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INTRO:
L’ambiente della pittura nella regione Toscana e, in particolare quello di
Firenze, era un terreno fertilissimo per crescita e lo sviluppo della nuova pittura.
Infatti nei decenni a cavallo del Duecento-Trecento iniziò ad espandersi in tutto
il centro Italia.
Questi grandi esponenti della pittura, insieme a molti altri senesi, contribuirono
a definire in modo determinante il nuovo linguaggio pittorico italiano.
Le differenze stilistiche che risaltano nella pittura gotica quindi, possono essere
sintetizzate come segue:
Gli artisti gotici non erano alla ricerca di una reale rappresentazione volumetrica
e spaziale, e raffiguravano le immagini con una coloristica ricca e vivace,
indipendente dal chiaroscuro, su un unico piano rappresentativo, senza
preoccuparsi di creare profondità. L’obiettivo naturalistico, quindi, veniva
sacrificato a vantaggio di più efficaci effetti decorativi, soprattutto nei panneggi
dei personaggi raffigurati.
Gli artisti gotici davano molta importanza alla componente disegnativa. Le
immagini infatti venivano strutturate con raffinati pennelli, indipendentemente
da ciò che le circondava, e sempre realizzate curando al massimo il tratto con
curve, spirali, intrecci, avvitamenti. Conferivano in tal modo alle opere un
pregiatissimo valore decorativo.
Conclusioni
Dunque, facendo un’analisi storica sulla pittura del Trecento, si ricava che l’arte
bizantina in tale periodo ridusse drasticamente la propria egemonia su quella
europea (soprattutto sulla parte occidentale) fino a quasi scomparire del tutto. Il
rinnovamento proprio del linguaggio pittorico del nostro continente,
rinforzandosi, si diffuse su due grandi filoni artistici: pittura italiana e pittura
gotica. La prima, a carattere locale, nacque e si sviluppò quasi esclusivamente
nell’Italia centrale e – in solo in parte – nelle zone padane. La seconda ebbe
invece una diffusione assai più vasta, interessando l’intero continente europeo.
Tutto questo rafforzò il predominio dell’arte gotica su quella italiana, soprattutto
nel seconda metà del Trecento, quando quest’ultima venne quasi eclissata dal
gusto artistico gotico, ormai dilagante anche in Toscana.
Verso il Rinascimento
Fu solo per un breve periodo, perché la pittura italiana, già nella prima metà del
Quattrocento, incominciava ad entrare quella nuova e lunghissima stagione
artistica, che chiamiamo Rinascimento, frutto proprio di quell’arte italiana che
nacque e si sviluppò tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento.
Il dipinto più certo a lui attribuito, nell’età giovanile, risulta essere quello della
“Madonna di Crevole” attualmente custodito a Siena nel Museo dell’Opera. A
questo seguono la “Madonna Ruccellai”, conservata alla Galleria degli Uffizi a
Firenze e per molto tempo attribuita a Cimabue:
La sua opera più grande risulta essere la grande tavola con Maestà realizzata
nel 1311 per il Duomo di Siena. Intorno al Settecento questa grande tavola è
stata smembrata e le sue piccole parti si trovano nei musei di tutto il mondo,
mentre la struttura principale si trova nel Museo dell’Opera di Siena.
L’analisi pittorica di questo grande capolavoro porta alla luce un artista dotato
di grande capacità, profondo rinnovatore della pittura bizantina, molto attento
alla natura ed al quotidiano, che riesce a rendere con successioni cromatiche di
grande effetto.
L'opera si trova oggi collocata nel Museo dell'Opera Metropolitana, dopo essere
stata esposta nel Duomo, anche se fra vari spostamenti, fino al 1878.
L'opera andava a sostituire un'icona della Vergine particolarmente cara ai
senesi, perché era legata alla vittoria della Battaglia di Montaperti (1260): con
questa nuova grandiosa pala volevano omaggiare ancora maggiormente la loro
protettrice, alla quale era dedicata anche la Cattedrale.
Altri quattro santi stanno in secondo piano (San Paolo e San Giovanni
evangelista a sinistra, San Giovanni Battista e San Pietro a destra), mentre tutto
intorno si dispone con rigida simmetria un appiattito coro di venti angeli alati.
Più in alto altre figure di santi più piccoli a mezzo busto (gli altri dieci apostoli)
sono opere di bottega.
