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Duccio di Buoninsegna

e scuola senese ​-artisti del


primo ‘300

INTRO:
L’ambiente della pittura nella regione Toscana e, in particolare quello di
Firenze, era un terreno fertilissimo per crescita e lo sviluppo della nuova pittura.
Infatti nei decenni a cavallo del Duecento-Trecento iniziò ad espandersi in tutto
il centro Italia.

In tale processo è doveroso ricordare anche l’importante apporto degli artisti


senesi, che vi operarono, tra i quali ricordiamo Duccio di Buoninsegna (o
Boninsegna), Simone Martini, Pietro e Ambrogio Lorenzetti.

Questi grandi esponenti della pittura, insieme a molti altri senesi, contribuirono
a definire in modo determinante il nuovo linguaggio pittorico italian​o.

A Siena​, diversamente da come avvenne a Firenze, si affermò uno stile un po’


meno distaccato da quello bizantino. Uno stile assai più vicino a quello francese
ma ancora ben legato al​ linguaggio gotico​. A tal proposito si veda il link
dell’articolo relativo alla “Nascita e sviluppo della pittura italiana” nelle pagine
correlate in alto
In parole brevi, negli ambienti senesi, si praticava una pittura – ​il gotico
senese​, per l’appunto – che dava molta importanza agli effetti di superficie.
Qui la ricerca del tratto e della coloristica predominava su quella delle masse
volumetriche e della dilatazione spaziale, ovvero sulla tridimensionalità.
La nascita della pittura italiana

La rappresentazione della realtà:


Già dalla seconda metà del Duecento incominciava a definirsi la pittura italiana.
Nasceva cioè una nuova concezione, che, come già riportato nelle pagine
precedenti (si veda “La nascita e lo sviluppo della pittura italiana”), si opponeva
soprattutto allo stile bizantino. Un processo, questo, che durò per circa un
secolo.
In contrapposizione ai dettami dell’arte di Bisanzio, quella praticata dai nostri
artisti era una ​rappresentazione più naturalistica e più razionale.​ Le forme e le
figure, infatti, dovevano ​rappresentare la realtà​. Dovevano, in parole povere,
osservandole in un riquadro dipinto, dare l’illusione di godere la realtà offerta
attraverso una finestra.

Per arrivare a ciò si doveva superare il problema della bidimensionalità di una


superficie pittorica piatta creando artificiosamente la terza dimensione, cioè
l’effetto di profondità. Come oggi ben conosciamo, le tecniche principali per
ottenere quest’ultima sono due: il chiaroscuro e la prospettiva. Con il primo si
ottengono tridimensionalità e volumetria, mentre con la seconda si crea spazio
in profondità.

Le ricerche sulla prospettiva:


In questa fase che, come sopra accennato, va dalla seconda metà del duecento
alla seconda metà del Trecento, il chiaroscuro in una qualsiasi immagine dipinta
divenne una realtà già conquistata. Per la prospettiva, invece, bisognava
attendere ancora per molto tempo. Ma le ricerche e gli esperimenti per arrivare
alla definizione di un metodo “scientifico” per la dilatazione spaziale erano state
ormai avviate. Infatti, pittori quali Giotto di Bondone, o Pietro e Ambrogio
Lorenzetti, avevano già aperto il varco, anche se in maniera empirica, a quella
strada che avrebbe portato alla nuova rappresentazione dello spazio.
Le due nuove pitture a confronto:
Mentre la pittura italiana era lanciata nel suo percorso innovativo, un’altra
visione artistica stava prendendo forza nell’intero continente europeo: la pittura
gotica. Anch’essa nacque come alternativa a quella bizantina ma con
fondamenti assai diversi dai nostri. I pittori gotici non erano alla ricerca di
naturalismo e razionalità ma di un cromatismo ricco e vivace, capace di
“decorare”, rendendo fiabesche e magiche le loro rappresentazioni. Potremmo
affermare che mentre il rinnovamento della pittura italiana era diretto ad una più
corretta rappresentazione della realtà. Lo sviluppo della pittura gotica, invece,
puntava ad una più efficace narrazione delle storie.

Le differenze stilistiche che risaltano nella pittura gotica quindi, possono essere
sintetizzate come segue:

Gli artisti gotici non erano alla ricerca di una reale rappresentazione volumetrica
e spaziale, e raffiguravano le immagini con una coloristica ricca e vivace,
indipendente dal chiaroscuro, su un unico piano rappresentativo, senza
preoccuparsi di creare profondità. L’obiettivo naturalistico, quindi, veniva
sacrificato a vantaggio di più efficaci effetti decorativi, soprattutto nei panneggi
dei personaggi raffigurati.
Gli artisti gotici davano molta importanza alla componente disegnativa. Le
immagini infatti venivano strutturate con raffinati pennelli, indipendentemente
da ciò che le circondava, e sempre realizzate curando al massimo il tratto con
curve, spirali, intrecci, avvitamenti. Conferivano in tal modo alle opere un
pregiatissimo valore decorativo.
Conclusioni
Dunque, facendo un’analisi storica sulla pittura del Trecento, si ricava che l’arte
bizantina in tale periodo ridusse drasticamente la propria egemonia su quella
europea (soprattutto sulla parte occidentale) fino a quasi scomparire del tutto. Il
rinnovamento proprio del linguaggio pittorico del nostro continente,
rinforzandosi, si diffuse su due grandi filoni artistici: pittura italiana e pittura
gotica. La prima, a carattere locale, nacque e si sviluppò quasi esclusivamente
nell’Italia centrale e – in solo in parte – nelle zone padane. La seconda ebbe
invece una diffusione assai più vasta, interessando l’intero continente europeo.
Tutto questo rafforzò il predominio dell’arte gotica su quella italiana, soprattutto
nel seconda metà del Trecento, quando quest’ultima venne quasi eclissata dal
gusto artistico gotico, ormai dilagante anche in Toscana.

Verso il Rinascimento
Fu solo per un breve periodo, perché la pittura italiana, già nella prima metà del
Quattrocento, incominciava ad entrare quella nuova e lunghissima stagione
artistica, che chiamiamo Rinascimento, frutto proprio di quell’arte italiana che
nacque e si sviluppò tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento.

Per tutta la durata del Rinascimento predominò in tutta Europa la visione


artistica italiana.
Duccio di Buoninsegna​ (Siena, 1255 circa – 1318 o 1319) è
stato un pittore italiano, tradizionalmente indicato come il primo maestro
della scuola senese.

Maestà del Duomo di Siena (particolare), Museo dell'Opera della Metropolitana,


Siena
L'arte di Duccio aveva in origine una solida componente bizantina, legata in
particolare alla cultura più recente del periodo paleologo, e una notevole
conoscenza di Cimabue (quasi sicuramente il suo maestro nei primi anni di
attività), alle quali aggiunse una rielaborazione personale in senso gotico, inteso
come linearismo ed eleganza transalpini, una linea morbida e una raffinata
gamma cromatica.

Col tempo lo stile di Duccio raggiunse esiti di sempre maggiore naturalezza e


morbidezza e seppe anche aggiornarsi alle innovazioni introdotte da Giotto,
quali la resa dei chiaroscuri secondo una o poche fonti di luce, la volumetria
delle figure e del panneggio, la resa prospettica. Il suo capolavoro, ovvero la
Maestà del Duomo di Siena, è un'opera emblematica dell'arte del Trecento
Italiano.

Il dipinto più certo a lui attribuito, nell’età giovanile, risulta essere quello della
“Madonna di Crevole” attualmente custodito a Siena nel Museo dell’Opera. A
questo seguono la “​Madonna Ruccellai​”, conservata alla ​Galleria degli Uffizi a
Firenze e per molto tempo attribuita a ​Cimabue​:

La tavola è la più grande che ci sia pervenuta riguardo al Duecento e venne


dipinta dal pittore senese, allora giovane e in patria straniera (​Firenze e ​Siena
erano due repubbliche diverse).
L'opera si ispira alla ​Maestà del Louvre di Cimabue, dipinta circa cinque anni
prima, con la stessa disposizione del trono in tralice, la stessa inclinazione dei
volti, i medesimi gesti della madre col figlio, la stessa impostazione della
cornice. Il tema però è qui rappresentato con una nuova sensibilità, più "gotica",
carico di ancora maggiore dolcezza nei volti e nella dolente umanità che supera
i rigidi schematismi bizantini, facendo eco all'importanza tributata nel Duecento
ai culti mariani.
La Madonna Rucellai di Duccio è più aristocratica e raffinata. I volti di tutti i
personaggi, sebbene ancora enigmatici, sono più dolci e gentili, secondo un
distacco dall'opera di Cimabue che non era ancora evidente nell'antica ​Madonna
Gualino di Duccio (1280-1283)​, divenendo percettibile nella ​Madonna di
Crevole (1283-1284) e che in questa opera del ​1285 diventa più evidente: la
Vergine sembra quasi abbozzare un sorriso​[2]​. Ciò dà all'immagine un senso di
maggiore aristocraticità, innestata sulla solida maestosità e l'umana
rappresentazione di Cimabue. ​La tavola raffigura la Madonna con la testa
reclinata a tre quarti e un Bambino che allunga il braccio destro per toccare
teneramente il velo della madre. Due piccoli angeli compaiono negli angoli
superiori della tavola. L'impostazione è quella della Madonna ​Odigitria della
tradizione bizantina, con la variante del tenero gesto del figlio che accarezza la
madre, la cui espressione triste è dovuta alla premonizione del destino di
sacrificio e morte di Gesù, simboleggiata dall'apparizione degli angeli. La tavola
è molto simile, nell'impostazione generale, ​alla ​Madonna esposta nel Museo di
Santa Verdiana a Castelfiorentino (Firenze) ed attribuita a Cimabue. Tale
somiglianza suffraga la teoria, formulata anche sulla base di altri indizi ben più
solidi, che il giovane Duccio di questi anni fosse un allievo del più anziano
Cimabue.

