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Il ciclo pittorico che decora la cappella Brancacci, nella chiesa

del Carmine a Firenze, è considerato uno dei capolavori assoluti del


Rinascimento fiorentino. La realizzazione del ciclo fu piuttosto
complessa. Purtroppo la ricostruzione delle fasi compositivee,
considerato l’inspiegabile silenzio delle fonti documentarie, risulta
certamente non facile. La decorazione della cappella fu
commissionata a Masolino e Masaccio, verosimilmente già dal 1424,
da Felice Brancacci, ricco fiorentino mercante di sete nonché
ambasciatore e avversario politico di Cosimo dei Medici, appena
tornato da un’importante missione diplomatica presso il sultano
d’Egitto. L’incarico prevedeva la realizzazione di un ciclo con le
Storie di San Pietro, il santo protettore di Pietro Brancacci, fondatore
della cappella. Non sembra verosimile che i lavori siano stati iniziati
da Masolino, cui poi sarebbe subentrato Masaccio per alcune
difficoltà sopraggiunte. Il programmo compositivo è, in realtà,
piuttosto calibrato: gli artisti lavorano separatamente a scene diverse
pianificando accuratamente i loro interventi in modo da poter operare
contemporaneamente, senza disturbarsi a vicenda. In aggiunta
notiamo come la ripartizione dei compiti sembra attenta alle
inclinazione estetiche dei singoli artisti. Ad esempio la figura di Pietro
è sempre perfettamente riconoscibile, negli affreschi dell’uno e
dell’altro, non solo per la fisionomia, la barba e i corti capelli bianchi,
ma anche per la veste di un colore verde scuro col mantello arancione.
Vediamo inoltre i personaggi susseguirsi da una scena all’altra.
Cercando di recuperare un possibile schema degli affreschi,
notiamo che a Masaccio sono state attribuite le scene con la Cacciata
di Adamo ed Eva, San Pietro in Cattedra, San Pietro che risana gli
infermi, il Battesimo dei neofiti e la Distribuzione dei beni, mentre a
Masolino sono assegnati il Peccato Originale, la Predica di San
Pietro, la Guarigione dello storpio e la Resurrezione di Tabita. Come
abbiamo visto, verso il 1425, Masolino lasciò firenze per trasferirsi in
Ungheria, lasciando l’opera nelle mani del collega.
Contemporaneamente, per motivi che non ci è dato di conoscere,
Masaccio interrompre bruscamente le Storie di San Pietro. L’opera
rimase incompleta per alcuni anni. Non dimentichiamo, infatti, che tra
il 1436 e il 1480, la famiglia Brancacci conobbe l’esilio. Il ciclo fu
portato a compimento solo verso la fine del secolo da Filippino Lippi.
Non è dato di sapere se il Lippi avesse rispettato o meno il
programma originale. Sappiamo che cercò di adeguare il proprio stile
a quello dei due maestri, in particolar modo, a quello di Masaccio,
come vediamo soprattutto nelal resa solenne delle figure e dal’uso dei
colori, cercando, in ultima analisi di restituire all’insieme una certa
omogeneità di fondo. Gli affreschi furono apprezzati sin da subito e la
fama fu duratura nel tempo. Vasari, a tal proposito, ci racconta che i
maggiori artisti del tempo, Beato Angelico, Leonardo e
Michelangelo, si recarono a visitare la cappella, cercandone di
studiare la pittura per diventare, a loro volta, “eccellenti e chiari”.
Sullo spessore dell’arcone d’ingresso della cappella, Masolino e
Masaccio realizzarono due episodi che costituiscono gli antefatti della
cosiddetta storia della Salvezza, portata avanti da Cristo, la cui venuta
è compimento, e dalla Chiesa, di cui Pietro è rappresentante. Si tratta
del cosiddetto peccato originale, che Masolino dipinge sulla desta,
mentre a sinistra abbiamo la Cacciata di Adamo ed Eva, affrescato da
Masaccio. Nell’affresco Adamo ed Eva sono nudi, in piedo, l’uno
accanto all’altro, colti nel momento in cui, tentati dal Serpente, qui
raffigurato col volto di donna, stanno per mangiare il frutto proibito
che dal Serpente gli è stato offerto. Dall’altre parte leggiamo la
disperazione negli occhi dell’uomo e della donna, cacciati dal
paradiso terrestre e messi dinanzi alle loro responsabilità. Adamo,
preso dal rimorso e dalla vergogna, si copre il volto con le mani,
mentre Eva nasconde il seno e il pube.
