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L’indagine retrospettiva sull’assassinio

di Enrico IV, che introduce nella


narrazione storica la suspense del
poliziesco; i ritratti efficacissimi di Luigi
XIII, di Richelieu e della sua “Eminenza
Grigia”, padre Joseph; la cornice di
intrighi politici, scene mondane e imprese
militari nella quale è racchiuso l’intreccio
principale: tutto in questo romanzo, per la
prima volta tradotto in italiano, avvince e
seduce il lettore, trasportandolo in
un’epoca che non solo rivive davanti ai
suoi occhi, ma sembra attirarlo e
coinvolgerlo con la forza magica di una
prodigiosa illusione. La Sfinge Rossa è un
sorprendente esempio della capacità di
Dumas di raccontare le grandi vicende
della storia in una forma che stimola
l’immaginazione e si imprime nella
memoria: grazie all’impatto drammatico e
visuale del suo narrare, Dumas ha vinto la
sfida del tempo e la sua opera approda al
XXI secolo con stupefacente vitalità e
intatta freschezza.
ALEXANDRE DUMAS

LA SFINGE ROSSA
a cura di Radu Portocala
Traduzione di Gabriella
Mezzanotte
Introduzione di Mariolina
Bongiovanni Bertini
ISBN 9788852054303
Da Scott a Michelet:
Dumas tra storia, romanzo e teatro
di Mariolina Bongiovanni Bertini
Il XIX secolo è stato definito, molto
giustamente, l’età d’oro del
romanzo. Se già nel secolo
precedente le finzioni romanzesche
avevano cessato di essere un puro
mezzo di svago, per proporsi come
luogo di riflessione su destini
individuali e rapporti sociali, è
nell’Ottocento che il romanzo
moderno comincia a essere
considerato lo strumento principe
per descrivere la società nei suoi
complessi ingranaggi e nelle sue
rapide mutazioni. Tra le molte
varianti di questo genere in ascesa,
quella del “romanzo storico” è la
prima ad affermarsi in Francia. Nel
1820 il giovane Balzac, non ancora
celebre, colloca sullo sfondo della
Calabria medioevale le avventure di
un cardinale dall’improbabile nome
di Huberdully; nel 1823, Victor
Hugo ventunenne celebra il genio di
Walter Scott con accenti ispirati:
Limitiamoci a meditare su questo
singolare Walter Scott che ha saputo
attingere dalle fonti della natura e della
verità un genere ancora ignoto, che è
nuovo perché sa farsi tanto antico quanto
vuole. Le sue composizioni uniscono alla
minuziosa esattezza delle cronache la
grandezza maestosa della storia e
l’interesse incalzante del romanzo. È un
genio possente e curioso che indovina il
passato, un pennello fedele che sa
tracciare un ritratto somigliante partendo
da un’ombra confusa, e ci costringe a
riconoscere perfino quello che non
abbiamo mai visto; una mente flessibile e
solida che sa adattarsi al cachet particolare
di ogni secolo e di ogni paese come cera
molle, e ne conserva l’impronta per la
posterità, come un bronzo indistruttibile.

All’origine della voga travolgente


di Scott in Francia c’è la traduzione
di Ivanhoe, nel 1820. I personaggi
pittoreschi – dal buffone alla strega,
da Riccardo Cuor di Leone al
perfido templare e alla bella ebrea –
affascinano il pubblico con la varietà
delle loro fisionomie, mentre luoghi
e oggetti, descritti con precisione
inusitata, conferiscono al racconto
una suggestiva parvenza di
autenticità. «Fu più che un
successo» scrive un attento studioso
di questo fenomeno, «fu
un’infatuazione.» Accanto ai
volumi, è in vendita per gli
appassionati il busto in gesso del
grande scozzese; per accelerare la
traduzione delle sue opere, gli
editori dividono ogni romanzo tra
quattro traduttori (tre dei quali,
secondo il maligno Stendhal, non
sanno l’inglese); negli appartamenti
e nelle palazzine alla moda fa la sua
comparsa almeno uno studiolo o un
salottino in stile “moyenâgeux”, con
massicci mobili scuri, arazzi e
vetrate colorate. Tra il 1820 e il
1830 non sembra esserci via più
sicura al successo dell’imitazione di
Walter Scott; non a caso Balzac
metterà in scena, in Illusions
perdues (1837), un giovane poeta di
provincia che tenta di farsi strada,
nella Parigi della Restaurazione, con
un romanzo intitolato L’Archer de
Charles IX. Ma la tentazione del
romanzo storico contagia anche
personaggi di ben altra portata: lo
stesso Balzac accarezza a lungo il
progetto di un ciclo intitolato
Histoire de France pittoresque, e il
grande storico Augustin Thierry, nel
1824, scrive all’erudito Fauriel,
ospite a Brusuglio di Manzoni, che
ha appena terminato la prima stesura
della Storia della Colonna Infame:
«Dite al vostro amico che desidero
singolarmente vedere la sua nuova
opera per decidermi sulla questione
del romanzo storico e magari tentare
io stesso qualche composizione di
questo genere».
Quando il ventunenne Alexandre
Dumas, nella primavera del 1823,
arriva a Parigi è singolarmente
all’oscuro delle mode culturali del
giorno. Coltiva ambizioni poetiche e
teatrali, ma guarda a modelli ormai
superati, la cui gloria risale ai tempi
dell’Impero; l’onda del nascente
romantisme non ha toccato la
cittadina nella quale è cresciuto,
Villers-Cotterêts, in cronico ritardo,
come tutta la provincia, rispetto alla
capitale. Viene assunto, per copiare
lettere e documenti con la sua grafia
elegante e chiarissima, negli uffici
del duca d’Orléans, al Palais-Royal;
è lì, a due passi dal prestigioso
Théâtre Français, che la sua
educazione fa passi da gigante. Alla
sua scrivania è addossata quella di
un sottocapo trentenne, Lassagne,
appassionato di teatro e di
letteratura. Quando Lassagne scopre
che il suo giovane collega ignora
Goethe, Walter Scott e Fenimore
Cooper, gliene consiglia
immediatamente i romanzi più
celebri. Poi gli annuncia, con una
certa solennità, che la Francia è in
attesa di un nuovo genere: il
romanzo storico. «Ma la storia di
Francia è così noiosa!» sospira
Alexandre, che la conosce soltanto
dai banchi di scuola. È noiosa per
chi non risale alle fonti, ai
brillantissimi autori di cronache e di
memorie che l’hanno narrata “dal
vivo”, gli spiega Lassagne; e
dischiude davanti a lui un nuovo
mondo suggerendogli di leggere
Joinville e Froissart, Pierre de
L’Estoile, il cardinale di Retz, Saint-
Simon e molti altri. «Se volete
scrivere romanzi» aggiunge, «non
basterà che leggiate questi autori;
bisognerà che li sappiate a
memoria.»
Questa conversazione con
Lassagne, che instrada il futuro
romanziere ancora ignaro sulla via
dei suoi più strepitosi successi, è
raccontata da Dumas, con la
consueta verve, nei suoi Mémoires.
Come tutti gli aneddoti di cui
Dumas dissemina la sua narrazione,
non corrisponde probabilmente a un
fatto reale, ma sintetizza con
efficacia un momento della sua vita:
il momento della scoperta di quella
miniera di situazioni drammatiche e
romanzesche che è la storia di
Francia dal medioevo al XIX secolo,
tra intrighi e conflitti, scontri di
grandi individualità, crudeltà,
misteri e fulgidi momenti di
eroismo. La lettura di Ivanhoe rivela
poco dopo a un Dumas affascinato
che si può far rivivere il passato,
conferirgli agli occhi del lettore la
concretezza di un quadro o di uno
spettacolo teatrale:
Quando l’autore mi ebbe introdotto
nella sala da pranzo romanica del vecchio
Sassone; quando ebbi visto le fiamme del
focolare, alimentate da un’intera quercia,
riflettersi sul cappuccio e sull’abito del
pellegrino ancora sconosciuto; quando
ebbi visto tutta la famiglia del thane
prender posto alla lunga tavola di quercia,
dal proprietario del castello, re nelle sue
terre, sino all’ultimo servitore; quando
ebbi visto apparire l’ebreo Isacco con il
suo berretto giallo e sua figlia Rebecca
con il suo corsetto d’oro; quando il torneo
di Ashby m’ebbe fatto assaporare per la
prima volta i grandi colpi di spada e i rudi
colpi di lancia che avrei ritrovato nelle
cronache di Froissart, oh! allora, poco a
poco, le nubi che limitavano la mia vista
si sollevarono e cominciai a scorgere altri
orizzonti...

Le grandi scene della storia


passata possono rinascere in forma
di tableaux: dipinti dai colori ora
cupi ora smaglianti, come quelli di
Géricault o di Delacroix, ma anche
tableaux nel senso teatrale del
termine, grandi quadri drammatici e
pittoreschi che s’impongono al
pubblico con un impatto visuale ed
emotivo ignoto al teatro classicista.
Ed è proprio sui palcoscenici
parigini che Dumas coglie il suo
primo grande successo, il 10
febbraio 1829, con Henri III et sa
cour. La fonte del soggetto è uno dei
memorialisti di cui Lassagne gli
aveva consigliato la lettura: Pierre
de L’Estoile. Nei suoi Mémoires è
raccontato in poche righe
l’assassinio di un favorito di Enrico
III, Saint-Mégrin, aggredito dai
sicari del duca di Guise all’uscita dal
Louvre. Documentandosi con rapide
e intense letture di altri autori del
tempo, Dumas procede come sempre
procederà per mettere a punto i suoi
testi – teatrali o narrativi – di
carattere storico. Per la ricostruzione
dello sfondo, lascia libero corso alla
fantasia, preferendo la suggestione
d’insieme al dettaglio erudito;
quanto ai conflitti politici e alla
psicologia dei personaggi, ne adotta
una versione vigorosamente
semplificata, sacrificando la
complessità del reale, i suoi margini
d’incertezza, il chiaroscuro delle
motivazioni contraddittorie. Il
trionfo della pièce, come ricorderà
qualche anno dopo il critico
Hippolyte Castille, è clamoroso:
Gli innamorati della bella duchessa di
Guise e l’ardente Saint-Mégrin, la lotta
ora sorda e nascosta, ora aperta e
temeraria del duca di Guise contro il re, il
drammatico contrasto tra quel re esangue,
prostrato sotto il peso del suo giustacuore,
e la maschia figura del duca di Guise,
sempre bardato di ferro e sempre in
azione: da tutto questo risultava un’azione
grande e forte, un dramma energico,
possente, che non poteva non
impressionare le masse. L’effetto fu
immenso.

La stessa formula, ravvivata da un


pizzico di scandalo, è alla base, nel
1832, del successo di La Tour de
Nesle; trasferita poi dall’ambito del
teatro romantico a quello della
narrativa, farà di Dumas il sovrano
incontrastato del romanzo storico
popolare, più ricco d’azione, di
suspense e di atmosfera che di
riflessioni filosofiche, di descrizioni
particolareggiate o di ricostruzioni
dall’esattezza meticolosa.
D’altronde, non bisogna lasciarsi
ingannare dalla vivacità e dalla
linearità delle narrazioni storiche
dumassiane: per evocare quelle
scene che hanno i colori smaglianti
delle images d’Épinal e l’ingenuità
dei vetrini da lanterna magica,
l’autore ha letto e assimilato con
passione non soltanto fonti e
documenti d’epoca ma anche le più
notevoli e impegnative opere degli
storici del suo tempo. Nel 1830,
l’Histoire des ducs de Bourgogne di
Prosper Barante desta la sua
ammirazione incondizionata:
Per la prima volta – annota nei suoi
Mémoires – uno storico francese lasciava
alla cronaca tutto il suo carattere
pittoresco, alla leggenda tutta la sua
ingenuità.

Dall’Histoire des ducs de


Bourgogne, non propriamente
romanzata ma trasposta in «scene
storiche», «un genere letterario
intermedio tra il romanzo e il
dramma», nasce nel 1835 Isabel de
Bavière. Nel frattempo, Dumas ha
scoperto un’altra miniera: l’opera di
Augustin Thierry, «un intero mondo
vivente, a distanza di dodici secoli,
nell’abisso cupo e profondo del
passato». A Thierry (e a
Chateaubriand) si rifà in Gaule et
France, che esce nel 1833; ma lo
storico destinato a ispirarlo più
profondamente e più durevolmente
sarà Jules Michelet. Tutto in
Michelet è congeniale a Dumas: la
vastità degli orizzonti, che
abbracciano le vicende della Francia
dal medioevo al XIX secolo, la
concezione della storia come
“resurrezione” del passato e la
convinzione incrollabile che il vero
protagonista della storia stessa sia il
popolo. Al Rinascimento, all’età di
Luigi XIII, all’epoca rivoluzionaria
Dumas guarderà costantemente,
negli anni della sua produzione
romanzesca, attraverso Michelet;
infine, estremo omaggio, in Le
Sphinx Rouge tradurrà in forma
narrativa buona parte dei volumi
dell’Histoire de France consacrati a
Enrico IV e a Richelieu. E da
Michelet, che a sua volta lo ammira
e lo considera «una forza della
natura», gli arriverà il più prezioso
dei riconoscimenti, quello del suo
genio di «divulgatore»:
Michelet, il mio maestro, l’uomo che
ammiro più di tutti come storico, e dirò
quasi come poeta, mi diceva un giorno:
«Voi avete insegnato la storia al popolo
più di tutti gli storici messi insieme». Quel
giorno ho trasalito di gioia dal profondo
dell’animo; quel giorno sono stato
orgoglioso della mia opera.

L’elogio formulato da Michelet


valorizza la componente essenziale
del genio di Dumas: la sua capacità
di trasmettere a un vasto pubblico
popolare le grandi linee della storia
– i conflitti fondamentali e le figure
dominanti di ogni epoca – in una
forma accattivante, assimilabile,
capace di stimolare l’immaginazione
e di imprimersi nella memoria. Le
Sphinx Rouge – pur con il suo finale
un po’ tronco, che lascia il lettore in
sospeso – è un esempio eccellente di
questo dono dumassiano. L’indagine
retrospettiva sull’assassinio di
Enrico IV, che introduce nella
narrazione storica la suspense del
poliziesco; i ritratti efficacissimi di
Luigi XIII, di Richelieu e della sua
Eminenza Grigia, padre Joseph; la
cornice di intrighi politici, scene
mondane e imprese militari nella
quale è racchiuso l’intreccio
principale: tutto avvince e seduce il
lettore, trasportandolo in un’epoca
che non solo rivive davanti ai suoi
occhi, ma sembra attirarlo dentro di
sé, coinvolgerlo con la forza magica
di una prestigiosa illusione. La
consumata esperienza del Dumas
drammaturgo contribuisce in modo
determinante alla vivacità del
racconto, non soltanto alimentando
un dialogo brillantissimo, ma
trasformando ora in dramma ora in
commedia i momenti salienti
dell’azione: la rocambolesca
liberazione della dama di Coëtman
dalla sua prigione nelle segrete di un
convento; le scene in cui Luigi XIII,
che ha congedato Richelieu, a poco
a poco si accorge di come tutto il
funzionamento della macchina dello
Stato dipenda dal cardinale; gli
ambigui, e a volte grotteschi,
rapporti del re con i suoi favoriti. È
proprio il genio teatrale, permeando
la narrativa dumassiana, a farne una
creazione a parte, di più facile e
immediata fruizione, per il lettore di
oggi, rispetto al resto della
produzione romanzesca
dell’Ottocento. Grazie all’impatto
drammatico e visuale dei suoi
racconti, Dumas ha vinto la sfida del
tempo e la sua opera approda al XXI
secolo con una vitalità e un’intatta
freschezza davvero stupefacenti. Il
lettore di Le Sphinx Rouge, iniziato
ai più oscuri segreti di Maria de’
Medici e alla vita galante dell’hôtel
de Rambouillet, messo in presenza
del vecchio Sully e del giovane
Mazarino, condotto attraverso le
Alpi alla presa di Susa e alla
conquista del forte di Pinerolo, non
può che confermare il giudizio che
lo stesso Dumas formulava su di sé,
con l’orgogliosa modestia del
grande artigiano:
Lamartine è un sognatore; Hugo è un
pensatore; io sono un divulgatore. Di quel
che c’è di troppo tenue nel sogno
dell’uno, di quel che c’è di troppo
profondo nel pensiero dell’altro, me ne
impadronisco io, il divulgatore; do corpo
al sogno dell’uno, do chiarezza al
pensiero dell’altro, e servo al pubblico
questo duplice piatto. Dalle mani del
primo, l’avrebbe nutrito
insufficientemente: troppo leggero! Dalle
mani del secondo gli sarebbe risultato
indigesto: troppo pesante! Dalle mie,
condito come si deve, si adatta
pressappoco a tutti gli stomaci, ai più
deboli come ai più robusti.
Prefazione
di Radu Portocala
Parigi, 1865. Gazzette di ogni
genere – piccole finestre aperte sul
mondo, sogno degli scrittori in cerca
di pubblico – nascono e muoiono
una dopo l’altra, quasi tutte
dimenticate prima ancora di essere
state conosciute. Solo poche, che
riescono ad assicurarsi la
collaborazione delle grandi firme del
momento, conquistano il favore
degli abbonati e sopravvivono
almeno per la durata di quelle
prestigiose collaborazioni. Il merito
di Jules Noriac, scrittore e
giornalista di grido, è di averlo
compreso e soprattutto di essere
riuscito a convincere Alexandre
Dumas a scrivere per il quotidiano
che intende lanciare, «Les
Nouvelles», un grande romanzo
inedito all’altezza dei Trois
mousquetaires: «Un romanzo storico
di quelli che sapete fare tanto bene»
avrebbe suggerito Noriac. 1
Non occorre altro per riattizzare
nell’anima di Dumas quella passione
che da quarant’anni conferisce alla
sua opera un respiro senza pari:
raccontare il passato. La tentazione è
troppo forte, l’accordo si conclude
quasi sui due piedi.
Il primo numero delle
«Nouvelles» esce il 21 settembre
1865 e già il 7 ottobre successivo (n
° 17) una nota della redazione
annuncia l’imminente pubblicazione
del primo capitolo del Comte de
Moret. 2 Ritroviamo questa nota più
volte, in bella evidenza, a indicare
l’orgoglio con cui il giornale
accoglie il suo illustre
collaboratore. 3
Nel frattempo Dumas scrive a
Noriac per esporgli le considerazioni
che lo hanno guidato nella scelta
dell’argomento. 4 Non è sua

abitudine, spiega, «fare pubblicità ai


[suoi] romanzi» e se questa volta
decide di farlo è perché crede
nell’opportunità, nell’utilità della
propria scelta, e perché ci tiene. Si
mette quindi al lavoro senza
indugio. Il primo capitolo del
romanzo appare sul n° 27 delle
«Nouvelles», il 17 ottobre 1865.
Si è subito colti da un dubbio:
Dumas è stato davvero attratto dalla
breve e tutto sommato poco
interessante vita di Antoine de
Bourbon, conte di Moret, bastardo
riconosciuto di Enrico IV? oppure
ha scelto apposta un personaggio
minore per dare a se stesso il
pretesto e la libertà di un’altra
incursione nell’epoca che fra tutte
gli è più cara, quella di Luigi XIII,
epoca che esercita su di lui un
irresistibile fascino? al tramonto
della vita, sente forse ancora una
volta il bisogno di chinarsi su di
essa, di scrutarla con occhi diversi,
di esplorarne le più estreme risorse
romanzesche?
Non si fatica a figurarsi Dumas
che inizia a lavorare a questo
romanzo come se tornasse in
famiglia, felice di ritrovare quei
personaggi a lui ben noti, reali o
immaginari, che già da un po’
aspettano di riprendere a recitare,
grazie alla sua penna, il tortuoso
spettacolo di una grande epoca. In
mezzo a loro lui si trova bene – a
suo agio con i re e le regine, gli
asceti e i crapuloni, a suo agio nel
cuore oscuro dei complotti – e loro
nella fantasia di Dumas si sentono a
casa. Quei personaggi, lui li
moltiplica a piacere, ne ha cura,
attribuisce a ognuno un ruolo, li fa
passare da un libro all’altro, per
sottolineare la continuità del suo
percorso. In loro compagnia, si
mostra a tratti beffardo, gouailleur,
come dice lui rimpiangendo che il
termine sia ormai uscito dall’uso, e a
tratti cupo, capace sempre di
accordare la propria penna alle
esigenze dei loro destini.
Sarebbe a un tempo facile e
ingiusto dire – come purtroppo più
di una volta è accaduto – che Dumas
si perde nel suo racconto come in un
labirinto che ha costruito lui stesso.
Facile, perché toglierebbe il peso
delle digressioni cui si abbandona
trasformandosi in storico; ingiusto,
perché quell’apparente disordine è
solamente uno dei modi in cui si
manifesta la ricchezza del testo, e
attraverso quello spiraglio lo
scrittore ci accorda il privilegio di
condividere con lui la libertà con la
quale lavora.
S’ispira qua e là, soprattutto
quando vuole mettere un po’ di
colore (o di piccante) al suo
racconto, alle gustose Historiettes di
Tallemant des Réaux, il cui valore
documentario è stato finalmente
riconosciuto? Ricorre alle opere di
altri memorialisti per descrivere
qualche episodio? Glielo hanno
rimproverato. A torto. Perché
facendo due indispensabili domande
– chi oggi legge Tallemant des
Réaux o Bassompierre? e chi oggi
non legge Dumas? – restituiamo a
quest’ultimo la nobile missione di
trasmettere un sapere che altrimenti
rimarrebbe quasi sconosciuto. Si
tratta del resto di una tecnica di
lavoro comune a ogni storico e
Dumas se ne serve con tanta abilità
che dalla prima all’ultima pagina si
è convinti di leggere non un’opera di
fantasia, bensì una cronaca
contemporanea.
Per Dumas, questo libro non è
«uno di quelli che si mettono in
mostra su un tavolino del salotto, fra
un keepsake e un album, perché gli
ospiti ne ammirino le incisioni, o
uno di quelli che, dopo aver divertito
i salottini delle signore, sono
destinati a far ridere o piangere le
anticamere». E quando scrive:
«Abbiamo la pretesa che i nostri
libri diventino libri da biblioteca, se
non finché siamo in vita almeno
dopo la nostra morte», vuole
semplicemente dire ai suoi
contemporanei, o forse anche ai
posteri, che in lui devono vedere uno
storico vero e proprio.
Le Comte de Moret ha inizio
esattamente dove si erano concluse
le peripezie dei Trois mousquetaires:
la fine dell’assedio della Rochelle.
Ma la continuità cronologica non
implica una continuità d’azione. Di
moschettieri, avverte Dumas nella
lettera a Jules Noriac, qui non si
parla affatto. Questa volta, più che
alle azioni clamorose si interessa ai
caratteri, ai meccanismi della
politica e della storia. Tuttavia Le
Comte de Moret non è un romanzo
senza radici: qualche mese prima di
iniziarne la stesura, Dumas ha
pubblicato il suo Henri IV, il cui
ultimo capitolo descrive l’assassinio
del re e la tortura di Ravaillac, ma
lascia aleggiare il dubbio
sull’identità dei mandanti, indicati
solamente nelle pagine del Comte de
Moret, che di Henri IV diventa così
la logica continuazione.
Certo, da un capo all’altro del
racconto, il conte di Moret fa
comparse episodiche – e Dumas
decide di presentarlo come un
irreprensibile cavaliere, che rifiuta di
nuocere in alcun modo al
fratellastro, Luigi XIII, mentre la
realtà è ben diversa: unitosi alla
rivolta di Gaston d’Orléans, il
giovane conte si rende colpevole del
crimine di lesa maestà. Il suo
personaggio, di fatto, è poco più di
un’ombra, un pretesto, dicevamo,
per ritornare su un’epoca e su un
uomo che – da qualcuno temuto, da
altri detestato e da molti
segretamente ammirato – vi ha
dettato legge al punto di farne la sua
epoca. Quell’uomo è il cardinale di
Richelieu, ed è lui, indubitabilmente,
il protagonista del romanzo, che egli
domina con la sua potente presenza
come un attore che riesca a
dominare la scena anche se il suo
nome non è fra i primi del
cartellone.
In Richelieu Dumas ammira e
rispetta quel genio del potere che ai
suoi occhi caratterizza solo i grandi
politici. Ma quando scrive:
«L’interesse del cardinale di
Richelieu era sempre quello della
Francia», si intuisce che, più di ogni
altra cosa, lo affascina la dedizione
con cui il cardinale ha lavorato per
la grandezza del suo paese.
Visceralmente devoto anch’egli alla
Francia, Dumas ripone
retrospettivamente in Richelieu la
propria totale fiducia politica. Non
c’è dubbio che lo avrebbe voluto
come unico comandante a bordo
della sua epoca e che per questo i
nemici di Richelieu lo irritano
moltissimo. Lo avrebbe forse anche
voluto immortale, pegno di un
destino francese tutto in ascesa.
Tutto ciò si legge fra le righe nelle
pagine che gli dedica, pagine
memorabili proprio per la fede che
vi infonde.
Davanti a un personaggio simile,
quali possibilità poteva avere nella
penna di Dumas il conte di Moret?
La competizione fra il grand’uomo
che fa la storia e il giovane
inconsistente che la subisce è
ingiusta per definizione. Il conte di
Moret perde, Dumas si allontana
dall’argomento preannunciato e
finisce con il porre il suo romanzo
sotto il segno di Richelieu. Non c’è
ragione di mettere in dubbio che si
tratti di una scelta più che di uno
smarrimento – e di una scelta che
per la sua profondità e la sua
correttezza può solamente
rallegrarci.
Il destino di quest’opera è del
resto fra i più curiosi. Pubblicata a
puntate sulle «Nouvelles» (1865-
1866), è uscita in volume, ma in
versione incompleta, soltanto
settantasei anni dopo la morte
dell’autore.
Nel 1945 a Parigi viene trovata
per caso una parte del manoscritto
del Comte de Moret, manoscritto che
verosimilmente Dumas aveva
regalato a Dmitrij Pavlovič
Naryškin, il principe russo suo
amico che lo aveva accolto nella sua
proprietà e cui il romanzo è
dedicato. Nel 1946 Les Éditions
Universelles pubblicano quel testo
incompleto, che consiste solamente
in tre delle quattro parti scritte da
Dumas e pubblicate sulle
«Nouvelles». Nella presentazione
l’editore precisa: «Il manoscritto si
presenta come un pacchetto di fogli
azzurri, piuttosto ben conservati,
diviso in tre parti distinte. La prima
è composta di 117 fogli; la seconda
di 120; la terza di 166, se ci si ferma
al capitolo XIX, ma in realtà di
171». Si tratta certamente di una
svista e la lezione corretta sarebbe:
«se ci si ferma al capitolo XX, ma in
realtà di 171», perché dopo aver
segnalato in una nota la fine della
terza parte, originariamente
composta di venti capitoli, Dumas
ne ha aggiunto un ventunesimo.
I biografi e gli esegeti di Dumas
hanno raramente e
parsimoniosamente menzionato
questo testo, e in genere per
definirlo un «romanzo incompiuto»:
un punto di vista del tutto
ingiustificato, trasmesso di critico in
critico, e che è bene combattere.
In primo luogo c’è la nota
redazionale delle «Nouvelles» del
18 marzo 1866: «Si avvia a
conclusione Le Comte de Moret di
Alexandre Dumas». E infatti, cinque
episodi più tardi, il 23 marzo 1866,
la firma dell’autore non è più
accompagnata dalla dicitura: Il
seguito al prossimo numero. Lo
scrittore non ha abbandonato il suo
romanzo, cosa che non sarebbe da
lui: vi ha messo la parola fine.
Se si analizza infatti la struttura
del testo, la conclusione del Comte
de Moret non è diversa da quella dei
Trois mousquetaires, è una fine non
meno di quella, si potrebbe dire:
Dumas raggiunge i suoi scopi,
racconta la storia e porta fino in
fondo la sua dimostrazione. Offre ai
lettori un appassionante romanzo su
un’epoca altrettanto appassionante.
Glorifica Richelieu. Riabilita Luigi
XIII dopo averlo inizialmente
dipinto come un essere esangue e
volubile. Sotto i nostri occhi, cerca
di raddrizzare qualche destino, cosa
che rappresenta già di per sé una
conclusione e giustifica l’esistenza
di un romanzo. L’ultima pagina non
è quella di un testo lasciato in
sospeso, ma una porta socchiusa, al
di là della quale si è autorizzati a
sperare un eventuale seguito.
Seguito che non può che essere un
altro libro.
Paragonata al tempo concesso a
ognuno di noi, la Storia è infinita e
le parziali conclusioni che inanella
in così gran numero non sono mai
definitive, perché il tempo può
sempre modificarne la portata e
anche il significato. Sulla linea
infinita della Storia, Dumas ha preso
un punto di partenza e uno d’arrivo,
poi ha descritto quello che vedeva
fra i due punti, perché quel
frammento di tempo gli pareva
degno di essere studiato e
raccontato: «L’episodio che ci
accingiamo a raccontare costituisce,
insieme all’assedio della Rochelle
che abbiamo già narrato nel nostro
libro dei Trois mousquetaires, il
punto più alto e glorioso del regno di
Luigi XIII».
Aggiungiamo infine che non
esistono regole letterarie che
definiscano quando e come
concludere un romanzo. Se così
fosse, moltissime opere celebri,
soprattutto contemporanee,
passerebbero per incompiute.
Ancora una parola sul titolo del
romanzo. Quello deciso da Dumas,
Le Comte de Moret, è stato
abbandonato già alla prima uscita in
volume del testo, nel 1946. Si è
trattato da parte dell’editore di una
scelta accorta, perché Le Sphinx
Rouge – soprannome dato da
Michelet a Richelieu e titolo del
dodicesimo capitolo della prima
parte del romanzo – sembra
corrispondere meglio ai sentimenti
dell’autore nei confronti dei
personaggi. Abbiamo quindi deciso
di aderire a quella scelta, nella
convinzione di non commettere un
tradimento.
Come concludere questa breve
presentazione se non pregando
l’ombra di Dumas di gradire questa
impresa e di aprire a questo libro il
cammino dei lettori? Dopo un così
lungo esilio, sarebbe pura e semplice
giustizia!

1 Cfr. Gabriel Ferry, Les Dernières années


d’Alexandre Dumas, Calmann-Lévy, Paris 1883.
[NdC]
2 Le ragioni per cui abbiamo scelto di
pubblicare questo romanzo con il titolo Le
Sphinx Rouge sono spiegate più avanti in questa
breve presentazione. [NdC]
3 È stata ripubblicata il 9, il 10, il 12, il 13, il 15
e il 16 ottobre. [NdC]
4 La lettera, dell’8 ottobre, è pubblicata l’11
ottobre sul n° 21 del giornale. È qui riproposta
prima del testo del romanzo. [NdC]
Nota all’edizione
La presente edizione è stata stabilita
sulla base del testo pubblicato da
Alexandre Dumas dal 17 ottobre
1865 al 23 marzo 1866 sulle
«Nouvelles», la cui collezione è
conservata presso la Bibliothèque
Nationale de France.
Nel novembre 1866, Dumas
assume la direzione del giornale, che
cambia il suo nome con quello di
«Le Mousquetaire»: uscirà fino
all’aprile 1867. Contrariamente a
quanto è stato affermato, non vi si
trova alcun seguito al Comte de
Moret, e a ragion veduta: il romanzo
era stato concluso con la
pubblicazione dell’ultimo episodio
sulle «Nouvelles» del 23 marzo
1866.
Abbiamo fatto un’accurata
collazione con l’edizione del 1946
che, secondo la nota introduttiva,
riproduceva il manoscritto di
Dumas. Quell’edizione è tuttavia
incompleta, essendo costituita di tre
parti soltanto. Per contro, nella
prima parte riporta un intero
capitolo, Gli “habitués” dell’hôtel
de Rambouillet, che sulle
«Nouvelles» non compariva. Qui lo
abbiamo riportato, spiegando la cosa
in nota. Analogamente, diversi brani
più o meno lunghi che compaiono
nell’edizione del 1946 ma non sulle
«Nouvelles» sono stati ripresi qui tra
parentesi quadre e segnalati in nota.
Abbiamo ritenuto opportuno, per
rendere certi passaggi più chiari,
riprodurre in nota frasi equivalenti
tratte da Alexandre Dumas, Henri
IV, Les Belles Lettres, Paris 1998.
I nomi propri, scritti in maniere
diverse da un capitolo all’altro o
dallo stesso Dumas o dagli editori
del tempo, sono stati ricondotti a una
grafia corretta, o quanto meno
uniforme. Lo stesso è stato fatto per
i nomi di luoghi (a questo proposito,
riferiamo un esempio eloquente:
nella quarta parte del romanzo è
citato il villaggio Bunolonga, che
non esiste; dopo lunghe ricerche,
abbiamo scoperto che Bassompierre,
nei suoi Mémoires, indica quel
villaggio con il nome di
Boussolenque; in Gabriel Daniel,
diventa Bassolano, il che ci ha
guidato verso il nome corretto,
Bussoleno). Sempre nella quarta
parte, però, alcuni nomi di località
italiane non hanno potuto essere
individuati. Lo abbiamo segnalato in
nota.
A tratti, una punteggiatura
fantasiosa rendeva ostica la lettura o
addirittura snaturava il senso delle
frasi. Nell’interesse del testo
abbiamo ritenuto utile intervenire a
correggere.

Fonti di Alexandre Dumas:


Théodore Agrippa d’Aubigné [1552-
1630], Mémoires
François de Bassompierre [1579-
1646], Mémoires
Antoine Baudeau de Somaize [1630-
1680ca], Le Grand dictionnaire
des Précieuses
François Le Métel de Boisrobert
[1592-1662], Lettres
Gabriel Daniel [1649-1728],
Histoire de France
Pierre de L’Estoile [1546-1611],
Journal du règne de Henry IV,
Roi de France et de Navarre
Père Jean Grillot, Lyon affligé de
contagion [1629]
Jean Héroard [1551-1628], Journal
Jules Michelet [1798-1874], Histoire
de France
Armand du Plessis, cardinal de
Richelieu [1585-1642], Mémoires
Maximilien de Béthune, duc de
Sully [1559-1641], Mémoires
Gédéon Tallemant des Réaux [1619-
1692], Historiettes
R.P.

Si è scelto di non tradurre i nomi


propri, con l’eccezione di quelli di
re, regine o luoghi la cui forma
italiana è entrata nell’uso corrente.
G.M.
La Sfinge Rossa
Mio caro Naryškin,
accettate, vi prego, la dedica del mio
romanzo Le Comte de Moret, in memoria
della regale ospitalità che mi avete offerto
in Russia.
Ex imo corde

DUMAS
10 ottobre 1865

a Dmitrij Pavlovič Naryškin


Lettera di Alexandre Dumas
a Jules Noriac
Caro direttore,
lasciate che vi ricordi il detto Chi
fa da sé fa per tre: benché non sia
mia abitudine fare pubblicità ai miei
romanzi, vi chiedo tuttavia di
riservare una colonna del vostro
giornale alla breve analisi di quello
che sarà pubblicato con il titolo Le
Comte de Moret.
Ecco in poche parole che cosa ho
cercato di fare: durante il regno di
Luigi XIII e il ministero di Richelieu
c’è un periodo interessantissimo dal
punto di vista storico, romanzesco e
sociale: è quello compreso tra
l’assassinio di Buckingham e la
morte non di Anne de Montmorency
– già ucciso da Robert Stuart
settantun anni prima nella battaglia
di Saint-Denis – ma di Henri II de
Montmorency, decapitato a Tolosa
nel 1632.
STORICAMENTE, è l’inesausta lotta
di Richelieu contro le due regine
Maria de’ Medici e Anna d’Austria,
cioè la lotta della Francia, che non
vuole diventare né spagnola né
austriaca, contro l’imperatore
Ferdinando II e il re Filippo III.
Pretesto della guerra è la
successione di Mantova e del
Monferrato.
Di quella guerra, la battaglia del
passo di Susa e l’assedio di Casale
costituiscono gli eventi principali.
La figura che appare al di là delle
montagne per impedircene il
passaggio è il gobbo Carlo
Emanuele, principe ambizioso, dalla
parola inaffidabile, che per
quarant’anni, malgrado i rapporti di
parentela, non riuscì a essere con la
Francia né in pace né in guerra.
ROMANZESCAMENTE, sono la
comparsa e la scomparsa di un figlio
di Enrico IV, il conte di Moret,
giovane, bello, coraggioso, elegante,
brillante, che, come tutti i principi di
quell’epoca, sottovaluta il genio di
Richelieu e crede di servire Luigi
XIII – della Francia ancora non si
parla nemmeno; Richelieu lavora
all’unità monarchica perché Luigi
XIV, mezzo secolo più tardi, possa
dire: «Lo Stato sono io!» –, crede di
servire il fratello Luigi XIII
mettendosi dalla parte dell’altro
fratello, Gaston, e della cognata
Anna d’Austria, e al quale Maria de’
Medici perdona la nascita illegittima
purché serva le vendette personali e
gli interessi del duca d’Orléans, suo
figlio prediletto.
Che cosa ne è del conte di Moret
dopo la battaglia di Castelnaudary?
Nessuno lo sa. 1 Ora, un

personaggio storico che scompare


senza che gli storici sappiano dire
che cosa gli accade diventa per forza
di cose proprietà del romanziere – e
il conte di Moret, mi spiace per gli
storici, in futuro andrà dove a me
parrà opportuno farlo andare.
SOCIALMENTE, è la formazione del
nostro ingegno, della nostra lingua,
della nostra letteratura, e cioè della
lingua, dell’ingegno, della letteratura
che hanno posto il popolo francese a
capo di tutti gli altri popoli.
È l’epoca in cui, sotto la
protezione del cardinale di
Richelieu, uno non solo dei più
grandi ministri, ma dei più grandi
uomini che siano mai esistiti,
appaiono Rotrou e Corneille, i due
giganti che, dopo averle aperte,
sorvegliano le porte del teatro
moderno, dalle quali in quello stesso
secolo passeranno Racine e Molière,
nel secolo seguente Voltaire,
Crébillon e Beaumarchais e, sulla
loro scia, tutti coloro che hanno reso
illustre il teatro del nostro tempo.
È l’epoca in cui si costituisce
l’Académie, istituzione destinata a
incoraggiare la letteratura e a
incoronare i letterati, e che comincia
censurando Le Cid per finire
respingendo Balzac.
È infine l’epoca in cui l’influenza
della donna nel cuore dello Stato
pone le sue fondamenta nel
pretenzioso ma elegante e
aristocratico hôtel della marchesa di
Rambouillet, grazie alla marchesa
stessa, alla bella Julie d’Angennes,
sua figlia, alla principessa di Condé,
a mademoiselle de Scudéry, a
mademoiselle Paulet, a Marion
Delorme; cresce sotto Luigi XIV
con Ninon de Lenclos, madame de
Sévigné, madame de Montespan,
madame de Lafayette, madame de
Maintenon; sotto Luigi XV con
madame d’Épinay, madame de
Tencin, madame du Deffand,
madame de Chateauroux, madame
de Pompadour, madame Du Barry;
sotto Luigi XVI e la Rivoluzione
con madame de Staël, madame de
Condorcet, madame Roland,
madame Tallien, madame
Beauharnais; sotto l’Impero, la
Restaurazione e infine ai giorni
nostri con la regina Hortense,
madame Récamier, madame de
Montolieu, madame de Souza,
madame Du Cayla, madame de
Girardin e con l’ultima, la più
illustre di tutte le donne che
abbiamo citato, George Sand.
Sono dunque stato tentato da tutte
quelle ricchezze e mi sono fatto in
letteratura gambusino, cioè cercatore
d’oro.
Ma di moschettieri – permettete,
caro direttore, che lo confidi al
pubblico – qui non si parla affatto.
D’Artagnan, Athos, Porthos e
Aramis, dopo aver percorso una
carriera più gloriosa di quanto fosse
lecito al loro padre sperare,
giacciono nelle loro tombe. Tirarli
fuori da lì oggi significherebbe
evocare non più uomini vivi ma
fantasmi.
Non mi rimane ora che chiedere
ai miei lettori – o piuttosto ai vostri
– di avere per questo romanzo,
probabilmente uno degli ultimi che
scriverò, la stessa indulgenza con
cui hanno accolto i suoi fratelli
maggiori.
Possa dunque il conte di Moret
andare dove sono andati la regina
Margot, la dama di Monsoreau, i
Quarantacinque, Balsamo, la collana
della Regina, la contessa di Charny,
il cavaliere di Maison-Rouge, la San
Felice [sic], se è stato dotato di
gambe buone quanto le loro;
altrimenti, che si fermi per strada e
nasconda umilmente il viso sotto il
suo cappuccio da monaco.
HABENT SUA FATA LIBELLI.
Alexandre Dumas
8 ottobre 1865
1 In verità, le vicende successive del conte di
Moret sono tali da contrariare profondamente
Alexandre Dumas, ed è poco verosimile che lui
non le conoscesse. Nel 1632 Antoine de
Bourbon, conte di Moret (nato il 9 maggio
1607), si unisce insieme a Henri II de
Montmorency alla rivolta organizzata da Gaston
d’Orléans contro il fratellastro Luigi XIII e il
cardinale di Richelieu. Accusato di lesa maestà,
muore durante la battaglia di Castelnaudary il 1°
settembre 1632, il che gli evita di condividere la
sorte di Montmorency, decapitato il 30 ottobre di
quell’anno. Bisogna peraltro osservare che
Dumas nel 1850 ha pubblicato un breve racconto
epistolare, La Colombe, in cui narra gli amori del
conte di Moret con Isabelle de Lautrec dopo la
battaglia di Castelnaudary e che in qualche modo
costituisce la continuazione ante litteram del
presente romanzo. [NdC]
PARTE PRIMA
I
La locanda della Barbe Peinte
Il viaggiatore che per affari o per
piacere verso la fine dell’anno di
grazia 1628 andasse a trascorrere
qualche giorno nella capitale del
regno dei gigli – come si diceva
poeticamente a quell’epoca – poteva
tranquillamente fermarsi,
raccomandato o no che fosse, alla
locanda della Barbe Peinte in rue de
l’Homme-Armé. Lì, da Soleil, era
certo di trovare buona accoglienza,
buona tavola e buona sistemazione.
Non c’era comunque da
sbagliarsi; anche tenendo conto di
un’ignobile bettola all’angolo con
rue Sainte-Croix-de-la-Bretonnerie
che risaliva al più cupo medioevo e
che con la sua insegna raffigurante
un uomo in armi aveva dato il nome
a questa viuzza, ancor oggi costituita
da non più di cinque numeri dispari
e quattro pari, la locanda nella quale
stiamo per far entrare i nostri lettori
occupava troppo spazio e attirava gli
avventori con una scritta troppo
maestosa perché a un qualunque
viaggiatore venisse in mente di
spingersi oltre, dopo esserle arrivato
davanti.
In cima a un’asta con una falce di
luna dorata in punta, un quadrato di
latta intagliato cigolava al minimo
soffio di vento e rappresentava il
Gran Turco adorno di una barba del
rosso più vivo, giustificando lo
strano nome della locanda, La Barbe
Peinte, e sulla facciata della casa, al
di sopra della porta d’ingresso, si
poteva inoltre leggere il seguente
rebus:
Unendo l’insegna alla scritta e
facendone una cosa sola, il tutto
significava:
Alla Barbe Peinte Soleil offre alloggio
a viaggiatori a piedi e a cavallo.

