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Il Neoclassicismo Federico Tognoni

La Villa Medici è un complesso architettonico situato sulla collina del Pincio accanto
a Trinità dei Monti a Roma. Nel 1576 la proprietà fu acquisita dal cardinale
Ferdinando de' Medici, che fece completare i lavori da Bartolomeo Ammannati.
Secondo il gusto dell'epoca, una parte dei ruderi furono interrati, mentre bassorilievi
e statue romane riemerse dalle vigne venivano incastonate, in una sorta di grande
museo all'aperto, nella facciata della villa e nel grande giardino che richiamava i
giardini botanici creati da suo padre Cosimo a Pisa e a Firenze. Con la morte di
Giangastone de’ Medici la Villa passò ai Lorena, che la misero in vendita nel 1787.
Dopo dodici anni, in un periodo di grandi tensioni politiche a seguito della campagna
d'Italia, la villa pervenne alla Francia; successivamente, nel 1803, Napoleone
Bonaparte firmò il contratto di acquisto e vi trasferì l'Académie de France à Rome.
La creazione dell’Accademia di Francia a Roma coincise con la politica dei grandi
lavori pubblici intrapresa alla fine del XVII secolo da Luigi XIV, grazie alla quale
furono trasformati il Louvre, le Tuileries e Versailles. Creata nel 1666 su impulso di
Jean-Baptiste Colbert e Gian Lorenzo Bernini, l’Accademia accoglieva sia i vincitori
del Prix de Rome, sia i borsisti protetti dai grandi nobili francesi. I giovani artisti
nominati dal re, avevano la possibilità di accrescere la loro formazione grazie al
contatto con Roma e l’Italia.I borsisti in residenza erano sottoposti a una disciplina
rigorosa e dovevano dedicare il loro soggiorno alla realizzazione di copie di opere
antiche e rinascimentali da portare in Francia.
Jacques-Louis
David, Il
giuramento degli
Orazi, 1784. Olio
su tela, 3,30 x 4,25
m. Parigi, Musée
du Louvre
Jacques-Louis David (1748-1825) fu uno dei più autorevoli rappresentanti
del Neoclassicismo europeo. Formatosi in patria, nel 1775 ottenne l’ambito
Prix de Rome, una sorta di borsa di studio che gli consentì di recarsi a
Roma, all’epoca centro culturale ancora molto vivo, per studiare e copiare
statue antiche e dipinti moderni. Durante i cinque anni vissuti nella città
papale, David entrò in contatto con l’ambiente culturale neoclassico,
frequentando artisti, letterati, teorici. Tornato a Parigi, iniziò a dedicarsi alla
pittura di soggetto mitologico e storico, illustrando soprattutto episodi della
storia delle pòleis greche o della Roma pre-imperiale.
In queste opere, fece sfoggio di una grande cultura archeologica: trasse
pose e sembianze dalla statuaria classica, curò i particolari
dell’abbigliamento studiando ogni testimonianza visiva in suo possesso,
ricostruì gli ambienti con una meticolosità da erudito. Introdusse nelle sue
opere una forte componente ideologica: i temi da lui affrontati sono infatti
exempla virtutis, ossia propongono esempi di virtù etiche e politiche. I quadri
di David, tra cui, Il giuramento degli Orazi, esaltano la caducità della fortuna
umana, i valori del bene pubblico che superano gli affetti personali.
Già dal 1781, ossia dal suo ritorno a Parigi, David sognava di realizzare una grande
tela con il celebre duello fra gli Orazi e i Curiazi. Nel 1784, ottenuta finalmente
l’ambita commissione da parte del conte d’Angiviller, ma su incarico del re di Francia,
l’artista ripartì per Roma. Lo scopo di questo nuovo viaggio era di trovare la giusta