La ​sua opera più grande risulta essere la grande tavola con ​Maestà realizzata
nel 1311 per il Duomo di Siena. ​Intorno al Settecento questa grande tavola è
stata smembrata e le sue piccole parti si trovano nei musei di tutto il mondo,
mentre la struttura principale si trova nel Museo dell’Opera di Siena.

L’analisi pittorica di questo grande capolavoro porta alla luce un artista dotato
di grande capacità, profondo rinnovatore della pittura ​bizantina​, molto attento
alla natura ed al quotidiano, che riesce a rendere con successioni cromatiche di
grande effetto.
L'opera si trova oggi collocata nel ​Museo dell'Opera Metropolitana​, dopo essere
stata esposta nel Duomo, anche se fra vari spostamenti, fino al ​1878​.
L'opera andava a sostituire un'icona della Vergine particolarmente cara ai
senesi, perché era legata alla vittoria della ​Battaglia di Montaperti​ (​1260​): con
questa nuova grandiosa pala volevano omaggiare ancora maggiormente la loro
protettrice, alla quale era dedicata anche la Cattedrale.

Il lato della ​Maestà​ e delle ​Storie della vita della Vergine


Si tratta di una grande tavola (425x212 cm.) a due facce, anche se oggi si
presenta tagliata lungo lo spessore secondo il discutibile intervento del ​1711​ che
non mancò di creare alcuni danni. Il lato principale, quello originariamente
rivolto ai fedeli, era dipinto con una monumentale Vergine con Bambino in
trono, circondata da un'affollata teoria di santi e angeli su fondo oro. Tra questi
si riconoscono inginocchiati in primo piano i quattro santi protettori di Siena
(​Sant'Ansano​, ​San Savino​, ​San Crescenzio​ e San Vittore), mentre ai due lati
sono raffigurate le due sante protettrici in piedi (​Sant'Agnese​ e ​Santa Caterina
d'Alessandria​), avvolte da manti con un panneggio di linee nervosamente
spezzate, che ricordano i goticismi della ​Madonna Rucellai​.

Altri quattro santi stanno in secondo piano (​San Paolo​ e ​San Giovanni
evangelista​ a sinistra, ​San Giovanni Battista​ e ​San Pietro​ a destra), mentre tutto
intorno si dispone con rigida simmetria un appiattito coro di venti angeli alati.
Più in alto altre figure di santi più piccoli a mezzo busto (gli altri dieci apostoli)
sono opere di bottega.
La predella da questo lato presentava alcune storie dell'infanzia di Cristo, nelle
quali la protagonista è Maria, alternate a figure di ​Profeti​ (​Isaia,​ ​Ezechiele,​
Salomone​, ​Malachia,​ ​Geremia​, ​Osea​). Queste le sette tavolette conservate:
● Annunciazione​ (​Londra​, ​National Gallery​);
● Natività​ (​Washington​, ​National Gallery of Art​);
● Adorazione dei Magi​ ​(Siena, Museo dell'Opera del Duomo);
● Presentazione al tempio​ ​(Siena, Museo dell'Opera del Duomo);
● Strage degli innocenti​ (​Siena, Museo dell'Opera del Duomo);
● Fuga in Egitto​ (Siena, Museo dell'Opera del Duomo);
● Disputa con i dottori del tempio​ (Siena, Museo dell'Opera del
Duomo).
Nel coronamento trovavano posto invece alcune Storie della Vergine dopo la
morte di Cristo, quasi tutte conservate a Siena:
● Annuncio della morte alla Vergine​;
● Congedo di Maria da Giovanni;​
● Congedo dagli apostoli​;
● Dormitio Virginis​;
● Funerali di Maria;​
● Sepoltura di Maria;​
● Incoronazione della Vergine​ (​Budapest​, ​Szépműveszéti Múzeum​).

Il lato delle ​Storie di Cristo​[​modifica​ | ​modifica wikitesto​]

Sul retro della ​Maestà,​ destinato alla visione del clero, erano rappresentate 26
Storie della Passione e Resurrezione di Cristo,​ divise in formelle più piccole,
uno dei più ampi cicli dedicati a questo tema in Italia. Le ​Storie​ cominciavano
dalla predella, poi smembrata, nella quale erano rappresentati alcuni episodi
della vita pubblica di Cristo, dei quali si sono conservati:
● Tentazione sul tempio​ (Siena, Museo dell'Opera del Duomo);
● Tentazione sul monte​ ​(N
​ ew York​, ​Frick Collection​);
● Vocazione di Pietro e Andrea​ (​Washington D.C.​, ​National Gallery​);
● Nozze di Cana​ (Siena, Museo dell'Opera del Duomo);
● Incontro con la Samaritana​ (​Madrid​, ​Museo Thyssen-Bornemisza​);
● Guarigione del cieco nato​ (Londra, National Gallery);
● Trasfigurazione​ ​(Londra, National Gallery);
● Resurrezione di Lazzaro​ (​Fort Worth​, ​Texas​, ​Kimbell Art Museum​).
Si tratta di una grande tavola (425x212 cm) a due facce, anche se oggi si
presenta tagliata lungo lo spessore secondo un discutibile intervento
ottocentesco che non mancò di creare alcuni danni. Il lato principale, quello
originariamente rivolto ai fedeli, era dipinto con una monumentale Vergine con
Bambino in trono, circondata da un'affollata teoria di santi e angeli su fondo
oro. La Madonna è seduta su un ampio e sfarzoso trono, che accenna ad una
spazialità tridimensionale secondo le novità già praticate da Cimabue e Giotto,
ed è dipinta con una cromia morbida, che dà naturalezza al dolce incarnato.
Anche il bambino esprime una profonda tenerezza, ma il suo corpo non sembra
generare peso e le mani di Maria che lo reggono sono piuttosto innaturali. Alla
base del trono, sta la preghiera-firma in versi latini: "MATER S(AN)CTA
DEI/SIS CAUSA SENIS REQUIEI/SIS DUCIO VITA/TE QUIA PINXIT ITA"
(trad.:"Madre Santa di Dio, sii causa di pace per Siena, sii vita per Duccio,
poiché ti ha dipinta così").

Il retro era invece destinato alla visione del clero, e vi sono rappresentate 26
Storie della Passione di Cristo, divise in formelle più piccole, uno dei più ampi
cicli dedicati a questo tema in Italia. Il posto d'onore, al centro è dato dalla
Crocifissione, di larghezza maggiore e altezza doppia, come anche la formella
doppia nell'angolo in basso a sinistra con l'Entrata a Gerusalemme. In varie
scene Duccio diede prova di essere aggiornato rispetto alle "prospettive" dei
fondali architettonici di Giotto, ma in altre deroga volontariamente alla
raffigurazione spaziale per mettere in risalto particolari che gli premono, come
la tavola apparecchiata nella scena dell'Ultima cena (troppo inclinata rispetto al
soffitto) o come il gesto di Ponzio Pilato nella Flagellazione, che è in primo
piano rispetto a una colonna nonostante i suoi piedi poggino su un piedistallo
che è collocato dietro. Duccio non sembra quindi interessato a complicare
eccessivamente le scene con regole spaziali assolute, anzi talvolta la narrazione
è più efficace proprio in quelle scene dove un generico paesaggio roccioso
tradizionale lo libera dalla costrizione della rappresentazione tridimensionale.

La pala aveva anche una predella dipinta su tutti i lati (la prima conosciuta
nell'arte italiana) e a coronamento dei pannelli cuspidati con Scene della vita di
Maria (fronte) e Episodi post-mortem di Cristo (retro): queste parti non sono più
a Siena ed alcune di esse si trovano in collezioni e musei esteri.