La predella da questo lato presentava alcune storie dell'infanzia di Cristo, nelle
quali la protagonista è Maria, alternate a figure di Profeti (Isaia, Ezechiele,
Salomone, Malachia, Geremia, Osea). Queste le sette tavolette conservate:
● Annunciazione (Londra, National Gallery);
● Natività (Washington, National Gallery of Art);
● Adorazione dei Magi (Siena, Museo dell'Opera del Duomo);
● Presentazione al tempio (Siena, Museo dell'Opera del Duomo);
● Strage degli innocenti (Siena, Museo dell'Opera del Duomo);
● Fuga in Egitto (Siena, Museo dell'Opera del Duomo);
● Disputa con i dottori del tempio (Siena, Museo dell'Opera del
Duomo).
Nel coronamento trovavano posto invece alcune Storie della Vergine dopo la
morte di Cristo, quasi tutte conservate a Siena:
● Annuncio della morte alla Vergine;
● Congedo di Maria da Giovanni;
● Congedo dagli apostoli;
● Dormitio Virginis;
● Funerali di Maria;
● Sepoltura di Maria;
● Incoronazione della Vergine (Budapest, Szépműveszéti Múzeum).
Sul retro della Maestà, destinato alla visione del clero, erano rappresentate 26
Storie della Passione e Resurrezione di Cristo, divise in formelle più piccole,
uno dei più ampi cicli dedicati a questo tema in Italia. Le Storie cominciavano
dalla predella, poi smembrata, nella quale erano rappresentati alcuni episodi
della vita pubblica di Cristo, dei quali si sono conservati:
● Tentazione sul tempio (Siena, Museo dell'Opera del Duomo);
● Tentazione sul monte (N
ew York, Frick Collection);
● Vocazione di Pietro e Andrea (Washington D.C., National Gallery);
● Nozze di Cana (Siena, Museo dell'Opera del Duomo);
● Incontro con la Samaritana (Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza);
● Guarigione del cieco nato (Londra, National Gallery);
● Trasfigurazione (Londra, National Gallery);
● Resurrezione di Lazzaro (Fort Worth, Texas, Kimbell Art Museum).
Si tratta di una grande tavola (425x212 cm) a due facce, anche se oggi si
presenta tagliata lungo lo spessore secondo un discutibile intervento
ottocentesco che non mancò di creare alcuni danni. Il lato principale, quello
originariamente rivolto ai fedeli, era dipinto con una monumentale Vergine con
Bambino in trono, circondata da un'affollata teoria di santi e angeli su fondo
oro. La Madonna è seduta su un ampio e sfarzoso trono, che accenna ad una
spazialità tridimensionale secondo le novità già praticate da Cimabue e Giotto,
ed è dipinta con una cromia morbida, che dà naturalezza al dolce incarnato.
Anche il bambino esprime una profonda tenerezza, ma il suo corpo non sembra
generare peso e le mani di Maria che lo reggono sono piuttosto innaturali. Alla
base del trono, sta la preghiera-firma in versi latini: "MATER S(AN)CTA
DEI/SIS CAUSA SENIS REQUIEI/SIS DUCIO VITA/TE QUIA PINXIT ITA"
(trad.:"Madre Santa di Dio, sii causa di pace per Siena, sii vita per Duccio,
poiché ti ha dipinta così").
Il retro era invece destinato alla visione del clero, e vi sono rappresentate 26
Storie della Passione di Cristo, divise in formelle più piccole, uno dei più ampi
cicli dedicati a questo tema in Italia. Il posto d'onore, al centro è dato dalla
Crocifissione, di larghezza maggiore e altezza doppia, come anche la formella
doppia nell'angolo in basso a sinistra con l'Entrata a Gerusalemme. In varie
scene Duccio diede prova di essere aggiornato rispetto alle "prospettive" dei
fondali architettonici di Giotto, ma in altre deroga volontariamente alla
raffigurazione spaziale per mettere in risalto particolari che gli premono, come
la tavola apparecchiata nella scena dell'Ultima cena (troppo inclinata rispetto al
soffitto) o come il gesto di Ponzio Pilato nella Flagellazione, che è in primo
piano rispetto a una colonna nonostante i suoi piedi poggino su un piedistallo
che è collocato dietro. Duccio non sembra quindi interessato a complicare
eccessivamente le scene con regole spaziali assolute, anzi talvolta la narrazione
è più efficace proprio in quelle scene dove un generico paesaggio roccioso
tradizionale lo libera dalla costrizione della rappresentazione tridimensionale.
