Bibliografia citata
Fonti
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Studi
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Zapperi 1990 = R. Zapperi, Tiziano, Paolo III e i suoi nipoti. Nepotismo e ritratto di stato, Torino 1990.
1
I.Tiziano e la pittura del tardo Rinascimento a Venezia. Parte I
I.1 L’esperimento manierista a Venezia
"Come è noto, il manierismo fu un fenomeno culturale nato a seguito della mitizzazione dei
sommi protagonisti del primo Cinquecento (Leonardo, Michelangelo, Raffaello), i cui apici
vennero ritenuti invalicabili e assunti dalle nuove generazioni quali modelli paradigmatici.
Le infinite variazioni sui loro "temi" liberarono un'arte nata dall'arte, più che
dall'osservazione della natura, satura di forbite citazioni, competitiva e spesso squisitamente
cerebrale. Ovviamente non esiste una data di avvio - per ragioni simboliche la si è spesso
indicata nel 1520 della morte di Raffaello o nel 1527 del Sacco di Roma -, ma si può ben
riconoscere l'epicentro fu nell'area tosco-romana. La sua diffusione in Italia fu disomogenea,
e nel Veneto s'impose dalla fine degli anni Trenta. A importarla furono artisti che bagnarono
i propri panni nell'Arno e nel Tevere, o che da tali rive provenivano" (Dal Pozzolo 2010)
"A Palazzo Grimani Francesco Salviati affrescò nel soffitto di una sala un tondo con Psiche
onorata come dea, giudicata dal Vasari (1568), in polemica con i veneziani, «la più bella
opera di pittura che sia in Venezia» [pittura andata perduta nel 1815]. Il Salviati inoltre
partecipa alla decorazione del soffitto della sala d’Apollo affrescando quattro scomparti
divisi da ornamentazioni di stucco attorno al medaglione centrale in rilievo con Apollo guida
il carro del sole, probabilmente spettante a Giovanni da Udine. Nei quattro scomparti ricurvi
il pittore ha raffigurato la Contesa tra Apollo e Marsia, Marsia scuoiato, Apollo con
l’oracolo di Delfi e Apollo che insegna la danza alle muse: sono quelle «storiette
bellissime», secondo il Vasari (1568) concepite come fregi «all’antica» con le figure
elegantemente articolate sul fondo di color rosa. [Sono state indicate] derivazioni da
Michelangelo, ma interpretate con un gusto decorativo sciolto e fluente, che oltre a Raffaello
richiama la ritmica parmigianinesca. Con questi fregi, terminati nell’agosto del 1540,
Francesco Salviati, coadiuvato dall’eleganza decorativa di Giovanni da Udine, introduce a
Venezia modi figurativi del tutto nuovo ed inconsueti. È l’inizio di un rinnovamento che
trasformerà il corso della pittura lagunare. […] Il soggiorno veneziano di Salviati fu
importante per la introduzione tra le lagune di una nuova concezione espressiva tipicamente
manieristica. Egli lasciò presto Venezia, dove rimase il discepolo Giuseppe Porta, detto pure
Francesco Salviati e Giovanni da Udine, il Salviati, che ebbe una parte di primo piano nella diffusione del nuovo stile tra le
Decorazione della sala di Apollo, 1539- 40 ca. lagune” (Pallucchini 1981).
Venezia, Palazzo Grimani.
"L'opera del Salviati a palazzo Grimani sarebbe apparsa ancora più radicalmente innovativa in un contesto veneziano.
Decisamente contrario alla tradizionale predilezione locale per i soffitti in legno intagliato e lavorato, il vescovo di Ceneda
[Giovanni Grimani] aveva da poco incaricato Giovanni da Udine, ex socio di Raffaello, di decorare con volte stuccate
"all'antica" alcune sale del suo palazzo, la Sala di Diana e la Sala di Apollo, probabilmente destinate a ospitare la celebre
collezione di antichità classiche; compito del Salviati era completare gli stucchi della Sala di Apollo con quattro affreschi
raffigurati scene legate al culto del dio del Sole. Ispirate allo "stile cammeo" dello stucco centrale di Giovanni raffigurante il
Carro di Apollo, le piccole figure del Salviati sembrano quasi in rilievo, e si succedono in un fregio ininterrotto che trascura
ogni rapporto con lo spazio circostante. L'altro soffitto del palazzo, da lui decorato, raffigurante Psiche e realizzato a olio u una
tavola in legno ottagonale, è andato purtroppo perduto, ma lo schema compositivo dell'opera è stato tramandato in un'incisione
del XIX secolo" (Humfrey 1998).
14
Francesco Salviati, Compianto sul Cristo morto [Lamentazione], 1540 ca. Milano,
Pinacoteca di Brera (dipinta in orgine per Bernardo Moro)
“Anche nella Lamentazione per il Moro è riconoscibile una concessione alla tradizio-
ne veneziana nel relativo calore cromatico e nella dolcezza delle superfici. Ma i
committenti veneziani del Salviati richiedevano esplicitamente opere che
fossero anche coerenti con la voga romana; la Lamentazione risulta quindi enfatica-
mente scultorea nella concezione, con una composizione serrata che ricorda il rilievo,
e contorni marcatamente incisi. La figura della Maddalena, in particolare, appare
volutamente michelangiolesca, mentre le contorsioni di balletto dell’angelo in volo
ricordano ancora una volta il Parmigianino [cfr. acquaforte col Compianto, qui sotto].
Tipica del gusto artistico dell’Italia cen-trale è anche la cura riservata ai dettagli
ornamentali: il vaso della Maddalena in primo piano sulla destra; la fibbia del suo
mantello; il sandalo della figura all’estre-ma sinistra” (Humfrey 1998)
”Nella pala con il Compianto sul Cristo morto, dipinta per il procuratore di San Marco
Bernardo Moro (morto il 5 maggio 1541), e destinata alla distrutta chiesa del Corpus
Domini, la scala monumentale e il tema impongono al pittore [F. Salviati] di decantare
il ritmo grafico in un incastro di forme solenne, ma non meno ricercato. L’emozione
dell’evento si raggela in lezione di stile: i gesti pietosi dei dolenti si sfiorano, senza
quasi toccarsi e si rincorrono in superficie serrandosi attorno al corpo di Cristo; l’an-
damento ad arco della centinatura fa eco alla ricercata stilizzazione a stella del
movimento dell’angelo con gli strumenti della Passione. I colori sono astratti e can-
gianti, le superfici preziose” (Romani 2007).
Parmigianino, Compianto sul Cristo Giorgio Vasari, Sacra Famiglia con san
morto, 1535 ca, acquaforte Francesco, 1541. Los Angeles, County
Museum of Art
“Lo stesso Vasari riferisce di aver portato con sé copie dei disegni miche-
langioleschi per Venere e Cupido e Leda e il cigno; quei modelli, insieme
ai lavori eseguiti nella città dai due ospiti toscani, avrebbero costituito per
Venezia degli esempi permanenti del manierismo dell’Italia
centrale” (Humfrey 1998)
15
Giorgio Vasari, Allegoria della Giustizia, 1542 ca. Venezia, Gallerie dell’Accademia
(già Palazzo Corner Spinelli).
“Nel 1542 il Vasari eseguì a palazzo Corner-Spinelli, che nell’interno era stato restaurato dal Sanmicheli, un soffitto a scomparti
comprendente quattro tavole rettangolari con le rappresentazioni di Virtù (Pazienza, Giustizia, Speranza, Fede) attorno allo scom-
parto centrale con la Carità (andata perduta) e quattro pannelli con Putti ai lati. Le figure delle Virtù, sedute sull’orlo degli spazi
aperti, sono colte dal sott’in su, bilanciate tra teste di personaggi maschili che sporgono dal fondo: sono soluzioni decorative im-
postate con ardito senso dello scorcio prospettico, caratterizzate da una costruzione volumetrica, articolata nelle pose più variate,
in pieno contrasto con il tonalismo pittorico locale. Quello del Vasari era uno dei primi esempi di sistemi decorativi aperti
nei soffitti che si vedevano a Venezia, subito seguiti da quelli di Tiziano e del Porta a Santo Spirito in Isola, ed un decennio dopo
da quelli del Veronese, d’origine mantovana. Nella vita del Gherardi, il Vasari ci fa sapere che «Essendo poi pregato il Vasari
da Michele Sanmichele, architeto veronese, di fermarsi in Venezia, si sarebbe forse volto a starvi qualche anno; ma Cristofano
[Gherardi] ne lo dissuase sempre, dicendo che non era bene fermarsi in Vinezia, dove non si tenea conto del disegno, né i pittori in
quel luogo l’usavano». L’ingenuità dell’argomentazione messa in bocca al Gherardi, cela un disappunto per le fredde accoglienze
riservategli dai veneziani. Ma indubbiamente dopo l’intervento di Francesco Salviati, quello del Vasari fu non meno importante
per il processo di rinnovamento della cultura pittorica veneziana” (Pallucchini 1981).
“Per Giorgio Vasari l’occasione di lavorare a Venezia (dicembre 1541-agosto 1542) venne dal compatriota Pietro Aretino, al quale
da tempo anch’egli usava inviare saggi della sua bravura come quel cartone con una storia di Giulio Cesare, preparato per la
decorazione di palazzo Medici a Firenze. Il letterato insistette perché fosse lui ad allestire la scenografia di una sua commedia, la
Talanta, a testimonianza della quale sopravvivono, oltre alla descrizione dello stesso Vasari, alcuni brillanti disegni a penna su car-
ta azzurra. Vasari fu seguito da aiuti, come il dotato Cristofano Gherardi (1508-1556), e recò in dono per l’ambasciatore spagnolo
a Venezia Diego de Mendoza due dipinti tratti dai celebri cartoni michelangioleschi raffiguranti Leda e Venere. In città il pittore
alloggiava presso il banchiere Francesco Leoni, per il quale dipinse la Sacra Famiglia con san Francesco, oggi al Los Angeles
County Museum, come annota in uno dei suoi ricordi. Nella primavera del 1542 Giovanni Cornaro, rappresentante di un’altra
famiglia legata, come i Grimani, alla curia romana, gli chiese per il palazzo da poco acquistato sul Cana Grande la decorazione
del soffitto di un ambiente «tutto di legnami intagliati e messi d’oro riccamente», entro i quali furono sistemate nove tavole di sog-
getto allegorico. Oggi smembrato e solo in parte sopravvissuto, il soffitto vasariano è costruito su un principio diverso da quell
d’ispirazione all’antica di Salviati. Gli episodi figurativi sono finti contro uno sfondo di cielo, che costituisce l’elemento d
unificazione, ma non accolgono le convenzioni illusionistiche, né trasmettono un reale senso di sfondamento dello spazio. Le
allegorie, presentate con un lieve angolo di scorcio, per evitare effetti sgraziati, sono legate l’una all’altra in forza di un disegno
elegante e astratto che le aggancia alla bidimensionalità del piano, come mostra l’episodio della Giustizia. La novità della formula
vasariana non passò inosservata: il toscano fu incaricato di tre grandi storie per il soffitto della chiesa del convento agostiniano d
Santo Spirito in Isola, che l’amico Sansovino aveva rinnovato su di un’isoletta tra la Giudecca e il Lido, provvedendo con molta
probabilità al disegno complessivo delle cornici e sostenendo il collega nella commissione. Vasari partì da Venezia nell’estate del
1542, lasciando, per sua stessa ammissione, alcuni disegni. La commissione sarebbe stata ereditata da Tiziano. Quanto resta
dell’importante complesso decorativo della chiesa, cui partecipa anche Giuseppe Porta, è riunito oggi nella sacrestia della chiesa
della Salute” (Romani 2007).