Nella Maestà si ravvisa tutto il realismo dei volti dei personaggi di cui era
capace Duccio, nonché l'ormai acquisita capacità di disegnare cose e personaggi
secondo i canoni giotteschi della prospettiva diretta (non più l'antiquata
prospettiva inversa di Cimabue ripresa da Duccio fino a fine Duecento). Le vesti
hanno un panneggio voluminoso, i chiaroscuri sono resi con un'attenzione per la
provenienza delle fonti di luce, tendenze anch'esse ereditate da Giotto. L'opera
spicca anche per la profusione di dettagli e decorazioni: dagli intarsi marmorei
del trono alla fantasia fine del drappo sullo schienale dello stesso trono, dalla
capigliatura degli angeli agli ornamenti delle sante. La coesione di elementi di
matrice fiorentina con il realismo figurativo propri di Duccio, il tutto
impreziosito da una cura estrema per il particolare, fanno di quest'opera uno dei
capolavori del Trecento italiano.
Simone Martini
indicato talvolta anche come Simone Senese (Siena, 1284 circa – Avignone,
1344), è stato un pittore e miniatore italiano, considerato indiscutibilmente uno
dei maestri della scuola senese e sicuramente uno dei maggiori e più influenti
artisti del Trecento italiano, l'unico in grado di contendere lo scettro a Giotto. La
sua formazione avvenne, probabilmente, nella bottega di Duccio di
Buoninsegna.

Simone Martini nacque a Siena nel 1284 circa. Nessuna fonte certa esiste sulla
sua formazione, ma è consolidata l'ipotesi che essa si sia svolta nella bottega di
Duccio di Buoninsegna. Tuttavia, la presenza nella pittura di Simone, già nelle
sue opere più precoci giunte sino a noi, anche di elementi non ducceschi lascia
presumere che il tirocinio del pittore sia stato arricchito anche da esperienze
diverse. Innanzitutto, in Simone si coglie una particolare sensibilità per la resa
plastica delle figure umane, sicuramente maggiore di quanto non fosse nella
coeva pittura senese e in quella di Duccio in particolare, il che rende ipotizzabile
un contatto, già in età giovanile, con le novità giottesche.

Altro elemento caratterizzante l'opera di Simone, sin dagli esordi noti, è la sua
attenzione per le arti suntuarie, fiorenti nella Siena del tempo. Ne è
testimonianza il diffuso utilizzo di raffinati stampini e punzoni, mediante i quali
Simone arricchisce di eccezionali elementi decorativi i suoi dipinti (si pensi ai
nimbi della Vergine e del Bambino della Maestà del Palazzo Pubblico). Del pari
gli oggetti in oro illusionisticamente raffigurati nelle sue opere sono riprodotti
con ineguagliabile maestria (si veda in questo senso il trono della Vergine della
stessa Maestà, quasi un ingrandimento di alcuni bellissimi reliquiari senesi
dell'epoca). Sulla base di questi elementi si è ipotizzato che il giovane Simone
abbia avuto familiarità con l'arte orafa. Ipotesi che peraltro potrebbe spiegare
anche un ulteriore elemento distintivo dell'opera del Martini, cioè la sua
conoscenza del gusto gotico oltremontano, diffuso a Siena soprattutto nel campo
dell'oreficeria.
I primi segni documentati dell'attività artistica di Simone Martini risalgono al
1305-1310 circa, quando il giovane Simone aveva circa 20-25 anni. A questa
prima fase di attività sono attribuite una ​Madonna col bambino​, di cui si ignora
la collocazione di origine e che è oggi esposta nella Pinacoteca Nazionale di
Siena (catalogata come opera n. 583),L’opera in esame venne indicata da E.
Carli nel 1957, intuendo che sotto un dipinto del XVI sec.di scarso valore,
raffigurante una Madonna con il Bambino ed angeli, custodito nella pieve
(chiesa matrice, dove si svolgono varie funzioni liturgiche) di San Giovanni
Battista a Lucignano d’Arbia (nei pressi di Siena), potesse trovarsi una pittura
assai più antica.
L’opera venne accuratamente esaminata e le ipotesi del Carli furono pienamente
confermate.
Ci vollero alcuni mesi di delicato lavoro da parte dei restauratori per portare alla
luce la stupenda Madonna di Simone Martini. L’opera di restauro fu eseguita
nella Pinacoteca di Siena dove è attualmente esposta al pubblico.Purtroppo parte
del fondo d’oro venne asportato in precedenza per meglio favorire l’adesione
dell’intrusa pittura cinquecentesca. Anche il manto della Vergine subì dei grossi
traumi, tuttavia se ne intravede ancora la traccia, avendo la pittura reagito in
modo migliore rispetto all’oro. Ancora integri sono il volto e le mani della
Vergine e, pressoché, la totale figura del Bambino.
La delicata fase finale relativa alla rimozione della stesura sovrapposta ed al
trattamento di quella originale venne affidata a laura Mora.
Da un confronto, anche abbastanza sommario, si rileva che questa “Madonna
col Bambino” presenta moltissime similitudini con quella del polittico di
Orvieto, tanto da far accettare l’autografia e la cronologia, salvo rare eccezioni,
all’unanimità.

e una ​Madonna della Misericordia, proveniente dalla chiesa di San Bartolomeo


a Vertine​, nel Chianti, e anch'essa esposta nella Pinacoteca Nazionale di Siena.
Quest'ultima si ritiene prodotta in collaborazione con Memmo di Filippuccio,
soprattutto nei "raccomandati" raccolti sotto il manto di Maria. A questa fase
alcuni ritengono debba appartenere anche la Croce dipinta proveniente dal
Convento delle Cappuccine a Siena e anch'esso conservato alla Pinacoteca
Nazionale di Siena. Questo primo Simone Martini è molto vicino a Duccio di
Buoninsegna, come è evidente dal volto, manto e postura di Maria nella
Madonna col Bambino n. 583. Tuttavia la ricchezza di dettagli decorativi e la
resa scrupolosa di dettagli anatomici denotano il talento di Simone Martini, già
in questi primi anni.

Successivamente a queste prime opere, ma in un periodo ancora precedente la


realizzazione della grandiosa Maestà del Palazzo Pubblico di Siena, si ritiene
che Simone Martini abbia dipinto un affresco di cui rimane ​solo la testa della
Madonna, ed ospitata oggi dalla Chiesa di San Lorenzo al Ponte a San
Gimignano​ (1310 ca.).

La Maestà di Simone Martini


La prima opera datata di Simone Martini è la Maestà del Palazzo Pubblico di
Siena, affresco dipinto nel 1312-1315 (ritoccato nel 1321) nella sala del
Consiglio del Palazzo Pubblico di Siena, dove si trova tutt'oggi. Si tratta di
un'opera di un pittore sicuramente già maturo e affermato, fosse solo per il
prestigio di una commissione pubblica così importante.

Il grande affresco (970x763 cm) è una sorta di omaggio alla Maestà del Duomo
di Siena di Duccio di Buoninsegna, dalla quale riprende l'impostazione (Maria e
il Bambino al centro seduti su un trono, teoria simmetrica di santi ai due lati con
in primo piano i protettori della città), l'uso di una fonte di luce unica per la resa
dei chiaroscuri, l'uso di una prospettiva diretta piuttosto che inversa, e
l'angolazione variabile con cui sono rappresentati i personaggi (da frontali ad
altamente profilati), caratteristiche queste ultime che Duccio stesso aveva
ripreso da Giotto. Anche il realismo figurativo e persino le fisionomie di molti
santi rimandano all'opera di Duccio.

Tuttavia in quest'opera Simone mostra di differenziarsi in maniera decisa dalla


pittura a lui precedente. ​La Madonna è più austera​, aristocraticamente distaccata
e non guarda lo spettatore. Tutti i volti hanno un realismo mai visto prima, da
quello di Maria a quello dei santi anziani. Le dita delle mani sono differenziate
ingentilendone il tocco. ​Le aureole ​sono rese in rilievo con la novità della
punzonatura ​(stampigliatura di motivi a rilievo tramite la pressione di
"punzoni"), che rimandano all'oreficeria senese del XIV secolo, uno dei campi
artistici più vicini alla cultura gotica francese dell'epoca. Il trono è reso con le
caratteristiche del gotico raggiante e anche il baldacchino da cerimonia rimanda
a un gusto cortese di sapore transalpino. La gamma cromatica di Simone,
affascinato dagli smalti e dalle oreficerie d'oltralpe, è più ampia e dotata di
velature e passaggi più morbidi. Anche la disposizione dei santi non segue una
successione paratattica come in Duccio, ma corre invece lungo delle linee
diagonali parallele che convergono in profondità dando un'illusione spaziale in
prospettiva di sapore giottesco. Del tutto assente è in Simone quell'horror vacui
che sembra caratterizzare la Madonna duccesca: nella Maestà di palazzo
pubblico ritroviamo altresì ampie porzioni di cielo azzurro. Diverso è anche il
carattere delle due Maestà: eminentemente religiosa quella di Duccio, carica di
significati morali e civici quella di Simone, commissionata dal governo dei
Signori Nove in Siena.
Il grande affresco viene considerato come un omaggio alla Maestà di Duccio nel
Duomo di Siena, dalla quale Simone riprende lo stesso impianto compositivo
con la “Madonna col Bambino” al centro, i santi ai due lati e, in primo piano, i
santi patroni di Siena.