La pala aveva anche una predella dipinta su tutti i lati (la prima conosciuta
nell'arte italiana) e a coronamento dei pannelli cuspidati con Scene della vita di
Maria (fronte) e Episodi post-mortem di Cristo (retro): queste parti non sono più
a Siena ed alcune di esse si trovano in collezioni e musei esteri.
Nella Maestà si ravvisa tutto il realismo dei volti dei personaggi di cui era
capace Duccio, nonché l'ormai acquisita capacità di disegnare cose e personaggi
secondo i canoni giotteschi della prospettiva diretta (non più l'antiquata
prospettiva inversa di Cimabue ripresa da Duccio fino a fine Duecento). Le vesti
hanno un panneggio voluminoso, i chiaroscuri sono resi con un'attenzione per la
provenienza delle fonti di luce, tendenze anch'esse ereditate da Giotto. L'opera
spicca anche per la profusione di dettagli e decorazioni: dagli intarsi marmorei
del trono alla fantasia fine del drappo sullo schienale dello stesso trono, dalla
capigliatura degli angeli agli ornamenti delle sante. La coesione di elementi di
matrice fiorentina con il realismo figurativo propri di Duccio, il tutto
impreziosito da una cura estrema per il particolare, fanno di quest'opera uno dei
capolavori del Trecento italiano.
Simone Martini
indicato talvolta anche come Simone Senese (Siena, 1284 circa – Avignone,
1344), è stato un pittore e miniatore italiano, considerato indiscutibilmente uno
dei maestri della scuola senese e sicuramente uno dei maggiori e più influenti
artisti del Trecento italiano, l'unico in grado di contendere lo scettro a Giotto. La
sua formazione avvenne, probabilmente, nella bottega di Duccio di
Buoninsegna.
Simone Martini nacque a Siena nel 1284 circa. Nessuna fonte certa esiste sulla
sua formazione, ma è consolidata l'ipotesi che essa si sia svolta nella bottega di
Duccio di Buoninsegna. Tuttavia, la presenza nella pittura di Simone, già nelle
sue opere più precoci giunte sino a noi, anche di elementi non ducceschi lascia
presumere che il tirocinio del pittore sia stato arricchito anche da esperienze
diverse. Innanzitutto, in Simone si coglie una particolare sensibilità per la resa
plastica delle figure umane, sicuramente maggiore di quanto non fosse nella
coeva pittura senese e in quella di Duccio in particolare, il che rende ipotizzabile
un contatto, già in età giovanile, con le novità giottesche.
Altro elemento caratterizzante l'opera di Simone, sin dagli esordi noti, è la sua
attenzione per le arti suntuarie, fiorenti nella Siena del tempo. Ne è
testimonianza il diffuso utilizzo di raffinati stampini e punzoni, mediante i quali
Simone arricchisce di eccezionali elementi decorativi i suoi dipinti (si pensi ai
nimbi della Vergine e del Bambino della Maestà del Palazzo Pubblico). Del pari
gli oggetti in oro illusionisticamente raffigurati nelle sue opere sono riprodotti
con ineguagliabile maestria (si veda in questo senso il trono della Vergine della
stessa Maestà, quasi un ingrandimento di alcuni bellissimi reliquiari senesi
dell'epoca). Sulla base di questi elementi si è ipotizzato che il giovane Simone
abbia avuto familiarità con l'arte orafa. Ipotesi che peraltro potrebbe spiegare
anche un ulteriore elemento distintivo dell'opera del Martini, cioè la sua
conoscenza del gusto gotico oltremontano, diffuso a Siena soprattutto nel campo
dell'oreficeria.
I primi segni documentati dell'attività artistica di Simone Martini risalgono al
1305-1310 circa, quando il giovane Simone aveva circa 20-25 anni. A questa
prima fase di attività sono attribuite una Madonna col bambino, di cui si ignora
la collocazione di origine e che è oggi esposta nella Pinacoteca Nazionale di
Siena (catalogata come opera n. 583),L’opera in esame venne indicata da E.
Carli nel 1957, intuendo che sotto un dipinto del XVI sec.di scarso valore,
raffigurante una Madonna con il Bambino ed angeli, custodito nella pieve
(chiesa matrice, dove si svolgono varie funzioni liturgiche) di San Giovanni
Battista a Lucignano d’Arbia (nei pressi di Siena), potesse trovarsi una pittura
assai più antica.