16
“L’Incoronazione di spine oggi al Louvre, è stata spesso considerata un’opera
chiave della cosiddetta “crisi manieristica” del Tiziano; in effetti il dipinto, con la
brutalità fisica e la compressione claustrofobica del gruppo dei personaggi,
rappresentato in uno spazio angusto, chiuso da architetture massicce e opprimenti,
si discosta in maniera stridente dalla leggera, pacata Presentazione di Maria al
tempio (Accademia), terminata nel 1538. Rispetto a quest’opera, tradizionale
creazione veneziana, l’Incoronazione lascia intravedere l’eredità michelangiolesca e
gli echi di sculture antiche come il Laocoonte, per esempio nella modellatura
enfatica delle masse muscolari delle figure in azione; ma quest’ispirazione,
chiaramente adeguata al contenuto drammatico del tema rappresentato, sembra
anzitutto derivare non dal manierismo languido ed elegante del Salviati, ma da
Giulio Romano, con cui Tiziano si era tenuto in costante contatto nel corso del
quarto decennio del Cinquecento, mentre lavorava per la corte di Mantova”
(Humfrey 1998).
"Il dipinto, firmato sul gradino, è richiesto a Tiziano, presente a Milano al principio
del 1540, dalla confraternita di Santa Corona, fondata a fine Quattrocento dal frate
domenicano Stefano da Seregno e devota alla Sacra Spina di Cristo, di cui
possedeva una reliquia. In adempimento alle volontà di un suo affiliato, il mercante
di sete Bernardino Ghilio, la grande tavola era destinata alla cappella della
compagnia nella chiesa di Santa Maria delle Grazie. All’atto del saldo, nel gennaio
del 1543, l’opera già viaggia per barca da Venezia in direzione di Milano, dove
figurerà circondata dagli affreschi con Storie della Passione, eseguiti negli stessi
anni dal pittore vercellese Gaudenzio Ferrari. È dunque la seconda opera
dell’artista, dopo l’Allocuzione per l’Avalos, a giungere nella capitale della
Lombardia spagnola e come quella appartiene alla fase più acuta del confronto di
Tiziano con la maniera dell’Italia centrale. È dipinta a un tempo con il Compianto
sul Cristo morto oggi alla Pinacoteca di Brera, eseguito da Francesco Salviati per la
chiesa del Corpus Domini a Venezia, un quadro religioso segnato da una ricerca di
artificiosità formale ignota tra le lagune. Preoccupazioni analoghe rivela Tiziano
nell’invenzione del nodo delle figure dei carnefici che aggrediscono Cristo, spinte
in primo piano da una cupa e monumentale architettura rustica. Mai prima il pittore
aveva mostrato una nozione del colore tanto astratta, caratterizzata da toni freddi e
alti come il verde ramarro e l’azzurro smalto delle vesti dei soldati, che
Tiziano, Incoronazione di spine. 1540-42. Parigi, il recente restauro ha riportato alla luce; mai aveva perseguito una pittura così liscia
Louvre e tornita che sottolinea la monumentalità e l’integrità delle forme. La figura del
Cristo sembra suggerita da riflessioni su modelli antichi in quel momento molto
studiati e citati dai pittori, in particolare da Michelangelo, come il Torso del
Belvedere, allora nelle collezioni papali assieme al Laocoonte che Tiziano pare
ugualmente tenere presente" (Romani 2007).
“La nuova concezione tizianesca, nella quale il colore veniva disgregandosi, allontanava il Sustris spingendolo verso le robuste impalcature
formali. Capolavoro di questo momento è la Venere con Cupido in attesa di Marte del Museo del Louvre.Venere è una figura articolata nelle
ampie falcate delle gambe e delle braccia. La composizione viene acquistando una sua sciolta dinamicità tra il primo piano dominato dal nudo in
movimento e lo sfondo aperto, che si proietta molto lontano, sul quale si muove Marte. Il Ballarin (1962) ha ricordato che il Sustris nella figura
così dislocata e mossa di Venere ha tenuto presente un disegno perduto del Parmigianino. Se l’invenzione è dunque parmigianinesca, la
monumentalità dinamica è ispirata al Tintoretto. «Ma [osserva il Ballarin] mentre nel Tintoretto la torsione si raccoglie in una dinamica
chiaroscurale, nel Sustris si dilata tutta nel piano, in una trascrizione trasparente e colorata, che si allenta in morbidezze e rotondità, sparisce
entro la tessitura quasi acquarellata e insieme vitrea del colore, affiora in una grafia più macchiata, che ne appunta la particolare elezione». È il
colore timbrico del Veronese che evita al Sustris di accettare l’impegno chiaroscurale tintorettesco” (Pallucchini 1981)
17
Il dipinto rappresenta il matrimonio di Cupi-
do, il figlio di Venere, con la Psiche mortale,
alla presenza di Giunone, Giove, Marte e altri
dei dell’Olimpo, come narrato da Apuleio in
L’asino d’oro. Originariamente un ottagono (i
quattro angoli si ritiene siano aggiunte), era
probabilmente il pannello centrale di un
soffitto con scene tratte dalla leggenda di
Psiche dipinta da Schiavone intorno al 1550
per il Castello di Salvatore di Collalto, sulle
colline a nord di Venezia. Lo stile fluido e
pittorico di Schiavone e le proporzioni esage-
rate delle sue figure furono ispirate dal Parmi-
gianino e furono a loro volta importanti per una
giovane generazione di pittori come Tintoretto.
La tela di Hartford è stata identificata già dall’inizio del XX secolo da una parte della critica con una delle due opere realizzate
dal Tintoretto per il soffitto della casa veneziana di Pietro Aretino. Sappiamo infatti che l’artista ricevette questo incarico e in
una lettera del 1545 il poeta lo ringrazia del lavoro: “E belle e pronte e vive in vive, in pronte e in belle attitudini da ogni uomo
ch’è di perito giudicio sono tenute le due istorie: una in la favola di Apollo e Marsia, e l’altra in la novella di Argo e Mercurio, da
voi così giovane quasi dipinte in meno spazio di tempo che non si mise in pensare al ciò che dovevate dipingere nel palco
de la camera, che con tanta soddisfazione mia e d’ognuno voi m’avete dipinta” (Lettere sull’arte di Pietro Aretino, commentate
da F. Pertile, a cura di E. Camesasca, Milano 1957, vol. II, pp. 52-53).
"Con tutta la loro potenza e dinamismo le prime opere di Tintoretto non sono comunque il prodotto di un artista maturo. Sebbene
Jacopo mirasse chiaramente in alto fin dall’inizio della sua carriera, molte opere dei suoi primi anni suggeriscono che egli si stava
muovendo in un contesto di bassa caratura, forse condividendo lo spazio e talvolta le commissioni con pittori dediti a progetti di
routine. Ciò nonostante, verso la metà degli anni quaranta Tintoretto aveva già cominciato a farsi notare. Nel 1545 Pietro Aretino,
promotore a Venezia del nuovo stile romaneggiante, elogiò per iscritto una coppia di dipinti soffittali che l’artista aveva eseguito
18
per lui, uno dei quali è giunto sino a noi" (R. Echols - F. Ilchman, in Tintoretto 1519-1594 2018)
“Nel corso degli anni quaranta e cinquanta del
Cinquecento la maniera del centro Italia
conquistò anche la fantasia del brillante Jacopo
Bassano, che avrebbe fornito i contributi più im-
portanti e originali alla versione veneziana del
manierismo. Molti di questi […] furono eseguiti
per committenti residenti nella sua città natale o
nelle vicinanza; ma egli ricevette anche occasio-
nali incarichi dalla città, come nel caso dell’Ul-
tima Cena della Galleria Borghese, dipinta nel
1546-1548 per il nobile Battista Erizzo.
Probabilmente contemporanea all’Ultima Cena
di Giuseppe Salviati per Santo Spirito in Isola
segnata da un manierismo ormai sobrio e mode-
rato, la versione di Jacopo, al contrario, mostra
una stupefacente combinazione di naturalismo
Giuseppe Porta Salviati, Ultima Cena, sagrestia della chiesa di Santa Maria quotidiano, e artificio accuratamente calcolato, in
della Salute, Venezia cui lo spazio compresso serve a dare risalto ai
complicati disegni dai contorni allungati. Come è
spesso sottolineato, nel suo isolamento
provinciale Jacopo era particolarmente legato
alle stampe come fonti d’ispirazione – in questo
caso l’incisione della Grande Passione di Dürer
del 1510 e quella di Marcantonio da Raffaello –,
ma si recava a Venezia abbastanza spesso da
essere al corrente degli ultimi sviluppi.
Viceversa, le opere di Jacopo che giungevano in
città avevano un forte impatto sugli artisti locali,
in particolare sul Tintoretto, di poco più
.giovane” (Humfrey 1998).
19
“Verso la fine degli anni Quaranta, Aretino comincia a intaccare il mito di Michelangelo con argomenti precocemente controrifor-
mati di decoro, e il letterato e teorico d’arte Ludovico Dolce ne approfitta poco dopo nel suo dialogo intitolato non a caso con il
nome dell’amico toscano (1557), per collocare in chiave antivasariana Tiziano, incredibilmente passato sotto silenzio nella prima
edizione delle Vite (1550), nel novero dei divini, accanto a Michelangelo. A quel tempo i principali maestri veneziani, Jacopo
Bassano in testa, si mettevano sulla strada della rimeditazione dei valori della tradizione veneziana sulla quale a un certo punto
avrebbero riconosciuto la grandezza della ineguagliabile maniera tarda di Tiziano. A questa stagione compete meglio l’etichetta di
tardo Rinascimento, o come alcuni suggeriscono, di autunno del Rinascimento” (Romani 2007)
“L’anno medesimo, essendo stato il Vasari in Vinezia tredici mesi a fare, come s’è detto, un palco a messer Giovanni Cornaro
et alcune cose per la Compagnia della Calza, il Sansovino, che guidava la fabrica di Santo Spirito, gli aveva fatto fare disegni
per tre quadri grandi a olio che andavano nel palco, acciò gli conducesse di pittura; ma essendosi poi partito il Vasari, furono i
detti tre quadri allogati a Tiziano, che gli condusse bellissimi, per avere atteso con molt’arte a fare scortare le figure al disotto
in su. In uno è Abraam che sacrifica Isaac, nell’altro Davit che spicca il collo a Golia, e nel terzo Abel ucciso da Cain suo
fratello”
(Vasari 1568)
Tiziano, Davide e Golia, 1542-44. Tiziano, Sacrificio d’Isacco. 1542-44. Tiziano, Caino e Abele. 1542-44.
