchiaia. Intorno, le figure colgono la vecchiaia in termini
grotteschi. Leonardo gioca con la fisiognomia e coglie il grottesco attraverso una caratterizzazione anche
morale. C’è una figura nobile e delle figure invece che hanno perso il filo razionale e la deridono. Hanno
bocche sdentate, nasi o bocche quasi animaleschi.
Leonardo, Studio delle teste di un vecchio e di un giovane affrontate, 1491-95

Il tema della vecchiaia, alla quale viene restituita nobiltà classica di sapiente, va spesso insieme alla volontà
di confrontare una testa di vecchio con una testa invece di giovane.
02/12/2021
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Leonardo, Ultima cena, 1495-97


La scena va ad occupare l’intera parete di fondo della stanza e a connettersi attraverso un sistema di
lunette con simboli sforzeschi alle vele della volta, per poi aprire attraverso una cornice uno sfondato
prospettico che amplia lo spazio reale del refettorio e allo stesso tempo si connette con la mensa reale dei
frati domenicani. Quest’uso della prospettiva costituisce un modo per Leonardo di confrontarsi
direttamente con Bramante e l’ambiente milanese degli anni Ottanta. Leonardo trova chiavi di
comunicazione con la presenza di bramante e svilupperà uno stile che dagli anni Novanta diventerà
modello e si diffonderà. Il cenacolo è un affresco destinato a dialogare con l’ambiente lombardo, perché
all’interno di questa grammatica prospettica Leonardo innesta un’interpretazione assolutamente personale
e che va in direzione della maniera moderna.
La composizione è collocata in un ambiente che ripete la pianta reale, ma non con un soffitto a volte, bensì
a cassettoni, come un soppalco che si sviluppa aldilà della parete (realtà legata a quella terrena ma
separata). Il soffitto e le pareti seguono una progressione prospettica, scandita sulle pareti da finti arazzi.
Il fondo non è chiuso, c’è una parete che attraverso tre finte aperture si apre verso il paesaggio, dove
intravediamo un orizzonte di monti e cielo. Noi vediamo la scena in controluce, in cui le figure sono
proiettate verso il primo piano non per via di risalto prospettico ma perché ingrandite nella forma, dando
sostanza visiva alla scena in primo piano. L’atmosfera di luce dialoga con lo spazio interno, perché c’è una
fonte di luce anche che proviene da dentro e illumina la tavolata, ma anche con la luce esterna, che
inquadra la figura di Cristo e la isola con un’intensità carica di simbolismo al centro della rappresentazione.
L’isolamento di Cristo è denso di significati religiosi, ma anche di carica sentimentale.
Leonardo coglie il dialogo tra Pietro e Giovanni del vangelo: Pietro domanda a Giovanni di chiedere a Cristo
chi sia il traditore, Giovanni lo ascolta ma un attimo dopo, secondo il vangelo, si abbandonerà sul cuore di
Gesù. I tratti delicati pieni di grazia di Giovanni lo contraddistinguono nella tradizione iconografica e
Leonardo lo interpreta scendendo nel profondo del trasporto sentimentale. L’incontro tra le due teste è tra
il vecchio saggio e il giovane delicato e anche instabile nella propria sentimentalità, tema che si ripete
nell’opera di Leonardo e che acquista maggior intensità dal profilarsi della testa di Giuda, che si allontana
dal dialogo conscio di essere lui il traditore.
Leonardo, Studio per la testa di san Filippo

Ha le mani rivolte verso l’interno. Il gesto languido accompagna l’espressione del viso, studiata a matita
nera con un ductus diverso. Mentre nel San Giacomo la matita rossa scavava la bocca e gli occhi rendendo
la drammaticità, nel San Filippo la matita nera disegna un viso pieno di grazia. La mano di San Filippo si
appoggia delicatamente al tavolo.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Negli studi di mani, Leonardo utilizza la matita rossa su carta preparata in rosso e studia la sostanza
comunicativa di una mano con sensibilità luministica e poetica. La mano di Giuda ha le vene che pulsano
sotto pelle. Stringe la borsa dei denari con veemenza ma anche disperazione (prevede il suicidio).
Questo momento milanese si interrompe per l’incalzare degli eventi: nel 1499 scende in Italia Luigi XII che
rivendica il ducato di Milano e il regno di Napoli. I francesi entrano a Milano, buttano giù il monumento a
Francesco Sforza (modello in argilla). Leonardo dopo poco fugge e va a Mantova alla corte di Isabella d’Este,
poi a Venezia come ingegnere militare e poi torna a Firenze. Il suo passaggio a Venezia sarà fondamentale
per la svolta di Giorgione verso la maniera moderna.
A Mantova, Leonardo lascia un ritratto su carta realizzato a pastelli colorati. È un esempio di pittura a secco
su carta che determina il diffondersi di un collezionismo di disegni, soprattutto di “teste colorate” (ritratti).
Leonardo, Studio per il ritratto di Isabella d’Este, 1499-1500

Sembra ancora un esito della tradizione numismatica quattrocentesca. In realtà Leonardo rinnova
dall’interno quel modello, secondo i gusti della corte mantovana: il profilo non è bidimensionale, ma
attraverso il delicato sfumato e la luce che gioca con il foglio bianco per ritrovare la qualità lunare tra parti
in pieno rilievo e parti invece in ombra, che definisce pienamente la forma di questo volto. Anche se di
profilo ne avvertiamo tutta la rotondità, così come la pienezza e allo stesso tempo la leggerezza della
capigliatura della donna. I capelli sono morbidi, ma tenuti molto uniti insieme da una retina, secondo una
moda del tempo. Questi dettagli di costume sono importanti per capire il codice di autorappresentazione
delle corti attraverso la moda. Non sono dettagli frivoli, bensì definiscono la signorilità e quindi anche un
valore interiore della figura. Infatti, questa capigliatura così morbida crea una zona d’ombra che definisce
l’interiorità di Isabella d’Este.
Sotto la testa si accampa un busto di ¾ che si allarga sul primo piano e definisce una rotazione: la figura ha
un suo movimento interno, sottolineato anche dalle pieghe della veste e dalle mani che vanno ad
appoggiarsi l’una sull’altra.
Leonardo torna a Firenze dopo la cacciata di Piero il Fatuo e la drammatica esperienza della repubblica
teocratica di Savonarola. Si era poi affermato un nuovo assetto repubblicano laico guidato da Pier Soderini,
che nel 1502 trasforma la propria carica di gonfaloniere di giustizia in una carica a vita (fino al 1512). Pier
Soderini è un personaggio che si era formato molto vicino ai Medici alla corte di Lorenzo il Magnifico. È una
figura vicina per formazione e orizzonte culturale alla Firenze medicea, ma cala quei valori della cultura
laurenziana in questo nuovo contesto repubblicano, che viene vissuto in un clima di risveglio civile, di
orgoglio municipale, che fa rinascere certi valori che avevano aperto il Quattrocento a Firenze. Il riscatto
repubblicano si attua anche attraverso una politica di prestigio culturale: Pier Soderini richiama gli artisti
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

che Lorenzo aveva inviato fuori da Firenze per far rifiorire il prestigio culturale della città. Ci sono nuove
opportunità di committenza, quindi gli artisti accorrono a Firenze nel primo Cinquecento, dove si assiste a
una congiuntura nell’ambito della quale viene formulato il primo classicismo rinascimentale
cinquecentesco, che poi si trasferirà a Roma. I protagonisti sono Leonardo, Michelangelo e Raffaello.
Ancora una volta, a inizio secolo, ci troviamo a Firenze, in una situazione di fervore culturale e politico.
Leonardo viene chiamato inizialmente nelle vesti di ingegnere militare (non disgiunte dall’attività artistica)
da Pier Soderini su consiglio di Machiavelli. Una delle prime opere che Leonardo realizza a Firenze è un
cartone preparatorio sul tema della sant’Anna per la chiesa della Santissima Annunziata. Ce ne parla Vasari,
che racconta che veniva esposto e diventò un’invenzione di confronto per tutti gli artisti fiorentini e un
tema di esercizio.
Leonardo, Madonna con il Bambino, sant’Anna e san Giovannino, 1503-04

Leonardo riprende un tema di tradizione fiorentina, quello di sant’Anna (Masaccio), ma lo reinterpreta in


maniera più moderna. In questa composizione, Leonardo riprende il discorso iniziato a Milano della resa
monumentale e cresciuta dal punto di vista della sostanza emotiva delle figure, ma lo cala nel contesto
fiorentino. Interpreta il tema fiorentino cercando una nuova sintesi, non geometrica, ma comunque dettata
da quella stessa volontà di ridurre l’immagine a unità, che diventa sempre più organica. Le figure sono
serrate in un unico blocco monumentale, piramidale e internamente articolato, non lateralmente,
attraverso i moti che fluiscono internamente, accompagnati dalla fluidità e continuità dei panneggi e del
dialogo di teste e mani. La maniera moderna punta non a restituire l’uomo come una volumetria nello
spazio geometrico ma come unità psicofisica viva, all’interno di uno spazio che anche vive, pieno di
atmosfera.
In questo senso, Leonardo reinventa anche il tema, perché la Madonna non è solo seduta in braccio a
sant’Anna, ma tutt’uno con la madre. Sant’Anna diventa un alter ego della Madonna, solo leggermente più
matura. C’è una fusione totale che è di forma e di contenuti (ha un significato anche sentimentale e
spirituale). Il fluire dei sentimenti si trasmette all’intero gruppo. Mentre il gesto di Sant’Anna indica verso
l’alto indicando una realtà superiore, Maria allo stesso tempo è preveggente quindi guarda con tenerezza a
suo figlio e lo offre al suo destino inesorabile. Questo gesto si materializza nel gesto di Gesù, che si rivolge
direttamente a San Giovannino. Mentre con una mano benedice, con l’altra si avvicina quasi ad accarezzare
il volto del cuginetto. San Giovannino si accosta a Gesù bambino come il cugino maggiore, con la tenerezza
di affetti che Leonardo per la prima volta riesce ad esprimere con tanta novità di contenuti, mezzi e
linguaggio. È anche una figura consapevole del proprio ruolo di precursore sulla strada della rivelazione e
della salvezza.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

È quindi un tema denso dal punto di vista teologico e spirituale, ma calato in una verità di sentimenti e in
una pienezza di forme incredibile. Nel modo in cui Leonardo concepisce almeno questo cartone (non
sappiamo quello precedente) indica un ripensamento del tema da lui stesso inventato probabilmente già in
dialogo con Michelangelo. Il tema del gruppo sacro diventa il saggio di confronto e di dialogo in un rapporto
di scambio e crescita stratificata tra Leonardo e Michelangelo, ma anche di Raffaello.
L’altro tema su cui si confrontano Michelangelo e Leonardo è la decorazione del Salone dei Cinquecento nel
Palazzo Vecchio sulla Battaglia di Cascina (Michelangelo) e di Anghiari (Leonardo). Entrambi non arrivarono
a realizzare l’affresco, ma ci rimangono un’infinità di studi preparatori, sia di composizione che di singoli
dettagli. Arrivarono entrambi al cartone finale 1:1. Lavorarono in segretezza, molto gelosi delle loro
invenzioni.
Leonardo, Studio per la Battaglia di Anghiari, 1503-05

Nella rappresentazione della battaglia Leonardo immagina il tema come una sorta di vortice che travolge
uomini, animali. Rende il fumo dell’artiglieria e l’aria impolverata. Leonardo si pone anche il problema del
punto di vista della battaglia. Accompagna questo studio fenomenico della visione (luce) al recupero dei
testi classici, iconografie e tecniche. Leonardo adotta un punto di vista che si definisce teicoscopia, cioè
dalle mura della città: è lo sguardo sul campo di battaglia che ritroviamo nei poemi epici (Iliade). Si tratta di
un tema ricostruito a partire anche dalle fonti letterarie classiche. La teicoscopia consente una visione
completa della battaglia, e quindi anche la possibilità di rappresentare questo episodio corale nella sua
dimensione complessiva, potendo poi però anche posare lo sguardo sulla singola figura (come uno zoom). È
ciò che succede nei poemi epici.
In mezzo alla polvere, i soldati vengono quindi studiati anche nelle singole teste urlanti. In questa pazzia
sono coinvolti anche gli animali.
Rubens da Leonardo, Battaglia di Anghiari
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Mentre gli uomini hanno quasi espressioni animalesche, gli animali hanno atteggiamenti spaventati, che
seguono le sorti degli umani: in effetti, anche loro combattono in prima persona il furor della battaglia.
L’esito viene raggiunto quindi attraverso l’osservazione fenomenica ma anche attraverso la speculazione
teorica e la sperimentazione dei mezzi tecnici.
Leonardo, Gioconda, 1503

Dal Trattato della Pittura (XVI secolo) di Leonardo Da Vinci possiamo cogliere anche la chiave di lettura della
Gioconda, che ci fa capire il fascino e la complessità del linguaggio dell’artista. La Gioconda si colloca di
seguito a quel percorso ritrattistico già visto. È il ritratto della moglie di Francesco del Giocondo, la
cosiddetta Monna Lisa. Il modulo della figura riprende quella tipologia che in realtà Lenardo aveva
sperimentato nella Ginevra de’ Benci, per inserirla però in una dimensione di massimo affinamento della
tecnica dello sfumato, che riesce a rendere la mobilità imperscrutabile dell’espressione umana. Leonardo
non coglie una singola espressione, ma la mutevolezza espressiva.
Questo tratto in divenire della psicologia della figura in primo piano è perfettamente accordato al
paesaggio alle sue spalle, che Leonardo dipinge applicando la prospettiva aerea, che descrive nel trattato
della pittura. (leggi sopra)
Leonardo indaga l’atmosfera come qualcosa non del tutto trasparente, ma con una sua densità. In questa
chiave di restituzione della realtà in continuo divenire attraverso i trapassi di luce e ombra e il trascolorare
dei colori in questa densità atmosferica sta la verità di linguaggio della Gioconda.
03/12/2021

Michelangelo Buonarroti
Nasce nel 1475 e nel 1488 si affaccia alla bottega del Ghirlandaio, dove farà un apprendistato. Nel
frattempo, Leonardo è già un attivo e affermato. Michelangelo durante l’apprendistato studia tutti i grandi
artisti del Quattrocento fiorentino, quindi Giotto, Masaccio e Donatello. Lo fa attraverso il disegno, che
viene ad affermarsi come primato della tradizione raffigurativa fiorentina. Ma per lui il disegno non è un
esercizio fine a sé stesso, bensì un filtro consapevole di studio e rielaborazione di concetti che diventeranno
fondamentali nel suo operare artistico.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Michelangelo, Studio di figura maschile panneggiata in piedi

È San Pietro, trae dal Tributo di Masaccio.