In questo dipinto si evidenzia però anche il distacco di Simone dalla precedente


pittura di cui sopra considerata, soprattutto per lo squisito e delicato gusto
gotico nella raffigurazione di una Vergine più austera e distaccata, assise in un
trono cuspidato entro un baldacchino da cerimonia: un gusto che possiamo
definire di sapore transalpino. Inoltre nella Madonna di Simone è
completamente assente l’horror vacui che pare caratterizzare quella di Duccio.

“Storie di San Martino”​ ​La cappella di San Martino​ nella basilica


inferiore di San Francesco d'Assisi:

In queste opere Simone narra le storie di San Martino: nato in Pannonia nel IV
secolo d.C. e figlio di un tribuno romano, Martino iniziò la sua carriera militare
a soli quindici anni, interrompendola circa nel 334, attratto dalla vita religiosa.

Dieci sono le scene narrate nei dipinti dell’artista, che, oltre a quelle della
“​morte​” e delle “​esequie​”, ne raffigurò altre otto: quattro riguardanti la​ vita ​di
Martino prima della conversione, avvenuta nel 344, e quattro relative al periodo
posteriore al 371, lasciando un vuoto sulla vita del periodo medio del santo.
Durante i lavori Simone Martini si poté confrontare con altri maestri fiorentini
di scuola giottesca, Giotto compreso, allora attivi nel cantiere assisiate. Simone
si aggiornò in alcuni elementi, quali la solida intelaiatura architettonica
realistica e il gioco illusionistico di luci ed ombre con attenzione alle vere fonti
di luce. Negli 8 santi a figura intera del 1318, gli ultimi dell'intero ciclo, è
evidente anche l'acquisizione delle ricche volumetrie giottesche. Tuttavia
Simone non si adeguò passivamente alla scuola fiorentina, anzi è chiara una
divaricazione tra il suo modo di dipingere e quello giottesco a partire dallo
stesso tema dei dipinti: non le storie di un santo popolare come san Francesco,
ma un raffinato santo cavaliere, del quale Simone sottolineò alcuni aspetti
cortesi della leggenda.

Per esempio nella famosa ​scena dell'Investitura di san Martino​, l'azione è


ambientata in un palazzo, con i musici di corte magnificamente abbigliati e con
un servitore con tanto di falcone da caccia in mano. Il contesto di Simone è più
fiabesco e assolutamente notevole è lo studio realistico dei costumi e delle pose;
l'individuazione fisionomica nei volti (soprattutto in quelli naturalistici dei
musici) non ha pari in tutta la pittura dell'epoca, Giotto compreso. Dopo la
Maestà del Palazzo Pubblico di Siena, Simone si confermò come pittore laico,
cortese, raffinato. Fu in questi anni che si concretizzò la sua capacità di ritrarre
fisionomie naturali, gettando le basi per la nascita della ritrattistica. Simone
Martini è uno dei maggiori rappresentanti del gotico cortese e la sua pittura
aulica si richiama al mondo aristocratico-cavalleresco, mentre il realismo di
Giotto si rifà alla cultura del mondo borghese-mercantile.

Nel luglio 1317 Simone venne chiamato ​a Napoli da Roberto d'Angiò​, che lo
nominò cavaliere (assegnandogli una pensione annua) e gli commissionò una
tavola celebrativa, ​San Ludovico di Tolosa​ ​che incorona il fratello Roberto
d'Angiò, oggi conservato al Museo di Capodimonte a Napoli.

Questa opera è un'icona profana, la prima del genere in Italia, che segna un
preciso tema politico del momento: proprio quell'anno Ludovico di Tolosa
venne canonizzato; essendo egli stato fratello maggiore di Roberto, quindi
destinato al trono di Napoli, Ludovico aveva abdicato in favore del fratello per
dedicarsi a vita religiosa; ecco dunque che Roberto voleva con questo dipinto
creare un manifesto politico che legittimasse il suo potere.

La pala ha anche un primato, cioè quello di essere il primo sicuro ritratto nella
pittura italiana di un personaggio vivente (Roberto d'Angiò), mentre il primato
assoluto spetta a una scultura, il Ritratto di Carlo I d'Angiò di Arnolfo di
Cambio (1277).
L’opera è costituita da tavola grande (200 x 138 cm.), dove è raffigurato il
santo, e una predella (56 x 205 cm.) in cui sono narrate le sue storie.

L’episodio principale è descritto nella sua quasi totalità dalla maestosa


immagine di San Ludovico da Tolosa, assise in trono e vistosamente adornato
con vesti episcopali la cui apertura scopre il saio francescano.

Il Santo viene incoronato da due angeli nel momento in cui sta porgendo una
corona sul capo di Roberto d’Angiò, suo fratello minore.

Il dipinto è dunque una celebrazione del grande Santo, realizzato in occasione


della sua santificazione, ma anche quella della dinastia della famiglia angioina.

Nella composizione tutto diventa aulico, regale e pregiato: la sontuosità del


mantello in broccato rifinito con elegantissime bordure dorate, il prezioso
casellamento di gemme sul pastorale e sulla mitra, la raffinatezza delle due
corone che sembrano fondersi con lo stesso cromatismo dorato dello sfondo.

Simone Martini dimostra in questo dipinto di avere una grande sensibilità e


capacità di raffigurare le varie materie, come le stoffe con i relativi ricami, i
gigli della famiglia Angiò, il tappeto di motivo orientale disteso sul pavimento, i
pregiati metalli delle oreficerie, gli intarsi della pedana in legno sotto il trono.

L'affresco di Guidoriccio da Fogliano


Nel 1330 Simone tornò a lavorare al Palazzo Pubblico di Siena, affrescando
nella sala del Mappamondo, sul lato opposto della Maestà di circa quindici anni
prima, lo straordinario Guidoriccio da Fogliano all'assedio di Montemassi, per
celebrare la presa dei castelli Sassoforte e Montemassi da parte del condottiero
assoldato dai senesi. In questa famosa opera in cui si mescolano
un'ambientazione fiabesca con un acuto senso della realtà, il condottiero è una
metafora della potenza senese, non un ritratto realistico, e il paesaggio
circostante ha un valore simbolico, con elementi tipici della guerra (steccati,
accampamenti militari, castelli), senza alcuna figura umana. La doppia valenza
simbolica e di celebrazione individuale richiama alla pala di San Ludovico ed è
un elemento che sembrerebbe suffragare l'autografia dell'opera a Simone
Martini.
L’intero ciclo fu iniziato nel 1314 con la rappresentazione del Castello di
Giuncarico, quindi continuato con la presente opera e portato a termine dallo
stesso artista nel 1331 con la raffigurazione dei Castelli di Arcidosso e di
Casteldelpiano (ormai andati perduti).

In questa composizione rimane intatto anche il suo idealizzato modulo formale,


dove la favola persevera incontrastata in un elegante ed aristocratico tono che
intende celebrare, con un’astrazione umanistica, non più l’essere divino ma
l’uomo, nella figura di Guidoriccio da Fogliano, il grande condottiero vincente
su Castruccio Castracani e conquistatore di Montemassi.

In un paesaggio bigio, spoglio delle cose più naturali, irto di castelli e torri con
bandiere sventolanti, con lunghi steccati, sguarnite montagne e con un tetro
accampamento nella vallata, il protagonista, più che essere celebrato, è
semplicemente raffigurato.

Ma questa figura solitaria viene rappresentata dall’artista come una apparizione


di un personaggio nel suo superbo e rigido profilo, inserito in un ampio
ambiente irreale dove incombe la sua supremazia.
Polittico di Pisa
Tornato in Toscana intorno al 1318, Simone Martini iniziò una lunga stagione in
cui la sua principale produzione fu quella dei polittici. Ne dipinse almeno sei
prima di tornare in pianta stabile a Siena nel 1325. Il primo ​polittico fu quello
per la chiesa di Sant'Agostino a San Gimignano (Siena)​. Oggi il polittico è
disperso in tre diversi musei, essendo lo scomparto centrale con la Madonna e il
bambino conservato presso il Wallraf-Richartz Museum di Colonia in
Germania, tre pannelli con Santi al Fitzwilliam Museum di Cambridge (UK) e il
quinto con Santa Caterina in una collezione privata fiorentina. Il polittico fu
eseguito intorno al 1318-1319 anche se per molti la data corretta è antecedente,
prima del ritorno definitivo in Toscana (1316 ca.).