L’insegna della Barbe Peinte


poteva rivaleggiare, quanto ad
antichità, con quella dell’Homme-
Armé, ma nella nostra qualità di
romanziere, che nei confronti della
verità ci impone doveri che non
sempre gli storici rispettano,
dobbiamo confessare che la scritta
era assolutamente moderna.
Solo due anni prima, il vecchio
oste, onorevolmente conosciuto
come Claude-Cyprien Mélangeoie,
aveva ceduto per la somma di mille
pistole il suo esercizio a Blaise-
Guillaume Soleil, il nuovo
proprietario. Ora, questo nuovo
proprietario, senza alcun rispetto per
i diritti centenari delle rondini che
facevano i loro nidi all’esterno,
nonché dei ragni che tessevano
all’interno le loro tele, appena
registrato l’atto di vendita, aveva
chiamato imbianchini e tappezzieri,
fatto grattare la facciata,
ammobiliare le camere della sua
locanda e infine, sotto gli sguardi
sbalorditi dei vicini che si
domandavano dove Soleil avesse
preso tutto il denaro che spendeva,
fatto tracciare il pomposo rebus che
abbiamo avuto l’onore di spiegare
poco sopra ai nostri lettori: non
certo, Dio ce ne guardi, perché
avessimo qualche dubbio sulla loro
intelligenza, ma per il desiderio
assolutamente egoista di non vederli
interrompere inutilmente l’inizio del
nostro racconto per fare una ricerca
della quale potevamo risparmiar loro
la fatica.
Le vecchie signore di rue Sainte-
Croix-de-la-Bretonnerie e di rue des
Blancs-Manteaux, forti delle virtù
divinatorie appannaggio dell’età
avanzata, avevano dapprima
predetto, scuotendo energicamente
la testa, che tutte quelle migliorie
avrebbero portato sfortuna alla casa,
la cui clientela era affezionata
proprio a quell’aspetto immutato nei
secoli. Ma con gran dispetto loro e
suprema meraviglia di coloro che le
prendevano per degli oracoli, la
funesta previsione non si era
avverata, e anzi l’esercizio
prosperava grazie a una clientela
tanto nuova quanto sconosciuta, che,
senza far torto a quella vecchia,
aveva aumentato e addirittura
raddoppiato gli incassi registrati
dalla locanda della Barbe Peinte ai
tempi in cui le rondini facevano
tranquillamente il nido agli angoli
delle finestre e i ragni non meno
tranquillamente tessevano la loro
tela negli angoli delle stanze.
Ma a poco a poco si era fatta una
certa luce su quel profondo mistero:
era circolata la voce che madame
Marthe-Pélagie Soleil, persona
molto vivace, molto accorta, molto
piacevole, ancora giovane e bella,
dato che aveva sì e no trent’anni, era
sorella di latte di una delle dame più
potenti della corte, la quale dama
aveva preso dalle proprie ricchezze
– o da quelle di un’altra dama ancor
più potente di lei – e prestato a
Soleil la somma necessaria al suo
locale; si diceva anche che fosse
questa sorella di latte a
raccomandare la locanda della Barbe
Peinte ai nobili stranieri che da
qualche tempo si vedevano circolare
nelle vie, fino a quel momento
piuttosto mal frequentate, del
quartiere della Verrerie e di rue
Sainte-Avoye.
Quanto di vero e quanto di falso
ci fosse in tutte queste voci è ciò che
apprenderemo dal seguito della
storia.
Andiamo intanto a vedere che
cosa succedeva in una sala bassa
della locanda della Barbe Peinte il 5
dicembre 1628 – ovvero quattro
giorni dopo il ritorno del cardinale
di Richelieu da quel famoso assedio
della Rochelle da cui abbiamo tratto
un episodio del nostro romanzo Les
Trois mousquetaires – e
precisamente verso le quattro del
pomeriggio, ora in cui, per via delle
case alte e vicine tra loro, in rue de
l’Homme-Armé il crepuscolo
cominciava, e probabilmente
comincia anche oggi, a scendere.
Quella sala bassa era
momentaneamente occupata da un
solo personaggio, che però, essendo
un habitué della locanda, faceva da
solo il rumore di quattro bevitori
normali, e ne occupava altrettanto
spazio.
Svuotato un boccale di vino, era
già a metà del secondo, e, sdraiato
su tre sedie, si divertiva a
sminuzzare la paglia di una quarta
con la rotella degli speroni, mentre
con la punta della daga incideva sul
tavolo un gioco della campana in
miniatura.
La spada, di cui teneva
l’impugnatura a portata di mano,
partendo dall’anca gli si allungava
sulla coscia e gli s’insinuava come
una biscia tra le gambe accavallate.
Quell’uomo, fra i trentasei e i
trentotto anni, era tanto più facile
vederlo in viso, all’ultimo raggio di
luce che filtrava dalle strette vetrate
piombate a losanghe e affacciate
sulla via, in quanto aveva appeso
alla maniglia della finestra il suo
cappello di feltro. Aveva capelli,
sopracciglia e baffi scuri, la
carnagione abbronzata degli uomini
del Sud, un che di duro nello
sguardo e di beffardo sulle labbra le
quali, arricciandosi all’indietro in un
moto simile a quello di una tigre,
mostravano denti di un candore
abbagliante. Il naso diritto e il mento
sporgente indicavano una volontà
spinta fino all’ostinazione, mentre la
curva inferiore della mascella,
accentuata come quella degli
animali feroci, indicava quel
coraggio istintivo di cui non si deve
essere grati a colui che lo possiede
perché non è in lui il risultato del
libero arbitrio ma soltanto il
prodotto di istinti ferini; insomma,
tutto il volto, piuttosto bello, era
caratterizzato da una franchezza
brutale che poteva far temere accessi
di collera e di violenza, ma non
poteva far nascere il minimo
sospetto di duplicità, astuzia o
tradimento.
L’abbigliamento era quello della
piccola nobiltà di quell’epoca – metà
civile, metà militare, con il
giustacuore di panno aperto sulle
maniche, la camicia sbuffante in
vita, le braghe larghe e gli stivali di
bufalo rivoltati sotto il ginocchio. La
disinvoltura di chi lo indossava
conferiva una sorta di eleganza a
quell’insieme, pulito ma non
lussuoso.
Probabilmente per non suscitare
nel suo ospite uno di quegli accessi
di collera o di violenza cui sembrava
cedere con troppa facilità, Soleil
entrò due o tre volte nella sala bassa
dove si trovava senza permettersi la
minima rimostranza sulla doppia
devastazione che sembrava
assorbirlo completamente,
accontentandosi invece di sorridergli
più cordialmente possibile, il che
risultava del resto facile al bravo
oste, la cui fisionomia era placida
quanto mobile e irritabile quella del
bevitore.
Alla terza o quarta comparsa nella
sala, tuttavia, Soleil non poté
trattenersi dal rivolgere la parola al
suo cliente.
«Ebbene, mio caro signore» gli
disse in tono di marcata
benevolenza, «mi sembra che da
qualche giorno gli affari girino male;
se continua così, questa brava
Joyeuse, come la chiamate voi» e
indicava la spada del suo
interlocutore, «rischia di arrugginire
nel suo fodero.»
«Già» rispose il bevitore in tono
canzonatorio, «e sei preoccupato per
i dieci o quindici boccali di vino che
ti devo?»
«Oh, buon Gesù, signor mio, me
ne doveste cinquanta o cento, vi
giuro che non dormirei per questo
sonni meno tranquilli. No, no. Dopo
diciotto mesi che frequentate il mio
locale, vi conosco troppo bene
perché mi abbia mai sfiorato l’idea
di poter perdere un solo soldo con
voi. Ma, sapete, tutti i mestieri
hanno alti e bassi; e il ritorno di Sua
Eminenza il cardinale duca farà di
certo appendere le spade al chiodo
per qualche settimana. Dico qualche
settimana perché corre voce che a
Parigi non farà che un mordi e fuggi,
e che ripartirà con il re per portare la
guerra al di là delle montagne. Se è
così, accadrà come ai tempi della
Rochelle: al diavolo gli editti! E gli
scudi torneranno a piovervi in
tasca.»
«Be’, caro amico Soleil, qui ti
sbagli proprio di grosso, perché
l’altroieri sera e ieri mattina ho
lavorato come al solito, senza
nessun problema; inoltre, poiché
sono soltanto le quattro del
pomeriggio, spero di trovare un
buon cliente prima che il giorno
sparisca del tutto e, se anche
sparisse, dato che madama luna è
piena, in mancanza del giorno farei
conto sulla notte. Quanto agli scudi
che tanto ti preoccupano, non nel
mio interesse, ma nel tuo, puoi
vedere, o meglio sentire» e il
bevitore fece armoniosamente
risuonare il contenuto delle sue
tasche, «che ce n’è ancora qualcuno
in saccoccia e che le tasche non sono
vuote come credi tu; dunque, se non
regolo hic et nunc il mio conto è
solo perché voglio farlo pagare dal
primo gentiluomo che ricorrerà ai
miei buoni uffici. E forse» continuò
l’avventore senza più occuparsi di
Soleil, chinandosi verso la finestra e
appoggiando la fronte al vetro,
«forse chi salderà i miei debiti con te
è proprio quello che vedo arrivare
dalla parte di rue Sainte-Croix-de-la-
Bretonnerie, con il naso per aria
come uno che cerchi l’insegna della
Barbe Peinte. Infatti: l’ha vista e
sembra quanto mai soddisfatto.
Eclissati, Soleil, e, dato che quel
gentiluomo vuole evidentemente
parlare con me, tornatene ai tuoi
larditoi e lascia che gli uomini
d’arme chiacchierino dei loro
affarucci. A proposito, fai un po’ di
luce! Qui fra dieci minuti sarà buio
pesto e mi piace vedere in faccia le
persone con cui ho a che fare.»
Il bevitore non si sbagliava:
mentre l’oste, affrettandosi a
obbedire ai suoi ordini, spariva dalla
porta della cucina, un’ombra, che
nell’arrivare da fuori intercettava
quel poco di luce che restava,
compariva sulla soglia della porta
d’ingresso.
Prima di inoltrarsi nella sala bassa
della locanda della Barbe Peinte in
quella luce incerta, il nuovo venuto
scrutò con sguardo prudente le sue
tenebrose profondità; vedendo così
che in quella sala c’era un solo
individuo e che con ogni probabilità
si trattava dell’individuo che stava
cercando, alzò il mantello dalla
bocca agli occhi in modo da
nascondere completamente il viso, e
avanzò verso di lui.
Se l’uomo con il mantello temeva
di essere riconosciuto, la
precauzione non era inutile, perché
Soleil entrò in quel momento preciso
diffondendo la luce come l’astro di
cui portava il nome, dato che
reggeva in ogni mano una candela
che andò a sistemare in due
candelieri di latta attaccati al muro.
L’estraneo lo guardò fare senza
darsi la pena di nascondere la
propria impazienza. Era evidente
che avrebbe preferito restare nella
semioscurità in cui si trovava la sala
al suo arrivo, semioscurità che
sarebbe inevitabilmente aumentata
con l’avanzare della notte. Rimase
però in silenzio, accontentandosi di
seguire con lo sguardo attraverso la
fessura del mantello i gesti di Soleil,
e solo quando la porta da cui era
entrato si richiuse alle sue spalle si
rivolse al bevitore, che sembrava
non prestargli attenzione alcuna, e
gli domandò senza preamboli:
«Siete voi colui che chiamano
Étienne Latil, un tempo al servizio
di monsieur d’Épernon, poi capitano
nelle Fiandre?»
Il bevitore, che nell’istante in cui
gli venne posta la domanda si stava
portando il boccale alle labbra,
senza muovere il capo, voltò lo
sguardo verso chi lo interpellava e,
siccome la domanda gli era stata
rivolta con un tono che
probabilmente urtava la suscettibilità
di cui si compiaceva:
«Ebbene» disse, «quand’anche
fossi in effetti io a chiamarmi con
quei due nomi, che importanza può
avere questo per voi?»
E finì di portare alle labbra il
boccale, bloccato per un attimo a
metà del cammino che doveva
percorrere.
L’uomo dal mantello lasciò al
bevitore tutto il tempo di stringere la
sua dame-jeanne 1 in un abbraccio
tenero e prolungato quanto gli
piacque, e, dopo che questi ebbe
posato il boccale quasi vuoto sul
tavolo, con una marcata differenza
di tono gli disse:
«Ho l’onore di domandarvi se
siete voi il cavaliere Étienne Latil.»
«Ah, così va già meglio» replicò
con un cenno di approvazione quello
cui la domanda era rivolta.
«Fatemi allora la grazia di
rispondermi.»
«Ebbene sì, caro il mio
gentiluomo, sono Étienne Latil in
persona. Che cosa volete da questo
povero Étienne?»
«Voglio proporgli un buon
affare.»
«Un buon affare, ah, ah!»
«Più che buono. Eccellente.»
«Mi scusi» interruppe colui che
aveva appena riconosciuto che il
nome Étienne e il cognome Latil
effettivamente gli appartenevano,
«ma, prima di procedere oltre,
permettete che la mia suscettibilità
prenda esempio dalla vostra: con chi
ho l’onore di parlare?»
«Il mio nome non deve
interessarvi, purché le mie parole
risuonino piacevolmente alle vostre
orecchie.»
«Siete fuori strada, caro il mio
gentiluomo, se credete che a casa
mia questa musica sia sufficiente.
Sono cadetto, sì, ma di famiglia
nobile, e chi vi ha mandato da me
sapeva certamente che non lavoro né
per il popolino né per la piccola
borghesia. Se avete qualche bega
con un artigiano vostro collega o
con un vostro vicino bottegaio
potete bastonarvi reciprocamente
senza che io ci metta il naso o me ne
preoccupi. Non intervengo in
contese di questo tipo.»
«Non posso né voglio dirvi il mio
nome, messer Latil, ma non mi
oppongo a che voi conosciate il mio
titolo: questo anello che mi serve da
sigillo potrà, per poco che ne
sappiate di araldica, informarvi sulla
mia posizione in società.»
E, sfilandosi un anello dal dito, lo
passò al bravo, 2 che si avvicinò alla
finestra e gli diede un’occhiata
all’ultima luce del giorno.
«Oh, oh!» osservò. «Un’onice
incisa come si fa solo a Firenze.
Siete italiano e marchese, mio caro
gentiluomo. Sappiamo che cosa
significano la foglia di vite e le tre
perle – preziose, per di più, il che
non guasta mai. La pietra da sola,
senza montatura, vale quaranta
pistole.» 3
«Vi basta? Possiamo parlare
adesso?» domandò lo sconosciuto,
riprendendosi l’anello e infilandolo
alla mano bianca, lunga e sottile che
tolse da sotto il mantello e che si
affrettò a inguantare con l’altra
mano, già guantata.
«Sì, mi basta, e avete mostrato
quanto valete, signor marchese; ma
prima, come pegno del patto che
andremo a concludere, sarebbe
cortese da parte vostra, anche se non
lo pongo come condizione, che
pagaste i dieci o dodici boccali di
vino che devo a questo locale. Sono
un uomo preciso e, se mi capitasse
un incidente in una delle mie
spedizioni, sarei desolato di lasciare
un debito, sia pur piccolo, dietro di
me.»
«Non sia mai!»
«E la vostra cortesia
raggiungerebbe il culmine se, dato
che questi due boccali sono vuoti, ne
faceste portare altri due per
sostituirli, per gargarizzarci la gola,
perché a parlare mi si asciuga e sono
del parere che le parole mal umettate
scortichino la bocca da cui escono.»
«Soleil!» gridò lo sconosciuto,
sprofondando di un altro po’ nel
mantello.
Soleil comparve come se fosse
rimasto dietro la porta, pronto a
obbedire a eventuali ordini.
«Il conto di questo gentiluomo e
due boccali di vino del migliore.»
L’oste della Barbe Peinte sparì
con la velocità di un clown del
nostro Cirque Olympique attraverso
una botola, e ricomparve quasi
subito con due boccali di vino, che
depose uno vicino allo sconosciuto e
uno davanti a Étienne Latil.
«Ecco» disse. «Quanto al conto, è
una pistola, cinque soldi e due
denari.»
«Ecco un luigi d’oro da due
pistole e mezzo» disse lo
sconosciuto gettando sul tavolo la
moneta annunciata.
Poi, siccome l’oste si portava la
mano alla tasca, probabilmente per
cercarvi il resto:
«Inutile che tu me lo renda» disse.
«Metterai la differenza a credito del
signore.»
«A credito» mormorò il bravo,
«una parola che sa di mercante
lontano un miglio. È vero che questi
fiorentini sono tutti mercanti e che
persino i loro duchi praticano l’usura
né più né meno degli ebrei di
Francoforte o dei lombardi di
Milano, ma, come diceva il nostro
ospite, i tempi sono duri e i clienti
non sempre si possono scegliere.»
Intanto Soleil si ritirava facendo
una riverenza dopo l’altra e
lanciando al suo cliente, che trovava
signori tanto generosi nel pagargli i
debiti, uno sguardo di profonda
ammirazione.
1 Recipiente panciuto, di vetro, per conservare
il vino. Dal termine deriva l’italiano damigiana.
[NdT]
2 In italiano nel testo, spiegato in nota dal
curatore come spadaccino. [NdT]
3 Scudi d’oro. [NdT]
II
Che cosa ne fu della proposta
fatta dallo sconosciuto a Étienne
Latil
Lo sconosciuto seguì con lo sguardo
Soleil fino a che la porta non si
richiuse dietro di lui e a quel punto,
assicuratosi di essere proprio solo
con Étienne Latil:
«E adesso che sapete» disse «di
non avere a che fare con uno zotico,
siete disposto, caro signore, ad
aiutare un cavaliere generoso a
sbarazzarsi di un rivale che lo
importuna?»
«Vengono spesso a farmi proposte
del genere e raramente le rifiuto. Ma
prima di procedere oltre, mi sembra
corretto informarvi dei miei prezzi.»
«Li conosco: dieci pistole per fare
da secondo in un duello normale,
venticinque pistole per sfidare
direttamente, dietro un pretesto
qualsiasi, quando la parte interessata
non si batte e cento pistole per
attaccar briga in modo da provocare
immediatamente un duello con la
persona designata, che deve morire
sul posto.»
«Morire sul posto» ripeté lo
spadaccino. «Se non muore,
restituisco i soldi, nonostante le
ferite inferte o ricevute.»
«Sì, lo so; e so anche che siete
non solo una lama di tutto rispetto,
ma anche un uomo d’onore.»
Étienne Latil s’inchinò appena,
come se quella che gli si rendeva
fosse una giustizia dovuta. E in
effetti, a modo suo, era un uomo
d’onore.
«Allora» proseguì lo sconosciuto,
«posso contare su di voi.»
«Calma, non correte troppo. Siete
italiano, sapete dunque che chi va
piano, va sano. 1 Andiamo quindi
piano per andare sicuri. Prima di
tutto devo sapere la natura della
questione, di che uomo si tratta e a
quale delle tre categorie appartiene il
patto che stiamo per stringere. Patto
che, ve lo dico subito, si paga
sempre in contanti. Corro da troppo
tempo le strade, capite, per agire alla
leggera.»
«Eccovi la borsa con cento pistole
contate. Potete verificare che ci
siano tutte.»
E lo sconosciuto gettò una borsa
sul tavolo.
Malgrado il suono tentatore che
ne provenne, lo spadaccino non la
toccò, degnandola sì e no di uno
sguardo.
«Allora vogliamo il meglio» disse
in quel tono beffardo che, come
abbiamo detto, aveva conferito alla
sua bocca una piega particolare,
«vogliamo un duello immediato.»
«All’ultimo sangue» rispose lo
sconosciuto senza riuscire, per
quanto si controllasse, a dominare il
leggero tremito della voce.
«Mi manca soltanto che mi diciate
nome, condizione e abitudini del
vostro rivale. Intendo comportarmi
lealmente, come faccio sempre, e
quindi ho bisogno di conoscere a
fondo la persona con cui avrò a che
fare. Che lo sappiate o no, tutto
dipende da come s’impegna la
spada. E non la si impegna allo
stesso modo con un provinciale
appena arrivato, con un bravo
sconosciuto, con un bellimbusto o
con una guardia del re o del
cardinale. Se, poco o male informato
da voi, dovessi impegnare
scorrettamente la spada e, invece di
uccidere il vostro rivale, ne venissi
ucciso, la cosa non tornerebbe utile
né a voi né a me. E poi, insomma,
siete troppo competente in materia
per non sapere che i rischi cui ci si
espone non si limitano all’incontro
in sé, e che tali rischi sono tanto
maggiori quanto più in alto ci si
rivolge. Il minimo che possa
capitarmi, se la faccenda suscita
qualche scalpore, è di passare
qualche mese in una fortezza. E in
quei luoghi umidi e malsani dove i
cordiali costano cari, non potete
esigere che mi curi a mie spese.
Tutte queste considerazioni devono
essere messe in conto. Ah! Se si
trattasse solo di farvi da secondo e
voi correste i miei stessi rischi, sarei
più condiscendente, ma voi non
contate di sguainare la spada, no?»
proseguì lo spadaccino un po’
sprezzante.
«No, questa volta è impossibile. E
vi do la mia parola di gentiluomo
che mi dispiace moltissimo.»
La risposta fu data in tono così
calmo e deciso, e allo stesso tempo
così scevro di ogni debolezza e
millanteria, che Latil cominciò a
dubitare di essersi sbagliato e di
avere davanti un uomo che, per
quanto d’aspetto gracile e poco
attraente, non avrebbe fatto ricorso a
una spada altrui per vendicarsi, se
gravi ragioni non avessero trattenuto
la sua nel fodero. La buona opinione
che lo spadaccino cominciava a
formarsi sul suo interlocutore
s’accrebbe ancora quando lui lasciò
distrattamente cadere queste parole:
«Quanto a venti, trenta o
cinquanta pistole in più o in meno,
so quello che è giusto e su questo
punto non muoverò obiezioni.»
«Concludiamo, allora» disse
Étienne Latil. «Chi è il vostro
nemico, quando e come lo si dovrà
attaccare? Ma prima di tutto, il
nome.»
«Il suo nome non ha importanza»
rispose l’uomo dal mantello.
«Stasera andremo insieme in rue de
la Cerisaie. Vi mostrerò la porta
dell’alloggio da cui uscirà verso le
due dopo mezzanotte. Lo aspetterete
e, poiché sarà solamente lui a uscire
a un’ora così avanzata della notte,
sbagliarsi è impossibile. Del resto,
dai segni che vi indicherò potrete
riconoscerlo facilmente.»
Lo spadaccino scosse la testa,
respinse la borsa piena d’oro con cui
giocherellava con la punta delle dita
e, rovesciandosi indietro sulla sedia:
«Non mi basta» disse. «Ve l’ho
già detto e ve lo ripeto: voglio prima
di tutto sapere con chi ho a che
fare.»
Lo sconosciuto si lasciò sfuggire
un gesto impaziente.
«In verità» disse, «spingete gli
scrupoli un po’ troppo oltre, Latil. Il
vostro futuro avversario non
potrebbe in nessun caso
compromettervi, né opporvi
resistenza. È un ragazzo di ventitré
anni appena, rientrato a Parigi
soltanto da diciotto giorni, e che tutti
credono ancora in Italia. Comunque,
lo atterrerete prima ancora che abbia
potuto distinguere i vostri tratti che,
per eccesso di precauzione, potete
coprire con una maschera.»
«Ma sapete, mio caro
gentiluomo» replicò Latil
appoggiando i gomiti sul tavolo e la
testa sopra le mani chiuse a pugno,
«sapete che quello che mi proponete
somiglia molto a un assassinio?»
Lo sconosciuto non aprì bocca.
Da parte sua, Latil scosse la testa, e
respingendo decisamente la borsa:
«In questo caso» disse, «non mi
sta bene essere il vostro uomo, e il
genere di compito per cui richiedete
le mie prestazioni mi piace poco.»
«Tutti questi scrupoli vi sono
venuti stando al servizio di monsieur
d’Épernon, amico mio?» domandò
lo sconosciuto.
«No» rispose Latil, «sono anzi
uscito dal servizio di monsieur
d’Épernon proprio perché li avevo.»
«Capisco. Non andavate
d’accordo con i Simon.»
I Simon erano i torturatori del
vecchio duca.
«I Simon colpiscono con la frusta,
io colpisco con la spada» disse Latil,
con un gesto di supremo disprezzo.
«E va bene» replicò lo
sconosciuto, «mi rendo conto che
devo raddoppiare la somma: posso
investire duecento pistole in questo
capriccio.»
«No, mi spiace, non sarà questo a
decidermi. Io non lavoro alle
imboscate. Potete trovare qualcuno
che se ne occupi dalle parti di Saint-
Pierre-aux-Bœufs; di solito i
tagliagola si riuniscono lì. Ma
comunque, che cosa v’importa che
io faccia a modo mio invece che a
modo vostro e che lo sfidi in campo
aperto, purché ve lo tolga di torno?
Quello che volete è non trovarvelo
più davanti, no? Ebbene, dal
momento che non ve lo ritroverete
più, dovreste ritenervi soddisfatto.»
«Non accetterà la vostra sfida.»
«Corpo di Bacco! Sarebbe ben
schifiltoso. I Latil de Compignac
non risalgono alle crociate come i
Rohan o i Montmorency, è vero, ma
sono di schietta nobiltà e, benché io
sia il cadetto, non mi ritengo meno
nobile dei miei fratelli maggiori.»
«Non accetterà, vi dico.»
«Allora gli darò tante di quelle
bastonate che non oserà mai più
presentarsi in società.»
«Non lo si bastona.»
«Oh, oh! Allora è con il cardinale
in persona che ce l’avete.»
Lo sconosciuto non rispose, ma
trasse dalla tasca due rotoli di luigi
da cento pistole ognuno che posò sul
tavolo accanto alla borsa; nel
movimento, però, il mantello gli si
spostò e Latil poté vedere che il suo
strano interlocutore era gobbo sia
davanti sia dietro.
«Trecento pistole» chiese il
gentiluomo gobbo «possono placare
i vostri scrupoli e porre fine alle
vostre obiezioni?»
Latil scosse la testa e sospirò.
«Avete maniere molto seducenti,
mio caro gentiluomo, ed è difficile
resistervi. Effettivamente, sapendo
che un signore come voi si trova in
difficoltà, bisognerebbe avere il
cuore duro come un sasso per non
cercare insieme a lui un modo per
tirarlo fuori. Quindi cerchiamolo,
non chiedo di meglio.»
«L’unico che conosco è questo»
rispose lo sconosciuto, e altri due
rotoli dello stesso tipo e della stessa
lunghezza andarono ad affiancarsi ai
primi due. «Ma» aggiunse lo
sconosciuto «sono al limite della
mia immaginazione o del mio
potere. Prendere o lasciare.»
«Ah, tentatore, tentatore»
mormorò Latil, attirando a sé la
borsa e i quattro rotoli, «mi farete
derogare ai miei princìpi e venir
meno alle mie abitudini.»
«Oh, bene, ero sicuro» disse il
gentiluomo «che avremmo finito
con l’intenderci.»
«Cosa volete, le vostre maniere
sono talmente persuasive che è
impossibile resistervi. Su,
mettiamoci d’accordo sul da farsi:
rue de la Cerisaie, vero?»
«Sì.»
«Stasera?»
«Se è possibile.»
«Però dovete descrivermelo bene,
perché non mi sbagli.»
«Certo. Del resto, ora che siete
ragionevole, che mi appartenete, che
vi ho comprato, che vi ho pagato...»
«Un momento, il denaro non ce
l’ho ancora in tasca.»
«Non vorrete tirare fuori altre
difficoltà...»
«No, ma delle eccezioni, sì.
Exceptis excipiendis, 2 come si
diceva al Collège de Libourne...»
«Sentiamo queste eccezioni.»
«Prima di tutto: non si tratta né
del re né del cardinale.»
«Né l’uno né l’altro.»
«Né di un amico del cardinale.»
«Anzi, direi piuttosto di un
nemico.»
«E per il re che cos’è?»
«Indifferente. Ma, ve lo devo dire,
molto simpatico alla regina.»
«Non è il cardinale di Bérulle?»
«No, vi ho detto che ha ventitré
anni.»
«Capisco: un innamorato di Sua
Maestà.»
«Forse. Avete esaurito la lista
delle eccezioni?»
«Direi proprio di sì. Povera
regina!» riprese Latil mettendo le
mani sull’oro e preparandosi a farlo
passare dal tavolo alla sua tasca.
«Non ha davvero fortuna, le hanno
appena ammazzato il duca di
Buckingham...»
«... e» interruppe il gentiluomo
gobbo mosso probabilmente dal
desiderio di dare un taglio alle
esitazioni di Latil e preferendo forse
vederlo tirarsi indietro nella locanda
che in campo, «ed ecco che le
uccidono il conte di Moret.»
Latil ebbe un sobbalzo:
«Che cosa? il conte di Moret?»
«Il conte di Moret» ripeté lo
sconosciuto. «Non mi sembra che lo
abbiate citato fra le vostre
eccezioni.»
«Antoine de Bourbon?» insistette
Latil appoggiando i gomiti sul
tavolo.
«Antoine de Bourbon, sì.»
«Il figlio del nostro buon re
Enrico?»
«Il suo bastardo, volete dire.»
«I bastardi sono i veri figli dei re,
visto che i re li fanno non per dovere
ma per amore. Riprendetevi il vostro
oro, signore, non alzerò mai la mano
contro un figlio della casa reale.»
«Il figlio di Jacqueline de Bueil
non fa parte della casa reale.»
«Ma il figlio di re Enrico IV sì.»
Poi, alzandosi in piedi, incrociò le
braccia e fissò sullo sconosciuto uno
sguardo terribile:
«Sapete, signore» disse, «che ero
presente quando suo padre è stato
ucciso?»
«Voi?»
«Sul predellino della carrozza,
come paggio del duca d’Épernon.
L’assassino ha dovuto scostare la
mia mano per arrivare fino a lui.
Senza di me, forse si sarebbe
salvato. Sono stato io ad
aggrapparmi alla sua giubba quando
ha cercato di fuggire e guardate,
guardate...»
Latil mostrò le mani coperte di
cicatrici.
«Ecco i segni delle coltellate che
mi ha dato per farmi lasciare la
presa. Il sangue del grande re si è
mescolato al mio, signore, e voi
venite a propormi di spargere quello
di suo figlio! Io non sono né un
Jacques Clément né un Ravaillac, 3
capito? mentre voi, voi siete un
miserabile. Sbrigatevi a riprendere il
vostro oro e sparite
immediatamente, o vi inchiodo alla
parete come una bestia velenosa!»
«Silenzio, sgherro» disse lo
sconosciuto facendo un passo
indietro, «o ti faccio trapassare la
lingua e cucire le labbra!»
«Io non sono uno sgherro, ma tu
sei un assassino e, siccome non sono
della polizia e non tocca a me
arrestarti perché tu non vada a
rinnovare la tua infame proposta a
qualcun altro che potrebbe magari
accettarla, mi sbarazzerò in un colpo
solo delle tue macchinazioni e di
quel tuo corpaccio uncinato, e farò
uno spaventapasseri della tua brutta
carcassa, buona giusto per quello. In
guardia, miserabile!»
E nel pronunciare queste ultime
parole in maniera insieme di
minaccia e di avvertimento, Latil
aveva sguainato con gesto veloce la
spada e allungato un colpo vigoroso
al suo interlocutore, a suprema
dimostrazione della sua inesorabile
volontà di non spargere sangue.
Ma colui che questa stoccata
avrebbe trafitto da parte a parte e
davvero inchiodato alla parete come
un insetto, se lo avesse raggiunto,
fece un salto all’indietro con
un’elasticità e un’agilità inaspettate
da parte di un uomo infermo come
lui: sguainando intanto la spada,
ricadde in posizione di guardia
davanti a Latil e cominciò a servirgli
stoccate tanto incalzanti e finte tanto
rapide che lo spadaccino capì di
dover fare appello a tutta la propria
scienza, prudenza e sangue freddo.
Poi, come se fosse stato felice di
trovarsi inopinatamente e quando
meno se lo aspettava davanti a un
gioco in grado di rivaleggiare con il
suo, volle far durare la lotta per
amore dell’arte e si limitò a parare
con la stessa precisione con cui lo
avrebbe fatto in una sala d’armi,
aspettando che la stanchezza o un
errore del suo antagonista gli
fornisse il destro di mettere a segno
uno di quei colpi di Jarnac 4 che
conosceva così bene e che, quando
serviva, sapeva piazzare così
vantaggiosamente.
Ma l’irascibile gobbo, meno
paziente di lui e stanco di non
trovare il minimo spazio in cui far
scivolare la spada, sentendo inoltre
che Latil lo incalzava più di quanto
non avrebbe voluto e che per
tagliargli la ritirata si era posto fra
lui e la porta, di colpo si mise a
gridare:
«A me, amici, aiuto, soccorso, mi
uccidono!»
Il nobile gobbo non aveva ancora
finito di chiamare che tre uomini,
fermi dietro la barriera di rue de
l’Homme-Armé ad aspettare il loro
quarto compagno, si precipitarono
nella sala bassa e attaccarono il
povero Latil il quale, voltandosi per
affrontarli, non riuscì a parare la
stoccata che il suo primo avversario
mise a segno con un affondo
accentuato e, siccome uno degli
assalitori lo raggiungeva nello stesso
istante dalla parte opposta, ricevette
contemporaneamente due spaventosi
colpi di spada, uno dei quali,
entratogli dal petto, gli usciva dalla
schiena e l’altro, entratogli dalla
schiena, gli usciva dal petto.
Latil stramazzò sul pavimento.
1 In italiano nel testo. [NdT]
2 Fatte le dovute eccezioni. [NdT]
3 Clément è il domenicano (1567-1589) che il
1° agosto 1589 uccise Enrico III; François
Ravaillac (1577ca-1610) il 14 maggio 1610
assassinò Enrico IV. [NdC]
4 Abilissimo colpo di spada, a torto considerato
sleale. L’espressione nasce dal duello che oppose
Guy Chabot de Jarnac a François Vivonne (10
luglio 1547). [NdC]
III
Dove il nobile gobbo si accorge
di aver sbagliato
a voler far uccidere il conte di Moret
Una pausa di silenzio seguì questa
esecuzione; le spade furono
silenziosamente e
coscienziosamente asciugate e
riposte nel fodero.
Ma al rumore che aveva
preceduto questo silenzio, agli
scoppi di voce di Latil, agli urti delle
spade, Soleil e i suoi sguatteri erano
accorsi dalla porta della cucina e
qualche curioso si azzardava a
sporgere la testa dalla porta della
via.
Tutti guardavano stupiti l’uomo
steso sul pavimento e si mostravano
l’un l’altro il sangue che colava in
rivoli sottili dalle quattro ferite
ricevute e si spandeva da ogni parte.
In questo silenzio, si alzò una
voce:
«Bisogna chiamare la guardia.»
Ma quello dei tre amici del
gentiluomo che per primo era corso
in suo aiuto e che aveva colpito il
povero Latil da dietro, mentre il
nobile gobbo lo colpiva davanti,
esclamò:
«Nessuno si muova, invece. La
faccenda è affar nostro e
rispondiamo noi di tutto. Siete
testimoni che non abbiamo fatto
altro che accorrere in aiuto del
nostro amico, marchese di Pisany,
che quell’infame tagliagole di Latil
aveva attirato in un tranello. Quindi
non dovete temere nulla, avete a che
fare con signori illustri, amici del
cardinale.»
Tutti i presenti si tolsero il
cappello, ma il loro sguardo non per
questo smise di interrogare con
accresciuta curiosità colui che
cercava di rassicurarli sulle
conseguenze di un evento grave, sì,
ma tuttavia all’epoca molto meno
raro che ai nostri giorni.
L’oratore comprese che per
conquistarsi la fiducia generale
bisognava offrire spiegazioni più
chiare. Senza farsi pregare, indicò
con il dito uno dei suoi compagni:
«Per cominciare, questo è Vincent
Voiture, poeta e intellettuale di fama,
che sarà uno dei primi accademici di
Conrart, quando Conrart avrà
fondato la sua accademia, e che, nel
frattempo, si occupa di presentare
gli ambasciatori a Sua Altezza Reale
Monsieur.»
Un omino fresco, elegante, dalla
faccia rubizza, vestito tutto di nero,
con la spada di traverso, si
ringalluzzì sentendo proporre i suoi
titoli all’ammirazione e al rispetto
del pubblico.
«Poi» riprese l’oratore, «ecco il
conte Charles de Brancas, figlio del
duca di Villars, cavaliere d’onore di
Sua Maestà la regina madre. Infine»
proseguì alzando la voce e
raddrizzando la testa come un
cavallo che scuota le sue
gualdrappe, «ci sono io, sire Pierre
de Bellegarde, marchese di
Montbrun, signore di Souscarrières,
figlio del duca di Bellegarde, grande
scudiero di Francia, grand’ufficiale
della corona, grande amico del
compianto re Enrico IV e leale
servitore di re Luigi XIII, oggi
gloriosamente regnante. Se tutte
queste garanzie non vi bastano, non
saprei offrirvi altro che quella del
Padreterno. E ora, siccome avrete il
fastidio di lavare il pavimento e di
far seppellire questa carogna, e
siccome ogni fastidio deve essere
compensato, ecco qui di che
pagarvi.»
E, prendendo la borsa dal tavolo,
il sire Pierre de Bellegarde,
marchese di Montbrun, signore di
Souscarrières, la gettò ai piedi
dell’oste della Barbe Peinte,
facendone rotolar fuori una ventina
di luigi; poi si fece scivolare in tasca
i quattro rotoli da cento pistole senza
che a questo gioco di prestigio si
opponesse il marchese di Pisany, il
quale, preoccupato di essere
coinvolto in quella rissa, era
sgusciato fuori dall’edificio e si
allontanava a piedi, cosa non
difficile con le sue lunghe gambe.
Il locandiere e i suoi sguatteri
erano rimasti a bocca aperta
all’enunciazione di quei nomi
brillanti, di quei titoli pomposi e, in
particolare, al rumore che fece l’oro
spargendosi sul pavimento di pietra.
Si tolsero rispettosamente i berretti,
salutarono goffamente spingendo
indietro il piede e staccarono dalla
parete le due candele per avere
l’onore di far luce a dei gentiluomini
che si degnavano di uccidere un
uomo in casa loro e di lasciarvi una
borsa piena d’oro, borsa che
madame Soleil, da brava donna di
casa, si affrettò a raccogliere e far
sparire nella propria tasca, senza
che, diciamolo subito, le passasse
nemmeno per la testa di fare il
benché minimo torto a suo marito,
dato che i due consorti erano sposati
in regime di comunione.
A questo punto, Souscarrières,
che al fasto della locuzione univa la
dignità del gesto, si avvolse nel
mantello, si ravviò i baffi, inclinò il
cappello sull’orecchio sinistro e,
arrotondando il braccio e tendendo
la gamba, uscì con fare maestoso.
Gli altri uscirono più
modestamente, ma comunque con
aria ancora abbastanza altera e
risoluta da incutere soggezione al
folto pubblico.

Mentre i tre si mettono sulle


tracce del marchese di Pisany, diamo
ai nostri lettori alcuni indispensabili
dettagli sui personaggi che abbiamo
messo in scena.
Quale primo attore del dramma
che abbiamo raccontato abbiamo
scelto, come ha detto Souscarrières,
il marchese di Pisany, figlio della
marchesa di Rambouillet. Nominare
la marchesa di Rambouillet significa
nominare la donna che, imprimendo
il suo stile alla società del XVII
secolo, fondò la società moderna.
Il marchese di Pisany era nato
bello, bianco e dritto come gli altri
cinque figli della marchesa e, se non
si fosse lussato la spina dorsale fin
dalla prima infanzia, una volta
cresciuto, ben fatto come loro, non
avrebbe certo sfigurato fra i
“gendarmi di Rambouillet”, come
venivano chiamati i rampolli di
quella bella famiglia. Questo
incidente ne fece l’uomo che
abbiamo visto, cioè un personaggio
così crudelmente contraffatto che
non fu mai possibile adattare una
corazza alla sua doppia gobba,
nemmeno rivolgendosi agli armaioli
più abili di Francia e d’Italia. Questa
deformità faceva a tratti di lui, cioè
di un nobiluomo di razza, cuore e
intelligenza, uno degli esseri più
rancorosi e cattivi del creato, una
specie di demonio ai cui occhi ogni
mezzo poteva essere buono per
distruggere quanto era giovane e
bello: in un accesso di quella rabbia
di cui abbiamo appena visto un
esempio, e che di solito lo afferrava
per aver fallito qualche avventura
amorosa, era capace di commettere i
crimini più efferati e più indegni di
un signore del suo nome e del suo
rango.
Il secondo era Vincent Voiture,
figlio di un commerciante di vini,
gran giocatore di picchetto, 1 che ha
dato il suo nome al quadrato di
Voiture, cioè ai settanta punti segnati
da quattro gettoni disposti appunto
in un quadrato.
Vincent Voiture, il cui nome è
diventato popolare nelle lettere del
XVII secolo, non solo, come aveva
detto Souscarrières, si occupava di
presentare gli ambasciatori a Sua
Altezza Reale Gaston d’Orléans,
Monsieur, fratello del re, ma era
anche una delle menti più brillanti
del suo tempo, se non la più
brillante; era piccolo, ma ben fatto,
si vestiva con eleganza, aveva
un’aria ingenua, per non dire
stupida, amava il gioco con tale
ardore che dopo aver giocato anche
solo cinque minuti era costretto a
cambiare camicia. Era il favorito
delle principesse e delle belle dame
del tempo, con le quali aveva
rapporti amichevoli, il protetto della
regina Anna d’Austria, l’uomo di
cui non poteva fare a meno la
principessa – moglie di quel Condé
che per le sue abitudini, la sua
vigliaccheria e la sua avarizia
costituì una macchia in quella
famiglia di eroi –, l’amico della
marchesa di Rambouillet, della bella
Julie d’Angennes e di madame de
Saintot, che lo considerava, fra gli
uomini di mondo, quello più
piacevole e più galante con le donne.
Per di più era coraggioso e non
esitava a sguainare la spada che gli
picchiava contro i polpacci. Di lui si
citavano, fra gli altri, tre duelli che
avevano fatto grande scalpore: uno
alla luce del sole, uno al chiaro di
luna, il terzo al fuoco delle torce. Il
marchese di Pisany non poteva fare
a meno di lui, che partecipava a tutte
le sue avventure, buone e cattive.
Il terzo era, come aveva
proclamato Souscarrières, il giovane
conte di Brancas, cavaliere d’onore
della regina madre Maria de’
Medici, quello che è diventato il
Ménalque di La Bruyère. 2 Forse, a
parte La Fontaine, non c’è stato in
tutto il XVII secolo un uomo più
distratto di lui. Una volta in cui
rientrava di notte a cavallo, dei ladri
lo fermarono afferrando le redini
della sua cavalcatura.
«Ehi, valletto» disse, «coraggio,
lasciate andare il mio cavallo!»
E si era accorto di come stavano
davvero le cose solo vedendosi
puntare una pistola alla gola.
Il giorno del suo matrimonio,
andò a dire all’addetto della casa di
piacere da cui passava a volte la
notte di tenergli un letto perché
avrebbe dormito da lui.
«Ma, signor conte, cosa state
dicendo?» obiettò quello. «Vi siete
sposato questa mattina.»
«Ah, perbacco, è vero!» rispose.
«Me ne ero dimenticato.»
Il quarto, infine, era
Souscarrières, di cui non diremo
nulla di più di quanto abbiamo detto,
dato che, nel corso del racconto,
presto si presenterà l’occasione di
farlo conoscere in maniera più che
esauriente. Del resto il modo in cui
aveva parlato e si era comportato
basterà (così speriamo in attesa di
meglio) per dare un’idea abbastanza
completa di questo strano
personaggio.
Tutti e tre, come abbiamo detto,
erano usciti trionfalmente dalla
locanda della Barbe Peinte, avevano
oltrepassato, gli uni saltandola, gli
altri passandoci sotto, la sbarra che
giorno e notte chiudeva alle due
estremità rue de l’Homme-Armé, e
si erano lanciati all’inseguimento del
marchese di Pisany, che avrebbero
molto probabilmente raggiunto
lungo la strada per l’hôtel de
Rambouillet, in rue Saint-Thomas-
du-Louvre, lo stesso luogo dove, nei
primi trent’anni di questo secolo,
abbiamo visto crescere il teatro
Vaudeville.
Lo raggiunsero, infatti, ma
solamente all’angolo fra rue
Froidmanteau e rue des Orties, cioè
ad appena cento passi dall’hôtel de
Rambouillet.
Sentendo il rumore dei loro passi,
il marchese si era voltato e aveva
riconosciuto i suoi amici. Chiuse
allora il compasso delle sue lunghe
gambe e, tutto ansante anch’egli per
la corsa in cui si era esibito, si
appoggiò a un paracarro ad
aspettarli.
I tre nuovi arrivati erano
distanziati fra loro come i Curiazi, a
seconda non della gravità delle loro
ferite ma della lunghezza delle loro
gambe. 3 In testa camminava

Souscarrières, una sorta di atleta alto


cinque piedi e sei pollici; seguiva il
conte di Brancas che, avendo già
dimenticato quel che era successo, si
domandava il perché di quella corsa
sfrenata; infine il piccolo Voiture –
che, pur avendo appena trent’anni,
inclinava all’obesità – seguiva
faticosamente Souscarrières e
Brancas asciugandosi la fronte.
Souscarrières si fermò davanti a
Pisany, che, seduto sul suo
paracarro, con lo sguardo cupo e il
volto contratto, le braccia incrociate,
sembrava una di quelle figure
fantastiche che la vagabonda
immaginazione degli architetti del
XV secolo scolpiva agli angoli delle
case.
«Ah, senti, Pisany» gli disse, «che
smania è dunque questa di lanciarti
di continuo, e lanciare noi insieme a
te, in brutte storie? C’è un morto.
Non è una tragedia, tutti sanno che
era uno sgherro, dichiareremo che
hai agito per legittima difesa, così
non ci saranno inchieste sulla sua
morte. Ma se non fossi arrivato io a
infilzarlo da una parte mentre tu lo
infilzavi dall’altra, saresti stato tu a
essere infilzato come un tordo.»
«Ah, be’, sai che disgrazia, se
fosse successo!»
«Come, che disgrazia?»
«Sì. Chi ti dice che io non cerchi
di farmi uccidere? In verità, non è
che la mia carcassa sia tale da
doverne avere cura, e per la
piacevole vita che conduco, deriso
dagli uomini, disprezzato dalle
donne, tanto varrebbe essere morto
o, meglio ancora, non essere mai
nato.»
E alzò il pugno verso il cielo
digrignando i denti.
«Be’, ma allora, se volevi farti
uccidere, mio caro marchese, se per
te tanto varrebbe essere morto,
perché averci chiamati in tuo aiuto
proprio quando la spada di Étienne
Latil stava probabilmente per
esaudire i tuoi voti?»
«Perché prima di morire voglio
vendicarmi.»
«E che diavolo! Quando ci si
vuole vendicare e si ha per amico un
uomo che si chiama Souscarrières, si
racconta a lui le proprie
faccenduole, e non si va a cercare un
sicario in rue de l’Homme-Armé.»
«Sono andato a cercare un sicario
perché solo un sicario avrebbe
potuto rendermi il servizio che gli
ho chiesto. Se me lo avesse potuto
rendere Souscarrières, non mi sarei
rivolto a nessuno, nemmeno a lui, e
mi sarei occupato io stesso di sfidare
e uccidere il mio uomo. Vedere steso
ai tuoi piedi a dibattersi nelle
angosce dell’agonia un rivale che
detesti è una voluttà troppo grande
per rifiutarsela quando si può
prendersela.»
«Ebbene, perché non te la
prendi?»
«Finirai con il farmi dire quel che
non voglio, che non posso dire.»
«E parla, santo cielo! L’orecchio
di un amico devoto è un pozzo dove
tutto ciò che butti si perde. Desideri
la morte di un uomo: battiti con lui e
uccidilo.»
«Eh, bravo!» esclamò Pisany,
travolto dalla passione. «Ci si può
battere con i principi di sangue, o
meglio: i principi di sangue si
battono con noialtri, semplici
gentiluomini? Quando ci si vuole
sbarazzare di loro bisogna farli
uccidere.»
«E la ruota?»
«Morto lui, mi sarei ucciso. Non
ti ho detto che la vita mi fa orrore?»
«Ah!» esclamò Souscarrières
picchiandosi la fronte, «potrei per
caso arrivarci?»
«È possibile» fece Pisany
indifferente, alzando le spalle.
«L’uomo di cui sei geloso, mio
povero Pisany, sarebbe forse...»
«Su, concludi!»
«Ma no, non può essere... Quello
è arrivato dall’Italia sì e no da una
settimana...»
«Non ci vuole una settimana per
andare dall’hôtel de Montmorency a
rue de la Cerisaie.»
«Allora è proprio...»
Souscarrières esitò un attimo, poi,
come se il nome gli sfuggisse di
bocca suo malgrado:
«È proprio il conte di Moret?»
Gli rispose soltanto un’orribile
bestemmia sfuggita di bocca al
marchese.
«Questa poi! Ma allora, di chi sei
innamorato, mio caro Pisany?»
domandò Souscarrières.
«Amo madame de Maugiron.»
«Questa è davvero una bella
storia!» esclamò Souscarrières
scoppiando a ridere.
«Che cosa c’è da ridere in quello
che ho detto?» chiese Pisany
aggrottando le ciglia.
«Madame de Maugiron, la sorella
di Marion Delorme?»
«La sorella di Marion Delorme,
sì.»
«Che abita nella stessa casa
dell’altra sorella, madame de la
Montagne?»
«Sì, sì e ancora sì.»
«Ebbene, mio caro marchese, se
questa è l’unica ragione del tuo odio
per il povero conte di Moret, e se
vuoi farlo uccidere perché è
l’amante di madame de Maugiron,
ringrazia Dio che il tuo desiderio
non sia stato soddisfatto, perché un
gentiluomo valoroso come te
avrebbe provato eterno rimorso per
aver commesso un delitto inutile.»
«Come sarebbe?» domandò
Pisany, drizzandosi in piedi.
«Sarebbe che il conte di Moret
non è l’amante di madame de
Maugiron.»
«E di chi allora?»
«Di sua sorella, madame de la
Montagne.»
«Impossibile.»
«Marchese, ti giuro che è la
verità.»
«Il conte di Moret amante di
madame de la Montagne? Me lo
giuri?»
«Parola d’onore.»
«Ma l’altra sera mi sono
presentato da madame de
Maugiron...»
«L’altroieri?»
«L’altroieri, sì.»
«Alle undici di sera?»
«Come lo sai?»
«Lo so, lo so. Come so che
madame de Maugiron non è
l’amante del conte di Moret.»
«Ti dico che ti sbagli.»
«Continua, allora.»
«L’avevo vista quel giorno, mi ha
detto che potevo andare, che l’avrei
trovata sola. Ho mandato via il
paggio. Sono arrivato alla porta
della sua camera e, in quella camera
da letto, ho sentito una voce
maschile.»
«Non dico che tu non abbia
sentito una voce maschile. Dico
soltanto che non era la voce del
conte di Moret.»
«In verità, mi stai facendo
impazzire!»
«Ma il conte, non l’hai visto?»
«Sì che l’ho visto.»
«E come hai fatto?»
«Mi sono imboscato sotto il
portone dell’hôtel Lesdiguières,
proprio di fronte alla casa di
madame de Maugiron.»
«E?»
«E l’ho visto uscire. Visto come
sto vedendo te.»
«Solo che non stava uscendo da
casa di madame de Maugiron,
usciva da casa di madame de la
Montagne.»
«Ma allora, allora» esclamò
Pisany, «chi era l’uomo di cui ho
sentito la voce in casa di madame de
Maugiron?»
«Su, prendila con filosofia,
marchese!»
«Con filosofia?»
«Ma sì, perché preoccupartene?»
«Come, perché preoccuparmene?
Me ne preoccupo per ucciderlo, se
non è un figlio di Francia.»
«Per ucciderlo. Ah, ah!» replicò
Souscarrières con un tono che aprì al
marchese tutto un orizzonte di dubbi
strani.
«Certo» rispose, «per ucciderlo.»
«Davvero! Così, agitato come
siete, e senza avvertire» continuò
Souscarrières in tono sempre più
sfottente.
«Sì, sì e ancora sì.»
«E allora uccidimi, caro
marchese» disse Souscarrières,
«perché ero io quell’uomo.»
«Ah, vigliacco!» esclamò Pisany
digrignando i denti e sguainando la
spada. «In guardia!»
«Oh, non hai bisogno di pregarmi,
mio caro marchese» disse
Souscarrières facendo un salto
indietro e atterrando in posizione di
guardia, con la spada in mano. «Agli
ordini!»
Così, malgrado le grida di
Voiture, malgrado lo stupore di
Brancas che non capiva nulla di
quanto stava accadendo, fra il
marchese di Pisany e il sire di
Souscarrières s’ingaggiò un furioso
combattimento, tanto più terribile in
quanto si svolgeva senza altra luce
che quella di una luna offuscata e
velata, combattimento in cui
ognuno, sia per amor proprio sia per
amore della vita, dispiegò tutta la
propria scienza di schermitore.
Souscarrières, che eccelleva in tutti
gli esercizi fisici, era evidentemente
il più forte e il più abile. Ma le
lunghe gambe di Pisany, la
deformità terribile del suo corpo
rendevano inaspettati i suoi attacchi
e lunghissimi i suoi passi arretrati,
dandogli un grande vantaggio.
Infine, dopo una ventina di secondi,
il marchese di Pisany emise un grido
che passò a fatica attraverso i denti
serrati, abbassò il braccio, lo rialzò,
ma quasi subito lasciò cadere la
spada di cui non poteva più reggere
il peso, andò ad addossarsi al muro,
e con un sospiro si accasciò su se
stesso.
«In fede mia» disse Souscarrières
abbassando a sua volta la spada,
«siete testimoni che è stato lui a
volerlo?»
«Ahimè, sì» risposero Brancas e
Voiture.
«E dichiarerete che tutto si è
svolto secondo le regole
dell’onore?»
«Lo dichiareremo.»
«Bene, adesso, siccome voglio
non la morte ma la guarigione del
peccatore, portate monsieur de
Pisany dalla sua signora madre e
correte a cercare Bouvard, il medico
del re.»
«Credo in effetti che sia la cosa
migliore che possiamo fare.
Aiutatemi, Brancas. Per fortuna
siamo a soli cinquanta passi
dall’hôtel de Rambouillet.»
«Ah, che disgrazia» disse
Brancas. «Era cominciato tutto così
bene!»
E mentre Brancas e Voiture
trasportavano il più delicatamente
possibile da sua madre il marchese
di Pisany, Souscarrières spariva
all’angolo fra rue des Orties e rue
Froidmanteau, con queste parole:
«Questi gobbi maledetti, non so
che smania li prende contro di me. È
già il terzo che devo infilzare con la
spada da parte a parte per
sbarazzarmene.»