Nel trattamento del rilievo attraverso questa condotta grafica definita “retino” (tratto incrociato che
determina pieni e vuoti) Michelangelo coglie la forma plastica di Masaccio. L’eredità masaccesca nella
storia di Michelangelo sta nella restituzione della forma e dell’anatomia umana come senso plastico. Tra da
Masaccio anche corrispondenza tra le proporzioni della figura e la misura morale dei personaggi (tratto a
sua volta da Giotto).
Questo concetto matura in Michelangelo in forme rinnovate, rappresentando l’energia interiore della
figura: concepisce la figura in modo non più volumetrico geometrico, ma in modo più moderno, in cui la
forma libera energia nello spazio e si manifesta come forma viva, organica.
Dalla bottega del Ghirlandaio, Michelangelo viene accolto nella cerchia di Lorenzo il Magnifico, in
particolare nel giardino del Palazzo Mediceo a San Marco, luogo in cui si conservano anche le collezioni di
antichità dei Medici, che si offrono allo studio anche degli artisti. Il conservatore delle collezioni medicee è
lo scultore Bertoldo di Giovanni, che sostituisce Ghirlandaio nel patrocinio di questa prima formazione di
Michelangelo. Ma nel giardino di San Marco, Michelangelo incontra anche poeti e Pico della Mirandola,
erede della scuola neoplatonica laurenziana, che introduce Michelangelo nel clima del neoplatonismo,
dottrina che nasce in ambiente di élite tra filosofi, letterati ed artisti, ma che anche tocca diversi aspetti
della vita sociale. Il percorso che Michelangelo fa in questi ambienti è molto originale, l’artista coglie alcuni
aspetti che diventano poi elementi portanti del suo linguaggio per tutta la sua esperienza artistica. In
questo si accorda al contesto, ma in maniera personale.
Il tema neoplatonico del primato dell’idea, che preesiste alla stessa concezione artistica, è una delle sue
ispirazioni: è una forma perfetta, ideale, che l’artista ha il compito di liberare dalla prigionia della materia,
non solo nella concezione, ma in tutto l’operare artistico. Nel marmo già esiste una forma ideale che
l’artista libera togliendo la materia. In questo concetto c’è anche una proiezione dell’artista, che crea a
partire da un’ispirazione che è presente nell’interiorità e che deve trasferire nella forma esterna. Quindi
l’atto creativo è espressione del furor dell’anima (l’anima è un altro concetto neoplatonico).
Questa concezione comincia a farsi strada sin dalle prime opere che Michelangelo realizza a San Marco, sul
modello della scultura artista.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Michelangelo, Centauromachia, 1490-92

Il soggetto è probabilmente ispirato da Agnolo Poliziano per Lorenzo Magnifico. Il tema della battaglia viene
condotto sul modello dei bassorilievi antichi pure presenti nelle collezioni medicee. In questo rilievo la
condotta del piano di fondo, lasciato grezzo con l’evidenza dei segni dello scalpello (in realtà sono
volontariamente sottolineati). Questo elemento di fondo rende evidente l’emergenza della forma plastica
dalla materia grezza. La forma plastica però si rivela come liberazione dell’energia del corpo umano, anche
attraverso il tema del nudo, un altro Leitmotif del linguaggio michelangiolesco. Il corpo nudo non solo si
collega ai modelli antichi, ma consente all’artista di esprimere l’energia umana attraverso l’esibizione del
corpo in forte movimento continuo, quindi attraverso torsioni, concatenazioni. È l’ideale della statuaria
classica che viene reimmesso nella modernità, con un’attualità espressiva nuova. In questo c’è anche la
volontà di mettere in evidenza l’operato dell’artista. Non solo rappresenta una battaglia, ma mette in
evidenza i principi formali e operativi della scultura moderna.
Bertoldo di Giovanni, Pegaso e Bellerofonte

Michelangelo, Madonna della scala, 1490


Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Evidenzia il rapporto di Michelangelo con i precedenti quattrocenteschi (Donatello, Madonna Pazzi).


Michelangelo ripensa il modello donatelliano, riprende l’uso dello stiacciato (rilievo che sfrutta delle
minime variazioni di spessore), ma non all’interno di una dimensione prospettica come quella che
Donatello sottolineava anche attraverso la cornice, bensì all’interno di questa nuova concezione plastica e
organica della forma. Per cui le figure dei putti sullo sfondo, appena abbozzati, non indicano tanto una
proporzione nella distanza, ma il principio generativo della forma dalla materia grezza, che prosegue
proprio attraverso il venire innanzi della scala, che viene innanzi generandosi plasticamente nello spazio,
con una forza nel venire innanzi sottolineata dalla figura del terzo putto che si avvinghia al davanzale della
scala con un movimento in torsione (vitalità).
La scala è sintomatica di come Michelangelo svilupperà anche i suoi progetti architettonici. Anche quando
Michelangelo lavora come architetto o pittore, continua a concepire la forma in termini scultorei.
Anche il Bambino in primo piano è torto, sembra venire fuori dal corpo stesso di Maria, che alza il mantello,
che diventa massa tanto quanto il nudo: dalla massa del mantello si genera questa figura che sembra
nascere come dal ventre. Quello del Bambino e della Madonna è il gruppo con maggiore vitalità, non per un
ragionamento prospettico (la prospettiva è già acquisita). Le figure vengono proiettate ingigantite nella
forma (come nell’Ultima cena di Leonardo). La Madonna ha uno sguardo triste che prevede la morte del
figlio (Maria è consapevole del destino del figlio). Mentre dà vita e svela il mistero della divinità di Cristo è
partecipe contemporaneamente del destino di passione e resurrezione del figlio.
La maniera moderna, più vitale ed espressiva, è anche in grado di esprimere dei concetti più alti e densi. C’è
una nuova capacità di sintesi, che non è più quella geometrico-prospettica, ma più vitale, spesso per
esprimere dei contenuti sacri o ispirati da sentimenti cristiani. Questa capacità di fondere tradizione
classica e cristiana è un altro traguardo di Michelangelo, che è destinato ad amplificarsi a contatto con
Roma. Il contatto con Roma è precoce, perché viene chiamato a Roma nel 1496, mentre si trovava a
Firenze. A Roma era arrivata una scultura raffigurante un putto dormiente che il cardinale Raffaele Riario
aveva acquistato pensando fosse un pezzo antico, in realtà era di Michelangelo. Quando Riario lo scopre,
apprezza moltissimo l’artista e lo chiama. Michelangelo arriva già a Roma con la fama di giovane artista in
grado di confrontarsi con la grandezza degli antichi.
Michelangelo, Bacco, 1496-96

È un tema pagano, realizzato per una committenza ecclesiastica, che sembra esprimere un concetto di
oscillazione della figura che appartiene alla sensibilità cristiana. Si intuisce la possibilità che Michelangelo
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

abbia riletto la figura di Bacco come una sorta di prefigurazione del sacrificio di Cristo. In questo senso, si
avverte da parte dell’artista e dell’ambiente che lo ha ispirato la consapevolezza dell’operazione di
sincretismo culturale che il cristianesimo aveva operato rispetto ai miti pagani: parti della vicenda di Cristo
vengono esemplati sulla figura di Bacco e sui valori che Bacco aveva rappresentato nell’antichità. Bacco è
legato al culto della vite e alla produzione del vino: il calendario dei riti bacchici viene reinterpretato nel
calendario delle festività cristiani.
Il Bacco ha un suo equilibrio instabile, che rappresenta il tema dell’ebrezza non tanto come smodata
ubriacatura quanto come liberazione di energie interiori. Bacco nella denominazione romana è anche detto
“libero”, libera l’animo umano e gli consente di esprimersi con maggiore immediatezza. In questo senso la
figura ostenta nell’acconciatura e nella coppa che regge il vino come il veicolo per liberare l’anima dagli
affanni.
Accanto a lui sta un satiretto, che diventa sostegno della statua e che con questa condotta ad S, innesca un
movimento di risalita. È una figura internamente articolata, ma che ha poi un suo equilibrio.
Un’altra versione di queste soluzioni formali in ambito esplicitamente cristiano è:
Michelangelo, Pietà, 1497-99

Viene commissionata da un cardinale francese per la sua sepoltura (in realtà viene trasportata in Vaticano).
Il tema è quello del compianto su Cristo morto, tema di origine nordica (Vesperbildt), ma che Michelangelo
rilegge secondo un ideale classico: il modello è stato più volte individuato nel sarcofago di Meleagro, II sec.
d.C. La Vergine è giovanissima, rappresenta un ideale di bellezza incorruttibile. È una figura che vive il
dolore all’interno di una misura classica, cioè non è sfigurata dal dolore con contratture, smorfie, occhi
piangenti, non grida il proprio dolore. Abbassa lo sguardo mestamente e invita il riguardante a concentrarsi
sulla realtà del Cristo morto che si spiega all’interno del suo stesso corpo, anche per le pieghe ampie del
panneggio. È una figura colma di dolore, ma questa saturazione conferisce alla figura anche estrema
calma compostezza classica.
Il dolore si materializza nel corpo di Cristo, che è completamente contenuto nella Vergine, ma anche
articolato, così come le pieghe del panneggio. C’è una capacità propria dello scultore di contenere la
composizione dentro le dimensioni del blocco: questo senso di unità e compostezza del blocco non è però
statico, rigido, è internamente articolato, proprio attraverso la figura di Cristo, il cui corpo nudo viene
mostrato ai fedeli. Il gesto della mano sinistra di Maria sottolinea questa ostentazione. L’altra mano invece
sorregge il corpo di Cristo, facendo rialzare le carni sotto l’ascella, sottolineando anche il peso di questo
corpo non più vivo. La figura ha una gamba più alta e una più bassa (come il Bacco, animato verticalmente).
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

La capacità di Michelangelo è quella di rifarsi al modello antico calandolo in una dimensione di grande
naturalezza.
Il senso di osservazione naturalistica è sottolineato anche dalla pulizia, levigatura del marmo come se fosse
cera.
Il trattamento del viso di Cristo rappresenta come Michelangelo immagina che Maria lo stia guardando: il
rapporto madre-figlio è molto intenso, anche in virtù della natura giovanissima che Michelangelo conferisce
ai due personaggi. Potrebbe essere ispirato al tema di Venere che piange Adone morto: c’è uno slittamento
da temi cristiani a temi e valori del mondo pagano, che non è blasfemo, ma che tende a cercare un’unità e
una ragione unica che tenga insieme tutta la tradizione classica e cristiana.
La firma di Michelangelo è sulla fascia che attraversa il petto di Maria e che sostiene il mantello
sottolineando l’inclinazione della figura.
L’opera diventa poi un punto di riferimento non soltanto per artisti del tempo, ma anche per Raffaello,
Caravaggio, Jean Louis David, grafici pubblicitari…
È in marmo di Carrara, Michelangelo si reca lì e lo sceglie perché crede che la forma preesista nella materia.
Michelangelo, David, 1501-1506

Dopo l’esperienza romana, Michelangelo torna a Firenze, dove si è installato il governo repubblicano.
Soverini commissiona una serie di opere con un contenuto di consapevole riscatto civile. Michelangelo
aderisce profondamente agli ideali libertari repubblicani e coglie la sfida di scolpire un David all’interno di
un blocco già sbozzato, molto alto e stretto.
Viene chiamato ad interpretare un simbolo di liberazione, il David, personaggio biblico che libera gli ebrei
dalla tirannia del gigante Golia. Donatello l’aveva interpretato nelle vesti di un giovane adolescente, mentre
Michelangelo come uomo adulto, nel pieno delle proprie energie fisiche e psichiche. Non si rifà a un’idea di
classicità calata nella mitologia, ma a un’idea di classicità come mondo di valori, che il tema del nudo in
equilibrio esprime. Il David adulto sembra più il San Giorgio donatelliano, il cives miles che difende la libertà
repubblicana.
La figura non è in azione, né con la testa di Golia sotto il piede, ma nel momento in cui sta per scagliare la
fionda: è il momento di massima concentrazione delle energie fisiche e psichiche, espresse dalla tensione
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dei muscoli, dall’equilibrio della figura che si predispone a scattare: fa forza sul lato sinistro, la gamba
destra è perfettamente dritta, affinché tutta la parte sinistra possa muovere con azione. La piega del
braccio sinistro sostiene la fionda che sta per venire scagliata. La testa è impostata su un collo massiccio e
teso, ben rigido, ma è già concentrata sull’azione da compiere. È il principio del contrapposto classico
tradotto in una forma moderna, non più geometrica, ma una forma che sta per liberare nello spazio le
proprie energie. Inoltre, la figura è in crescita monumentale nelle proporzioni (pensata per essere vista dal
basso verso l’alto, sia da davanti che dal retro).
Viene collocata a fianco del Palazzo della Signoria per il suo altissimo valore civico.
Raffaello da Michelangelo, Studio dal David

Preso dalle spalle della statua.


07/12/2021
Dopo il David, Pier Soderini commissiona a Michelangelo la Battaglia di Cascina (1504), che avrebbe
dovuto essere collocata a Palazzo Vecchio di fronte alla Battaglia di Anghiari di Leonardo nella Sala del
Maggior Consiglio. Entrambe celebrano vittorie della repubblica di Firenze. Quella di Cascina è una vittoria
contro i pisani nel 1364, quando i fiorentini a Cascina si concedono una pausa nell’Arno e vengono sorpresi
dai pisani. Quindi corrono a prepararsi riportando una vittoria, che avrebbe dovuto confrontarsi con quella
leonardesca. Ma non viene portata a termine sulla parete. Michelangelo però arriva nello stadio
immediatamente precedente, alla preparazione del cartone 1:1, che poi avrebbe dovuto essere trasferito
sulla parete. Era però un abbozzo. A partire dagli anni Quaranta del Cinquecento la sala viene ridecorata da
Vasari e viene chiamata Sala dei Cinquecento.
Il cartone preparatorio non viene conservato. Era esposto nel refettorio dell’ospedale di Sant’Onofrio dei
Tintori. Ma divenne subito motivo di studio da parte degli artisti, che andavano addirittura a spiare
Michelangelo nel momento del lavoro.
Raffaello, Studi della Battaglia di Cascina
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Poi Michelangelo lascia Firenze. Il cartone viene trasferito in Santa Maria Novella e poi in Palazzo Medici.
L’esercizio dei vari artisti sul cartone e i loro tentativi di copiarlo portano a una distruzione dell’opera. Però
attraverso le copie e gli autografi dei disegni preparatori di Michelangelo (in cui studia tutti i singoli
dettagli) consentono una notevole diffusione.
Aristotile da Sangallo da Michelangelo, Battaglia di Cascina, 1542 circa

È una copia parziale. Probabilmente la composizione si espandeva ai lati.