Simone Martini si recò quindi a Pisa dove dipinse un bellissimo polittico a sette
scomparti, predella, fascia superiore e cuspidi per il convento domenicano di
Santa Caterina d'Alessandria a Pisa. Il polittico fu terminato nel 1320 ed è oggi
conservato nel Museo nazionale di San Matteo, sempre a Pisa.
Il polittico di Pisa, che costituisce la più grande pala di Simone Martini, fu
commissionata nel 1319 da fra’ Pietro per la decorazione dell’altar maggiore
della chiesa del convento di Santa Caterina da Pisa.

L’opera è costituita da sette tavole grandi, e sette tavole piccole formanti la


predella. Ogni elemento costitutivo è a sua volta composto da tre tavole: una
maggiore, una minore – sovrapposta ad essa – divisa in due zone, una cuspide.

La tavola posta al centro è più larga delle altre (esattamente di un terzo), cosi
come la tavoletta centrale (con le tre figure) appartenente alla predella. Le
raffigurazioni totali (mezze figure) sono sono quarantatré, il cui campo viene
definito da un arco trilobo che poggia su colonnine tortili (purtroppo oggi non
più originali, o mancanti, per la quasi totalità).
L'Annunciazione tra i santi Ansano e Margherita

È questa una delle opere più vicine al gotico transalpino e alle sue raffinatezze
che l'Italia abbia conosciuto. L'immagine si svolge tutta in un raffinato gioco di
linee sinuose in superficie (nonostante il suggerimento spaziale affidato al trono
disposto obliquamente). La Vergine si ritrae chiudendosi il manto, in una posa
che è in bilico tra paurosa castità e altera ritrosia. L'angelo ha un movimento
slanciato, concentrato sul messaggio che sta consegnando alla Vergine. Al di là
della bellezza dell'introspezione psicologica dei due personaggi, la tavola è
impreziosita da particolari di rara bellezza, come il vaso dorato e i gigli che
invadono il centro della scena, i ramoscelli di olivo tenuti in mano dall'angelo e
sulla sua testa, la fantasia a quadri scozzesi del manto svolazzante dell'angelo, le
penne di pavone sulle sue ali, il rovello gotico del manto dell'angelo e del bordo
dorato di quello della Vergine. Lo spazio non è sviluppato in profondità come
nel precedente tavola raffigurante i miracoli del Beato Agostino Novello, ma è
come compresso nella terza dimensione, uno spazio alluso che è un nuovo
elemento del linguaggio di quest'artista che svilupperà in maniera ancora più
marcata nelle opere successive.

Un'opera del genere non ha modelli coevi in Italia, ma va semmai confrontata


con i manoscritti miniati per la corte francese o con le pitture più fantasiose
prodotte in Germania o in Inghilterra. Questa "maniera" nordeuropea spianò la
strada per l'arruolamento di Simone nell'entourage dei pittori italiani alla corte
papale di Avignone, dove erano presenti altri italiani, ma nessun fiorentino, in
quanto la classica monumentalità di scuola giottesca non trovava consensi nella
gotica società francese. E infatti pochi anni dopo, tra il 1335 e il 1336, Simone
lasciò la natia Siena alla volta della corte papale di Avignone.
In questo inizio di secolo ‘300​, oltre alla pregiatissima scuola di ​Giotto ce ne
sono altre, altrettanto piene di vitalità. Tutte vengono influenzate dal suo
nuovo realismo pittorico che abbandona gli schemi classici greci
rivoluzionando il mondo della Pittura.

Nasce il Trecento Bolognese caratterizzato da una dura accentuazione


drammatica e quello Riminese più aulico ed emotivo.

Anche ​Padova e Verona sono influenzate dal nuovo linguaggio di Giotto.


Meno influenzata è ​Venezia​, più incline al linearismo gotico che alla
plasticità toscana.

Nomi di grandi esponenti che caratterizzano il periodo: Giovanni da Milano,


Pietro Cavallini​, ​Simone Martini​, Vitale da Bologna, Tommaso da Modena,
Duccio di Buoninsegna. Opere di rilievo del periodo: le “Maestà” di Giotto,
di Duccio Buoninsegna e di Simone Martini, “La Pietà” di Giovanni da
Milano, “San Silvestro resuscita i maghi” di Maso di Banco, “Effetti del
buon governo in campagna” di ​Ambrogio Lorenzetti​, “Madonna di Santa
Trinità” di ​Cimabue​, “Madonna in trono” di Giotto, “la morte di san
Martino” di Simone Martini, “Compianto sul Cristo morto” di Giotto,
“Crocifissione” di Altichiero, “S. Alberto Magno” di Tommaso da Modena.

La plasticità e la spazialità della produzione giottesca, acquistano un’elevata


qualità nell’intera composizione, nelle figure umane e nel linguaggio
espressivo, dove prevalgono elementi drammatici e storici. Si intravede la
funzione di una ragione aperta agli elementi del reale ed alla ricerca analitica
di un significato universale.

Il realismo del primo Trecento e il suo crescente senso di affettività, sono


debitori della cultura francescana e domenicana, il cui rispetto della
quotidianità cittadina chiarisce il successo della Scuola di Giotto, capace di
generare grandi personalità come Maso di Banco, Stefano e Taddeo Gaddi.
Siena ed i suoi dintorni sono influenzate in pieno dai condizionamenti gotici
di Giotto, partendo dall’elegante raffinatezza cromatica e dalle forme di
Duccio di Buoninsegna, e dagli stimoli ormai diventati suggestivi in ogni
parte d’Europa. L’altrettanto raffinata pittura di Simone Martini, la forte
espressività di Pietro Lorenzetti e la brillante curiosità del fratello Ambrogio,
avvicinano l’arte di Siena al gotico francese, soprattutto alla corte del papa ad
Avignone. La lunga vita della Scuola giottesca sarà interpretata come un
segno di affaticamento ed indecisione nell’ambiente toscano, soprattutto a
Firenze. Avrà gli ultimi sussulti in coincidenza della peste nera del 1348.
Pietro e Ambrogio Lorenzetti

Nell’ambiente senese, nei decenni che seguirono (soprattutto quelli intorno al


quarto decennio del XIV secolo), due artisti di grande rilievo, Pietro e
Ambrogio Lorenzetti, iniziarono ad imporre le loro visioni artistiche. I due
fratelli son considerati dagli studiosi di Storia dell’arte come i veri eredi del
rinnovamento giottesco.
Il loro linguaggio pittorico riusciva a integrare la tipica eleganza gotica senese
con una nuova strutturazione volumetrica e spaziale, che ormai era
all’avanguardia nel nuovo panorama artistico italiano.

Pietro Lorenzetti​: breve biografia


L’artista nasce a Siena intorno al 1280 e muore in questa città nel 1348.

La sua formazione artistica si compie a Siena e i suoi primi dipinti subiscono gli
influssi di Duccio di Buoninsegna (il polittico per la chiesa aretina di Santa
Maria della Pieve commissionato dal vescovo Tarlati), mentre le opere
successive provengono tutte dal suo genio creativo ispirato all’arte gotica, che
sta ormai terminando il suo proficuo ciclo trecentesco.
Pietro, nei suoi primi anni di attività artistica opera prevalentemente nel Senese,
più tardi, si sposta tra Assisi e Firenze, dove rimangono alcune sue opere di
notevole importanza.

In queste si rivelano, soprattutto nei valori volumetrico-spaziali, gli influssi


della scuola giottesca (compresi quelli di Martini che pur si scostava dalla
pittura di Giotto), come si evidenzia nel polittico della Beata Umiltà realizzato a
Firenze.

La sua pittura sembra volgere verso un punto di incontro tra la l’arte fiorentina e
quella senese ma, nonostante questa ricerca di conciliazione, rifiuta in modo
assai evidente gli stilemi di entrambe, ormai stereotipati.
La sua opera più significativa è certamente “La Passione di Cristo”,
realizzata nella Basilica Inferiore di Assisi, che comprende la “Deposizione
dalla croce”, un’opera considerata dalla critica come la sua massima
espressione. L’immagine stessa del Cristo richiama la cultura senese, che ha
nelle sue fondamenta il germe ​bizantino​.

Nonostante che in Pietro Lorenzetti confluiscano motivi con espressività


mutata rispetto a quelli della compagine artistica del suo periodo, non si può
fare altro che confermare la grande capacità espressiva della sua pittura.

Gli affreschi di Assisi​:

Dal 1310 al 1320 partecipò al grande cantiere decorativo della Basilica


inferiore d'Assisi, con il Martini e altri pittori fiorentini della scuola di Giotto;
in particolare lavorò nel transetto sud al servizio del cardinale Napoleone
Orsini, affrescando scene della Passione di Cristo, nelle quali dimostrò di
aver sviluppato un linguaggio figurativo autonomo che sintetizzava arte
senese e linguaggio giottesco.