Vene-zia, Santa Maria della Salute (in Venezia, S.M. della Salute (in origine Venezia, S.M. della Salute (in origine per
origine per il soffitto della chiesa di per il soffitto della chiesa di Santo il soffitto della chiesa di Santo Spirito in
iSanto Spirito in Isola) Spirito in Isola) Isola)
Le tre tele decoravano in origine il soffitto della navata centrale della chiesa degli agostiniani di Santo Spirito in Isola e pervenne-
ro nel 1657 nella sede attuale a seguito della soppressione di quell’ordine, venendo probabilmente ricollocate secondo l’originaria
disposizione. Originariamente commesse a Giorgio Vasari nel 1541, dopo il rientro di questi a Roma nell’agosto di quell’anno, la
loro esecuzione venne affidata l’anno successivo Tiziano. La scelta dei soggetti rientrava in un complessivo programma icono-
gra ico della chiesa incentrato sugli episodi dell’Antico Testamento in cui vi è prefigurato il sacrificio di Cristo. Le opere vennero
portate a compimento entro il 1544 e rappresentano una delle testimonianze più significative del momento manierista del pittore.
Ciò si evidenzia nella veemenza plastica delle figure e nell’articolazione delle pose esaltata da una forte visione di scorcio dal
sotto in su. Si noti ad esempio la figura di Abele che sembra quasi precipitare sopra l’osservatore o quella piegata del giovane
Isacco di cui scorgiamo il viso rivolto verso il basso. Il gusto per la complicanza delle pose è particolarmente visibile anche nella
figura del giovane David in atto di ringraziare Dio dopo l’uccisione del temuto nemico con le sue gambe che si intrecciano al
braccio sinistro del corpo senza vita di Golia. Sembra attendibile pensare che tale sforzo compositivo teso a esaltare la difficolt
e il virtuosismo tecnico, in accordo con la sensibilità manierista, fosse stato indotto in Tiziano anche dalla committenza che si
era affidata per la decorazione pittorica a due dei principali rappresentanti del manierismo tosco-romano: Giuseppe Porta detto il
Salviati e, appunto, Giorgio Vasari. È significativo che proprio quest’ultimo esprimesse un giudizio molto positivo su tale ciclo
nella seconda edizione delle Vite… (1568) definendoli “bellissimi, per aver atteso con molta arte a far scortare le figure al di sotto
in su”. A questo ciclo appartengono anche otto tondi raffiguranti i quattro evangelisti e i quattro dottori della chiesa,
probabilmente collocati in origine agli angoli delle tre tele, la cui esecuzione si deve però ad un assistente di Tiziano.
“Andando un giorno Michelagnolo et il Vasari a vedere Tiziano in Belvedere, videro in un quadro, che allora avea condotto, una
femina ignuda, figurata per una Danae, che aveva in grembo Giove trasformato in pioggia d’oro, e molto, come si fa in presenza,
gliele lodarono. Dopo, partiti che furono da lui, ragionandosi del fare di Tiziano, il Buonarruoto lo comendò assai, dicendo che
molto gli piaceva il colorito suo e la maniera, ma che era un peccato che a Vinezia non s’imparasse da principio a disegnare
bene e che non avessono que’ pittori miglior modo nello studio: “Con ciò sia - diss’egli - che, se quest’uomo fusse punto aiutato
dall’arte e dal disegno, come è dalla natura, e massimamente nel contrafare il vivo, non si potrebbe far più né meglio, avendo egli
bellissimo spirito et una molto vaga e vivace maniera”. Et infatti così è vero, perciò che chi non ha disegnato assai e studiato cose
scelte, antiche o moderne, non può fare bene di pratica da sé né aiutare le cose che si ritranno dal vivo, dando loro quella grazia
e perfezzione che dà l’arte fuori dell’ordine della natura, la quale fa ordinariamente alcune parti che non son belle” (Vasari
1568).
20
Tiziano, Danae, 1544-45. Napoli, Museo Nazionale di
Capodimonte
Nel 1543 Tiziano si recò a Bologna per incontrare il papa e due anni dopo andò a Roma, dove realizzò una Danae per il nipote del
pontefice, il cardinale Alessandro Farnese. Tiziano dipinse un episodio tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, nel quale la principes-
sa Danae, imprigionata dal padre, viene visitata da Giove in forma di pioggia d’oro. L’accorgimento di spostare l’attenzione del
dipinto sulla donna nuda, posta nell’angolo a sinistra, appare come una variazione della Venere di Urbino e il disegno sottostante
suggerisce che la composizione originaria era ancor più vicina all’opera precedente. Ma mentre nella Venere Tiziano ambiva a
trasformare la pellicola pittorica in carne, nella Danae il risultato è molto più freddo, a cominciare dalla tavolozza, in cui gli ori e
i marroni sostituiscono i rossi e in cui l’unico momento di intensità cromatica si ha nella piccola porzione di cielo che si intravede
sullo sfondo. La tonalità si accorda con il tema del dipinto - l’idea di dipingere la pioggia d’oro sotto forma di monete originan-
ti da saette è un’invenzione tizianesca - , ma il pallido nudo della donna e le superfici metalliche che la circondano danno alla
composizione un effetto più scultoreo. La scelta potrebbe essere stata i fluenzata dal milieu romano, ma strizza l’occhio anche a
Michelangelo, con il quale Tiziano si trovò di nuovo a competere. La postura di Danae riecheggia quella delle allegorie della Cap-
pella Medici e la presenza di Cupido, che sembra personificare l’eros irradiato dalla Venere di Urbino, suggerisce la conoscenza
del dipinto Venere e Amore eseguito dal Pontormo a partire da un cartone michelangiolesco. (Campbell & Cole 2015, pp
487-488)
I.2. Tiziano e i Farnese
21
“Et dove Christo ci dechiarò noi dovere lasciare el padre, la madre, li figli, le proprie case et finalmente el mondo per seguire lui
con dechiaratione che altrimenti non potevamo conseguire el regno del Cielo, tu non solo non osservi questo precetto, come quello
che agli altri doveresti dare exemplo, ma confundendo el cristiano nome, per arricchire i tuoi bastardi et successori (…), non laci
alcuna sorte di scelleraggini a commettere, sopportando tanti loro vizi abominevoli che oggi mai hanno riempito il mondo de
intollerabile fetore, con darli ancora di quelli titoli di che né per legge divina et humana sono capaci né meritevoli” (Lettera di fra
Bernardino a P.P. Paolo III, 1546 ca).
“Sentilo papa Paolo, (…) tu non hai fede né timor di Dio e come te i tuoi figli, cardinali e cortigiani, perché siete proci epicurei“
(M. Lutero, Contro il papato di Roma istituito dal diavolo, 1545)
“[Paolo III] fra tutte le sue virtù, di nessuna faceva maggior stima che della dissimulazione. Egli, cardinale esercitato in sei pontifi-
cati, decano del collegio e molto versato nelle negoziazioni, non mostrava di temere il concilio come Clemente, anzia era d’opi-
nione che fosse utile per le cose del pontificato mostrare di desiderarlo e volerlo onninamente, essendo certo che non poteva essere
sforzato di farlo con modo ed in luoco dove non vi fosse suo avvantaggio, e che quando avesse bisognato impedirlo, era assai
bastante la contradizione che li averebbe fatto la corte e tutto l’ordine ecclesiastico” (P. Sarpi, Istoria del concilio tridentino).
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Eseguito nel 1543, durante un soggiorno emiliano del papa. Avendo
ritratto nel 1542 Ranuccio, nipote di Paolo III e fratello di Alessandro,
questa tela non è stata la prima di Tiziano che vede ritratto un
componente dei Farnese. Tuttavia, non sarà neanche l’ultima, in quanto
circa un paio di anni dopo, durante il soggiorno romano, furono
eseguiti in successione altri celebri ritratti della nobile famiglia.
“Quello che Raffaello dipinse nel 1518, Leone X con i cardinali Giulio de Medici
e Luigi de’ Rossi, è certamente il più celebre ritratto di Stato al quale il nepotismo
abbia dato occasione. Il papa siede come al solito in poltrona, davanti a un tavolo
coperto di un panno rosso, sul quale, accanto al campanello d’argento cesellato in
oro, giace un prezioso messale aperto a una pagina fittamente miniata. Egli la sta
rigirando con la mano, dopo averla osservata con una lente d’ingrandimento dalla
montatura d’oro. A sinistra del papa in piedi, il cugino Giulio de’ Medici, figlio
illegittimo dello zio Giuliano. A destra, sempre in piedi, un secondo cugino, Luigi
de’ Rossi, figlio della zia Maria, fresco della nomina cardinalizia, avvenuta il 1°
luglio 1517. Il cardinale Giulio, che era stato nominato subito dopo l’elezione, il 29
settembre 1513, gli succederà come papa, dopo il brevissimo pontificato di Adriano
VI: Leone X morì il 1° dicembre 1521, Clemente VII fu eletto il 18 novembre
1523. L’importanza politica del quadro è fuori discussione: il papa si presentava
con i due cugini cardinali per avanzare la loro candidatura alla successione. Dato
che la morte soleva infierire allora su tutte le famiglie senza alcun riguardo per la
loro preminenza, era bene metterne avanti due, per il caso che uno morisse prima
del tempo. La sorte giocherà a favore del preferito, il cardinale Giulio che sta a
sinistra del papa e gli succederà di lì a poco, dopo che de’ Rossi era già morto nel
1519. La presenza di due cardinali a fianco del papa non deve quindi trarre in in-
Raffaello, Ritratto di Leone X con i cardin - ganno: essa non intendeva alludere alla possibilità di una terza elezione. Il papa vi
li Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, 1517. pensava certamente, ma sapeva anche che non conveniva affatto per allora dichia-
Firenze, Uffiz rarla” (Zapperi 1990).
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“Considerati i pessimi rapporti con i Medici e i Gonzaga, è poco probabile che i
Farnese conoscessero il ritratto di Raffaello tanto bene da tenerlo presente quando
si trattò di commissionare il loro. Tiziano invece ebbe di sicuro occasione di vedere
e studiare più di una volta a Mantova la copia di Andrea del Sarto. Tanto è vero che
nel suo Ritratto di Paolo III con i nipoti i riferimenti al quadro di Raffaello sono
espliciti e la critica non ha mancato di sottolinearli con la dovuta insistenza. Tutti
questi riferimenti vanno dunque attribuiti all’iniziativa del pittore e questa consi-
derazione aiuterà a stabilire con approssimazione ancora maggiore il significato
complessivo del quadro, la parte che vi ebbero i committenti e fino a che punto i
loro rapporti con Tiziano condizionarono l’esecuzione del soggetto” (Zapperi 1990).