Michelangelo sviluppa il tema mettendo in uso le ricerche già iniziate ai tempi della Centauromachia sui
bassorilievi antichi, che diventano un modello non solo di soggetti, ma proprio di un certo tipo di
composizione, che si sviluppa in un’unità risolta attraverso la concatenazione di figure.
Il tema gli consente di riflettere ulteriormente sulla rappresentazione del nudo, come ideale di bellezza e di
valori umani, nel momento del passaggio dallo stadio inanimato del bagno nell’Arno allo stato in cui si
esprime in tutta pienezza la potenza fisica e psichica. È un tema che Michelangelo intravede già negli anni
della formazione, che si lega alla concezione neoplatonica dell’uomo come essere capace di passare dalla
forma inferiore della materia alla sfera ideale (mito della caverna platonica, consente all’uomo di elevarsi).
Questo tema cresce dalla Centauromachia attraverso i traguardi della Pietà e poi riaffacciarsi all’inizio del
nuovo secolo con la monumentale fierezza del David. Ora Michelangelo compie un passo in più, riflette sul
nudo in un tema di storia: i nudi diventano tanti e attori di un’unica scena, data però dal castro dei
movimenti dei i soldati, nel momento in cui riemergono dalle acque, si rivestono e tornano allo stato
d’animo della battaglia.
Quindi, rispetto a Leonardo, che concepisce il tema della battaglia come vorticoso movimento tra la polvere
del terreno, gli animali e gli uomini, Michelangelo interpreta la battaglia come esibizione plastica
dell’energia dell’uomo attraverso questi corpi in torsione.
Michelangelo, Studio di guerriero
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Leonardo, Studi di nudi e di guerrieri

Se lo studio del dettaglio per Leonardo è caratterizzato dal ductus veloce della penna che riprende lo stesso
pensiero dell’idea cinetica delle figure e lo ripete tra cavalli e cavalieri, come il dettaglio muscolare, studiato
con un gusto di dissezione anatomica (approccio scientifico), Michelangelo dall’altra parte utilizza la matita
con un senso di rilievo già visto nei fogli giovanili, concependo la torsione della figura come un’emergenza
dei muscoli. Michelangelo anche nel disegno è formalmente scultoreo. Questo tipo di confronto lo
possiamo misurare anche su altri temi che Leonardo aveva inserito nel dibattito fiorentino, come il tema
del gruppo sacro, che è serrato dentro una struttura piramidale internamente articolata.
Leonardo, Madonna con il Bambino, sant’Anna e san Giovannino 1503-04

Nella Sant’Anna di Leonardo, composizione moderna che inventa a Firenze, Leonardo anima questo gruppo
attraverso il fluire dei gesti e delle emozioni umane, attraverso il dialogo di espressione dei moti dell’animo
colti nella loro mutevolezza, nel passaggio addirittura da una figura all’altra. La Madonna e la Sant’Anna
sono quasi due controfigure, come sottolineano i panneggi. Lo sfumato punta a cogliere la variabilità anche
del paesaggio (prospettiva aerea).
Michelangelo, Tondo Doni, 1503-04
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Michelangelo reinterpreta il tema leonardesco traducendolo in un messaggio immanentemente plastico.


Riprende la struttura piramidale, ma la ribalta sul primo piano e la anima internamente nell’incastro dei
movimenti. Maria si pone in primo piano inginocchiata frontalmente, ma si gira a prendere Gesù che le
viene passato da San Giuseppe. Quest’incastro, questa sequenza di movimenti plastici è esaltata anche da
un uso particolare che Michelangelo fa della luce e del colore, forti e brillanti. La luce scolpisce le figure. In
questa invenzione Michelangelo sta liberando la venuta di Cristo bambino in termini di salvezza.
Il Tondo Doni fu commissionato da Agnolo Doni in occasione delle nozze con Maddalena Strozzi. Il formato
del tondo è un augurio di fertilità alla coppia.
Michelangelo svolge un tema più complesso: l’idea della sacra famiglia colta in questo nodo di gesti in cui il
padre e la madre si scambiano la figura di Cristo che viene in avanti indica la salvezza e quindi la salvezza,
l’era della grazia di redenzione concessa a tutti gli uomini grazie alla nascita e morte di Cristo.
Dietro al gruppo stanno San Giovannino, non in dialogo con il gruppo sacro: è la figura di passaggio
dall’antico al nuovo Testamento. In una visione ancora più lontana stanno dei personaggi nudi e giovani,
che Michelangelo utilizza per rappresentare l’umanità nella nudità pagana, quindi prima della legge divina
(ante legem).
Il tondo è un formato riassuntivo, concede di sintetizzare il soggetto. Ma non con geometrie lineari, punti di
fuga e linee direttrici. Qui l’immagine viene riassunta nello spazio sferico attraverso la potenza di questo
gruppo sul primo piano e poi sfruttando anche l’effetto a cannocchiale del tondo nei piani di San
Giovannino e degli ignudi, connessi non prospetticamente, ma attraverso il rapporto tra i gesti e movimenti
e l’idea di questi gruppi che sono tra loro concatenati. Quindi è evidente che lo stesso Michelangelo, nel
confrontarsi con Leonardo entra in dialogo con i concetti leonardeschi e li rielabora a proprio modo.

Raffaello Sanzio
In questo dialogo tra i due si inserisce come terzo elemento il giovane Raffaello, che arriva a Firenze dopo
una prima formazione tra Urbino, le Marche e l’Umbria. Ad Urbino, si forma nella bottega del padre
Giovanni Santi (che si era formato su Piero della Francesca e pittori fiamminghi). Dopo la morte del padre,
Raffaello inizia a collaborare con le due più importanti botteghe in Italia centrale, a Perugia (di Perugino) e a
Città di Castello (di Pintoricchio). Collabora con Pintoricchio per la decorazione della Libreria Piccolomini nel
Duomo di Siena. Probabilmente compie già viaggi a Roma, forse tra il 1502 e 1503 (ascesa di Giulio II) e/o
nel 1506 (ritrovo del Laocoonte).
Perugino, Sposalizio della Vergine, 1503
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Lo spazio è definito da un’architettura sullo sfondo, un tempio a pianta centrale, che domina lo spazio di
una piazza dove si schierano i protagonisti della scena. Lo schema è chiaramente di origini pierfrancescane
e urbinati (per le vedute architettoniche con edifici in prospettiva…).
La composizione viene ripensata (a partire dalla Consegna delle chiavi della Chiesa a San Pietro, Cappella
Sistina) da Perugino nell’occasione di una pala d’altare a formato centinato. L’edificio del tempio viene
organizzato su base ottagonale, con dei portici che si sviluppano in corrispondenza delle aperture sui
quattro lati principali. Ma la struttura assume un andamento tripartito. Essendo tagliata la parte terminale
dell’apertura a cupola, l’elemento architettonico tende ad appiattirsi e svilupparsi come una sorta di
schermo che si apre a farfalla, secondo le simmetrie orizzontali e verticali con cui Perugino costruisce la
composizione. Infatti, l’elemento dell’architettura si sviluppa anche nella proiezione della piazza: abbiamo
una sequenza di disegni del pavimento che ripete questa tripartizione. Anche le figura in primo piano, a
partire dal sacerdote con la mitria (esattamente in asse con l’apertura centrale del tempio), si aprono a
farfalla i due gruppi di figure.
Perugino afferma un modo di comporre paratattico, cioè in cui ci sono elementi tra loro connessi ma
attraverso corrispondenze elementari. Questo si nota sia nello sviluppo del primo piano, sia nella sequenza
in profondità, dove abbiamo un’addizione di piani. È un tipo di armonia molto didascalica e rigida ancora.
Anche le pose e gli atteggiamenti dei personaggi sono rigidi, cercano una maggiore naturalezza e di
muoversi, ma sono ancora chiusi in una condotta in superficie. Per esempio la figura che allude ai
pretendenti (nello sposalizio ogni contendente sposo porta una verga e la migliore andrà scelta, viene
scelta quella di San Giuseppe, fiorita) che spezzano la propria verga per rabbia. Il pretendente rifiutato più
verso al centro non riesce a muoversi bene nello spazio. molti altri hanno espressioni generiche,
stereotipate, graziosi ma privi di vitalità e interscambiabili.
Raffaello, Sposalizio della Vergine, 1504

È un omaggio a Perugino, per il magistero prestato a Raffaello. La modernità sta nella concezione stessa
dell’edificio, che è perfettamente contenuto nella centina, mostrando anche la copertura della cupola, che
consente all’artista di dare una maggiore rotondità e centralità al disegno dell’architettura che si sviluppa
attraverso un porticato continuo, non interrotto e frammentario. Questa circolarità del portico, del
tamburo e della cupola che chiude e rimanda allo stesso formato della centina si irradia in tutta la
composizione. Questa formulazione più centralizzata, circolare e organica dell’edificio Raffaello la trae dalle
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riflessioni che avevano condotto Bramante e Leonardo a Milano, ma anche dal Tempietto di San Pietro in
Montorio a Roma di Bramante.
È un’opera in cui l’artista riformula il tema della pianta centrale rendendo l’edificio fulcro generatore dello
spazio circostante. È quello che Raffaello realizza poi nella tavola, dove anche il disegno del pavimento,
attraverso la scalinata, si irradia in tutte le direzioni: non più secondo la sequenza addizionale e tripartita di
fasce parallele, ma attraverso un movimento centrifugo. Noi infatti percepiamo non solo lo spazio
antistante al tempio, ma anche retrostante: lo spazio di muove tutto intorno ed è pieno di aria. Questa
visione più circolare dello spazio è ottenuta anche a partire da un punto di vista più dall’alto, che consente
all’artista di far muovere l’occhio anche nelle profondità. È evidente il portato leonardesco, nell’idea di uno
spazio reso organico non solo dall’architettura, ma anche da un’idea di atmosfera.
All’interno di questo spazio vitale le figure si collocano come piene e anch’esse vitali si crea una curva,
all’interno della quale il movimento è realizzato attraverso una serie di corrispondenze. La figura del
sacerdote non è più perfettamente centrale e frontale: il lieve scatto della testa genera il movimento delle
due ali laterali. Le altre figure reagiscono raggruppate attraverso gesti che hanno maggior naturalezza. Non
sono più rigidi damerini, ma hanno un’ampiezza di gesti. La figura del pretendente rifiutato che spezza la
verga è risolta con ben altra maturità: le figure sono anche cresciute nelle proporzioni; è utilizzato un
modello antico.
C’è un uso nuovo della luce e del colore: la dolcezza vaga di colori uniti da Perugino viene innervata da
Raffaello da una nuova vitalità. I colori di Raffaello sono più vivi (in cui egli si firma “urbinate”). Il lustro della
pittura e del colore deriva dalla pittura fiamminga.
Da Urbino, Raffaello si fa accompagnare a Firenze da una lettera di raccomandazione scritta dalla sorella del
duca di Urbino, Giovanna Feltria, che aveva sposato un della Rovere. Suo figlio diventerà il futuro duca di
Urbino. Giovanna Feltria nel 1504 scrive a Pier Soderini presentando questo giovane artista, che arriva a
Firenze attirato da questa nuova vitalità e ricchezza del dibattito dovuta da Leonardo e Michelangelo.
Raffaello ha la capacità di inserirsi nella vicenda fiorentina assimilando e rielaborando tutti i possibili
stimoli. È come una spugna che coglie, ma rielabora anche in maniera autonoma, qualsiasi suggestione.
Parte dalle nuove riflessioni sul tema del gruppo sacro nel paesaggio, introdotto da Leonardo.
Raffaello, Madonna con il Bambino e san Giovannino “Madonna del Belvedere” o “del prato”, 1506

La figura di Maria si erge monumentale con un senso nuovo delle proporzioni umane, con la
consapevolezza della preveggenza, assistendo all’incontro tra Gesù e San Giovannino. Leonardo l’aveva
immaginato già nella Vergine delle Rocce ed è protagonista anche nel cartone della Sant’Anna. Il soggetto
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

però coglie questa nuova idea di una struttura piramidale, monumentale articolata al proprio interno,
attraverso l’espressione anche degli affetti. Raffaello però intensifica in termini di umanità e di maggiore
dolcezza di questi affetti. Per cui lo scambio tra Gesù e San Giovannino non è più il gesto di Gesù che
benedice Giovanni, ma è lo scambio della croce: rende più concreta l’espressione dei gesti e dei sentimenti.
Lo sfumato è espressione di un approccio alla realtà più realistico in Leonardo: Raffaello coglie lo sfumato e
lo chiarifica, rendendolo meno indefinito e più limpido, sfruttando le sue competenze pierfrancescane,
urbinesche e fiamminghe.
Le figure si inseriscono comunque in uno spazio colmo di atmosfera e di aria. C’è una pienezza delle forme.
I colori si fanno più caldi.
Questo tema e questa rielaborazione di Raffaello crescono attraverso varie rielaborazioni del tema: come
Leonardo pensa e ripensa la composizione. Di volta in volta declina però un diverso aspetto e si apre non
solo al dialogo con Leonardo, ma anche con Michelangelo: il giovane Raffaello si trova nel pieno fervore
della Firenze del Cinquecento e fa così crescere la sua statura in termini di protagonismo.
Raffaello, Madonna del cardellino, 1506

Il fluire dei panneggi, la comunicazione affettiva nelle espressioni dei volti e nello scambio del cardellino
(simbolo di passione risolto come un gioco dei due bambini) è preso da Leonardo, ma Raffaello risolve la
figura di Gesù nel corpo di Maria così come Michelangelo lo iscrive nella Madonna con il Bambino (1506).
Incastra le figure in modo michelangiolesco e le fonde con il linguaggio leonardesco.
Raffaello, Sacra Famiglia con Sant’Elisabetta e san Giovannino “Sacra Famiglia Canigiani”, 1506
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Entrano in ballo anche San Giuseppe e Elisabetta. Si anima e sviluppa il tema: da Maria che sorride ai due
bambini a Gesù che sta per scendere dalle sue gambe andando a prendere il cartiglio con l’annuncio della
sua passione (nuovo elemento di gioco) in un dialogo più eloquente di San Giovannino, mentre Elisabetta
alza la testa e dialoga apertamente con San Giuseppe.
La struttura è sempre piramidale ma si è allargata e complicata al suo interno. Oltre a un’accentuazione dei
dati leonardeschi (Elisabetta e Maria) Raffaello dialoga anche con Michelangelo: c’è un ulteriore incastro
dei movimenti e un’accentuazione del chiaroscuro che rende le figure più scultoree in primo piano. Anche il
paesaggio diventa più circolare (Tondo Doni).
Raffaello, Trasporto di Cristo al sepolcro “Pala Baglioni”, 1507