Le pareti della cappella sono essenzialmnte animate da
un’umanità che potremmo dire eroica, consapevole del proprio ruolo e
conscia del proprio destino. Non vi è solo la drammaticità del racconto
dei protogenitori, quella di Cristo e di Pietro e degli altri apostoli. Si
spalancano dinanzi a noi scenari urbani moderni, dai quali è possibile
riconoscere il volto della Firenze contemporanea. Masaccio raffigura
personaggi tratti dalla strada, colti con credibilità nella loro reale,
illuminati a una luce che proietta ombre sul terreno, uomini comuni
che partecipano all’evento storico e miracoloso capaci di attirare la
nosta attenzione forse ancor di più dei protagonisti delle storie
bibliche. Uno tra gli episodi più celebri di questo ciclo di affreschi è
quello di San Pietro che risana gli storpi con la sua ombra.
Nell’affresco, Pietro cammina per strada, seguito da Giovanni. Al
passaggio di Pietro, alcuni infermi, sfiorati dalla sua ombra,
guariscono miracolosamente. Il santo, investito dal potere divino,
appare completamente distaccato dalla realtà circostante, tant’è che lo
spettatore sembra naturalmente portato a volgere lo sguardo verso i
malati, che sono rappresentati con un realismo insospettabile per
l’epoca. L’affresco, con lo strada sullo sfondo e gli sporti in legno che
sporgono dai muri, ci offre una straordinaria testimonianza della
Firenze quattrocentesca. La tradizione vuole che Giovanni sia stato
raffigurato con le sembianze dello Scheggia, fratello di Masaccio e a
sua volta pittore, mentre l’uomo col berretto rosso che si regge sul
bastone, si presume sia un ritratto dello scultore Donatello. La scena
della Distribuzione dei beni e della Morte di Anania racconta di
Anania che, incaricato di offrire ai poveri il ricavato di una vendita,
decide di nascosto di trattenere per sé una parte, colpito per ciò
dall’ira divina, cadde morto ai piedi di Pietro. La vera protagonista
dell’affresco è una giovane donna che emerge in primo piano,
sicuramente bella e orgogliosa e grata. L’artista ce la mostra in piedi
col suo bambino, mentre riceve l’elemosina dell’apostolo. La scena,
anche in questo caso, non è rappresentata a Gerusalemme, bensì nella
Firenze dei primo Quattrocento. L’opera risente di una precisa
interpretazione teologica, fondata sull’attualizzazione dei racconti
evangelici, ciò consentiva di comunicare tali episodi in modo da
rendere più comprensibile agli spettatori dell’epoca la storia sacra. Un
altro ciclo è quello del Battesimo dei Neofiti, una delle scene
maggiormente apprezzate. La scena raffigura Pietro che, servendosi di
una ciottola, battezza la folla in nome di Gesù Cristo. L’occhio
percorre la scena da un personaggio all’altro, compiacendosi di
ammirare una varietà così grande di personaggi. Vediamo un giovane
inginocchiato nell’acqua, mentre un secondo, sulla destra, aspetta,
tremando di freddo, suo turno e, infine, un terzo, dalla corporatura
esile, si sta levando la veste, mentre un uomo barbuto, ancora vestito,
si sta slacciando il corpetto. Si noti la magistrale verisimiglianza
dell’effetto bagnato provocato dall’acqua che scorre sui capelli e sul
perizoma del ragazzo in ginocchio. Nei personaggi che assistono alla
scena si intravedono i fiorentini dell’epoca, di cui non conosciamo
l’identità. La gente comune diventa ora parte di eventi sicuramente
antichi, ma che non hanno mai perso il loro più intimo significato
morale. L’episodio di grande importanza è quello del Tributo. La
scena si riferisce a Mc 17,24-27, dove leggiamo che, a Cafarnao, gli
esattori della cosiddetta “tassa del tempio”, un’imposta destinata al
mantenimento dei sacerdoti e alla cura dell’edificio, chiesero a Gesù