1 Gioco di carte di origine francese: si gioca in


due e, di gran moda in Europa dal XV al XIX
secolo, è oggi praticamente dimenticato. [NdT]
2 Personaggio del distratto per eccellenza dei
Caractères di Jean de La Bruyère (1645-1696).
[NdT]
3 I tre Curiazi, personaggi leggendari scelti per
battersi in duello con i tre Orazi. Feriti, i Curiazi
inseguirono a velocità differenti l’unico
sopravvissuto degli Orazi. [NdC]
IV
L’hôtel de Rambouillet
Abbiamo detto che l’hôtel de
Rambouillet si trovava fra la chiesa
Saint-Thomas-du-Louvre, costruita
verso la fine del XII secolo e
dedicata a san Tommaso Martire, e
l’ospedale dei Quinze-Vingts,
fondato sotto il regno di Luigi IX al
suo ritorno dall’Egitto, in favore dei
trecento, o – come allora si diceva –
quindici volte venti, gentiluomini
cui i saraceni avevano cavato gli
occhi.
La marchesa di Rambouillet, che
lo aveva fatto costruire – e fra poco
diremo come –, era nata nel 1588,
cioè nell’anno in cui il duca di Guise
e suo fratello furono assassinati
durante gli Stati Generali di Blois
per ordine di Enrico III. 1 Era la
figlia di Jean de Vivonne, marchese
di Pisany, e di Julie Savelli,
nobildonna romana dell’illustre
famiglia dei Savelli che ha dato alla
cristianità due papi, Onorio III e
Onorio IV, e alla Chiesa una santa:
santa Lucina.
A dodici anni aveva sposato il
marchese di Rambouillet del casato
di Angennes, altro casato illustre da
cui erano usciti il cardinale di
Rambouillet e quel marchese di
Rambouillet che fu viceré di Polonia
in attesa dell’arrivo di Enrico III.
[La famiglia era conosciuta sia
per la sua intelligenza sia per la sua
probità. Una parabola del nonno del
marchese di Rambouillet faceva
fede dell’una. Un’azione del padre
faceva fede dell’altra.
Il nonno, Jacques de Rambouillet,
aveva sposato una donna sul
carattere della quale c’erano alcune
cosette da ridire e, un giorno in cui
stava litigando con lei e la lite
minacciava di assumere le
proporzioni di una battaglia, si
fermò di colpo e, abbassando al
diapason abituale il tono della voce,
con l’aria più calma del mondo le
disse:
«Signora, vi prego, tiratemi la
barba.»
«Per che motivo?» domandò lei
tutta stupita.
«Voi tirate, ve lo dirò dopo.»
La nonna del marchese di
Rambouillet afferrò la barba del
marito e la tirò.
«Più forte» disse lui.
«Ma vi farò male.»
«Non abbiate paura.»
«Volete davvero che lo faccia?»
«Sì, più forte, ancora. Coraggio,
con tutte le vostre forze. Ecco, non
mi avete fatto male. Tocca a me.»
Le prese una ciocca di capelli e
tirò.
La vittima si mise a urlare.
«Vedete dunque, signora» le disse
il marito con perfetta calma, «che
sono più forte di voi. Litighiamo
pure, dato che questo sembra farvi
piacere, ma datemi retta, cerchiamo
di non venire alle mani.»
La novella Santippe 2 si tenne per
detto che, se suo marito era saggio
come Socrate, non aveva affatto la
sua pazienza.
Il padre del marchese di
Rambouillet era stato, come
abbiamo detto, viceré di Polonia in
attesa dell’arrivo di Enrico III.
Durante questo interim, aveva
messo da parte centomila scudi che
presentò al re.
«Mi prendete in giro, monsieur de
Rambouillet» rispose costui. «Sono
un vostro risparmio, questi
centomila scudi.»
«Sire» replicò monsieur de
Rambouillet, «prendeteli, prendeteli,
ne avrete gran bisogno, un giorno o
l’altro.»
E costrinse il re ad accettarli.
Enrico li prese e non glieli restituì
mai.
Alla battaglia di Jarnac, 3 in cui il
principe di Condé fu così vilmente
assassinato, quello stesso
Rambouillet aveva fatto meraviglie,
tanto che il duca di Angiò scrisse al
fratello, Carlo IX, una lettera in cui
disse che la vittoria della battaglia si
doveva a Rambouillet. La famiglia
conserva quella lettera in una
cornice d’oro.] 4
Nel 1606, cioè dopo sei anni di
matrimonio, Rambouillet, in un
momento di difficoltà, aveva
venduto l’hôtel de Pisany a Pierre
Forget-Dufresne. La vendita era
stata conclusa per 34.500 lire
tornesi. Poi il nuovo proprietario, nel
1624, per 30.000 scudi lo aveva
rivenduto al cardinale ministro, che
lo aveva fatto demolire e, all’epoca
di cui stiamo parlando, era occupato
a far costruire su quel terreno il
Palais-Cardinal. In attesa che questo
palazzo, di cui si dicevano
meraviglie, fosse abitabile,
Richelieu aveva due case di
campagna – una a Chaillot, l’altra a
Rueil – e una casa di città in place
Royale, accanto a quella dove
abitava Marion Delorme.
[Del resto, da trent’anni Parigi
ogni giorno diventava più grande e
più bella. Enrico IV aveva, per così
dire, posto le basi, se non i picchetti,
della moderna Parigi. Alla fine del
regno di Enrico III, Parigi occupava
un’area di 1414 arpenti. Sotto
Enrico IV il parco delle Tournelles,
le terre coltivabili nei Marais che
circondavano il Temple si coprirono
di case. Si tracciò rue Dauphine, si
costruì place Royale; i sobborghi
Saint-Antoine, Montmartre, Saint-
Martin, Saint-Denis, Saint-Honoré
furono raddoppiati e Saint-Germain
formò un diciassettesimo quartiere.
La superficie di Parigi raggiunse
così i 1660 arpenti.
Poi, nel 1604, viene completato il
Pont-Neuf, iniziato sotto Enrico III
che ne posò la prima pietra nel 1518;
e nel 1606 l’Hôtel de Ville, iniziato
da Francesco I nel 1533. Nel 1613
viene eretto il portale di Saint-
Gervais e edificato l’acquedotto
dell’Arcueil. Dal 1614 al 1616 sono
costruiti il ponte e le case dell’isola
Saint-Louis. La statua equestre di
Enrico IV è collocata sul Pont-Neuf.
Si gettano le fondamenta del palazzo
del Luxembourg. Maria de’ Medici
fa piantumare il viale che, dal suo
patronato, prende il nome di Cours-
la-Reine.
Dal 1624 al 1628, infine, Parigi
s’ingrandisce ancora e accoglie nel
suo perimetro il palazzo delle
Tuileries, il quartiere della Butte-
des-Moulins, quello della Ville-
Neuve. Le nuove mura cominciano
in riva alla Senna, alla porte de la
Conférence, posta all’estremità
occidentale del giardino delle
Tuileries, si allungano fino a rue
Saint-Honoré, superano rue Galion,
dove viene costruita la porte
Montmartre, e arrivano alle antiche
mura di cinta, all’angolo di rue
Neuve-Saint-Denis, dove si trovava
la porta omonima]. 5
La marchesa di Rambouillet, che
dopo la vendita dell’hôtel de Pisany
a Pierre Forget-Dufresne si era
ritrovata ad avere soltanto la casetta
di suo padre in rue Saint-Thomas-
du-Louvre, aveva trovato un po’
stretta quella casa per lei, i suoi
cinque figli e i numerosi domestici.
Decise allora di far costruire quel
famoso hôtel de Rambouillet che
tanta fama si conquistò negli anni
successivi. Ma, non soddisfatta dei
progetti che le presentavano gli
architetti per quel terreno tutto storto
e difficile da sfruttare al meglio,
dichiarò che il progetto lo avrebbe
fatto lei stessa. Ci studiò a lungo
senza venirne a capo, ma un bel
giorno esclamò, come Archimede:
«Ho trovato!»; si fece portare carta e
penna e di getto disegnò l’esterno e
gli interni del suo palazzo, con gusto
così perfetto che la regina Maria de’
Medici, allora reggente e intenta a
far edificare il palazzo del
Luxembourg, benché avesse visto in
gioventù a Firenze i più bei palazzi
del mondo e avesse chiamato da
quella nuova Atene i migliori
architetti dell’epoca, li mandò a
chiedere consigli a madame de
Rambouillet e a prendere il suo
palazzo come modello.
La maggiore delle figlie di
madame de Rambouillet, e anzi la
maggiore di tutti i suoi figli, era la
bella Julie-Lucine d’Angennes, che
fece ancor più scalpore della madre.
Dopo Elena, l’adultera sposa di
Menelao, che spinse l’Europa contro
l’Asia, non vi fu bellezza femminile
cantata in maniera più alta e
unanime su tutti i toni e gli
strumenti. Nessuno di coloro di cui
conquistò il cuore rientrò mai in
possesso del bene che aveva
perduto. Se non mortali, quelle
inferte dai begli occhi di madame de
Montausier furono ferite inguaribili.
Se Ninon de Lenclos ebbe i suoi
“martiri”, Julie d’Angennes ebbe i
suoi “morituri”.
Nata nel 1600, all’epoca di cui
parliamo aveva ventotto anni e, pur
avendo superato la prima
giovinezza, la sua bellezza
splendeva come non mai.
Madame de Rambouillet aveva
altre quattro figlie, che la maggiore
eclissò e che rimasero più o meno
sconosciute. Tre, del resto, presero i
voti: madame d’Hyères, madame de
Saint-Étienne, madame de Pisany.
Infine, l’ultima, Claire-Angélique
d’Angennes, fu la prima moglie di
monsieur de Grignan.
Nei primi capitoli di questo libro
abbiamo fatto conoscenza con il
maggiore dei suoi figli, il marchese
di Pisany. Aveva avuto un altro
figlio, morto a otto anni perché la
sua governante era andata a far
visita a un appestato ed era stata
tanto imprudente, di ritorno
dall’ospedale, da abbracciare il
povero piccino. In due giorni
morirono entrambi di peste.
A rendere particolare questo
brillante hôtel de Rambouillet erano
due cose strane: innanzitutto la
passione che la bella Julie ispirava
in qualsiasi nobiluomo
l’avvicinasse, e poi la devozione che
i domestici riservavano alla
famiglia. Il precettore del marchese
di Pisany, Chavaroche – che era
stato una volta avversario di Voiture
in uno di quei tre duelli di cui
abbiamo parlato, che si era battuto
con lui alla luce delle torce e gli
aveva trapassato la coscia con un
colpo di spada –, era sempre stato,
era e sarebbe sempre stato uno dei
“morituri” della bella Julie. Quando
lei, a trentanove anni, dopo dodici
anni d’attesa, si era decisa a
coronare la passione di monsieur de
Montausier, ebbe un parto molto
travagliato. S’incaricò allora
Chavaroche, sapendo con quanto
impegno si sarebbe prodigato, di
andare a cercare all’abbazia di Saint-
Germain, dove era custodita, la
cintura di santa Margherita, reliquia
nota per rendere più facili i parti.
Chavaroche corse, ma, siccome
erano solo le tre del mattino, trovò i
religiosi a letto e, malgrado la sua
impazienza, dovette aspettare quasi
mezz’ora.
«Ah!» esclamò. «Bei monaci, in
fede mia, questi, che dormono
mentre madame de Montausier
partorisce.»
E a partire da quel momento
Chavaroche parlò sempre male dei
monaci dell’abbazia di Saint-
Germain.
Dopo Chavaroche, e scendendo di
un gradino verso il personale
domestico, si incontrava, con la
lunga spada che gli batteva contro le
gambe e la barba appuntita che gli
scendeva fin sul petto, Louis de
Neuf-Germain, che aveva il titolo di
poeta eteroclita di Monsieur, il
fratello del re. [Aveva del resto una
certa facilità per le rime. Un giorno,
avendogli madame de Rambouillet
chiesto di fare dei versi su monsieur
d’Avaux, fratello del presidente di
Mesme, che era stato ambasciatore
straordinario e aveva firmato la pace
del Nord, improvvisò un’intera ode
con le rime in da e in vaux. Ve ne
presento la prima strofa. Chi vorrà
leggere le altre le troverà nelle opere
di Voiture:
L’autre jour, Jupiter manda
Par Mercure et par ses prévosts
Tous les dieux et leur commanda
De faire honneur au grand Devaux.] 6

Aveva, Neuf-Germain intendo,


un’amante in rue des Gravilliers,
l’ultima via di Parigi dove un
galantuomo dovrebbe cercarsi
un’amante. Un poco di buono che
pretendeva di avere un diritto di
priorità sulla donzella trovò
inopportuno che Neuf-Germain si
recasse da lei. Litigarono per la
strada. Il poco di buono afferrò
Neuf-Germain per la barba e tirò
con tanta forza che la barba gli
rimase in mano. Neuf-Germain, che
portava sempre la spada e che aveva
impartito al marchese di Pisany le
sue prime lezioni d’armi, con questa
spada tirò al suo rivale un colpo che
gli fece mollare la presa, cosicché il
ciuffo di barba gli cadde di mano.
Ferito, il poco di buono se la diede a
gambe urlando, inseguito da una
metà degli spettatori attirati dal
litigio. L’altra metà rimase intorno a
Neuf-Germain, esaltandolo e
gridandogli bravo, mentre lui
continuava ad agitare per aria la
spada, sfidando il poco di buono che
a tornare non ci pensava nemmeno.
Andatosene Neuf-Germain, un
ciabattino che conosceva il vincitore
come appartenente all’hôtel de
Rambouillet, fortemente reputato
anche nel popolino, si accorse che la
venerabile barba strappatagli dal
mento era rimasta sul campo di
battaglia. Ne raccolse fin l’ultimo
pelo, la avvolse con cura in un
foglio di carta bianca e s’incamminò
verso il palazzo. La famiglia stava
cenando quando bussarono e
annunciarono al marchese che un
ciabattino di rue des Gravilliers
chiedeva di parlargli.
Si trattava di un fatto tanto
sorprendente che il marchese di
Rambouillet volle sapere che cosa
doveva dirgli il ciabattino.
«Fatelo entrare» disse.
L’ordine è eseguito. Il ciabattino
entra, fa una riverenza e,
avvicinandosi al marchese:
«Signor marchese» disse, «ho
l’onore di riportarvi la barba di
monsieur de Neuf-Germain che
costui ha disgraziatamente perso
davanti alla mia porta.»
Senza capire bene che cosa questo
significasse, monsieur de
Rambouillet si tolse di tasca uno dei
nuovi scudi che avevano appena
coniato con l’effige di Luigi XIII e
che venivano chiamati luigi
d’argento e lo diede al ciabattino,
che si ritirò pienamente soddisfatto
non tanto di aver ricevuto uno scudo
quanto di avere visto a tavola, a
cenare come comuni mortali,
monsieur de Rambouillet e la sua
famiglia.
Ora, monsieur de Rambouillet e la
sua famiglia stavano ancora
guardando, senza capirci nulla,
quella manciata di barba quando
Neuf-Germain entrò con il suo
mento spiumato e raccontò
l’avventura, tutto meravigliato che la
sua barba fosse arrivata a palazzo
prima di lui, che pure per arrivarci in
fretta si era messo d’impegno.
Scendendo di un piano, si
incontrava lo scudiero, o meglio il
quinola Silésie (a quei tempi si
chiamava quinola uno scudiero di
secondo grado), un altro pazzo, ma
d’altro genere, perché tutti all’hôtel
de Rambouillet avevano la loro
follia. Così, madame de Rambouillet
chiamava Neuf-Germain il suo
pazzo interno e Silésie il suo pazzo
esterno, dato che abitava con moglie
e figli fuori dal palazzo, anche se
solo a pochi passi di distanza.
Una mattina, tutti quelli che
abitavano nella stessa casa di Silésie
andarono a lamentarsi dal marchese
perché era impossibile dormire sotto
lo stesso tetto del suo scudiero.
Monsieur de Rambouillet lo
chiamò.
«Che razza di sabba fai la notte»
gli domandò, «che i tuoi vicini si
lamentano di non poter chiudere
occhio?»
«Con tutto il rispetto, signor
marchese» rispose Silésie, «uccido
le pulci.»
«E come mai per uccidere le pulci
fai tutto questo baccano?»
«Perché le uccido a martellate.»
«A martellate? Spiegami un po’,
Silésie!»
«Il signor marchese avrà notato
che non ci sono animali più difficili
da uccidere delle pulci.»
«È vero.»
«Be’, le mie le prendo e, per
paura che scappino in camera mia, le
porto sulle scale e le schiaccio a
martellate.»
E per quanto dicesse il marchese,
Silésie continuò a uccidere le pulci
allo stesso modo finché, una notte in
cui era probabilmente mezzo
addormentato, mancò il primo
gradino e ruzzolò fino in fondo alle
scale.
Quando lo raccolsero, aveva
l’osso del collo spezzato.
Dopo Silésie veniva mastro
Claude, l’argentiere, un Jocrisse 7
fanatico delle esecuzioni, cui
assisteva senza fallo, per quante
osservazioni gli si potesse fare sulla
crudeltà di quello spettacolo.
Tuttavia, ce ne furono tre o quattro
una dopo l’altra senza che Claude
uscisse di casa.
Preoccupata di questa
indifferenza, la marchesa gliene
chiese il motivo.
«Ah, signora marchesa» rispose
Claude, scuotendo malinconico la
testa, «non trovo più nessun piacere
ad assistere ai supplizi!»
«E come mai?» domandò la
marchesa.
«Figuratevi che dall’inizio di
quest’anno quei furfanti di boia
strangolano i condannati prima di
suppliziarli con la ruota. Spero
proprio che un giorno li metteranno
loro, alla ruota, e aspetto quel giorno
per tornare allo spettacolo.»
Un giorno, o meglio una sera,
andò a vedere i fuochi d’artificio per
la festa di San Giovanni, ma proprio
quando stavano per sparare i primi
razzi, trovandosi alle spalle di uno
spettatore che lo sopravanzava di
una testa, e per di più grosso, che gli
impediva la vista, pensò, per non
essere disturbato da nessuno, di
salire a Montmartre; ma quando
arrivò, con la lingua di fuori, in cima
alla collina e si voltò in direzione
dell’Hôtel de Ville, i fuochi
d’artificio erano finiti, sicché, invece
di vedere male, quella sera Claude
non vide niente.
Quel che invece vide in ogni
minimo particolare, e che gli
piacque molto vedere, fu il tesoro di
Saint-Denis. Tanto che al suo
ritorno, interrogato dalla marchesa:
«Ah, signora» disse, «quante belle
cose hanno quei furfanti di
canonici!»
E cominciò a elencare le croci
ornate di pietre preziose, le cappe
ricamate di perle, gli ostensori d’oro,
i pastorali d’argento.
«E dimentico la cosa più
importante.»
«E qual è secondo voi la cosa più
importante, Claude?»
«Ma come, signora marchesa,
quel braccio del nostro vicino che
hanno lì.»
«Di che vicino?» domandò
madame de Rambouillet, che
cercava invano di capire a quale dei
suoi vicini potesse essere venuto in
mente di depositare un proprio
braccio nel tesoro di Saint-Denis.
«Il braccio del nostro vicino san
Tommaso, naturalmente, signora: di
più vicini non ne abbiamo, dato che
confiniamo con la sua chiesa.»
C’erano all’hôtel de Rambouillet
altri due domestici, che non
sfiguravano nella collezione. Un
segretario, tale Adriani, e un
ricamatore, Dubois. Il primo
pubblicò un volume di poesie che
dedicò a monsieur de Schomberg.
L’altro, dichiarando che si sentiva
travolto dalla vocazione, si fece
cappuccino. Ma la vocazione non
durò molto a lungo, cosicché, prima
della fine del suo noviziato, uscì dal
convento e, non osando andare a
richiedere indietro il suo posto da
madame de Rambouillet, divenne
l’incaricato dei pagamenti della
compagnia dell’hôtel de
Bourgogne, 8 per poter rivedere,
diceva, madame de Rambouillet, se
per caso le fosse presa la voglia di
andare a teatro.
In effetti, il marchese e la
marchesa di Rambouillet erano
adorati dai loro domestici. Una sera,
l’avvocato Patru, colui che
introdusse all’Académie la moda dei
discorsi di ringraziamento, cenava
all’hôtel de Nemours con l’abate di
Saint-Spire. Uno dei due pronunciò
il nome della marchesa di
Rambouillet. Il sommelier, un certo
Audry, che stava attraversando la
sala dopo aver impartito ai domestici
di grado più basso gli ordini sul vino
che dovevano servire, udì il nome
della marchesa e si fermò. Poi,
siccome i due commensali
continuavano a parlarne, il
sommelier congedò tutti gli altri
domestici.
«Cosa diavolo vi prende, Audry?»
domandò Patru.
«Ah, signori» esclamò il
sommelier, «ho lavorato dodici anni
per madame de Rambouillet e,
poiché voi avete l’onore di essere
amici della signora marchesa, questa
sera vi servirò solo io e nessun
altro.»
E, in spregio alla propria dignità,
prendendo la salvietta dalle mani del
domestico e mettendosela sotto il
braccio, il sussiegoso sommelier
rimase dritto in piedi dietro i
commensali e li servì fino alla fine
della cena.
E adesso che abbiamo fatto
conoscenza con i padroni, gli ospiti
e i domestici dell’hôtel de
Rambouillet, introduciamo i nostri
lettori nel suddetto palazzo, una sera
in cui vi troveremo le principali
celebrità dell’epoca.

1 Convocati da Enrico III a Blois, gli Stati


Generali del 1588-1589 si segnalarono per la
volontà della Lega Cattolica di ottenere il
controllo sul Consiglio reale, così da poter
designare Henri I de Guise, capo della Lega,
come successore del re al posto di Henri di
Navarra, protestante. [NdC]
2 Moglie di Socrate, dal proverbiale cattivo
carattere. [NdC]
3 Battaglia che vide contrapposti il 13 marzo
1569, durante le guerre di religione, l’esercito
del re di Francia al comando del duca di Angiò e
quello protestante al comando del principe di
Condé. [NdC]
4 Il brano fra parentesi quadre compare in Le
Sphinx Rouge, Les Éditions Universelles, Paris
1946, ma non nel testo pubblicato sulle
«Nouvelles» (cfr. Nota all’edizione). [NdC]
5 Cfr. nota precedente. [NdC]
6 L’altro giorno Giove fece chiamare / da
Mercurio e dai suoi aiutanti / tutti gli dèi e
ordinò loro / di rendere onore al grande Devaux.
[NdT]
Il brano fra parentesi quadre compare
nell’edizione in volume del 1946, ma non nel
testo pubblicato sulle «Nouvelles». [NdC]
7 Sorta di maschera da commedia: cameriere
tonto e ridicolo. [NdC]
8 Antica residenza parigina dei duchi di
Borgogna, trasformata in teatro nel XVI secolo.
[NdC]
V
Gli habitués dell’hôtel de
Rambouillet1
Se, per conformarci alle regole
dell’etichetta in voga nel XVII
secolo, daremo la precedenza alle
celebrità aristocratiche su quelle
letterarie, il nostro primo schizzo –
non abbiamo certo la pretesa di
tracciare in poche righe veri e propri
ritratti – sarà quello della
principessa, una delle persone più
assidue alle serate della marchesa di
Rambouillet.
La principessa era quella bella
Charlotte de Montmorency, nipote
del connestabile Anne, primo duca
di Montmorency, ucciso da Robert
Stuart nella battaglia di Saint-Denis,
e figlia di Henri de Montmorency, il
cui unico merito, per quanto fosse
connestabile di Francia come suo
padre, era di essere il miglior
cavaliere del regno: metteva una
moneta d’argento tra la cinghia della
staffa e la sua gamba e poteva
montare il cavallo più difficile per
un quarto d’ora senza far cadere la
moneta.
Durante un balletto che la regina
madre fece rappresentare nel
febbraio del 1609, mademoiselle de
Montmorency, che aveva allora
quattordici anni, diede la prima
prova della sua bellezza.
Rappresentava una ninfa e alzò
verso re Enrico IV il suo giavellotto,
come per colpirlo, con tanta grazia
che Enrico IV, facile a ferite del
genere, se ne innamorò
immediatamente e per lei fece le sue
ultime follie, nel bel mezzo delle
quali giunse a fermarlo il pugnale di
Ravaillac.
Racconteremo più avanti come
sposò il principe, quel dubbio erede
dei Condé che disonora la nobile
famiglia dei Borbone, come fu da lui
rapita e come, per quanto bella
fosse, fu necessaria una reclusione
di non meno di tre anni alla Bastiglia
perché il matrimonio fosse
consumato e Charlotte de
Montmorency, sposa di suo marito
da otto anni senza esserne ancora la
moglie, diventasse madre del Grand
Condé e di madame de Longueville.
Era allora una principessa di
trentacinque anni, molto bella,
amica da vent’anni della marchesa
di Rambouillet, e nel suo salotto
sapeva dimenticare di essere
principessa per ricordarsi soltanto di
essere una donna intelligente.
Accanto a lei, sua rivale in
bellezza, se non in rango e
patrimonio, brillava la più illustre
“preziosa” del tempo, mademoiselle
Angélique Paulet, di un anno
maggiore di lei, soprannominata
Partenia. 2 Per il colore fulvo della
sua capigliatura, la chiamavano
anche “la leonessa”.
All’incontestabile bellezza essa
univa i talenti allora più apprezzati:
danzava in maniera incantevole,
suonava mirabilmente il liuto e
cantava così bene che si prendeva
per buona la storia che sul bordo di
una fontana dove lei andava ogni
giorno a cantare avessero trovato
due usignoli morti di gelosia.
La sua amicizia con la marchesa
risaliva al giorno di quello stesso
balletto in cui la principessa aveva
avuto un ruolo così importante. Lei
vi recitava la parte di Arione e
compariva sul dorso di un delfino. Il
re, che l’aveva notata come la più
bella dopo Charlotte de
Montmorency, si consolò con lei del
proprio insuccesso con la
principessa e da lei appunto si stava
recando quando fu ucciso in rue de
la Ferronnerie.
Madame de Rambouillet la teneva
in tale considerazione che, la prima
volta che fu sua ospite a
Rambouillet, la fece ricevere
all’entrata del paese dalle più
graziose fra le ragazze del luogo e
fra le sue domestiche, tutte vestite di
bianco e incoronate di fiori. Una di
loro, più riccamente adorna delle sue
compagne, le presentò su un piatto
d’argento le chiavi del castello e,
quando attraversò il ponte, i due
piccoli cannoni piazzati sulle torri
fecero fuoco, come per una regina.
Accanto a queste due eleganti
signore si faceva notare, per una
tenuta tanto severa da credere che
chi la indossava facesse parte di
qualche ordine religioso, la nipote
del cardinale, la bella madame de
Combalet, diventata poi duchessa
d’Aiguillon. Aveva maturato per il
marito una tale avversione che si
diceva che il matrimonio non fosse
mai stato consumato. Il poeta Dulot
aveva scoperto che il suo nome da
ragazza – Marie de Vignerot – era
l’anagramma quasi perfetto di
“vergine del marito”. Così, quando
monsieur de Combalet fu ucciso
durante le guerre di religione contro
gli ugonotti, la sua vedova fece voto,
e con una certa premura – per timore
di essere di nuovo sacrificata a
qualche ragion di Stato –, non solo
di non risposarsi mai, ma anche di
farsi carmelitana. Da quel momento,
si vestì rigorosamente come una
cinquantenne bigotta. Per tre o
quattro anni, pur essendo camerista
della regina, aveva portato un vestito
di stamigna senza aggiungere
ornamenti a una toilette che faceva a
pugni con l’eleganza delle dame di
corte. All’epoca di cui stiamo
parlando, la bella vedova
cominciava ad alzare lo sguardo e a
sorridere. Nonostante il voto, e
nonostante la severità dei suoi modi,
a madame de Combalet i pretendenti
non mancavano. Per primo, si era
fatto avanti il conte di Béthune, poi
il conte di Sault, uno dei
gentiluomini più ricchi di Francia.
Per un po’ si era parlato del conte di
Soissons. Insomma si diceva che
non ce ne era uno, fino ad arrivare a
monsieur de Nevers, in lizza per la
successione del ducato di Mantova,
che non si fosse messo in fila. Tutti
erano stati rifiutati.
Questa ostinazione nella
vedovanza dava la stura alle
supposizioni più insultanti sullo zio
e sulla nipote. Si diceva che il
cardinale non dava marito alla bella
vedova perché la riservava per sé, e
si raccontava che, se madame de
Combalet si presentava in società
con abiti accollati e priva di
ornamenti, in casa sua riceveva Sua
Eminenza scollata e con un bouquet
fra i seni, bouquet che il cardinale,
amante dei fiori com’era, non
mancava di prendere. È vero che si
diceva anche che a far circolare
queste maldicenze fosse il
maresciallo di Brézé, furioso che
madame de Combalet, nipote di sua
moglie, rifiutasse le sue proposte.
Egli aggiungeva che i tre figli della
sorella del cardinale, Françoise de
Richelieu, moglie di René de
Vignerot, signore di Pontcourlay,
erano figli di madame de Combalet
e del cardinale, e che madame de
Pontcourlay li faceva cortesemente
allevare come figli suoi. E parlava
anche di un quarto figlio di cui la
sorella del cardinale, per quanto
compiacente, non aveva voluto farsi
carico, e che veniva allevato a
Parigi. Queste voci, pur non
trovando spazio fra gli amici di
madame de Rambouillet, facevano
sorridere la corte, che detestava il
cardinale e sua nipote, e ispirarono
questo epigramma che darà la
misura dei benevoli sentimenti
nutriti dalla regina nei confronti
della povera vedova, la cui severità
nell’abbigliamento e nei modi
stonava nel suo entourage:
Philis, pour soulager sa peine,
Hier, se plaignait à la reine
Qu’elle avait quatre fils d’Armand.
Mais la reine, d’un air fort doux,
Lui dit: «Philis, consolez-vous.
Chacun sait que Brézé ne se plaît qu’à
médire.
Ceux qui, pour vous, ont le moins
d’amitié
Lui feront trop d’honneur, de tout ce qu’il
peut dire,
De n’en croire que la moitié». 3

C’era anche, alle serate di


madame de Rambouillet, una donna
alta, magra e bruna, di origini
siciliane, che, a detta di madame
Cornuel, sembrava sudare
inchiostro, e che aveva francesizzato
il suo nome, Scuduri, in Colin de
Scudéry. Vi si recava accompagnata
da suo fratello, una specie di
gradasso, autore di tragicommedie
ancora mai messe in scena,
esattamente come la sorella scriveva
libri ancora mai pubblicati. Il
fratello aveva ventisette anni, la
sorella ventuno. Inutile dire che più
tardi Madeleine de Scudéry fu
l’autrice di Ibrahim o dell’Illustre
Bassa, del Grand Cyrus, di Clélie e
di altri cinque o sei romanzi che
fecero furore verso la metà del XVII
secolo, mentre Georges de Scudéry
fu autore del Trompeur puni e di
quindici o sedici altre commedie, di
cui oggi si è dimenticato anche il
nome.
La nostra cortesia verso le dame
ci ha fatto lasciare nell’ombra di sua
sorella il futuro governatore del Fort
de la Garde. Se per gli uomini
avessimo seguito, anche in minima
parte, l’ordine che ci siamo imposti
per le donne – e cioè di dare la
precedenza alle celebrità
aristocratiche su quelle letterarie –,
avremmo dovuto cominciare dai due
fratelli Montausier, veri pilastri di
bronzo dell’hôtel de Rambouillet.
Uno dopo l’altro i due si
innamorarono della bella Julie,
prima il maggiore, il marchese – ma
madame de Rambouillet, avendo un
giorno avuto l’idea di leggergli la
mano, credette di capire da certe
linee che nel suo destino era scritto
che avrebbe ucciso una donna e, nel
timore che si trattasse di sua figlia,
lo interruppe bruscamente alle prime
parole intorno a un suo progetto di
matrimonio con la bella Julie. Non
potendo averla, egli reclamò almeno
la felicità di poter continuare a
vederla, che gli fu accordata.
Una volta ammesso nella casa, vi
presentò suo fratello minore, il conte
di Salles, il quale, dopo la morte del
primogenito, divenne quel famoso
marchese di Montausier che servì da
modello a Molière per il suo
Misanthrope. Inutile dire che, visto
respinto il fratello, il conte di Salles
ne prese il posto; abbiamo già detto
che sospirò per quattordici anni 4
dietro la bella Julie, la quale accettò
di sposarsi solo a trentanove anni. Il
giovane conte di Salles scriveva
correttamente in prosa, componeva
anche versi, ma non poteva
competere con le celebrità letterarie
che facevano il vanto del salotto
della marchesa, fra i primi dei quali
citeremo Chapelain, Gombauld,
Racan e il vescovo di Grasse; quanto
a Malherbe, era morto quello stesso
anno. Avremmo iniziato da Voiture,
se non ne avessimo già parlato nei
primi capitoli di questo libro.
Jean Chapelain frequentava
l’hôtel de Rambouillet dai tempi
dell’assedio della Rochelle, cioè da
circa un anno. Madame de
Rambouillet diceva di non avergli
mai visto addosso niente di nuovo e,
in effetti, lui portava senza
cambiarlo mai un abito di raso
iridescente foderato di felpa verde e
guarnito di piccole passamanerie di
un verde cangiante a occhio di
pernice, con stivali assolutamente
ridicoli e, sotto, calze ancora più
ridicole, e del tulle al posto del
pizzo. Abbandonò quest’abito solo
per un giustacuore di taffetas
picchiettato che si era fatto fare con
una vecchia sottana della donna con
cui viveva. La sua parrucca e il
cappello risalivano a epoche
leggendarie, eppure possedeva un
cappello e una parrucca ancora più
vecchi che metteva quando tornava a
casa. Tallemant des Réaux racconta
di avergli visto addosso una fascia
da lutto talmente vecchia che da
nera che era aveva assunto un color
foglia morta. All’epoca in questione,
aveva già portato a termine la sua
traduzione di Guzman d’Alfarache,
il racconto della Licorne e l’Ode au
cardinal de Richelieu, oltre ai primi
canti della sua Pucelle, per i due
primi libri della quale monsieur de
Longueville gli aveva dato duemila
lire di pensione. Nonostante la sua
avarizia, Chapelain era conosciuto
come l’uomo più onesto del mondo,
e Bois-Robert raccontava che, su un
pagamento che gli aveva fatto da
parte del cardinale, Chapelain gli
aveva rimandato un soldo che c’era
in più.
Jean-Ogier de Gombauld era una
stella di quella brillante pleiade: pur
avendo, a quell’epoca, cinquantotto
anni suonati, era tanto vanitoso e
curato quanto poco lo era Chapelain:
si vantava del resto di essere stato
amato da una regina, il che potrebbe
anche essere vero.
Questa regina era Maria de’
Medici.
Arrivato giovane a Parigi, figlio
minore di un quarto matrimonio e
quindi senza soldi, fece la
conoscenza del marchese d’Uxelles,
che lo raccomandò a Enrico IV per il
quale compose dei versi e che gli
assegnò una pensione. Fu
all’incoronazione del re che la
regina Maria de’ Medici si accorse
di lui. Era insieme a monsieur
d’Uxelles, che era rosso di capelli e
che per questo Maria de’ Medici
chiamava “la mia aragosta”.
«Andate a farvi dire dalla mia
aragosta» disse alla sua cameriera
Catherine «chi è quel cavaliere che
l’accompagna.» Catherine si
indirizzò per sbaglio a un rosso che
non era monsieur d’Uxelles e tornò
a riferire alla regina: «Non lo
conosce». «Siete una stordita» si
spazientì la regina, «avete scambiato
un’aragosta per l’altra.» Ma ci
teneva tanto a sapere chi era quel
cavaliere che ne parlò
personalmente al marchese
d’Uxelles e che, ben sapendo come
regolarsi, lo iscrisse per la cifra di
milleduecento scudi nella lista delle
guardie del re.
Essendo al servizio del re,
Gombauld aveva libero accesso
presso la regina.
Un giorno, entrò nella sua camera
senza farsi annunciare e trovò Maria
de’ Medici coricata sul letto con le
sottane rialzate per il gran caldo.
Faceva in effetti così caldo che la
regina si limitò a chiedere: «Chi va
là?», e poi, essendosi Gombauld
presentato, disse solo: «Va bene».
Quello che accadde fra il poeta e
la regina nessuno lo seppe mai,
perché Gombauld era molto discreto
e non si conobbe di quell’avventura
galante che quanto ne volle dire nel
seguente sonetto:
Que vîtes, mes yeux, d’un regard
téméraire
Et de quoi ma pensée oses-tu discourir?
Quels divers sentiments me font vivre et
mourir!
Me forcent de parler autant que de me
taire.
Quelle innocente erreur, quel malheur
volontaire
Se fait également redouter et chérir,
Était-ce pour me perdre ou bien pour
m’acquérir,
Pour m’être favorable ou pour m’être
contraire?
Quelle ruse d’amour, quel objet me
surprit?
Souvent l’image seule en trouble mon
esprit,
Et d’un extrême bien, j’en fais un mal
extrême.
Souvent je doute encore et de sens
dépourvu
Dans ce doute où je suis de me croire
moi-même,
Je pense avoir songé ce que mes yeux ont
vu. 5

Ma, per quanto discreto,


Gombauld non si limitò a dei
sonetti. Scrisse l’Endymion, che fece
scandalo perché la luna, si diceva,
altri non era che la regina madre, la
quale, in effetti, nelle stampe che la
rappresentavano, era sempre
raffigurata con uno spicchio di luna
sulla testa.
Comunque, Gombauld dichiarava
di non voler avere relazioni intime
se non con le dame della corte e
poiché un giorno madame de
Rambouillet, al corrente del suo
debole in materia, lo rimproverava
di aver composto versi per una
contadina, e di averla anche
chiamata Philis:
«Ah, signora marchesa» disse,
«era la figlia di un ricco agricoltore
di Saintonge, e aveva una dote di più
di diecimila scudi.»
Aveva composto una tragedia
sulle Danaidi, che era stata
fischiatissima, tanto che, all’uscita,
madame Cornuel diceva:
«Rendetemi la metà dei miei
soldi.»
«Per quale motivo?»
«Perché ho sentito solo metà dello
spettacolo.»
Come abbiamo detto, Gombauld
era molto pulito e curato, attento
persino a posare la punta dello
stivale sulle zone più pulite del
selciato quando aveva piovuto o le
strade erano sporche, dato che la
penuria di denaro lo costringeva ad
andare in giro a piedi. Ora, essendo
egli piuttosto in gamba con le armi,
molto testardo e molto battagliero,
un giorno in cui aveva discusso con
un gentiluomo a proposito di un
alloggio cui ambivano entrambi, gli
disse:
«Questo è il mio indirizzo,
passate alle due del pomeriggio
davanti alla mia porta. Uscirò con
una spada e così si tratterà di un
incontro e non di un duello; quanto
ai testimoni, qualche vicino si
presterà.»
Il gentiluomo accettò, e all’ora
concordata passò. Gombauld uscì
con la sua spada e lo caricò così
duramente che l’altro perse piede e i
vicini, testimoni, come lui aveva
previsto, del combattimento, che
avevano tante volte visto Gombauld
usare mille precauzioni per non
sporcarsi le braghe, dicevano:
«Come mai a questo gentiluomo,
così attento a dove mette i piedi e
che cammina in maniera così
compita, non dispiace spingere il
suo avversario nel fango e fra i
rigagnoli?»
Madame de Rambouillet lo
chiamava “il bel tenebroso”.
Racan era allora nel pieno della
sua fama. Era nato quattro anni dopo
la morte di Ronsard, trentaquattro
anni dopo la nascita di Malherbe,
che fu, dicono, il suo maestro di
poesia ma che ne divenne geloso per
quella stanza dell’Ode de la
Consolation, dedicata a monsieur de
Bellegarde per la morte di suo
fratello, monsieur de Termes, che
eguagliò il successo di quella di
Malherbe a Duperrier per la morte di
sua figlia.
Ecco la strofa:
Il voit ce que l’Olympe a de plus
merveilleux,
Il y voit à ses pieds ces flambeaux
orgueilleux
Qui tournent à leur gré sa fortune et sa
roue,
Il voit comme fourmis marcher nos
légions
Dans ce petit amas de poussière et de
boue
Dont notre vanité fait tant de régions. 6

«Mai» disse Tallemant des Réaux


«la forza del genio è apparsa tanto
lampante quanto in questo autore
che, tranne che per la poesia, è privo
di ogni senso comune. Ha una faccia
da contadino, balbetta e non è mai
riuscito a pronunciare il suo nome;
siccome disgraziatamente la r e la c
sono lettere che non ha mai saputo
pronunciare se non come l la prima e
t la seconda, spesso ha dovuto
scrivere il suo nome per farlo
capire.»
Era l’uomo più distratto del
mondo – dopo monsieur de Brancas,
però.
Un giorno, solo e su un cavallo
piuttosto alto, partì per andare a
trovare un suo amico in campagna.
A un terzo del percorso ebbe
bisogno di scendere. Ma non
trovando un montatoio per risalire in
sella, proseguì a piedi. Alla porta di
casa del suo amico, il montatoio
finalmente lo trova, risale a cavallo,
fa dietrofront e torna sui suoi passi
senza aver visto l’amico.
Da monsieur de Bellegarde era di
casa. Un giorno, di ritorno dalla
caccia, tutto sporco e bagnato, entra
nella camera di madame de
Bellegarde, convinto di entrare nella
sua, e non si accorge di madame de
Bellegarde e di madame de Lorges
sedute ai lati del camino. Loro
stanno mute e immobili per vedere
che cosa farà Racan. Lui si siede, si
fa togliere gli stivali e dice al suo
paggio:
«Valli a pulire, farò asciugare qui
le mie calze.»
Il paggio prende gli stivali del
padrone ed esce. Lui allora si toglie
le calze, si avvicina al fuoco e ne
mette una sulla testa di ognuna delle
due signore, che per quanto si
sforzassero di trattenersi alla fine
scoppiarono in una risata.
«Ah, vi chiedo mille volte
perdono, signore!» disse Racan
senza scomporsi. «Vi avevo prese
per due alari.»
Il giorno in cui fu accolto
all’Académie, tutti i letterati parigini
si riunirono per sentire il suo
discorso di ricevimento, ma grande
fu la loro delusione quando lo videro
estrarre dalla tasca una carta tutta
strappata.
«Signori» dichiarò, «contavo di
leggere la mia arringa, come è uso
fare, ma la mia levriera bianca l’ha
tutta mangiucchiata: eccola, cercate
di capirci qualcosa perché io non la
so a memoria e non ne ho una
copia.»
E non solo gli auditori, ma anche
gli accademici si dovettero
accontentare di questa scusa.
Eppure Racan nutriva un vera e
propria venerazione per l’Académie.
Costretto ad affidarsi a un avvocato
per un processo in cui era coinvolto,
si rivolse, senza sapere se fosse
bravo o no, al cognato di Chapelain.
«E perché avete scelto quello
piuttosto che un altro?» gli chiese
madame de Rambouillet.
«Perché» rispose Racan, «essendo
cognato di Chapelain, è come se lo
fosse di tutta l’Académie.»
Racan era marchese della famiglia
di Beuil, cugino di monsieur de
Bellegarde.
Quanto a monsieur Antoine
Godeau, vescovo di Grasse, così
piccolo che lo chiamavano il nano
della principessa Julie e che la figlia
di Montausier – quando madame de
Montausier aveva una figlia –
domandava perché non lo
mettessero a letto insieme alle sue
bambole, pur avendo ricevuto
trentamila scudi dalla sua famiglia e
due vescovadi dal cardinale, era
sempre senza un soldo, tanto che
lavorava a biografie, traduzioni, a
una storia della Chiesa, e a tempo
perso scriveva preghiere per gente di
ogni genere.
Una si intitolava Preghiera per un
procuratore e all’occorrenza per un
avvocato.
Era stato presentato alla marchesa
da mademoiselle Paulet, e quindi
aveva nel palazzo la migliore delle
posizioni.
Queste erano, insieme a Colletet,
Conrart, Desmarets, Rotrou, Mairet,
Armand d’Andilly e Voiture, le
celebrità che formavano il salotto di
madame de Rambouillet. Erano, per
così dire, parte integrante dell’hôtel
de Rambouillet, che era composto
non solo dall’edificio e dalla
famiglia, ma da tutta la gente
brillante che si riuniva intorno a
quella famiglia e in quell’edificio si
ritrovava.