È una pala per Atalanta Baglioni che allude a suo figlio morte. Introduce un tema funebre come la pietà,
statico, ma attraverso una serie di studi e disegni lo trasforma nel tema in movimento del Trasporto.
Formula la composizione svolgendola tutta in primo piano intorno al corpo, al tema del trasporto di Cristo
nudo esemplato tanto sulla Pietà di Michelangelo e sul rilievo antico Frammento di sarcofago col trasporto
del corpo di Meleagro (fonte anche di Michelangelo). Questo movimento si sviluppa in diagonale dal primo
piano alla grotta sul fondo, incastrandosi però con l’orizzontale del paesaggio. Questa sorta di curva entra
in rapporto con la curva della pianura tra la quinta rocciosa del sepolcro e la quinta montuosa e più lontana
del Golgota. Sotto al Golgota si inserisce il secondo gruppo, quello dello svenimento di Maria: citazione al
Tondo Doni, una figura si volta ma per cogliere Maria in svenimento. C’è un nodo di espressioni, di
sentimenti e di significati, che sta tra il tema del trasporto del figlio morto e il tema del dolore della madre.
La mano di Maria Maddalena che regge la mano morta di Cristo e l’attenzione all’espressione dei volti e
delle mani sono dimostrazione della messa a frutto del magistero di Leonardo.
Raffaello, Madonna con il Bambino “Madonna Bridgewater”, 1506
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

L’espressione sentimentale degli sguardi, la dolcezza dei volti e la torsione derivano da Leonardo, ma anche
al Tondo Taddei (anch’esso ripreso da Leonardo).
Michelangelo, Tondo Taddei, 1503

Michelangelo reinterpreta il non finito guardando allo sfumato leonardesco e alla capacità di esprimere le
reazioni umane attraverso il movimento dalla materia grezza all’emergenza della forma. Il Bambino non va
a prendere il cardellino, ma attraverso la raffigurazione della passione si rifugia nelle braccia della madre.
Michelangelo, Tondo Pitti

Il tema funerario è ripreso, ma la forma viene avanti più prepotentemente. Maria si volge verso l’esterno
superando addirittura il limite stesso della lastra del tondo. Il movimento però è sempre un movimento che
coglie sullo sfondo la figura del San Giovannino, quasi indistinta, mentre sul cubo la Madonna e il Bambino
vengono innanzi. Il bambino si muove seguendo l’andamento del cerchio e inserendosi nella curva di Maria.
Raffaello, Madonna con il Bambino e San Giovannino “Bella giardiniera”, 1507
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Qui Raffaello mostra un senso della forma maggiore rispetto alle sue scorse opere.
Anche nella ritrattistica, Raffaello muove da esempi come Perugino.
Perugino, Ritratto di Francesco delle Opere, 1494

Raffaello, Ritratto di Elisabetta Gonzaga, 1502-03

E si sviluppa attraverso gli esempi di Leonardo (Gioconda, Cecilia Gallerani).


Raffaello, Ritratto di dama con l’unicorno, 1505
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

L’unicorno è simbolo della verginità. La figura è impostata con una semirotazione del busto e incrocio delle
mani che rimanda alla Gioconda, così come
Raffaello, Ritratto di Maddalena Doni; Ritratto di Agnolo Doni, 1506

L’ispirazione leonardesca è evidente ma anche la pienezza della forma e la capacità di restituire alla figura
umana psicologia, sentimenti e monumentalità delle forme, calandola però poi in una concretezza sociale
che Raffaello esprime attraverso i gioielli. Qui comprendiamo lo sviluppo delle premesse fiamminghe del
suo linguaggio. Anche questo esito della ritrattistica è un esempio di straordinaria rielaborazione di tutti gli
spunti della sua formazione.
09/12/2021
Il maturale e l’affermarsi di questa nuova maniera avviene a Roma, soprattutto negli anni del pontificato di
Giulio II e Leone X (primi due decenni del Cinquecento). Questa fase dello sviluppo delle arti nel disegno
vasariano è definita “Maniera moderna” pieno Rinascimento (traduzione da high Renaissance); questa
definizione divide questa fase dai successivi sviluppi della maniera moderna. È una fase di crisi interna alla
vicenda rinascimentale si distingue dal cambiamento che si verificherà alla fine del secolo, una rivoluzione
delle arti che segnerà uno stacco netto dalla civiltà rinascimentale, alla quale seguirà la stagione secentesca
che definiremo Barocca.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Raffaello, Ritratto di Giulio, II, 1511-12

Raffaello, Ritratto di Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, 1518-19

Sono due opere significative del passaggio interno da una fase giuliesca a quella leonina nei primi due
decenni del secolo.
La storia dell’arte a Roma va ricostruita tenendo presente la successione dei pontefici. (slide papi)
Adriano VI (da Utrecht) arresterà le committenze italiane e favorirà invece quelle fiamminghe.
Raffello immortala nella sua ritrattistica non solo l’aspetto fisico, ma anche il temperamento dei due
pontefici, che si riflette in un programma politico diverso, ma con una visione culturale accomunata dal
sogno della restauratio Urbis, cioè far rivivere alla Roma papale la grandezza dell’antica Roma, facendo
rinascere il potere temporale e il prestigio culturale dello Stato della Chiesa. Giulio II ricostituisce anzitutto
la realtà territoriale dello Stato della Chiesa.
Raffaello, Ritratto di Giulio, II, 1511-12
Lo vediamo ritratto da Raffaello con una determinazione e una grinta battagliere che lo vedono impegnato
in una serie di imprese militari che rendono molto animato questo pontificato (nonostante l’anzianità).
Queste imprese sono condotte conto realtà che il papa individua come nemiche di Roma e della cristianità.
Il primo è il figlio del precedente papa Borgia, Cesare Borgia, che subisce una damnatio memoriae perché
aveva dal soglio papale promosso un’ascesa dei propri figli e in particolare di Cesare.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Sconfitto Cesare Borgia, nel 1503, le inimicizie del papa sono rivolte verso Venezia, dove vengono
organizzati dei potentati riuniti nella Lega di Cambrai (1508). L’arma potentissima che il papa utilizza contro
la Serenissima è quella dell’interdetto papale, che ogni volta Venezia affronta trasformandolo in
un’occasione di propaganda e di riunificazione contro l’autorità ecclesiastica. L’interdetto è la sospensione
di tutte le funzioni, avvertite allora come essenziali (non ci battezza, non ci si sposa, non si celebrano
funerali). Giulio II applica questa tattica. Venezia però resiste, fino a quando le attenzioni del papa si
spostano su un nuovo nemico: la Francia, che aveva fatto parte della Lega di Cambrai, ma che diventa più
minaccioso di Venezia. Quindi il papa organizza la Lega Santa (1511).
Queste alterne alleanze con le potenze straniere da parte del papa hanno comportato una continua
ingerenza di queste nella storia d’Italia. Nella sua determinazione, Giulio II ha giocato un ruolo importante
nel mettere continuamente a repentaglio gli stati italiani alla mercè di Francia e Spagna, che nei primi
decenni del Cinquecento hanno combattuto sulla pelle degli stati italiani (Guerre d’Italia). Sono anni di
saccheggi e razzie sia nel nord che nel sud d’Italia, che segnano in maniera drammatica questa pagina di
storia.
Questo risvolto tragico è perlopiù coperto da un’affermazione del patrocinio delle arti, che si esplica
attraverso il mecenatismo e che vede Giulio II ricollegarsi al proprio predecessore, Sisto IV della Rovere, di
cui Giulio era nipote. Giulio II, bypassando Alessandro Borgia, si ricollega al predecessore, anche nell’idea di
una ricostruzione della grandezza di Roma attraverso una grandezza monumentale, il restauro degli edifici
antichi e moderni, fondando nuovi edifici che rifanno nelle forme e nelle proporzioni a quelle dell’antica
Roma. Questa ricostruzione urbanistica è accompagnata da una decorazione interna. Roma è il luogo del
dibattito e dell’ingaggio di incarichi importanti, questa vicenda è contraddistinta dalla compresenza di
diversi protagonisti, tra i quali isoliamo la triade Bramante, Michelangelo, Raffaello, che individuano anche
le tre arti maggiori (architettura, scultura, pittura). Hanno anche fornito modelli e spunti per la ricca
produzione delle arti che una volta si definivano minori (oreficeria, incisione a stampa, decorazione in
stucco, produzione miniata…) e decorative.
La grandezza di Giulio II si contraddistingue anche nella sua capacità di individuare in questi artisti le
persone in grado di interpretare e elaborare la propria visione culturale, affidando loro incarichi di altissimo
prestigio che consentono a questi artisti di sviluppare il proprio talento. Il rapporto tra la committenza e i
protagonisti delle arti è un rapporto di reciproco scambio.
Bramante arriva a Roma nel 1499 da Milano dopo la caduta di Ludovico il Moro. Giunge a Roma attirato
dalla possibilità di poter misurare le fabbriche antiche. Questo spinge Bramante fino a Napoli, in luoghi
dove può ritrovare le opere dell’antichità in contesti di forte rievocazione anche letteraria. Per questo le
prime commissioni romane vengono da personalità che si muovono tra Napoli e Roma, come Oliviero
Carafa che gli commissiona:
Donato Bramante, chiostro di Santa Maria della Pace, 1500-04
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

L’esperienza dell’architettura dei chiostri lombardi si sviluppa, ma anche si trasforma attraverso una
maggiore monumentalità e l’adozione più filologica degli ordini classici. Questo riguarda non solo la
struttura dell’edificio, ma anche la sua ornamentazione, quindi gli elementi che la compongono e il disegno.
In questo senso vediamo un passaggio attraverso Bramante dalla cultura prospettica in una dimensione di
più piena monumentalità.
Questo riguarda anche il tema della pianta centrale:
Bramante, Tempietto di San Pietro in Montorio

È un tema sviluppato da ricerche su Brunelleschi, condotte con un rigore e una serietà che si esprimono
anche nella severità delle forme geometriche, e poi su Alberti, che compie una sistemazione modulare e
ideale e che già nelle opere milanesi aveva amplificato lo spazio anche attraverso soluzioni illusioniste. È un
tema anche in dialogo con Leonardo, Studi di alzato di chiesa a pianta centrale con absidi semicircolari, in
cui però l’edificio genera dalla cellula madre delle cellule figlie, nell’idea leonardesca di una forma in
movimento.
Bramante rielabora questo tema nel tempietto a Roma, realizzato per il re di Spagna, che nel frattempo
prende in mano la successione del regno di Napoli. Il luogo in cui viene realizzato ha un valore particolare, si
riteneva che lì fosse stato crocifisso San Pietro (tema che collega la Roma pagana con quella cristiana).
Questa commissione ha un edificio a pianta centrale, che da un lato si rifà all’idea del mausoleo (edificio
funebre), dall’altro allude alla forma di una corona (riferimento al sovrano spagnolo), ma il simbolismo di
questa forma sta nel valore stesso della pianta centrale, sviluppata attraverso un disegno cilindrico,
circondato da un colonnato dorico che sorregge una balaustra, che fa da corona a un alto tamburo coperto
tra una cupola. La sfera e la croce rimandano al modello brunelleschiano.
Nonostante le dimensioni ridotte, il tempietto ha un valore dichiarativo programmatico molto importante,
sia in relazione al valore della pianta centrale, sia in relazione ai modelli antichi.
Oggi questo edificio è incassato in un cortile un po’ stretto, ma al tempo doveva stare dentro un grande
cortile circolare, con un disegno di porticati che avrebbero evidenziato la connessione con il tempietto
centrale, nell’idea di un edificio che diventa fulcro da cui si irradia lo spazio circostante, traducendo in
termini geometrici l’idea organica leonardesca.
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Questo tema della pianta centrale viene sperimentato e studiato da Bramante anche in altre imprese, ma
soprattutto nel progetto del nuovo San Pietro, edificio commissionato da Giulio II, che ascende al soglio
papale nel 1503 e che lo investe del ruolo di sovraintendente alle fabbriche papali. Gli commissiona quindi
questo nuovo tempio che va a ricostruire la Basilica Costantiniana (progetto molto ambizioso). La politica di
Giulio II è una politica di grandissima ambizione, questo temperamento volitivo è di grande sostegno alle
arti e a un progetto di rinascita delle arti, che ha una componente di tipo visionario.
Il primo progetto di Bramante per la fabbrica di San Pietro è un ulteriore sviluppo del tema della pianta
centrale, perché Bramante immagina la nuova fabbrica con una pianta a croce greca inscritta in un
quadrato. Il passaggio tra Quattro- e Cinquecento sta anche nell’aumento delle proporzioni: infatti
l’impianto della fabbrica di San Pietro è mastodontico. La cupola sorretta da 4 pilastri, avrebbe un diametro
di oltre 40 m (su modello del Pantheon). Poi quattro semicupolette vanno a coprire i bracci della croce: da
un lato si riallacciano all’idea leonardesca, ma che Bramante sposa anche con il modello degli edifici termali
antichi.
Il progetto ha tempi lunghissimi, che designerà varie modifiche rispetto al progetto bramantesco: il primo è
Raffaello, che lo sostituisce nel ruolo di architetto papale e ingloba l’idea bramantesca dentro un nuovo
sviluppo della pianta che recupera il tema a Basilica della pianta longitudinale. Michelangelo poi la farà
tornare più simile al progetto bramantesco. (slide piante)
Bramante progetta anche il Cortile del Belvedere, che collega i Palazzi Vaticani alla villa, e una serie di
edifici, come Palazzo Caprini, che segnano un nuovo modello di palazzo urbano, al quale si riallaccia anche
l’attività architettonica di Raffaello.
Ma le ambizioni di Giulio II si allargano dalle fabbriche delle sedi del potere all’aperto, per definire lo spazio
urbano attraverso un nuovo disegno viario che porta al tracciato di via della Lungara e di via Giulia.
Bramante diventa anche il consulente di Giulio II per la decorazione degli spazi interni: suggerisce al papa i
nomi di artisti che vengono chiamati a decorare le fabbriche papali. Sono sia artisti lombardi che urbinati
(Bramantino, il Sodoma, Peruzzi…). Inizialmente a un’equipe di artisti viene affidata la decorazione dei
nuovi appartamenti del papa, che si rifiuta di vivere negli appartamenti di Borgia e decide quindi di far
ristrutturare e decorare delle nuove stanze, in parte distruggendo precedenti lavori quattrocenteschi.
Raffaello, Stanza della Segnatura, 1508-11

Il Papa individua Raffaello come l’uomo in grado di tradurre per immagini il suo disegno di riunificazione
della Roma pagana e cristiana sotto il pontificato. Vengono per questo congedati gli altri artisti e l’unica
regia viene affidata a Raffaello.
È detta Stanza della Segnatura a partire dal 1513 (Leone X), quando la stanza viene adibita alla firma degli
atti più importanti. Prima si chiamava Studio del papa, e aveva ruolo di biblioteca in cui si conservavano libri
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

e si promuoveva una concezione del sapere nel quale confluivano diversi aspetti che Raffaello è chiamato a
rappresentare. La stanza è caratterizzata anche dal disegno del pavimento e da una decorazione del
basamento realizzata successivamente, ma soprattutto dal soffitto e dalle pareti. Il soffitto viene decorato
con una serie di spartimenti geometrici, all’interno dei quali stanno rappresentate le virtù e le facoltà della
Teologia, della Poesia, della Filosofia e della Giustizia.
Raffaello, Giustizia, 1508-11