di pagare quanto doveva. Cristo osservò che i figli dei re non sono
tenuti a pagare le tasse; ma per non dare scandalo ordinò a Pietro di
andare in riva al lago di Tiberiade, gettare l’amo per pescare, tirare
fuori il pesce che avrebbe abboccato e prendere la grossa moneta
d’argento che questo aveva in bocca. Pietro ubbidì e con la moneta
trovata pagò la tassa. Il capolavoro masaccesco presenta
contemporaneamente tre momenti di questa celebre pagina
evangelica, secondo l’antica consuetudine, di origine medievale, di
riunire più episodi in una stessa scena. Al centro campeggia Gesù che,
imperturbabile, ordina a Pietro (palesemente perplesso) di andare a
pescare; in fondo a sinistra, Pietro estrae la moneta dal pesce; in primo
piano a destra, Pietro paga il gabelliere, cioè l’esattore. Si noti che
Masaccio ha scelto di relegare il miracolo in una posizione
secondaria, perché il miracolo in sé, alla fine dei conti, ha
un’importanza relativa. Tutti i fatti rappresentati sono sapientemente
collegati dalla rete di sguardi dei protagonisti e dipendono dal gesto
imperativo di Cristo, vero fulcro dell’episodio, cui si lega quello,
subordinato e incerto ma umanissimo, di Pietro. L’apostolo, che ha la
fronte corrugata e gli occhi interrogativi, sembra chiedere conferma di
quanto Gesù gli ha appena ordinato: l’espressione del suo volto, il suo
indicare nella stessa direzione esprimono, allo stesso tempo, domanda
e disponibilità. Questo incontro d’occhi, tra Dio che ordina e l’uomo
che non capisce, ma vuole capire, esalta il significato dell’opera (o
almeno uno dei possibili significati): l’affermazione delle radici
storiche dell’autorità di Pietro, strumento di Cristo nel mondo, e
dunque della Chiesa di Roma, che nella figura del primo papa si
identifica. I corpi dei personaggi, coperti da panneggi morbidi e ben
chiaroscurati, sono costruiti sinteticamente, con ampie campiture e
rapide lumeggiature bianche, e appaiono massicci e scultorei, come
raramente era accaduto nella pittura precedente. Solo Giotto aveva
ottenuto risultati analoghi. Le figure sono tutte illuminate da una
precisa fonte di luce, coincidente con quella reale della finestra (posta
in alto a destra, rispetto all’affresco); infatti, proiettano le loro ombre
verso sinistra. Nonostante la mancanza di uno sfondo architettonico e
la presenza di un solo edificio sulla destra, sia pure prospetticamente
ben definito, l’opera offre una precisa misura dello spazio, affidata
soprattutto al gruppo degli apostoli, che circondano a esedra il loro
maestro e si guardano l’un l’altro piuttosto increduli dopo aver
ascoltato un ordine tanto singolare. Vasari, grande estimatore di
Masaccio, commentando Il tributo nelle sue Vite esaltò proprio tali
«gesti sì pronti che veramente appariscon vivi». Le figure
masaccesche sono concepite come vere e proprie statue dipinte,
tipologicamente neoromane, e risentono non poco della
frequentazione degli amici scultori: se l’impostazione generale della
scena rimanda alla formella donatelliana del San Giorgio e il drago a
Orsanmichele, gli apostoli richiamano scopertamente, anche in alcuni
particolari somatici, il gruppo scultoreo dei Quattro Santi Coronati di
Nanni di Banco a Orsanmichele. Appare appena estraneo allo stile di
Masaccio solo il bel volto dolce e apollineo di Cristo, che difatti
alcuni studiosi propendono ad assegnare a Masolino, notando una
forte somiglianza con l’Eva del Peccato originale. Nel registro
superiore della parete destra si trova il contributo più importante di
Masolino, ossia l’affresco con la Guarigione dello storpio e la
resurrezione di Tabita. Si tratta di due episodi diversi, che secondo
gli Atti avvennero rispettivamente a Lidda e a Giaffa. L’artista,