1 Questo capitolo non è stato pubblicato sulle


«Nouvelles». Nel numero del 23 ottobre 1865
figura la fine del capitolo IV e, di seguito,
l’inizio del VI. Il V compare invece
nell’edizione in volume del 1946. [NdC]
2 Uno dei nomi della costellazione della
Vergine. [NdC]
3 Philis, per sfogare il suo dolore, / si
lamentava ieri con la regina / di avere avuto da
Armand quattro figli. / Ma la regina, con grande
dolcezza, / le disse: «Consolatevi, Philis, / tutti
sanno che Brézé si diverte a dir male di tutti. /
Anche chi vi è meno amico / gli farà fin troppo
onore se, di tutto quel che può dire, / crederà
anche solo una metà». [NdT]
4 Nel capitolo precedente Dumas aveva parlato
di dodici anni di attesa: è una delle numerose
piccole incongruenze in cui incorre l’autore.
[NdT]
5 Che cosa avete visto, occhi miei temerari? / e
di che cosa, pensiero mio, hai il coraggio di
parlare? / Quanto sono contrastanti i sentimenti
che mi fanno vivere e morire! / Mi costringono
tanto a parlare quanto a tacere. // Quale errore
innocente, quale pena cercata / si fanno
parimenti temere e amare? / era per perdermi, o
per conquistarmi, / per essermi a favore o per
essermi contraria? // Quale astuzia amorosa,
quale oggetto mi sorprese? / Spesso basta la sua
sola immagine per turbarmi la mente, / e di un
bene estremo faccio un estremo male. // Spesso
dubito ancora e, smarrita la ragione, / immerso
nel dubbio se credere o no a me stesso, / credo di
aver sognato quel che hanno visto i miei occhi.
[NdT]
6 Egli vede quanto di più splendido ha
l’Olimpo, / vede ai suoi piedi le fiaccole
orgogliose / che fanno girare a loro piacere la sua
sorte e la sua ruota, / vede le nostre legioni
marciare come formiche / in quel mucchietto di
polvere e di fango / che la nostra vanità
trasforma in regioni. [NdT]
VI
Che cosa accadeva all’hôtel de
Rambouillet
mentre Souscarrières
si sbarazzava del suo terzo gobbo
Dunque, durante quella serata del 5
dicembre 1628, in cui abbiamo
aperto nella locanda La Barbe Peinte
il primo capitolo di questo libro,
tutte le celebrità letterarie del tempo,
tutti i componenti di quella società
che più tardi sarebbe caduta nel
ridicolo, e che Molière avrebbe
ridicolizzato, erano riuniti nel
palazzo della marchesa, non per una
delle visite abituali, da intimi della
casa, ma convocati da madame de
Rambouillet con un biglietto che
annunciava un’assemblea
straordinaria.
E quindi non erano andati, erano
accorsi.
Bastava poco a costituire un
evento in quell’epoca felice in cui le
donne cominciavano ad acquisire
una certa influenza sulla società
[influenza che, nata nel XVII secolo
con madame de Rambouillet, la
principessa, madame de Montausier,
mademoiselle Paulet, mademoiselle
de Scudéry, si sarebbe estesa al
XVIII secolo grazie a Ninon de
Lenclos, madame de Sévigné,
madame de Montespan, madame de
Maintenon, mademoiselle de
Lafayette, madame de Tencin,
madame du Deffand, madame
d’Épinay, madame de Genlis, e –
passando attraverso la Rivoluzione
grazie a madame de Staël, madame
Roland, madame Tallien – avrebbe
ai nostri giorni offerto come
coronamento di questo regno
trecentenario la regina Hortense,
madame de Girardin, madame
Sand]. 1
La poesia, da parte sua, era in
gestazione; nel secolo precedente,
aveva dato un Marot, un Garnier, un
Ronsard, balbettava le sue prime
tragedie, le sue prime opere
pastorali, le sue prime commedie
con Hardy, Desmarets, Raissiguier e,
grazie a Rotrou, a Corneille, a
Molière e a Racine, era sul punto di
portare la Francia, nel campo della
letteratura drammatica, alla testa di
tutte le nazioni, nonché di rendere
perfetto quel bell’idioma che, creato
da Rabelais, ripulito da Boileau,
filtrato da Voltaire, sarebbe divenuto
per la sua chiarezza la lingua
diplomatica dei popoli civili. La
chiarezza è la lealtà delle lingue.
Il grande genio del XVI secolo, o
meglio di tutti i secoli, William
Shakespeare, era morto da dodici
anni, noto solamente agli inglesi:
non inganniamoci, la popolarità del
grande poeta elisabettiano è
recentissima – nessuno dei brillanti
spiriti riuniti attorno a madame de
Rambouillet aveva mai sentito
nemmeno pronunciare il nome di
colui che, cent’anni dopo, Voltaire
avrebbe chiamato “barbaro”. Del
resto, in tempi in cui a teatro si
rappresentavano pièces come La
Délivrance d’Andromède, La
Conquête du Sanglier de Calydon e
La Mort de Bradamante, opere
come Hamlet, Macbeth, Othello,
Julius Caesar, Romeo and Juliet o
Richard III sarebbero stati bocconi
ben duri da digerire per uno stomaco
francese.
No, a noi venivano dalla Spagna
la Lega con i Guise, le mode con la
regina, e la letteratura con Lope de
Vega, Alarcon, Tirso de Molina.
Calderón non era stato ancora
pubblicato.
Chiudiamo questa lunga
parentesi, che si è aperta da sola e
per forza di cose, per riprendere il
nostro discorso dalle parole
«Bastava poco a costituire un evento
in quell’epoca felice»: stavamo per
aggiungere che un invito di madame
de Rambouillet era un doppio
evento. Tutti sapevano che la
marchesa si preoccupava e
soprattutto si compiaceva di fare
delle sorprese ai suoi ospiti. Una
volta ne fece all’arcivescovo di
Lisieux, Philippe de Cospéan, una
che di sicuro un vescovo non si
sarebbe aspettato. Nel parco di
Rambouillet c’era una grande roccia
rotonda da cui sgorgava una fontana.
Una cortina di alberi la proteggeva,
nascondendola. Era resa sacra dal
ricordo di Rabelais, che ne faceva
spesso la sua stanza da studio,
qualche volta la sua sala da pranzo.
Un bel mattino la marchesa vi
condusse monsignor di Lisieux. A
mano a mano che si avvicinava, il
prelato strizzava gli occhi,
scorgendo attraverso gli alberi
qualcosa di luccicante che non
riusciva a individuare. Continuando
ad avvicinarsi, tuttavia, gli parve
finalmente di distinguere sette o otto
giovani donne vestite da ninfe, cioè
molto poco vestite. Si trattava in
effetti di mademoiselle de
Rambouillet vestita da Diana, con la
faretra sulla spalla, l’arco in mano,
lo spicchio di luna sopra il capo, e di
tutte le damigelle del palazzo che,
raggruppate sulla roccia, vi
rappresentavano, dice Tallemant des
Réaux, un gran bello spettacolo. Di
uno spettacolo del genere, un
vescovo dei giorni nostri forse si
scandalizzerebbe, ma monsignor di
Lisieux ne fu invece così incantato
che non vedeva mai la marchesa
senza chiederle notizie delle rocce di
Rambouillet. E a chi le faceva notare
che in una circostanza simile
Atteone era stato trasformato in
cervo e straziato dai cani, lei
rispondeva che i due casi non
potevano essere paragonati, dato che
il buon vescovo era tanto brutto che
le ninfe potevano di sicuro fare un
certo effetto su di lui, ma lui non ne
poteva fare sulle ninfe, se non quello
di metterle in fuga. Del resto,
monsignor di Lisieux era ben
consapevole della propria bruttezza
ed era il primo a scherzarci su:
avendo consacrato il vescovo di
Riez, tutt’altro che un Adone, a lui
che lo ringraziava rispose:
«Purtroppo, signore, tocca a me
ringraziarvi, perché prima che
diventaste mio collega il vescovo
più brutto di Francia ero io.»
Nel gruppo di madame de
Rambouillet, forse gli uomini, più
numerosi ancora delle donne, si
aspettavano da parte della marchesa
una sorpresa analoga a quella fatta a
monsignor di Lisieux ed erano
accorsi con questa speranza.
Regnava dunque in quella preziosa
assemblea la curiosità inquieta che
precede i grandi eventi, ignorati
ancora ma di cui si ha tuttavia una
vaga percezione.
La conversazione si svolgeva sui
più svariati argomenti d’amore e di
poesia. Ma soprattutto sull’ultima
pièce messa in scena all’hôtel de
Bourgogne, che la buona società
cominciava a frequentare da quando
Bellerose, sua moglie – la Beaupré
–, mademoiselle Vaillot, la Villers e
Mondory avevano assunto la
direzione del teatro.
Era stata madame de Rambouillet
a farli diventare di moda, invitandoli
a recitare in casa sua Frédégonde ou
Le Chaste amour di Hardy. 2 A
partire da allora, si era deciso che le
donne perbene, che fino a quel
momento non frequentavano l’hôtel
de Bourgogne, avrebbero invece
potuto farlo. La pièce cui ci si
interessava era il debutto di un
giovanissimo protetto della
marchesa, un certo Jean Rotrou;
s’intitolava L’Hypocondriaque ou
Le Mort amoureux. 3 Benché di
mediocre valore, grazie all’appoggio
dell’hôtel de Rambouillet aveva
riscosso abbastanza successo, tanto
che il cardinale di Richelieu invitò
Rotrou nella sua casa di place
Royale perché si unisse ai suoi
collaboratori abituali, Mairet,
L’Estoile e Colletet, ai quali si
aggiungevano anche due
collaboratori straordinari, Desmarets
e Bois-Robert.
Proprio mentre si discutevano i
molto contestabili meriti di quella
commedia, che Scudéry e Chapelain
stavano facendo a pezzi, entrò un bel
giovane sui diciannove anni, molto
elegante, che con assoluta
disinvoltura attraversò il salone e,
secondo le migliori regole
dell’etichetta, andò a salutare prima
la principessa, che, nella sua qualità
di Altezza, moglie di monsieur de
Condé, aveva ovunque diritto a
essere salutata per prima, poi la
marchesa, poi la bella Julie.
Dietro di lui, un compagno di due
o tre anni più vecchio, tutto vestito
di nero, avanzava in mezzo alla
dotta e imponente assemblea con
passo tanto timido quanto era sciolta
l’andatura del suo amico.
«Guardate» disse la marchesa nel
vedere i due giovani e indicando il
primo, «ecco appunto il trionfatore.
Ed è talmente bello salire al
Campidoglio alla sua età che
nessuno, spero, avrà il coraggio di
gridare “Cesare, ricordati che sei
mortale” dietro il suo carro.»
«Ah, signora marchesa» rispose
Rotrou, poiché di lui si trattava,
«lasciate dire, invece. Il critico più
malevolo non dirà mai della mia
povera pièce il male che ne penso io,
e vi giuro che senza l’ordine
tassativo del conte di Soissons avrei
lasciato perdere il mio Mort
amoureux come se fosse davvero
morto e avrei debuttato con la
commedia cui sto lavorando
adesso.»
«Be’, e qual è l’argomento di
questa commedia, mio bel
cavaliere?» domandò mademoiselle
Paulet.
«Un anello che nessuno avrà
voglia di mettersi al dito dopo avervi
vista, adorabile leonessa: l’anello
dell’oblio.»
Un mormorio lusinghiero e un
grazioso ringraziamento del capo da
parte di colei cui era rivolto
accolsero il complimento, durante il
quale il giovane vestito di nero si era
tenuto più nascosto che poteva
dietro chi lo aveva portato lì. Ma
siccome nessuno lo conosceva e alla
marchesa si presentavano solo
uomini che già avevano un nome o
che se ne sarebbero presto fatto uno,
il suo atteggiamento, per quanto
modesto, non poteva impedire che
tutti gli occhi si fissassero su di lui.
«E come trovate il tempo di
scrivere una nuova commedia,
monsieur Rotrou» domandò la bella
Julie, «ora che siete ammesso
all’onore di lavorare a quelle del
cardinale?»
«Il cardinale ha avuto talmente da
fare all’assedio della Rochelle»
rispose Rotrou «che ci ha lasciato un
po’ di tregua, e ne ho approfittato
per lavorare più che potevo.»
Il giovane vestito di nero, intanto,
continuava ad assorbire la parte di
attenzione non accaparrata da
Rotrou.
«Non è certo uno spadaccino»
disse mademoiselle de Scudéry al
fratello.
«Sembra piuttosto un giovane di
studio» rispose lui.
Il giovane vestito di nero sentì il
breve scambio di battute e salutò
con un sorriso cordiale.
Lo sentì anche Rotrou, e:
«Sì, sì» disse, «infatti è un
giovane di studio, e un giovane di
studio che sarà un giorno maestro di
tutti noi, ve lo dico io.»
Toccò ora agli uomini sorridere,
fra l’incredulo e lo sprezzante. Gli
sguardi femminili si accesero di
maggiore curiosità per colui che
Rotrou presentava con pronostici
tanto brillanti.
Benché molto giovane, si faceva
notare per il suo viso austero, per la
ruga che gli attraversava la fronte,
come scavata dal vomere del
pensiero, e per gli occhi pieni di
fuoco. Il resto del viso era volgare, il
naso grosso, la bocca spessa, anche
se la si vedeva poco, sepolta
com’era sotto dei baffi in crescita.
Rotrou ritenne fosse arrivato il
momento di soddisfare la curiosità
generale e proseguì:
«Signora marchesa, permettetemi
di presentarvi il mio caro
compatriota Pierre Corneille, figlio
del sostituto procuratore generale di
Rouen, e fra non molto figlio del suo
genio.»
Il nome era del tutto sconosciuto.
«Corneille» ripeté Scudéry, «il
nome è quello di un uccello del
malaugurio.»
«Per i suoi rivali, certamente,
monsieur de Scudéry» replicò
Rotrou.
«Corneille» ripeté anche la
marchesa, ma in tono benevolo.
«Ab illice [sic] cornix» 4 alitò
Chapelain al vescovo di Grasse,
monsignor Godeau.
«Ebbene!» disse Rotrou a
madame de Rambouillet. «Vi state
chiedendo sul frontespizio di quale
poema, in capo a quale tragedia
avete letto questo nome. Su nessuno,
signora marchesa. Per ora è scritto
solo in capo a una commedia con cui
questo bravo collega, arrivato ieri da
Rouen, ha pagato questa notte la mia
ospitalità. Domani lo accompagno
all’hôtel de Bourgogne, lo presento
a Mondory e fra un mese andremo
ad applaudirlo.»
Il giovane levò gli occhi al cielo,
da poeta che dice a se stesso: “Lo
volesse Iddio!”.
Si fece cerchio attorno ai due
amici, con curiosità crescente.
Soprattutto la principessa, avida di
lodi per natura, vedendo in ogni
poeta un panegirista della sua
bellezza che iniziava a sfiorire,
sembrava al colmo della curiosità.
Fece rotolare la sua poltrona accanto
al gruppo formatosi attorno a Rotrou
e al suo compagno e, mentre gli
uomini, in particolare i poeti, se ne
stavano sdegnosamente al loro
posto, domandò:
«E il titolo della vostra
commedia, monsieur Corneille, lo si
potrebbe conoscere?»
Corneille si voltò a questa
domanda in cui risuonava una certa
alterigia. Mentre si voltava, Rotrou
gli bisbigliò qualcosa all’orecchio.
«Si chiama Mélite» rispose, «a
meno che Vostra Altezza non si
degni di battezzarla con un nome
migliore.»
«Mélite, Mélite» ripeté la
principessa. «No, va lasciata così.
Mélite è incantevole, e se la favola è
all’altezza...»
«Quello che è soprattutto
incantevole, signora principessa»
replicò Rotrou, «è che non si tratta
di una favola, bensì di una storia.»
«Come, una storia?» domandò
mademoiselle Paulet. «L’argomento
sarebbe tratto dalla realtà?»
«Su, racconta come stanno le cose
a queste signore, cattivo soggetto
che non sei altro» disse Rotrou al
suo compagno.
Corneille arrossì fino alle
orecchie. Nessuno poteva parere un
cattivo soggetto meno di lui.
«Resta da sapere se la storia si
può raccontare in prosa» osservò
madame de Combalet, coprendosi in
anticipo il viso con il ventaglio, nel
caso in cui Corneille l’avesse
raccontata.
«Preferirei recitarne qualche
verso» disse Corneille timidamente
«che raccontarne il soggetto.»
«Bah» intervenne Rotrou,
«quanto imbarazzo per una frase
galante. Ve la racconto io in due
parole la storia. Ma non in questa
consiste il merito, dal momento che
la storia è vera e che il mio amico,
essendone il protagonista, non ha
nemmeno il merito dell’invenzione.
Immaginate, signora, che un amico
di questo libertino...»
«Rotrou, Rotrou...» interruppe
Corneille.
«Riprendo, malgrado
l’interruzione» continuò Rotrou.
«Immaginate dunque che un amico
di questo libertino lo presenti in una
casa perbene di Rouen, dove tutto
era stabilito per il matrimonio del
suddetto amico con una ragazza
incantevole. Che cosa farà secondo
voi monsieur Corneille? Aspetterà
che il matrimonio sia celebrato e si
accontenterà per il momento di fare
il paggio d’onore, salvo poi... avete
capito, no?»
«Monsieur Rotrou!» fece madame
de Combalet tirandosi sugli occhi la
sua cuffia da carmelitana.
«Salvo poi che cosa?» replicò
mademoiselle de Scudéry con aria
insolente. «Perché se gli altri hanno
capito, vi avverto che io, invece, non
ho capito affatto.»
«Lo spero bene, bella Saffo» (era
il nome che si dava a mademoiselle
de Scudéry nel Dictionnaire des
Précieuses); «parlo per monsignor il
vescovo di Grasse e per
mademoiselle Paulet che, loro,
hanno capito, vero?»
Mademoiselle Paulet diede un
colpetto con il ventaglio sulle dita di
Rotrou, con una grazia quanto mai
provocante, dicendo:
«Continuate, buono a nulla, più in
fretta finite, meglio sarà.»
«Sì, ad eventum festina, 5

secondo il precetto oraziano.


Ebbene, monsieur Corneille, nella
sua qualità di poeta, seguì il
consiglio di Mecenate: non si prese
la briga di aspettare. Torna da solo
dalla signorina, batte in breccia la
piazzaforte, il cui nome non era
evidentemente fedeltà, e sulle rovine
della felicità del suo amico
costruisce la propria, e questa
felicità è tale, a quanto sembra, che
di colpo fa sgorgare dal cuore di
questo signore una fonte di poesia
identica a quella cui si dissetano
Pegaso e le nove donzelle chiamate
Muse.»
«Ma guardate un po’» disse la
principessa «dove va a nascondersi
l’Ippocrene: 6 nel cuore di un
giovane di studio! In verità, c’è da
non crederci!»
«Fino a prova contraria, vero
principessa? Questa prova, il mio
amico Corneille ve la fornirà.»
«Quando si dice una dama
fortunata!» disse mademoiselle
Paulet. «La sua immortalità è
assicurata, se la commedia di
monsieur Corneille ottiene il
successo predetto da Rotrou!»
«Già» replicò mademoiselle de
Scudéry, asciutta come al suo solito,
«ma ho qualche dubbio che nel
corso di questa immortalità, durasse
quanto quella della Sibilla
cumana, 7 una simile celebrità le
procuri un marito.»
«Oh, mio Dio, trovate che sia poi
una così gran disgrazia restare
zitella?» disse mademoiselle Paulet.
«Quando si è belle, naturalmente.
Domandate a madame de Combalet
se essere sposate è una gioia tanto
divina!»
Madame de Combalet si limitò a
sospirare levando gli occhi al cielo e
scuotendo tristemente il capo.
«Comunque sia» intervenne la
principessa, «monsieur Corneille ci
aveva proposto di recitarci qualche
verso della sua commedia.»
«Oh, è bell’e pronto» disse
Rotrou. «Chiedere versi a un poeta è
come chiedere acqua a una fonte.
Dai, Corneille, coraggio, amico
mio!»
Corneille arrossì, balbettò, si posò
una mano sulla fronte e, con una
voce che pareva fatta più per la
tragedia che per la commedia, recitò
i versi che seguono:
Je te l’avoue, ami, mon mal est incurable
Je ne sais qu’un remède et j’en suis
incapable!
Le change serait juste après tant de
rigueur
Mais malgré ses dédains, Mélite a tout
mon cœur.
Elle a sur mes esprits une entière
puissance.
Si j’ose murmurer ce n’est qu’en son
absence.
Et je ménage en vain dans un
éloignement,
Un peu de liberté pour mon ressentiment.
D’un seul de ses regards l’adorable
contrainte
Me rend tous mes liens, en resserre
l’étreinte,
Et par un si doux charme aveugle ma
raison
Que je cherche le mal et fuis la guérison.
Son œil agit sur moi d’une vertu si forte
Qu’il ranime soudain mon espérance
morte,
Combat les déplaisirs de mon cœur irrité
Et soutient mon amour contre sa cruauté.
Mais ce flatteur espoir qu’il rejette en mon
âme
N’est qu’un doux imposteur qu’autorise
ma flamme
Et qui sans m’assurer ce qu’il semble
m’offrir,
Me fait plaire en ma peine et m’obstine à
souffrir.
Le jour qu’elle naquit, Vénus, bien
qu’immortelle,
Pensa mourir de honte en la voyant si
belle.
Les grâces à l’envi descendirent des cieux
Pour se donner l’honneur d’accompagner
les jeux,
Et l’amour qui ne put entrer dans son
courage
Voulut obstinément loger sur son
visage. 8
Per due o tre volte lusinghieri
mormorii avevano salutato in quei
versi la testimonianza che Febo, così
di moda nel bel mondo parigino,
aveva fatto irruzione anche in quello
di provincia, e che le menti brillanti
non si trovavano tutte all’hôtel de
Rambouillet e in place Royale. Ma a
quell’ultimo verso
Voulut obstinément loger sur son visage

scoppiarono gli applausi, cui


madame de Rambouillet diede il via.
Solo qualcuno degli uomini, fra cui
il più giovane dei fratelli Montausier
che detestava quella poesia di
similitudini e antitesi, protestò
rimanendo in silenzio.
Ma il poeta nemmeno se ne
accorse e, inebriato di quegli
applausi che il fior fiore dei brillanti
spiriti parigini gli tributava,
s’inchinò e chiese:
«Poi viene il sonetto per Mélite.
Devo recitarlo?»
«Sì, sì» esclamarono a una voce la
principessa, madame de
Rambouillet, la bella Julie,
mademoiselle Paulet e tutti coloro
che plasmavano il loro gusto su
quello della padrona di casa.
Corneille proseguì:
Après l’œil de Mélite il n’est rien
d’admirable,
Il n’est rien de solide après ma loyauté,
Mon feu comme son teint se rend
incomparable
Et je suis en amour ce qu’elle est en
beauté.
Quoi que puisse à mes sens offrir la
nouveauté,
Mon cœur à tous les traits demeure
invulnérable,
Et quoi qu’elle ait au sien la même
cruauté
Ma foi pour ses rigueurs n’en est pas
moins durable.
C’est donc avec raison que mon extrême
ardeur
Trouve chez cette belle une extrême
froideur
Et que sans être aimé je brûle pour Mélite,
Car de ce que les Dieux, nous envoyant au
jour,
Donnèrent pour nous deux d’amour et de
mérite,
Elle a tout le mérite et moi j’ai tout
l’amour. 9

I sonetti avevano il privilegio di


sollevare più entusiasmo di
qualunque altra poesia e, benché
Boileau, dovendo nascere solo otto
anni dopo, non avesse ancora detto:
«Un sonetto privo di difetti vale da
solo un lungo poema», questo
sonetto, ritenuto appunto privo di
difetti, soprattutto dalle donne, fu
applaudito a oltranza, e persino
mademoiselle de Scudéry si degnò
di accostare i palmi delle sue mani.
Rotrou in particolare, al colmo
della gioia, godeva del trionfo del
suo amico, da cuore leale, affettuoso
e altruista qual era.
«Avevate davvero ragione,
monsieur Rotrou» commentò la
principessa, «e il vostro amico è un
giovane da sostenere.»
«Se è questo il vostro parere,
signora, non potreste tramite Sua
Altezza il principe ottenere un
posticino per lui? È del tutto privo di
mezzi e sarebbe peccato, lo vedete,
che un così bell’ingegno andasse
perduto per mancanza di qualche
scudo.»
«Ah sì, certo! È proprio con il
principe che bisogna parlare di
poesia. L’altro giorno, mi vede a
cena con Chapelain. Mi chiama per
parlarmi di non so più che cosa; poi,
quando ha finito, torna e mi
domanda: “A proposito, chi è quel
piccoletto scuro che cena con voi?”.
“È Chapelain” rispondo, credendo
con questo di aver detto tutto. “E chi
è Chapelain?” “Quello che ha fatto
La Pucelle.” “La Pucelle... Ah,
allora è uno scultore?” No, ne
parlerò con madame de Combalet,
che ne parlerà al cardinale. Lui
sarebbe disposto a lavorare alle
tragedie di Sua Eminenza?»
«Sarà disposto a tutto pur di
restare a Parigi. Se ha composto
versi simili in uno studio di
procuratore, pensate a che cosa
potrebbe fare in una società come
quella di cui voi siete la regina e la
marchesa il primo ministro.»
«D’accordo, fate mettere in scena
Mélite, che abbia successo e noi
combineremo la faccenda.»
E tese la sua bella mano
principesca a Rotrou, che la prese
nella sua e la guardò come se ne
valutasse la perfezione.
«Ebbene, a che cosa state
pensando?» domandò la principessa.
«Mi chiedo se ci sia posto, su
questa mano, per due bocche di
poeti. Purtroppo no! È troppo
piccola.»
«Fortunatamente» disse madame
de Condé, «il Signore me ne ha date
due: una per voi, l’altra per chi
volete voi.»
«Corneille, Corneille!» gridò
Rotrou. «Vieni! La principessa, in
virtù del sonetto a Mélite, permette
che tu le baci la mano.»
Corneille rimase interdetto, come
abbagliato, e fu lì lì per cadere.
Nella stessa serata, e il giorno stesso
del suo debutto nell’alta società,
baciare la mano della principessa ed
essere applaudito da madame de
Rambouillet – nei suoi sogni più
ambiziosi mai aveva aspirato anche
a uno soltanto di quei due favori.
A chi la gloria? A Corneille e
Rotrou, che baciavano le mani della
moglie del primo principe di
sangue? O a madame de Condé che
porgeva le mani da baciare ai due
futuri autori di Venceslas e del Cid?
Consultata, la posterità decretò
che l’onore era tutto della
principessa.
Nel frattempo Claude, il
maggiordomo, con il suo bastone
bianco in mano, come Polonio
nell’Amleto, si era avvicinato alla
marchesa per dirle qualcosa
sottovoce, e lei, dopo averlo
ascoltato e avergli impartito qualche
ordine, sempre sottovoce perché
nessuno potesse sentire, aveva
rialzato la testa e aveva detto,
sorridendo:
«Nobilissimi e carissimi signori,
preziosissime e ottime amiche mie,
se vi avessi invitato a trascorrere la
serata da me solo per farvi ascoltare
i versi di monsieur Corneille, già
non avreste di che lamentarvi; ma vi
ho convocati con un intento più
materiale, uno scopo meno elevato.
Vi ho spesso parlato della superiorità
dei sorbetti e dei gelati italiani
rispetto a quelli francesi. Ho tanto
fatto che ho trovato un gelataio che
arriva dritto da Napoli e finalmente
posso farveli assaggiare. Non dirò
dunque chi mi ama mi segua, bensì
chi ama i gelati mi segua. Monsieur
Corneille, datemi il braccio!»
«A voi il mio braccio, monsieur
Rotrou» disse la principessa, che
quel giorno aveva deciso di seguire
in tutto e per tutto l’esempio della
marchesa.
Tutto tremante e con la goffaggine
di un uomo di genio venuto dalla sua
provincia, Corneille tese il braccio
alla marchesa, mentre Rotrou, con la
galanteria di un perfetto cavaliere,
presentava il proprio, correttamente
arrotondato, a madame de Condé. Il
conte di Salles – il minore dei due
fratelli Montausier – e il marchese di
Montausier si offrirono come
cavalieri uno alla bella Julie e l’altro
a mademoiselle Paulet; Gombauld si
accontentò di mademoiselle de
Scudéry e gli altri si arrangiarono
come capitava.
Madame de Combalet, con il suo
abito da carmelitana di cui solo un
bouquet fresco di violette e di
boccioli di rose appuntato al soggolo
mitigava la severità, non potendo
dare il braccio a un uomo, si era
accodata alla principessa
appoggiandosi a quello di madame
de Saint-Étienne, la seconda figlia
della marchesa, anch’essa in
convento. Con la sola differenza che
ogni giorno madame de Saint-
Étienne faceva un passo in più per
entrarvi, e madame de Combalet uno
in più per uscirne.
Fino a questo momento l’invito di
madame de Rambouillet non aveva
nulla di cui ci si dovesse stupire, ma
la sorpresa fu grande quando si vide
la marchesa passare, nella sua
qualità di guida, davanti alla
principessa e dirigersi verso un
punto della parete dove non c’erano
né porte né aperture.
Lì giunta, colpì la parete con il
ventaglio.
Subito la parete si aprì come per
incanto e si ritrovarono sulla soglia
di un magnifico locale con arredi di
velluto azzurro impreziosito d’oro e
d’argento. Le tappezzerie erano in
velluto uguale a quello dei mobili,
con analoghi ornamenti. In mezzo al
locale una sorta di cubo a scaffali
carico di fiori, frutta, dolci e gelati
offerti da due piccoli elfi che altri
non erano se non le sorelle minori di
Julie d’Angennes e di madame de
Saint-Étienne.
Il grido di ammirazione fu
unanime; tutti sapevano che dietro
quella parete c’era solo il giardino
dei Quinze-Vingts e di colpo
vedevano apparire una stanza così
ben arredata e tappezzata, con un
soffitto dipinto così bene da credere
che solo una fata avesse potuto
esserne l’architetto e un mago il
decoratore.
Mentre ognuno si estasiava sul
buon gusto e sul lusso di quella
stanza che sarebbe in seguito
diventata tanto famosa con il nome
di Camera azzurra, Chapelain aveva
preso carta e matita e in un angolo
del salone abbozzava le prime tre
stanze di quella famosa Ode à
Zirphée che suscitò quasi lo stesso
clamore della Pucelle e che ebbe
l’onore di sopravviverle.
L’atto e le intenzioni di Chapelain
non erano passati inosservati, così
calò un profondo silenzio quando
quello che veniva considerato il
miglior poeta del suo tempo si alzò
e, lo sguardo ispirato, la mano
protesa, la gamba in avanti,
pronunciò con voce stentorea i versi
seguenti:
Urgande sut bien autrefois
En faveur d’Amadis et de sa noble bande
Par ses charmes fixer les lois
Du temps, à qui les cieux veulent que tout
se rende,
J’ai dû faire à vos yeux ce qu’on a fait
jadis:
Conserver Arthémise avec l’art dont
Urgande
A su conserver Amadis.
Par la puissance de cet art,
J’ai construit cette loge aux maux
inaccessible
Du temps et du sort à l’écart.
Franche des changements de l’être
corruptible
Pour qui seule en roulant les cieux ne
roule pas,
Bref où ne montrent pas leurs visages
terribles:
La vieillesse ni le trépas.
Cette incomparable beauté
Que cent maux attaquaient et pressaient
de se rendre
Par cet édifice enchanté
Trompera leurs efforts et s’en pourra
défendre
Elle y brille en son trône et son éclat divin
De là, sur les mortels, va désormais
s’épandre
Sans nuage, éclipse, ni fin. 10

Tre salve di applausi e grida di


entusiasmo accolsero questa
improvvisazione, quando, fra gli
urrah e i bravo, Voiture irruppe nel
locale appena inaugurato, pallido e
coperto di sangue, gridando:
«Un medico, presto! Il marchese
di Pisany si è battuto con
Souscarrières ed è gravemente
ferito.»
Contemporaneamente, infatti, si
vide in fondo al salone il marchese
di Pisany, privo di sensi e pallido
come un morto, portato a braccia da
Brancas e da Chavaroche.
Risuonarono tre gridi: «Mio
figlio!, Mio fratello!, Il marchese!».
E senza più occuparsi della Camera
azzurra così tristemente inaugurata,
tutti si precipitarono verso il ferito.
Proprio mentre il marchese di
Pisany veniva trasportato esanime
all’hôtel de Rambouillet, un evento
inatteso, che avrebbe singolarmente
complicato la situazione, gettava
nello sbalordimento i commensali
della locanda della Barbe Peinte.
Étienne Latil, creduto morto e
steso su un tavolo in attesa che si
cucisse il suo sudario e che si
mettessero insieme le assi della sua
bara, emise un sospiro, aprì gli occhi
e mormorò con voce fioca ma
perfettamente intellegibile queste
due parole:
«Ho sete!»
1 Questo elenco, che riprende in parte quello
della lettera di Dumas al direttore delle
«Nouvelles», compare nell’edizione in volume
del 1946, ma non nel testo pubblicato sulla
rivista. [NdC]
2 Alexandre Hardy (1570-1632) è uno dei più
fecondi drammaturgi francesi; la tragicommedia
Frédégonde ou Le Chaste amour è del 1621.
[NdT]
3 Jean Rotrou (1609-1650), benché di tre anni
più giovane di Corneille, comincia a scrivere
prima di lui; drammaturgo della compagnia
dell’hôtel de Bourgogne, nel 1635 entra a far
parte dei Cinq auteurs incaricati di dar forma alle
ispirazioni teatrali di Richelieu;
L’Hypocondriaque ou Le Mort amoureux (1628)
è la sua prima pièce. [NdT]
4 Virgilio, Bucoliche, egloga I: Saepe sinistra
cava praedixit ab ilice cornix (Spesso alla mia
sinistra dalla cavità di un leccio una cornacchia
me l’aveva annunciata [questa disgrazia]). La
battuta si fonda sul significato di Corneille,
cornacchia. [NdT]
5 Affrettati verso la fine (Orazio, Ars poetica).
[NdT]
6 Nella mitologia greca, fonte del monte
Elicona, sgorgata nel punto colpito dallo zoccolo
del cavallo alato Pegaso. Luogo prediletto dalle
Muse. [NdC]
7 Le Sibille sono sacerdotesse mitologiche. La
Sibilla cumana ottenne da Apollo di vivere mille
anni ma dimenticò di chiedergli anche di
rimanere giovane per tutta la vita. [NdC]
8 Te lo confesso, amico mio, il mio male è
incurabile, / conosco un solo rimedio e sono
incapace di usarlo! / Cambiare sarebbe giusto
dopo tanta durezza, / ma malgrado i suoi sdegni
Mélite possiede per intero il mio cuore. / Ha
potere assoluto su ogni mio pensiero. / Se oso
lamentarmi è solo perché lei è lontana. / E
invano cerco in assenza di lei / di liberarmi di
quello che sento. / L’adorabile catena di un solo
suo sguardo / mi rende ai miei legami, ne
riafferma la stretta / e acceca la ragione con tanto
dolce incanto / che cerco il male e dal guarir
rifuggo. / Tanta è su di me la forza del suo
sguardo / che subito rianima la mia speranza
spenta, / combatte i desideri del mio cuore
ulcerato / e sostiene il mio amore contro la sua
crudeltà. / Ma la lusinghiera speranza che mi
getta nell’anima / non è altro che una dolce
impostura che autorizza la mia fiamma / e senza
concedere quello che sembra offrirmi / fa che io
mi crogioli nella mia pena e mi ostini a soffrire. /
Quando lei nacque, Venere, benché immortale, /
credette di morire di vergogna al vederla tanto
bella. / A gara le Grazie scesero dai cieli / per
avere l’onore di accompagnarne i giochi, / e
l’amore che non riuscì a scalfire le sue difese /
tenacemente volle abitare il suo volto. [NdT]
9 Dopo gli occhi di Mélite, non c’è nulla da
ammirare, / dopo la mia lealtà, non c’è nulla di
durevole, / come il suo incarnato, il mio fuoco
non regge confronti / e io sono in amore quello
che lei è in bellezza. // Nulla di nuovo che si
offra ai miei sensi / può colpire il mio cuore / e,
benché lei sia sempre altrettanto crudele, / la mia
fedeltà non viene meno per la sua durezza. // È
giusto allora che il mio estremo ardore / trovi
nella mia bella un’estrema freddezza / e che io
bruci per Mélite senza esserne amato. // Perché
del merito e dell’amore che nel metterci al
mondo / ci hanno donato gli dèi, / lei ha tutto il
merito e io tutto l’amore. [NdT]
10 Un tempo Urgande, / per Amadis e i suoi
nobili compagni, / ha saputo con le sue magie
stabilire le leggi / del tempo cui vogliono i cieli
che tutto sia sottomesso, / io ho dovuto fare per i
vostri occhi quel che è stato fatto allora: /
conservare Arthémise con l’arte con cui Urgande
/ conservò Amadis. // Con il potere di quell’arte,
/ ho costruito questa loggia inaccessibile ai mali /
dei tempi e al riparo della sorte. / Libera dai
mutamenti dell’essere corruttibile / lei, sola che
non ruoti al ruotare dei cieli, / lei cui non
mostrano gli orribili volti / né vecchiaia né
morte. // Quell’incomparabile bellezza / che
mille mali attaccavano per costringerla ad
arrendersi / grazie a questa costruzione incantata
/ eluderà i loro sforzi e saprà difendersene. / Lì,
lei sfavilla sul suo trono e il suo divino splendore
/ da lì potrà scendere sui mortali / senza nubi,
senza eclisse, senza fine. [NdT]
VII
Marina e Jacquelino1
Qualche minuto prima che Latil
manifestasse la sua esistenza in vita
con le due parole pronunciate in
genere da qualunque ferito che
riprenda i sensi – e che, del resto,
figuravano tra le prime del
repertorio del nostro spadaccino –,
un ragazzo si era presentato alla
locanda della Barbe Peinte e aveva
domandato se la camera numero 13
del primo piano non fosse occupata
da una certa Marina, contadina dei
dintorni di Pau. La si riconosceva
facilmente, aveva aggiunto, per i bei
capelli e i begli occhi neri messi in
risalto dalla cuffia 2 color papavero
che li incorniciava, e da tutto il suo
abbigliamento, che ricordava quelle
aspre montagne di Coarraze tante
volte scalate da Enrico IV quando
era bambino, a capo e piedi nudi.
Madame Soleil, con un bel
sorriso, lasciò che il ragazzo
s’informasse con tutta calma,
probabilmente perché non le
dispiaceva osservare nel dettaglio
quel viso giovanile; dopodiché, con
un’occhiata d’intesa, rispose che la
giovane contadina di nome Marina
si trovava nella camera indicata e
aspettava da una mezz’oretta.
E intanto con un gesto amabile,
uno di quei gesti che hanno sempre
le donne dai trenta ai trentacinque
anni per i bei ragazzi dai venti ai
ventidue, madame Soleil indicava a
colui che la interrogava la scala in
cima alla quale avrebbe trovato la
camera numero 13.
Il ragazzo in effetti era, come
abbiamo detto, un bel giovane dai
venti ai ventidue anni, 3 non molto
alto ma ben fatto, con modi che ne
rivelavano l’eleganza e la forza.
Aveva gli occhi azzurri delle razze
del Nord, protetti dalle sopracciglia
e dai capelli neri di quelle del Sud.
Una carnagione più abbronzata dal
sole che pallida di stanchezza, baffi
sottili, un accenno di pizzetto, labbra
fini e ironiche che mostravano,
aprendosi, due file di denti bianchi,
che più di una bocca femminile
avrebbe invidiato, completavano
l’attraente insieme di questa
fisionomia.
Il suo abito da contadino basco
era allo stesso tempo comodo ed
elegante, composto da un berretto
rosso – sangue di bue – ornato al
centro da una grossa nappa nera che
ricadeva sulla spalla e da due penne,
una della stessa tonalità del berretto,
l’altra dello stesso colore della
nappa, che incorniciavano il viso in
maniera seducente; il farsetto, della
stessa stoffa del cappello e come
questo ornato di passamanerie nere,
lasciava vedere da una delle
maniche aperte e pendenti, la destra,
un sotto che, in un’epoca di attacchi
quotidiani e di imboscate notturne,
avrebbe potuto in caso di necessità
servire da piastrone e attutire un
colpo di spada o di pugnale.
Abbottonato dall’alto in basso, quel
farsetto non seguiva la moda di
Parigi, dove già da più di dieci anni
lo si portava abbottonato solo in alto
per lasciar uscire fra esso e le braghe
le pieghe di una camicia di fine
batista e una marea di nastri e
merletti; si chiudeva sopra delle
specie di braghe di pelle lunghe fino
ai piedi, alle quali erano state
attaccate delle suole a tacco alto che
servivano da stivali a chi le
indossava. Un pugnale infilato nella
cintura di cuoio che lo stringeva alla
vita e sosteneva una lunga spada che
gli batteva contro i polpacci
completava la tenuta di quello che
sbagliando abbiamo indicato come
contadino e che invece, stando a
quell’arma, aveva diritto al titolo di
gentiluomo di campagna.
Arrivato davanti alla porta,
dapprima si assicurò che ci fosse
sopra proprio il numero 13 e poi,
certo di non sbagliarsi, bussò in un
modo particolare, cioè due colpi
ravvicinati, una pausa, altri due colpi
e infine un quinto colpo, dopo lo
stesso intervallo di tempo trascorso
tra i primi due e il terzo e il quarto.
A quel quinto colpo la porta si
aprì, segno che il visitatore era
atteso.
Ad aprire era una donna dai
ventotto ai trent’anni, in tutto lo
splendore di una rigogliosa bellezza;
gli occhi, che il giovane aveva
descritto come segno di
riconoscimento, splendevano come
diamanti neri sotto lo scrigno
vellutato delle lunghe palpebre. I
capelli avevano una sfumatura
talmente scura che qualsiasi
paragone preso dall’inchiostro, dal
carbone, da un’ala di corvo sarebbe
stato inadeguato. Le guance avevano
quel pallore caldo e ambrato che
denuncia passioni più tumultuose e
passeggere che profonde e tenaci. Il
collo, stretto da quattro fili di
corallo, si impiantava su spalle
vigorose e scendeva con linea
dolcemente sfuggente verso un seno
che le curve molto accentuate
rendevano particolarmente
provocante. Nonostante queste
forme che, parlando in termini di
scultura, appartenevano più a Niobe
che a Diana, la vita era sottile, o
meglio sembrava più sottile di
quanto non fosse per via della
rotondità tutta spagnola delle anche.
La gonna corta, dello stesso colore
del basco, e cioè rossa rigata di
velluto nero, lasciava scoperta la
parte bassa delle gambe, più
aristocratica di quanto l’abito
avrebbe fatto supporre, e piedi che,
rispetto al resto di quella figura
prosperosa, sembravano di una
piccolezza esagerata.
Abbiamo sbagliato a dire che la
porta veniva aperta, avremmo
dovuto dire che veniva socchiusa,
perché, solo quando il giovane ebbe
pronunciato il nome «Marina» e
quella che così aveva chiamato ebbe
risposto, come per una parola
d’ordine, «Jacquelino», la porta si
aprì davvero e la sua guardiana si
fece da parte per lasciar entrare colui
che aspettava, dietro il quale
richiuse svelta il battente con il
catenaccio. Girandosi subito di
nuovo, peraltro, evidentemente
ansiosa di vedere con chi aveva a
che fare.
Si guardarono allora con pari
curiosità – Jacquelino, le braccia
incrociate, la testa alta, il sorriso
sulle labbra; Marina con il capo in
avanti, le braccia appoggiate contro
la porta e la maniera melliflua e
minacciosa dei grandi felini, come il
leopardo o la pantera, pronti a
lanciarsi sulla preda.
«Per la miseria!» esclamò il
ragazzo. «Davvero una cugina da
leccarsi i baffi!»
«E un gran bel cugino, in fede
mia!» replicò la giovane donna.
«In verità» proseguì Jacquelino,
«quando si è parenti così prossimi e
non ci si è mai visti prima, mi pare
che si debba fare conoscenza con un
bacio.»
«Non ho niente in contrario a
questo modo di dare il benvenuto ai
propri parenti» replicò Marina,
tendendo le guance coperte di un
fuggevole rossore che un
osservatore attento, senza lasciarsi
ingannare, avrebbe attribuito a un
desiderio facile ad accendersi più
che a un troppo suscettibile pudore.
I due giovani si baciarono.
«Ah, per l’anima di mio padre che
se la sapeva godere» disse il ragazzo
con un tono allegro che pareva
essergli naturale, «baciare una bella
donna è la cosa più piacevole del
mondo, tranne forse baciarla di
nuovo, che dev’essere più piacevole
ancora.»
E tese una seconda volta le
braccia per far seguire l’atto alle
parole.
«Calma, cugino» disse la giovane
donna, fermandolo di netto. «Di
questo parleremo dopo, se volete.
Non perché la cosa non mi sembri
piacevole quanto a voi, ma perché
non abbiamo tempo. È colpa vostra.
Perché avete perso mezz’ora a farmi
aspettare?»
«Bella domanda, perbacco!
Perché credevo che mi aspettasse
una grossa balia tedesca o una secca
governante spagnola. Ma se ci sarà
un’altra occasione di trovarci
insieme, giuro su Dio, mia bella
cugina, che sarò io ad aspettarvi!»
«Prendo atto della promessa, ma
ora mi preme comunque andare a
riferire a colei che mi manda che vi
ho visto e che siete pronto a
obbedire in tutto e per tutto ai suoi
ordini, come si conviene a un
cortese cavaliere nei confronti di una
principessa di rango.»
«Li aspetto umilmente, quegli
ordini» rispose il giovane mettendo
un ginocchio a terra.
«Oh, voi, in ginocchio davanti a
me, monsignore! Monsignore, ma
che cosa fate!» esclamò Marina
rialzandolo. Poi aggiunse con il suo
provocante sorriso:
«Peccato, siete bellissimo, così.»
«Allora» disse il giovane
prendendo le mani della sedicente
cugina e facendosela sedere accanto,
«prima di tutto, la notizia del mio
ritorno è stata accolta con
soddisfazione?»
«Con gioia!»
«E questa udienza mi viene
concessa volentieri?»
«Molto volentieri.»
«E la missione di cui sono
incaricato sarà accolta con favore?»
«Con entusiasmo.»
«Eppure, sono arrivato da una
settimana e aspetto da due giorni!»
«Siete davvero incantevole,
cugino mio: e da quanto tempo
siamo arrivati dalla Rochelle, noi?
Due giorni e mezzo.»
«È vero.»
«E di questi due giorni e mezzo,
in che cosa sono stati occupati ieri e
l’altroieri?»
«In festeggiamenti, lo so perché li
ho visti.»
«Da dove li avete visti?»
«Ma dalla strada, come un
semplice mortale.»
«E come vi sono parsi?»
«Magnifici.»
«Vero che ne ha di fantasia il
nostro cardinale? Sua Maestà Luigi
XIII mascherato da Giove!»
«E da Giove Statore!»
«Statore o un altro, importa
poco!»
«Eh no, non importa così poco,
mia bella cugina. Anzi, la questione
è tutta lì.»
«Dove lì?»
«Nella parola Statore. Sapete che
cosa significa Statore?»
«Proprio no.»
«Significa Giove che ferma, o che
si ferma.»
«Facciamo in modo che sia Giove
che si ferma.»
«Ai piedi delle Alpi, vero?»
«Per questo faremo tutto il
possibile, se Dio vuole, malgrado il
fulmine che aveva in mano e con cui
minacciava insieme l’Austria e la
Spagna.»
«Fulmine di legno...»
«E privo di ali...»
«Le ali del fulmine, quando si
tratta di guerra, sono i soldi, e credo
che né il re né il cardinale siano
molto ricchi in questo momento.
Quindi, cara cugina, dopo aver
minacciato Oriente e Occidente,
Giove Statore probabilmente
deporrà il fulmine senza averlo
scagliato.»
«Oh, ditelo questa sera alle nostre
due povere regine e le renderete
felici.»
«Ho anche di meglio da dire. Ho
da consegnar loro una lettera del
duca di Savoia che giura che
l’esercito francese non passerà le
Alpi.»
«Purché sia di parola, questa
volta. Non è sua abitudine, lo
sapete.»
«Ma questa volta ha tutto
l’interesse a esserlo.»
«Noi chiacchieriamo, cugino,
chiacchieriamo e perdiamo tempo
inutilmente.»
«È colpa vostra, cugina» disse il
giovane con quel sorriso aperto che
mette in mostra tutti i denti. «Siete
stata voi a non volerlo impiegare in
cose utili.»
«Siate devota ai vostri padroni e
toglietevi per loro il pane di bocca!
Ecco come sarete ricompensata della
vostra dedizione: con dei rimproveri.
Dio, come sono ingiusti gli uomini!»
«Vi ascolto, cugina.»
E il giovane si impresse sul viso
l’espressione più grave che riuscì a
trovare.
«Allora, questa sera stessa, verso
le undici, siete atteso al Louvre.»
«Come, questa sera? Questa sera
avrò l’onore di essere ricevuto dalle
Loro Maestà?»
«Questa sera.»
«Credevo che questa sera alla
corte ci fossero appunto spettacolo e
balletto per festeggiare!»
«Sì, ma la regina, appena lo ha
saputo, ha lamentato una gran
stanchezza e un insopportabile mal
di testa. Ha dichiarato che solo il
sonno l’avrebbe guarita. È stato
chiamato Bouvard. Bouvard ha
riconosciuto tutti i sintomi di
un’ostinata emicrania. Benché
medico del re, Bouvard ci appartiene
anima e corpo. Ha raccomandato
riposo assoluto e la regina si riposa
aspettandovi.»
«Ma come entrerò al Louvre?
Non dando il mio nome, immagino.»
«È tutto previsto, state tranquillo.
Questa sera, vestito da cavaliere, vi
troverete in rue des Fossés-Saint-
Germain. Un paggio con la livrea
della principessa, camoscio e
azzurra, vi aspetterà all’angolo di
rue des Poulies. Avrà la parola
d’ordine e vi accompagnerà fino al
corridoio che porta alla camera della
regina, dove vi consegnerà alle mani
della damigella d’onore di turno. Se
Sua Maestà può ricevervi subito,
sarete subito condotto da lei,
altrimenti aspetterete che giunga il
momento in un salottino vicino alla
camera.»
«E non potreste essere voi, cara
cugina, a incaricarvi di rendermi
paziente nell’attesa? Vi giuro che
troverei la cosa infinitamente
piacevole.»
«No, il mio turno per questa
settimana è finito e, come vedete,
impiego fuori il mio tempo.»
«Mi sembra anche che lo
impieghiate piacevolmente.»
«Cosa volete, caro cugino, si vive
una volta sola.»
In quel momento si sentì suonare
l’orologio dei Blancs-Manteaux.
«Le nove!» esclamò Marina.
«Abbracciatemi, svelto, cugino mio,
e cacciatemi fuori. Ho appena il
tempo di ritornare al Louvre e di
dire che ho fra i miei parenti un
affascinante cavaliere che darebbe...
che cosa dareste voi per la regina?»
«La vita! È abbastanza?»
«È troppo! Date sempre solo quel
che potreste riprendere, mai quello
che una volta dato non si può
ritrovare! Arrivederci, cugino!»
«A proposito» disse il ragazzo,
fermandola, «non c’è un segno di
riconoscimento, una parola d’ordine
da scambiare con il paggio?»
«È vero, dimenticavo. Gli direte
Casale, e lui vi risponderà
Mantova.»
E la giovane donna questa volta
offrì al sedicente cugino non più le
guance ma le labbra, sulle quali
risuonò un doppio bacio.
Poi si slanciò per le scale con la
velocità di una donna non troppo
sicura di saper resistere se la si fosse
trattenuta.
Jacquelino rimase per qualche
attimo dopo che lei se ne fu andata,
raccolse il berretto che era caduto
all’inizio del dialogo, se lo risistemò
sul capo e, forse per dare alla
messaggera del Louvre il tempo di
allontanarsi e sparire, scese
lentamente la scala, cantando questa
canzone di Ronsard:
Il me semble que la journée
Dure plus longue qu’une année
Quand par malheur je n’ai ce bien
De voir la grande beauté de celle
Qui tient mon cœur et sans laquelle
Vissai-je tout, je ne vois rien. 4
Era alla terza strofa della sua
canzone e all’ultimo gradino della
scala quando, guardando da
quell’ultimo gradino verso la sala
bassa dove di solito stavano i
bevitori, vide, illuminato da una
candela attaccata alla parete, un
uomo pallido e insanguinato,
sdraiato su un tavolo, che sembrava
in punto di morte. Di fianco a lui, un
cappuccino sembrava ascoltare la
confessione del moribondo. I curiosi
facevano ressa alle porte e alle
finestre ma, trattenuti dalla presenza
del religioso e dalla solennità
dell’atto che il ferito stava
compiendo, non osavano entrare.
Lo spettacolo interruppe la
canzone sulle labbra del cantante e,
visto che l’oste si trovava a portata
di voce:
«Ehi, Soleil!» chiamò.
Soleil si avvicinò, con il berretto
in mano.
«In che cosa posso servirvi, mio
bel giovane?» gli chiese.
«Cosa diavolo ci fa quell’uomo
sdraiato su un tavolo con un frate
vicino?»
«Si confessa!»
«Lo vedo che si confessa,
perbacco! Ma chi è? E perché si
confessa?»
«Chi è?» replicò l’oste
sospirando. «È un ragazzo bravo e
onesto, che si chiama Étienne Latil,
uno dei migliori clienti della mia
locanda. Perché si confessa? Perché
probabilmente non gli restano che
poche ore da vivere. Siccome è un
uomo devoto e reclamava a gran
voce un prete, quando mia moglie ha
visto quel bravo cappuccino uscire
dai Blancs-Manteaux lo ha
chiamato.»
«E di che cosa muore il vostro
brav’uomo?»
«Oh, signore, un altro sarebbe già
morto dieci volte. Muore di due
terribili colpi di spada: uno che gli è
entrato nella schiena e uscito dal
petto e l’altro che gli è entrato dal
petto e uscito dalla schiena.»
«Si batteva dunque con più di un
uomo?»
«Con quattro, signore, quattro!»
«Una lite?»
«No, una vendetta.»
«Una vendetta?»
«Sì, temevano che parlasse.»
«E se avesse parlato, che cosa
avrebbe potuto dire?»
«Che gli avevano offerto mille
pistole per assassinare il conte di
Moret. E che lui aveva rifiutato.»
Il ragazzo a quel nome trasalì e,
guardando fisso l’oste:
«Per assassinare il conte di
Moret» ripeté. «Siete proprio sicuro
di quello che dite, brav’uomo?»
«Me l’ha detto lui stesso. È la
prima cosa che ha detto dopo aver
chiesto da bere.»
«Il conte di Moret» ripeté
meditabondo il giovane. «Antoine
de Bourbon?»
«Antoine de Bourbon, sì.»
«Il figlio di Enrico IV?»
«E di madame Jacqueline de
Beuil, contessa di Moret.»
«Strano» mormorò il giovane.
«Per quanto strano sia, è
comunque così.»
Allora, dopo un altro breve
silenzio, con gran sbalordimento di
Soleil e, malgrado le sue grida di
«Dove andate? Dove state
andando?», il giovane scostò gli
sguatteri e le cameriere che
ingombravano la porta interna, entrò
nella sala occupata solo dal
cappuccino e da Étienne Latil, si
avvicinò al ferito e, buttando sul
tavolo una borsa che, dal suono che
mandava, si poteva presumere
piuttosto ben fornita:
«Étienne Latil» disse, «questo per
farvi curare. Se ve la cavate, appena
sarete trasportabile, fatevi portare al
palazzo del duca di Montmorency,
in rue des Blancs-Manteaux; se
morite, morite nella fede del
Signore, non mancheranno messe
per la salvezza della vostra anima.»
Quando il giovane si era
avvicinato, il ferito si era sollevato
su un gomito e, come all’apparire di
uno spettro, era rimasto senza
parole, gli occhi sbarrati, le
sopracciglia aggrottate, la bocca
spalancata.
Poi, quando il ragazzo si
allontanò:
«Il conte di Moret!» mormorò il
ferito, lasciandosi ricadere sul
tavolo.
Quanto al cappuccino, fin dai
primi passi che il falso Jacquelino
aveva mosso nel locale, si era tirato
in fretta il cappuccio sul volto, come
se avesse temuto di essere
riconosciuto.