Emblematica è per esempio la ​scena dell'Ultima Cena​, costruita attorno ad un


tavolo, all'interno di una magnifica loggia esagonale (che ricorda molto la
struttura del pulpito del Duomo di Siena di Nicola Pisano​), dove viene
dimostrata l'assimilazione delle tecniche prospettiche per le virtuose
ambientazioni architettoniche derivate da Giotto; ma ancora più sorprendente
è la visione della stretta stanzetta dei servitori a sinistra: un quarto della
superficie dell'affresco è infatti occupato dalla cucina adiacente, dove il cibo
sta bollendo sopra un focolare e due servitori puliscono le stoviglie e gettano
gli avanzi di cibo; sullo sfondo si riconoscono particolari dell'arredo (una
pala da carbone e ripiani con stoviglie) e in primo piano troviamo un gatto
che si riscalda al fuoco e un cane che lecca gli avanzi di cibo dai piatti.
Nessun giottesco avrebbe probabilmente considerato degno un dettaglio che
per quanto quotidiano appare piuttosto "basso", mentre la curiosità del
Lorenzetti appare accesa da questo minuzioso dettaglio, dalla precisa
descrizione della realtà.

Pietro Lorenzetti: Crocifissione (Assisi)

Sull’opera: “​Crocifissione​” è un dipinto autografo di Pietro Lorenzetti,


realizzato con tecnica ad affresco intorno al 1320-22 ed è custodito nella
Basilica Inferiore di San Francesco di Assisi. Si tratta quasi certamente di
uno degli affreschi più tarde, appartenenti al secondo ciclo assisiati da come
si rilevano i delicati trapassi cromatici e chiaroscurali nei corpi del Cristo e
dei due ladroni.Particolarmente belli sono i moltissimi dettagli che, a zone, si
presentano anche più interessanti dell’intero assieme compositivo.

Deposizione dalla croce Basilica di Assisi:

​“​Deposizione dalla croce​” è un dipinto autografo di Pietro Lorenzetti, realizzato


con tecnica ad affresco nel 1329, misura 446 x 652 cm. ed è custodito nella
Basilica Inferiore di San Francesco, Assisi. Nel presente affresco è il corpo di
Cristo a dominare su tutto, essendo l’unico corpo nudo, in contrapposizione alle
ampie e vistose vesti, dai colori sgargianti, delle altre sette figure. È il corpo di
Cristo che, insieme alle due figure curve ai lati, forma un arco, a cui tutti i
personaggi tendono.

Il dipinto è abbastanza scarno e senza inutili particolari, proprio come le umili e


severe prediche di San Francesco. Manca la paesaggistica dello sfondo, il suolo
è arido e la croce, che impera su ogni cosa, è essenziale.
I primi dipinti in Toscana

Il ​Polittico della pieve di Arezzo​ del 1320 è la prima opera pervenutaci datata.

Lorenzetti si recò successivamente a Siena, dove nel 1329 dipinse la grande


Pala del Carmine, già nella chiesa del Carmine​. La​ Madonna​ è assisa in trono,
in una solenne plasticità che ricorda la Madonna di Ognissanti di Giotto,
soprattutto nelle corpose sfumature del volto.
Di quest'opera è interessante anche la tavoletta con la Fontana del profeta Elia,
facente parte della predella, nella quale è un carmelitano che attinge acqua con
una brocca. La sensibilità del pittore per la qualità materica degli elementi
naturali e per i relativi effetti ottici è resa evidente dall'incresparsi della
superficie dell'acqua della vasca per effetto degli spruzzi e dai riflessi sulle
coppe di vetro appoggiate sul bordo della fontana.

Polittico della Beata Umiltà e tredici storie della sua vita

Sull’opera: “​Polittico della Beata Umiltà e tredici storie della sua vita​” è un
dipinto autografo di Pietro Lorenzetti, realizzato con tecnica a tempera su
tavola nel 1316, misura 172 x 192 cm. ed è custodito nella Galleria degli
Uffizi a Firenze.Nella pala qui raffigurata, mancante di due piccoli dipinti su
tavola (attualmente al Museo Statale di Berlino), è riportata la datazione con
l’anno 1316.

Nonostante l’inconfondibile stile di Pietro, nell’ariosità delle scene e,


soprattutto, negli atteggiamenti delle figure, si rilevano nella presente
composizione forti influssi giotteschi del periodo fiorentino

.Lo ​stile di Pietro in quest'opera appare influenzato da quello del fratello


Ambrogio per quanto riguarda la riduzione del fondo oro in favore di una
maggiore importanza data agli sfondi architettonici, che spesso si adattano
gradevolmente alla forma delle tavole. Alcune scene mostrano un tentativo di
superare il tradizionale sfondamento delle pareti degli edifici per mostrare
scene ambientate all'interno con la presenza di archi e loggiati, mentre altre
devono ricorrere a tale espediente. In generale è evidente anche l'influsso
della scuola giottesca, con personaggi solidi e ben collocati nello spazio, che
poco hanno a che fare con le esili figure allungate della scuola più
marcatamente gotico-senese. Importante documento sono le numerosissime
notazioni di costume e di vita quotidiana.

Natività della Vergine​ (Siena)

Sull’opera: “​Natività della Vergine​” è un dipinto (trittico) autografo di Pietro


Lorenzetti, realizzato con tecnica a tempera su tavola nel 1342, misura 187 x
182 cm. ed è custodito nel Museo dell’Opera del Duomo di Siena.

Quella in esame è l’ultima opera – documentata – realizzata da Pietro


Lorenzetti. Il trittico, eseguito nella fase più tarda dell’artista, faceva parte
della serie di dipinti che narravano le storie di Maria per le decorazioni degli
altari del Duomo di Siena. L’opera fu commissionata intorno al quarto
decennio del XIV secolo per l’altare di San Savino.

L’opera è un trittico, ma la superficie pittorica è trattata in modo


straordinariamente originale per quell'epoca, come se si trattasse di un'unica
scena senza soluzione di continuità, ambientata in una stanza coperta da volte
che ricalcano la forma della pala, con due pilastri che altro non sono che i
bordi di separazione dei tre pannelli. La scena è così divisa in tre ambienti
illusionisticamente contigui, due dei quali appartenenti alla stanza principale
e uno, a sinistra, dove aspetta trepidante Gioacchino, il padre di Maria, con
un anziano ed un bambino. Qui inoltre la presenza di un arco e di una lunetta
aperti permettono di vedere oltre, dove si trova un cortile porticato di uno
stupendo palazzo gotico.
Lo spazio è composto in maniera prospettica, con un preciso sistema di piani
ortogonali, anche profondi, che sfruttano più punti di vista, raccordandosi in
maniera ardita. La parte destra soprattutto tende ad aprirsi in profondità,
invece di ridursi, secondo un effetto "a ventaglio", che assicura maggiore
spazio alle figure laterali. Lo scomparto sinistro invece spicca per la
profondità maggiore rispetto alla stanza al centro, con un arco sulla parete di
fondo oltre il quale si intravedono, in un vero sfoggio di virtuosismo, gli
archi e le bifore di un cortile intonacato di un rosa delicato.

L'interno domestico però non si riduce ad una fredda struttura architettonica,


anzi le figure vi si muovono a proprio agio ed i dettagli di mobilio e
suppellettili sono curatissimi, dalle mattonelle del pavimento alle stelline
dipinte sulle volte a crociera, dagli asciugamani ricamati, alle decorazioni
dipinte sugli oggetti. Sant'Anna è sdraiata sul letto, un tipico letto a cassone
medievale con lenzuola bianche e una coperta a scacchi, davanti ad una tenda
bianca, mentre due donne l'assistono e altre due stanno lavando la bambina,
in primo piano. Una dama vestita di rosso, tagliata in due dal finto pilastro,
parla con la donna distesa e tiene in mano un ventaglio di paglia bianca e
nera, finemente intrecciato.

Le figure, isolate e ben definite nel volume grazie alle sfumature delle luci
sui panni colorati che le avvolgono, hanno la solennità delle opere di Giotto,
ma la minuta attenzione al dettaglio e l'atmosfera quotidiana richiamano più
le miniature transalpine. Secondo Enzo Carli, la sant'Anna ricorderebbe la
Madonna della Natività di Arnolfo di Cambio già in una lunetta della facciata
di Santa Maria del Fiore: innegabile è comunque una certa presenza scultorea
della santa sdraiata, soprattutto nelle gambe, sopra le quali si tende elastica la
veste, generando pieghe in cui si affossano le ombre. A Giotto farebbe invece
pensare la figura naturale della levatrice che versa l'acqua con la brocca,
ruotata di tre quarti offrendo le spalle.
Ambrogio Lorenzetti​: breve biografia
Su Ambrogio ci sono poche, frammentarie e dubbie notizie. Anche la data di
nascita, che si colloca in un largo lasso di anni, ma è probabile che sia nato
prima della fine del Trecento.

Fu uno dei maestri della scuola senese del Trecento. Fratello minore di Pietro
Lorenzetti, fu attivo dal 1319 al 1348 e si distinse soprattutto per la forte
componente allegorica e complessa simbologia delle sue opere mature e per la
profonda umanità dei soggetti rappresentati e dei loro rapporti.