tuttavia, decise di unificarli nel medesimo spazio. A sinistra, Pietro e
Giovanni guariscono uno storpio davanti a una loggia, rappresentata in
prospettiva. A destra, invece, presso la soglia di una casa, Pietro
resuscita una donna cristiana di nome Tabita. Al centro, passeggiano
inconsapevoli e incuranti due borghesi elegantemente vestiti. Sullo
sfondo, si distende una Firenze rinascimentale magnificamente
riprodotta, con le sue case merlate, le pertiche appese tra le finestre, le
gabbie appese alle pertiche, le scimmiette sui davanzali. In questo
caso emerge con grande chiarezza la profonda differenza tra l’arte
già pienamente rinascimentale di Masaccio, che adotta uno stile sobrio
e sintetico e ricerca la saldezza dei personaggi e l’intensità delle
espressioni, e quella ancora tardogotica di Masolino, molto più incline
a soffermarsi su dettagli accessori che tuttavia gli servono a rendere la
scena ricca e piacevole. Inoltre, a differenza di quanto aveva fatto
Masaccio nel suo Tributo, Masolino non cerca di unificare episodi
diversi attraverso una concatenazione dei gesti e degli sguardi. Al
contrario, mantiene i due miracoli di Pietro nettamente separati, come
se avesse lavorato a due affreschi differenti.
Per molto tempo l’architettura dello sfondo è stata ricondotta alla
mano di Masaccio: ipotesi che tuttavia oggi non è più sostenuta dagli
studiosi. È chiaro, tuttavia, che in questa porzione di affresco
Masolino ha deliberatamente scelto di richiamare lo stile del suo
compagno di bottega.
Colantonio del Fiore

I dati biografici di quest’autore non ci sono noti. Non sono stati,


inoltre ritrovati documenti, che con certezza, lo riguardino. L’ipotesi
della presenza di un documento notarile, in cui un "Cola de Neapoli" è
citato a Roma in qualità di testimone, (Grigioni, C. (1947), Il primo
documento d'archivio su Colantonio, in Arti figurative, III (1947), p.
137) non è sostenuta dalle necessarie prove. Le uniche notizie in
nostro possesso sulla vita dell’autore si ricavano dalle lettera, scritta
nel 1524 dall’umanista napoletano Pietro Summonte al patrizio e
collezionista veneziano Marcantonio Michiel si debbono comunque
alla critica moderna (Nicolini, F (1925), L'arte napoetana del
Rinascimento e la lettera di P. Summonte a M. A. Michiel, Napoli, pp.
160-163, 199-232) che, collezionando le attestazioni del Summonte e
mettendole a confronto con i dati emergenti dall’analisi delle opere, ha
potuto restituire all’artista la centralità del suo ruolo nella produzione
artistica napoletana tra il 1440 e il 1470. Oggi la storiografia considera
l’artista, sensibile alle novità che di volta in volta circolavano in città
il punto di convergenza dei rapporti culturali con Fiandra, Francia e
Spagna, da cui prese le mosse dopo il 1450 anche Antonello da
Messina. Si può congetturare che la formazione di Colantonio sia
avvenuta, tra il 1438 e il 1442, a partire dalle interpretazioni
borgognone-provenzali della pittura di Jan Van Eyck, che circolavano
nella cerchia di Renato d’Angiò, quando quest’ultimo, erede di
Giovanna II, divenne sovrano di Napoli, dove risiedé. Al di là della
veridicità storica di quanto affermato dalla una lunga tradizione che
addirittura ha considerato il sovrano allievo di Van Eyck, è certo che
Renato d’Angiò fu promotore delle più importanti imprese artistiche
nei possedimenti angioini di Francia, ma soprattutto dell’incontro tra
la cultura borgognona di Claus Sluter con quella fiamminga di Van
Eyck. Si tratta di un’opinione recente quella secondo cui, anche a
Napoli, fosse seguito da maestri più rappresentativi di tale tendenza,
fra cui il cosiddetto Maestro dell'Annunciazione di Aix-en-