1 Sulle «Nouvelles» del 26 ottobre 1865 questo


capitolo compare come VI. [NdC]
2 Il termine francese, bavolet, indica una cuffia
usata dalle contadine; nel XVII secolo un joli
bavolet significava una bella ragazza. [NdC]
3 Nel testo l’età inizialmente attribuita al conte
di Moret è di «ventitré anni appena», per poi
oscillare tra i ventuno, i ventidue e i ventitré
anni. In realtà, essendo il conte di Moret nato il 9
maggio 1607, all’epoca dei fatti narrati ha
ventun anni. [NdT]
4 La giornata mi sembra più lunga / di un anno
intero / quando per disgrazia non ho il bene / di
vedere la grande bellezza di colei / che possiede
il mio cuore e senza la quale, / potessi anche
vedere tutto, non vedo nulla. [NdT]
VIII
Scale e corridoi
Uscendo dalla locanda della Barbe
Peinte, il conte di Moret, di cui non
abbiamo più bisogno di mantenere
l’incognito, percorse rue de
l’Homme-Armé, girò a destra,
imboccò rue des Blancs-Manteaux e
andò a bussare al palazzo del duca di
Montmorency, Henri, II del nome,
cui si accedeva da due porte, una su
rue des Blancs-Manteaux, l’altra su
rue Sainte-Avoye.
Il figlio di Enrico IV doveva
essere intimo della casa, perché, non
appena fu riconosciuto, un giovane
paggio di una quindicina d’anni
prese un candeliere a quattro
braccia, lo accese e gli fece strada.
Il principe seguì il paggio.
L’appartamento del conte di
Moret era al primo piano. Il paggio
fece luce in una delle camere
accendendo altri due candelabri
simili al primo; poi, rivolgendosi al
principe:
«Sua Altezza ha ordini per me?»
domandò.
«Sei impegnato con il tuo padrone
questa sera, Galaor?» domandò a
sua volta il conte.
«No, signore, sono libero.»
«Allora vuoi venire con me?»
«Con gran piacere, monsignore.»
«In questo caso, mettiti addosso
qualcosa di caldo e prendi un buon
mantello. La notte sarà fredda.»
«Oh, oh!» disse il giovane paggio,
abituato dal suo padrone, gran
donnaiolo, a simili imprevisti. «A
quanto pare, avrò da montare di
guardia.»
«Già, e una guardia d’onore, al
Louvre. Ma ti raccomando, Galaor,
non una parola, nemmeno al tuo
padrone.»
«Non dovete dire altro,
monsignore» rispose il ragazzino
con un sorriso, mettendosi un dito
sulle labbra.
Poi si mosse per uscire.
«Aspetta» disse il conte di Moret,
«ho ancora qualche istruzione da
darti.»
Il paggio s’inchinò.
«Sella un cavallo tu stesso e metti
due pistole nelle fondine.»
«Un cavallo solo?»
«Sì, uno solo: salirai in groppa
dietro di me. Un secondo cavallo
attirerebbe l’attenzione.»
«Monsignore sarà obbedito in
tutto e per tutto.»
Suonarono le dieci. Il conte
ascoltò, contandoli, i colpi della
campana.
«Le dieci» ripeté. «Va bene, vai.
Che sia tutto pronto fra un quarto
d’ora.»
Il paggio s’inchinò e uscì, tutto
fiero della prova di fiducia che il
conte gli dava.
Quanto a lui, scelse nel suo
guardaroba un abito da cavaliere,
semplice ma elegante, con il farsetto
di velluto granata e le braghe di
velluto azzurro. Splendidi merletti di
Bruxelles formavano il collo e i
polsi della camicia di fine batista,
spuntando dalle aperture delle
maniche e nello spazio all’altezza
della vita tra la giubba e le braghe.
Infilò lunghi stivali di pelle che
salivano al di sopra del ginocchio e
coprì il capo con un feltro grigio
ornato di due piume intonate ai
colori dell’abito, cioè azzurro e
granata, trattenute da una catenella
di diamanti. Poi passò sopra al tutto
una ricca bandoliera cui era appesa
una spada dall’impugnatura di
vermeil ma dalla lama d’acciaio,
un’arma di lusso nonché di difesa.
Infine, con la civetteria naturale
nei giovani, dedicò qualche minuto
alla cura del viso: si preoccupò che i
capelli naturalmente ricciuti
ricadessero in maniera regolare ai
lati del volto, intrecciò la
cadenette 1 che era uso portare alla
tempia sinistra e che scendeva fino
in vita, arricciò i baffi, tirò il
pizzetto che si rifiutava di allungarsi
tanto in fretta quanto avrebbe voluto
lui, prese da un cassetto una borsa
per sostituire quella che aveva dato a
Latil e, come se la borsa gli avesse
di colpo riportato alla mente un
ricordo dimenticato:
«Ma chi diavolo» mormorò «ha
dunque interesse a uccidermi?»
E, poiché non riusciva a trovare
una risposta soddisfacente alla
domanda che si era fatto, rifletté un
momento, allontanò quel ricordo con
la disinvoltura della giovinezza, si
tastò per assicurarsi di non avere
dimenticato niente, lanciò
un’occhiata di sbieco allo specchio e
scese le scale cantando l’ultima
strofa di quella canzone di Ronsard
di cui gli abbiamo sentito
canticchiare la prima alla locanda
della Barbe Peinte.
Chanson va-t-en où je t’adresse
Dans la chambre de ma maîtresse
Et dis, baisant sa blanche main,
Que pour en santé me remettre
Il ne lui faut rien moins promettre
Que de te cacher dans son sein. 2

Sulla via, davanti alla porta, il


conte trovò ad attenderlo il cavallo e
il paggio. Montò in sella con la
leggerezza e l’eleganza di uno
scudiero consumato. Al suo invito,
Galaor saltò in groppa dietro di lui.
Dopo essersi assicurato che il paggio
fosse seduto per bene, mise il
cavallo al trotto, percorse rue
Maubrie, imboccò rue
Troussevache, raggiunse rue Saint-
Honoré e risalì rue des Poulies.
All’angolo di rue des Poulies con
rue des Fossés-Saint-Germain, su un
paracarro sotto una madonna
illuminata da una lampada, era
seduto un ragazzo che, nel vedere un
cavaliere con dietro un paggio,
pensò si trattasse del cavaliere che
doveva aspettare e aprì il mantello
che lo avvolgeva coprendo una
livrea camoscio e azzurra, cioè
quella della principessa.
Il conte riconobbe il paggio che
gli era stato annunciato, fece
scendere Galaor e, smontando a sua
volta, si avvicinò al ragazzo che
scese dal suo paracarro e rimase in
rispettosa attesa.
«Casale» disse il conte.
«Mantova» rispose il paggio.
Il conte fece segno con la mano a
Galaor di allontanarsi e,
rivolgendosi a colui che doveva
servirgli da guida:
«È te che devo seguire, mio bel
ragazzo?»
«Sì, signor conte, se lo volete»
rispose questo con una voce così
vellutata che subito il principe
immaginò di avere a che fare con
una donna.
«Coraggio, allora» disse,
smettendo di dare del tu al suo
sospetto compagno, «abbiate la
bontà di indicarmi la strada.»
Il mutamento nel tono e nelle
parole del conte non sfuggì a colui o
colei cui l’ultima frase era rivolta.
Gli fissò in volto uno sguardo
canzonatorio, non tentò nemmeno di
nascondere uno scoppio di risa, fece
un cenno con il capo e finì con
l’incamminarsi davanti a lui.
Attraversarono così il ponte
levatoio grazie alla parola d’ordine
che il paggio sussurrò alla sentinella,
poi oltrepassarono la porta del
Louvre e si diressero verso l’angolo
nord.
Giunto allo spioncino, il paggio si
mise il mantello sotto il braccio
perché si vedesse la livrea azzurra e
camoscio, e, sforzandosi di rendere
la voce più mascolina possibile:
«Casa della signora principessa»
disse.
Ma il suo gesto lo aveva costretto
a scoprire il viso. La luce della
lanterna che illuminava lo spioncino
ci era piovuta sopra e, dai folti
capelli biondi che ricadevano sulle
spalle, dagli occhi azzurri così colmi
di malizia e di allegria, dalla bocca
così spiritosa e ben disegnata, tanto
prodiga di morsi e di baci, il conte di
Moret aveva riconosciuto Marie de
Rohan-Montbazon, duchessa di
Chevreuse.
Le si avvicinò di slancio e, dietro
l’angolo della scala:
«Cara Marie» le domandò, «il
duca mi fa sempre l’onore di essere
geloso di me?»
«No, mio caro conte» rispose lei,
«non più da quando vi sa
innamorato di madame de la
Montagne e tutto intento a fare
pazzie per lei.»
«Ben detto» rispose il principe
ridendo. «Vedo che, per la mente
come per il viso, siete sempre la
creatura più brillante e più bella del
mondo.»
«Se anche fossi tornata
dall’Olanda solo per sentirmi fare
questo complimento dalla vostra
bocca» replicò il paggio
inchinandosi, «non rimpiangerei le
spese del viaggio, monsignore!»
«Questa poi! Ma credevo che
foste in esilio dopo l’avventura dei
giardini di Amiens...» 3
«La mia innocenza, come quella
di Sua Maestà, è stata riconosciuta e,
dietro insistenza della regina, il
signor cardinale si è degnato di
perdonarmi.»
«Senza condizioni?»
«Mi hanno fatto giurare che non
mi sarei più impicciata di intrighi.»
«Ed è un giuramento che
mantenete?»
«Scrupolosamente, come vedete.»
«E che cosa ne dice la vostra
coscienza?»
«Ho una dispensa papale.»
Il conte si mise a ridere.
«E comunque» proseguì il finto
paggio, «non è un intrigo
accompagnare un cognato da sua
cognata.»
«Cara Marie» le disse il conte di
Moret prendendole la mano e
baciandogliela con quel desiderio
amoroso che aveva preso dal re suo
padre e che abbiamo visto farsi
strada nelle sue parole fin dall’inizio
della scena con la falsa cugina nella
locanda della Barbe Peinte, «cara
Marie, mi avete riservato la sorpresa
che la vostra camera si trovi proprio
sulla strada per quella della regina,
vero?»
«Ah, siete veramente il figlio –
legittimo se mai ce ne fosse uno – di
Enrico IV; tutti gli altri sono solo dei
bastardi.»
«Anche mio fratello Luigi XIII?»
«Soprattutto vostro fratello Luigi
XIII, che Dio lo protegga. Perché
non ha nelle vene un po’ del vostro
sangue?»
«Non siamo figli della stessa
madre, duchessa.»
«E chissà, forse nemmeno dello
stesso padre.»
«Davvero Marie, siete adorabile,
devo darvi un bacio.»
«Siete pazzo? Baciare un paggio
su una scala! Ma volete proprio
perdere ogni reputazione, arrivando
dall’Italia, poi?»
«Via, decisamente, questa non è la
mia sera» disse il conte lasciando
cadere la mano della duchessa.
«Ma sentite! La regina gli ha
mandato alla locanda della Barbe
Peinte una delle nostre dame più
belle, e lui si lamenta!»
«Mia cugina Marina?»
«Eh, già, vostra cugina Marina!»
«Ah, ventre-saint-gris!, 4 me lo
dovreste proprio dire chi è
quell’incantatrice!»
«Come? Non la conoscete?»
«No!»
«Non conoscete Fargis?»
«Fargis, la moglie del nostro
ambasciatore in Spagna?»
«Proprio lei. L’hanno sistemata
accanto alla regina dopo la famosa
scena dei giardini di Amiens di cui
vi parlavo prima e che ci ha mandato
tutte in esilio.»
«Ah be’, perfetto!» disse il conte
di Moret scoppiando a ridere. «Si
può dire che sia ben sorvegliata la
regina, con la duchessa di Chevreuse
al capezzale e madame de Fargis ai
piedi del letto. Ah, Luigi XIII,
povero fratello mio! Ammettete,
signora, che non ha fortuna!»
«Ma sapete, monsignore, che siete
meravigliosamente impertinente e
che è una vera fortuna che siamo
arrivati?»
«Siamo arrivati, allora?»
La duchessa prese una chiave
dalla tasca e aprì la porta di un
corridoio buio.
«Ecco la vostra strada,
monsignore!»
«Non pretenderete davvero di
farmi entrare là dentro?»
«Certo che ci entrerete, e da solo,
anche!»
«Va be’, si è giurata la mia morte.
Mi troverò una botola aperta sotto i
piedi, e addio a Antoine de Bourbon.
È vero che non ci perderò molto, le
donne mi trattano così male!»
«Ingrato, se sapeste chi vi aspetta
dall’altra parte del corridoio...»
«Come!» esclamò il conte di
Moret. «In fondo a questo corridoio
mi aspetta una donna?»
«Sarà la terza della serata, e vi
lamentate, bell’Amadigi!» 5
«No, non mi lamento.
Arrivederci, duchessa.»
«Attento alla botola!»
«Non importa, correrò il rischio.»
La duchessa richiuse la porta
dietro il conte, che si ritrovò nel
buio più totale.
Esitò un attimo. Non sapeva
assolutamente dove si trovasse.
Ebbe dapprima l’idea di tornare sui
suoi passi, ma il rumore della chiave
che girava nella serratura e chiudeva
la porta a doppia mandata lo fermò.
Infine, dopo qualche attimo
ancora di esitazione, deciso a vivere
l’avventura fino in fondo, esclamò:
«Ventre-saint-gris! La bella
duchessa ha dichiarato che sono il
figlio legittimo di Enrico IV. Non
sbugiardiamola!»
E avanzò verso l’estremità del
corridoio opposta a quella da dove
era entrato, trattenendo il fiato,
procedendo a tentoni, con le braccia
tese in avanti.
Fatti appena venti passi nel buio
più profondo, con quell’esitazione
che coglie nelle tenebre anche i più
coraggiosi, sentì il fruscio di un
abito e un respiro che sembravano
avvicinarsi a lui.
Si fermò. Il fruscio e il respiro si
fermarono.
Si domandava come rivolgere la
parola a quell’incantevole rumore
quando una dolce voce tremante
chiese:
«Siete voi, monsignore?»
La voce era a non più di due
passi.
«Sì» rispose il conte.
Fece un passo in avanti e incontrò
una mano tesa che cercava la sua.
Ma appena la toccò, quella si ritirò,
timida come una sensitiva.
Si udì un grido leggero, a metà fra
la sorpresa e il timore, che alle
orecchie del principe suonò come il
sospiro di un elfo o la vibrazione di
un’arpa eolica.
Il conte trasalì. Provava una
sensazione del tutto nuova, e quindi
del tutto sconosciuta.
Ed era una sensazione deliziosa.
«Oh!» mormorò. «Dove siete?»
«Qui» balbettò la voce.
«Mi avevano detto che avrei
trovato una mano per guidarmi in
questo percorso sconosciuto. Me la
rifiuterete, quella mano?»
Ci fu un percettibile momento di
esitazione nella persona cui era
rivolta la domanda, ma tuttavia,
quasi subito:
«Eccola» disse.
Il conte afferrò con entrambe le
mani quella che gli veniva tesa e
fece per portarla alle labbra, ma il
gesto fu fermato da un’unica parola,
che dall’accento di preghiera si
poteva interpretare solo come il
grido del pudore in allarme:
«Monsignore!»
«Scusatemi, signorina» replicò il
conte con lo stesso rispetto nella
voce che avrebbe usato parlando alla
regina.
Poi allontanò dalle sue labbra la
mano che era già a metà strada e ci
fu un silenzio.
Il conte trattenne la mano fra le
sue dove rimase immobile, senza
che si cercasse di ritirarla, ma come
se, insieme alla forza della volontà,
le si togliesse anche la sembianza
della vita. Se possiamo usare questa
espressione, era una mano
assolutamente muta.
Ma il mutismo che le era imposto
non impedì al conte di accorgersi
che era una mano piccola, sottile,
dolce, affusolata, aristocratica, e
soprattutto virginale.
Il conte avrebbe voluto premerla
non più contro le labbra, ma contro
il suo cuore.
Da quando l’aveva toccata, era
rimasto immobile, come affatto
dimentico del motivo per cui era lì.
«Venite, monsignore?» domandò
la dolce voce.
«Dove volete che vada?» rispose
il conte senza sapere bene quel che
diceva.
«Ma come! dove la regina vi
aspetta. Da Sua Maestà.»
«È vero, l’avevo dimenticato!»
Poi, con un sospiro:
«Andiamo!» disse.
Si rimise in cammino, novello
Teseo guidato in un labirinto, meno
complicato ma più buio di quello di
Creta, non già dal filo di Arianna,
ma da Arianna stessa.
Dopo qualche passo, Arianna girò
a destra.
«Stiamo arrivando» disse.
«Peccato!» mormorò il conte.
Si avvicinavano in effetti a un
gran portale vetrato che dava
sull’anticamera della regina. Ma
poiché si riteneva che Sua Maestà
dormisse, data la sua indisposizione,
tutto era spento, a eccezione di una
sola lampada appesa al soffitto che,
attraverso la vetrata, lasciava filtrare
una luce simile a quella di una stella.
A quel fioco lucore, il conte cercò
di vedere la sua guida, ma non
distinse, per così dire, che i contorni
di un’ombra.
La giovane si fermò.
«Monsignore» disse, «ora che ci
vedete abbastanza per orientarvi,
seguitemi.»
E, malgrado la lieve pressione del
conte per trattenerle la mano, la
liberò, si avviò per prima, aprì la
porta del corridoio e si trovò
nell’anticamera della regina.
Il conte la seguiva.
Attraversarono silenziosamente e
in punta di piedi l’anticamera per
raggiungere la porta di fronte al
corridoio, che era la porta
dell’appartamento di Anna
d’Austria, quando si fermarono,
colpiti entrambi da un rumore che si
avvicinava.
Era un rumore di passi di
parecchie persone che salivano il
grande scalone.
«Oh, mio Dio!» mormorò la
ragazza. «Che uscendo dal balletto il
re abbia avuto l’idea di andare a
prendere notizie di Sua Maestà, o
forse di sincerarsi che sia davvero
indisposta?»
«In effetti, vengono da quella
parte» osservò il principe.
«Aspettate, vado a vedere!» disse
lei, e si slanciò verso la porta che
dava sullo scalone, la socchiuse e,
tornando veloce verso il conte:
«È lui» disse. «Svelto, svelto, in
questo stanzino!»
Aprendo una porta nascosta nella
tappezzeria, vi spinse il conte ed
entrò dietro di lui.
Era tempo. La porta dello
stanzino si era appena richiusa che
quella che dava sullo scalone si aprì
e, preceduto da due paggi con delle
torce, seguito da Baradas e da Saint-
Simon, i suoi due favoriti, dietro i
quali camminava Beringhen, il suo
cameriere personale, re Luigi XIII
comparve e, facendo segno al suo
seguito di aspettarlo, entrò dalla
regina.

1 Lunga ciocca di capelli intrecciati la cui moda


è stata lanciata sotto Luigi XIII dal sire di
Cadenet. [NdC]
2 Canzone, vai dove ti mando, / nella camera
della mia amata, / e dille, baciandole la bianca
mano, / che perché io possa guarire / deve
promettermi almeno / di nasconderti in seno.
[NdT]
3 Nel giugno del 1625, il duca di Buckingham,
messo straordinario del re d’Inghilterra, deve
accompagnare la principessa Henriette di Francia
da Parigi a Londra, dove si reca a sposare re
Carlo I. L’etichetta esige che la regina Anna
d’Austria si unisca al corteo fino a Boulogne-
sur-Mer. Durante una sosta di svariati giorni ad
Amiens, una sera Buckingham si trova solo con
la regina nei giardini dell’arcivescovado e,
secondo diverse testimonianze, cerca di
approfittare della situazione. Non ci sono prove
storiche che la regina abbia ceduto, ma
quell’episodio ha ispirato numerosi scrittori.
[NdC]
4 Esclamazione nota per essere stata spesso e
volentieri usata da Enrico IV. [NdT]
5 Bel cavaliere senza macchia né paura che dà
il nome a un romanzo cavalleresco spagnolo
dell’inizio del XIV secolo, Amadís de Gaula.
[NdC]
IX
Sua Maestà re Luigi XIII
Crediamo sia giunto il momento di
presentare re Luigi XIII ai nostri
lettori, che spero ci perdoneranno se
a questa strana personalità
dedicheremo un intero capitolo.
Re Luigi XIII, nato giovedì 27
settembre 1601 e avendo quindi,
all’epoca cui siamo arrivati,
ventisette anni e tre mesi, era una
figura lunga e triste dalla carnagione
scura e i baffi neri. Non un tratto né
nella sua fisionomia né nel suo
carattere che ricordasse Enrico IV; e
nemmeno nulla di francese, nessuna
allegria, nessuna giovinezza. Gli
spagnoli raccontavano con una certa
verosimiglianza che fosse figlio di
Virginio Orsini, duca di Bracciano,
cugino di Maria de’ Medici; e in
effetti, alla sua partenza per la
Francia, Maria de’ Medici, già
ventisettenne, aveva ricevuto da suo
zio, l’ex cardinale Ferdinando, che
per salire sul trono di Toscana aveva
avvelenato il fratello Francesco e la
cognata Bianca Capello, aveva
ricevuto, dicevamo, questo
consiglio:
«Cara nipote, state per sposare un
re che ha ripudiato la sua prima
moglie perché non aveva figli. Per il
vostro viaggio avete un mese, e tre
bei ragazzi nel vostro seguito: uno,
Virginio Orsini, è già il vostro
cicisbeo; poi ci sono Paolo Orsini e
Concino Concini. Arrangiatevi in
modo da arrivare in Francia sicura di
non essere ripudiata.»
Maria de’ Medici, sempre
secondo gli spagnoli, aveva seguito
punto per punto il consiglio dello
zio. Aveva impiegato dieci giorni
solo per andare da Genova a
Marsiglia. Pur non troppo
impaziente di vedere la sua grossa
banchiera, come la chiamava, Enrico
IV aveva trovato piuttosto lunga la
traversata. Ma Malherbe aveva
cercato una ragione a tale lentezza e,
buona o cattiva che fosse, l’aveva
trovata. Aveva attribuito quel ritardo
all’amore concepito da Nettuno per
la fidanzata del re di Francia:
Dix jours ne pouvant se distraire
Du plaisir de la regarder,
Il a, par un effort contraire,
Essayé de la retarder. 1

La scusa forse non era


propriamente logica ma la regina
Margot aveva reso il marito
piuttosto accomodante in tema di
scuse coniugali.
Il pigro bastimento che le Nereidi
circondano nel bel quadro di Rubens
conservato al Louvre è quello di cui
stiamo parlando.
In capo a nove mesi il granduca
Ferdinando fu rassicurato,
nell’apprendere la nascita del
delfino Luigi, subito
soprannominato “il Giusto” perché
era nato sotto il segno della Bilancia.
Fin da bambino, Luigi XIII si
mostrò triste di quella tristezza
ereditaria negli Orsini, così come gli
furono innati i gusti di un italiano
della decadenza. Musicista e anche
compositore passabile, infatti,
pittore mediocre, era portato per una
quantità di mestieri artigianali, il che
lo rese sempre inetto al suo mestiere
di re, malgrado la sua prodigiosa
idolatria della regalità. Debole di
costituzione, aveva preso troppe
medicine durante l’infanzia e,
diventato giovane uomo, era rimasto
tanto cagionevole da avere già tre o
quattro volte sfiorato la morte. Un
diario tenuto per ventotto anni dal
suo medico Héroard annota giorno
per giorno tutto quel che mangia, ora
per ora tutto quel che fa. Fin dalla
giovinezza, ha poco cuore, è secco e
duro, a volte addirittura crudele.
Enrico IV lo frustò due volte con la
sua regale mano. La prima perché
aveva manifestato una tale
avversione per un certo gentiluomo
che per accontentarlo avevano
dovuto tirargli un colpo di pistola a
salve e far credere al Delfino che il
gentiluomo era morto sul colpo. La
seconda perché aveva schiacciato
con un colpo di maglio la testa a un
passerotto.
Una volta, una sola, ebbe la
velleità di essere re, e la manifestò.
Fu il giorno dell’incoronazione.
Quando gli presentarono lo scettro
dei re di Francia, scettro piuttosto
pesante dato che è fatto d’oro e
d’argento e carico di pietre preziose,
la mano gli si mise a tremare.
Accorgendosene, monsieur de
Condé, che nella sua qualità di
primo principe del sangue si trovava
accanto al re, volle aiutarlo a
sostenere lo scettro.
Ma lui, voltandosi di scatto, con
le sopracciglia aggrottate:
«No» disse. «Intendo portarlo da
solo, e non voglio compagnia.»
Da bambino, la sua maggiore
distrazione era far girare pezzetti
d’avorio, colorare incisioni,
confezionare gabbie, erigere castelli
e far dare la caccia agli uccellini,
nelle sue stanze, da un pappagallo
giallo e da un’averla; per il resto,
bambino bambinissimo, dice
L’Estoile.
Ma i due gusti più radicati e
tenaci in lui erano la musica e la
caccia. È in Héroard – quel diario
quasi, se non del tutto, sconosciuto
agli storici – che vanno cercati
questi particolari, e altri ancor più
curiosi:
A mezzogiorno, va nella galleria a
giocare con i suoi cani Patelot e Grisete;
all’una ritorna in camera sua, si mette
nell’alcova della sua nutrice, chiama
Ingret, il suo suonatore di liuto, e fa
musica accompagnandola lui stesso col
canto, perché per la musica nutriva un
amore appassionato.

A volte, per distrarsi, componeva


versi su nulla, su proverbi e
massime, e, quando gliene veniva il
capriccio, voleva che gli altri
componessero versi insieme a lui.
Un giorno disse al suo medico
Héroard:
«Mettetemi in versi questa prosa:
“Voglio che chi mi ama mi ami a
lungo oppure, se mi ama solo un
po’, che mi lasci già da domani”.»
E il buon medico, miglior
cortigiano che poeta, componeva
immediatamente questo distico:
Je veux que tous ceux-là qui de m’aimer
désirent,
Que ce soit pour jamais, ou bien qu’ils se
retirent. 2

Come tutti i temperamenti


malinconici, Luigi XIII sapeva
dissimulare a meraviglia e proprio a
coloro che voleva perdere, nel
momento stesso in cui ritirava loro
la sua protezione, sorrideva del suo
più abbagliante sorriso. Aveva
dodici anni quando lunedì 2 marzo
1613, servendosi per la prima volta
del modo di dire tipico di Francesco
I, giurò sulla sua fede di gentiluomo.
Quello stesso anno l’etichetta volle
che fosse presentata la camicia al
giovane re. A infilargliela fu
Courtauvaux, uno dei suoi compagni
– non diremo di piaceri perché
vedremo fra poco che Luigi XIII in
vita sua non si divertì che due volte.
Si ricorderà che l’accusa contro
Chalais 3 sosteneva che avesse
voluto avvelenare il re infilandogli
la camicia. Sempre in quell’anno gli
fu presentato personalmente dal
maresciallo d’Ancre il giovane
Luynes. 4 Fino a quel momento, per
curare e nutrire i suoi uccelli si
serviva di un semplice contadino, un
pied-plat 5 di Saint-Germain di
nome Pierrot, dice L’Estoile. Luynes
fu nominato capofalconiere e si
ordinò a Pierrot, fino ad allora
onnipotente, di riconoscerlo come
tale e di obbedirgli. Poi i falchi, gli
sparvieri, i nibbi, le averle e i
pappagalli furono nominati uccelli
di Gabinetto perché Luynes potesse
rimanere sempre accanto al re, e
risale a quest’epoca la nascita di un
tale affetto per lui che non solo
Luigi XIII non lo lasciava un attimo,
ma perfino dormendo sognava di lui
e gridava nel sonno il suo nome,
dice Héroard, credendo se ne fosse
andato.
In effetti, se Luynes non riusciva
a divertirlo, riusciva almeno a
distrarlo, sviluppando in lui il gusto
della caccia, compatibilmente con la
poca libertà concessa ai bambini
regali. Già sappiamo che Luigi nelle
sue stanze dava la caccia agli
uccellini con un pappagallo giallo e
delle averle. Luynes lo portò a
cacciare conigli con dei piccoli
levrieri nei fossati del Louvre e a far
volare il nibbio alla plaine Grenelle.
Lì, il 1° gennaio – tutte le date sono
importanti nella vita di un re con il
carattere di Luigi XIII –, prese il suo
primo airone e a Vaugirard, il 18
aprile dello stesso anno, tirò alla sua
prima pernice.
Fu poi all’ingresso del ponte
Dormant, vicino al Louvre, che per
la prima volta diede la caccia
all’uomo e uccise Concini.
Inseriamo qui una pagina –
curiosa tanto per il filosofo quanto
per lo storico – del diario di
Héroard. Racconta che cosa fa Luigi
XIII quel lunedì 24 aprile 1617 in
cui caccia l’uomo invece che il
passero, il coniglio, l’airone o la
pernice.
Copiamo testualmente, i nostri
lettori e soprattutto le nostre lettrici
sono avvertiti.
Lunedì 24 aprile 1617
Sveglio alle sette e mezza del mattino,
polso forte e regolare, temperatura né
troppo alta né troppo bassa, alzato, volto
disteso, pisciato giallo, fatto i suoi
bisogni, pettinato, vestito, prega Dio; alle
otto e mezza, prima colazione: quattro
cucchiai di gelatina, bevuto solo vino
leggero e molto annacquato.
Ucciso il maresciallo d’Ancre sul
ponte del Louvre, fra le dieci e le undici
del mattino.
Pranzo a mezzogiorno: punte
d’asparagi in insalata 12, 4 creste di gallo
in una minestra sgrassata, cucchiai di
minestra 10, punte d’asparagi su un
cappone lessato, vitello lessato, il midollo
di un osso, germogli 12, le ali di due
piccioni arrosto, due fette di pernice
bianca con pane, gelatina, fichi 5, ciliegie
secche 4, cotognata sopra una cialda, poco
pane, bevuto chiaretto molto annacquato,
confetti di finocchio un cucchiaino.

[Segue uno spazio bianco.


Significa che, vista la gravità delle
circostanze, il regale allievo sfugge
al suo medico. Sale su un biliardo e
arringa la platea. Riceve i deputati
del Parlamento. Chiacchiera, fa il re.
Ma alle sei gli torna fame e lui
ricade sotto le grinfie del suo
medico.
Sei e mezza, cenato: punte d’asparagi
in insalata 12, pancotto, punte d’asparagi
su un cappone lessato, vitello lessato, il
midollo di un osso, prugnoli al burro
ripieni di carne, le ali di due piccioncini
arrosto con pane, gelatina, succo di due
arance dolci, fichi 5, chicchi di agresta
canditi 5, ciliegie secche 4, pochissimo
pane, bevuto un chiaretto molto
annacquato, confetti di finocchio un
cucchiaino.] 6
DIVERTITO fino alle sette e mezza.
Fatto i suoi bisogni, gialli, molli,
abbondanti.
DIVERTITO fino alle nove e mezza.
Bevuto una tisana, svestito, messo a
letto, polso forte e regolare, temperatura
né troppo alta né troppo bassa, prega Dio,
alle dieci si addormenta, fino alle sette.