ispirazione: il quadro, nelle intenzioni di David, doveva essere un capolavoro, l’opera
capace di dare una svolta alla sua carriera. Esposto nel 1785 all’esposizione d’arte
più importante di Parigi, il cosiddetto Salon, il quadro fu celebrato come «il più bello
del secolo».
Il soggetto è tratto dalla Storia di Roma (I, 24-25) dello storico latino Tito Livio (59
a.C.-17 d.C.), poi ripreso dalla tragedia Horace (1639) del drammaturgo francese
Pierre Corneille. Sotto il re Tullo Ostilio, Roma era in guerra contro Alba Longa. Si
decise di affidare la sorte del conflitto a un duello fra i tre figli di Publio Orazio, i fratelli
romani Orazi, e tre fratelli Curiazi, Albani, che degli Orazi erano cugini. Il duello
sarebbe stato all’ultimo sangue: chi avesse vinto avrebbe decretato anche la vittoria
della propria città. Dei sei duellanti sarebbe poi sopravvissuto un solo uomo, un
Orazio.
Una volta arrivato a Roma, David decise di modificare parzialmente il soggetto,
concentrandosi su un momento della storia cui né Tito Livio né Corneille fanno
riferimento: quello in cui i tre Orazi giurarono al padre che avrebbero sacrificato la
propria vita per la patria, combattendo contro i Curiazi fino alla morte. Da qui il titolo Il
giuramento degli Orazi.
Il giuramento si svolge in un atrio simile a un palcoscenico, animato da un
pavimento spartito in fasce marmoree e grandi riquadri di laterizi disposti a
spina di pesce. Sul fondale si articola un portico di colonne tuscaniche
sormontate da tre archi. Al centro della scena è il padre, che tiene le spade
invocando il giuramento; a sinistra i tre figli, stretti fra loro e con le braccia
tese come le armi che stanno per impugnare. A destra si scorge un gruppo
di donne piangenti. L’anziana vestita di scuro è, verosimilmente, la madre
degli Orazi, non ricordata dalle fonti e qui abbracciata a due bambini, forse i
nipoti.
La fanciulla vestita di bianco è la sorella dei tre Orazi, fidanzata di uno dei
Curiazi. La donna al centro dalla veste azzurra è la moglie del maggiore
degli Orazi, a sua volta una Curiazia.
La composizione dell’opera è scandita dal portico che si trova sul fondo. I
tre archi dividono, idealmente, la scena in tre parti e incorniciano i
protagonisti: da sinistra, i fratelli Orazi, il padre e le donne. Il padre, posto in
prossimità del centro, occupa una posizione privilegiata. Una serie di altri
assi compositivi verticali, parte dei quali coincidenti con i fusti delle colonne e
gli spigoli delle pareti scandiscono la scena. Le fasce marmoree del
pavimento creano invece una sequenza di assi orizzontali tra i quali si
distribuiscono le figure. La presenza di questi assi visivi verticali e
orizzontali, che si equilibrano fra di loro, conferisce un senso di stabilità
all’intera immagine.
L’ambiente in cui si svolge l’episodio del giuramento è raffigurato in
prospettiva centrale. Le linee prospettiche del pavimento convergono
verso il punto di fuga, il quale coincide con il pugno chiuso dell’anziano
genitore che solleva in alto le tre spade. Verso quel punto sono rivolti
anche gli sguardi di tutti e quattro i personaggi maschili. Tutte le figure
maschili sono a loro volta inscrivibili in forme triangolari. Al contrario, la
forma semicircolare degli archi è richiamata dalla posizione delle donne,
disposte a semicerchio, e anche dalle singole pose dei loro corpi. L’opera
appare priva di compiacimenti virtuosistici di stampo rococò. Le figure
maschili, illuminate da una luce ferma e limpida, sono statuarie, chiuse