Provence che, alcuni critici, in passato, hanno tentato di identificare
col Colantonio. Ad ogni modo vediamo che l’opera più antica,
attribuibile al maestro, è il San Girolamo nello studio, conservato
attualmento al Museo di Capodimonte. L’opera mostra chiaramente
una cultura di indubbia ascendenza fiamminga, che viene
reinterpretata secondo la lezione borgognona-provenzale, che
riconduce dirattamente al Maestro dell'Annunciazione di Aix-en-
Provence. Secondo Ferdinando Bologna (Bologna, F. (1950), Il
Maestro di San Giovanni da Capestrano, in Proporzioni, III (1950),
tav. CII e Bologna, F. (1977), Napoli e le rotte mediterranee della
pittura da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico, Napoli,
figg. 32-38, 40s.). L’opera, era, in origine, parte di una complessa
ancora, voluta probabilmente, fra il 1444 e il 1446, da Alfonso
d’Aragona per la basilica francescana di San Lorenzo Maggiore, la
cui parte superiore era costituita da San Francesco consegna la regola
al primo e secondo ordine francescano. Quest’unico polittico era
affiancato da pilastrini in cui erano raffigurati i beati francescani,
dispersi già verso il Settecento. Le tavole vennero trasferite al Museo
di Capodimonte nel 1808 e nel 1922. L’artista, verosimilmente,
dovette dipengere per prima la tavola con San Girolamo, padre della
Chiesa vissuto tra il IV e il V secolo, che libera da una spina la zampa
di un leone, il quale, riconscente, diviene suo mansueto compagno.
Come accennavamo, l’opera è permeata della cultura fiammingo-
borgognona, nella quale il pittore si formò sotto l’influenza di Jan
Van Eyck e Barthelemy d’Eyck, che fu ospite alla corte di Renato
d’Angiò tra il 1438 e il 1442. La chiarezza ottica e il senso acuto della
materia con cui Colantonio, nello studio dell’umanista, rappresenta i
libri, i panni e gli strumenti per scrivere. Lo stile della tavola
superiore, con San Francesco che consegna la regola a Sant’Antonio
da Padova e Santa Chiara, circondati da frati e clarisse, è,
sostanzialmente più vicino a quello iberico, o meglio catalano. Questa
tavola, successiva di uno o due anni rispetto alla precedente, riprende
un affresco trecentesco presente nella stessa chiesa di San Lorenzo e
rientra in un programma di celebrazione della corrente francescana
osservante, come indica la presenza, nella schiera dei frati, di San
Ludovico da Tolosa in vesti episcopali e di San Bernardino che,
seppur morto solo nel 1444, era già in odore di santità. Nello
scomparto della regola, gli angeli del coronamento sono indicativi
della prosecuzione del contratto tra l’artista e Il maestro di Aix-en-
Provence, come le pieghe stesse nei panni dei francescani in primo
piano. Similmente lo sfondo dorato punzonato, le aureole traforate, le
stesse figure delle clarisse e il pavimento di maioliche, le cosiddette
rublejas valenziane, con lo stemmadi Alfonso, verosimilmente
ispirate a quelle di Castelnuovo del 1446,, rimandano alla cultura
catalana,e, in particolare, riecheggiano Jaime Baco Jacomart, che fu
ininterrottamente alla corte d’Alfonso fra il 1440 e il 1451 e che,
attorno al 1443, dipinse a Napoli un retablo. Se, invece, pensiamo alla
spaziatura più aperta dell’intera composizione, alla luce più solare e
comunque più chiara, che agisce favorendo una stesura cromatica più
fresca, non possiamo non vedere un riferimento ad ulteriori
connotazioni francesi e, in particolare, al giovane Jean Fouquet, la
cui presenza è attestata a Roma attorno al 1444 e di lì, sempre nello
stesso periodo, giunto fino a Napoli. Una valutazione più attenta vari
elementi iconografici, presenti nell’ancona, ha consentito di far luce
sull’occasione più probabile dell’opera, otre che al suo contesto