“Ai primi di dicembre del 1545, quando i Farnese dovettero dare a Tiziano le prime
istruzioni per il grande quadro che volevano fargli dipingere, erano passati solo
pochi mesi dalla creazione del ducato di Parma e Piacenza che realizzava finalmente
il loro grande sogno di acquisire uno Stato ed entrare nell’olimpo delle famiglie re-
gnanti. È ovvio presupporre che un ritratto di Stato come quello dovesse riferirsi per
necessità di cose a questo avvenimento. Come primo duca fu investito Pier Luigi
Farnese, che però nel quadro non compare. Lo impedirono due ragioni. La prima, di
carattere più generale, sconsigliava di accogliere nello stesso ritratto accanto al papa
Giuliano Bugiardini, Ritratto di Leone X il figlio suo. Nessun papa che ne avesse avuti l’aveva mai osato, neanche Alessan-
tra i cardinali Giulio de’ Medici e Inno- dro VI, che pure si fece ritrarre in Vaticano dal Pinturicchio in atto di adorare in
cenzo Cibo. Roma, Galleria Nazionale di ginocchio la sua amante Giulia Farnese, rappresentata come la Madonna. In quanto
Palazzo Barberini vicario di Cristo, sommo sacerdote e capo della sua Chiesa, il papa era tenuto al
più rigoroso rispetto del voto di castità. Nel Ritratto di Paolo III e Ottavio Fanese,
dipinto da Jacopino del Conte, porta infatti alla vita il cingolo, che nella liturgia
cattolica simboleggia proprio la castità. Che egli non vi si fosse attenuto per tanta
parte della sua vita di cardinale e avesse invece mantenuto una concubina e generato
quattro figli era meglio non ricordare proprio nel quadro che intendeva legittimare
con la sua autorità di sommo pontefice il nuovo Stato e la dinastia alla quale doveva
appartenere. Il rapporto di parentela che lo legava a Pier Luigi era del resto sin trop-
po noto e non si poteva cercare, come farà ad esempio Gregorio XIII, di fare passare
il figlio per nipote. La seconda ragione, di carattere più contingente, ma non per
questo meno valida, era la resistenza a riconoscere Pier Luigi come duca di Parma e
Piacenza nella quale Carlo V allora si ostinava. Per convincerlo a desistere da essa
e a nulla intraprendere contro di lui non serviva di sicuro sbandierare la sua ingom-
brante presenza anche nel quadro” (Zapperi 1990)
“Invece di Pier Luigi conveniva collocare Ottavio accanto al papa. Anzitutto egli
era nipote e non figlio suo e dato che nella lingua italiana questa parola denomina
sia il figlio del figlio che il figlio del fratello, essa aveva per il papa il vantaggio
permettere l’equivoco e di accreditarlo in qualche modo, almeno agli occhi della
posterità. Ottavio inoltre nella stessa bolla di investitura venne confermato primoge-
nito e in quanto tale designato esplicitamente come erede e successore del padre nel
ducato. Mettere avanti lui voleva dire far sapere a tutti quanti l’avessero visto che
Jacopino del Conte, Ritratto di Paolo III e il prossimo duca sarebbe stato il genero dell’imperatore. L’importanza politica del
Ottavio Farnese. quadro richiedeva che venisse esposto in pubblico e all’attenzione di ogni spettatore
interessato difficilmente poteva sfuggire un aspetto così rilevante. Nelle intenzion
dei committenti, il quadro non doveva rivolgersi quindi solo alla posterità, ma anche
Jacopino del Conte, ai contemporanei, e in primo luogo a quelli più direttamente coinvolti nella fonda-
Ritratto di Orazio zione della nuova dinastia. Carlo V era cioè il suo principale destinatario, a lui si
Farnese voleva che arrivasse la notizia che il papa si affiancava nel quadro il nipote
al quale il ducato prima o poi doveva toccare.
La formula adottata nel precedente dipinto di Jacopino del Conte del 1543 (Ritratto
di Paolo III e Ottavio Farnese) non poteva soddisfare il cardinale Alessandro Far-
nese, che aveva fatto venire Tiziano a Roma, e che voleva quindi entrare anche lui
nel quadro dipinto da Tiziano, un impegnativo ritratto di Stato. La lotta fra i nipoti,
che al tempo di papa Sisto IV aveva debordato e invaso l’affresco di Melozzo, non
poteva non riflettersi anche nel quadro di Tiziano, sebbene il pugno di ferro di Paolo
III riuscisse a mantenerla entro limiti più discreti. Tolti quindi Ranuccio e Orazio”
(Zapperi 1990).
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Taddeo Zuccari, Paolo III nomina Orazio Farnese prefetto di Roma
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“Una volta scartata la posizione in ginocchio riservata alle investiture, se ne poteva cercare una più conveniente nell’ambito della
riverenza, la cerimonia dell’omaggio dovuto al papa, quale vicario di Cristo e detentore della suprema potestà, conferitagli con le
due chiavi, di sciogliere e legare sia nel temporale che nello spirituale. La cerimonia cominciava con tre inchini e si concludeva
con il bacio del piede eseguito carponi. Per rappresentare con sufficiente efficacia il rapporto di dipendenza feudale che legava
nipote al papa come un inferiore al suo superiore, si decise di scartare il bacio del piede, giudicato evidentemente troppo umilian-
te, e ripiegare sul meno imbarazzante inchino. Fu una soluzione ottimale che permise di risolvere brillantemente una complicata
questione di etichetta gravida di riflessi politici. Con ogni probabilità, questa felice soluzione fu raggiunta con il contributo
decisivo dell’artista che aveva egli pure i suoi problemi da risolvere, formali e non politici di certo, e non perdeva di vista i rappor-
ti spaziali per definire l’equilibrio delle figure all’interno del suo quadro. La scelta dell’inchino costringeva a presentare Ottavi
di profili, con una complicazione non da poco rispetto alla geometria del quadro che dispone il cardinale di tre quarti e il papa in
posizione frontale. Fra l’uno e l’altro il piano del tavolo con l’oggetto sopra, che la radiografia ha rivelato in posizione
originariamente diversa, cambiata successivamente per meglio coordinare un così spigoloso trittico” (Zapperi 1990).
“L’analisi del quadro, alla luce del contesto storico che ne spiega e motiva la committenza, rivela, come abbiamo potuto appurare,
un programma politico preciso che fu definito dal papa con l’accordo dei due suoi nipoti. L’intervento dell’artista fu decisivo, ma
certo non su questo piano e ogniqualvolta le soluzioni pittoriche escogitate scontentarono i committenti, egli fu costretto a
ridipingere le parti contestate conformemente ai loro desideri. L’interruzione, in base a tutto quanto è stato rilevato, non può quin-
di attribuirsi all’iniziativa dell’artista. Essa va cercata invece nelle vicissitudini politiche di quei mesi, nella grave incertezza
sul futuro della dinastia che emerse drammaticamente e suscitò nei committenti forti riserve sull’impostazione del quadro e la sua
utilità. Il quadro venne progressivamente a perdere la sua stessa ragion d’essere e fu messo da parte, in attesa che la situazione po-
litica si decantasse. Di questo ripensamento a Tiziano non si fece di sicuro alcun accenno: non erano cose di cui si potesse parlare
con i pittori. Con tutta probabilità, il papa si limitò a ordinargli altri quadri, a sollecitarne con impellenza l’esecuzione, costringen-
dolo indirettamente a interrompere quello già cominciato e quasi finito. In questa manovra poteva contare certamente sulla zelante
collaborazione del cardinale Alessandro, ostile alla primogenitura di Ottavio e felicissimo di vederla pericolare, fosse pure solo nel
quadro” (Zapperi 1990)
La visita di Tiziano a Roma ebbe influenza sull’altra sua grande opera della
seconda metà degli anni ‘40: Ritratto di Carlo V a cavallo del 1548. Dopo il
naufragio del progetto di Leonardo per Ludovico Sforza (1499), i monumenti
equestri fecero presa su pochi committenti ma, grazie al rilievo dato da Mi-
chelangelo al Marco Aurelio, il tema acquisì una nuova popolarità, e non solo
in campo scultoreo. In seguito alla vittoria riportata da Carlo V sulle forze
protestanti a Muhlberg (Sassonia), Tiziano lo ritrasse sul campo di battaglia.
L’artista, che in quello stesso periodo cominciava a coltivare i rapporti col
figlio ed erede di Carlo, Filippo II, oltrepassò le Alpi per incontrare l’impera-
tore ad Augusta e studiò attentamente la scena. Ridusse la composizione agli
elementi essenziali, omettendo il dettaglio degli assistenti che accompagna-
rono Carlo sul campo e qualsiasi riferimento al luogo fisico o alla battaglia
vera e propria, al fine di creare un’immagine senza tempo. Riuscì a mantenere
anche una forte specificità: nel dipinto mancano sia qualsiasi richiamo di tipo
storico sia le allegorie. (Campbell & Cole 2015, p. 489)
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Tiziano, Danae, 1550-53 ca., Madrid, Prado
"Molte delle caratteristiche della maturità stilistica di Tiziano sono evidenti nella Danae dipinta per Filippo II [vedi sopra], probabilmente nel 1550 circa,
comunque prima del 1553. La versione romana precedente appariva già molto sensuale nell'approccio al mito pagano, e caldamente pittorica nell'esecuzione, ma
nella versione per il re di Spagna questi aspetti risultano ulteriormente pronunciati. Il motivo architettonico della colonna scompare a favore di uno sfondo più
amorfo, che presenta, oltre alla pioggia d'oro, anche mosse nuvole nere, mentre il Cupido classicamente collocato è sostituito da un'anziana nutrice dalla pelle
olivastra e rugosa che raccoglie freneticamente le monete d'oro, facendo da contrappunto a una languida Danae, ora completamente nuda. Come si evince dai due
diversi trattamenti del drappeggio sullo sfondo, la mano di TIziano si è fatta più leggera e spezzata, eliminando i contorni e rendendo i colori quasi incandescenti,
come se divampassero dall'interno delle forme. In realtà il pittore non sviluppò in modo significativo queste tendenze stilistiche nel sesto decennio del secolo: nella
successiva tela mitologica per Filippo, Venere e Adone (Madrid, Prado) [vedi sotto], spedita a Londra nel 1554, la mano dell'autore è molto più levigata e la
composizione si avvicina a un artificio manieristico. Curiosamente in questo dipinto Tiziano si ispira, per quanto riguarda il disegno, a un celebre modello
scultoreo ammirato a Roma, il cosiddetto Letto di Policleto, copia rinascimentale di un rilievo classico, il che spiega l'effetto di bidimensionalità della
composizione, con i due personaggi ritratti in posizione contorte nello stesso spazio rappresentativo costruito su diagonali secanti" (Humfrey 1998).