nel loro contorno attentamente delineato. Il rilievo dei loro corpi è affidato
a un chiaroscuro molto deciso. Le figure femminili sono invece illuminate
da una luce più soffusa. David usa pochi colori: questo perché l’opera
risulti chiaramente leggibile e immediatamente comprensibile.
Il significato del dipinto è chiaramente etico: ci sono valori che
prevalgono su altri e che vanno rispettati pagando qualunque prezzo.
Questo episodio di storia ci pone, prima di tutto, di fronte a una tragedia
familiare: di sei uomini, cinque moriranno. Orazi e Curiazi sono soldati
ma anche figli, mariti, padri, fidanzati. Al termine del duello, i genitori
perderanno i figli, i bambini resteranno orfani, le sorelle piangeranno i
fratelli, il marito, il promesso sposo. Orazi e Curiazi sono accomunati da
un sicuro e crudele destino di dolore, comunque vadano le cose. Ma
gli affetti familiari devono essere sacrificati quando la patria chiama.
Jacques-Louis David,
Marat assassinato, olio su
tela (165×128 cm),
1793, Bruxelles, <museo
reale delle belle arti del
Belgio.
La tela presenta Marat, politico e giornalista, abbandonato alla morte. Il corpo
emerge dalla vasca come da un sarcofago, con il capo avvolto in un panno
che evoca l'infula di un antico sacerdote. L'uomo ha in mano la lettera con
cui Carlotta Corday gli chiedeva udienza, per introdursi in casa sua, ed ha
accanto una cassa di legno che funge da scrittoio, con penna e calamaio,
sulla quale l'artista appone la propria dedica: À MARAT - DAVID.
Nel dipinto David non ricorre a tradizionali repertori retorici per commentare
l'omicidio, ma si limita a descrivere il fatto, dal quale tuttavia emerge la virtù di
Marat e, di conseguenza, la condanna del delitto.
Il tribuno era sofferente da tempo, e tuttavia continuava a lavorare; era
povero, come dimostra la rozza cassa che gli fa da tavolino, e perciò onesto;
era generoso, perché, benché povero egli stesso, mandava un assegno a
una donna il cui marito difendeva la patria in pericolo; il delitto è tanto più
infame, perché perpetrato contro un uomo virtuoso ricorrendo all'inganno
della falsa supplica.
La composizione, di accentuata essenzialità, è costruita su un ritmo
orizzontale spezzato dal braccio del morto che cade verticalmente, ed evoca
in alcuni tratti - la solennità, la ferita al costato, l'espressione mansueta della
vittima - quasi la figura di un Cristo morto, come ricorda il reclinare del capo
sulla spalla e il braccio che evoca quello analogo della
giovanile Pietà michelangiolesca e della Sepoltura di Caravaggio. Più della
metà del dipinto è vuota e buia, a evocare la morte e il lutto.
David, Sabine che arrestano il combattimento tra Romani e Sabini, 1794-1799, olio su tela,
385 x 522 cm. Parigi, Museo del Louvre
l tema raffigurato è un seguito del leggendario Ratto delle Sabine, e precisamente
l'epilogo di tre anni successivo al violento rapimento: i Sabini, tentando di
riprendere le loro donne rapite dai romani guidati da Romolo, si scontrarono con
essi. I contendenti decisero di battersi a duello, ma l'intervento delle donne Sabine
con i loro bambini fece cessare ogni ostilità. Il centro del dipinto è infatti occupato
da Ersilia, che spalanca le braccia, le donne sabine e i bambini nati dall'unione con
i Romani, che cercano di impedire lo scontro tra Tazio, Romolo e gli eserciti delle
due città. La posa di Ersilia è chiaramente ispirata da un dipinto di Nicolas Poussin,
L'Adorazione del Vitello d'oro.