L’opera venne accuratamente esaminata e le ipotesi del Carli furono pienamente
confermate.
Ci vollero alcuni mesi di delicato lavoro da parte dei restauratori per portare alla
luce la stupenda Madonna di Simone Martini. L’opera di restauro fu eseguita
nella Pinacoteca di Siena dove è attualmente esposta al pubblico.Purtroppo parte
del fondo d’oro venne asportato in precedenza per meglio favorire l’adesione
dell’intrusa pittura cinquecentesca. Anche il manto della Vergine subì dei grossi
traumi, tuttavia se ne intravede ancora la traccia, avendo la pittura reagito in
modo migliore rispetto all’oro. Ancora integri sono il volto e le mani della
Vergine e, pressoché, la totale figura del Bambino.
La delicata fase finale relativa alla rimozione della stesura sovrapposta ed al
trattamento di quella originale venne affidata a laura Mora.
Da un confronto, anche abbastanza sommario, si rileva che questa “Madonna
col Bambino” presenta moltissime similitudini con quella del polittico di
Orvieto, tanto da far accettare l’autografia e la cronologia, salvo rare eccezioni,
all’unanimità.
Il grande affresco (970x763 cm) è una sorta di omaggio alla Maestà del Duomo
di Siena di Duccio di Buoninsegna, dalla quale riprende l'impostazione (Maria e
il Bambino al centro seduti su un trono, teoria simmetrica di santi ai due lati con
in primo piano i protettori della città), l'uso di una fonte di luce unica per la resa
dei chiaroscuri, l'uso di una prospettiva diretta piuttosto che inversa, e
l'angolazione variabile con cui sono rappresentati i personaggi (da frontali ad
altamente profilati), caratteristiche queste ultime che Duccio stesso aveva
ripreso da Giotto. Anche il realismo figurativo e persino le fisionomie di molti
santi rimandano all'opera di Duccio.
In queste opere Simone narra le storie di San Martino: nato in Pannonia nel IV
secolo d.C. e figlio di un tribuno romano, Martino iniziò la sua carriera militare
a soli quindici anni, interrompendola circa nel 334, attratto dalla vita religiosa.
Dieci sono le scene narrate nei dipinti dell’artista, che, oltre a quelle della
“morte” e delle “esequie”, ne raffigurò altre otto: quattro riguardanti la vita di
Martino prima della conversione, avvenuta nel 344, e quattro relative al periodo
posteriore al 371, lasciando un vuoto sulla vita del periodo medio del santo.
Durante i lavori Simone Martini si poté confrontare con altri maestri fiorentini
di scuola giottesca, Giotto compreso, allora attivi nel cantiere assisiate. Simone
si aggiornò in alcuni elementi, quali la solida intelaiatura architettonica
realistica e il gioco illusionistico di luci ed ombre con attenzione alle vere fonti
di luce. Negli 8 santi a figura intera del 1318, gli ultimi dell'intero ciclo, è
evidente anche l'acquisizione delle ricche volumetrie giottesche. Tuttavia
Simone non si adeguò passivamente alla scuola fiorentina, anzi è chiara una
divaricazione tra il suo modo di dipingere e quello giottesco a partire dallo
stesso tema dei dipinti: non le storie di un santo popolare come san Francesco,
ma un raffinato santo cavaliere, del quale Simone sottolineò alcuni aspetti
cortesi della leggenda.
Nel luglio 1317 Simone venne chiamato a Napoli da Roberto d'Angiò, che lo
nominò cavaliere (assegnandogli una pensione annua) e gli commissionò una
tavola celebrativa, San Ludovico di Tolosa che incorona il fratello Roberto
d'Angiò, oggi conservato al Museo di Capodimonte a Napoli.
Questa opera è un'icona profana, la prima del genere in Italia, che segna un
preciso tema politico del momento: proprio quell'anno Ludovico di Tolosa
venne canonizzato; essendo egli stato fratello maggiore di Roberto, quindi
destinato al trono di Napoli, Ludovico aveva abdicato in favore del fratello per
dedicarsi a vita religiosa; ecco dunque che Roberto voleva con questo dipinto
creare un manifesto politico che legittimasse il suo potere.