È affiancata dal tema del giudizio di Salomone e da una rappresentazione dell’astronomia o del moto
primo, concepito da Aristotele. Dall’altro lato Apollo e Marsia e il peccato originale. Al centro sta un
ottagono nel quale è stata identificata una sopravvivenza dell’intervento del Sodoma e altri artisti. I putti
che reggono lo stemma di Giulio II (quindi dei della Rovere) sono riconducibili all’oculo di Mantegna.
Raffaello rappresenta le quattro facoltà del sapere e dei diversi mezzi per accedervi (poesia, giustizia,
filosofia, teologia). Il tema delle facoltà nasce dalla destinazione della stanza: si ricollega a una tradizione
iconografica precedente di decorazione delle biblioteche (Sala delle Udienze, Perugino, dove le quattro
facoltà sono i numi tutelari al di sopra di uno schieramento di personaggi che si rifanno al tema degli
uomini illustri; tra questi anche un proprio autoritratto, perché considera la propria arte un’attività
intellettuale.
Raffaello parte da questa tradizione per elaborare qualcosa di assolutamente innovativo e monumentale,
perché al di sotto delle quattro facoltà riunisce una serie di personaggi, intorno a dei temi, animando le
composizioni come dei soggetti di storia, non schierando rigidamente questi personaggi, ma mettendoli in
azione, facendoli vivere e interpretare un tema.
Raffaello, Disputa del Sacramento, 1508-11

Sotto la Teologia, riafferma l’autorità del dogma sacramentale, fondante della Chiesa romana cattolica e
l’esercizio del sacerdozio. L’ostia viene trasformata nel corpo e nel sangue di Cristo, non è solo un simbolo,
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

ma una realtà ontologica e sostanziale, che viene posta all’interno di un ostensorio sull’altare, ma al centro
di una disputa. Intorno alla rappresentazione del dogma si svolge una discussione animata tra i protagonisti
della chiesa militante, della chiesa trionfante e nella rappresentazione della trinità.
Raffaello, Scuola di Atene, 1508-11

Il sapere degli antichi viene reinterpretato alla luce del pensiero cristiano. Al di sotto della Filosofia viene
rappresentato un consesso di filosofi antichi, in uno spazio che fa riferimento alle origini del sapere
filosofico, cioè la scuola di Atene.
Raffaello, Parnaso, 1508-11

Sotto la poesia, vengono raccolti i grandi poeti dell’antichità, dell’età moderna (Dante, Boccaccio, Petrarca),
dei contemporanei (Ariosto).
Raffaello, Gregorio IX approva le decretali; Triboniano consegna le Pandette a Giustiniano, 1508-11

Sotto la giustizia, un insieme più complesso viene rappresentato Gregorio IX che instaura il diritto canonico
e Triboniano che consegna le Pandette a Giustiniano (diritto civile).
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Sono affrescate delle nicchie, sopra le quali un cornicione fa riferimento a un livello superiore e allegorico:
ci sono i principi che ispirano la giustizia, cioè le 4 virtù cardinali, Prudenza, Fortezza, Ponderanza e
Giustizia, e le tre virtù teologali: Fede, Speranza e Carità.
Nelle vesti di questi sapienti, religiosi e letterati vengono rappresentati personaggi contemporanei a
Raffaello e legati alla corte papale e alle novità del tempo.
Oltre a questi valori, c’è anche il concetto del bello, che è chiave di accesso al sapere, del vero e del giusto.
Sono tre concetti che riescono a mettere insieme il sapere degli antichi e la dottrina cristiana. La
componente allegorica è molto forte ma il linguaggio assume un valore paradigmatico che diventa anche
paradigmatico della forma rinascimentale.
16/12/2021
Quindi: la divisione del soffitto sul quale dominano le quattro facoltà risponde a una tradizione iconografica
legata alle decorazioni di studioli e biblioteche. Alle virtù si associano ritratti di figure intere di uomini
illustri. La novità che Raffaello introduce nella Stanza della Segnatura è quella di non schierare una galleria
di ritratti, ma di raccogliere queste figure autorevoli in delle scene/composizioni in azione, dove queste
figure si trovano non isolate, ma unite in un’unica azione e in dialogo tra loro.
L’insieme di queste rappresentazioni diventa l’espressione della realizzazione delle categorie del Vero
(divino), del Bello (la filosofia) e del Bene (la legge), all’interno della realtà della Chiesa. È un ciclo
decorativo molto denso di significati, che però sono legati tra loro da una serie di corrispondenze e da una
rappresentazione che ha una forza concettuale e un’espressione unitaria grazie al linguaggio moderno, che
Raffaello mette a punto tesaurizzando tutto il percorso precedente. Il suo linguaggio trova a Roma non solo
una naturale evoluzione di ciò che abbiamo visto a Firenze, ma anche una nuova occasione di rilancio, in cui
l’artista può esprimere il proprio talento.
Raffaello, Disputa del Sacramento, 1508-11

La Teologia poggia sul dogma dell’eucarestia, posta al centro della composizione, sull’altare, nell’ostensorio
che contiene l’ostia e la isola dal resto della composizione.
Raffaello non nega la tradizione prospettica, ma la rielabora su scala monumentale. La simmetria della
prospettiva gli serve per esprimere un concetto più profondamente classico, cioè quello di una struttura
chiara e dimostrativa della verità del dogma.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

L’eucarestia diventa quindi il centro della composizione, ma si pone anche in maniera molto immediata
nella percezione dello spettatore su un asse centrale su cui si allineano i tre elementi della Trinità: lo Spirito
Santo, attorniato dai 4 vangeli, Gesù Cristo accanto a Maria e San Giovanni Battista e Dio Padre. Questo
legame compositivo esprime un collegamento anche concettuale.
Questo tema così chiaramente affermato è ambientato in un contesto che si allarga come due grandi
braccia a coinvolgere l’intera storia del pensiero cattolico. Quindi, intorno all’altare dell’eucarestia si
raccolgono i quattro dottori della Chiesa e i vari santi predicatori che costituiscono insieme la Chiesa
militante e che sono coinvolti in un’azione di dialogo: la disputa. L’eucarestia è il sacramento per
eccellenza, da cui derivano gli altri.
La Chiesa si prepara a combattere le contestazioni della Chiesa protestante che saranno principalmente
contro il tema dei sacramenti-
Sopra, si apre un altro ciclo, sorretto da delle nubi: i quattro apostoli rappresentano la Chiesa trionfante.
Dentro una raggera dorata, Gesù, e sopra Dio Padre che apre una schiera di cori angelici.
L’incarnazione di Cristo nell’ostia è indicata come su un palcoscenico, che l’elemento della scalinata mette
in comunicazione con lo spettatore.
Dentro lo spazio ingigantito, si collocano figure nella loro piena vitalità (insegnamento di Leonardo e
Michelangelo).
La decorazione delle stanze si segue molto bene anche attraverso i disegni che Raffaello realizza e che
accompagnano la decorazione ad affresco. Nell’organizzazione del cantiere Raffaello interviene spesso
anche su affreschi già parzialmente completati: le date possono essere dilatate.
L’impostazione della composizione e l’articolazione dei gruppi risentono molto sia dell’insegnamento di
Perugino (simmetria scandita, dettaglio dell’aureola di cherubini alle spalle di Cristo), sia di Leonardo, nel
modo di isolare il tema centrale e articolare la composizione come un’onda di emozioni. All’interno di
questo emiciclo di figure, possiamo distinguere i singoli personaggi e i singoli gruppi, ma sono tutti collegati
tra loro. Si connotano anche attraverso i movimenti, le espressioni dei volti e i gesti. Esprimendo una verità
superiore e divina, questo tema è ambientato su un palcoscenico architettonico (altare) che si apre verso
l’esterno, un paesaggio con realtà celeste di nuvole. L’architettura viene trasferita quindi in un ambiente
aperto, naturale e divino. L’emiciclo di nubi è una traduzione naturalistica del coro di una chiesa.
Raffaello, Parnaso
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

La verità della Poesia è ambientata in un monte, il Parnaso. Sulla fonte dei poeti si raccoglie Apollo che
suona una lira da braccio. Intorno ad Apollo stanno le 9 muse e poi si sviluppa un'altra galleria di poeti di
tutti i tempi. Hanno le fattezze reali di uomini del tempo di Raffaello, sia strettamente legati alla corte
papale sia figure che operano in altri centri del rinascimento, ma riconosciute come parte di una comunità
(societas intellettuale unita). L’unificazione formale supera le distanze dello spazio e del tempo e quindi
consente di mettere in dialogo poeti e figure rappresentative dell’antico e del presente.
Nel gruppo a sinistra, la figura che avanza a tentoni con la testa rivolta verso l’ispirazione divina e gli occhi
ciechi è Omero. Dietro di lui si stagliano i profili di Dante e Petrarca, con l’idea di trovare dei legami
affermati anche sul fronte della letteratura. Raffaello si ispira anche a un modello figurativo antico per
Omero, cioè la testa del Laocoonte (sacerdote che cerca di distogliere i troiani dal portare il cavallo dentro
Troia), studiato da un disegno del 1506 (anno della scoperta del Laocoonte).
Trasforma l’ostacolo architettonico del vano della finestra in un elemento utile a sopraelevare il rialzo della
roccia del Parnaso. Per sottolineare meglio l’appartenenza di questo vano alla composizione, Raffaello
dipinge in un secondo tempo i due poeti ai lati della finestra come se sopravanzassero la cornice
dell’apertura reale. Per dare il senso di emergenza della forma mette a frutto l’insegnamento di
Michelangelo. La poetessa Saffo (la riconosciamo grazie al cartiglio) ha una torsione e densità corporea che
Raffaello mutua da Michelangelo.
Raffaello, Virtù cardinali e teologali; Gregorio IX approva le decretali; Triboniano consegna le Pandette a
Giustiniano.

Sull’altro lato si apre un’altra finestra, che divide la parete in maniera asimmetrica. Raffaello, non avendo
una soluzione per unificare la scena utilizza l’asimmetria per ordinare le diverse parti: una rappresenta la
consegna delle leggi del codice civile, costruita come su un arco di trionfo, la figura dell’imperatore viene
posta di profilo; l’altra sfrutta lo spazio più esteso per ambientare l’istituzione del diritto canonico con
l’approvazione delle decretali da parte di un Gregorio IX con le fattezze di Giulio II con la barba. È un ritratto
del papa che Raffaello inserisce nella stanza in cui il papa dipinto si presenta con tutto l’apparato della sua
autorità al cospetto della persona accolta in udienza. Raffaello non pone il papa frontalmente, ma la angola
tenendo conto del punto di vista dell’osservatore. Questa angolatura consente all’artista di aprire intorno
alla figura il consesso dei cardinali e consiglieri del papa, che si dispongono anche con la funzione di aprire il
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

mantello del papa per far uscire il gesto benedicente e con l’altra mano la presa delle Pandette (scena
molto teatrale, più che in Leonardo).
Raffaello, Scuola di Atene

Ambientata in uno spazio architettonico, non aperto. Il contesto architettonico diventa rappresentazione
della razionalità del pensiero dell’uomo. Trae l’ispirazione per la composizione dello spazio da Bramante. La
scalinata apre a un tempio all’antica con bassorilievi all’antica e le statue di Apollo e Minerva che
patrocinano la filosofia degli antichi. Studio dell’interno della chiesa di San Pietro in costruzione con i resti
della basilica Costantiniana (in opera in quelle date). Nell’impostare l’architettura Bramante stesso si era
ispirato ai modelli antichi.
Quest’architettura chiusa ma aperta verso il cielo traduce il Pantheon, dove il percorso della luce all’interno
dello spazio ha un significato concettuale, che Raffaello traduce nel suo affresco alludendo alla capacità del
pensiero degli antichi di attingere a una realtà superiore.
Al centro, due figure che sono i pilastri della filosofia antica, ma che sono anche le fonti di due scuole di
pensiero molto importanti nel Rinascimento: Platone e Aristotele. Hanno proporzioni maggiori delle altre,
perché esprimono la grandezza del proprio pensiero. Sono al centro (compositivo e simbolico) e isolate dal
resto grazie all’apertura della grande arcata del fondo. La rappresentazione mette in evidenza allo
spettatore i punti di riferimento. Vengono innanzi verso lo spettatore con un passo energico sottolineato
dalla loro solennità e dall’eloquenza dei gesti. Platone porta sotto braccio il Timeo e indica la realtà del
mondo delle idee. Aristotele, che sorregge sul ginocchio l’Etica, indica con la mano la realtà sensibile,
dell’apparenza fenomenica. Anche la stessa Etica è un testo che fa riferimento alla concretezza
dell’esperienza dell’uomo. I due gesti sono entrambi gesti ripresi da Leonardo.
Ai lati delle figure si aprono due schiere di personaggi che creano una sorta di corridoio umano, in stretta
relazione con l’architettura delle due pareti laterali, anche perché le due ali seguono la sequenza delle
lesene e poi fanno angolo prospettandosi sui due pilastri laterali con altri gruppi di figure. Tutto questo è
collocato sull’apice della scalinata, ma poi la scena attraverso le scale va ad avvicinarsi allo spettatore. Nelle
stanze Raffaello utilizza moltissimo le scale, perché consentono come una sorta di pentagramma di tenere
insieme tutta la composizione orizzontale, espediente che Raffaello elabora in termini scenografici (realizza
in questi anni anche scenografie per opere teatrali).
Sulla scalinata di distende Diogene, filosofo che rifiuta la convenzionalità dei costumi: questo fa capire
come ciascun personaggio interpreti come in una scena teatrale il proprio pensiero e il ruolo che ha avuto
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

nella storia del pensiero. Raffaello immagina anche delle figure che corrono verso Aristotele e Platone
mostrando una reazione a questo tipo di atteggiamento di Diogene.
Sui lati si snodano altri gruppi, in cui possiamo riconoscere figure di contemporanei che prestano le proprie
fattezze a figure dell’antichità (con giustificazione concettuale). Raffaello affresca e consegna ai posteri una
celebrazione della civiltà rinascimentale e dei suoi protagonisti e conferisce alla figura di Euclide nell’atto di
tracciare con il compasso una figura le sembianze di Bramante, che con la sua architettura sviluppa i
principi della filosofia euclidea.
Zoroastro (Baldassare Catiglione) e Tolomeo tengono in mano in mano due sfere, una celeste e una
terrestre.
La presenza di Bramante e Raffaello, del Sodoma o del Perugino (Protogene) afferma l’appartenenza
dell’arte alla sfera delle attività del pensiero dell’uomo.