Per questo dipinto a soggetto storico David rompe con lo stile severo e lineare che
usava per Il giuramento degli Orazi a favore di uno stile più realistico e morbido,
fatto di corpi resi con linee curve ed eleganti, su ispirazione della pittura vascolare
greca. Un esempio è la scelta di dipingere nudi alcuni soldati e i bambini.

David cominciò i primi schizzi quand'era in prigione (in quanto amico e sostenitore
di Robespierre). Dopo la caduta dei giacobini, infatti, il potere era passato nelle
mani del Direttorio. Lo stesso David dovette quindi rivedere le sue idee. È un
messaggio personale dell'artista (l'esecuzione avvenne in carcere e in assenza di
committenti), a favore di una riconciliazione delle varie parti politiche e sociali di
Francia dopo il terrore successivo alla Rivoluzione.
David sembra quindi invitare i suoi connazionali a deporre le armi e a raggiungere
la pacificazione nazionale.
Jacques-Louis
David, Napoleone
Bonaparte al
passaggio del Gran
San Bernardo,
1801, olio su tela,
cm 260 x 221 cm.
Parigi, Rueil-
Malmaison, Musée
National du Cháteau
de Malmaison
Jacques-Louis David fu incaricato da Napoleone di creare la sua immagine
imperiale, attraverso una grande opera, per celebrare la sua grandezza in
Europa. Il dipinto infatti testimonia la forza del primo console ritraendolo
come un eroico condottiero al valico del Gran San Bernardo.
Il volto di Napoleone è fermo, sereno e assertivo mentre l’espressone del
cavallo è spaventata, tesa. Il risultato di questa scelta è la rappresentazione
di un condottiero dal carattere deciso e forte che riesce a domare la furia
naturale e a trattenerne la tensione.
Per rafforzare la sua fama di grande imperatore, Napoleone fece dipingere
su delle rocce, sulla sinistra, i nomi di Carlo Magno che passò le Alpi al
Cenisio con le sue truppe, nel 773 d.C., per combattere contro i Longobardi.
Inoltre si legge il nome di Annibale, il cartaginese che, in occasione della
Seconda Guerra Punica, nel III secolo a.C., giunse in Italia, valicando le
Alpi, per sfidare i romani.
Jacques-Louis David dipinse le diverse versioni del ritratto di Napoleone tra
il 1800 ed il 1803. Il primo dipinto fu commissionato dal re di Spagna Carlo
IV con lo scopo di favorire un’intesa con la Repubblica francese. Le tre
versioni che seguirono furono realizzate poi a scopo propagandistico. La
quinta infine fu dipinta da David autonomamente e rimase di sua proprietà.
Antonio Canova, Monumento funebre a Maria Cristina d'Austria, marmo, m
574, Vienna, Augustinerkirche
L’invenzione: il monumento a Tiziano

Nel 1790 Antonio Canova aveva ideato su commissione del veneziano


Zulian un monumento a Tiziano Vecellio, che avrebbe dovuto essere
collocato nella chiesa dei Frari. Un’opera nuova per concezione e
significato. Una piramide attraversata dall’ombra nera di una porta, verso
la quale tre figure femminili (le allegorie di pittura scultura e architettura)
si dirigono in una mesta processione. Sono le arti che piangono la
scomparsa di Tiziano, ritratto in un medaglione. L’opera non fu realizzata
(è nota attraverso disegni e bozzetti) per la morte improvvisa dello Zulian.
Canova non volle rinunciare all’idea, consapevole di avere creato
qualcosa di totalmente nuovo. Non si trattava del consueto monumento
funebre, con il sarcofago per le spoglie del defunto, una statua che ne
perpetuasse il ricordo e immagini allegoriche a simboleggiare la morte e le
virtù del personaggio celebrato (come lo stesso Canova a Roma aveva fatto,
nei monumenti a Clemente XIII e Clemente XIV). Il monumento progettato
per Tiziano era diverso: scompare il sarcofago, sostituito dalla piramide,
simbolo del trapasso dal mondo fisico a quello incorporeo dell’aldilà, il
defunto è ricordato solo con un sottile profilo a bassorilievo, rimangono le
figure allegoriche, ma non è necessario conoscerne il significato simbolico
per cogliere il senso dell’opera, una meditazione sull’esistenza umana, che
va oltre la celebrazione del defunto.