La pala ha anche un primato, cioè quello di essere il primo sicuro ritratto nella
pittura italiana di un personaggio vivente (Roberto d'Angiò), mentre il primato
assoluto spetta a una scultura, il Ritratto di Carlo I d'Angiò di Arnolfo di
Cambio (1277).
L’opera è costituita da tavola grande (200 x 138 cm.), dove è raffigurato il
santo, e una predella (56 x 205 cm.) in cui sono narrate le sue storie.
Il Santo viene incoronato da due angeli nel momento in cui sta porgendo una
corona sul capo di Roberto d’Angiò, suo fratello minore.
In un paesaggio bigio, spoglio delle cose più naturali, irto di castelli e torri con
bandiere sventolanti, con lunghi steccati, sguarnite montagne e con un tetro
accampamento nella vallata, il protagonista, più che essere celebrato, è
semplicemente raffigurato.
Simone Martini si recò quindi a Pisa dove dipinse un bellissimo polittico a sette
scomparti, predella, fascia superiore e cuspidi per il convento domenicano di
Santa Caterina d'Alessandria a Pisa. Il polittico fu terminato nel 1320 ed è oggi
conservato nel Museo nazionale di San Matteo, sempre a Pisa.
Il polittico di Pisa, che costituisce la più grande pala di Simone Martini, fu
commissionata nel 1319 da fra’ Pietro per la decorazione dell’altar maggiore
della chiesa del convento di Santa Caterina da Pisa.
La tavola posta al centro è più larga delle altre (esattamente di un terzo), cosi
come la tavoletta centrale (con le tre figure) appartenente alla predella. Le
raffigurazioni totali (mezze figure) sono sono quarantatré, il cui campo viene
definito da un arco trilobo che poggia su colonnine tortili (purtroppo oggi non
più originali, o mancanti, per la quasi totalità).
L'Annunciazione tra i santi Ansano e Margherita
È questa una delle opere più vicine al gotico transalpino e alle sue raffinatezze
che l'Italia abbia conosciuto. L'immagine si svolge tutta in un raffinato gioco di
linee sinuose in superficie (nonostante il suggerimento spaziale affidato al trono
disposto obliquamente). La Vergine si ritrae chiudendosi il manto, in una posa
che è in bilico tra paurosa castità e altera ritrosia. L'angelo ha un movimento
slanciato, concentrato sul messaggio che sta consegnando alla Vergine. Al di là
della bellezza dell'introspezione psicologica dei due personaggi, la tavola è
impreziosita da particolari di rara bellezza, come il vaso dorato e i gigli che
invadono il centro della scena, i ramoscelli di olivo tenuti in mano dall'angelo e
sulla sua testa, la fantasia a quadri scozzesi del manto svolazzante dell'angelo, le
penne di pavone sulle sue ali, il rovello gotico del manto dell'angelo e del bordo
dorato di quello della Vergine. Lo spazio non è sviluppato in profondità come
nel precedente tavola raffigurante i miracoli del Beato Agostino Novello, ma è
come compresso nella terza dimensione, uno spazio alluso che è un nuovo
elemento del linguaggio di quest'artista che svilupperà in maniera ancora più
marcata nelle opere successive.
La sua formazione artistica si compie a Siena e i suoi primi dipinti subiscono gli
influssi di Duccio di Buoninsegna (il polittico per la chiesa aretina di Santa
Maria della Pieve commissionato dal vescovo Tarlati), mentre le opere
successive provengono tutte dal suo genio creativo ispirato all’arte gotica, che
sta ormai terminando il suo proficuo ciclo trecentesco.
Pietro, nei suoi primi anni di attività artistica opera prevalentemente nel Senese,
più tardi, si sposta tra Assisi e Firenze, dove rimangono alcune sue opere di
notevole importanza.
La sua pittura sembra volgere verso un punto di incontro tra la l’arte fiorentina e
quella senese ma, nonostante questa ricerca di conciliazione, rifiuta in modo
assai evidente gli stilemi di entrambe, ormai stereotipati.
La sua opera più significativa è certamente “La Passione di Cristo”,
realizzata nella Basilica Inferiore di Assisi, che comprende la “Deposizione
dalla croce”, un’opera considerata dalla critica come la sua massima
espressione. L’immagine stessa del Cristo richiama la cultura senese, che ha
nelle sue fondamenta il germe bizantino.