storico-religioso, per giungere ad una datazione plausibile. Se
volgiamo lo sguardo più attentamente ai vari scomparti, vediamo che
questi sono legatri tra loro da una sorta di panfrancescanesimo
iconografico. A partire, proprio da San Girolamo, che quì appare in
vesti francescane. Sul pilastrino, a sinistra, è visibile il beato Silvestro,
anch’egli in abito francescano col camauro papale, suggerendo
un’assimilazione, per altro inconsueta, tra papa Silvestro e fra’
Silvestro, uno dei primi discepoli di Francesco. Se le immagini dei
beati contenuti nei pilastrini appartengono a francescani raramente
raffigurati e comunque poco noti, la parte centrale dell’ancona, ovvero
quella superiore, non mostra solo Francesco che consegna la regola al
primo e al secondo dei tre Ordini da lui istituiti, ma lo fa recuperando
la medesima composizione iconografica di un affresco napoletano,
d’ispirazione giottesca, risalente al 1330-1340, visibile sull’ingresso
della sala capitolare di San Lorenzo. Quest’affresco si lega
ideologicamente alle dispute sull’osservanza della regola francescana
che avrebbero avuto una notevole importanza tra le cerchie
pauperistiche protette da Roberto d’Angiò e da sua moglie Sancia di
Maiorca. L’unica variente che possiamo intravedere nella Consegna
della Regola del Colantonio, rispetto all’iconografia dell’affresco
trecentesco, che abbiamo preso qui a modello, è data dall’aggiunta di
San Bernardino da Siena. Il santo che, qui viene raffigurato in uno
tra i migliori ritratti che sono giunti fino a noi, era stato tra i più
importanti protagonisti dalla ripresa delle dispute francescane nel XV
secolo sull’osservanza della regola. Appare evidente che l’intera
ancona dovette essere pensata, subito dopo la morte del frate senese e,
similmente a quanto accadde altrove, in anticipo rispetto alla sua
canonizzazone avvenuta ne 1450, non solo come una sorta di
monumento commemorativo del francescanesimo da lui professato,
ma anche della sua riflessione spirituale e teologica. Questo
particolare legame con San Bernardino giustifica anche la presenza
in un simile contesto di San Girolamo, raffigurato nella parte
inferiore dell’opera. Sappiamo che il santo senese aveva trovato nelle
« epistole di San Geronimo » la forza per staccarsi da « [..] tutte le
fantasie poetiche e andare dietro alla santa scrittura, piena di molta
midolla e sentenzie » (Quaresimale del 1425, XVII, predica del 20
febbraio). Un’attenta lettura iconografica dell’opera ci restituisce,
inoltre, alcuni spunti utilida cui emerge un interessamento del sovrano.
Pensiamo, ad esempio, alla presenza dei suoi stemmi sulla
pavimentazione dello scomparto dedicato alla regola. Va, inoltre
ricordato, che il beato Giovanni da Perugia, visibile tra i francescani
nei pilastrini, era stato martirizzato a Valencia, che, all’epoca era
capitale di uno dei regni iberici soggetti ad Alfonso, dove fu sepolto e
venerato. In un altro dei pilastrini, è visibile il beato Galbazio da
Rimini. Galbazio, terziario francescano, apparteneva alla famiglia
Malatesta, morto, appena ventenne, nel 1432, aveva sposato la figlia
di Niccolò III d’Este, marchese di Ferrara, e perciò era addirittura
cognato dell'erede di questo, Leonello d'Este, a cui Alfonso
d'Aragona diede in moglie la secondogenita Maria nel 1444,
stringendo rapporti ravvicinati con la corte estense e ricevendo
ripetute visite a Napoli, fra il 1444 e il 1445, dell'altro figlio di
Niccolò III e cognato di Galbazio, Borso. Fra l’altro va ricordato che
la sala capitolare di San Lorenzo, nel marzo 1443, era stata sede del
Parlamento generale del Regno, che aveva sancitò la legittimità della
successione di Alfonso al trono di Napoli e il diritto di successione