"Le «poesie» – il termine è quello utilizzato dall’artista – sono concepite per costituire una serie, secondo quanto lascia intendere la lettera con cui Tiziano
accompagna la spedizione della tela con Venere e Adone [qui sotto, e pagina seguente]. Il pittore aveva già consegnato al principe una Danae, identificata nel
dipinto oggi al Prado, e promette di concludere a breve due altri dipinti, la Liberazione di Andromeda (Londra, Wallace Collection, 1554-1556) e una Medea con
Giasone, di cui non è noto il destino. Il commento di Tiziano insiste sul concetto di varietà con cui ha concepito la serie, di ispirazione ovidiana, studiando la
presentazione dei nudi delle protagoniste uno in relazione all’altro, in modo che l’insieme risulti «più grazioso alla vista». Le favole mitologiche sono dunque
illustrate dallo stesso autore al destinatario ponendo l’accento sugli effetti di grazia, di difficoltà e di varietà che mettono in luce la destrezza dell’artista. Gli fa eco
in questa lettura Ludovico Dolce quando osserva come Venere sia collocata di spalle «non per mancamento d’arte […] ma per dimostrar doppia arte», una
osservazione che rientra nella questione dibattuta in quegli anni da teorici e da artisti sul paragone tra le arti. Qui è in causa la capacità della pittura di restituire il
rilievo e la molteplicità dei punti di vista, e il riferimento si fa anche più stringente se si tiene conto che il nodo dei corpi di Venere e Adone è ispirato a un rilievo
antico noto all’epoca come il Letto di Policleto. Nella lettera ad Alessandro Contarini ora citata, Dolce non manca di ammirare «la macatura della carne causata dal
sedere», e insiste a lungo sulla eloquenza e maestria del colore poiché, commenta, «non basta il saper formar le figure in disegno eccellenti, se poi le tinte de’
colori, che deono imitar la carne, hanno del porfido o del terragno, e sono prive di quella unione, tenerezza e vivacità, che fa ne’ corpi la natura». Si intrattiene
infine sulla bellezza del paesaggiocon i suoi effetti di luce. «Trovasi ancora nel medesimo quadro una macchia d’un paese di qualità, ch’el vero non è tanto vero»,
osserva Dolce, «dove al sommo d’un picciol colle non molto lontano dalla vista v’è un pargoletto Cupido, che si dorme all’ombra; la quale gli batte dritto sopra il
capo; & al dintorno v’ha splendori e riflessi di Sole mirabilissimi che allumano & allegrano tutto il Paese». [...] La lettera di Dolce restituisce la ricezione che
simili opere avevano nella cerchia dei letterati attorno a Tiziano e insieme illustra la preoccupazione, svolta in modo più esplicito nel dialogo intitolato l’Aretino,
di rivendicare il silenzio di Vasari nei confronti del pittore. Il veneziano era stato solo incidentalmente menzionato nella prima edizione delle Vite (1550), dove la
scelta di limitarsi a trattare degli artisti morti aveva permesso di isolare nella sua eccezionalità Michelangelo, unico vivente cui era riservata una biografia, e al
contempo di evitare la questione, non facile per lo storiografo, dell’importanza edella enorme fama di Tiziano. Insomma, si voleva dimostrare «che Michel’Agnolo
nella Pittura non è solo», come dichiara Giovan Francesco Fabrini, interlocutore di Aretino nel dialogo di Dolce, e che di Tiziano non si poteva dire se fosse
superiore il disegno o il colorito" (Romani 2007)
Tiziano eseguì per la corte spagnola una serie di dipinti mitologici, da lui
chiamati “poesie”. Quest’opera si rifà alle metamorfosi di Ovidio, ma è
chiaro che Tiziano non si considerava un mero illustratore del poema. L’a-
zione dipinta - Venere che tenta invano di impedire al suo giovane amante
di partire per la caccia al cinghiale in cui troverà la morte - non compare in
Ovidio. Tiziano concepisce la scena come un idillio erotico destinato a una
tragica svolta, nel quale contrappone la caparbietà di Adone al pathos
disperato di una dea ormai impotente. Venere e Adone è il poema
personale di Tiziano in cui egli rivendica il diritto di narrare un celebre
mito greco nelle forme caratteristiche della propria arte. Un incarnato
morbido e lucen-te si staglia contro uno scuro paesaggio pieno di ombre; il
cielo turbolento e i cani irrequieti introducono una nota di tensione. Anche
qui Tiziano si misura nel paragone con la scultura: Adone sembra un
adattamento alle figure muscolari di Michelangelo, anche se ha una
delicatezza sconosciuta a quelle. La combinazione di erotismo, emozioni
Tiziano, Venere e Adone. 1554. Madrid, Prado oscure e violenza serpeggiante è un tratto distintivo dell’intera serie.
(Campbell & Cole 2015, p. 499)
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“Viene ora a rallegrarsi con la Vostra Maestà del nuovo regno concessole da Dio, il mio animo, accompagnato dalla presente pit-
tura di Venere e Adone, la qual pittura spero sarà veduta da lei con quei lieti occhi che soleva già volgere alle cose del suo servo
Tiziano. E perché la Danae che io mandai già a Vostra Maestà, si vedeva tutta dalla parte dinanzi, ho voluto in quest’altra poesia
variare e farle mostrare la contraria parte, acciocché riesca il camerino, dove hanno da stare, più grazioso alla vista. Tosto le
manderò la poesia di Perseo e Andromeda, che havrà un’altra vista diversa da queste, et così Medea et Iasone”
(Tiziano, lettera a Filippo II, datata 10 settembre 1554)
Tra il 1554 e il 1562 Tiziano dipinse per Filippo II altre quattro grandiose tele a soggetto mitologico: Perseo e Andromeda
del 1554-56 (Londra, Wallace Colelction), Diana e Atteone e Diana e Callisto del 1556-59 (National Gallery of Scotland,
Edimburgo) e il Ratto di Europa del 1559-62 (Boston, Isabella Stewart Gardner Museum).
Tiziano, Diana e Atteone, 1556-59 ca., Edimburgo, National Tiziano, Diana e Callisto, 1556-59 ca., Edimburgo, National
Gallery of Scotland Gallery of Scotland
“Nelle due favole di Diana, la distanza dalla felice capacità di oggettivazione del mito classico espressa nei Baccanali per
Alfon-so I d’Este, e le ricerche di varietà grata all’occhio del riguardante, sperimentate nella prima serie delle poesie per Filippo
grande.
II è Entro paesaggi popolati di ruderi invasi di vegetazione, dove terra, acqua, colline e cielo si confondono, Tiziano dà corpo
a invenzioni di una carica drammatica fin qui inusitata con una materia fulgida, percorsa da un’animazione quasi febbrile. La tra-
gedia dell’inconsapevole Atteone, il cui improvvido ingresso nella radura del bosco è sottolineato dallo scostarsi del drappo rosso,
subito si manifesta nello sgomento delle ancelle che interrompono il bagno rannicchiandosi nell’ombra. Il superbo nudo di Diana,
oggetto della visione proibita, risplende nel contrasto con la giovane donna nera, coperta di una veste a strisce. Non è da meno la
temperatura emotiva dell’episodio della rivelazione della gravidanza proibita di Callisto a opera di Giove: al sollevarsi del drappo
bruno caldo, il fiotto di luce rivela impietoso il ventre sformato della fanciulla che invano tenta di svincolarsi dalla stretta delle
compagne recedendo nell’ombra con il volto lacrimoso e i capelli scomposti” (Romani 2007).
“È di mano del medesimo [Tiziano] nella chiesa de’ Crucicchieri in Vinezia la tavola, che è alla’altare di San Lorenzo, dentro
al quale è il martirio di quel Santo, con un casamento pieno di figure, e San Lorenzo a giacere in iscorto, mezzo sopra la gratta,
sotto un gran fuoco, et intorno alcuni che l’accendono. E, perché ha finto una notte, hanno due serventi in mano due lumiere che
fanno lume, dove non arriva il riverbero del fuoco che è sotto la grata, che è spesso e molto vivace; e oltre ciò ha finto un lampo
che, venendo di cielo e fendendo le nuvole, vince il lume del fuoco e quello delle lumiere, stando sopra al santo e all’altre figure
principali; et oltre ai detti tre lumi, le genti che ha finto di lontano alle finestre del casamento hanno il lume da lucerne e candele
che loro sono vicine, et insomma il tutto è fatto con bell’arte, ingegno e giudizio”
(Vasari 1568).
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Il secondo lavoro del Martirio di San Lorenzo è la “immagine del Signore Sanct Lorencio” che Filippo II commissiona a Tiziano
nel 1564, al Monastero Reale di San Lorenzo de El Escorial. In generale, segue la composizione ideata dall’artista per un prima
versione del martirio del santo, realizzata tra il 1547 e il 1559 per la sepoltura di Lorenzo Massolo, nell’antica Chiesa dei Crociferi
a Venezia, ove venne poi costruita la chiesa dei gesuiti. Il pittore mantiene il numero di carnefici attorno al martire e il piedistallo
con la statua della dea Minerva a sinistra. Ma seguendo l’idea di realizzare una maggiore verosimiglianza storica e archeologica
del martirio, Tiziano rimuove tutto il grande palcoscenico architettonico e teatrale, che fa da sfondo alla tela dei Crociferi,
sostituendolo con una grave architettura ad arcate immersa nell’oscurità della notte, più in armonia con il luogo esatto in cui era
avvenuto il martirio, i bagni di Olimpiade, vicino al palazzo di Sallustio. Un’altra importante innovazione è la nuova serie di
illuminazioni che ha utilizzato Tiziano in questa versione, sfruttando tutte le possibilità ingannevoli dell’atmosfera notturna, che
servono per evidenziare ulteriormente il corpo spezzato del santo, grazie alla intensità delle fiamme e i luminari disposti sulla base
dell’idolo.
Questa Incoronazione [quella a destra] è identificabile con il dipinto acquisito da Jacopo Tintoretto al momento della dispersione
della bottega di Tiziano, e posseduto poi dal figlio Domenico, al quale Ridolfi (1648) si riferisce come un’«abbozatura di Cristo
coronato di spine». Tiziano vi rimedita l’Incoronazione di spine inviata a Milano nel 1542 [quella a sinistra]: affonda l’incombente
architettura rustica nell’ombra notturna, apre un varco sul cielo invaso da una nuvolaglia plumbea e sguarnisce di qualsiasi
artificio formale il nodo delle figure che si accaniscono sul Cristo. I soldati hanno perduto la potenza plastica e il dinamismo dei
movimenti sapientemente atteggiati per fissarsi in gesti spezzati, che meglio ne incarnano la brutalità; la sofferenza del Cristo,
prima imprigionata in uno studiato contrapposto, ispirato ai modelli della statuaria antica, è ora fortemente interiorizzata. La figura
è come sgonfiata e sottratta all’ombra da poche sgarbate pennellate cariche di materia lì dove giunge la luce della lampada che,
spiovendo dall’alto, percorre a grumi, accesi come faville, la veste, per spegnersi sul lembo posato sui gradini. La «forma antica è
un mito irrecuperabile, il ricordo larvale di una potenza perduta» (Longhi); la luce «frantuma, penetra sovverte le strutture fino a
distruggerle» (Pallucchini). All’esercizio di luminismo freddo, perspicuo, tutto in punta di pennello, dell’armatura del soldato in
primo piano nella tavola del Louvre il pittore ha sostituito una figura in panni cinquecenteschi. Il nero fondo e lustro del corpetto è
accostato al giallo oro delle maniche e al rosso violaceo delle brache: questi colori sono stesi in un tono più scuro a «far da letto»;
quindi «con una pennellata di biacca, con lo stesso pennello tinto di rosso, di nero, di giallo», sono portati fuori a formare «il
rilievo d’un chiaro». I termini citati sono quelli suggeriti a Boschini da Palma il Giovane, che fu presente nella bottega tizianesca
negli anni estremi, per descrivere la tecnica tarda del maestro [cfr. immagine sotto]" (Romani 2007)
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“L’ormai familiare Incoronazione di spine di Monaco, compiuta probabilmente intorno al 1570, è basata sull’ugualmente familiare
Incoronazione di spine del Louvre, terminata più o meno trent’anni prima. Ma nella versione più tarda – significativamente, un
notturno, differenza della prima – la violenza e il dolore fisici lasciano il posto a emozioni interiori. Il soldato che sputa in faccia
al Signore viene eliminato. Cristo stesso non sembra più soffrire fisicamente; piuttosto, Egli sembra provare un sentimento di
compassione assoluta verso i «peccati del mondo intero» (I Giov., 2, 2). Il colore è applicato quasi letteralmente «di colpi» e gli
accenti cromatici più forti sono posti là dove non lo sono quelli narrativi. Nel quadro del Louvre il più intenso stimolo coloristico
è offerto dall’abito rosso di Cristo. Nella versione di Monaco, invece, la veste del Signore è bianca (un bianco, tuttavia, che si
rifrange in un milione di ombre colorate) e l’accento cromatico principale – a parte le fiamme bianche e rosse del candeliere –
dato dal vestito dell’uomo in primo piano, con i calzoni rosso scuro, il farsetto blu e la maniche giallo oro. Il resto è un mare di
bruni, grigi, rari bianchi (i capelli e il colletto del vecchio), con un’unica macchia di rosso sopra la spada del soldato vicino al
margine sinistro. L’ultimo stile di Tiziano – come l’ultimo stile della maggior parte dei grandi maestri – è il risultato di una coinci-
denza di opposti: emozioni intense ed immobilità esteriore; colore e non-colore; tecnica d’esecuzione grossolana, apparentemente
quasi caotica, e ordine e densità di composizione rigidissimi” (Panofsky 1992).