Nel 1798 Canova conobbe a Vienna il duca Alberto di Sassonia, vedovo


di Maria Cristina d’Austria, che gli commissionò la realizzazione della
tomba della moglie. Canova intuì la possibilità di creare finalmente l’opera
progettata anni prima per Tiziano. Il lungo carteggio tra i due testimonia
come lo scultore si sottragga gradualmente ai canoni imposti dal duca,
giungendo con cortesia e fermezza a convincere Alberto di Sassonia (che
partiva da un’idea molto diversa) della efficacia delle proprie idee. L’opera fu
inaugurata nel 1805.
Una lenta processione si avvia verso il buio profondo di una porta scavata
sulla faccia di una piramide. Tre fanciulle a capo chino, la più giovane delle
quali ha quasi oltrepassato la soglia nera, recano un’urna e ghirlande di
fiori. Sono seguite da una donna che sorregge un vecchio cieco e da un
bambino. Alla base della piramide un genio alato (il genio del duca)
sembra assopirsi appoggiato ad un leone (la fortezza) privo di energia.
Ricordano la defunta solo un medaglione posto sopra l’ingresso della
piramide con il ritratto di profilo di Maria Cristina e i simboli araldici delle
case di Asburgo e di Sassonia, seminascosti tra il genio alato e il leone. Il
ritratto della principessa è incorniciato da un serpente che si morde la coda
(simbolo di eternità) e sorretto da una figura alata, la Felicità.

Gli strascichi degli abiti che ricadono sui gradini suggeriscono il lento e
faticoso incedere delle donne, che a capo chino vanno incontro
all’oscurità. La porta nera rappresenta il mistero della morte, cui nessuno
può sottrarsi; destino ineluttabile di fronte al quale l’uomo può solo chinare
la testa; la morte coglie chi vuole, è una giovinetta a varcare per prima la
soglia dell’aldilà (nella processione è stata vista una allegoria delle tre età
dell’uomo).
Tutto allude allo scorrere inesorabile del tempo, il tappeto che
scivola dalla porta della piramide e scende sulle scale,
collegando la vita (l’esterno) al mistero della morte (l’interno
della piramide), il genio alato e il leone le cui energie vitali
sembrano affievolirsi lentamente, i panneggi degli abiti che
risalgono con fatica i gradini. Il marmo scolpito da Canova
evoca il silenzioso e ineluttabile fluire, esprime la sensazione
di profondo dolore con il quale l’umanità accetta impotente il
proprio destino. Un’opera elegante e sobria, di grande
equilibrio e simmetria, le cui forme levigate e pure si ispirano
ai principi del neoclassicismo, ma che racchiude una
commovente ed intensa meditazione sulla vita e sul mistero
della morte, che anticipa la nuova sensibilità romantica.
Afrodìte Medici, copia antica da un originale del III sec. a.C. Marmo. Firenze, Uffizi.
Antonio Canova, Venere italica, 1804-12. Marmo, altezza 1,72 m. Firenze, Palazzo
Pitti, Galleria Palatina.
La Venere italica
Sebbene fosse stata spedita per sicurezza da Firenze a Palermo, e affidata in
custodia ai Borboni di Napoli per scampare alla sorte del trattato, anche l’Afrodìte
Medici, tra le più celebri statue della Grecia classica (la sua presenza è
documentata per la prima volta nel 1638 a Roma, a Villa Medici, da cui il nome) fu
sottratta dai commissari francesi del Direttorio che la inviarono a Parigi per volere di
Napoleone. Inizialmente, il re d’Etruria, Ludovico I di Borbone, valutò di
commissionare a Canova una semplice copia ma l’artista preferì eseguire un’opera
del tutto originale. Come già la Venere Medici, di cui questa canoviana ripropone il
modello, la Venere italica del Canova (1804) è colta in una posizione pudica, mentre
si copre il seno per ripararsi da sguardi indiscreti. Il tema di Venere al bagno è un
puro pretesto per la rappresentazione del nudo femminile atteggiato in modo delicato
e sensuale.
La statua canoviana fu straordinariamente apprezzata dal poeta Ugo Foscolo, che
ricordando la Venere italica confessò: «Io dunque ho visitata, e rivisitata, e
amoreggiata, e baciata, e, ma che nessuno il risappia, ho anche una volta
accarezzata, questa Venere nuova». E aggiunse: «Se la Venere dei Medici è
bellissima dea, questa ch’io guardo e riguardo è bellissima donna; l’una mi faceva
sperare il paradiso fuori di questo mondo, e questa mi lusinga del paradiso anche in
questa valle di lacrime». All’opera fu riservato con tutti gli onori il posto del
capolavoro perduto agli Uffizi; e quando la Venere Medici tornò a Firenze, fu
trasferita a Palazzo Pitti, dove ancora si trova.

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