dell figlio, Ferrante. Infine, non va trascurato, che Bernardino da
Siena, sin da subito in odore di santità, era morte nei domini
napoloetani e, più precisamente, all’Aquila e che, Alfonso, seguito da
Leonello d’Este, fu tra i più solleciti promotori della sua
canonizzazione (cfr. Piacentino, S. (1950), Fonti bernardiniane
nell'Arch. di Stato di Aquila, L'Aquila, p. 18). In conclusione l’ancona
dovette essere stata pensata per celebrare il movimento
dell’osservanza, secondo gli orientamenti teologici e culturali di San
Bernardino, ma la sua realizzazione è stata un’iniziativa del sovrano
che, come abbiamo visto, aveva un interesse personale nella vicenda,
oltre ad essere legato, sempre per ragioni di stato, alla chiesa stessa di
San Lorenzo, che comunque era sempre il più importante tempio
francescano del suo nuovo regno. La data, che emerge dai riscontri
storico-iconografici, colloca, come abbiamo visto, attorno al 1444-45,
una data che, senza scarti, combacia con quella relativa alle
esperienze storico-artistiche che si riflettomo nell’opera. Le affinità,
che abbiamo rilevato, con il catalano Jacomart, ne fissano un
presupposto al 1443-1444, mentre il riferimento a Fouquet, rinvia
proprio al 1444-45, come indicato dagli storici. La cultura artistica
napoletana, sempre ancorata alle scelte della corte, nel decennio
seguente, si orientò prevalentamente verso modelli fiamminghi, che, a
quella data, la cui conoscenza era oramai di prima mano. In questo
periodo, infatti, sappiamo che Alfonso d’Aragona, che aveva già
mostrato un grande interesse verso la cultura artistica del Nord-
Europa, acquistò alcune opere di Jan Van Eyck, tra cui
un S. Giorgio, firmato "Johanes", nel 1445, il trittico già dei
Lomellino di Genova, un'Adorazione dei Magi e una versione
del Mappamondo, ma anche altri arazzi, cercati appositamente nelle
Fiandre e a Roma, tra i quali queslli della Passione, tessuti su disegno
di Rogen van der Weyden. Merita ricordare che Bartolomeo Facio,
poco prima del 1456, sempre alla corte di Alfonso, redasse le
biografie di Van Eyck e di Van der Weyden. Questi scritti sono
importanti perché testimoniano attestano un preciso e approfondito
orientamento filo-fiammingo nell'ambiente napoletano di quel
momento. Verso il 1450, entra nella bottega di Colantonio il giovane
Antonello da Messina, che assorbe e consuma le premesse del
maestro oltre a quelle francesi, per rivolgersi in seguito, senza
intermediari, verso i modelli fiamminghi.
Un’altra opera di Colantonio, che testimonia ulteriormente la
diffusione dell’arte fiamminga a Napoli è la Deposizione, attualmente
esposta a Capodimonte, eseguita, tra il 1455 e il 1460, per il
cappellone del Crocefisso del convento di San Domenico Maggiore.
La tavola sembra derivare proprio da uno degli arazzi con le Scene
della Passione, tessuti su cartoni di Rogier Van der Weyden,
acquistati da Alfonso. Il forte patetismo delle Marie, ai piedi della
croce e il dolore del Cristo morto, la resa quasi micrografica del
paesaggio con la città murata in lontanza, sono certamente frutto di
questo orientamento filo-fiammingo, diffuso a Napoli. Questa cerchia
di riferimenti si amplia ulteriormente, se spostiamo lo sguardo
sull’estrema sinistra sulla donna in turbante : si tratta, in effetti, di una
citazione puntuale del Compianto sul Cristo Morto di Petrus
Christus, attualmente conservato a Bruxelles, dipinto verso la fine gli
anni cinquanta del Quattrocento. L’artista fiammingo si era formato a
partire dalla lezione di Van Eyck, che, come abbiamo visto, era noto
anche a Napoli, forse grazie a rapporti diretti stabiliti a Napoli con
Colantonio, all’epoca di un suo presunto viaggio in Italia.