Ed eccoci rassicurati, no?, sul


conto di questo povero bambino
regale. Avreste potuto temere, e
anch’io, che l’assassinio dell’amante
di sua madre, del più che probabile
padre di suo fratello Gaston, e
comunque connestabile di Francia,
cioè il personaggio più
considerevole del regno dopo di lui
– e addirittura prima di lui –, gli
avrebbe tolto la fame o l’allegria e
che avrebbe esitato a pregare Dio
con le mani rosse di sangue. Niente
affatto. Il suo pranzo, è vero, è stato
ritardato di un’ora, ma non poteva
certo essere contemporaneamente a
tavola alle undici e guardare, dalla
finestra del piano terreno del
Louvre, Vitry che assassinava il
maresciallo d’Ancre. Ha l’intestino
molto disteso, ma è lo stesso effetto
che faceva a Enrico IV la vista del
nemico. Per contro, si è divertito
dalle sette alle sette e mezza, e si è
divertito ancora dalle nove alle nove
e mezza, il che non rientra nelle sue
abitudini; nei vent’anni durante i
quali il dottor Héroard lo sorveglia,
non si è divertito che due volte,
queste due volte.
Per di più, si è messo a letto con
un polso forte e regolare, una
temperatura né troppo alta né
troppo bassa, ha pregato Dio alle
dieci e si è addormentato fino alle
sette del mattino, il che significa che
ha dormito un po’ più di nove ore.
Povero piccolo!
Così, il giorno dopo, si sveglia re.
Quel buon sonno gli ha conferito
vigore e, dopo aver dato prova di
virilità il giorno prima, dà prova di
regalità il giorno dopo.
La regina madre non solo cade in
disgrazia, ma viene esiliata a Blois.
Le è fatto divieto di vedere le figlie,
le piccole Mesdames, e il figlio
prediletto, Gaston d’Orléans; i suoi
ministri vengono licenziati e solo il
vescovo di Luçon, che sarà in
seguito il gran cardinale, avrà il
permesso di seguirla nel suo esilio,
durante il quale si insinuerà in quel
cuore incapace di restare vuoto e
sostituirà Concini.
Ma se è re, Luigi XIII non è
ancora uomo. Sposato da due anni
all’infanta di Spagna, Anna
d’Austria, è suo marito soltanto di
nome. Per quanti balletti gli
proponga Durand, controllore
provinciale delle guerre, nei quali
egli rappresenta il demone del fuoco
e canta alla regina i più teneri versi,
il massimo della sua galanteria è
dirle:
Beau soleil de qui je veux
Pour jamais souffrir les feux,
Regarde où tu me conduis
Et connais ce que tu peux
En voyant ce que je suis. 7

Ed effettivamente Luigi XIII


indossava un abito tutto ricamato a
fiamme, ma, siccome per coricarsi si
toglieva l’abito, si spogliava delle
fiamme e del vestito insieme.
Visto che il balletto della
Délivrance de Renaud non ha sortito
alcun effetto, si prova con un altro,
che ha per titolo Les Aventures de
Tancrède dans la Forêt enchantée.
Questa volta la coreografia di
Porchère stuzzica un po’ il re e la
sua curiosità si spinge fino a voler
sapere che cosa succede la sera delle
nozze fra veri sposi. A provare per il
re la pièce che lui non ha ancora
recitato sono monsieur d’Elbeuf e
mademoiselle de Vendôme. Niente.
Il re rimane due ore nella camera
degli sposi, seduto sul loro letto, e
poi se ne torna tranquillamente nella
sua stanza da scapolo.
Alla fine fu Luynes, tormentato
dall’ambasciatore spagnolo e dal
nunzio papale, a incaricarsi del
gravoso affare, senza nascondere a
coloro che ve lo spingevano che
stava correndo il rischio di perdere
il suo credito.
Il giorno fissato fu il 25 gennaio
1619.
Di quel giorno, è ancora il diario
di Héroard a spiegarci l’impiego.
Il 25 gennaio 1619 il re, ignaro di
quel che lo aspettava alla fine della
giornata, si alzò in perfetta salute,
con il volto disteso, persino
relativamente allegro. Fece
colazione alle nove e un quarto,
ascoltò la messa alla Chapelle de la
Tour, presiedette il Consiglio,
pranzò a mezzogiorno, fece visita
alla regina, si recò alle Tuileries
passando dalla galleria, tornò al
Consiglio verso le quattro e mezza
per la stessa via, salì da Luynes per
ripassare il balletto, cenò alle otto,
fece di nuovo visita alla regina, alle
dieci la lasciò, rientrò nei suoi
appartamenti e si coricò, ma, non
appena si fu coricato, Luynes entrò
in camera sua e lo sollecitò ad
alzarsi. Il re lo guardò con lo stesso
stupore che se gli avesse proposto di
fare un viaggio in Cina. Ma Luynes
insistette, dicendo che l’Europa
cominciava a preoccuparsi di vedere
il trono di Francia senza erede, e che
sarebbe stata un’onta per lui se sua
sorella Christine, che aveva appena
sposato il figlio del duca di Savoia,
il principe Vittorio Amedeo di
Piemonte, avesse avuto un figlio
prima che la regina avesse avuto un
Delfino. Ma poiché tutte queste
ragioni, pur approvate con cenni del
capo, non sembravano sufficienti a
decidere il re, Luynes finì con il
prenderlo semplicemente in braccio
e portarlo là dove non voleva
andare. Che se poi avete dei dubbi
su questo minuscolo dettaglio che
nessuno storico vi ha raccontato e
che vi viene raccontato da un
romanziere, leggete il dispaccio del
nunzio in data 30 gennaio 1619 e vi
troverete questa frase, che a noi
sembra decisiva: «Luines [sic] lo
prese a traverso e lo condusse quasi
per forza al letto della regina». 8
Ma se Luynes non perse il suo
credito – e anzi ci guadagnò il titolo
di connestabile –, ci perse almeno
tempo e fatica, o non ne fu
ricompensato che tardivamente.
Quel Delfino che doveva concorrere
per il premio di velocità con il
primogenito della principessa di
Piemonte, per quanto ardentemente
invocato fosse, vide la luce
solamente diciannove anni dopo,
cioè nel 1638, mentre Luynes, che
non era destinato alla felicità di
vedere i frutti dell’albero che aveva
piantato, moriva nel 1621 di una
febbre purpurica. Questa morte
lasciava via libera a Maria de’
Medici che, richiamata dall’esilio,
tornava a Parigi, riportandovi e
facendo entrare nel Consiglio
Richelieu, cardinale da un anno, che
un anno dopo sarebbe stato primo
ministro.
Da allora, a regnare è Richelieu il
quale, con le sue dichiarazioni
contrarie alla politica austriaca come
a quella spagnola, si mette in urto
sia con Anna d’Austria sia con
Maria de’ Medici. A partire da quel
momento, è perseguitato dall’odio,
circondato da complotti. Maria de’
Medici ha, come il re, il suo
ministero, presieduto, come quello
del re, da un cardinale – Bérulle.
Soltanto che il cardinale di Richelieu
è un uomo di genio, mentre il
cardinale di Bérulle è un idiota.
Monsieur, che Richelieu ha fatto
sposare e al quale, credendo di
ottenerne così il sostegno, ha offerto
l’immenso patrimonio di
mademoiselle de Montpensier,
cospira contro di lui. Si organizza un
Consiglio segreto cui è chiamato
Bouvard, succeduto al buon Héroard
come medico del re. Tramite
Bouvard, Monsieur, che se Luigi
XIII dovesse morire senza figli gli
succederebbe, ha il dito sul polso del
malato, poiché Bouvard, uomo di
devozione tutta spagnola, che passa
la vita in chiesa, è l’anima dannata
delle regine. Sappiamo dunque che
questo re cupo – consumato dalla
noia, minato dalle preoccupazioni,
che non si sente amato da nessuno, e
odiato invece da tutti, che i medici
uccidono con la medicina del tempo,
implacabilmente purgativa, che non
ha più sangue e che viene salassato
una volta al mese – può sparire da
un momento all’altro insieme a
quell’umor nero che ci si ostina a
cacciare e che è la sua vita. Se il re
muore, Richelieu è alla mercé dei
suoi nemici, e impiccato nelle
ventiquattro ore successive a quella
morte. Ebbene, malgrado tutte le sue
speranze, Chalais non ha tempo di
aspettare; propone di uccidere il
cardinale. Maria de’ Medici
appoggia la proposta. Madame de
Conti compera dei pugnali, e la
dolce Anna d’Austria per tutta
obiezione pronuncia queste due
parole: «È sacerdote».
Quanto al re, che dopo
l’assassinio di Enrico IV odia sua
madre, dopo la congiura di Chalais
diffida di suo fratello, dopo i suoi
amori con Buckingham – e
soprattutto dopo lo scandalo dei
giardini di Amiens – disprezza la
regina, il re, che non ama né sua
moglie né le donne in generale, e
che, senza possedere nemmeno una
delle virtù dei Borboni, i vizi dei
Valois ce li ha solo in parte, con la
sua famiglia è più freddo e
diffidente che mai. Sa che questa
guerra d’Italia che progetta o,
meglio, che progetta il cardinale
suscita l’ostilità di Maria de’ Medici,
di Gaston d’Orléans e, in particolare,
di Anna d’Austria, perché si tratta in
realtà di una guerra contro
Ferdinando II e Filippo IV e la
regina è per metà austriaca e per
metà spagnola.
Così, quando lei, con il pretesto di
un violento mal di testa, si è rifiutata
di assistere la sera al balletto che si
presenta in onore della presa della
Rochelle, cioè in onore della vittoria
di suo marito sul suo amante, Luigi
XIII è stato colto dal sospetto che lei
rimanesse nei suoi appartamenti solo
per tessere qualche trama e per tutta
la serata ha tenuto lo sguardo non
sui ballerini e le ballerine bensì sulla
regina madre e su Gaston d’Orléans,
scambiando sottovoce con il
cardinale, accanto a lui nel palco,
osservazioni che con la coreografia
non c’entravano niente, e, alla fine
del balletto, invece di ritornare nelle
sue stanze, ha avuto l’idea di passare
dalla regina senza avvertirla della
sua visita, per coglierla sul fatto, se
un qualunque fatto ci fosse stato.
Ecco perché lo abbiamo visto
arrivare così di sorpresa, preceduto
da due paggi, accompagnato da due
favoriti, seguito da Beringhen, e
comparire nell’anticamera proprio
nel momento in cui il conte di Moret
e la sua sconosciuta guida sparivano
nello stanzino.
Cinque minuti dopo essere entrato
dalla regina, Luigi XIII ne era
uscito.
Ecco che cosa era successo in
quei cinque minuti.
L’etichetta reale proibiva che,
quando il re dormiva sotto lo stesso
tetto della regina, le porte
dell’appartamento della regina di
Francia fossero chiuse a chiave di
notte – in previsione di qualche
velleità coniugale. Il re aveva quindi
aperto una dopo l’altra senza
difficoltà, nel buio e nel silenzio, le
tre porte che separavano
l’anticamera dalla camera da letto.
Entrando nella camera da letto ne
aveva esplorato con una rapida
occhiata gli angoli più bui e i più
reconditi spazi.
Tutto era in perfetto ordine.
La regina dormiva di un sonno la
cui calma poteva testimoniare della
sua castità, e un respiro leggero e
regolare le muoveva il petto quando
Luigi XIII – geloso più del suo
potere di re che dei suoi diritti di
marito – aprì la porta e si avvicinò al
letto.
Ma le regine hanno il sonno
leggero e, benché un folto tappeto
delle Fiandre avesse attutito il passo
del suo augusto sposo, il respiro
leggero e regolare si fermò di colpo,
poi una mano, magnifica di forma e
di candore, scostò la tenda. Una
testa adorabile di civetteria notturna
si sollevò sul cuscino e, dopo che
due grandi occhi stupiti si furono
fissati un attimo sull’inatteso
visitatore, una voce fremente di
sorpresa esclamò:
«Come, Sire, siete voi?»
«In persona, signora» rispose il re
freddamente, ma togliendosi il
cappello, come deve fare qualunque
gentiluomo davanti a una donna.
«E a quale caso fortunato»
proseguì la regina «devo il favore
della vostra visita?»
«Mi avete fatto riferire che
eravate indisposta, signora.
Preoccupato della vostra salute, ho
voluto venire personalmente per
avere vostre notizie e dirvi che – a
meno che non prendiate voi il
disturbo di farmi visita – non avrò
probabilmente né domani né
dopodomani il piacere di vedervi.»
«Vostra Maestà va a caccia?»
domandò la regina.
«No, signora, ma Bouvard ha
deciso che dopo tutte queste feste,
che sono una fatica per me, è
opportuno che io sia purgato e
salassato. Quindi domani mi purga e
dopodomani mi fa un salasso. Buona
notte, signora, e perdonatemi se vi
ho svegliata. A proposito, chi è di
servizio da voi questa notte?
Madame de Fargis o madame de
Chevreuse?»
«Né l’una né l’altra, Sire.
Mademoiselle Isabelle de Lautrec.»
«Ah, benissimo» fece il re, come
se quel nome lo rassicurasse
completamente. «Ma dov’è?»
«Nella camera di fianco, dove
dorme vestita su un divano. Vostra
Maestà desidera che la chiami?»
«No, grazie. Arrivedervi,
signora.»
«Arrivedervi, Sire.»
E Anna, con un sospiro di
rimpianto – finto o reale –, che, date
le circostanze, crediamo più finto
che reale, lasciò ricadere la tenda
davanti al letto e la testa sul cuscino.
Quanto a Luigi XIII, si rimise il
cappello, gettò in giro per la camera
un’altra occhiata, dalla quale
traspariva un resto di sospetto, e uscì
mormorando:
«No, questa volta il cardinale si
era sbagliato.»
Poi, arrivato nell’anticamera dove
lo aspettava il suo seguito:
«La regina è davvero molto
indisposta» disse. «Venite con me,
signori!»
E il corteo si rimise in marcia
nello stesso ordine in cui era venuto,
per rientrare nell’appartamento del
re.

1 Non riuscendo per dieci giorni a distrarsi / dal


piacere di guardarla, / con sforzo opposto / ha
cercato di farla arrivare in ritardo. [NdT]
2 Voglio che tutti coloro che desiderano amarmi
/ lo facciano per sempre, oppure se ne vadano.
[NdT]
3 Henri de Talleyrand, conte di Chalais (1599-
1626). Coinvolto dalla sua amante, madame de
Chevreuse, in un complotto contro Richelieu a
vantaggio di Gaston d’Orléans, fu scoperto,
arrestato e condannato a morte. [NdC]
4 Charles d’Albret nel 1613 aveva trentacinque
anni. Divenne duca di Luynes solo nel 1619.
[NdC]
5 Espressione sprezzante per indicare i borghesi
e i contadini, per via delle suole delle loro
scarpe, che erano piatte, senza tacco. [NdC]
6 Il brano fra parentesi quadre compare
nell’edizione in volume del 1946, ma non nel
testo pubblicato sulle «Nouvelles». [NdC]
7 Sole splendente, del quale voglio / sopportare
per sempre le fiamme, / guarda dove mi conduci
/ e misura il tuo potere / vedendo la mia
condizione. [NdT]
8 In italiano nel testo. La frase è tratta da un
dispaccio del cardinale Guido Bentivoglio
(1579-1644), nunzio pontificio in Francia dal
1616 al 1621. [NdC]
X
Che cosa accadde nella camera da
letto
della regina Anna d’Austria
dopo che ne uscì re Luigi XIII
Non appena il rumore dei passi si
perse lontano nella galleria e gli
ultimi riflessi delle torce si spensero
tremolando lungo le pareti, la porta
dello stanzino dove si erano rifugiati
il conte di Moret e la sua guida si
dischiuse piano e la testa della
giovane donna s’insinuò nello
spiraglio.
Rendendosi conto che tutto era
tornato nel silenzio e nel buio, osò
uscire e lanciò un’occhiata nella
galleria, in fondo alla quale vide
scomparire gli ultimi bagliori delle
torce dei due paggi.
Una volta convinta che non ci
fosse più alcun pericolo, si riaccostò
allo stanzino e, passando leggera
come un uccellino davanti alla porta,
disse al conte:
«Venite, monsignore.»
Intanto, mantenendosi sempre a
una distanza e in una posizione tali
per cui il giovane non potesse
approfittare della luce più forte per
vederla in viso, aprì una dopo l’altra
le tre porte che il re aveva aperto
arrivando e richiuso andando via.
Muto, ansante, smarrito, il
giovane la seguiva. In quello stretto
stanzino, la ragazza aveva suo
malgrado dovuto stringersi a lui e,
pur dominandolo con l’onnipotente
mano della castità, non aveva potuto
impedire che il conte si inebriasse
del suo respiro e respirasse da ogni
poro quel voluttuoso sentore che
emana dal corpo di una giovane
donna e che si potrebbe definire il
profumo della pubertà.
Prima di aprire l’ultima porta, lei
tese la mano verso il conte, di cui
sentiva il passo incalzare il suo, e
con una voce di cui un certo
turbamento alterava la serenità:
«Monsignore» disse, «abbiate la
bontà di fermarvi in questo salotto.
Sua Maestà vi chiamerà quando sarà
disposta a ricevervi.»
Ed entrò dalla regina.
Questa volta, Anna d’Austria non
dormiva, né fingeva di dormire.
«Siete voi, Isabelle, cara?»
domandò scostando la tenda con
gesto più pronto e alzandosi sul letto
con movimento più rapido di quanto
non avesse fatto per il re.
«Sì, sono io, signora» rispose la
ragazza mettendosi in modo che il
suo viso rimanesse nell’ombra e lei
potesse nascondere un involontario
rossore alla regina.
«Sapete che il re è appena
uscito?»
«L’ho visto, signora.»
«Doveva avere dei sospetti.»
«È possibile, ma ora non ne ha
più di certo.»
«C’è il conte?»
«Si trova nella camera prima di
questa.»
«Accendete una candela e datemi
uno specchio.»
Isabelle obbedì, porse lo specchio
alla regina, ma tenne lei la candela
per illuminarla.
Anna d’Austria era più graziosa
che bella. Aveva lineamenti minuti,
un naso privo di carattere, ma la
pelle trasparente e vellutata di quella
bionda dinastia fiamminga da cui
discesero Carlo V e Filippo II.
Civetta con tutti gli uomini senza
distinzione, voleva fare colpo anche
su suo cognato; sistemò quindi
qualche ricciolo di capelli
scomposto dal guanciale, sistemò le
pieghe della lunga vestaglia di seta
nella quale era avvolta, si sollevò su
un gomito per studiare la posa, rese
lo specchio alla sua dama d’onore e,
con un sorriso di ringraziamento, le
fece cenno che poteva rientrare nella
sua stanza.
Isabelle depose specchio e
candeliere sulla toilette, salutò
rispettosamente e uscì dalla porta
indicata dalla regina quando aveva
detto al suo sposo che la sua dama
d’onore era lì, coricata su un divano.
La camera rimase illuminata dalla
doppia luce della lampada e della
candela, sistemate in maniera da
proiettare i loro raggi sulla parte del
letto dove Anna d’Austria aveva
dato udienza al re e stava per darla
al conte di Moret.
Rimasta sola, però, la regina
pareva aspettare qualcuno o
qualcosa prima di chiamarlo: si
voltò a più riprese verso il fondo
della camera, con piccoli moti
d’impazienza, mormorando
qualcosa.
Finalmente, e quasi allo stesso
tempo, le due porte che sembrava
stesse interrogando si aprirono. Da
una entrò un giovane di vent’anni,
dal viso pieno e colorito, i capelli
neri, lo sguardo duro che,
nell’addolcirsi, diventava falso. Era
sontuosamente vestito di raso
bianco, con un mantello color
ciliegia ricamato d’oro. Al collo
portava la decorazione dell’ordine
del Saint-Esprit, com’era allora di
moda. Teneva in mano il cappello di
feltro bianco, ornato di due piume
dello stesso colore del mantello.
Quel giovane era Gaston
d’Orléans, generalmente indicato
come Monsieur, che la cronaca
scandalistica del Louvre diceva
essere particolarmente amato dalla
madre in quanto figlio del bel
favorito Concino Concini. Del resto,
chiunque veda uno accanto all’altro,
come li abbiamo visti noi l’altro
giorno nel museo di Blois, il ritratto
del maresciallo d’Ancre e quello del
secondogenito di Maria de’ Medici
comprenderà che la somiglianza
esistente fra loro poteva in effetti dar
credito a questa grave accusa.
Abbiamo detto che dopo l’affaire
di Chalais il re lo disprezzava. Luigi
XIII era infatti dotato di una sorta di
coscienza. Non era insensibile a ciò
che allora si chiamava l’onore della
corona e che si chiama oggi l’onore
della Francia. Il suo egoismo e la
sua vanità, impastati dalle mani del
cardinale di Richelieu, avevano
quasi cambiato forma e di quei due
vizi il cardinale era riuscito a fare
una specie di virtù, mentre Gaston,
anima perfida e vile a un tempo, in
tutto l’affaire di Nantes era stato
davvero immondo. Aveva voluto
entrare nel Consiglio. Richelieu, per
amor di pace, avrebbe acconsentito,
ma lui esigeva di farvi entrare anche
il suo governatore Ornano. Richelieu
rifiutò. Il giovane principe allora
grida, impreca, tempesta, dice che
Ornano entrerà nel Consiglio o per
amore o per forza. Non potendo far
arrestare Gaston, Richelieu fa
arrestare Ornano. Gaston forza la
porta del Consiglio e, con tono
altero, chiede chi abbia avuto
l’audacia di fare arrestare il suo
governatore.
«Io» risponde Richelieu con la
massima calma.
Tutto si sarebbe fermato lì e
Gaston avrebbe trangugiato
silenziosamente la sua onta se
madame de Chevreuse, spinta dalla
Spagna, non avesse a sua volta
spinto Chalais. Il quale propose a
Monsieur di sbarazzarlo del
cardinale ed ecco che cosa escogita
Gaston, o meglio che cosa gli si
suggerisce: si sarebbe recato con
tutto il suo seguito a cena da
Richelieu, nel suo castello di Fleury,
e lì, alla sua tavola, tradendo
l’ospitalità, uomini d’arme non
avrebbero avuto difficoltà ad
assassinare un uomo inerme, un
prete. Del resto, da sessant’anni, la
Spagna – di cui in tutto questo si
intravede la mano gialla e
ripugnante – si è sempre comportata
così nei confronti dei grandi
personaggi che le danno fastidio. Li
sopprime. In politica sopprimere
significa uccidere. Così, ha ucciso
Coligny, Guglielmo di Nassau,
Enrico III, Enrico IV; così contava
di fare con Richelieu. Il
procedimento è monotono ma
pazienza: dal momento che ha
successo, è buono.
Quella volta, però, fallì.
E fu in quell’occasione che
Richelieu, come Ercole nelle stalle
di Augia, iniziò a ripulire la corte
spazzando via i principi. I due
bastardi di Enrico IV, i Vendôme,
furono arrestati. Il conte di Soissons
fuggì, madame de Chevreuse fu
mandata in esilio, il duca di
Longueville cadde in disgrazia.
Quanto a Monsieur, firmò una
confessione nella quale denunciava
e abbandonava i suoi amici. Fu
maritato, arricchito e disonorato.
Solo Chalais uscì senza onta dalla
cospirazione, perché ne uscì senza
testa.
E, già così avanti nell’ignobiltà,
Monsieur non aveva che vent’anni.
Quasi contemporaneamente a
Monsieur, dall’altra porta entrò una
donna fra i cinquantacinque e i
cinquantasei anni, regalmente
vestita, con una piccola corona d’oro
sulla sommità del capo e un lungo
mantello di porpora che le scendeva
dalle spalle sopra un abito di raso
bianco broccato d’oro; era forse
stata fresca, un tempo, ma bella o
elegante, mai. Un’accentuata
pinguedine le dà quell’aspetto
volgare che le è valso il soprannome
di “grassa banchiera” affibbiatole da
Enrico IV. È una mente inquieta, a
suo agio soltanto nell’intrigo.
Inferiore a Caterina de’ Medici per
genialità, le è stata superiore in
depravazione. A dar retta alle voci,
uno solo dei figli di Enrico IV è suo:
madame Henriette. Del resto, come
abbiamo detto, di tutti lei non ama
che Gaston. Si è rassegnata per
tempo alla morte del suo
primogenito, che considera
inevitabile e di cui già si è consolata.
La sua idea fissa è vedere Gaston sul
trono, come quella di Caterina era
vedervi Enrico III. Ma un’accusa più
grave pesa su di lei e fa sì che Luigi
XIII la detesti quanto lei lo odia. È
stata lei, se non a mettere, almeno a
lasciare fra le mani di Ravaillac il
coltello che avrebbe potuto invece
togliergli. Un verbale riporta che
sotto tortura Ravaillac aveva fatto il
suo nome e quello di d’Épernon. Per
far sparire ogni traccia di questi due
nomi, fu incendiato il Palazzo di
Giustizia.
Dal giorno prima, madre e figlio
sono stati convocati da Anna
d’Austria, avvertita che il conte di
Moret, a Parigi da dieci giorni, ha
delle lettere da consegnarle da parte
del duca di Savoia. Sono, come
abbiamo visto, entrati dalla regina
da porte diverse, venendo ciascuno
dal suo appartamento. Se vengono
scoperti, avranno come scusa
l’indisposizione di Sua Maestà, che
hanno appreso al ballo e che li ha
tanto preoccupati da non lasciar loro
nemmeno il tempo di cambiarsi
d’abito. Quanto al conte di Moret,
sempre in caso di sorprese, lo si
nasconderà da qualche parte. Un
giovane di ventidue anni si può
sempre nascondere facilmente. Del
resto, Anna d’Austria ha una certa
tradizione e anche qualche
precedente in questo genere di
giochetti.
Intanto il conte di Moret è rimasto
ad aspettare nella camera di fianco e,
fra sé e dal profondo dell’anima, ha
ringraziato il cielo di quel ritardo.
Che cosa avrebbe detto, che cosa
avrebbe fatto entrando dalla regina
emozionato, turbato, palpitante
com’era nel lasciare la sua guida
sconosciuta? Quei dieci minuti di
attesa non erano troppi per calmare i
battiti del suo cuore e rendere un po’
di fermezza alla sua voce.
Dall’agitazione è passato alla
fantasticheria, una fantasticheria
dolce e soave che fino a quel
momento non conosceva affatto.
D’improvviso la voce di Anna
d’Austria lo fece trasalire,
andandolo a cercare in fondo al suo
sogno:
«Siete lì, conte?»
«Sì, signora» rispose il conte, «e
aspetto gli ordini di Vostra Maestà.»
«Entrate, allora, perché siamo
disposte a ricevervi.»
XI
Le lettere che si leggono davanti a
testimoni
e quelle che si leggono da soli
Il conte di Moret scrollò la giovane e
attraente testa, come per farne
cadere il pensiero che lo assillava, e,
spingendo la porta davanti a sé, si
trovò sulla soglia della camera da
letto di Anna d’Austria.
Il suo primo sguardo, lo
dobbiamo confessare, malgrado il
rango elevato delle persone che si
trovavano nella camera, fu per
cercare l’incantevole guida che ce lo
aveva condotto e che, dopo avercelo
condotto, se ne era andata senza che
potesse nemmeno vederla in volto.
Ma benché il suo sguardo indugiasse
a frugare negli angoli più bui della
stanza, fu giocoforza tornare al
primo piano e fissare gli occhi e la
mente sul gruppo in piena luce.
Il gruppo, lo abbiamo detto, era
composto da tre persone: la regina
madre, la regina in carica e il duca
d’Orléans.
La regina madre era in piedi al
capezzale di Anna d’Austria,
coricata; Gaston era seduto ai piedi
del letto della cognata.
Il conte s’inchinò profondamente
e, avanzando verso il letto, mise un
ginocchio a terra davanti ad Anna
d’Austria, che gli porse la mano da
baciare; poi, abbassandosi fino al
pavimento, il giovane principe sfiorò
con le labbra l’orlo del vestito di
Maria de’ Medici; infine, sempre
con un ginocchio a terra, si girò
verso Gaston per baciargli la mano,
ma lui lo rialzò dicendogli:
«Abbracciatemi, fratello!»
Cuore franco e leale, degno figlio
di Enrico IV, il conte di Moret non
riusciva a credere a tutto quello che
si diceva di Gaston. Si trovava in
Inghilterra ai tempi del complotto di
Chalais, e madame de Chevreuse,
che aveva conosciuto lì, si era ben
guardata dal raccontargli la verità su
quel complotto. Si trovava in Italia
al momento della viltà dimostrata da
Gaston alla Rochelle, quando aveva
finto di essere ammalato per non
andare in battaglia. Per di più,
essendosi occupato sempre e solo
dei fatti suoi, non aveva preso parte
alcuna agli intrighi di una corte da
cui la gelosia di Maria de’ Medici
per i figli del marito lo aveva sempre
tenuto lontano.
Ricambiò quindi con gioia e di
cuore l’abbraccio di cui Gaston lo
onorava.
Poi, salutando la regina:
«Vostra Maestà si degnerà di
credere» le domandò «a tutta la
felicità che provo nell’essere
ammesso alla sua regale presenza e
alla riconoscenza che ho votato al
duca di Savoia per avermi offerto
questa preziosa occasione di essere
ricevuto da lei?»
La regina sorrise.
«Non tocca invece a noi esservi
riconoscenti per aver accettato di
venire in aiuto di due povere
principesse in disgrazia, private una
dell’amore di suo marito, l’altra
dell’affetto di suo figlio, e di un
fratello respinto dalle braccia di suo
fratello? A quanto avete detto, avete
infatti con voi delle lettere in grado
di portarci qualche conforto.»
Il conte di Moret trasse dal petto
tre plichi sigillati.
«Questa, signora» disse tendendo
la missiva alla regina, «è una lettera
per voi di don Gonzalo di Cordoba,
governatore di Milano e
rappresentante in Italia di Sua
Maestà Filippo IV, vostro augusto
fratello. Vi supplica di ricorrere a
tutta la vostra influenza perché
monsieur de Fargis rimanga come
ambasciatore a Madrid.»
«La mia influenza...» ripeté la
regina. «Si potrebbe godere di
qualche influenza su un re che fosse
uomo, ma su un fantasma che è re
chi mai può avere influenza, se non
un negromante quale il cardinale
duca?»
Il conte s’inchinò; poi,
rivolgendosi alla regina madre e
porgendole la seconda lettera:
«Tutto quanto so di questa,
signora, è che si tratta di una nota
molto importante e segretissima
scritta di pugno dal duca di Savoia.
Deve essere consegnata
personalmente a Vostra Maestà e
ignoro in tutto e per tutto il suo
contenuto.»
La regina madre prese svelta la
lettera, la aprì e, siccome così
lontana dalla luce non riusciva a
leggere, si avvicinò alla toilette su
cui si trovavano le candele e la
lampada.
«E infine» proseguì il conte di
Moret presentando a Gaston il terzo
plico, «questo è un biglietto per
Vostra Altezza da parte di madame
Christine, vostra augusta sorella,
bella e affascinante più ancora che
augusta.»
Ognuno si mise a leggere la
lettera che gli era indirizzata e il
conte approfittò del momento in cui
tutti erano immersi nella lettura per
frugare ancora con lo sguardo ogni
angolo della camera. Nella quale
non c’erano che le due principesse,
Gaston e lui.
Maria de’ Medici si riavvicinò al
letto della nuora e, rivolgendosi al
conte:
«Signore» gli disse, «quando si ha
a che fare con un uomo del vostro
rango e quest’uomo si è messo a
disposizione di due donne oppresse
e di un principe in disgrazia, la cosa
migliore è non avere segreti per lui,
non prima però che abbia dato la sua
parola d’onore di conservare
religiosamente i segreti che gli
verranno confidati, sia che voglia
diventare alleato o rimanere
neutrale.»
«Vostra Maestà» disse il conte di
Moret inchinandosi e mettendosi la
mano sul petto «ha la mia parola
d’onore che sarò muto, neutrale o
alleato. Solo, pur non mettendo
riserve al mio silenzio, ne devo
mettere alla mia devozione.»
Le due regine si scambiarono
un’occhiata.
«E quali sono le vostre riserve?»
«Sono due, signore» rispose il
conte con voce dolce ma ferma. «E
per esprimerle sono costretto,
benché a malincuore, a ricordarvi
che sono figlio di re Enrico IV. Non
posso levare la spada né contro i
protestanti né contro il re mio
fratello. Come pure non posso
rifiutarmi di levarla contro
qualunque nemico straniero cui il re
di Francia muoverà guerra, se il re di
Francia mi chiama a un simile
onore.»
«Né i protestanti né il re sono
nostri nemici, principe» disse la
regina madre sottolineando con
affettazione la parola principe. «Il
nostro nemico, il nostro solo
nemico, il nemico mortale, accanito,
colui che ha giurato di perderci, è il
cardinale.»
«Non amo il cardinale, signora,
ma avrò l’onore di farvi osservare
che è molto difficile per un
gentiluomo muovere guerra a un
prete. Peraltro, se Dio lo vorrà
punire con le avversità peggiori,
considererò sempre troppo lieve la
punizione per la sua condotta nei
vostri confronti. Questo basta a
Vostra Maestà per avere piena
fiducia in me?»
«Voi già sapete, signore, quanto
don Gonzalo di Cordoba dice a mia
nuora. Gaston vi dirà che cosa gli
scrive sua sorella Christine. Parlate,
Gaston.»
Il duca d’Orléans porse addirittura
la lettera al conte di Moret,
invitandolo a leggerla con un gesto.
Il conte la prese e lesse.
La principessa Christine scriveva
a suo fratello di far valere agli occhi
del re la tesi, a suo parere
determinante, che fosse meglio
lasciare fosse suo suocero Carlo
Emanuele di Savoia a impadronirsi
di Mantova e del Monferrato
piuttosto che offrire al duca di
Nevers l’eredità dei Gonzaga, dal
momento che per re Luigi XIII il
duca di Nevers era un estraneo,
mentre il principe Vittorio Amedeo
di Piemonte, al quale sarebbe
toccata un giorno l’eredità del padre,
era suo cognato.
Il conte restituì con un rispettoso
inchino la lettera a Gaston, che gli
domandò:
«Che cosa ne pensate, fratello
mio?»
«Sono un ben povero politico»
rispose sorridendo il conte di Moret,
«ma credo che sia effettivamente
meglio, soprattutto dal punto di vista
della famiglia.»
«Ora tocca a me» disse Maria de’
Medici porgendo al conte di Moret
la lettera del duca di Savoia. «È
giusto, signore, che siate a
conoscenza della nota che vi siete
incaricato di portare.»
Il conte prese il foglio e lesse la
seguente nota:
Fare tutto il possibile per impedire la
guerra d’Italia, ma se, malgrado gli sforzi
dei nostri amici, la guerra viene
dichiarata, i nostri amici siano certi che il
passo di Susa sarà vigorosamente difeso.

Era tutto quel che, visibilmente


almeno, c’era scritto sul foglio.
Il giovane lo restituì a Maria de’
Medici con i segni del più profondo
rispetto.
«Ora» disse la regina madre «ci
rimane solo da ringraziare il nostro
giovane messaggero della sua abilità
e devozione, e promettergli che, se
riuscissimo nei nostri intenti, la sua
fortuna seguirà la nostra.»
«Siano rese mille grazie a Vostra
Maestà delle sue buone intenzioni,
ma nel momento in cui la devozione
intravede la speranza di una
ricompensa non si tratta più di
devozione, bensì di calcolo o di
ambizione. La mia fortuna basta alle
mie necessità e non chiedo altro che
un po’ di gloria personale per
giustificare quella della mia
nascita.»
«Sia» replicò Maria de’ Medici
mentre sua nuora tendeva al conte di
Moret la mano da baciare.
«Toccherà a noi, vostri debitori, e
non a voi occuparsi di questi
dettagli. Gaston, riaccompagnate
vostro fratello. Una volta suonata
mezzanotte, non potrebbe più uscire
dal Louvre se non dalla vostra
scala.»
Il conte sospirò, guardandosi
un’ultima volta intorno. Sperava che
la stessa guida che lo aveva
accompagnato venendo lo avrebbe
accompagnato per andare via. Con
grande dispiacere dovette rinunciare
a questa speranza.
Salutò le due regine e seguì
costernato il duca d’Orléans.
Gaston lo condusse al proprio
appartamento e, aprendogli la porta
di una scala segreta:
«Vi porgo ancora i miei
ringraziamenti, fratello mio» gli
disse, «e vi prego di credere alla mia
sincera riconoscenza.»
Il conte s’inchinò.
«Devo dire una parola d’ordine?»
domandò. «Scambiare segnali
convenuti?»
«Nessuno. Busserete al vetro della
guardia svizzera dicendo: “Servizio
notturno del seguito del duca
d’Orléans”, e vi lasceranno
passare.»
Il conte lanciò un ultimo sguardo
dietro di sé, indirizzò il suo più
tenero sospiro verso la sconosciuta,
scese due piani, bussò al vetro della
guardia svizzera, pronunciò le parole
convenute e si trovò nel cortile. Poi,
siccome c’era una parola d’ordine
per entrare al Louvre ma nessuna
per uscirne, attraversò il ponte
levatoio e in un attimo fu all’angolo
di rue des Fossés-Saint-Germain con
rue des Poulies, dove lo aspettavano
il suo paggio e il suo cavallo, o
meglio il paggio e il cavallo del duca
di Montmorency.
«Ah» mormorò infilando il piede
nella staffa, «scommetto che non ha
nemmeno diciotto anni e che è bella
da impazzire. Ventre-saint-gris!
credo proprio che cospirerò contro il
cardinale, dato che non ho altri
mezzi per rivederla.»
Intanto Gaston d’Orléans, dopo
essersi assicurato che il conte di
Moret avesse superato senza
incidenti lo sportello che
dall’interno del castello conduceva
al cortile, rientrava nelle sue stanze,
si chiudeva nella camera da letto, ne
tirava le tende per essere certo che
nessuno sguardo indiscreto potesse
raggiungerlo e, tratta dalla tasca la
lettera di sua sorella Christine, la
esponeva con mano tremante al
calore di una candela.
Allora, negli spazi tra le righe
scritte con inchiostro nero, sotto
l’azione del calore si videro apparire
altre righe scritte dalla stessa mano
ma con inchiostro simpatico,
inizialmente bianco, che
gradualmente si colorava fino a
raggiungere un giallo scuro tendente
al rosso.
Queste righe appena sbocciate
dicevano:
Continuate a corteggiare apertamente
Maria di Gonzaga ma assicuratevi
segretamente della regina. Bisogna che in
caso di morte del nostro fratello maggiore
Anna d’Austria si senta sicura di
conservare la corona, altrimenti, mio
carissimo Gaston, grazie ai consigli di
madame de Fargis e all’intervento di
madame de Chevreuse, temendo di non
poter essere regina troverà il modo di
essere reggente.

«Oh» mormorò Gaston,


«tranquilla, sorellina, ci starò
attento.»
E, aprendo una scrivania, ripose la
lettera in un cassetto segreto.
Da parte sua, la regina madre,
appena uscito il duca d’Orléans,
aveva salutato la nuora e, rientrata
nelle sue stanze, si era fatta svestire,
si era preparata per la notte e aveva
congedato le cameriere.
Rimasta sola, aveva preso un
campanello nascosto in una piega
della stoffa.
Qualche secondo dopo, un uomo
dai quarantacinque ai cinquant’anni,
il volto giallo dai lineamenti
fortemente marcati, capelli,
sopracciglia e baffi neri,
rispondendo al richiamo del
campanello, era entrato da una porta
nascosta nella tappezzeria.
Quell’uomo era il musicista, il
medico e l’astrologo della regina.
Era, triste a dirsi, il successore di
Enrico IV, di Vittorio Orsini, di
Concino Concini, di Bellegarde, di
Bassompierre, del cardinale di
Richelieu: era il provenzale Vautier,
che, per amministrare meglio il
proprio corpo, era diventato medico
e, per armonizzare la propria mente,
astrologo.
Caduto Richelieu, se Richelieu
fosse caduto, a disputarsi la sua
eredità sarebbero stati Bérulle, uno
sciocco, e Vautier, un ciarlatano, e
molti di quelli che conoscevano la
sua influenza sulla regina madre
dicevano che Vautier aveva almeno
le stesse possibilità del suo rivale di
arrivare al ministero.
Vautier entrò, dunque, in una
specie di anticamera-salottino che
precedeva la camera da letto.
«Su, svelto, svelto, venite» disse
lei «e datemi, se l’avete preparato,
quel liquido capace di far apparire le
scritture invisibili!»
«Sì, signora» rispose Vautier,
tirando fuori una fiala dalla tasca.
«Qualsiasi raccomandazione di Sua
Maestà mi è troppo preziosa perché
io possa dimenticarla. Eccola. Vostra
Maestà ha quindi finalmente
ricevuto la lettera che aspettava?»
«Eccola» disse la regina madre,
togliendosi la lettera dal petto.
«Solamente poche righe, quasi
insignificanti, del duca di Savoia.
Ma è chiaro che non mi scrive così
confidenzialmente inviandomi la
lettera tramite un bastardo di mio
marito per dirmi una simile
banalità.»
E porse la lettera a Vautier, che la
prese e la lesse.
«In effetti» disse, «ci deve essere
qualcos’altro.»
Lo scritto apparente, cioè quello
che si vedeva, riempiva cinque o sei
righe in testa alla pagina, tracciate
sicuramente da Carlo Emanuele in
persona. Il che, con l’avvertimento
ricevuto di cercare sempre nelle
lettere qualcosa di più di quel che si
vedeva, confermava la regina madre
nell’idea che fosse giunto il
momento di chiamare in aiuto il
preparato chimico richiesto a
Vautier.
Di certo c’era solo che, se una
qualche raccomandazione invisibile
era nascosta nella lettera del duca di
Savoia, questa raccomandazione
doveva trovarsi sotto l’ultima riga ed
essere scritta sulla parte bianca del
foglio, circa tre quarti della pagina.
Vautier intinse un pennello nel
liquido che aveva preparato e bagnò
leggermente la carta dall’ultima riga
fino in basso. Via via che il pennello
bagnava la superficie bianca, si
vedevano subito apparire qua e là
delle lettere, alcune più in fretta di
altre, poi formarsi le righe e
finalmente, dopo cinque minuti di
imbibizione, si riuscì a leggere
chiaramente questo consiglio:
Simulate con vostro figlio Gaston un
litigio, di cui potrebbe essere causa il suo
amore insensato per Maria di Gonzaga, e,
se la campagna d’Italia viene decisa
malgrado la vostra opposizione, ottenete
per lui, con il pretesto di allontanarlo dalla
sua folle passione, ottenete per lui, ripeto,
il comando dell’armata. Il cardinale duca,
la cui unica ambizione è di essere
ricordato come il più grande generale del
suo tempo, non sopporterà tale onta e darà
le dimissioni. Resterebbe un solo timore:
che il re non le accetti!

Maria de’ Medici e il suo


consigliere si guardarono. «Avete
qualcosa di meglio da propormi?»
domandò la regina madre.
«No, signora» rispose lui, «e
comunque ho sempre constatato che
è ottima cosa seguire i consigli del
duca di Savoia.»
«Seguiamoli, allora» disse Maria
de’ Medici con un sospiro. «Non
possiamo trovarci in una situazione
peggiore di quella in cui siamo.
Avete consultato gli astri, Vautier?»
«Ho passato un’ora anche stasera
a studiarli dall’alto dell’osservatorio
di Caterina de’ Medici.»
«Ebbene? Che dicono?»
«Promettono a Vostra Maestà un
completo trionfo sui suoi nemici.»
«Così sia» replicò Maria de’
Medici tendendo all’astrologo una
mano un po’ deformata dal grasso
ma ancora bella, che lui baciò
rispettosamente.
E rientrarono insieme nella
camera da letto, la cui porta si
richiuse dietro di loro.
Rimasta sola nella sua stanza,
Anna d’Austria aveva ascoltato
allontanarsi prima i passi di Gaston
d’Orléans e poi quelli della suocera;
quando il rumore fu del tutto spento,
si alzò piano, infilò i suoi piedini
spagnoli in pantofole di raso azzurro
cielo ricamate d’oro, andò a sedersi
alla sua toilette e prese dal cassetto
un sacchettino di tela che invece
della polvere d’iris – profumo che
lei prediligeva per la sua biancheria
e che sua suocera faceva venire da
Firenze – conteneva della polvere di
carbone. La sparse sulla seconda
pagina, rimasta bianca, della lettera
di don Gonzalo di Cordoba e – come
era successo, con mezzi diversi, per
la lettera di madame Christine a suo
fratello Gaston e per quella di Carlo
Emanuele alla regina madre,
esponendo la prima alla fiamma di
una candela e passando sull’altra un
preparato chimico – a contatto con
la polvere di carbone delle lettere
apparvero su quella di don Gonzalo
di Cordoba alla regina.
Questa volta la lettera era scritta
personalmente da re Filippo IV.
Diceva:
Sorella mia, il nostro caro amico
monsieur de Fargis mi ha messo a
conoscenza del progetto per cui, in caso di
morte di re Luigi XIII, andreste in sposa a
suo fratello ed erede al trono Gaston
d’Orléans. Ma sarebbe ancora meglio se al
momento di quella morte voi foste incinta.
Le regine di Francia hanno sui loro
sposi un grande vantaggio: possono fare
dei Delfini senza di loro, e loro invece
senza le mogli non possono.
Riflettete su questa incontestabile
verità e, siccome per le vostre riflessioni
non avete bisogno di avere la mia lettera
davanti agli occhi, bruciatela.
Filippo