Il Polittico della pieve di Arezzo del 1320 è la prima opera pervenutaci datata.
Sull’opera: “Polittico della Beata Umiltà e tredici storie della sua vita” è un
dipinto autografo di Pietro Lorenzetti, realizzato con tecnica a tempera su
tavola nel 1316, misura 172 x 192 cm. ed è custodito nella Galleria degli
Uffizi a Firenze.Nella pala qui raffigurata, mancante di due piccoli dipinti su
tavola (attualmente al Museo Statale di Berlino), è riportata la datazione con
l’anno 1316.
Le figure, isolate e ben definite nel volume grazie alle sfumature delle luci
sui panni colorati che le avvolgono, hanno la solennità delle opere di Giotto,
ma la minuta attenzione al dettaglio e l'atmosfera quotidiana richiamano più
le miniature transalpine. Secondo Enzo Carli, la sant'Anna ricorderebbe la
Madonna della Natività di Arnolfo di Cambio già in una lunetta della facciata
di Santa Maria del Fiore: innegabile è comunque una certa presenza scultorea
della santa sdraiata, soprattutto nelle gambe, sopra le quali si tende elastica la
veste, generando pieghe in cui si affossano le ombre. A Giotto farebbe invece
pensare la figura naturale della levatrice che versa l'acqua con la brocca,
ruotata di tre quarti offrendo le spalle.
Ambrogio Lorenzetti: breve biografia
Su Ambrogio ci sono poche, frammentarie e dubbie notizie. Anche la data di
nascita, che si colloca in un largo lasso di anni, ma è probabile che sia nato
prima della fine del Trecento.
Fu uno dei maestri della scuola senese del Trecento. Fratello minore di Pietro
Lorenzetti, fu attivo dal 1319 al 1348 e si distinse soprattutto per la forte
componente allegorica e complessa simbologia delle sue opere mature e per la
profonda umanità dei soggetti rappresentati e dei loro rapporti.
La Maestà di Massa Marittima La presente composizione, una delle tre grandi
Maestà di Ambrogio, è considerata dagli studiosi fra le prime grandi opere
allegoriche della sua attività artistica. Le altre due Maestà sono dipinte a fresco:
una nella chiesa di Sant’Agostino di Siena e l’altra nella cappella di San
Galgano a Montesiepi (Siena).
Si pensa, soprattutto per la presenza nel dipinto della figura di sant’Agostino (in
piedi a sinistra del trono) e dei santi Giovanni Evangelista, Pietro e Paolo
(seduti a destra della Madonna), che la Maestà venne realizzata per la chiesa
agostiniana di San Pietro all’Orto di Massa Marittima. Altri studiosi di storia
dell’arte, invece, ipotizzano che l’opera potrebbe essere stata eseguita per
un’altra chiesa agostiniana (di Sant’Agostino) che però, da quanto risulta da
documentazioni certe, in quel periodo era ancora in costruzione.Al centro del
dipinto domina la figura della Madonna in trono che tiene in braccio il
Bambino. In basso, ai lati dei tre alti gradini del trono, stanno sei angeli (tre a
sinistra e tre a destra) recanti incensieri e strumenti musicali. Ai lati dello stesso
trono – due per parte ed in perfetta simmetria – stanno altri quattro angeli:
quelli in basso recano i cuscini del trono e gli altri due hanno il compito di
lanciare fiori. Qui, come in altre composizioni di Ambrogio sullo stesso tema,
nella relazione tra la Madonna ed il figlioletto viene enfatizzato il rapporto
umano tra i due (con la tipica vigorosa presa del Bambino da parte della
Vergine), rafforzato dal diretto contatto dei volti e da un dialogo fatto di sguardi
ravvicinati.
Del trono, pressoché nascosto dalle sei figure già descritte, si vedono soltanto
gradini, ma è tuttavia doveroso pensare che schienale e seggio non siano
assenti: esso appare quindi costituito soltanto dai soli cuscini (o un unico lungo
cuscino) sorretti (o sorretto) dai due angeli.
Infine, in primo piano sui gradini del trono, sono ubicate le Virtù teologali
personificate. Il resto dei personaggi – tutti in piedi – rappresentano santi,
profeti e patriarchi. Nella prima fila a sinistra, sopra i tre angeli, si possono
identificare S. Basilio, S. Nicola, S. Francesco e S. Caterina. Sopra di essi
stanno S. Giovanni evangelista, san Pietro, san Paolo e due sante. Sulla destra
del trono – in piedi, sopra gli angeli musicisti – vengono riconosciuti S.