Socrate presenta degli aspetti satireschi, perché la tradizione letteraria e figurativa ci ha consegnato
un’idea di Socrate con naso pronunciato, come il Sileno (figura socratica).
Eraclito è rappresentato isolato rispetto agli altri, ombroso, seduto a scrivere su un ripiano che si pone in
senso contrario all’andamento delle scale. La figura presenta le fattezze di Michelangelo (omaggio).
17/12/2021
Michelangelo era stato chiamato a Roma nel 1505 per realizzare la tomba di Giulio II, un progetto di
carattere scultoreo. L’idea originaria sarebbe stata quella di porre la tomba di Giulio con quella di san
Pietro. In realtà, Giulio II dopo un primo avvio del progetto si interessa ad altre vicende. Inizia un progetto
che Michelangelo si trascina creano molti malumori e scontri con il papa.
Ricostruzione del primo progetto (1505) e del secondo (1513) per la tomba di Giulio II (1954)
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Il primo progetto mostra un modello di tomba libera nello spazio, con una pianta quadrangolare, che si
sviluppa su tre ordini decrescenti verso l’alto, secondo lo schema piramidale visto in Leonardo,
Michelangelo e Raffaello, una delle forme proprie del classicismo rinascimentale.
Nel basamento abbiamo quattro nicchie con le virtù, affiancate da figure di uomini nudi, i cosiddetti schiavi
o prigioni. Nella parte superiore Mosé con le tavole della legge e San Paolo, che dovevano collegarsi a due
personificazioni della vita attiva e della vita contemplativa. Nel livello più alto, affiancato da due figure
allegoriche, il sepolcro di Giulio II, in cui la figura del papa sta seduta, rappresentata in vita. è chiara
l’interpretazione neoplatonica della struttura nel tema di ascesi dell’anima e di liberazione dalla prigionia
della materia attraverso la pratica delle virtù e dell’antico e nuovo testamento (Mosè e san Paolo), che
porta alla liberazione dell’anima del pontefice.
Questo progetto viene trascurato da Giulio II, determinando la partenza di Michelangelo, che torna
brevemente a Firenze, per poi spostarsi a Bologna, dove si riconcilia con il papa nel 1507, in occasione della
presa della città che il papa riconquista con l’aiuto dell’esercito francese, cacciando la signoria dei
Bentivoglio. Per celebrare questo ritorno di Bologna a Roma, commissiona a Michelangelo una statua
colossale in bronzo della sua persona, collocata davanti alla chiesa di San Petronio. Nel 1511 però,
ritorneranno i Bentivoglio con l’appoggio dei francesi. In quell’occasione la statua del papa sarà abbattuta.
Alfonso d’Este si farà dare i frammenti del corpo distrutto, per fonderli e ricavarne dei cannoni: un
archibugio denominato la Giulia, con il quale Alfonso si fa ritrarre. La testa, preservata, entra a far parte
delle collezioni di Alfonso, per apprezzamento di Michelangelo e come trofeo dell’odio per Giulio II.
Michelangelo torna a Roma, dove però il papa non gli consente di lavorare alla tomba, ma gli commissiona
il nuovo progetto di decorazione della volta della Cappella Sistina. Solo nel 1513 (morte di Giulio II),
Michelangelo riprenderà in mano il progetto formulando la seconda versione, diversa. È una tomba
concepita a parete, con un maggior sviluppo verticale (necessita quindi un appoggio), con l’inserimento
della Madonna con Bambino in volo che completa il percorso di ascesi dell’anima del papa. C’è
un’amplificazione anche orizzontale della decorazione. Riconosciamo comunque la persistenza di alcuni
elementi, come le statue nelle nicchie e le figure di Mosè e San Paolo. La messa in opera è successiva,
organizzata nel 1545, non da Michelangelo, nella Chiesa di San Pietro in Vincoli. In questa chiesa vengono
collocate a parete in una sistemazione adeguata ai modelli della metà del Cinquecento alcune delle statue
che Michelangelo aveva già realizzato: al centro della tomba va a finire la figura di Mosè, che Michelangelo
aveva concepito per essere vista dal basso verso l’alto con una collocazione più lontana dallo sguardo dello
spettatore che giustifica le proporzioni e lo scarto tra parte inferiore e parte di busto e testa (più
pronunciate) e lo scatto vitale della figura, sia nell’atteggiamento, che nella testa, con la barba fluente.
Queste caratteristiche hanno reso l’opera uno dei modelli più diffusi nell’immaginario comune.
Dei prigioni, che realizza per questa parte del progetto, se ne conservano alcuni.
Michelangelo, Schiavo ribelle e schiavo morente, 1513-16
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Si trovano in uno degli atri del palazzo del Louvre. Questi schiavi sono stati battezzati in seguito con
aggettivi che sono entrati nella tradizione e che sono utili a cogliere un’attitudine: il ribelle si contorce per
liberarsi dal tronco, con un’emergenza molto chiara dei muscoli; il morente ha un languore sentimentale
nel braccio alzato sulla testa, nel gesto che tiene alta la veste. Sono dettagli che hanno colpito la fantasia
degli artisti e che sono stati ripresi e riformulati attraverso delle repliche disegnate e incise, che sono state
riprese da artisti della maniera, ma che a sua volta Michelangelo aveva tratto dalla scultura antica.
Michelangelo, Schiavo che si desta e Schiavo detto Atlante

Notiamo uno stadio di finitura inferiore. Non sono solo meno rifinite, ma è una testimonianza di una
concezione diversa del tema in cui Michelangelo mette in evidenza il processo di liberazione dalla materia.
c’è una contorsione dei corpi, l’idea della forma di liberarsi dalla materia grezza, che è molto evidente. I
titoli, “schiavo che si desta” derivano da Platone che descrive la liberazione come un risveglio; l’Atlante che
porta sulle spalle il peso del mondo coglie il legame profondo con le figure della mitologia (Atlante è una
divinità legata al mondo dei titani, giganti, delle prime ere divine, che rappresentavano per gli antichi le età
dell’uomo). C’è una straordinaria densità di significati.
Il tema della tomba costringe Michelangelo a pensare da scultore, a concepire anche l’architettura che
regge queste strutture non come avulsa dal lavoro dello scultore, ma come un grosso blocco dal quale
nascono gli elementi geometrici concatenati alle emergenze scultoree. È l’idea organica della forma che
Michelangelo declina in termini scultorei, come fosse un’architettura proiettata in scultura.
Questa concezione guida anche il grandioso progetto di decorazione della volta della Cappella Sistina,
commissionata a Michelangelo nel 1508 di seguito a delle crepe che si erano create nella volta
precedentemente affrescata da Pier Matteo d’Amelia, con un motivo celeste di cielo stellato, che copriva la
cappella dove già erano stati eseguiti gli affreschi di Perugino, Botticelli, Signorelli. Quando Michelangelo
interviene sulla volta deve collegarsi alla precedente affrescatura delle pareti, anche in termini iconografici.
Il progetto deve aver coinvolto anche figure di iconologi, ma Michelangelo coglie queste indicazioni di
carattere iconografico e le riforma sulla base di una visione anche religiosa e spirituale, che l’artista aveva
già iniziato a coltivare. Michelangelo è molto partecipe dei fermenti spirituali che caratterizzano il
rinascimento anche dal punto di vista religioso (circoli spirituali). Quindi, se sulle pareti erano svolti episodi
della vita di Mosè e Gesù in un’idea di collegamento tra antico e nuovo testamento, dove il primo prefigura
episodi che poi si realizzano nel secondo, nella volta viene rappresentato il presupposto di tutto ciò,
attraverso le storie della Genesi, quindi realizzando quell’idea di un’umanità ante legem, sub legem e sub
gratiam (chiave interpretativa anche del Tondo Doni di Michelangelo).
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Michelangelo, La volta, 1508-1512, Cappella Sistina

L’organizzazione complessiva della composizione è molto importante per la volontà di unificazione


dell’immagine. Michelangelo costruisce una potente intelaiatura architettonica (finta, pittorica), che però
non è un’architettura prospettica, ma una forma scultorea pensata in termini scultorei (come tomba di
Giulio II): unico blocco che unifica e distribuisce i singoli elementi della composizione. All’interno di questa
struttura le singole figure sono scolpite come delle statue. Però ogni figura è strettamente connessa al tutto
e agli altri elementi della composizione ribadito il legame tra la parte e il tutto, ma in termini di forma
scultorea (non come la sezione aurea, prospettica).
Nello spazio tra le vele al di sopra delle lunette delle finestre sono rappresentati i troni dei veggenti,
affiancati da due braccioli, che sono in realtà le basi di questi 10 costoloni che scandiscono la composizione
e che reggono un’architrave, formando al centro un lungo rettangolo, all’interno del quale si svolgono le
nove scene della Genesi, inserite come bassorilievi all’interno di un monumento.

Le scene della Genesi nel registro centrale e la serie delle sibille e dei profeti nei troni e le storie di Cristo
nelle velette viene ripercorso come una sorta di epopea cristiana il mito della creazione dell’uomo, ma
anche il dramma del peccato originale e l’inizio di un percorso di redenzione attraverso gli episodi dei
quattro pennacchi angolari e sulle pareti (Storie di Mosè e Cristo), che rappresentano appunto questo
percorso di salvezza antelegem (prima di Mosé), sub legem (durante e dopo Mosè), sub gratiam (dalla
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nascita di Cristo). Il percorso va dall’altare verso l’ingresso per poi tornare attraverso le scene nelle pareti
dall’ingresso verso l’altare: coinvolge lo spettatore anche pensando ai percorsi liturgici.
Dal punto di vista esecutivo, Michelangelo però lavorò in senso opposto a quello narrativo: le storie della
creazione del mondo furono eseguite per ultime rispetto a quelle di Noè che furono le prime. Questo si
nota nel passaggio da scene ancora molto affollate a scene sempre più dominate dalle figure singole,
protagoniste, che si muovono come masse potenti nello spazio.
In questa distribuzione delle scene, l’unitarietà della concezione generale è data dal grandioso sistema
dell’intelaiatura, non statica, determinata dall’emergenza scultorea: è in tensione, anche nelle nervature
architettoniche si sente un’energia che coinvolge tutte le figure che ne fanno parte. Nessuno dei
personaggi è statico, inerte, inanimato, rappresentano tutti il movimento continuo della storia
dell’umanità, una grande epopea cristiana rappresentata attraverso temi e figure dell’immaginario classico
e mitologico.
Gli antenati di Cristo

Sulle 16 lunette. Sono le 40 generazioni degli antenati di Cristo, dal vangelo di Matteo, divise a gruppi nelle
16 lunette e nelle 8 vele soprastanti, in cui gli antenati sono raccolti in gruppi familiari (frutto delle
tematiche del primo classicismo fiorentino, Tondo Doni, Taddei, Pitti…), in cui Michelangelo mette in scena
l’inconsapevole attesa della salvezza: anche nella condotta cromatica, un po’ ombrosa, delle figure c’è il
senso di questa attesa, perché sono figure che sono escluse dal cammino della salvezza ma le precedono.
Delle tabelle identificano le famiglie, di Giacobbe, di Giuseppe, Aminadab, con ombre che sono pensate
anche in relazione all’illuminazione reale della cappella e quindi ai riverberi di ombre e luci delle candele,
ma anche la luce che entra dalle finestre, ma lascia in ombra le parti immediatamente sopra. Al di sopra di
queste lunette si inseriscono figure bronzee, che fanno parte delle decorazioni dei troni.
I personaggi sono colti anche in atteggiamenti quotidiani ma con alto valore simbolico (lettura, figura che si
specchia allusiva all’allegoria della Prudenza).
Al di sopra di queste figure:
I veggenti: 5 sibille e 7 profeti
Rappresentative del furor profetico, colte nella concentrazione del messaggio che stanno per consegnare
alla storia.

Anche qui le tabelle le rendono identificabili. La Cumana (sibilla) e la figura che si gira con grande eleganza
ma anche emergenza dei gesti, delle spalle nude, che rendono il gesto di sollevare il libro della profezia,
Sibilla Libica, un’altra figura ripresa da Michelangelo e rielaborata in molte riformulazioni dagli artisti del
manierismo.
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I bassorilievi che ornano queste figure sono coppie di putti colti in abbracci o movimenti intrecciati
realizzati anche rovesciando lo stesso cartone preparatorio, in una logica di nessi e corrispondenze interne
tra le parti che l’artista mette in evidenza.
Andando avanti incontriamo figure come la Sibilla Delfica, che si gira con lo scatto della testa a cogliere
l’oracolo che dovrà poi trasmettere, mentre con l’altra parte si gira. L’energia dei gesti è espressa dalla
figura del profeta che sta in asse al di sopra dell’altare, cioè quella di Giona, il profeta inghiottito dalla
balena e sputato fuori dopo giorni (prefigurazione della morte e resurrezione di Cristo). Qui è in bilico, si
sbilancia verso l’interno della cappella, in un movimento diagonale straordinario.
Sotto a Giona, il grande affresco del Giudizio Universale, realizzato successivamente distruggendo le due
lunette che aveva realizzato in questa parte della decorazione.
9 Storie della Genesi
Si snodano nella parte centrale.
- Dio separa la luce dalle tenebre
- Dio crea gli astri e le piante: idea onirica della figura di Dio che compare due volte, davanti
diagonale per creare astri e luna e da dietro dando le spalle allo spettatore (backside di Dio,
straordinaria idea), mostrandoci le piante dei piedi e il fondoschiena, dirigendosi verso la creazione
delle piante. Queste immagini sono di grande potenza e traducono molto bene il ritmo visionario
ed epico delle prime fasi della Genesi. Michelangelo restituisce un Dio (nella Genesi si incontrano le
due tradizioni monoteiste di Jahvè, della tradizione ebraica, terribile, e di Eloi, il Dio di tutti, che
Cristo invoca sulla croce) con la stessa terribilità del messaggio biblico.

- Dio separa la terra dalle acque: Michelangelo rappresenta Dio come una massa che esprime
energia creatrice, coagulata in questa massa in movimento. La figura violacea (colore simbolico) è
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portata di peso dagli angeli, perché è una massa con un suo peso e consistenza, dentro il
rigonfiamento del mantello che indica il movimento e il dinamismo.

- Creazione di Adamo: questa massa è in una sorta di grande cervello nell’azione che dà vita
all’uomo, la trasmissione della vita. la scintilla divina è la scintilla dell’intelligenza, che trasforma la
struttura inanimata di Adamo in una struttura piena di vita, che decide attraverso il libero arbitrio,
che lo dannerà, ma che è anche espressione della libertà dell’uomo e dell’autodeterminazione
(Rinascimento riconosce questa libertà dell’uomo). La figura si libera dalla prigionia della materia:
Adamo è disteso e reclinato su tutta la parte destra, ma è richiamato alla vita da questo Dio
demiurgo, e viene in movimento, nella gamba, nel braccio e nella testa. È straordinaria l’idea
michelangiolesca di questo incontro non ancora pienamente realizzato delle dita di Adamo e di Dio,
che gli sta trasmettendo la vita.

- Creazione di Eva: risolve diversamente questa creazione. Viene tratta da una costola di Adamo e la
figura come granitica di Dio la solleva verso l’alto. Sono gesti quasi magici. C’è continuità con l’idea
tradizionale (come Masaccio).