Attorno al 1460, fu realizzata l’ultima opera attribuita a
Colantonio, ovvero l’ancona di San Vincenzo Ferreri, proveniente
dalla chiesa napoletana di San Pietro Martire, commissionata molto
probabilmente quale ex voto dalla regina Isabella Chiaromonte,
moglie del figlio di Alfonso, Ferrante I d’Aragona. Nella tavola
centrale è visibile San Vincenzo Ferrer con la mano benedicente,
all’interno di una nicchia semicircolare. Negli scomparti laterali e
nella predella, sono raffigurati episodi della vita e dei miracoli del
santo. La committente, ferventemente devota a San Vincenzo Ferrer,
canonizzato solo nel 1456, fu animatrice delle pratiche religiose legate
alla devozione del santo, con cui la corte aragonese incitò il popolo
napoletano alla resistenza, dopo la grave sconfitta che i baroni ribelli
avevano inferto, nella battaglia di Sarno del 1460, al sovrano (Doria,
G. - Bologna, F. (1954),  Mostra del ritratto
storico napoletano (catal.), Napoli 1954, pp. 4 ss.). Il polittico
pertanto deve essere stato realizzato, subito dopo la battaglia e,
pertanto, verso il 1460. In questo momento, la regina, desiderosa di
raccogliere sempre maggiori consenti, come abbiamo visto, intensificò
le pratiche religiose nella chiesa di San Pietro. L’opera mostra
chiarante un ritorno ad alcuni temi del 1440. Ad esempio, la cella
studio in cui la Vergine appare al santo, ricorda molto da vicino quella
del San Girolamo, nella pala degli Ordini francescani. Vi sono anche
altri riporti da Van Eyck, Van der Weyden, e Peter Christus, che
vengono riordinati in una spaziosità moto più calcolata che in
precedenza. La figura colonnare del Santo, come abbiamo visto
inclusa nella nicchia absidale del pannello centrale, dimostrano una
piena conoscenza delle ricerche prospettiche condotte da Piero della
Francesca, che, verso la fine degli cinquanta, erano stati introdotti in
ambito napoletano dal Maestro di San Giovanni a Capestrano 6 e
che troveranno in Antonelo da Messina un ulteriore
approfondimento. Il polittico rivela, in ultima analisi, lo sforzo di
Colantonio di disciplinare, entro una costruzione spaziale misurata e
credibile, il gusto narrativo e la staordinaria ricchezza di particolari di
ascendenza fiamminga.
Note
1. Grigioni, C. (1947), Il primo documento d'archivio su Colantonio, in Arti
figurative, III (1947), p. 137.
2. Nicolini, F (1925), L'arte napoetana del Rinascimento e la lettera di
P. Summonte a M. A. Michiel, Napoli, pp. 160-163, 199-232.
3. Bologna, F. (1950), Il Maestro di San Giovanni da
Capestrano, in Proporzioni, III (1950), tav. CII; Bologna, F. (1977), Napoli e le
rotte mediterranee della pittura da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il
Cattolico, Napoli, figg. 32-38, 40ss.
4. Piacentino, S. (1950), Fonti bernardiniane nell'Arch. di Stato di
Aquila, L'Aquila, p. 18.
5. Doria, G. - Bologna, F. (1954),  Mostra del ritratto storico napoletano (catal.),
Napoli 1954, pp. 4 ss.

Bibliografia
1. Bologna, F. (1950), Il Maestro di San Giovanni da
Capestrano, in Proporzioni, III (1950), tav. CII.
2. Bologna, F. (1977), Napoli e le rotte mediterranee della pittura da Alfonso il
Magnanimo a Ferdinando il Cattolico, Napoli.
3. De Vecchi, P.- Cerchiari, E. (1999), I tempi dell'arte, vol. 2, Milano.
4. Grigioni, C. (1947), Il primo documento d'archivio su Colantonio, in Arti
figurative, III (1947)
5. Nicolini, F (1925), L'arte napoetana del Rinascimento e la lettera di
P. Summonte a M. A. Michiel, Napoli.
6. Pane, R. (1975), Il Rinascimento nell'Italia meridionale, I, Milano, pp. 73-77.
7. Turner, J. (ed.) (1996), e Dictionary of Art, vol. 7, New York.

- post 1444 - ante 1446, San Girolamo nello studio


tavola, pittura a tempera
125 x 151, 5 cm.
Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.
- post 1444 - ante 1446, San Francesco d'Assisi presenta la Regola agli ordini
francescani
tavola, doratura, pittura a tempera
176 x 150 cm.
in alto sui cartigli - f. qui cumc. hac regula secuti fuerit pax i. n. d. signa. thau.
sup. frontes. viroru. gemengiu - colantonio - lettere capitali - a pennello - latino.
Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.
- 1440-1460, Deposizione di Cristo dalla Croce
tavola, pittura a olio
295 x 148,5 cm.
Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.

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