M. Boschini, Le ricche Minere della Pittura Veneziana, Venezia 1674. In queste pagine Boschini descrive lo
stile estremo di Tiziano, riportando il racconto di Palma il Giovane, ultimo allievo di Tiziano. Da confrontare
con il brano di Vasari, riportato a p. 29.
32
I.Tiziano e la pittura del tardo Rinascimento a Venezia. Parte II
I.4 Tintoretto
Le opere di Tiziano di metà secolo lasciano intravedere la possibilità che il pittore avesse abbracciato l’identificazione dell’arte
veneziana con il colore, pur continuando ad alludere alla tradizione del disegno - segno che l’aveva assimilata e superata.
Il giovane pittore veneziano Jacopo Robusti (1518 - 94), noto come il Tintoretto, adottò un approccio sensibilmente diverso.
Questi, che sembra sia rimasto a bottega da Tiziano solo per qualche giorno prima di essere espulso, nel 1548 lanciò la propria
sfida all’egemonia del più anziano artista con Il miracolo di San Marco. L’artista eseguì la grande tela per la Sala Capitolare della
Scuola Grande di San Marco, una delle più potenti confraternite veneziane. a quanto pare la Scuola inizialmente rifiutò, ma in
seguito offrì al pittore altre committenze. Si tratta chiaramente dell’opera di un pittore educato a Venezia: la vivezza cromatica
rievoca i dipinti d’inizio Cinquecento dei Bellini e le vigorose pennellate risentono dell’influenza tizianesca. D’altronde, la
travolgente energia della composizione, accentuata dall’asimmetria, il gioco in apparenza casuale di luci e ombre e la mancanza di
equilibrio indicano la conoscenza delle opere di Michelangelo. A sinistra vediamo un gruppo di figure che si accalca attorno al
corpo scorciato di un uomo nudo, uno schiavo cristiano che si era opposto alle autorità pagane nella sua devozione a San Marco,
che venne miracolosamente salvato dalla tortura e dall’esecuzione. Uno scorcio ancora più sorprendente è quello del santo, che
all’insaputa della folla scende dall’alto, con i piedi incongruamente rivolti verso l’osservatore e il volto appena visibile. Le igure
sedute sotto il trono riecheggiano le statue allegoriche della Cappella Medici di Michelangelo. L’uomo che si tiene stretto alla
colonna e la donna col bambino traggono ispirazione dalla rafaellesca Stanza di Eliodoro. Tintoretto rinnova la tradizione
veneziana e con aggressività reclama per sè un posto al suo interno, insistendo più sfacciatamente sulla riconciliazione di disegno e
colore. (Campbell & Cole 2015, pp. 500-501).
"Lo stesso episodio era stato rappresentato pochi anni
prima da Jacopo Sansovino in uno dei rilievi bronzei
della seconda cantoria marciana (1541-1544), che
costituisce un precedente importante per l'intensità
della visione drammatica nella resa di una folla
concitata, travolta da ondate di passione, assai
vivacemente descritta nelle svariate fogge degli abiti
indossati, negli atteggiamenti e nelle espressioni dei
singoli partecipanti" (R. Battaglia in Il giovane
Tintoretto 2018)
“E, sì come non è naso, per infreddato che sia, che
non senta in qualche parte il fumo de lo incenso,
così non è uomo sì poco instrutto ne la virtù del
disegno che non si stupisca nel rilievo de la figura
che, tutta ignuda, giuso in terra, è offerta a le
crudeltà del martiro. I suoi colori son carne, il suo
lineamento ritondo e il suo corpo vivo, tal che vi
giuro, per il bene ch’io vi voglio, che le cere, le
arie e le viste de le turbe che la circondano sono
tanto simili agli effetti ch’esse fanno in tale opera,
che lo spettacolo pare più tosto vero che finto. Ma
non insuperbi-te, se bene è così, ché ciò sarebbe un
Tintoretto, Il miracolo dello schiavo liberato. 1548. Venezia, Gallerie dell’Acca- non voler salire in maggior grado di perfezione. E
demia. beato il nome vostro, se reduceste la prestezza del
fatto in la pazienzia del fare.” (Aretino)
33
La chiesa della Madonna dell’Orto a Venezia
"Sulle ante esterne [delle portelle d'organo] (ora unite a formare un singolo dipinto) si trovava la Presentazione della Vergine
al tempio, un soggetto che dovette immediatamente stimolare l’istinto competitivo di Tintoretto, dato che questo tema era
stato trattato da Tiziano in un importante dipinto per la Scuola di Santa Maria della Carità. Nella versione tintorettiana, la
figura della Vergine, piccola e sola mentre sale la scalinata, ricorda chiaramente la sua omologa nel dipinto di Tiziano. Ma in
un evidente sforzo di superare il più anziano collega, Tintoretto accentuò il dramma della scena adottando un punto di vista
estremamente basso, enfatizzando la ripidezza della scala e profilando la fanciulla contro il cielo. La sua magistrale soluzione
delle figure collegate in una sequenza che va dall’uomo girato in basso a sinistra (il cui braccio scorciato sembra spingersi
fuori del piano pittorico) alla serie ascendente degli astanti sui gradini per giungere infine al gran sacerdote in alto, sulla
sommità della scala, dà coesione alla scena nonostante il suo sviluppo in profondità. Sebbene il trattamento generale sia
piuttosto cupo, nel dipinto vi sono momenti di colore acceso, intensificato da un uso della foglia d’oro che sulle alzate dei
gradini crea un effetto di mosaico" (R. Echols - F. Ilchman, in Tintoretto 1519-1594 2018). 34
Tintoretto, Fabbricazione del vitello d’oro e Giudizio Finale. 1563-64. Venezia, chiesa della Madonna dell’Orto
"Il soggetto della tela sulla parete destra del coro, il Giudizio finale, offrì a Tintoretto l’occasione di misurarsi con la più celebre opera recente del
più celebre artista dell’epoca, l’affresco di Michelangelo per la Cappella Sistina completato nel 1541. Jacopo non vide mai quell’affresco con i suoi
occhi, tuttavia, come molti veneziani, deve averlo conosciuto attraverso disegni e incisioni. Nella sua versione Tintoretto inserisce alcuni
riferimenti diretti alla Sistina: per esempio l’angelo alato che in basso a destra si lancia in avanti è copiato dall’uomo spinto fuori dalla barca di
Caronte. Ma, sebbene le due immagini condividano la stessa atmosfera di cataclisma, il trattamento di Tintoretto è molto diverso da quello di
Michelangelo; inoltre alcuni contrasti formali avvertono che il pittore veneziano intendeva proporre un correttivo artistico dell’opera romana.
Ancora una volta lo spirito di competizione stimolò Tintoretto a produrre alcune delle sue invenzioni più audaci. Gli scheletri dei morti emergono
dal terreno; i redenti si elevano in uno sfolgorio di luce verso Cristo in cielo; i dannati lottano con la forza della disperazione mentre sono travolti e
precipitati verso le tenebre in un paesaggio spaventoso, rivolto in particolare a un osservatore veneziano: il Dies irae come la definitiva acqua alta.
Avvincente nella sua concezione generale e animato da molti spunti di grande originalità e forza, questo Giudizio finale non riesce tuttavia a essere
pienamente leggibile e coeso nella sua immensa estensione. Al contrario, il telero nell’altro vano, la Fabbricazione del vitello d’oro quasi
certamente secondo in ordine di esecuzione, mostra una padronanza molto maggiore sia della composizione sia del formato. In questo caso
Tintoretto creò una complessa narrazione sequenziale, in cui evitò i problemi incontrati nel Giudizio finale aumentando la dimensione delle figure e
collegando i personaggi fra loro mediante pose e gesti. Nella parte superiore della tela Mosè, trasfigurato, riceve le tavole della legge in un intenso
splendore di luce: la sua figura appare trasparente, quasi fosse definita con una tecnica di disegno, a gessetto o carboncino e lumeggiata con guazzo
bianco. Nella parte bassa è raffigurato il tema raro della fabbricazione del vitello d’oro. Muscolosi portatori reggono un modello in creta del vitello,
il quale è posto in cima a un cumulo di gioielli d’oro che saranno utilizzati per la fusione della statua; segue una folla di personaggi in festa che
recano altro oro. All’estrema destra, uno scultore sta parlando con Aronne, effettivo “committente” della statua. Ai loro piedi giace, inutilizzata,
un’enorme bilancia, allusione alla pesa delle anime nel giorno del Giudizio universale e, dunque, ai peccati commessi dagli Israeliti. Una donna, a
sinistra, aiuta un’altra a togliere gli orecchini, che saranno aggiunti al cumulo d’oro. Accanto a loro è presente una magnifica figura femminile,
vestita d’azzurro, che con la sua posa in torsione e un braccio teso, additante, carica di energia tutta la composizione, una figura “della quale non si
può descrivere la gratia e l’artificio”, scrisse con ammirazione Ridolfi. L’azzardo portò frutti. I contemporanei e i primi biografi di Tintoretto
dichiararono, all’unisono, che i teleri per il coro della Madonna dell’Orto erano fra i massimi conseguimenti dell’artista, opere cardinali nella sua
carriera, persino superiori al Miracolo dello schiavo. Lavorando su dimensioni mai osate in precedenza e con fondi ridotti al massimo, Jacopo
aveva dimostrato al pubblico veneziano che lui e la sua bottega erano in grado di affrontare le commissioni più imponenti. Questo successo 35 lo
rimise innegabilmente in gara per la decorazione della Scuola Grande di San Rocco" (R. Echols - F. Ilchman, in Tintoretto 1519-1594 2018).
La Scuola Grande di San Rocco a Venezia
L’impresa a cui è maggiormente legata la fama di Tintoretto è la decorazione della Scuola grande di San Rocco, compiuta tra il
1564 e il 1587. Il pittore si assicurò la commissione battendo il Veronese e altri celebri artisti perché presentò al concorso un
dipinto compiuto al posto di un semplice bozzetto, dimostrando la propria abilità e rapidità esecutiva, molto apprezzata dai
fabbricieri per il basso compenso richiesto: Tintoretto infatti considerò il lavoro una sorta di atto devozionale.
La decorazione, composta da oltre cinquanta teleri, iniziò al primo piano della Sala dell’Albergo con le Storie della Passione di
Cristo e le figure di Profeti, per poi continuare nella Sala grande con le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento e terminare al
pian terreno nella Sala inferiore con le Storie dell’infanzia di Cristo, le Storie della vita della Vergine e due raffigurazioni di Sant
Eremite.