Ambrogio è influenzato da Duccio di Boninsegna ma la sua pittura si distingue


in modo netto e chiaro da quella di Pietro.
Pochissimi sono i punti in comune fra i due fratelli, ed in più, gli stilemi di
Ambrogio sono quelli tradizionali, che Pietro rifiuta, cioè quelli della scuola
giottesca, pur risentendo gli influssi della pittura senese. Addirittura il Vasari
ignora, non solo che siano fratelli, ma anche una loro parentela. Mentre lo stesso
Vasari gli preferisce il fratello Pietro, il Ghiberti elogia le sue capacità,
considerandole più elevate di quelle di Simone Martini e riconoscendolo
”altrimenti dotto che nessuno degli altri”.

Il suo primo accreditato dipinto è la “​Madonna con il Bambino​” (1319),


realizzato per la chiesa di Vico l’Abate in una località vicino Firenze.
La tavola è totalmente diversa dalle precedenti Maestà o Madonne col Bambino
di Duccio di Buoninsegna, a tal punto da far pensare che a differenza del fratello
Pietro Lorenzetti e di Simone Martini, Ambrogio non si sia formato nella
bottega di Duccio. La presenza di quest'opera in un paese vicino Firenze, e le
successive testimonianze che vedrebbero Ambrogio a Firenze e dintorni almeno
fino al 1332, fanno altresì ritenere che Ambrogio Lorenzetti, seppure senese,
ebbe una formazione più vicina a quella fiorentina di Giotto e dello scultore
Arnolfo di Cambio, come è evidente nella solidità delle figure. La distanza da
Giotto e dai suoi seguaci rimane comunque notevole, ponendo l'autore distante
anche dalla scuola pittorica fiorentina e contribuendo far emergere nell'arte di
Ambrogio Lorenzetti tratti davvero originali sin dagli esordi.In questa tavola le
fisionomie di Maria e del Bambino sono poco dolci. Le figure sono di una
presenza statuaria e possente, che echeggia anche le statue di Arnolfo di
Cambio. La rappresentazione della Madonna è frontale, alla maniera bizantina e
ricorda le opere della seconda metà del Duecento (qualche esperto ha addirittura
avanzato l'ipotesi che il committente abbia chiesto esplicitamente all'autore di
richiamarsi allo stile di quel tempo). Il manto della Madonna è reso con un
colore compatto e con scarsa caratterizzazione a pieghe del panneggio. I volti
hanno una caratterizzazione chiaroscurale non eccelsa e il trono è un semplice
seggio di legno spigoloso che riporta decorazioni geometriche, ma
un'architettura ridotta ai minimi termini. Questi erano probabilmente i limiti di
un pittore giovane che tuttavia conoscerà successivamente un'evoluzione
vertiginosa.
Piuttosto una cosa è straordinaria già in questa tavola giovanile e anticipa quello
che sarà uno dei maggiori contributi di Ambrogio nella storia dell'arte, cioè il
suo vivo naturalismo nella resa dei personaggi. Le mani di Maria reggono il
bambino piuttosto che attorniarlo. La mano destra è inclinata rispetto
all'avambraccio a reggere la gamba destra di Gesù. Le dita di entrambe le mani
non sono parallele, ma sono disposte in modo da reggere meglio l'infante.
Soprattutto spicca l'indice della mano destra che ha un naturalismo funzionale al
gesto mai visto prima. Il Bambino guarda la madre. I suoi polsi e lo scorcio del
suo piede sinistro mostrano un bambino che si agita e scalcia come un vero
infante.
trittico chiesa di procollo a firenze​:
Certa è invece la datazione del 1332 del trittico proveniente dalla chiesa di San
Procolo a Firenze, avendo molti testimoni letto, nel corso dei secoli, la firma
dell'artista e la data da lui apposta (1332) che oggi sono andate perdute. Il
trittico, recentemente ricomposto alla Galleria degli Uffizi di Firenze, riporta la
Madonna col Bambino tra i santi Nicola (a sinistra) e Procolo (a destra). Sopra i
tre pannelli le cuspidi riportano il Cristo Redentore (al centro) e i santi Giovanni
Evangelista (a sinistra) e Giovanni Battista (a destra). Rispetto alla Madonna di
Vico l'Abate del 1319 Ambrogio Lorenzetti aveva compiuto passi da gigante
nella resa volumetrica dei personaggi, nell'ingentilimento delle figure, nell'uso
delle modulazioni chiaroscurali, nella spiccata profilatura dei personaggi, nella
ricca decorazione, adesso decisamente più vicini a quelli della scuola di Giotto.
Le posture dei personaggi sono ancora rigide e questi sembrano come ingessati,
contraddistinguendosi dalle figure di Giotto dei primi anni trenta (per esempio
del contemporaneo Polittico di Bologna) o anche da quelle di Simone Martini.
Tuttavia è ancora l'umanità del rapporto tra Maria e il Bambino che
contraddistingue l'opera. In questo dipinto Gesù Bambino guarda sua madre con
gli occhi sgranati e la bocca semiaperta generando un'espressione tipica di un
neonato. Maria ricambia lo sguardo ed offre al bambino un'espressione serena e
rassicurante e le dita della mano destra per giocare. La mano sinistra di Maria ha
invece la tipica disposizione “lorenzettiana” a dita divaricate, sottolineando
l'energia della sua presa.

La Maestà di Massa Marittima​ ​La presente composizione, una delle tre grandi
Maestà di Ambrogio, è considerata dagli studiosi fra le prime grandi opere
allegoriche della sua attività artistica. Le altre due Maestà sono dipinte a fresco:
una nella chiesa di Sant’Agostino di Siena e l’altra nella cappella di San
Galgano a Montesiepi (Siena).

Si pensa, soprattutto per la presenza nel dipinto della figura di sant’Agostino (in
piedi a sinistra del trono) e dei santi Giovanni Evangelista, Pietro e Paolo
(seduti a destra della Madonna), che la Maestà venne realizzata per la chiesa
agostiniana di San Pietro all’Orto di Massa Marittima. Altri studiosi di storia
dell’arte, invece, ipotizzano che l’opera potrebbe essere stata eseguita per
un’altra chiesa agostiniana (di Sant’Agostino) che però, da quanto risulta da
documentazioni certe, in quel periodo era ancora in costruzione.Al centro del
dipinto domina la figura della Madonna in trono che tiene in braccio il
Bambino. In basso, ai lati dei tre alti gradini del trono, stanno sei angeli (tre a
sinistra e tre a destra) recanti incensieri e strumenti musicali. Ai lati dello stesso
trono – due per parte ed in perfetta simmetria – stanno altri quattro angeli:
quelli in basso recano i cuscini del trono e gli altri due hanno il compito di
lanciare fiori. Qui, come in altre composizioni di Ambrogio sullo stesso tema,
nella relazione tra la Madonna ed il figlioletto viene enfatizzato il rapporto
umano tra i due (con la tipica vigorosa presa del Bambino da parte della
Vergine), rafforzato dal diretto contatto dei volti e da un dialogo fatto di sguardi
ravvicinati.
Del trono, pressoché nascosto dalle sei figure già descritte, si vedono soltanto
gradini, ma è tuttavia doveroso pensare che schienale e seggio non siano
assenti: esso appare quindi costituito soltanto dai soli cuscini (o un unico lungo
cuscino) sorretti (o sorretto) dai due angeli.
Infine, in primo piano sui gradini del trono, sono ubicate le Virtù teologali
personificate. Il resto dei personaggi – tutti in piedi – rappresentano santi,
profeti e patriarchi. Nella prima fila a sinistra, sopra i tre angeli, si possono
identificare S. Basilio, S. Nicola, S. Francesco e S. Caterina. Sopra di essi
stanno S. Giovanni evangelista, san Pietro, san Paolo e due sante. Sulla destra
del trono – in piedi, sopra gli angeli musicisti – vengono riconosciuti S.
Benedetto, S. Antonio abate, S. Agostino e S. Cerbone (figura alla estrema
destra), patrono di Massa Marittima a cui è intitolato il Duomo, identificabile
per le oche che gli girano attorno. Dietro di essi ci sono gli evangelisti Matteo,
Marco e Luca, con due sante.
Più in alto si intravedono altri volti ed aureole di altre figure, ed ancora – sotto
gli archi a sesto acuto – altri volti, che certamente rappresentano profeti,
apostoli e patriarchi.Il dipinto in esame ha poco delle caratteristiche tradizionali
di una Maestà, soprattutto di quell’epoca. L’eccessivo affollamento dei
personaggi, simmetricamente disposti ai lati del trono, conferisce all’evento
della nascita di Gesù Cristo una carica di epocale importanza, per il fatto che a
tale evento ci sia la presenza di tutti i personaggi che hanno fatto la storia della
Chiesa. Inoltre, le tre virtù teologali, inserite in primo piano, caratterizzano
ancor più l’allegoria dell’opera.