- Peccato e Cacciata dei progenitori dell’Eden: entra in scena il Demonio.


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- Il diluvio: c’è un’apertura delle acque, intravediamo l’arca e i personaggi che cercano di salvarsi
dalle onde.
- Sacrificio di Noè
- Ebrezza di Noè: ringrazia Dio. Noè si lascia andare ai festeggiamenti, beve il frutto della vite e si
addormenta nudo. L’episodio non coglie Noè in difetto, è prefigurazione del sacrificio di Cristo (il
vino è figura del sangue di Cristo). I figli vanno a ricoprirlo, Sam e Jafet non lo guardano, mentre
Cam lo guarda, lo deride e viene per questo maledetto con la sua stirpe.

Ai quattro angoli della volta i pennacchi in cui sono raffigurate altre storie del Vecchio Testamento: 4
episodi di intervento di Dio a favore del popolo eletto: Judith ed Eloferne, Mosè, Davide e Golia, Aman.
Intorno a queste storie, Genesi ed Esodo, ci sono delle figure di contorno: i veggenti, le figure bronzee, i
putti, già visti, e le figure di uomini ignudi seduti sui plinti seduti sui troni dei veggenti. Incarnano l’ideale
dell’umanità che assiste al compimento del proprio destino di nascita, dannazione e salvezza, attraverso
queste pose articolate e torsioni. Allo stesso tempo però, a coppie reggono dei dischi bronzei su cui sono
raffigurati altri episodi.
La realizzazione della volta interferisce con lo sviluppo del linguaggio di Raffaello, già all’interno della stanza
della Segnatura, in alcune figure riprese negli anni tra il ’10 e il ’12, quindi già scoperta metà della volta.
Pitagora, nella Scuola d’Atene, e Isaia nella volta Sistina; Saffo nel Parnaso e la Sibilla Delfica. La relazione
non è solo nelle pose ma anche nella condotta pittorica, più ricca di materia, emergenza della forma
ottenuta da una diversa natura degli impasti e da un modo più ricco e dinamico di dipingere, rispetto alle
altre.
Raffaello, La stanza di Eliodoro, 1511-1514

Si lega anche dal punto di vista del programma iconografico alla destinazione dell’ambiente a Camera
dell’Udienza. Se la Stanza della Segnatura era connotata in senso fortemente intellettuale e allegorico, la
Stanza dell’Udienza è il luogo in cui venivano accolti gli ospiti stranieri e ambasciatori, in cui il programma
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iconografico deve svolgere temi storici. Il papa vuole mostrare agli ospiti accolti in udienza la diretta
protezione divina: vengono celebrati interventi divini a favore della Chiesa. Gli episodi scelti alludono tutti
alla politica militare condotta in questi anni da Giulio II. Le date prendono dentro sia la decorazione delle
pareti che del soffitto, ma la decorazione del soffitto non precede come al solito quella delle pareti ma la
segue. Infatti, il soffitto, già impostato dalla prima equipe nel 1508 viene cancellato e rifatto al termine dei
lavori della stanza, quindi sul soffitto troviamo la data che segna la fine dei lavori della stanza (1514). Si
nota l’evoluzione nella decorazione del soffitto, non più spartito in tanti riquadri come il primo soffitto della
stanza di Eliodoro, ma una divisione in soli 4 spicchi che seguono la volta (maggiore semplicità e chiarezza
compositiva), immaginati come arazzi riportati. Nel 1514 a Raffello vengono commissionati gli arazzi per le
Stanza Vaticane, condotti negli anni successivi, che si sposano molto bene con gli affreschi di questa volta.
Vediamo già gli effetti della riflessione sulla volta di Michelangelo.
Raffaello, Cacciata di Eliodoro che tenta di rubare il tesoro del tempio da parte degli angeli invocati dalle
preghiere del sacerdote Onia, 1511

Il tema (titolo): gli angeli vendicatori intervengono a difesa della Chiesa. L’episodio si presta molto bene al
confronto con la Scuola di Atene per analogie e differenze: se nella concezione della Scuola di Atene
avevamo evidenziato lo sviluppo lineare della scalinata, l’articolazione anche architettonica delle varie parti
e dei gruppi attraverso simmetrie e corrispondenze, nella Cacciata anche l’architettura evidenzia un senso
plastico della forma di derivazione Michelangiolesca. Le volte hanno maggiore emergenza plastica: ai
pilastri si sostituiscono le colonne, ai cassettoni le volte, che creano questo vuoto al centro che rendono più
evidente l’accumularsi delle masse nei due gruppi ai lati. Sono due masse in movimento, in senso diverso e
anche con connotazioni diverse: col passo lento e solenne entra il corteo papale, che presenzia
anacronisticamente all’evento (prefigurazione), e dall’altra parte il dinamismo degli angeli, a cavallo, che
cacciano sulla destra il nemico della chiesa.
Si coglie un differente modo di dipingere la scena storica con delle tonalità tra l’ocra, il grigio, l’azzurro, e
con una condotta più leggera, e la scena con il papa e i suoi dignitari con colori più vividi e una materia più
densa che rende più tangibile la loro presenza e li distingue dal passato biblico e li mette in comunicazione
con lo spettatore. A sinistra le figure si aggrappano alla colonna, è un richiamo alla volta michelangiolesca.
Si nota la maggiore libertà ed energia anche nel ductus pittorico e una crescita luministica e cromatica, che
deriva da un imput veneziano: il sacerdote e le candele dipinte sull’altare (a destra), di modernità
straordinaria, per la sintesi e l’astrazione. Raffello ha una capacità di dipingere queste luci dentro il buio e la
penombra c’è una condotta in parte a secco, realizzata inumidendo l’intonaco nuovamente in maniera tale
da creare questi effetti, che Raffaello realizza studiando Plinio, le indicazioni che dà nella Naturalis Istoria
sul modo di dipingere degli antichi.
Questa capacità inventiva cresce nella realizzazione di
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Raffaello, Messa di Bolsena, 1512

Un prete tedesco viene colto dal dubbio circa la transustanziazione di Cristo nel sacramento dell’eucarestia
nel momento della messa. Il sanguinamento dell’ostia macchia il corredo dell’altare e la pietra.
Nell’iconografia della stanza ci si immagina che anche dietro questo miracolo ci sia Giulio II, a ribadire
l’intervento divino nei confronti dei nemici interni della Chiesa. La scena è immaginata da Raffaello su un
rialzo che la spinge illusoriamente verso lo spettatore (per la finestra). Lo stallo ligneo separa la scena da
un’architettura di fondo, sviluppo ulteriore di quello della Scuola di Atene, che allude a un’architettura
simbolica dell’edificio della Chiesa. Ai lati, negli spazi irregolari delle finestre, Raffaello raggruppa da una
parte le donne, i bambini e il popolo che assiste al miracolo reagendo in maniera molto eloquente, e
dall’altra, dietro Giulio II, i vari cardinali e le guardie svizzere che avevano aiutato Giulio II a sconfiggere i
francesi a Ravenna nel 1512.
Si coglie anche un senso di maggiore unitarietà di questa parete, che corrisponde a quella della giustizia
nella stanza della segnatura. C’è il senso di una maggiore unificazione, non solo perché Raffaello ha affinato
le sue capacità, ma perché è diverso il concetto da esprimere: idea dell’unità della Chiesa, rimessa insieme
dal miracolo eucaristico. L’eucarestia rappresenta l’unità della Chiesa, perché Cristo si raffigura nell’ostia
intero, come l’interezza di tutte le parti della Chiesa.
Il colore si fa più denso e saturo di materia: c’è una crescita di pigmenti e di temperatura di colori (mostra
l’attenzione di Raffaello alla pittura veneta, i quali pittori arrivano a Roma, ma anche Raffaello va al nord).
Questo dà senso di dramma al prete, all’altare, candelabri, croce, ma anche alla cera che si scoglie dai ceri
portati da chierichetti con tuniche scroscianti di bianco, dettaglio del corredo dell’altare e ritratti vivi, che
derivano anche dal contributo che alla pittura veneta avevano dato gli artisti nordici. Ritratti sono i
cardinali, Giulio II (con la barba che si era fatto crescere per voto fino alla sconfitta dei francesi) e le guardie
svizzere. Questi comandanti hanno fisionomia nordica (occhi azzurri) e la condotta del pennello molto
libera dà una presenza, un’immanenza a queste figure toccate dalle luci che evidenziano l’ombra della
barba, le gote, punte di luce sul naso…
Raffaello, Madonna con il Bambino e san Giovannino “Madonna della seggiola”, 1513
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Motivo fiorentino del tondo è tradotto nella realtà della Roma papale nello stile della seconda Stanza. La
qualità pittorica ed espressiva nella ricchezza della seggiola su cui sta la Madonna e del foulard dei capelli e
dello scialle un po’ zingaresco, dipende anche da questa attenzione alla pittura veneziana, che troviamo
anche in
Raffaello, Ritratto di Giulio II

Pomi a forma di ghianda simbolo dei Dalla Rovere (illuminati dalla finestra fuori dal quadro).
21/12/2021

Giulio II ha la barba ed è seduto su una sedia di velluto. L’immagine è caratterizzata dalla barba che si è
fatto crescere come ex voto. È un’immagine del papa che si mantiene anche dopo che ha sconfitto i
francesi con l’aiuto delle guardie svizzere. Nel ritratto si ritrova un senso di energia trattenuta che Raffaello
matura anche sulla base dei modelli michelangioleschi.
La figura è concentrata, con una mano stringe il fazzoletto e con l’altra il bracciolo della sedia: le mani
esprimono una forza di carattere e una determinazione all’azione che caratterizza la sua politica, tesa a
ristabilire l’autorità della Chiesa. infatti, le mani ostentano gli anelli papali.
Raffaello rappresenta il Papa seduto su una sedia in un angolo della stanza, immaginando il ritratto dal
punto di vista dell’osservatore, che è come accolto in udienza dal Papa e quindi collocato in piedi e molto
vicino al ritrattato: l’idea è di avvicinare lo spettatore anche psicologicamente alla figura del papa; ma non è
una vicinanza confidenziale, perché il Papa è una figura autorevole.
Ostenta l’autorità papale anche attraverso la seta verde che riveste le pareti, su cui sono ricamate le chiavi
incrociate. Spicca la figura in rosso e bianco del Papa. La sedia indica la dignità papale ed è ornata da pomi
in forma di ghianda che rimandano all’insegna dei Della Rovere, che spiccano per via di esaltazione
cromatica e luministica. La luce si riflette sui pomi bronzei e indica la finestra reale dell’ambiente. Questa
luce esalta anche la consistenza di velluto della mantellina papale e del cappello, sotto al quale stanno le
maniche e la tunica del papa, dipinta con capacità di resa materica.
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Raffaello, Liberazione di san Pietro dal carcere, 1512

Stanza di Eliodoro. Altro dipinto celebrativo della Chiesa e di Giulio II. È un episodio che indica l’intervento
divino in difesa della Chiesa. L’architettura della prigione di San Pietro è rappresentata quasi come una
tomba, con l’idea che la liberazione sia come una resurrezione. La struttura architettonica non è più
geometrica e definita dalle rette, ma costruita come una massa plastica, anche attraverso l’uso del bugnato
e con l’idea michelangiolesca dell’architettura in forma di scultura, che serve a coordinare tre momenti
diversi della rappresentazione: l’angelo appare a San Pietro; lo fa uscire dalla prigione; i soldati scoprono la
fuga. Questi tre momenti sono evidenziati anche dal percorso della luce: il chiarore della luca sullo sfondo
manda i suoi riflessi freddi sulle armature; i bagliori delle torce, luce più calda e mobile che caratterizza il
primo piano; il fulgore divino che emana dalla figura dell’angelo, particolarmente evidente al centro della
composizione, ha un effetto accentuato anche dalla dipintura a secco della grata della prigione: non c’è nei
disegni preparatori, è aggiunta successivamente con una materia diversa per suggerire in primo piano
l’evidenza di questa cancellata in controluce e uno spazio che sta invece aldilà, ricavato al di sopra della
finestra, a indicare un vano collocato anche simbolicamente più in alto e irrorato dalla luce dell’angelo.
Raffaello gioca architettura e luce in rapporto con lo spettatore, segnando il passaggio dallo spazio reale a
quello superiore soprannaturale dell’affresco dipinto, attraverso un percorso visivo condotto con tutti i
mezzi della pittura.
Nella parte destra, cogliamo la figura di san Pietro che sta dietro l’angelo, con un effetto tra l’ombra di
fondo dell’architettura e la luce dell’angelo, che lo mette in evidenza. In primo piano i soldati dormienti
hanno dei riflessi e lo scudo è colto completamente nell’ombra, perché è come una zona sottoesposta, ma
anche in questo scudo Raffaello dà un effetto che consente all’occhio dello spettatore di andare a scovare
dei dettagli.
Raffello, Incontro tra Attila e Leone Magno, 1513
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L’ultimo affresco della sala. Il soggetto era già stato scelto e progettato nel 1511 sotto Giulio II, ma
completato quando ascende al soglio papale Leone X, che presta le proprie sembianze a Leone Magno,
raffigurato mentre entra da sinistra con il gruppo dei dignitari del papa, in una processione lenta ma
grandiosa, che va a bloccare con la fermezza e l’autorevolezza della dignità papale l’orda barbarica di Attica
che entra da sinistra in diagonale e in movimento, determinando un effetto di groviglio, assembramento
circolare di figure. Le figure di soldati in primo piano in torsione creano una mediazione tra i due gruppi
(avanzata in diagonale di uno e la fermezza dell’altro). Il modo di comporre i gruppi è espressivo del
soggetto.
Sullo sfondo del procedere lento del corteo papale sta un orizzonte sereno, connotato dalla città di Roma,
che indica la civiltà e l’autorità dell’urbe, sopra la quale stanno le figure di san Pietro e san Paolo che
materializzano l’intervento divino a difesa del Papa. Dietro all’orda barbarica vediamo invece un costone
roccioso, con una vegetazione selvaggia e sconvolta da incendi che si legano simbolicamente alla
distruzione e al caos portato dai barbari.
Tutto questo è reso con una materia pittorica affinata nel corso degli altri affreschi e che qui ha una
prestezza nel ductus della pennellata che esprime l’intensità emotiva della scena.
I cavalli e i cavalieri barbari sono tutt’uno. Un barbaro veste un’armatura attillatissima che mette in
evidenza la muscolatura e quindi anche la foga del cavaliere, giocata cromaticamente per spiccare sul primo
piano in contrasto con invece il cavallo bianco su cui sta un altro soldato con una maglia metallica e un
elmo dai riflessi argentati crea accordi, simmetrie e dialoghi anche dal punto di vista cromatico.
Gli incendi sul fondo sono dipinti con una materia libera, con una capacità di accendere le luci e i colori e
dipingere in certi punti senza disegno.
È importante capire che Raffaello prosegue in questo senso lo studio e la riflessione sulle opere di Leonardo
(nell’idea di questa cavalcata c’è un principio leonardesco, i due sono entrambi a Roma nel 1513). Ma
anche l’insegnamento di Michelangelo si approfondisce:
- 1510-1511: Stanza della Segnatura e di Eliodoro. Michelangelo aiuta Raffaello a rendere il peso e
l’energia fisica delle figure.
- 1512-1513: questa energia si libera nello spazio con gesti e potenza espressiva grazie anche poi al
contributo che viene dalla pittura veneta, dovuto anche alla presenza di artisti veneti a Roma.
Raffaello, Ritratto di Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, 1518-19

Viene accolto come un papa pacificatore rispetto alla personalità che lo aveva preceduto (Giulio II). Leone X
si presentava con una formazione molto diversa da quella di Giulio II, si forma nella Firenze di Lorenzo il
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Magnifico e quindi anche su quegli ideali intellettuali e di diplomazia. È una figura che Raffaello restituisce
nel ritratto come un gentiluomo, un mecenate dedito allo studio e al collezionismo di opere d’arte, come il
codice prezioso che sta sul tavolo e che il Papa si appresta a studiare con una lente.
Il ritratto rappresenta anche un altro principio: quello del nepotismo. Leone è rappresentato tra due
cardinali che sono legati da vincoli familiari e guadagnano in questi anni molto potere all’interno della curia
papale. In realtà, Leone X avrebbe poi tradito le aspettative concentrate sulla sua persona perché la sua
politica non è stata meno aggressiva di quella di Giulio II, anche se condotta in maniera meno
personalistica.
La dimensione di continuità con il papato di Giulio II si può cogliere nella decorazione della Stanza
dell’Incendio di Borgo, la terza degli appartamenti del papa, con la funzione di sala da pranzo (anch’esso
ambiente di rappresentanza). Il programma iconografico celebra gli interventi della Chiesa a favore della
cristianità. Sono protagonisti più che mai i papi. Anche Leone X punta a riaffermare l’autorità della Chiesa
santa, cattolica e romana, secondo i principi del Concilio Laterano, aperto da Giulio II e chiuso da Leone X
nel 1517. I papi scelti per gli episodi narrati sono Leone III e IV, immediati predecessori di Leone X.