Tintoretto, Crocifissione. 1565. Venezia, Scuola Grande di San Rocco, Sala dell’Albergo.
"Il dipinto principale della sala dell'Albergo della Scuola di San Rocco è la grande Crocefissione, che il Tintoretto realizzò un anno dopo il
concorso per il soffitto della parete di fronte all'entrata. Come altre tele destinate agli Alberghi delle Scuole Grandi, quali la Predicazione di San
Marco in Alessandria (Milano, Brera) di Gentile Bellini per la Scuola di San Marco, o la Presentazione di Maria (Venezia, Accademia) di
Tiziano per la Scuola della Carità, anche l'opera del Tintoretto appare affollata di personaggi (tra cui molti ritratti), ricca di episodi sussidiari e
pervasa da un'unità pittorica ottenuta attraverso l'iterazione decorativa di aree di colore. Ma nell'immensa fluidità del suo spazio pittorico la
Crocifissione si avvicina al recente Giudizio Finale, scostandosi non solo dai precedenti appena citati, ma anche dalle tele create fino a quel
momento dallo stesso Tintoretto" (Humfrey 1998).
"Nel 1575 la Scuola Grande di San Rocco decise di procedere con la decorazione
del soffitto della sua enorme Sala Capitolare (Sala Superiore) e incaricò
Tintoretto di eseguire i dipinti da inserire in elaborate cornici di legno dorato. Tre
tele centrali rappresentano scene dalla vita di Mosè – Mosè fa scaturire l’acqua
dalla roccia, Mosè e il serpente di bronzo, Raccolta della manna – attorniate da
tele più piccole che illustrano altri episodi del Vecchio Testamento. A Venezia la
formula a quest’epoca acquisita per i dipinti soffittali imponeva un illusionismo
calibrato sulla rappresentazione delle figure di sotto in su secondo un angolo di
circa quarantacinque gradi. Tintoretto utilizzò anche lui questa convenzione, ma
con una gestione dello spazio libera e fluida, non legata a una visione unificata e
strettamente razionale: le sue scene sono strutturate in base alla relazione delle
figure tra loro. In queste composizioni Jacopo sembra davvero aver conseguito la
propria libertà nella definizione dello spazio pittorico, che in esse pare curvarsi e
volgersi, espandersi e contrarsi, man mano che l’attenzione dell’osservatore si
sposta qua e là nell’immagine. La luce gioca liberamente sull’intera scena, senza
alcuna pretesa di razionalità o di coerenza, creando un fantastico effetto
visionario" (R. Echols - F. Ilchman, in Tintoretto 1519-1594 2018).
37
"Proseguendo una ricerca già in atto nel soffitto, nelle Storie della
vita di Cristo [sulle pareti] il pittore confida progressivamente sul
valore espressivo della luce: «mediante il contrasto sempre più
violento tra l’ombra e la luce, svolto in un rapporto dilatato di
profondità spaziali, il Tintoretto raggiunge in questa sala il senso
dell’intervento miracoloso nella vita quotidiana» (Pallucchini, 1982).
Il pittore arriva per questa via a soluzioni di grande originalità, quali
l’ambientazione su due piani dell’Adorazione dei pastori con la luce
divina che irrompe dall’alto del tetto squarciato e si riverbera nella
paglia che invade la capanna" (Romani 2007)
"Sul fondo della sala terrena della Scuola Grande di San Rocco, poste sulle pareti ai lati dell'altare, là dove gli umili
e i bisognosi attendevano conforto, TIntoretto colloca, affrontate, una coppia di tele di sconvolgente immanenza:
raffigurano Maria leggente e Maria in meditazione. La figurina è spersa nel grande paesaggio montuoso: i
tronchi, i corsi d'acquaa, le linee dei colli, i casolari si accendono di riverberi e scintille; le cose si animano di vita
propria in un'atmosfera pulviscolare incandescente, d'evidente drammaturgia. Eseguite fra il settembre del 1582 e
il maggio del 1584, appartengono al programma decorativo originario della sala terrena, il ciclo di Maria.
Collocata in atmosfere visionarie ove TIntoretto tocca il vertice delle proprie possibilità espressive, riiutando le
convenzioni della maniera e assurgendo a una pittura quasi irrazionale per i canoni del tempo, fuori dalle istanze
devozionali più usurate, visualizzando il messaggio cristiano in modo diretto e immediato in un ambiente che
trascolora dalla realtà all'invenzione. E ciò attraverso una luce giunta a ridurre il colore in puro chiaroscuro, in
una pittura essenziale, realizzata con pennellate fulminee, intrise di biacca su una preparazione bituminosa
quando essa non era ancora del tutto essiccata, rendendo così concrete la spuma del torrente o le radici contorte
abbarbicate sul ciglio roccioso" (Villa 2014). 38
Tintoretto, La Vergine Maria in
meditazione, 1582-87. Venezia,
Scuola Grande di San Rocco. Sala
Inferiore.
39
I.5 Veronese
Veronese, Tribolazioni di Sant’Antonio abate. 1552. Veronese, Tentazioni di Sant’Antonio abate.Parigi, Musee du
Caen, Musée des Beaux-Arts Louvre
Commissionato a Paolo Veronese da parte del cardinale Ercole Gonzaga nel 1552 per il Duomo di Mantova, questo dipinto,
le Tentazioni di sant’Antonio, nel 1797 fu requisito dalle truppe napoleoniche e spedito in Francia: dapprima fu esposto a
Parigi, quindi poi trasferito, nel 1802, al Musée des Beaux-Arts di Caen. "La pala segna un momento importante
nell'evoluzione della carriera giovanile di Veronese, quando l'artista era entrato in contatto con l'arte formidabile di Giulio
Romano. Senza dubbio era rimasto colpito dal dinamismo vigoroso degli affreschi di Giulio nella sala dei Giganti di Palazzo
Te, ma era affascinato anche dalle invenzioni più aggraziate dei pittori emiliani. Ciò è particolarmente evidente nei
lineamenti raffinati e nell'abbagliante bellezza della figura femminile, che emerge dall'ombra dello sfondo come le sensuali
eroine di Correggio" (B.L. Brown in Paolo Veronese 2014).
Alla pala mantovana si "lega un raffinato disegno (Parigi, Musée du Louvre, inv. 4842) condotto a chiaroscuro su carta azzurra,
con acquerello bruno e molta biacca per le luci. Considerata la sua diversità, il foglio potrebbe restituire un primo progetto per il
dipinto, poi modificato, o proporre una variante autonoma del tema di quello. Le due composizioni mostrano una nuova
monumentalità e un dinamismo ispirati a Michelangelo, con esiti che si allineano a quelli della generazione di artisti
centroitaliani suoi coetanei, quali quel Taddeo Zuccaro, che nel 1552 era a Verona, al seguito del duca Guidobaldo della
Rovere, governatore delle truppe della Serenissima. Nella tela, l’infierire dei due demoni sul santo costretto a terra diviene
l’occasione per un impressionante nodo che frana in primo piano con un montaggio fantastico di membra, brutale e al tempo
stesso ricercato. Osservando lo stacco della testa irsuta e nera del demonio sulla carnagione luminosa del busto della bella
tentatrice, si avverte già per quale via, in capo a un decennio, il pittore arriverà, con una soluzione tutta pittorica, ad appianare le
forzature del disegno e i gesti più astrusi della Maniera in armoniose suture di piani colorati" (Romani 2007)
40
Palazzo Ducale a Venezia.
Paolo Veronese, tra il 1553 e il 1554, lavora per la sala del Consiglio di Palazzo Ducale destinata ai Dieci. Il Consiglio dei
Dieci di Venezia era uno dei massimi organi di governo della Serenissima, con funzioni di sorveglianza sulla sicurezza dello
stato. La commissione rientrava in un ciclo decorativo più ampio che vide al lavoro, insieme al grande maestro veneto,
monsignor Giovanni Battista Ponchino e lo Zelotti, con le invenzioni allegoriche dell’umanista Daniele Barbaro. La tela
rappresenta in alto nei cieli Giove, padre degli dei, che, imperioso, sconfigge i vizi facendoli precipitare. Accanto a lui è in volo
l’a-quila, raffigurata con le folgori tra gli artigli, mentre appena più in basso “si vede un Angiolo con libro in mano,
dimostrando i delitti riservati da punirsi all’Eccel-so Consiglio, e i suoi Sovrani decreti” (Cronaca veneta sacra e profana,
Venezia, II, 1793, p. 126).
“Rispetto al precedente dei soffitti di Giulio Romano, studiati a Mantova, e a
quelli dipinti da Tiziano nella chiesa di Santo Spirito (ora nella chiesa della
Salute) e a San Giovanni Evangelista (ora a Washington, National Gallery of
Art), Paolo concepì una formula decorativa rinnovata per monumentalità,
dinamismo e grazia. Con la sua abilità di disegnatore riuscì a manipolare le ana-
tomie delle figure in modo da combinare assieme punti di vista diversi, evitando
angoli di scorcio eccessivi, i cui effetti risultano sgraditi all’occhio e rendono
difficile la comprensione dell’episodio per chi guarda da terra. La lezione degli
scorci michelangioleschi traspare nei nodi di figure che personificano i vizi,
dove le invenzioni del Giudizio finale, tradotte con un elegante ritmo di
rotazioni entro un cielo azzurro trasparente, sono rese più lievi dalla luminosità
del colore. L’episodio raffigurante San Marco incorona le Virtù teologali, al
centro del soffitto della sala della Bussola, evidenzia l’artificio di un doppio
punto di vista: le figure delle virtù, poste su uno scalino di roccia, sono costruite
con un’angolazione molto acuta che le dilata contro il cielo e introduce
all’apparizione di san Marco, accompagnato da alcuni angeli, colto da un
diverso e più moderato angolo di scorcio. A raccordare i due episodi e a rendere
plausibile l’inganno all’occhio dello spettatore intervengono soffici nubi irrorate
di luce dorata che attraversano il cielo.” (Romani 2007)
41
"Con lo stesso accorgimento è costruito anche il celebre episodio raffigurante Giunone che versa doni su Venezia, elegantemente
accomodata in groppa al leone di san Marco e accompagnata dai simboli regali dello scettro e del globo, che ci riporta nella sala
dell’Udienza. Lo si può ammirare entro i partimenti lignei, dove è rimasto assieme all’Allegoria detta della Vecchiaia e Giovinezza.