Dopo aver letto una seconda volta


la lettera del fratello, come per
incidersene nella memoria ogni
parola, la regina la prese per un
angolo, l’avvicinò alla candela e la
tenne così finché la fiamma,
illuminando la sua bella mano,
giunse a leccare la punta delle sue
unghie rosa. Solo allora lasciò
andare la lettera, la cui parte intatta
si consumò prima ancora che la
cenere sulla quale correvano
migliaia di scintille toccasse terra.
Ma subito, e a memoria, trascrisse
tutta la lettera, seguita dalla
raccomandazione, su un foglio a
parte, che chiuse nel cassetto segreto
di un mobiletto che le serviva da
scrivania.
Poi tornò a passi lenti verso il
letto, si lasciò scivolare dalle spalle
verso i fianchi e poi dai fianchi a
terra la vestaglia di raso, ne uscì
come Venere uscì da un’onda
d’argento, si coricò lentamente e,
lasciando cadere la testa sul
guanciale con un sospiro, mormorò:
«Oh, Buckingham, Buckingham!»
E da quel momento solo qualche
singhiozzo soffocato turbò il
silenzio della camera regale.
XII
La Sfinge Rossa
Nella galleria del Louvre si trova un
ritratto del pittore giansenista
Philippe de Champaigne che
rappresenta “dal vero”, come allora
si diceva, il volto fine, vigoroso e
asciutto del cardinale di Richelieu.
Contrariamente ai fiamminghi
suoi compatrioti o agli spagnoli suoi
maestri, Philippe de Champaigne è
avaro di quel colore scintillante che i
Rubens e i Murillo mescolano sulle
loro tavolozze e spandono sulle loro
tele. In effetti, spingere in un mare
di luce il cupo ministro,
perennemente immerso nelle mezze
tinte della sua politica, lui il cui
motto era Aquila in nubibus, aquila
fra le nubi, sarebbe stato forse un
omaggio all’arte ma certo un
oltraggio alla verità.
Studiatelo, quel ritratto, voi tutti,
uomini di coscienza che volete,
dopo due secoli e mezzo, risuscitare
l’illustre defunto e farvi un’idea
fisica e morale del grande genio
calunniato dai suoi contemporanei,
misconosciuto, quasi dimenticato
dal secolo successivo, e che solo
dopo duecento anni di sepolcro ha
trovato la collocazione che aveva il
diritto di aspettarsi presso i posteri.
Quel ritratto ha il privilegio di
farvi fermare di botto e di farvi
sognare. È un uomo, è un fantasma
questa creatura in veste rossa,
mozzetta bianca, alba di pizzo in
punto Venezia, calotta rossa? questa
creatura con la fronte ampia, i
capelli grigi, i baffi grigi, l’occhio
grigio da cui filtra uno sguardo
opaco, le mani affusolate, magre e
pallide? Il volto, per l’eterna febbre
che lo brucia, è vivo solo sugli
zigomi. È vero o no che più a lungo
lo contemplate meno vi pare di
sapere se avete di fronte un essere
vivente o se, come san Bonaventura,
non si tratta invece di un defunto che
dopo la morte torna a scrivere le sue
memorie? Se d’un tratto si staccasse
dalla tela, scendesse dalla cornice e
avanzasse verso di voi, è vero o no
che indietreggereste facendovi il
segno della croce come davanti a un
fantasma?
Visibilmente e
incontestabilmente, questo ritratto
raffigura una mente, un’intelligenza,
e basta. Niente cuore, niente visceri,
fortunatamente per la Francia. In
quel vuoto della monarchia che si
viene a creare tra Enrico IV e Luigi
XIV, per dominare quel re mal
riuscito, debole, impotente, quella
corte inquieta e dissoluta, quei
principi avidi e infidi, per impastare
quel fango animato e farne la genesi
di un mondo nuovo, occorreva un
cervello e nient’altro.
Dio creò con le sue mani quel
terribile automa, collocato dalla
Provvidenza a pari distanza da Luigi
XI e da Robespierre, perché
abbattesse i grandi signori, come
Luigi XI aveva abbattuto i grandi
vassalli, come Robespierre avrebbe
abbattuto gli aristocratici. Ogni tanto
i popoli vedono apparire
all’orizzonte come rosse comete uno
di questi falciatori insanguinati che
sembrano qualcosa di inumano, che
avanzano senza muoversi, che si
avvicinano senza rumore, e poi,
arrivati finalmente in mezzo al
campo che hanno la missione di
mietere, si mettono al lavoro e si
fermano soltanto quando hanno
esaurito il loro compito, cioè quando
tutto è stato abbattuto.
Proprio così vi sarebbe apparso in
quella sera del 5 dicembre 1628, nel
momento in cui, preoccupato per
l’odio che lo circondava, inquieto
per i grandi progetti che meditava,
deciso a sterminare l’eresia in
Francia, a cacciare la Spagna dal
Milanese, a por fine all’influenza
dell’Austria in Toscana, cercando di
capire e chiudendo la bocca,
spegnendo gli occhi per paura di
essere compreso, così vi sarebbe
apparso l’uomo su cui riposavano le
sorti della Francia – l’impenetrabile
ministro che il grande storico
Michelet chiama “la Sfinge Rossa” –
quando rientrò nel suo studio.
Usciva da quel balletto durante il
quale il suo intuito gli aveva detto
che l’assenza della regina aveva una
causa politica e quindi minacciosa
per lui, e che qualcosa di velenoso si
stava tramando in quell’alcova reale
i cui dodici piedi quadrati gli
procuravano più lavoro e fastidi che
il resto del mondo. Tornava triste,
stanco, quasi disgustato,
mormorando come Lutero: «Ci sono
momenti in cui Nostro Signore
sembra annoiarsi del gioco e gettare
le carte sotto il tavolo».
Sapeva anche a quale filo, a quale
capello, a quale soffio erano sospesi
non solo il suo potere ma la sua vita.
Il suo personale cilicio era fatto di
pugnali acuminati. Sentiva di
trovarsi, nel 1628, là dove Enrico IV
si era trovato nel 1606: tutti avevano
bisogno della sua morte. E il peggio
era che nemmeno Luigi XIII, l’unico
che lo sostenesse, amava il suo viso
appuntito: Richelieu si sentiva
continuamente vacillare sotto le
debolezze del re. Non avrebbe
comunque avuto importanza, se
quell’uomo di genio fosse stato sano
e vigoroso, come era quell’idiota del
suo rivale Bérulle, ma lo
scarseggiare del denaro, il continuo
sforzo mentale di inventarsi delle
risorse, i dieci intrighi di corte che
bisognava fronteggiare tutti insieme
lo tenevano costantemente in un
terribile stato di agitazione. Era
questa febbre che gli imporporava
gli zigomi, lasciandogli al tempo
stesso una fronte di marmo e delle
mani d’avorio. Aggiungetevi le
discussioni teologiche, la mania per
i versi, la necessità di ringoiare fiele
e furore e, dall’oggi al domani, i
visceri bruciati da un ferro
incandescente: quell’uomo era a due
passi dalla morte.
Curioso l’accoppiamento di quei
due malati. Per fortuna il re intuiva,
senza peraltro averne la certezza,
che, se Richelieu gli fosse mancato,
il regno era perduto. Ma, per
disgrazia, Richelieu sapeva che,
morto il re, non gli sarebbero
rimaste ventiquattr’ore di vita:
odiato da Gaston, odiato da Anna
d’Austria, odiato dalla regina madre,
odiato da Soissons che teneva in
esilio, odiato dai due Vendôme che
teneva in prigione, odiato da tutta la
nobiltà cui proibiva di dare scandalo
a Parigi con dei duelli in luogo
pubblico, doveva fare in modo di
morire almeno lo stesso giorno di
Luigi XIII: se possibile, alla stessa
ora.
Una sola persona gli rimaneva
fedele in quell’eterno gioco di
equilibri, in quella buona e cattiva
sorte tanto mutevoli che in una
medesima giornata si alternavano
sole e tempesta. Era la sua figlia
adottiva, sua nipote, quella madame
de Combalet che abbiamo incontrato
da madame de Rambouillet con la
veste da carmelitana che portava
dopo la morte del marito.
La prima cosa che fece rientrando
nelle sue stanze di place Royale fu
quindi premere un campanello.
Tre porte si aprirono quasi
contemporaneamente.
Da una compariva Guillemot, il
suo cameriere di fiducia.
Dall’altra Charpentier, il suo
segretario.
Dalla terza Rossignol, colui che
decifrava i suoi dispacci. «È
rientrata mia nipote?» domandò a
Guillemot. «Proprio ora,
monsignore» rispose il cameriere.
«Ditele che devo lavorare questa
notte e chiedetele se vuole venire lei
qui o se preferisce che salga io da
lei.»
Il cameriere richiuse la porta e
andò a eseguire l’ordine ricevuto.
Volgendosi allora verso
Charpentier:
«Avete visto padre Joseph?» gli
chiese.
«È venuto due volte nel corso
della serata e dice che ha bisogno di
parlare questa sera a monsignore.»
«Se torna una terza volta fatelo
entrare. Cavois è nella stanza delle
guardie?»
«Sì, monsignore.»
«Avvertitelo di non allontanarsi.
Questa notte potrei aver bisogno dei
suoi servizi.»
Il segretario si allontanò.
«E voi, Rossignol» domandò il
cardinale, «avete trovato il codice
della lettera che vi ho dato? sapete...
la lettera rubata fra le carte di
Senelle, il medico del re, al suo
ritorno dalla Lorena.»
«Sì, monsignore» rispose con un
accento meridionale molto
pronunciato un ometto dai
quarantacinque ai cinquant’anni,
quasi gobbo tanta era l’abitudine di
tenersi curvo, la cui caratteristica più
marcata era un lungo naso sul quale
avrebbe potuto inforcare tre o
quattro paia di occhiali e sul quale
invece, per modestia, non ne teneva
che un paio. «È quanto mai facile. Il
re si chiama Cefalo, la regina Procri,
Vostra Eminenza l’Oracolo e
madame de Combalet Venere.»
«Va bene» disse il cardinale,
«datemi tutte le chiavi del codice,
leggerò il dispaccio da solo.»
Rossignol fece un passo indietro
per ritirarsi.
«A proposito» aggiunse il
cardinale, «domani mattina mi farete
firmare una gratifica di venti
pistole.»
«Monsignore non ha altri ordini
da darmi?»
«No, rientrate nel vostro studio e
preparate le chiavi del codice per il
momento in cui vi chiamerò.»
Rossignol si ritirò indietreggiando
e inchinandosi fino a terra.
Nel momento in cui la porta si
richiudeva alle sue spalle, un
sonaglio o qualcosa del genere
emise una sorta di belato, appena
percettibile, proprio nel cassetto
della scrivania del cardinale.
Lui aprì il cassetto e trovò il
sonaglio ancora fremente. Come per
risposta, premette con il dito un
piccolo pulsante che doveva
corrispondere all’appartamento di
madame de Combalet perché un
minuto dopo lei entrava dallo zio,
attraverso una porta di fronte a
quelle che si erano aperte finora.
Il suo abbigliamento si era
decisamente trasformato. Aveva
tolto il velo e la benda, lo scapolare
e il soggolo, cosicché indossava solo
la sua tunica di stamigna stretta in
vita da una cintura di cuoio; i bei
capelli castani, liberi dalla loro
prigione, ricadevano in riccioli di
seta fino alle spalle e la tunica, un
po’ più scollata di quanto avrebbe
permesso l’ordine se lei fosse stata
una vera carmelitana invece di
portarne soltanto l’abito per esaudire
un voto, lasciava vedere la forma di
un seno di cui un bouquet di violette
e di boccioli di rosa – bouquet che
abbiamo già notato, ma sul soggolo,
in casa di madame de Rambouillet –
indicava insieme la nascita e la
bellezza.
Quella tunica scura, portata
direttamente sulla pelle, faceva
risaltare la bianchezza di raso del
collo elegante e delle belle mani e,
non imprigionata nel corsetto di
ferro che si portava a quell’epoca, la
sua figura si muoveva con grazia
sotto le pieghe eleganti che fa la
lana, la stoffa che meglio si
drappeggia addosso.
Alla vista di quell’adorabile
creatura avvolta in un mistico
profumo, che, con i suoi venticinque
anni, era nel fiore della bellezza e
che la semplicità dell’abito rendeva,
se possibile, ancora più bella e
aggraziata, il viso aggrottato del
cardinale si distese, un lampo
illuminò quella fisionomia cupa, un
sospiro di sollievo gli liberò il petto
ed egli le tese le braccia, dicendo:
«Venite, venite, Marie!»
La giovane donna non aveva
bisogno dell’incoraggiamento:
avanzava verso di lui con un sorriso
incantevole, staccando dall’abito il
bouquet per offrirlo allo zio, dopo
avervi posato le labbra.
«Grazie, mia bella e diletta
bambina» disse il cardinale portando
a sua volta il bouquet alle labbra con
la scusa di annusarlo, «grazie, mia
figliola amatissima.»
Attirandola poi a sé e baciandola
sulla fronte come avrebbe fatto un
padre con sua figlia:
«Sì, amo questi fiori, freschi come
voi, profumati come voi...»
«Siete davvero troppo buono, caro
zio. Mi avete mandato a dire che
desideravate vedermi? Avrei la
fortuna che voi abbiate bisogno di
me?»
«Ho sempre bisogno di voi, mia
bella Marie» disse il cardinale
guardando rapito la nipote, «ma
questa sera la vostra presenza mi è
più che mai necessaria.»
«Oh, zio caro» disse madame de
Combalet cercando di baciare le
mani del cardinale, cosa cui lui si
oppose portando invece le mani
della nipote alle proprie labbra e
baciandole, vincendo una resistenza
che nasceva più dal profondo
rispetto della giovane vedova per lo
zio che da altri motivi. «Vedo che
anche stasera vi hanno tormentato.
Dovreste esserci abituato, però»
aggiunse con un sorriso triste. «E in
fondo, che cosa ve ne importa, voi
siete comunque un vincente, no?»
«Sì» disse il cardinale, «lo so. È
impossibile essere allo stesso tempo
più alto e più basso, più felice e più
infelice, più potente e più impotente
di quanto io non sia, ma voi lo
sapete meglio di chiunque: voi, da
cui dipendono le mie fortune
politiche e la mia felicità personale.
Mi volete bene davvero, voi, no?»
«Con tutto il cuore e con tutta
l’anima!»
«Ebbene, dopo la morte di
Chalais, vi ricordate, avevo ottenuto
una grande vittoria: tenevo, vinti, ai
miei piedi Monsieur, la regina, i due
Vendôme, il conte di Soissons. Che
cos’hanno fatto quelli cui ho
perdonato? Non mi hanno certo
perdonato, loro. Mi hanno morso
dove sono più sensibile, nel cuore
del mio cuore. Sapevano che amo
solo voi al mondo e che dunque la
vostra presenza mi è necessaria
quanto l’aria che respiro, quanto il
sole che m’illumina. Ebbene, vi
hanno rimproverato di vivere con
questo prete maledetto, con
quest’uomo di sangue! Vivere con
me! Sì, voi vivete con me e dirò di
più: io vivo grazie a voi. Ebbene,
questa vita – da parte vostra tanto
devota e dalla mia tanto pura che
mai un cattivo pensiero, nemmeno
vedendovi così bella, nemmeno
tenendovi fra le braccia come in
questo momento, mi ha attraversato
la mente –, questa vita di cui dovete
essere fiera come di un sacrificio, ve
ne hanno fatto una vergogna. Avete
avuto paura, avete rinnovato i vostri
voti, voluto entrare in convento. Ho
dovuto sollecitare dal papa, contro
cui stavo combattendo, un breve per
impedirvi di entrarvi. Come posso
non tremare? Non è niente, se mi
uccidono; all’assedio della Rochelle
ho rischiato venti volte la vita, ma se
mi fanno cadere, se mi esiliano, se
m’imprigionano, come vivrò lontano
da voi, fuori di voi?»
«Amatissimo zio» rispose la bella
devota, fissando sul cardinale uno
sguardo in cui si poteva leggere
qualcosa di più dell’affetto di una
nipote per lo zio e forse anche
dell’amore di una figlia per il padre,
«a quell’epoca siete stato buono
quanto più non era possibile, ma non
vi conoscevo e non vi amavo come
vi conosco e vi amo adesso. Ho fatto
un voto, il papa me ne ha sciolta e
dunque oggi quel voto non esiste
più. Ebbene, in questo momento
giuro, e da questo giuramento
nemmeno voi avrete potere di
sciogliermi, che sarò ovunque voi
siate, che vi seguirò ovunque voi
andiate: palazzo, esilio, prigione per
me sono la stessa cosa. Il cuore vive
non dove batte, ma dove ama.
Quindi, caro zio, il mio cuore è
dentro di voi, perché vi amo e non
amerò mai nessun altro.»
«Sì, ma quando toccherà a loro
trionfare, vi permetteranno di
dedicarvi a me, se sono quasi riusciti
a impedirvelo quando a vincere ero
io? Vedete, Marie, quello che temo
più della mia caduta, più del mio
potere annientato, più della mia
ambizione delusa, quello che temo è
essere separato da voi. Oh, se
dovessi lottare soltanto contro la
Spagna, contro l’Austria, contro la
Savoia, non sarebbe nulla; ma dover
lottare contro quelli che mi
circondano, che rendo ricchi, felici,
potenti! Non osare, quando alzo un
piede, riabbassarlo, per timore di
pestare una vipera o di schiacciare
uno scorpione! Questo è quel che mi
sfinisce. Spinola, Wallenstein,
Olivares, che m’importa combattere
contro di loro! Li abbatterò, non
sono loro i miei veri nemici, i miei
veri rivali. Il mio rivale vero è un
Vautier. Il mio nemico vero è un
Bérulle, un essere sconosciuto che
tesse intrighi in un’alcova o striscia
in un’anticamera e di cui ignoro non
solo il nome, ma persino l’esistenza.
Scrivo tragedie: bene, non ne
conosco di più cupe di quella che
recito! Ecco che, lottando contro la
flotta inglese, sventrando le mura
della Rochelle, a forza d’ingegno – e
lo posso ben dire, anche se parlo di
me – riesco a raccogliere in Francia,
oltre al mio esercito, dodicimila
uomini. Li offro al duca di Nevers,
legittimo erede di Mantova e del
Monferrato, perché vada a
conquistarsi la sua eredità. Sono
certamente di più di quanti ne
occorrerebbero se dovessi affrontare
soltanto Filippo IV, o Ferdinando II
o Carlo Emanuele, cioè la Spagna,
l’Austria e il Piemonte. Ma
l’astrologo Vautier ha letto nelle
stelle che l’esercito non passerà le
montagne, ma il pio Bérulle ha
temuto che il successo di Nevers
potesse rompere l’intesa fra Sua
Maestà Cattolica e Sua Maestà
Cristianissima. Fanno scrivere dalla
regina madre a Créqui, quel Créqui
che io ho fatto pari, maresciallo di
Francia, governatore del Delfinato, e
Créqui, che aspetta la mia caduta per
diventare connestabile a spese di
Montmorency, rifiuta i viveri di cui
strabocca. La fame entra
nell’esercito, con la fame la
diserzione, con la diserzione il
Savoiardo! Ma quei massi che,
rotolando dai monti della Savoia,
hanno schiacciato i resti dell’armata
francese, chi li ha spinti? Una regina
di Francia, Maria de’ Medici. È vero
che prima di essere regina di Francia
era figlia di Francesco, cioè di un
assassino, e nipote di Ferdinando,
cardinale senza tonaca, avvelenatore
del fratello e della cognata. Ebbene,
se non vado in Italia, faranno la
stessa cosa con me o meglio con il
mio esercito, e, se ci vado, qui mi
toglieranno la terra da sotto i piedi,
finché non crollerò. Eppure quello
che voglio è il bene della Francia.
Mantova e il Monferrato, regione
piccola, lo so, ma grande posizione
strategica. Casale, la chiave delle
Alpi! La chiave delle Alpi in mano
al Savoiardo perché la presti, a
seconda dei suoi interessi, ora
all’Austria ora alla Spagna.
Mantova, la capitale dei Gonzaga,
che accoglie le arti in fuga,
Mantova, un museo, diventata,
insieme a Venezia, l’ultimo nido
dell’Italia. Mantova, infine, che
protegge allo stesso tempo la
Toscana, il papa e Venezia.
“Riuscirete forse a far togliere
l’assedio da Casale, ma non
salverete Mantova!” mi scrive
Gustavo Adolfo. Ah, se non fossi
cardinale, se non dipendessi da
Roma, vorrei solamente Gustavo
Adolfo per alleato – ma come
stringere un’alleanza con i
protestanti del Nord mentre
schiaccio quelli del Sud? Se fossi
sicuro di essere ancora legato, se
potessi riunire insieme nelle mie
mani il potere spirituale e quello
temporale, legato a vita! E pensare
che a impedire la riuscita di un
simile progetto sono Vautier, un
ciarlatano, e uno sciocco, Bérulle!»
Si alzò.
«E pensare anche» aggiunse «che
le tengo in pugno tutte e due, nuora
e suocera; che, se solo volessi
occuparmene, potrei avere la prova
dell’adulterio dell’una e della
complicità dell’altra nell’omicidio di
Enrico IV, e che, quando le parole
sono pronte a uscirmi dalle labbra,
soffoco, taccio per non
compromettere la gloria della corona
di Francia!»
«Zio!» esclamò spaventata
madame de Combalet.
«Ho i testimoni» proseguì il
cardinale. «Madame de Bellier e
Patrocle per la regina Anna
d’Austria. La d’Escoman per Maria
de’ Medici. Andrò a cercarla in
quella cloaca delle Filles Repenties,
quella povera martire, e se è morta
farò parlare il suo cadavere.»
Andava avanti e indietro, agitato.
«Zio caro» disse madame de
Combalet, ostruendogli il passo,
«non parlate di queste cose stasera,
ci penserete domani.»
«Avete ragione, Marie» replicò
Richelieu, riprendendo il controllo
con la forza della sua prodigiosa
volontà, «che cosa avete fatto oggi?
Da dove venite?»
«Sono stata da madame de
Rambouillet.»
«E che cosa è successo? Che cosa
avete fatto di bello? Cosa si è detto
di interessante dall’illustre
Arthénice?» 1 chiese il cardinale
sforzandosi di sorridere.
«Hanno presentato un giovane
poeta che viene da Rouen.»
«Devono avere una fabbrica di
poeti a Rouen. Saranno sì e no tre
mesi che Rotrou è sceso dal
cocchio.»
«Be’, è stato proprio Rotrou a
presentarlo come un suo amico.»
«E che nome ha questo poeta?»
«Pierre Corneille.»
Il cardinale scosse le spalle come
per dire: mai sentito.
«E sicuramente arriva con una
tragedia bell’e pronta?»
«Con una commedia in cinque
atti.»
«Dal titolo?»
«Mélite.»
«Non è un nome storico.»
«No, è un argomento di fantasia.
Secondo Rotrou è destinato a
cancellare qualsiasi poeta passato,
presente e futuro.»
«Impertinente!»
Madame de Combalet si accorse
di aver toccato un tasto delicato e
passò ad altro.
«Poi» aggiunse, «madame de
Rambouillet ci ha fatto una sorpresa:
ha fatto costruire, senza dir niente a
nessuno, facendo passare muratori e
falegnami da sopra i muri dei
Quinze-Vingts, un’appendice al suo
palazzo, una stanza incantevole,
tutta tappezzata di velluto azzurro,
oro e argento. Non avevo visto mai
nulla di così raffinato.»
«Ne volete una uguale, Marie,
cara? Niente di più facile, l’avrete
nel palazzo che sto facendo
costruire.»
«Grazie. A me serve, lo
dimenticate sempre, caro zio, una
cella monacale e basta, purché
accanto a voi.»
«È tutto?»
«Non proprio, ma non so se
raccontarvi il resto.»
«Perché?»
«Perché nel resto c’è un colpo di
spada.»
«Duelli! Ancora duelli!»
mormorò Richelieu. «Non riuscirò
mai a sradicare dalla terra di Francia
questo falso punto d’onore?»
«Questa volta non si tratta di un
duello, ma di un semplice scontro. Il
marchese di Pisany è stato riportato
all’hôtel de Rambouillet privo di
conoscenza in seguito a una ferita.»
«Pericolosa?»
«No, ma gli è andata bene che è
gobbo: la lama ha picchiato contro
la punta della gobba e, non
riuscendo a penetrare, è scivolata
sulle costole – mio Dio, come ha
detto il medico?, sulle costole
embricate l’una sull’altra –, ha
attraversato il petto e una parte del
braccio sinistro.»
«Si conosce il motivo dello
scontro?»
«Mi sembra di aver sentito
pronunciare il nome del conte di
Moret.»
«Il conte di Moret...» ripeté
Richelieu aggrottando le
sopracciglia. «Negli ultimi tre giorni
mi pare di averlo sentito parecchie
volte questo nome. E chi è stato a
dare quel simpatico colpo di spada
al marchese di Pisany?»
«Un suo amico.»
«Il nome?»
Madame de Combalet esitò, ben
conoscendo la severità di suo zio a
proposito dei duelli.
«Caro zio» disse, «ricordatevi
quel che vi ho detto. Non si tratta di
un duello, né di una sfida, e forse
nemmeno di uno scontro. I due
avversari hanno cominciato a
discutere accanto al palazzo.»
«Ma chi è l’altro? Vi ho
domandato il suo nome, Marie.»
«Un certo Souscarrières.»
«Souscarrières!» ripeté Richelieu.
«Conosco questo nome.»
«È possibile, ma posso
assicurarvi, caro zio, che non ha
nessuna colpa.»
«Chi?»
«Souscarrières.»
Il cardinale aveva tirato fuori da
una tasca i suoi appunti e li
consultava. Parve aver trovato quel
che cercava.
«È stato il marchese di Pisany»
proseguì madame de Combalet «a
sguainare la spada e a gettarsi su di
lui come un pazzo. Voiture e
Brancas, che erano entrambi
presenti, danno torto a Pisany pur
essendo amici della marchesa.»
«È proprio l’uomo cui pensavo»
mormorò il cardinale.
E picchiò su un campanello.
Comparve Charpentier.
«Chiamatemi Cavois» disse il
cardinale.
«Oh, zio, non farete arrestare e
processare quel giovane!» esclamò
madame de Combalet giungendo le
mani.
«Tutt’altro!» replicò ridendo il
cardinale, «farò forse la sua
fortuna!»
«Oh, zio, non scherzate!»
«Con voi, Marie, non scherzo
mai. Quel Souscarrières a partire da
questo istante tiene fra le mani la sua
fortuna. E, meglio ancora, è una
fortuna che dovrà a voi. A lui non
lasciarsela sfuggire.»
Cavois entrò.
«Cavois» disse il cardinale al
capitano delle guardie, mezzo
addormentato, «dovete andare in rue
des Frondeurs, fra rue Traversière e
rue Sainte-Anne. Informatevi se lì
nella casa che fa angolo non abita un
cavaliere che si fa chiamare Pierre
de Bellegarde, marchese di
Montbrun, sire di Souscarrières.»
«Sì, monsignore.»
«E se abita lì e lo trovate in casa,
gli direte che, nonostante l’ora tarda
della notte, avrei grandissimo
piacere di parlare un po’ con lui.»
«E se rifiutasse di venire?»
«Be’, Cavois, non sarete in
difficoltà per così poco, no? Volente
o nolente, devo vederlo, capite?
Devo.»
«Fra un’ora sarà agli ordini di
Vostra Eminenza» disse Cavois
inchinandosi.
Giunto alla porta, il capitano delle
guardie si trovò faccia a faccia con
un nuovo arrivato. Alla sua vista si
fece da parte con tale rispetto e
premura da rendere evidente che
cedeva il passo a un eminente
personaggio.
E in effetti, in quel momento si
inquadrò nella porta il famoso
cappuccino du Tremblay, noto con il
nome di padre Joseph, o l’Eminenza
Grigia.

1 Anagramma di Catherine, il nome della


marchesa di Rambouillet. [NdC]
XIII
L’Eminenza Grigia
Era risaputo che padre Joseph fosse
la seconda anima del cardinale, tanto
che al vederlo apparire i servitori
vicini al ministro si ritiravano
immediatamente e che la presenza
dell’Eminenza Grigia nello studio di
Richelieu sembrava avere il
privilegio di fare il vuoto intorno a
sé.
Madame de Combalet subiva
come gli altri tale influenza e non si
sottraeva al disagio che ispirava
quella silenziosa apparizione.
Vedendo entrare padre Joseph, offrì
dunque la fronte al bacio del
cardinale dicendogli:
«Vi prego, zio, non vegliate
troppo a lungo.»
Poi si ritirò, ben contenta di uscire
dalla porta opposta a quella da dove
era entrata per non dover passare
troppo vicino al frate che stava ritto,
immobile e muto, a metà della
distanza che doveva percorrere per
raggiungere il cardinale.
All’epoca cui siamo arrivati, tutti
gli ordini religiosi, tranne quello
dell’Oratorio di Gesù, fondato nel
1611 dal cardinale di Bérulle e
confermato, dopo una lunga
opposizione, da Paolo V nel 1613,
dipendevano più o meno dal
cardinale ministro. Era il protettore
ufficiale dei benedettini di Cluny e
di Cîteaux de Saint-Maur, dei
premostratensi, dei domenicani, dei
carmelitani e infine di tutta la
famiglia incappucciata di san
Francesco: minori, minimi,
francescani, cappuccini e via
dicendo. In cambio di tale
protezione, tutti questi ordini – che,
sotto pretesto di predicazione,
mendicità, propaganda o missione,
viaggiavano, vagavano, si
aggiravano per il mondo intero –
svolgevano per lui i compiti di una
polizia ufficiosa, tanto più efficiente
in quanto il confessionale era la
fonte principale cui attingevano le
loro informazioni.
Il cappuccino Joseph, invecchiato
nella diplomazia, era il capo di tutta
questa polizia vagabonda, che
lavorava con lo zelo della
riconoscenza. Come accadde poi per
i Sartine, i Lenoir, i Fouché, egli
possedeva il genio dello spionaggio.
Grazie alla sua influenza, suo
fratello, Leclerc du Tremblay, era
stato nominato governatore della
Bastiglia, cosicché un prigioniero
spiato, denunciato, arrestato dal du
Tremblay cappuccino veniva preso
in consegna, imprigionato e
custodito dal du Tremblay
governatore, senza contare che, se
moriva in carcere, cosa che
accadeva spesso, confessione,
estrema unzione e sepoltura
venivano amministrati dal du
Tremblay cappuccino, e così, una
volta preso, rimaneva in famiglia.
Padre Joseph aveva un
sottoministero, composto di quattro
divisioni a capo delle quali erano
quattro cappuccini. Aveva un
segretario, tale padre Ange Sabini,
che era il suo padre Joseph.
Inizialmente, quando aveva assunto
le sue funzioni, se doveva svolgere
qualche incarico, lo faceva a cavallo,
seguito da padre Ange, anche lui a
cavallo. Ma un bel giorno in cui lui
montava una giumenta e padre
Sabini uno stallone, nel gruppo che
formarono i due quadrupedi i
cappucci dei frati si trovarono ad
assumere un ruolo talmente
grottesco che padre Joseph ritenne di
dover sacrificare alla sua dignità
quel mezzo di trasporto. Da allora,
andava in portantina o in carrozza.
Ma nell’esercizio abituale delle
sue funzioni, quando aveva bisogno
di mantenere l’incognito, padre
Joseph andava a piedi, tirandosi il
cappuccio sugli occhi per non essere
riconosciuto, cosa che gli riusciva
facile in mezzo a tutti i religiosi di
ogni ordine e colore che allora
solcavano le vie di Parigi.
Quella sera, padre Joseph aveva
esercitato a piedi.
Il cardinale si assicurò con il suo
occhio vigile che la prima porta si
fosse richiusa dietro il capitano e la
seconda dietro la nipote; poi,
sedendosi alla scrivania e
rivolgendosi a padre Joseph:
«Ebbene» gli disse, «avete
qualcosa da dirmi, caro du
Tremblay?»
Il cardinale aveva conservato
l’abitudine di chiamare il
cappuccino con il suo cognome.
«Sì, monsignore» rispose lui, «e
sono venuto due volte per avere
l’onore di vedervi!»
«Lo so, e ne avevo anche tratto la
speranza che aveste acquisito
qualche informazione sul conte di
Moret, sul suo ritorno a Parigi e
sulle cause di questo ritorno.»
«Ancora non so tutto quello che
Vostra Eminenza vuole sapere, ma
credo di essere sulla buona strada.»
«Ah, ah! I vostri manti bianchi si
sono dati da fare!»
«Così e così. Hanno solo scoperto
che il conte di Moret abitava
all’hôtel de Montmorency, dal duca
Henri II, e che ne usciva la notte per
recarsi a casa di un’amante in rue de
la Cerisaie di fronte all’hôtel
Lesdiguières.»
«Rue de la Cerisaie di fronte
all’hôtel Lesdiguières... Ma lì
abitano le due sorelle di Marion
Delorme!»
«Sì, ma non si sa di quale delle
due sia l’amante.»
«Va bene, lo saprò» disse il
cardinale.
E, facendo cenno al cappuccino di
interrompere il suo racconto,
cominciò a scrivere su un foglio:
Di quale delle due sorelle è l’amante il
conte di Moret? E chi è l’amante
dell’altra? Esiste un innamorato infelice?
Poi si diresse verso un pannello
che si apriva a tutta altezza
premendo un bottone.
Quel pannello avrebbe messo in
comunicazione con la casa vicina, se
dall’altra parte dello spessore del
muro non si fosse trovata una porta.
Fra le due porte si trovavano due
pulsanti di campanello, uno a destra
e uno a sinistra, invenzione talmente
nuova, o meglio talmente
sconosciuta ancora, che la si trovava
solo dal cardinale. Il quale fece
scivolare il foglio sotto la porta della
casa vicina, suonò il campanello di
destra, richiuse il pannello e tornò a
sedersi al suo posto.
«Continuate» disse a padre
Joseph, che lo aveva guardato fare
senza dar segno di meraviglia.
«Stavo dicendo, monsignore, che
i manti bianchi avevano fatto un
lavoro da poco, ma la Provvidenza,
che nei confronti di monsignore è
particolarmente premurosa, ne aveva
fatto uno grande.»
«Siete certo, du Tremblay, che la
Provvidenza sia così premurosa nei
miei confronti?»
«Che cosa potrebbe avere di
meglio da fare, monsignore?»
«Allora» disse sorridendo il
cardinale, che non desiderava altro
che crederci, «vediamo il rapporto
della Provvidenza sul conte di
Moret.»
«Ebbene, monsignore, stavo
rientrando dopo essere stato dai
manti bianchi, dove avevo saputo
soltanto, come ho avuto l’onore di
riferire a Vostra Eminenza, che il
signor conte di Moret era a Parigi da
otto giorni, che abitava da monsieur
de Montmorency e che aveva
un’amante in rue de la Cerisaie, il
che non era molto.»
«Vi trovo ingiusto con quei bravi
frati. Chi fa quello che può fa quello
che deve – non c’è che la
Provvidenza che può tutto. Vediamo
che cosa ha fatto la Provvidenza.»
«Mi ha messo faccia a faccia con
il conte in persona.»
«Lo avete visto?»
«Come ho l’onore di vedere voi,
monsignore.»
«E lui, lui vi ha visto?» domandò
Richelieu.
«Mi ha visto, ma non mi ha
riconosciuto.»
«Sedetevi, du Tremblay, e
raccontatemi.»
Richelieu aveva l’abitudine, per
finta cortesia, di dire al cappuccino
di sedersi, e lui, per finta umiltà,
aveva quella di rimanere in piedi.
Ringraziò il cardinale con un
cenno e proseguì. «Ecco che cosa è
successo, monsignore. Uscivo dai
manti bianchi dove avevo raccolto le
informazioni che vi ho riferito,
quando vidi della gente che correva
dalla parte di rue de l’Homme-
Armé.»
«A proposito dell’Homme-Armé,
o meglio di rue de l’Homme-Armé»
disse il cardinale, «vi si trova una
locanda sulla quale dovreste puntare
il vostro sguardo da du Tremblay. Si
chiama locanda della Barbe Peinte.»
«Era proprio lì che correva la
folla, monsignore.»
«E vi correste anche voi insieme
alla folla?»
«Vostra Eminenza comprende che
non potevo farne a meno. Una
specie di assassinio era appena stato
commesso ai danni di un povero
diavolo di nome Étienne Latil, che
un tempo è stato al servizio di
monsieur d’Épernon.»
«Al servizio di monsieur
d’Épernon, Étienne Latil, tenete a
mente questo nome, du Tremblay.
Un giorno quest’uomo potrà esserci
utile.»
«Ne dubito, monsignore.»
«Perché?»
«Lo credo incamminato per una
strada da cui non ci sono grandi
possibilità che torni.»
«Ah, capisco, era lui che avevano
assassinato.»
«Esattamente, monsignore.
Creduto morto in un primo
momento, aveva ripreso conoscenza,
aveva chiesto un prete, di modo che
mi trovavo lì proprio al momento
giusto.»
«Sempre la Provvidenza, du
Tremblay! E lo avete confessato,
immagino.»
«Spremuto fino all’ultima
goccia.»
«E vi ha detto qualcosa
d’importante?»
«Sarà monsignore a giudicare»
disse ridendo il cappuccino, «se
acconsente a dispensarmi dal segreto
della confessione.»
«Va bene, va bene, ve ne
dispenso.»
«Ebbene, monsignore, Étienne
Latil è stato assassinato per essersi
rifiutato, lui, di assassinare il conte
di Moret.»
«E chi può avere interesse ad
assassinare quel giovane che,
almeno finora, non fa parte di
nessuna cabala?»
«Rivalità amorosa.»
«Lo sapete?»
«Lo penso.»
«E non conoscete l’assassino?»
«No, monsignore, e nemmeno lui.
Tutto quel che sa è che si trovava
davanti un gobbo.»
«Non ci sono che due gobbi
attaccabrighe a Parigi: il marchese di
Pisany e il marchese di Fontrailles.
Non può trattarsi di Pisany, che ieri,
alle nove di sera, ha ricevuto anche
lui un colpo di spada dal suo amico
Souscarrières sulla soglia dell’hôtel
de Rambouillet; bisogna dunque che
sorvegliate Fontrailles.»
«Lo sorveglierò, monsignore, ma
Vostra Eminenza abbia la pazienza
di aspettare, perché devo ancora
raccontarle la cosa più
straordinaria.»
«Continuate, continuate. Trovo
interessantissimo il vostro
racconto.»
«Ebbene, monsignore, la cosa più
straordinaria eccola qui: proprio
mentre confessavo il mio uomo, il
conte di Moret in persona è entrato
nella stanza in cui lo confessavo.»
«Come! Alla locanda della Barbe
Peinte?»
«Sì, monsignore, proprio alla
locanda della Barbe Peinte; il conte
di Moret in persona è entrato,
travestito da nobilotto basco, si è
diretto verso il ferito, ha gettato sul
tavolo dove era disteso una borsa
piena d’oro, dicendogli: “Se ve la
cavate, fatevi portare al palazzo del
duca di Montmorency. Se morite,
morite nella fede in Dio, non
mancheranno le messe per la
salvezza della vostra anima”.»
«L’intenzione è lodevole» disse
Richelieu, «ma nell’attesa dite al
mio medico Chicot di andare a
visitare quel povero diavolo. È
importante che se la cavi. E siete
sicuro che il conte di Moret non vi
abbia riconosciuto?»
«Sì, monsignore, assolutamente
sicuro.»
«Che cosa sarà andato a farci,
travestito, in quella locanda?»
«Riusciremo forse a saperlo.
Vostra Eminenza non indovinerà
mai chi avevo incontrato all’angolo
fra rue du Plâtre e rue de l’Homme-
Armé...»
«Chi?»
«... travestita da contadina dei
Pirenei.»
«Ditemi subito chi, du Tremblay!
Si fa tardi e non ho il tempo di
pensarci su.»
«Madame de Fargis.»
«Madame de Fargis!» esclamò il
cardinale. «E usciva dalla locanda?»
«È probabile.»
«Lei vestita da catalana, lui da
basco. Era un appuntamento.»
«È quello che mi sono detto
anch’io, ma ci sono diverse specie di
appuntamenti, monsignore. La
signora è galante e il giovane è figlio
di Enrico IV.»
«Non è un appuntamento
amoroso, du Tremblay. Il conte
arriva dall’Italia; è passato dal
Piemonte. Ci metterei la testa che
aveva delle lettere per la regina, o
anche per le regine. Ah, stia bene
attento!» aggiunse Richelieu
assumendo un’espressione
minacciosa. «Ho già due figli di
Enrico IV in catene!»
«In conclusione, monsignore,
ecco il risultato della mia serata, e
l’ho ritenuto abbastanza interessante
da doverlo sottoporre alla vostra
attenzione.»
«Avete fatto bene, du Tremblay. E
dite che il ragazzo abita dal duca di
Montmorency?»
«Sì, monsignore.»
«Sarebbe dei loro anche quello? E
ha già dimenticato che ho fatto
cadere una testa che portava quel
nome? Vuole essere connestabile,
come suo padre e suo nonno. Lo
sarebbe già senza quel Créqui che si
immagina che il titolo gli spetti per
aver sposato una figlia di
Lesdiguières. Con tutto questo,
quanto è facile da portare la spada di
Duguesclin! Se non altro,
Montmorency è un cavaliere, un
cuore leale. Lo manderò a chiamare.
La sua spada di connestabile si trova
sotto le mura di Casale, che se la
vada a cercare. Come dicevamo, du
Tremblay, è una buona serata e
spero di completarla.»
«Monsignore ha altre
raccomandazioni da farmi?»
«Sorvegliate la locanda della
Barbe Peinte, come vi ho già detto,
ma senza farvi notare. Non perdete
di vista il vostro ferito se non
quando sarà sepolto o guarito.
Credevo che il conte di Moret si
occupasse di un’altra donna, non
della Fargis, che ha già Cramail e
Marillac. Comunque, du Tremblay,
la Provvidenza esiste ed è lei a
tenere le redini di questa storia. Ma,
lo sapete, la Provvidenza non può
fare tutto da sola.»
«È per questo che si è creato il
detto Aiutati che il ciel ti aiuta.»
«Siete davvero perspicace, caro
du Tremblay, e non so come farei
senza di voi. Lasciatemi dunque
rendere al papa il servizio di
liberarlo dagli spagnoli, che teme, e
dagli austriaci, che odia, e faremo in
modo che la prima berretta rossa che
arriverà da Roma abbia la misura
della vostra testa.»
«Se non ce l’avesse, pregherei
monsignore di darmi un vecchio
copricapo suo, a dimostrazione del
fatto che, di qualunque favore il
cielo mi possa colmare, mai io mi
considererei suo pari, ma solo suo
domestico e servitore.»
E incrociando le mani sul petto,
padre Joseph salutò umilmente.
Sulla porta incrociò Cavois, che si
fece da parte per lasciarlo uscire,
come si era fatto da parte per
lasciarlo entrare.
Una volta uscita l’Eminenza
Grigia:
«Monsignore» disse Cavois, «è
qui.»
«Souscarrières?»
«Sì, monsignore.»
«Quindi era in casa?»
«No, ma il suo domestico mi ha
detto che doveva essere in una bisca
di rue Villedot dove si reca spesso e
dove in effetti era.»
«Fatelo entrare.»
Cavois restò immobile, con gli
occhi bassi.
«Allora?» chiese il cardinale.
«Monsignore, prima vorrei farvi
una domanda.»
«Fatela, Cavois, sapete bene
quanto vi stimi e ci tenga a fare
quello che posso per voi.»
«È solo per sapere se, dopo che
Souscarrières sarà uscito, mi sarà
permesso di andare a passare il resto
della notte a casa. È da quando
siamo tornati a Parigi, monsignore,
cioè da otto giorni, o meglio otto
notti, che non vado a letto.»
«E siete stanco di vegliare?»
«No, monsignore. Ma madame
Cavois è stanca di dormire.»
«Allora è ancora innamorata,
madame Cavois?»
«Sì, monsignore, soltanto che è
innamorata di suo marito.»
«Gran bell’esempio da seguire per
le signore della corte. Cavois,
passerete questa notte con vostra
moglie.»
«Oh, grazie, monsignore.»
«Vi autorizzo ad andarla a
prendere.»
«Andare a prendere madame
Cavois?»
«Sì, e a portarla qui.»
«Ma, monsignore, parlate sul
serio?»
«Devo parlarle.»
«Parlare a mia moglie?» esclamò
Cavois, al colmo dello
sbalordimento.
«Ho un regalo da farle, per
compensarla delle notti in bianco
che le ho fatto passare.»
«Un regalo?» replicò Cavois
sempre più stupefatto.
«Fate entrare monsieur
Souscarrières, Cavois, e mentre
parlo con lui andate a prendere
vostra moglie.»
«Ma, monsignore, sarà a letto.»
«La farete alzare.»
«Non vorrà venire.»
«Portate con voi due guardie.»
Cavois si mise a ridere.
«E va bene, monsignore» disse.
«Ve la porterò, ma vi avverto che
madame Cavois ha la lingua lunga.»
«Tanto meglio. Alla corte ce ne
sono poche, Cavois, e a me quelle
lingue piacciono: dicono quello che
pensano.»
«Allora l’ordine di monsignore di
portarla qui è serio?»
«Non c’è nulla di più serio,
Cavois.»
«Monsignore sarà obbedito.»
Ancora poco convinto, Cavois
salutò e uscì.
Il cardinale approfittò dell’istante
in cui era solo per andare al pannello
e aprirlo.
Dove aveva messo la domanda
trovò la risposta. Era redatta con lo
stesso stile laconico della domanda.
Eccola:
Il conte di Moret è l’amante di
madame de la Montagne e il sire di
Souscarrières di madame de Maugiron.
Innamorato infelice: il marchese di
Pisany.