Intorno al 1335, anno della realizzazione del complesso pittorico in esame, si


assiste ad un cambiamento dello stile dell’artista. Dalle immagini – ancora
abbastanza voluminose e poco dinamiche, inserite in una dilatazione spaziale
già meglio definita – tecnicamente migliorate con un ottimo impiego dei
chiaroscuri (come testimonia il “San Procolo” del 1332 degli Uffizi di Firenze),
si passa a figure con atteggiamenti più disinvolti e naturali, anche in quelle che
non sono in movimento: si osservi, a tal proposito, le tre virtù teologali sedute
sui tre gradini del trono, gli angeli e la figura di S. Francesco. Tutte le altre
immagini conservano invece la tipica staticità.
Il convivere di questi due stili nella presente composizione, che sparirà
definitivamente nei dipinti senesi già negli ultimi anni Trenta, denota la
transizione stilistica in atto nel 1335 in Ambrogio Lorenzetti. Infine le
morbidissime variazioni cromatiche, che conferiscono alla stesura pittorica i
toni del pastello, rendono ancora più gradevole l’armonia globale, anche se si
deve confrontare col preponderante oro dello sfondo.

Nel 1337 l'artista risulta già in pianta stabile a Siena ​a dipingere in maniera
autonoma dal fratello Pietro Lorenzetti, complice anche la partenza per
Avignone, avvenuta nel 1335-1336, dell'artista di riferimento della città fino ad
allora, ovvero Simone Martini.

Rientro definitivo a Siena: Le Allegorie del Buono e Cattivo Governo e dei


loro Effetti

Al 1337-1338 risale la Maestà della Cappella Piccolomini del Convento di


Sant'Agostino di Siena, anch'essa caratterizzata da un profondo significato
allegorico. Nel 1338-1339 Ambrogio dipinse quello che ancora oggi è
considerato il suo capolavoro tra le opere a noi pervenute: le Allegorie del
Buono e Cattivo Governo e dei loro Effetti in Città e in Campagna, dispiegate
su tre pareti per una lunghezza complessiva di circa 35 metri nella Sala dei
Nove del Palazzo Pubblico di Siena. Sulla parete di fondo della sala si trova
l​'Allegoria del Buon Governo​ dove ogni aspetto del governo (quale la Giustizia,
il Comune di Siena, i cittadini, le forze dell'ordine, etc.) e le virtù loro ispiratrici
(sapienza divina, generosità, pace, virtù cardinali e virtù teologali, etc.) sono
rappresentati da figure umane. Tutte queste figure interagiscono secondo un
preciso ordine a rappresentare una scena assai complessa. Sulla parete di destra
è presente l'Allegoria degli Effetti del Buon Governo in Città e ​Campagna​, con
una rappresentazione allegorica del lavoro produttivo entro la città di Siena e
nella sua campagna, ​nella presente composizione si vuole evidenziare che la
natura può essere migliorata dalla costante opera dell’uomo e, quindi,
interpretata con umanissima ispirazione lirica.​.
Infine, sulla parete sinistra è presente l'Allegoria del ​Cattivo Governo​, con
personificazioni degli aspetti del malgoverno e dei vizi e dei suoi effetti in città
e ​campagna​. Il ciclo di affreschi è da sempre studiato da critici ed appassionati
non solo di storia dell'arte, ma anche di storia e del pensiero politico, di
urbanistica e del costume. Di fatto fu uno dei primi messaggi di propaganda
politica in un'opera medievale. Dal punto di vista dottrinale vi è un chiaro
riferimento al pensiero di san Tommaso d'Aquino. "L'assunto dottrinale è
chiaramente tomistico: non solo perché riflette la gerarchia dei princìpi e dei
fatti, delle cause e degli effetti, ma perché pone come motivi fondamentali
dell'ordine politico l'"autorità" (nelle allegorie) e la "socialità" (negli effetti),
specialmente insistendo sul concetto aristotelico (di Aristotele) della "naturalità"
della socievolezza umana[1].

La ​Presentazione al Tempio​:
è un dipinto a tempera su tavola (257x168 cm) di Ambrogio Lorenzetti, firmato
e datato 1342. Proveniente dal Duomo di Siena, è oggi conservato nella Galleria
degli Uffizi a Firenze. Considerata una delle opere 'maggiori' di Ambrogio
Lorenzetti, è uno dei cinque soli lavori datati e firmati dall'artista, costituendo
così un importante punto di riferimento per la ricostruzione dell'evoluzione
artistica del pittore senese.
Il centro della scena è occupata dall'evento della Presentazione al Tempio,
cerimonia che la religione ebraica prevedeva dopo 40 giorni dalla nascita di
ogni bambino maschio per consentire alla madre di purificarsi.

Al centro, entro lo spazio delimitato dalle due colonnette in primo piano,


troviamo i tre personaggi più importanti: la Madonna (che tiene nelle mani il
telo in cui era avvolto il Bambino), il Bambino (con i piedini irrequieti e il dito
in bocca), e Simeone il Giusto (raffigurato nell'intento di proferire parola dopo
aver preso in braccio il piccolo). All'estrema sinistra troviamo Giuseppe,
preceduto da due accompagnatrici (l'assenza dell'aureola indica l'assenza di
santità di queste ultime). All'estrema destra troviamo invece la Profetessa Anna
che dispiega un cartiglio entro cui leggiamo un messaggio in latino così
traducibile “Ed ecco, sopraggiunta proprio in quel momento, [Anna] si mise
anch'essa a lodare Dio e parlava del Bambino a tutti coloro che aspettavano la
redenzione di Israele” (Vangelo secondo Luca, 2, 38).
Dietro l'altare vediamo un sacerdote con i colombi da sacrificare nella mano
destra e il coltello del sacrificio nella sinistra. Sull'altare, davanti a lui, arde la
fiamma del sacrificio. Il sacerdote sembra ascoltare un altro sacerdote alla sua
sinistra, mentre un terzo sacerdote è visibile ancora più a sinistra, dietro il
pilastro.

Vero protagonista di tutta la scena è Simeone il Giusto, ben ritratto nella sua
vecchiaia, intento a contemplare il Bambino che ha in braccio e con la bocca
aperta a dare il suo messaggio che apprendiamo dal Vangelo secondo Luca:
“Ora, Signore, puoi lasciare che il tuo servo muoia in pace perché, secondo la
tua promessa, i miei occhi hanno visto la salvezza che tu hai preparato per tutti i
popoli della terra” (Luca, 2, 29-31). Ambrogio Lorenzetti ha voluto ritrarre
proprio questo momento solenne di tutta la scena della Presentazione al Tempio.
Il dipinto è realizzato secondo lo stile dell'ultimo Ambrogio Lorenzetti, quello
della maturità artistica degli anni senesi (dopo il 1335). La piastrellatura del
pavimento e lo sviluppo in profondità delle navate della chiesa mostrano infatti
un'acquisita familiarità nella resa prospettica ereditata dalla scuola di Giotto,
reiterando le indubbie capacità del Lorenzetti di dipingere le complesse
prospettive già evidenti nelle Storie di san Nicola del 1332 circa (oggi alla
Galleria degli Uffizi di Firenze). Tuttavia, non si può ancora parlare di
prospettiva matematica, invenzione del Rinascimento del XV secolo: se il
pavimento ha infatti un unico punto di fuga, esso è diverso da quello dei muri
perimetrali o da quello della linea d'imposta degli archi. In questo dipinto la
scena è inoltre ambientata nelle tre navate di una chiesa, in uno spazio che,
scurendosi via via che ci si allontana, crea un effetto di profondità inedita per la
pittura toscana, che sembra anticipare le conquiste dei fiamminghi, come la
Madonna in una chiesa gotica di Jan van Eyck (Erwin Panofsky, 1927).

Anche i chiaroscuri dei volti e del panneggio mostrano le influenze giottesche


che Ambrogio Lorenzetti aveva acquisito negli anni di permanenza a Firenze
(prima del 1332). Le figure sono dipinte come masse compatte, con le vesti in
colori brillanti sfumati in base al diverso cadere della luce, dando così uno
straordinario senso di plasticità e volume. I volti sono invece resi secondo le
inconfondibili fisionomie di quest'artista. Così come "lorenzettiana" è la
raffigurazione del Bambino, con i piedini irrequieti e con il dito in bocca a
sottolinearne l'umanità.

Altre opere sono state realizzate da Ambrogio Lorenzetti a Firenze e nei suoi
pressi, perciò questo fa presupporre una sua non saltuaria presenza in questa
città: tra l’altro, nel 1327, risulta immatricolato nell’arte degli Speziali e de’
Medici, alla quale è iscritto lo stesso Giotto.

Ambrogio, dunque, opera assiduamente sia a Siena che a Firenze e spesso in


compagnia del fratello Pietro. Entrambi influenzano gli artisti del loro periodo,
sia in patria che fuori e la scuola senese conserverà per molto tempo la loro
impronta continuando a produrne seguaci.

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