Gli episodi sono attinti alle storie dei papi e alludono a vicende della storia contemporanea (tratti dal Liber
pontificalis).
Raffaello riesce ad organizzare una bottega che tiene sotto controllo attraverso i propri disegni e il
passaggio dai disegni ai cartoni e la rifinitura finale: la presenza di Raffaello è comunque costante. La
bottega è un marchio di fabbrica che Raffaello con grande intelligenza riesce ad affermare, anche
prestando i propri disegni per l’attività incisoria. Marcantonio Raimondi è l’incisore che per primo viene
investito di questo ruolo ed è un modo attraverso cui Raffaello diffonde le proprie immagini e il successo
del proprio linguaggio.
All’interno di questa stanza, l’opera più completamente autografa è
Raffaello, Incendio di Borgo, 1514-17
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L’incendio è avvenuto sotto il pontificato di Leone IV, il quale lo aveva sedato con la propria benedizione:
un miracolo a favore della cristianità, indicata come il popolo di Roma. l’episodio viene messo in scena con
una capacità di teatralizzazione: l’architettura è costruita come una scenografia teatrale, con quinte laterali.
A sinistra un antico portico in fiamme che indica il passaggio dall’età pagana a quella cristiana; a destra
un’architettura pure all’antica ma costruita in asse con la superficie pittorica. Queste due quinte guidano lo
sguardo dello spettatore verso il fondale, costruito come un fondale scenografico, dove si individua subito
la figura del Papa nonostante la scala minore, perché è sul podio a cui ci porta la scalinata, che ci induce a
incontrare l’angolo del palazzo del Papa (moderno, rinascimentale, con basamento in bugnato) e la figura
del papa benedicente. Dietro, la facciata dell’antica basilica costantiniana.
In questa costruzione scenografica, il primo piano è proscenio su cui si affollano i personaggi e si gioca la
parte drammatica dell’incendio, mentre sul fondale si risolve il tutto grazie alla benedizione (idea
escatologica di via per la salvezza). Le figure che vediamo correre verso il fondale e assembrarsi in ginocchio
sotto la finestra del papa sono un’eco delle figure in primo piano.
Lo stile di Raffaello, conformemente all’impostazione teatrale, diventa tragico: se nelle altre stanze era
allegorico e poi drammatico, qua incontriamo il canone della tragedia classica e le caratteristiche che il
teatro rinascimentale trae dallo studio del teatro antico. Anche in termini di resa attoriale, per i gesti delle
figure. Questa connotazione riguarda anche l’organizzazione dei gruppi, collegati tra loro con l’idea di una
sequenza di momenti scenici che Raffaello rende in pittura anche attraverso l’uso delle quinte. Sfrutta
l’elemento della scala per catturare sul primo piano lo spettatore, posto sullo stesso livello della scalinata
come se fosse nella platea, che vede scendere la figura della portatrice d’acqua. Nel proscenio sta il gruppo
delle donne e dei bambini, che con i diversi atteggiamenti, si lega agli altri gruppi: una si volta invitando a
cogliere l’incendio a sx, una apre le braccia rivolgendosi verso lo sfondo. Ci sono diversi assi visivi che
coincidono con i diversi momenti della scena, composta in maniera molto più articolata rispetto a quella
della Stanza della Segnatura, ma anche di Eliodoro.
In Raffaello crescono anche i nuovi interessi architettonici e archeologici. Nel 1514, alla morte di Bramante,
Raffaello gli succede come architetto papale. Nel 1515 assume il ruolo di sovrintendente alle antichità di
Roma e progetta una sorta di mappa della Roma antica. Allarga così le proprie competenze archeologiche,
interessandosi anche alla Roma paleocristiana (basilica sul fondo) e alle civiltà egizie. C’è una varietà di
materiali e ordini (ordine corinzio, ionico, bugnato e serliana). Nella scenografia ritroviamo una struttura
che rievoca i fori imperiali.
Questa rievocazione dell’antico è anche letteraria, infatti l’idea stessa dell’incendio viene rievocata facendo
riferimento all’incendio di Troia e quindi alla figura di Enea che fugge da Troia. È una figura costruita come
una statua. Era un soggetto ritenuto di altissimo valore simbolico, eroe fondatore che trasferisce la civiltà
greca nell’antica Roma e porta con sé anche i valori della patria, per la sua religiosità, il forte senso di
giustizia. Anchise rappresenta il vecchio padre, il tramando culturale che Enea salva caricandoselo sulle
spalle.
In realtà, Raffaello si mostra capace anche di inventare figure moderne con lo stesso afflato eroico, come la
portatrice, materializzata dal vento caldo dell’incendio, che entra portando in soccorso dell’acqua con una
mossa energica, michelangiolesca, che si libera nello spazio con una pennellata capace di dare movimento,
allo stesso tempo molto elegante, grazie al braccio che regge l’anfora di pietra grigia sulla testa e l’altra
mano che ne tiene una più piccola, con un avvitamento che diventerà modello formale per tantissimi artisti
di tutti i tempi.
Il Papa si affaccia, davanti ci sono travi di un’architettura che prendono fuoco, Raffaello mostra la capacità
di rendere illusivamente la presenza del primo piano rispetto al secondo dove sta il papa.
La pala d’altare pone la questione della percezione dell’apparizione divina da parte del fedele, quindi di
come mettere in rapporto divino e umano, quadro e spettatore.
Storia dell’Arte Moderna | Sabrina Fiocco

Perugino, Apparizione della Madonna con il Bambino in gloria e i santi Michele Arcangelo, Caterina
d’Alessandria, Apollinare e Giovanni Evangelista, circa 1497

Raffaello, Apparizione della Vergine tra i santi Giovanni Battista, Francesco Girolamo e il donatore,
Sigismondo de’ Conti, circa 1512

La pala Madonna di Foligno, datata 1512, è commissionata da Sigismondo de’ Conti. Il committente
scompare prima del compimento (giustifica la targa vuota che l’angelo regge). La pala è destinata alla
chiesa di Santa Maria in Araceli a Roma, da dove viene trasferita successivamente a Foligno. Il linguaggio è
quello della seconda stanza tra la Cacciata di Eliodoro e la messa di Bolsena: Raffaello adotta ancora lo
schema piramidale di quegli affreschi, che deriva dal primo tratto di formazione e dagli anni fiorentini. Ma
non mette la Madonna in trono, ma sulle nubi.
Rispetto al modello peruginesco, Raffaello rappresenta ciò con un senso di verità spaziale che Perugino non
riesce a seguire. La composizione non è più paratattica, c’è un senso di circolarità. Le nubi sono soffici, si
mischiano con l’atmosfera del cielo. La mandorla non è più un soggetto astratto, ma un cerchio che fa
risaltare la figura della Madonna con il Bambino.
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Il senso di naturalismo è quello della seconda stanza (tra Eliodoro e Bolsena): il ritratto di Sigismondo de’
Corti si può accostare ai ritratti del Papa e dei cardinali nella messa di Bolsena per il senso di verità e
ricchezza cromatica veneta.
Nel dettaglio delle figure si sente la presenza di Leonardo (San Francesco e San Giovanni Battista, per i moti
dell’animo), ma resa più piena nelle masse e legato alle rielaborazioni di Michelangelo sul tema della
Madonna col Bambino.
Il volto di Sigismondo ha un rilassamento dei muscoli del volto di una figura anziana, rughe, ma anche
espressività loquace dello sguardo miope, della protuberanza della bocca… sono dettagli espressivi della
personalità del personaggio.
Il paesaggio è di qualità veneta. È azzurrino e violetto, ma toccato dalle luci giallastre che vengono da una
sorta di arcobaleno disegnato sopra le case, forse provocato da una meteora che sembra volarci sopra.
Potrebbe essere un ex voto.
Raffaello, Madonna Sistina, 1512-13

Rispetto alla Madonna di Foligno, la Madonna Sistina rappresenta un’idea diversa: ci fa compiere il
passaggio fatto dalla Messa di Bolsena alla liberazione di san Pietro, perché l’apparizione della Madonna
non è collocata in cielo, ma va verso lo spettatore, come se si svelasse dalle cortine. C’è un torrente di nubi
che va verso lo spettatore e che trasporta Maria. A saldare questo legame, le figure dei santi mediatori, non
più solo con i gesti, ma con la loro stessa fisicità, tanto che si è parlato di diagonale dialogante: le due figure
di san Sisto e santa Barbara sono collocate in diagonale per mettere in dialogo la divinità con lo spettatore,
con gesti eloquenti e con il senso di dilatazione luministica dello spazio.
Gli angioletti in primo piano e la tiara papale di san Sisto sono evidenziati dalla luce con una resa materica
più tangibile che serve da diaframma tra lo spettatore e il divino. La stessa apparizione è resa con questo
senso di dilatazione, che agita le vesti e dà senso di apertura.
Si tratta di una commissione di Giulio II per la chiesa di San Sisto a Piacenza, che deve celebrare la vittoria
del papa del 1512: la figura di Sisto si riaggancia a quella di Sisto della Rovere.
Questo senso di dilatazione luminosa dello spazio, di apertura diagonale, di libertà della pennellata, di
ricchezza materica e capacità di rendere con la resa materica delle parti più tangibili, riunisce una serie di
caratteristiche definite “protobarocche” = gli esiti sono vicini a quelli della cultura barocca.
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Raffaello, Estasi di Santa Cecilia, 1514

Esprime un concetto diverso, quello dell’estasi divina, attraverso la musica. Si apre in alto un coro angelico,
di cui la santa fa da tramite. Scompare l’apparizione. È un linguaggio che non apre, non si dilata e non
esprime forte emotività: è un linguaggio più chiuso, prezioso e intellettualistico. Ricorda l’Incendio di Borgo.
L’opera viene commissionata per la cappella della beata Elena Duglioli dall’Olio nella chiesa di San Giovanni
in Monte (Bologna).
Successivamente, Raffaello troverà un nuovo modo di legare le figure, attraverso nessi più decorativi:
Raffaello, Sacra Famiglia con Santa Elisabetta, san Giovannino e due angeli (Sacra Famiglia di Francesco I),
1518

Questi due dipinti fotografano molto bene il primo e il secondo Raffaello leonino: siamo all’interno di
questa cultura archeologizzante, erudita, complessa dal punto di vista intellettuale. Ma la Santa Cecilia è un
esito prezioso, mentre la Sacra Famiglia più decorativo.
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Quest’evoluzione si registra contemporaneamente anche attraverso gli affreschi, gli arazzi, i ritratti…
Raffaello, Ritratto del cardinale di Madrid

Raffaello, La Velata

Raffaello, Ritratto di Baldassarre Castiglione


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La pittura si dilata illusivamente verso lo spettatore (es. manica de La Velata).


Gli arazzi per la cappella Sistina passano dagli esiti ancora naturalistici della pesca miracolosa o della
consegna delle chiavi, a esiti come la conversione di Saulo e la predica di San Paolo agli ateniesi, o la
liberazione degli ossessi, che invece ci avvicinano all’Incendio di Borgo.
Ugualmente, possiamo seguire questa evoluzione nella decorazione degli altri palazzi della Roma di Giulio II
e di Leone X. Raffaello lavora solo per committenti strettamente legati al papa come:
Raffaello, Galatea, 1510-11

Le date sono quelle del Parnaso.


Una seconda loggia è invece dedicata alla storia di Psiche:
Raffaello e bottega, Venere, Cerere, Giunone, 1517-18

Loggia di Psiche nella Villa Farnesina a Roma. Raffaello un tema mitologico prezioso, con l’idea di una volta
che viene fuori dall’architettura reale, ma che è costruito in pittura attraverso elementi naturalistici ma
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strutturati come un padiglione: nel soffitto alcune figure si affacciano verso il cielo, altre sono dipinte come
arazzi.
Raffaello e bottega, Concilio degli dei, 1517-18

Dipinti come arazzi riportati, ma dipinti come bassorilievi antichi.


Raffaello e la sua bottega concepiscono una serie di schemi decorativi che poi saranno molto importanti
anche nello sviluppo della decorazione di interni.
Raffaello e bottega, Loggetta per il cardinal Bibbiena, 1516

Raffaello e bottega, Logge Vaticane, 1516-19

Nelle volte della loggia iniziano a comparire i suoi allievi: Giulio Romano, Pellegrino da Udine e artisti più
giovane come Pollidoro da Caravaggio.
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Raffaello rievoca anche lo stucco antico, l’idea di prospettive architettoniche che servono a definire gli spazi
dei riquadri in Storie di David, 1516-19 (Loggia vaticana). Elementi a grottesca e a lacunari guardano invece
alle terme romani, come nella Villa Madama.

La sua attività progettuale architettonica per Villa Madama viene completata da Giulio Romano per il
cardinale Giuliano De’ Medici.

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