Le due tele risplendono di colori freddi, chiari e preziosi, resi fulgenti da una luce meridiana, con un esito molto lontano dalla
concezione del colore incarnata da Giorgione e da Tiziano. Attraverso la nuova formula, Paolo si impone come un vero specialista
delle «cose del cielo» (Vasari). Subito dopo è chiamato a decorare i soffitti della sacrestia e della chiesa di San Sebastiano
(1555-1556), quindi interviene nel soffitto della Libreria Marciana (1557). A Palazzo Ducale tornerà con ruolo di protagonista nelle
campagne decorative seguite agli incendi del 1574 e del 1577, impegnato ancora soprattutto nei soffitti" (Romani 2007)
42
"Divisata verticalmente dal paramento dell'imponente
palazzo la cui copertura è retta da una colonna tortile -
motivo paleocristiano amato e usato da Giulio Romano -
la scena si caratterizza per un'artificiosità d'illuminazione
assai sofisticata, la violenta luminosità del brano di cielo
solo una delle molteplici fonti di luce. L'angusto spazio
praticabile appare così formidabilmente affollato, pur
essendo solo due i cavalli e quattro le figure sulla ribalta,
a precipitare in avanti in scorci inusitati e violenti, la resa
possente delle muscolature dal dinamismo
michelangiolesco e il cavallo imbizzarrito ripresa di un
motivo pordenoniano. Accentuata dal gioco di rifrazioni
e lumeggiature sulla base scura la figura-quinta di
Mordecai, spicca il contrasto tra la tumultosità dei
protagonisti e la resa sfumata delle figurine affacciate
dalle balaustre, erose dalla luce, poeticamente
fantasmatiche. Un'impresa fondamentale per lo sviluppo
della Maniera a Venezia di cui Boschini (1660) ammirerà
la pennellata sciolta e fusa dell'artificosa tavolozza: «se
puol dir che 'l Pitor, per far sti efeti, / oro l'abia impastà,
Veronese, Il trionfo di Mardocheo. 1556. Venezia, San perle e rubini, / e smeraldi, e safili, più che fini, / e
Sebastiano. diamanti purissimi e perfeti» (Villa 2014).
43
Villa Barbaro a Maser
"La sala raccorda il vano crociato d’ingresso con il giardino posteriore e il ninfeo della celebre villa, edificata sui
colli asolani dall’architetto vicentino Andrea Palladio per i fratelli Barbaro a partire da un nucleo più antico. Il
cantiere era in pieno lavoro tra il 1554 e il 1555 e la costruzione doveva essere prossima a conclusione nel 1558,
quando è ricordata nelle rime di Giovanni Battista Maganza detto Magagnò, mentre una lettera dell’anno
successivo, scritta dalla poetessa Giulia da Ponte a Daniele Barbaro ricorda il ninfeo «divina fonte posta da lei con
tanta mirabile invenzione e artificio che come odo più vaga e dilettevole non si vidde giammai, e che le Muse, vinte
dalla vaghezza di così dilettevole sito, s’abbiano fatto un nuovo Parnaso di lui». Il brano restituisce efficacemente
l’aspirazione a ricreare le abitudini e gli ideali di vita degli antichi ea resuscitarne le forme d’architettura, fatti che
nella terraferma veneta determinarono la fioritura di una splendida civiltà del vivere in villa, culminante nell'opera
di Palladio.
D’altro canto, Marcantonio Barbaro era
appassionato d’architettura e scultore dilettante,
mentre Daniele, patriarca di Aquileia dal 1551, era
studioso di Vitruvio, di cui pubblicò nel 1556 il
trattato tradotto e commentato. Alcuni anni più
tardi Paolo ne eseguì il ritratto (Amsterdam,
Rijksmuseum) in veste di ecclesiastico, seduto a
un tavolo, mentre si volge con atteggiamento
interlocutorio, accennando al volume della sua
opera aperto dinnanzi a sé. I due fratelli ebbero
ruolo attivo nell’impresa della villa e della sua
decorazione, frutto di un incontro di personalità
di artisti e di committenti fuori dall’ordinario.
Veronese approda a Maser dopo l’esperienza degli
affreschi della villa Soranzo (1551) a Treville e del
palazzo di Camillo Trevisan (1557-1558 circa)
nell’isola di Murano. Un’occasione importante
per ragionare sul rapporto tra architettura e
decorazione gli era stata offerta anche dal cantiere
della chiesa di San Sebastiano, dove, dopo il
soffitto, gli furono affidati da decorare il registro
superiore della navata con il coro dei monaci e la
Veronese, Affreschi della sala dell’Olimpo: la volta. 1560-61 ca. Mase , zona absidale.
Villa Barbaro.
A Maser raggiunge la sua più compiuta espressione una concezione decorativa degli interni innovatrice rispetto ai
modelli di osservanza raffaellesca importati da Giulio Romano a Mantova, da Perino del Vaga a Genova, da
Giovanni da Udine e Francesco Salviati a Venezia e in voga negli anni Quaranta. Elemento tra i più cospicui è lo
sviluppo coerente dell’apparato delle architetture dipinte che salda in un insieme rigoroso e monumentale pareti e
soffitti con un effetto di illusionismo integrale. [...] Nella sala dell’Olimpo candide colonne corinzie trasformano le
pareti in un loggiato aperto su paesaggi popolati di rovine antiche, che sorregge un ballatoio da cui si affacciano gli
inquilini di casa. La figura femminile che veste un elegante abito azzurro e stringe in mano due rose è molto
probabilmente Giustiniana Giustiniani, moglie di Marcantonio, con accanto la vecchia nutrice, e il figlio minore
che appare oltre la colonna, attratto dal pappagallo. Dirimpetto compaiono due giovani nei quali si è soliti
riconoscere i figli Almorò e Francesco, intenti a leggere e a giocare con un cane. La volta, compartita da una trama
di cornici marmoree, è riservata all’apparizione celeste. L’ottagono al centro è il luogo delle sette divinità planetarie
Giove, Marte, Apollo, Venere, Mercurio, Diana e Saturno, accompagnate dai simboli dello zodiaco, e dominate
dall’apparizione dell’allegoria della Sapienza divina. Agli angoli della volta, Giunone, Vulcano, Cibele e Nettuno
personificano i quattro elementi, mentre i gruppi di dèi figurati nelle lunette incarnano le stagioni e i frutti che esse
portano nel loro svolgimento ciclico. Al complesso assunto iconografico, che intreccia la dottrina astrologica
dell’influsso dei pianeti sulla terra e sulla vita umana con la mitologia, Veronese aderisce con straordinaria felicità
ed eleganza" (Romani 2007).
44
"Intanto, fra il 1537 e il 1554, non senza problemi anche
gravissimi, è edificata la Libreria Marciana, proto
Sansovino e il figlio Francesco ne tratterà in termini quasi
mitici. «Bellissima e ricchissima» per Vasari, «il più ricco
e ornato edificio che forse sia stato da gli Antichi in qua»
secondo Palladio. La libreria è un centro polifunzionale,
diremmo noi, è biblioteca, ma anche museo, scuola, uffici e
abitazione anche dei procuratori della Repubblica. Cerniera
fra piazza e piazzetta, quinta urbana, gli ordini delle arcate
sono una serie di archi di trionfo. All'interno il trionfo sarà
del colore: nella Sala Grande, destinata a contenere i codici
di Bessarione, ventuno grandiosi tondi del soffitto e filosofi
lungo le pareti, sei di Tintoretto, uno di Veronese - mito
classico e destino umano, conflitto, ascensione e catarsi,
molto neoplatonismo - gloria dello Stato. La Sapienza di
Tiziano dominerà isolata nel vestibolo usato come aula. Per
realizzare il ciclo Tiziano e Sansovino chiamano sette
pittori: GIovanni Demio detto Fratino, Giuseppe Porta il
Salviati, Battista Franco, Giulio Licinio, Giovanni Battista
Zelotti, Paolo Veronese e Andrea Meldolla detto lo
Schiavone. A ciascuno tre tondi di 230 cm di diametro,
pagamento di sessanta ducati, saldati nel febbraio 1557. Il
premio della giuria - Tiziano e Sansovino - nella gara
Veronese, La Musica. 1556-57. Venezia, Libreria Marciana.
voluta dai Procuratori, va a Veronese per i pannelli con il
Canto, la Musica, l'Onore" (Villa 2014).
“sono dipinte tre bellissime donne giovani, una delle quali, che è la più bella, suona un gran lirone da gamba, guar-dando a
basso il manico dello strumento, e stando con l’orecchio ed attitudine della persona e con la voce attentissima al suono:
dell’altre due, una suona un liuto, e l’altra canta al libro. Appresso alle donne è un Cupido senza ale, che suona un
gravecembolo, dimostrando che dalia Musica nasce Amore, o vero che Amore è sempre in compagnia della Musica; e perché
mai non se ne parte, lo fece senza ale” (Vasari 1568).
"Quando il refettorio dei Santi Giovanni e Paolo con l'Ultima cena di Tiziano venne distrutto da un incendio nel 1571, Veronese fu il naturale
candidato per provvedere alla sua sostituzione e l'opera doveva essere appunto un'ultima cena. Destinato a coprire l'intera parete di testa del
refettorio sopra uno zoccolo, il dipinto venne concepito, come gli affreschi di Maser, in termini semillusionistici, con l'ordine gignte delle mezze
colonne che sembra sostenere il cornicione della stanza e le arcate di ordine inferiore apparentemente poste sullo stesso piano della parete. In una
versione più complessa di quella di Maser, il muro è poi annullato dalle vedute che si aprono al di là delle arcate, mentre la scala con la balaustra
ai lati, insieme alla piattaforma nell'immediato primo piano sono pensate per proiettarsi all'esterno nello spazio reale del refettorio. Oltre a creare
un'illusione di staticità e a conferire alla scena un'aura di classica nobiltà, l'architettura ad arcate - che ricorda da vicino quella della Libreria di
Sansovino in piazzetta San Marco - svolge la funzione essenziale di strutturare e organizzare la composizione dei numerosi personaggi. La figura
di Cristo è collocata sull'asse mediano di un disegno fortemente centralizzato e i principali attori sono analogamente seduti tutti sotto l'arco
centrale. Il momento che Veronese ha scelto non è tanto quello dell'istituzione dell'eucarestia, quanto l'annuncio del tradimento; Giuda può
essere identificato con la figura dietro al cane in primo piano che distoglie in modo plateale e colpevole il volto da Cristo. Altri discepoli cercano
di comprendere il significato delle sue parole, mentre quelli più lontani dal tavolo non le hanno ancora sentite bene. Il contrasto espressivo tra il
pacato dramma che si svolge al centro della composizione e l'affaccendato banchetto ai lati è in un certo senso compromesso dall'inclusione 45
nella sezione centrale della figura in scarlatto ed ermellino, che non ha nessun rapporto con la storia dell'ultima cena. L'esame tecnico ha
dimostrato infatti che questa figura venne aggiunta al disegno originale, cancellando un meno incongruo servitore; e si è ipotizzato che
Veronese, avendo avuto sentore in anticipo delle obiezioni dell'Inquisizione, si fosse affrettato a trasformare il suo dipinto in un convito
in casa di Simone, il fariseo, introducendo per questo ruolo la figura in scarlatto ed ermellino. Ma durante il processo gli inquisitori
avanzarono alcune obiezioni anche sulla presenza di «buffoni, imbriachi, thodechi, nani et simili scurilità», che non giudicavano
decorosi né per un'ultima cena, né per un convito in casa di Simone; e neppure si lasciarono ingannare dalle frettolose modifiche del
pittore, dal momento che non c'era traccia della peccatrice, protagonista essenziale della storia (Luca, 7, 36-50). Ordinarono dunque di
«correggere et emendare»; e lui corresse, solo che, invece di modificare il dipinto, si limitò ad aggiungere un'iscrizione che toglieva
ogni riferimento con il mistero dell'ultima cena, centrale nel cristianesimo, o con il convito in casa di Simone, ripescando l'episodio
teologicamente meno delicato e quasi sconosciuto del convito in casa di Levi, il pubblicano (Luca 5, 29-32)" (Humfrey 1996).
46