Benedetto, S. Antonio abate, S. Agostino e S. Cerbone (figura alla estrema
destra), patrono di Massa Marittima a cui è intitolato il Duomo, identificabile
per le oche che gli girano attorno. Dietro di essi ci sono gli evangelisti Matteo,
Marco e Luca, con due sante.
Più in alto si intravedono altri volti ed aureole di altre figure, ed ancora – sotto
gli archi a sesto acuto – altri volti, che certamente rappresentano profeti,
apostoli e patriarchi.Il dipinto in esame ha poco delle caratteristiche tradizionali
di una Maestà, soprattutto di quell’epoca. L’eccessivo affollamento dei
personaggi, simmetricamente disposti ai lati del trono, conferisce all’evento
della nascita di Gesù Cristo una carica di epocale importanza, per il fatto che a
tale evento ci sia la presenza di tutti i personaggi che hanno fatto la storia della
Chiesa. Inoltre, le tre virtù teologali, inserite in primo piano, caratterizzano
ancor più l’allegoria dell’opera.
Nel 1337 l'artista risulta già in pianta stabile a Siena a dipingere in maniera
autonoma dal fratello Pietro Lorenzetti, complice anche la partenza per
Avignone, avvenuta nel 1335-1336, dell'artista di riferimento della città fino ad
allora, ovvero Simone Martini.
La Presentazione al Tempio:
è un dipinto a tempera su tavola (257x168 cm) di Ambrogio Lorenzetti, firmato
e datato 1342. Proveniente dal Duomo di Siena, è oggi conservato nella Galleria
degli Uffizi a Firenze. Considerata una delle opere 'maggiori' di Ambrogio
Lorenzetti, è uno dei cinque soli lavori datati e firmati dall'artista, costituendo
così un importante punto di riferimento per la ricostruzione dell'evoluzione
artistica del pittore senese.
Il centro della scena è occupata dall'evento della Presentazione al Tempio,
cerimonia che la religione ebraica prevedeva dopo 40 giorni dalla nascita di
ogni bambino maschio per consentire alla madre di purificarsi.
Vero protagonista di tutta la scena è Simeone il Giusto, ben ritratto nella sua
vecchiaia, intento a contemplare il Bambino che ha in braccio e con la bocca
aperta a dare il suo messaggio che apprendiamo dal Vangelo secondo Luca:
“Ora, Signore, puoi lasciare che il tuo servo muoia in pace perché, secondo la
tua promessa, i miei occhi hanno visto la salvezza che tu hai preparato per tutti i
popoli della terra” (Luca, 2, 29-31). Ambrogio Lorenzetti ha voluto ritrarre
proprio questo momento solenne di tutta la scena della Presentazione al Tempio.
Il dipinto è realizzato secondo lo stile dell'ultimo Ambrogio Lorenzetti, quello
della maturità artistica degli anni senesi (dopo il 1335). La piastrellatura del
pavimento e lo sviluppo in profondità delle navate della chiesa mostrano infatti
un'acquisita familiarità nella resa prospettica ereditata dalla scuola di Giotto,
reiterando le indubbie capacità del Lorenzetti di dipingere le complesse
prospettive già evidenti nelle Storie di san Nicola del 1332 circa (oggi alla
Galleria degli Uffizi di Firenze). Tuttavia, non si può ancora parlare di
prospettiva matematica, invenzione del Rinascimento del XV secolo: se il
pavimento ha infatti un unico punto di fuga, esso è diverso da quello dei muri
perimetrali o da quello della linea d'imposta degli archi. In questo dipinto la
scena è inoltre ambientata nelle tre navate di una chiesa, in uno spazio che,
scurendosi via via che ci si allontana, crea un effetto di profondità inedita per la
pittura toscana, che sembra anticipare le conquiste dei fiamminghi, come la
Madonna in una chiesa gotica di Jan van Eyck (Erwin Panofsky, 1927).
Altre opere sono state realizzate da Ambrogio Lorenzetti a Firenze e nei suoi
pressi, perciò questo fa presupporre una sua non saltuaria presenza in questa
città: tra l’altro, nel 1327, risulta immatricolato nell’arte degli Speziali e de’
Medici, alla quale è iscritto lo stesso Giotto.