«È incredibile come ogni cosa


stasera vada al suo posto» mormorò
il cardinale richiudendo il pannello.
«Incomincio a credere come
quell’imbecille di du Tremblay che
una Provvidenza esista.»
In quel momento il segretario,
Charpentier, aprì la porta e, in
mancanza di valletti e di uscieri,
annunciò:
«Messer Pierre de Bellegarde,
conte di Montbrun, sire di
Souscarrières.»
XIV
Dove madame Cavois
diventa socia di monsieur Michel
Colui che si faceva annunciare con
quello sfoggio pomposo di titoli – i
nostri lettori lo sanno – non era altri
che il nostro amico Souscarrières, di
cui abbiamo già abbozzato il ritratto
all’inizio di questo libro.
Souscarrières entrò con aria
spigliata e salutò Sua Eminenza con
una disinvoltura che, data la sua
posizione, si sarebbe potuta definire
sfrontatezza.
Il cardinale sembrava cercare con
lo sguardo se Souscarrières si fosse
portato dietro il suo seguito.
«Perdonatemi, monsignore» disse
Souscarrières protendendo con
eleganza il piede e arrotondando il
braccio destro con il quale teneva il
cappello, «ma Vostra Eminenza
cerca qualcosa?»
«Cerco le persone che sono state
annunciate insieme a voi, Michel.»
«Michel?» ripeté Souscarrières
ostentando meraviglia. «Chi mai si
chiama così?»
«Ma voi, caro signore, mi
sembra.»
«Oh, monsignore è in errore e non
vorrei che vi rimanesse. Sono il
figlio riconosciuto di messer Roger
de Saint-Larry, duca di Bellegarde,
grande scudiero di Francia. Il mio
illustre padre vive ancora e ci si può
informare presso di lui. Sono sire di
Souscarrières dal nome di un bene
che ho comprato. Sono stato fatto
marchese dalla duchessa Nicole di
Lorena, in occasione del mio
matrimonio con la nobile damigella
Anne de Rogers.»
«Caro Michel» replicò Richelieu,
«permettetemi di raccontarvi la
vostra storia. La conosco meglio di
voi. È istruttiva.»
«So» disse Souscarrières «che i
grandi uomini come voi dopo le
fatiche della giornata hanno bisogno
di un’ora di svago. Felici dunque
quelli che possono, anche a loro
spese, offrire quest’ora di
distrazione a un genio come il
vostro.»
E, soddisfatto del complimento
che era riuscito a trovare, s’inchinò
davanti al cardinale.
«Vi sbagliate di grosso, Michel»
proseguì il cardinale, ostinandosi a
dargli quel nome. «Non sono stanco.
Non ho bisogno di un’ora di svago e
non voglio prendermi quell’ora a
vostre spese. Soltanto, siccome ho
una proposta da farvi, voglio
provarvi che non mi lascio
ingannare dai vostri nomi e dal
vostro titolo come tutti gli altri, e
che ve la faccio per via del vostro
merito personale.»
E il cardinale accompagnò
quest’ultima frase con uno di quei
fini sorrisi che gli erano caratteristici
nei momenti di buon umore.
«Non posso far altro che lasciar
parlare Vostra Eminenza» disse
Souscarrières, un po’ sconcertato
dalla piega che stava prendendo la
conversazione.
«Allora posso cominciare,
monsieur Michel?»
Souscarrières s’inchinò, da uomo
che sa di non poter opporre alcuna
resistenza.
«Conoscete rue des Bourdonnais,
vero, monsieur Michel?»
«Bisognerebbe venire dal Catai,
monsignore, per non conoscerla.»
«Ebbene, quando eravate giovane
avete conosciuto anche un bravo
pasticciere che teneva la locanda des
Carneaux e che praticava un
trattamento a prezzo fisso. Quel
brav’uomo, che cucinava in maniera
eccellente e da cui ho mangiato
parecchie volte quando ero vescovo
di Luçon, si chiamava Michel e
aveva l’onore di essere vostro
padre.»
«Mi sembrava di avere già detto a
Vostra Eminenza che ero figlio
riconosciuto del duca di Bellegarde»
insistette, ma con minor sicurezza, il
sire di Souscarrières.
«Niente di più vero» replicò il
cardinale. «Vi dirò anche come è
avvenuto questo riconoscimento.
Quel bravo pasticciere aveva una
moglie molto bella, cui tutti i signori
che frequentavano la locanda des
Carneaux facevano la corte. Un bel
giorno lei si ritrovò incinta, e partorì
un figlio. Quel figlio eravate voi,
caro Michel, perché, essendo voi
nato durante il matrimonio quando
era ancora vivo vostro padre o
meglio il marito di vostra madre,
non potete portare un nome diverso
da quello di vostro padre o di vostra
madre. Solo i re, non dimenticatelo,
caro Michel, hanno il diritto di
legittimare i figli adulterini.»
«Diavolo, diavolo!» mormorò
Souscarrières.
«Arriviamo al vostro
riconoscimento. Dopo essere stato
un bel bambino, siete diventato un
bel ragazzo, portato per tutte le
attività fisiche, bravo nella
pallacorda quanto d’Alichon, capace
di tirare di spada come Fontenay e
abile con le carte più di chiunque
altro. Giunto a tale grado di
perfezione, avete deciso di mettere
tutti questi talenti al servizio della
vostra fortuna e, per dare inizio alla
suddetta fortuna, vi siete recato in
Inghilterra; la sorte è stata così
buona con voi che ne siete tornato
con cinquecentomila lire. È andata
così?»
«Con qualche centinaia di pistole
in più o in meno, sì, monsignore.»
«Fu allora che, un bel mattino,
riceveste la visita di un certo
Lalande, che è stato il maestro di
pallacorda di Sua Maestà il Sire
nostro re. E vi disse all’incirca così.
O almeno questo è il senso, se non la
lettera, del suo discorso: “Accidenti!
Souscarrières!”. Ah, scusate,
dimenticavo. Non so perché abbiate
sempre avuto in antipatia il nome di
Michel, che pure è un nome
piacevolissimo, cosicché con i primi
soldi che avete avuto avete
acquistato per un migliaio di pistole
una specie di catapecchia che cadeva
a pezzi e che nella zona, cioè dalle
parti di Grosbois, chiamavano
Souscarrières. Il che fece sì che non
vi chiamaste più Michel ma
Souscarrières e poi sire di
Souscarrières. Perdonate questa
parentesi, ma la ritengo necessaria
alla comprensione del racconto.»
Souscarrières s’inchinò.
«Il piccolo Lalande dunque vi ha
detto: “Accidenti, Souscarrières,
siete ben fatto, avete cuore,
intelligenza, siete abile nel gioco,
fortunato in amore; non vi manca
che la nascita. So bene che non si è
padroni di scegliersi i genitori,
altrimenti tutti vorrebbero avere
come autore dei propri giorni un pari
di Francia e come madre una
duchessa da sgabello. 1 Ma se si è
ricco, c’è sempre modo di
correggere queste piccole
irregolarità della sorte”. Io non ero
presente, caro Michel, ma immagino
gli occhi che dovete aver fatto a
questo preambolo. Lalande ha
continuato: “Insomma, dovete solo
sceglierne, fra tutti i grandi signori
che hanno fatto l’amore con vostra
madre, uno che si faccia almeno
qualche scrupolo. Monsieur de
Bellegarde, per esempio. Si avvicina
il tempo del Giubileo. Vostra madre,
che sarà felicissima di fare di voi un
gentiluomo, andrà a trovare
Monsieur le Grand e gli dirà che voi
siete figlio suo e non del pasticciere,
che la sua coscienza non può
sopportare che voi godiate dei beni
di un uomo che non è vostro padre.
Siccome lui non ha gran memoria,
non ricorderà nemmeno se è stato o
no il suo amante e, dato che per il
suo riconoscimento ci saranno
trentamila lire, vi riconoscerà”. Non
è successo così?»
«Più o meno, monsignore, lo devo
riconoscere. Ma Vostra Eminenza ha
dimenticato una cosa.»
«Quale? Se la memoria mi fa
difetto, pur essendo comunque
migliore di quella di monsieur de
Bellegarde, sono pronto a
riconoscere il mio errore.»
«È che, oltre alle cinquecentomila
lire menzionate da Vostra Eminenza,
dall’Inghilterra ho riportato
l’invenzione della portantina, per la
quale sollecito da tre anni un
brevetto in Francia.»
«V’ingannate, caro Michel. Non
ho dimenticato né l’invenzione né la
richiesta di brevetto che mi avete
indirizzato perché andasse a buon
fine, e anzi vi ho chiamato
precisamente per parlarvene. Ma
ogni cosa a suo tempo. L’ordine, ha
detto un filosofo, è la metà del
genio. Siamo ancora soltanto al
vostro matrimonio.»
«Non potremmo dispensarcene,
monsignore?»
«Impossibile. Che cosa ne sarebbe
del vostro titolo di marchese, che vi
fu concesso dalla duchessa Nicole di
Lorena in occasione del vostro
matrimonio? All’epoca, su di voi e
su quella brava duchessa sono corse
molte voci che vi siete ben guardato
dallo smentire, e sei mesi fa, quando
lei è morta, avete fatto prendere il
lutto a un vostro bambino di cinque
anni. Ma siccome ognuno ha il
diritto di vestire i suoi figli come gli
pare, non vi farò rimostranze a
questo proposito.»
«Monsignore è troppo buono»
replicò Souscarrières.
«Comunque sia, tornaste dalla
Lorena con una ragazza che avevate
rapito, mademoiselle Anne de
Rogers. Dicevate che era figlia di un
grande signore, e lei era
semplicemente figlia della duchessa.
In occasione del vostro matrimonio,
foste fatto, come dite voi, marchese
di Montbrun, ma perché questa
nomina avesse valore avrebbe
dovuto essere monsieur Michel a
essere fatto marchese e non
monsieur de Bellegarde, in quanto,
come figlio adulterino, non potevate
essere riconosciuto e, non avendo
quindi voi il diritto di chiamarvi
Bellegarde, non vi si poteva fare
marchese sotto quel nome che non è,
e non può essere, il vostro.»
«Monsignore è piuttosto duro nei
miei confronti.»
«Al contrario, caro Michel, sono
dolce come il miele, e lo vedrete
subito. Madame Michel, che non
sapeva quale fortuna le era toccata a
sposare un uomo come voi, madame
Michel si è lasciata coccolare da
Villaudry, sapete, il figlio di quello
che Miossens ha ucciso. Voi avete
avuto sentore di qualcosa e avete
pensato di gettarla nel canale di
Souscarrières, ma non eravate
proprio sicuro e, siccome in fondo
non siete un uomo malvagio, avete
aspettato di avere qualche certezza
in più. La certezza venne con un
braccialetto di capelli che lei offrì in
dono a Villaudry. Questa volta,
avendo la prova – una lettera scritta
interamente di suo pugno, che non
lasciava ombra di dubbio sulla
vostra disgrazia –, la portaste nel
parco e, sguainando il pugnale, le
diceste di rivolgere a Dio una
preghiera. Non era come la volta in
cui l’avevate minacciata di gettarla
nel canale, e lei comprese
perfettamente che non scherzavate.
In effetti, la colpiste con il pugnale,
che lei fortunatamente parò con la
mano: ma ne ebbe due dita tagliate.
Alla vista del suo sangue, mosso a
compassione, le faceste grazia della
vita e la rimandaste in Lorena.
Quanto a Villaudry, proprio perché
eravate stato clemente con vostra
moglie, decideste di essere
implacabile con lui, e, mentre si
trovava a messa dai frati minimi di
place Royale, entraste in chiesa, lo
schiaffeggiaste e metteste mano alla
spada. Ma lui non volle compiere un
sacrilegio e tenne la sua nel fodero.
Bisogna dire che non aveva molta
voglia di battersi con voi e che anzi
disse: “Lo pugnalerei se la mia
reputazione fosse salda, ma
purtroppo non lo è, il che mi obbliga
a battermi”. E, in effetti, vi chiamò,
e, come se foste il vero figlio di
Bellegarde e la vostra memoria non
fosse migliore della sua, vi batteste
in place Royale, là dove si erano
battuti Bouteville e Beuvron. 2 So
che vi comportaste a meraviglia, che
accettaste ogni esigenza del vostro
avversario, e che lui se la cavò con
sei colpi di spada che gli infliggeste
di punta e altrettanti colpetti che gli
deste di piatto. Ma anche Bouteville
si era comportato a meraviglia, il
che non impedì che io gli facessi
tagliare la testa, cosa che avrei fatto
anche con voi se, invece di essere
Michel e basta, foste stato davvero
Pierre de Bellegarde, marchese di
Montbrun, sire di Souscarrières.
Perché, in più di Bouteville, avete
sguainato la spada in una chiesa, il
che avrebbe fatto sì che vi
tagliassero il pugno prima di
tagliarvi la testa. Capite, Michel?»
«Accidenti, sì! Capisco,
monsignore, e devo dirvi che nella
mia vita ho ascoltato conversazioni
che mi hanno fatto più piacere di
questa.»
«Tanto più che non avete ancora
finito e che, ancora questa sera, siete
stato recidivo con quel povero
marchese di Pisany. In verità,
bisogna avere il diavolo addosso per
battersi con un fantoccio come
quello.»
«Eh, monsignore, non sono stato
io a battermi con lui, è lui che si è
battuto con me.»
«Ma via, quel povero marchese
non è già abbastanza infelice di non
avere libero accesso in rue de la
Cerisaie, mentre voi e il conte di
Moret lo avete?»
«Come, monsignore, sapete...»
«So che, se la punta della vostra
spada non avesse incontrato quella
della sua gobba e se lui non avesse
avuto la fortuna di avere le costole
embricate una sull’altra, lui sarebbe
inchiodato come uno scarabeo
contro il muro. Siete un testone, caro
Michel.»
«Vi giuro, monsignore, che non
sono stato io ad attaccar briga.
Voiture e Brancas ve lo
confermeranno. Ero solo eccitato per
aver corso da rue de l’Homme-Armé
fino a rue du Louvre.»
Alle parole rue de l’Homme-
Armé, Richelieu aprì occhi e
orecchie.
«E lui» proseguì Souscarrières
«era eccitato per una lite scoppiata
in un locale.»
«Già» replicò Richelieu, che
camminava come in pieno giorno
sulla strada che Souscarrières gli
aveva aperto davanti senza saperlo.
«Nel locale della Barbe Peinte.»
«Monsignore!» esclamò
sbalordito Souscarrières.
«... dove si era recato» continuò
Richelieu rischiando di perdersi, ma
deciso a sapere tutto, «dove si era
recato per vedere se, servendosi di
un certo Étienne Latil come
intermediario, non avrebbe potuto
liberarsi del suo rivale, il conte di
Moret. Per fortuna, invece di trovare
uno sbirro, ha trovato un onesto
spadaccino che ha rifiutato di
immergere le mani nel sangue reale.
Ma voi, caro Michel, vi rendete
conto che nella vostra spada
sguainata in chiesa, nel vostro duello
con Villaudry, nella vostra
complicità nell’assassinio di Étienne
Latil e nel vostro scontro con il
marchese di Pisany c’è di che farvi
tagliare la testa quattro volte, se solo
aveste due quarti di nobiltà, invece
che averne sessantaquattro di
ignobiltà?»
«Ahimè! Monsignore» disse
Souscarrières molto scosso, «me ne
rendo conto, sì, e dichiaro a voce
alta che devo la vita soltanto alla
vostra magnanimità!»
«E alla vostra intelligenza, caro
Michel.»
«Ah! Monsignore, se mi fosse
concesso di mettere questa
intelligenza a disposizione di Vostra
Eminenza» esclamò Souscarrières
gettandosi ai piedi del cardinale,
«sarei il più felice degli uomini.»
«Non rifiuterò, Dio me ne guardi,
perché ho bisogno di uomini come
voi.»
«Sì, monsignore, uomini devoti,
se posso dirlo!»
«... che potrò far impiccare il
giorno in cui non lo saranno più.»
Souscarrières trasalì.
«Oh! Non capiterà certo a me»
disse «la disgrazia di dimenticare
quanto devo a Vostra Eminenza.»
«Questo è affar vostro, caro
Michel. La vostra fortuna è nelle
vostre mani. Ma non dimenticate
che io tengo nelle mie il capo della
corda.»
«Se solo Sua Eminenza volesse
dirmi come, per esserle utile, potrei
impiegare l’intelligenza che si degna
di riconoscermi...»
«Ah, quanto a questo, volentieri.»
«Sono tutto orecchie.»
«Ebbene, supponiamo che vi
accordi il brevetto che avete
importato dall’Inghilterra.»
«Il brevetto della portantina?»
esclamò Souscarrières vedendo
concretizzarsi quella fortuna che il
cardinale aveva detto essere nelle
sue mani ma che fino ad allora
aveva visto solamente in sogno.
«Di metà» disse il cardinale,
«solamente di metà. Riservo l’altra
metà per un regalo che voglio fare.»
«Un’altra intelligenza che
monsignore vuole ricompensare?»
azzardò Souscarrières.
«No, una devozione. È più rara.»
«Monsignore è il padrone.
Dandomi il brevetto a metà mi farà
felice.»
«Bene. Avete dunque metà delle
portantine di Parigi, mettiamo
duecento, per esempio.» 3
«Mettiamo duecento, sì,
monsignore.»
«Ciò significa quattrocento
portatori di bussole. Ebbene, Michel,
immaginiamo questi quattrocento
portatori intelligenti, attenti a dove
portano i loro clienti, con le orecchie
aperte a sentire quello che dicono,
capaci di prendere nota con
precisione delle loro parole e dei
loro andirivieni. Immaginiamo
anche, a capo di questo gruppo, un
uomo intelligente che renda conto a
me, ma a me soltanto, di ciò che
vede, che sente e che gli riferiscono.
Infine, immaginiamo ancora che
quest’uomo non abbia che
dodicimila lire di rendita: ne
guadagnerà facilmente ventiquattro;
e che, invece di chiamarsi Michel e
basta, desideri chiamarsi messer
Pierre de Bellegarde, marchese di
Montbrun e sire di Souscarrières.
Gli dirò: “Caro amico, prendetevi
tutti i nomi che volete; più ne
prenderete di nuovi, meglio sarà, e,
quanto a quelli di cui già vi siete
appropriato, difendeteli contro
coloro che li reclameranno se
qualcuno li reclamerà, ma non sarò
certo io, siatene certo, che vi darò
per questo il minimo fastidio”.»
«E tutto quello che ha detto
monsignore è detto sul serio?»
«Molto sul serio, caro Michel. Il
brevetto della metà delle portantine
in circolazione a Parigi è vostro e
domani il vostro socio, che avrà già
firmato per parte sua il registro degli
incarichi, ve lo porterà perché lo
firmiate a vostra volta. Vi va bene?»
«E su questo registro
compariranno anche gli obblighi che
mi sono imposti?»
«Assolutamente no, caro Michel.
Capite che la cosa deve restare fra
noi. È anzi della massima
importanza che non venga risaputa.
Diamine, se si sapesse che siete un
mio uomo, salterebbe tutto! Anzi,
non sarebbe male che si pensasse
che appartenete a Monsieur o alla
regina. Perché accada, vi basterà
dire che io sono un tiranno, che
perseguito la regina, che non capite
come re Luigi XIII possa vivere
sotto un giogo come il mio.»
«Ma non potrò mai dire cose
simili!» esclamò Souscarrières.
«Be’, facendo un piccolo sforzo,
vedrete che ci riuscirete. Allora,
siamo d’accordo. Le vostre
portantine diventeranno di moda,
creeranno dei contrasti, avrete per
cliente tutta la corte, non si andrà
più da nessuna parte se non in
portantina, soprattutto se le vostre
saranno a due posti e avranno tende
ben spesse.»
«Monsignore non ha
raccomandazioni particolari da
farmi?»
«Oh, certo! Vi raccomando
particolarmente le signore: la
signora principessa prima di tutto,
madame Maria Gonzaga, madame
de Chevreuse, madame de Fargis.
Poi gli uomini: il conte di Moret,
monsieur de Montmorency,
monsieur de Chevreuse, il conte di
Cramail. Non vi dico nulla del
marchese di Pisany. Grazie a voi per
qualche giorno non mi creerà
fastidi.»
«Monsignore può stare tranquillo.
Quando comincerò?»
«Prima possibile. Fra otto giorni
questa cosa può partire, a meno che
vi manchino i fondi.»
«No, monsignore. Del resto, per
un affare simile, se me ne
mancassero, me li procurerei.»
«In quel caso non dovreste
nemmeno cercarli, rivolgetevi
direttamente a me.»
«A voi, monsignore?»
«Sì. Non ho il mio interesse in
questo affare? Ma scusate, ecco
Cavois che, a quanto pare, deve
dirmi qualcosa. Verrà lui domani a
farvi firmare i documenti in
questione, e, siccome ne conoscerà
tutte le condizioni, anche quelle che
restano fra noi, sarà lui a
ricordarvele caso mai le
dimenticaste. Ma credo di sapere
che non le dimenticherete. Entrate,
Cavois, entrate. Vedete il signore?»
«Sì, monsignore» rispose Cavois,
che aveva obbedito all’ordine del
cardinale.
«Bene, è un mio amico, ma di
quelli che vengono a trovarmi dalle
dieci di sera alle due del mattino.
Per me, ma solo per me, si chiama
Michel; per tutti, è messer Pierre de
Bellegarde, marchese di Montbrun,
sire di Souscarrières. Arrivederci,
caro Michel.»
Souscarrières salutò inchinandosi
fino a terra e uscì, non riuscendo a
credere alla propria buona sorte e
chiedendosi se il cardinale gli avesse
parlato seriamente o avesse voluto
prendersi gioco di lui.
Ma siccome sapeva che il
cardinale era molto impegnato, finì
con il capire che tempo di prendersi
gioco di lui non ne aveva e che
quindi, con ogni probabilità, gli
aveva parlato seriamente.
Quanto al cardinale, nella
convinzione di aver reclutato le
forze di un alleato potente, gli era
tornato il buon umore e fu con la sua
voce più cordiale che gridò:
«Madame Cavois, ehi, madame
Cavois, venite avanti!»

1 Il diritto di sgabello era il diritto delle


duchesse di sedersi su uno sgabello durante la
cena del re, così come nella corte della regina.
[NdC]
2 François de Montmorency-Bouteville (1600-
1627), cugino del duca Henri II de
Montmorency, avendo infranto l’editto di
Richelieu del 2 giugno 1626 che proibiva i
duelli, fu condannato e decapitato; François
d’Harcourt, marchese di Beuvron (1598-1658),
partecipò al duello provocato da Montmorency-
Bouteville e, essendo incorso anche lui nella
pena capitale, si rifugiò in Inghilterra. [NdC]
3 Privilegio che Gédéon Tallemant des Réaux
conferma nelle sue Historiettes. [NdC]
XV
Dove il cardinale comincia
a veder chiaro sul suo scacchiere
Appena ebbe finito di chiamare, il
cardinale vide entrare una donnina
fra i venticinque e i ventisei anni,
elegante e svelta, il naso per aria,
che non pareva per nulla intimidita
di trovarsi in sua presenza.
«Mi avete chiamata, monsignore»
disse prendendo la parola per prima,
con un accento del Languedoc molto
pronunciato. «Eccomi!»
«Bene! E Cavois che mi diceva
che forse non sareste voluta venire!»
«Io, non venire quando voi mi
facevate l’onore di chiamarmi?
Nemmeno per sogno! E se Vostra
Eminenza non mi avesse chiamata,
sarei venuta comunque.»
«Madame Cavois, madame
Cavois!» intervenne il capitano delle
guardie, cercando di fare la voce
grossa.
«Madame Cavois un bel niente.
Se monsignore mi ha fatto chiamare,
sarà per qualcosa. È per parlarmi?
Che mi parli. È perché gli parli io?
Gli parlerò.»
«Per entrambe le cose, madame
Cavois» disse il cardinale, facendo
segno al suo capitano delle guardie
di non intervenire nella
conversazione.
«Ah, non c’è bisogno che lo
facciate tacere, monsignore. Basterà
che io gli dica di stare zitto e starà
zitto. Non vorrà per caso far credere
che il padrone è lui!»
«Perdonatela, monsignore. Non è
della corte e...»
«Che monsignore mi perdoni! Ah,
vuoi saperne più di me, Cavois! È
monsignore ad aver bisogno di
essere perdonato.»
«Come» disse il cardinale
ridendo, «sono io a dover essere
perdonato?»
«Ma certo! È da cristiani tenere
due persone che si amano
eternamente separate, come fate
voi?»
«Questa, poi! Ma allora quella per
vostro marito è una vera e propria
adorazione?»
«Come potrei non adorarlo?
Sapete come l’ho conosciuto,
monsignore?»
«No, ma raccontatemelo, madame
Cavois, mi interessa moltissimo.»
«Mireille, Mireille!» 1 fece

Cavois cercando di richiamare


all’ordine la moglie.
«Cavois, Cavois!» fece il
cardinale imitando il tono del suo
capitano delle guardie.
«Ebbene, sapete, io sono la figlia
di un gentiluomo di buona nobiltà
del Languedoc. Mentre Cavois è
figlio di un nobilotto piccardo.»
Cavois fece un gesto.
«Questo non significa che ti
disprezzo, Louis. 2 Mio padre si
chiamava de Serignan. È stato
maresciallo di campo in Catalogna,
né più né meno. Ero vedova di un
certo Lacroix, giovanissima, senza
figli, e carina, posso ben dirlo.»
«Lo siete ancora, madame
Cavois» disse il cardinale.
«Eh, sì, carina! Avevo sedici anni
allora, adesso ne ho ventisei, e otto
figli, monsignore!»
«Come, otto figli? Avete fatto fare
otto figli a vostra moglie,
disgraziato, e venite a lamentarvi
che vi impedisco di andare a letto
con lei!»
«Davvero? Ti sei lamentato, mio
piccolo Cavois!» esclamò Mireille.
«Oh, che amore che sei, lascia che ti
dia un bacio.»
E, senza preoccuparsi della
presenza del cardinale, buttò le
braccia al collo del marito e lo
baciò.
«Madame Cavois, madame
Cavois!» esclamò il capitano delle
guardie tutto tremante, mentre il
cardinale, ritrovato tutto il suo buon
umore, si sbellicava dal ridere.
«Vado avanti, monsignore» disse
madame Cavois quando ebbe finito
di baciare suo marito. «Dunque, non
c’era niente di strano che venisse,
benché piccardo, in Languedoc. Lì
mi vede e si innamora di me, ma,
siccome non era molto ricco mentre
io qualcosa avevo, ecco che il mio
imbecille non osa dichiararsi. Nel
frattempo si impegola in un brutto
litigio e, dovendo battersi
l’indomani, va da un notaio, fa
testamento in mio favore, e mi lascia
che cosa? Tutto quello che ha, né più
né meno, a me che neanche sapevo
che mi amava. All’improvviso vedo
arrivare a casa mia la moglie del
notaio, che era una mia amica. Mi
dice: “Non immaginate nemmeno!
Se Cavois muore, voi ereditate”.
“Cavois? non lo conosco.” “Oh”
continua la moglie del notaio, “un
bel ragazzo.” Era un bel ragazzo a
quei tempi, monsignore. Poi è un po’
cambiato, ma pazienza: non per
questo lo amo di meno. Vero,
Cavois?»
«Monsignore, la perdonate,
vero?» disse Cavois, supplichevole.
«Dite, madame Cavois, se lo
mettessimo alla porta questo
piagnucolone?»
«Oh, no, monsignore, non lo vedo
abbastanza per fare una cosa simile.
Ed ecco che lei mi racconta che mi
ama come un pazzo, che il giorno
dopo deve battersi in duello e che se
viene ucciso mi lascia tutti i suoi
averi. Mi commuove, capite. Lo
racconto a mio padre, ai miei
fratelli, a tutti i nostri amici. Li
faccio montare a cavallo fin dal
mattino e battere la campagna per
impedire a Cavois e al suo
avversario di battersi. Be’, arrivano
troppo tardi. Il signore che vedete
qui ha la mano pronta e aveva già
dato due colpi di spada al suo
avversario. Lui niente. Me lo
riportano sano e salvo. Gli butto le
braccia al collo. “Se mi amate” gli
dico, “dovete sposarmi. Non va bene
tenersi le proprie voglie!” E lui mi
sposò.»
«E non se le è tenute le sue
voglie, a quanto pare» disse il
cardinale.
«No, perché vedete, monsignore,
non ce n’è uno più fortunato di
questo briccone. Penso io a tutto.
Lui non ha che il suo lavoro con
Vostra Eminenza, una carica da
pigroni. Quando torna a casa – di
rado, purtroppo – lo coccolo, mio
piccolo Cavois di qua, maritino mio
di là. Mi faccio più bella che posso
per piacergli. Non sente parlare di
nulla di fastidioso, niente rimbrotti,
niente lamentele. Insomma, è come
se non fossimo neanche sposati.»
«Quel che capisco in tutto questo
è che amate Cavois più di ogni cosa
al mondo.»
«Oh, sì, monsignore!»
«Più del re?»
«Auguro al re ogni bene, ma se il
re morisse io non ne morirei, mentre
se il mio povero Cavois morisse
desidererei solo che mi portasse con
sé.»
«Più della regina?»
«Rispetto Sua Maestà. Trovo però
che, per essere regina di Francia,
non fa abbastanza figli. Se le
capitasse qualcosa, ci lascerebbe nei
pasticci. Di questo gliene voglio.»
«Più di me?»
«Certamente, più di voi,
monsignore. Voi mi date soltanto
dispiaceri, o ammalandovi, o
allontanandomi da lui, o
portandovelo dietro in guerra, come
avete appena fatto alla Rochelle per
quasi un anno, mentre lui mi dà solo
piacere.»
«Ma insomma, se il re morisse, se
la regina morisse, se morissi io, se
tutti morissero, che cosa fareste voi
due da soli?»
Madame Cavois si mise a ridere
guardando il marito. «Be’» rispose,
«faremmo...»
«Che cosa fareste?»
«Faremmo quello che facevano
Adamo ed Eva, monsignore, quando
erano soli anche loro.»
Il cardinale si mise a ridere con
loro.
«Allora» disse, «ci sono otto figli
a casa?»
«Scusate, monsignore, ne sono
rimasti solo sei. Il Signore ha voluto
riprendercene due.»
«Oh, sono certo che ve li
restituirà.»
«Lo spero proprio, no, Cavois?»
«Ebbene, bisogna provvedere
all’esistenza di questi poveri
piccini.»
«Grazie a Dio, monsignore, non
mancano di niente.»
«Già, ma se io dovessi morire, di
qualcosa mancherebbero.»
«Ci guardi il cielo da una simile
disgrazia!» esclamarono i due sposi.
«Spero che ve ne guarderà, e
anche me. Nell’attesa, bisogna
essere previdenti. A voi, madame
Cavois, do, a metà con Michel, detto
Pierre de Bellegarde, detto marchese
di Montbrun, detto sire di
Souscarrières, il brevetto delle
portantine a Parigi.»
«Oh, monsignore!»
«Detto questo, Cavois» proseguì
Richelieu, «portate via vostra
moglie, e che sia contenta di voi o vi
metto agli arresti nella sua camera
da letto per otto giorni.»
«Oh, monsignore» esclamarono i
due sposi buttandosi ai suoi piedi e
baciandogli le mani.
Il cardinale stese le mani sopra le
loro teste.
«Cosa diavolo borbottate,
monsignore?» domandò madame
Cavois, che non sapeva il latino.
«Le frasi più belle del Vangelo,
che però ai cardinali è
sfortunatamente proibito mettere in
pratica. Andate!»
E, spinti da lui, uscirono entrambi
da quello studio dove in due ore
erano accadute tante cose.
Quando rimase solo, il viso del
cardinale riprese la sua abituale
gravità.
«Vediamo» disse, «riassumiamo e
ricapitoliamo gli eventi della
serata.»
E togliendo di tasca un
quadernetto, vi scrisse a matita:
Il conte di Moret arrivato otto giorni fa
dalla Savoia. Innamorato di madame de la
Montagne. Appuntamento con la Fargis
alla locanda della Barbe Peinte. Lui
travestito da basco e lei da catalana.
Incaricato, con ogni probabilità, di
consegnare lettere alle due regine da parte
di Carlo Emanuele. Assassinio di Étienne
Latil per il suo rifiuto di uccidere il conte
di Moret. Pisany, respinto da madame de
Maugiron, ferito da Souscarrières. Salvato
dalla gobba.
A Souscarrières concesso il brevetto
delle portantine, e fatto capo della mia
polizia laica, per fare da pendant a du
Tremblay, capo della mia polizia religiosa.
La regina assente dal balletto a causa
di emicrania.

“Che cosa c’è d’altro? Vediamo!”


E frugò nella memoria.
«Ah!» disse improvvisamente. «E
la lettera sottratta dal portafoglio del
medico del re, Senelle, e venduta dal
suo cameriere a du Tremblay.
Vediamo un po’ che cosa dice,
adesso che Rossignol ne ha decifrato
il codice.»
E chiamò:
«Rossignol! Rossignol!»
Ricomparve lo stesso ometto con
gli occhiali. «La lettera e il codice?»
chiese il cardinale.
«Eccoli, monsignore.»
Il cardinale li prese.
«Va bene» disse, «a domani, e se
sono contento della vostra
traduzione dovrete fare un buono da
quaranta pistole invece che uno da
venti.»
«Spero che Vostra Eminenza sarà
contenta.» Rossignol uscì. Il
cardinale aprì la lettera e la lesse.
Ecco, testualmente, che cosa diceva:
Se Giove verrà cacciato dall’Olimpo,
può rifugiarsi a Creta. Minosse sarà felice
di offrirgli ospitalità. Ma la salute di
Cefalo non può durare. Perché, in caso di
morte, non far sposare Procri con Giove?
Corre voce che l’Oracolo voglia
sbarazzarsi di Procri per far sposare
Venere a Cefalo. Nell’attesa, che Giove
continui a fare la corte a Ebe e a fingere, a
proposito di questa passione, il più
profondo disaccordo con Giunone. È
importante che, per quanto astuto sia, o
meglio creda di essere, l’Oracolo si
inganni e creda Giove innamorato di Ebe.
Minosse

«Adesso» disse il cardinale dopo


avere letto, «vediamo il codice.»
Come abbiamo detto, il codice era
allegato alla lettera. Ed era
esattamente quello che mettiamo
sotto gli occhi dei nostri lettori.

CEFALO IL RE
PROCRI LA REGINA
GIOVE MONSIEUR
GIUNONE MARIA DE’ MEDICI
L’OLIMPO IL LOUVRE
L’ORACOLO IL CARDINALE
VENERE MADAME DE COMBALET
EBE MARIA GONZAGA
CHARLES IV, DUCA DI
MINOSSE
LORENA
CRETA LA LORENA

Sostituendo i nomi reali a quelli


in codice, si otteneva il seguente
dispaccio, di cui, come vedremo,
Rossignol non aveva affatto
esagerato l’importanza:
Se Monsieur verrà cacciato dal
Louvre, può rifugiarsi in Lorena. Il duca
Charles IV sarà felice di offrirgli
ospitalità. Ma la salute del re non può
durare. Perché, in caso di morte, non far
sposare la regina con Monsieur? Corre
voce che il cardinale voglia sbarazzarsi
della regina per far sposare madame de
Combalet al re. Nell’attesa, che Monsieur
continui a fare la corte a Maria Gonzaga e
a fingere, a proposito di questa passione,
il più profondo disaccordo con Maria de’
Medici. È importante che, per quanto
astuto sia, o meglio creda di essere, il
cardinale si inganni e creda Monsieur
innamorato di Maria Gonzaga.

Richelieu rilesse una seconda


volta il dispaccio; poi, con il sorriso
del giocatore vittorioso:
«Bene» disse, «comincio a veder
chiaro sul mio scacchiere!»
1 Il suo vero nome era Marie. [NdC]
2 Il suo vero nome era François. [NdC]
PARTE SECONDA
I
Condizioni dell’Europa nel 1628
Al punto in cui siamo, crediamo che
non sarebbe male per il lettore
vedere, come il cardinale, un po’
chiaro sul suo scacchiere.
Il fiat lux per noi, dopo
duecentotrentasette anni, sarà più
facile che per il cardinale, il quale,
avviluppato in mille diverse trame,
rimbalzando di cospirazione in
cospirazione, liberandosi di un
complotto solo per ricadere in un
altro, trovava sempre un velo teso
tra lui e gli orizzonti che aveva
bisogno di scoprire ed era obbligato
a far scaturire un’universale
chiarezza da fuochi fatui che
volteggiavano su ogni individuale
interesse.
Se questo libro fosse soltanto uno
di quelli che si mettono in mostra su
un tavolino del salotto, fra un
keepsake 1 e un album, perché gli
ospiti ne ammirino le incisioni, o
uno di quelli che, dopo aver divertito
i salottini delle signore, sono
destinati a far ridere o piangere le
anticamere, non ci soffermeremmo
su dettagli che possono risultare
noiosi ad animi frivoli o frettolosi.
Ma poiché abbiamo la pretesa che i
nostri libri diventino libri da
biblioteca, se non finché siamo in
vita almeno dopo la nostra morte,
chiederemo ai lettori il permesso di
passare in rassegna per loro,
all’inizio di questo capitolo, la
situazione dell’Europa; rassegna
necessaria al frontespizio di questo
secondo tomo e che non risulterà
inutile, retrospettivamente, alla
comprensione del primo.
A partire dagli ultimi anni del
regno di Enrico IV e dai primi del
ministero di Richelieu, la Francia
non solo era entrata nel novero delle
grandi nazioni, ma era anche
diventata la nazione su cui tutti
appuntavano lo sguardo e, già a capo
degli altri regni europei per
intelligenza, era in procinto di
occupare la stessa posizione come
potenza economica.
Riassumiamo rapidamente le
condizioni del resto d’Europa,
cominciando dal grande centro
religioso che irradia Austria, Spagna
e Francia, cominciando, cioè, da
Roma.
Colui che ha potere temporale su
Roma e spirituale sul resto del
mondo cattolico è un tetro
vecchietto di sessant’anni, fiorentino
e avaro come un fiorentino. Più di
ogni altra cosa italiano, più di ogni
altra cosa principe e, soprattutto, più
di ogni altra cosa zio. Si preoccupa
di conquistare pezzi di terra per la
Santa Sede e ricchezze per i suoi
nipoti, tre dei quali sono cardinali –
Francesco e i due Antonio – e il
quarto, Taddeo, generale
dell’esercito pontificio. Per
soddisfare le esigenze di questo
nepotismo, Roma è messa a sacco.
«Ciò che non fecero i barbari» ha
detto Marforio – quel Catone, quel
censore dei papi – «l’hanno fatto i
Barberini.» In effetti, Maffeo 2
Barberini, pontefice con il nome di
Urbano VIII, ha riunito al
patrimonio di San Pietro il ducato di
cui porta il nome. Sotto di lui, la
Compagnia di Gesù e la Propaganda
fide, fondate dal pronipote di
Gregorio XV, monsignor Ludovico,
prosperano, organizzando nel nome
e sotto il vessillo di Ignazio di
Loyola la polizia del globo per
quanto riguarda la Compagnia di
Gesù, e la sua conquista per quanto
riguarda la Propaganda. Da lì sono
uscite quelle armate di predicatori
teneri con la Cina e feroci con
l’Europa. In questo periodo il papa
cerca, senza volersi personalmente
esporre, di contenere gli spagnoli nel
loro ducato di Milano e di impedire
agli austriaci di oltrepassare le Alpi.
Spinge la Francia a soccorrere
Mantova e a far levare l’assedio di
Casale, ma rifiuta di aiutarla con un
solo uomo o baiocco. 3 A tempo
perso, corregge inni ecclesiastici e
compone poesie anacreontiche.
Richelieu fin dal 1624 ha preso le
sue misure e, al di sopra della sua
testa, ha visto il vuoto di Roma e
valutato quella politica tremebonda
che aveva già perduto il suo
prestigio religioso e che traeva il
poco di potenza temporale che
ancora le rimaneva ora dall’Austria
ora dalla Spagna.
Dopo la morte di Filippo III, la
Spagna nasconde la sua decadenza
sotto grandi arie e paroloni. Ha per
re Filippo IV, fratello di Anna
d’Austria, sorta di monarca
fannullone che regna sotto il suo
primo ministro, il conte duca
Olivares, così come Luigi XIII regna
sotto il cardinale duca di Richelieu.
Solo che il ministro francese è un
uomo di genio mentre quello
spagnolo un politico spericolato.
Dalle sue Indie occidentali, che
hanno fatto scorrere un fiume d’oro
attraverso i regni di Carlo V e di
Filippo II, Filippo IV ricava a stento
cinquecentomila scudi. Hein,
l’ammiraglio delle Province Unite,
ha appena affondato nel golfo del
Messico dei galeoni carichi di
lingotti d’oro stimati più di dodici
milioni. La Spagna è così in affanno
che il piccolo duca savoiardo, il
gobbo Carlo Emanuele, chiamato
per derisione “principe delle
Marmotte”, ha tenuto fra le mani per
due volte il destino di quell’impero
fastoso sul quale Carlo V si vantava
di non veder mai tramontare il sole.
Oggi la Spagna non è più niente,
nemmeno la cassiera di Ferdinando
II, al quale dichiara di non poter più
dare denaro. I roghi di Filippo II, il
re delle fiamme, ne hanno
prosciugato la linfa umana così ricca
nei secoli precedenti, e Filippo III,
cacciando i Mori, ha estirpato
l’innesto straniero grazie al quale
essa avrebbe potuto rivivere. Una
volta è stata costretta ad accordarsi
con dei ladri per bruciare Venezia. Il
suo grande generale è Spinola, un
condottiero italiano. Il suo
ambasciatore è un pittore
fiammingo, Rubens.
Dall’inizio della guerra dei
Trent’anni, cioè dal 1618, la
Germania è un mercato di uomini.
Tre o quattro banchi in cui si vende
carne umana sono aperti a Est, a
Nord, a Occidente e al Centro.
Qualunque disperato che non voglia
uccidersi o farsi monaco, che è poi il
suicidio del medioevo, da qualunque
paese venga, deve solo attraversare
il Reno, la Vistola o il Danubio, e
troverà da vendersi.
Il mercato dell’Est è controllato
dal vecchio Bethlen Gabor, che
morirà dopo aver partecipato a
quarantadue battaglie in campo
aperto, essersi fatto chiamare re e
aver inventato tutti quei
travestimenti militari – berretti di
pelo degli ulani, maniche
svolazzanti degli ussari – con i quali
si cerca di farsi reciprocamente
paura. Il suo esercito è la scuola cui
si è formata la cavalleria leggera.
Che cosa promette a chi arruola?
Niente paga, niente viveri, tocca a
loro trovare da mangiare e da
arricchirsi come credono. Offre loro
la guerra senza legge, l’infinito del
caso!
A Nord, il mercato è controllato
da Gustavo Adolfo, l’allegro, il buon
Gustavo che, esattamente
all’opposto di Bethlen Gabor, fa
impiccare i saccheggiatori. L’illustre
capitano, allievo del francese La
Gardie, con le sue vittorie sulla
Polonia se ne è fatto consegnare le
piazzeforti della Livonia e della
Prussia polacca. Per il momento, è
impegnato a stringere un’alleanza
con i protestanti tedeschi contro
l’imperatore Ferdinando II, che dei
protestanti è nemico mortale e
contro di loro ha emanato l’Editto di
Restituzione, che servirà da modello
a quello di Nantes emanato da Luigi
XIV cinquant’anni più tardi. È il
maestro della sua epoca. Stiamo
parlando di Gustavo Adolfo.
Nell’arte militare, è l’inventore della
guerra moderna. Il suo non è il
genere cupo di Coligny, né quello
grave di Guglielmo il Taciturno, né
ha la selvaggia asprezza di Maurizio
di Nassau. È di un’inalterabile
serenità e il sorriso gli aleggia sulle
labbra anche nel pieno della
battaglia. Alto sei piedi, grasso in
proporzione, gli occorrevano cavalli
enormi. La sua obesità a volte gli era
d’impaccio, ma gli era anche utile:
un proiettile che avrebbe ucciso
Spinola, il segaligno genovese, si
conficcò nel suo grasso, che vi si
richiuse sopra e lui non se ne dovette
più preoccupare.
Il mercato d’Occidente è
controllato dall’Olanda,
completamente smarrita e divisa al
suo interno. Aveva due teste, van
Oldenbarneveldt e Maurizio di
Nassau, e se le è tagliate: van
Oldenbarneveldt, animo mite, amico
della libertà, ma soprattutto della
pace, capo del partito delle province,
sostenitore della decentralizzazione
e quindi della debolezza,
ambasciatore presso Elisabetta,
Enrico IV e Giacomo I, capace di far
recuperare con quest’ultimo alle
Province Unite Brille, Flessingue e
Ramekan, morto infine sul patibolo
come eretico e traditore. Maurizio,
che ha salvato l’Olanda dieci volte,
ma ha ucciso van Oldenbarneveldt e
con questo assassinio ha perso la sua
popolarità. Maurizio, che crede di
essere amato ed è odiato. Una
mattina, attraversa il mercato di
Gorcum e saluta il popolo
sorridendo. È convinto che, salutato
da lui, il popolo farà volare i
cappelli in aria e griderà “Viva
Nassau”. Ma il popolo resta muto e
si tiene il cappello in testa. Da quel
momento, la sua impopolarità lo
uccide. L’omone capace di veglie
interminabili e di sonni profondi, il
condottiero insensibile al pericolo
dimagrisce, non dorme più e muore.
A succedergli è suo fratello,
Federico Enrico, che riprende, come
parte del lascito, il mercato degli
uomini: banco piccolo, arruolati
pochi ma scelti, ben vestiti, ben
nutriti, regolarmente pagati, in grado
di combattere una guerra tattica
sugli argini delle paludi e di
rimanere due anni con l’acqua fino
alle ginocchia per bloccare
scientificamente una bicocca. I
brav’uomini hanno cura di sé, ma
l’economo governo olandese ne ha
anche più cura: a quelli che si
espongono ai cannoni e ai tiri di
moschetto i capi urlano: «Ehi, voi,
non fatevi ammazzare, ognuno di
voi per noi rappresenta un capitale
di tremila lire!».
Ma il grande mercato non si trova
né a Est né a Nord né a Occidente. È
nel cuore stesso della Germania. È
controllato da un uomo di razza
incerta, un capo di predatori e di
banditi, di cui Schiller ha fatto un
eroe. È slavo? È tedesco? La testa
rotonda e i suoi occhi azzurri
dicono: sono slavo! I capelli di un
biondo rossiccio dicono: sono
tedesco! La carnagione olivastra
dice: sono boemo! Di fatto, questo
magro soldato, questo condottiero
dall’aria sinistra che si firma
Wallenstein è nato a Praga. È nato
fra distruzioni, incendi, massacri. E
non conosce perciò né fede né legge.
Ma in una cosa crede, o meglio in
tre: crede alle stelle; crede al caso;
crede al denaro. Ha stabilito in
Europa il regno del soldato, come il
peccato ha stabilito nel mondo il
regno della morte. Arricchito dalla
guerra, protetto da Ferdinando II,
che lo farà assassinare; drappeggiato
in un mantello principesco, non
possiede né la serenità di Gustavo né
la mobilità fisiognomica di Spinola.
Davanti alle grida, ai pianti, ai
lamenti delle donne, alle
imprecazioni, alle minacce, alle
accuse degli uomini, non si turba e
non si arrabbia; è uno spettro cieco e
sordo. Peggio: è un giocatore che ha
intuito che la lotteria è la regina del
mondo. Lascia che il soldato si
giochi tutto: la vita degli uomini,
l’onore delle donne, il sangue dei
popoli. Chiunque abbia una frusta in
mano è principe, chiunque abbia una
spada al fianco è re. Richelieu ha
studiato a lungo quel demonio. In un
elogio che fa di lui, cita tutta una
serie di crimini che non commise ma
lasciò commettere e, per
caratterizzare la sua diabolica
indifferenza, dice questa frase
significativa: «E con tutto questo,
non cattivo!».
Per concludere con la Germania,
la guerra dei Trent’anni segue
tranquillamente il suo corso. Il suo
primo periodo, quello palatino, si è
concluso nel 1623. L’elettore
palatino Federico V, sconfitto
dall’imperatore, nella sua disfatta ha
perso la corona di Boemia. Il
periodo danese sta per finire –
Cristiano IV, re di Danimarca, è alle
prese con Wallenstein e Tilly – e fra
un anno la guerra approderà al
periodo svedese.
Passiamo ora all’Inghilterra.
Benché più ricca della Spagna,
l’Inghilterra non sta meglio di lei. Il
re è contemporaneamente in
contrasto con i suoi sudditi e con sua
moglie; è in lotta quasi aperta con il
Parlamento, che è sul punto di
sciogliere, e decisamente aperta con
la moglie, che vuole rispedire in
Francia.
Carlo I aveva sposato Henriette di
Francia, l’unica dei figli legittimi di
Enrico IV che fosse sicuramente
sua. Era una brunetta vivace,
spiritosa, più piacente che
seducente, più graziosa che bella,
pasticciona e testarda, sensuale e
galante. Aveva avuto una giovinezza
movimentata. Accompagnandola,
diciassettenne, in Inghilterra, Bérulle
le proponeva come modello la
Maddalena pentita. Venendo dalla
Francia, lei trovò l’Inghilterra triste
e selvaggia; abituata alla nostra
gente rumorosa e allegra, trovò gli
inglesi tristi e gravi. Suo marito le
piacque mediocremente. Considerò
una penitenza quel matrimonio con
un re brontolone e violento, un
personaggio rigido, altero e freddo.
Danese per discendenza materna,
Carlo I aveva nelle vene un po’ dei
ghiacci del polo. Con tutto ciò, un
brav’uomo. Lei mise alla prova il
proprio potere con piccoli litigi, vide
che il re cedeva sempre per primo e,
non temendo più nulla, ne attaccò di
più seri.
Il suo matrimonio era stato una
vera e propria invasione cattolica.
Bérulle, che la condusse al suo
sposo e le dava quel buon consiglio
di modellare il suo pentimento su
quello della Maddalena, ignorava
tutto l’odio degli inglesi per il
papismo. Colmo delle speranze che
gli aveva dato un vescovo francese –
cui il debole Giacomo aveva
permesso di celebrare messa a
Londra e di cresimare in un giorno
diciottomila cattolici –, credette che
si potesse esigere qualsiasi cosa e
pretese che anche i figli cattolici
avessero diritto di salire al trono;
che restassero affidati alle cure della
madre fino ai tredici anni; che la
giovane regina avesse un vescovo;
che questo vescovo e i suoi sacerdoti
si presentassero nella loro uniforme
per le vie di Londra. La
soddisfazione di tutte queste pretese
fece sì che la regina disprezzasse la
terra su cui camminava, che invece
di una sposa innamorata, graziosa e
sottomessa Carlo I trovasse in lei
una cattolica triste e secca pronta a
scambiare il letto nuziale per una
cattedra di teologia e a sottomettere i
desideri del re ai digiuni non solo
della Chiesa, ma anche della carne.
E non fu tutto. Una bella mattina
di maggio, la giovane regina
attraversò Londra per quanto era
lunga e, con il suo vescovo, i suoi
elemosinieri e le sue dame, andò a
inginocchiarsi alla forca di Tyburn
dove vent’anni prima, al tempo della
congiura delle polveri, 4 erano stati
impiccati padre Garnet e i suoi
gesuiti. E, sotto lo sguardo indignato
di Londra, pregò per il riposo
dell’anima di quegli illustri assassini
che, con l’aiuto di trentasei
tonnellate di polveri, volevano far
saltare in un colpo solo il re, i
ministri e il Parlamento. Il re non
riusciva a credere a un simile
oltraggio fatto alla morale pubblica e
alla religione di Stato. Fu preso da
una di quelle collere violente che
fanno dimenticare ogni cosa, o
meglio che riportano tutto alla
mente. «Che siano cacciati come
bestie selvagge» scrisse «quei preti e
quelle donne che vanno a pregare
alla forca degli assassini!» La regina
gridò e pianse. I suoi vescovi ed
elemosinieri scomunicarono e
maledissero. Le donne si
lamentarono come le figlie di Sion
trascinate in schiavitù mentre, in
fondo al cuore, morivano dalla
voglia di tornare in Francia. La
regina corse alla finestra per
salutarle. Carlo I, che entrava
proprio allora nella camera, la pregò
di non esporsi a quello scandalo,
così estraneo alle abitudini inglesi.
La regina si mise a gridare più forte.
Il re la afferrò alla vita per
allontanarla dalla finestra. La regina
si aggrappò alle sbarre. Carlo la
strappò via a forza. La regina svenne
tendendo al cielo le mani
insanguinate per invocare la
vendetta divina su suo marito. Dio
rispose il giorno in cui da un’altra
finestra, quella di Whitehall, re
Carlo s’incamminò verso il patibolo.
A questa lite fra marito e moglie
risale il nostro contrasto con
l’Inghilterra. Carlo I fu messo al
bando dalle regine della cristianità
come un barbablù britannico e,
sull’onda provocata da un graffio di
causa incerta, Urbano VIII disse
all’ambasciatore spagnolo: «Il
vostro padrone deve sguainare la
spada per una regina offesa, oppure
non è né cattolico né cavaliere». Dal
canto suo, la giovane regina di
Spagna, sorella di Henriette, scrisse
personalmente al cardinale di
Richelieu facendo appello alla sua
galanteria in soccorso di una regina
oppressa. L’infanta di Bruxelles e la
regina madre si rivolsero al re. Ci si
mise anche Bérulle. Si fece credere
senza fatica a Luigi XIII, debole
come tutti quelli dotati di mediocre
intelligenza, che l’espulsione di quei
personaggi fosse un oltraggio alla
sua corona. Solo Richelieu tenne
duro. Donde l’aiuto prestato
dall’Inghilterra ai protestanti della
Rochelle, l’uccisione del duca di
Buckingham, la pena d’amore di
Anna d’Austria e la lega universale
delle regine e delle principesse
contro Richelieu.
Torniamo adesso in Italia, dove –
nella situazione politica del
Monferrato e del Piemonte, e
nell’illustrazione dei reali interessi
di Mantova e del duca di Savoia –
troveremo la spiegazione di tutte le
lettere che abbiamo visto consegnare
dal conte di Moret alla regina, alla
regina madre e a Gaston d’Orléans.
Il duca di Savoia Carlo Emanuele,
tanto più ambizioso quanto più
esigua era la sua sovranità, l’aveva
estesa con la forza al marchesato di
Saluzzo al tempo in cui, dirigendosi
in Francia per discutere la legittimità
della sua conquista e non essendo
riuscito a ottenere nulla a questo
proposito da Enrico IV, entrò nella
cospirazione di Biron, 5

cospirazione non solo di alto


tradimento contro il re, ma di
crimine contro la patria francese,
che intendeva frammentare.
Tutte le province meridionali
avrebbero dovuto appartenere a
Filippo III.
Biron avrebbe ricevuto la
Borgogna e la Franca Contea, oltre a
un’infanta di Spagna per moglie.
Il duca di Savoia avrebbe avuto il
territorio di Lione, la Provenza e il
Delfinato.
La cospirazione fu scoperta, la
testa di Biron tagliata.
Enrico IV avrebbe lasciato Carlo
Emanuele tranquillo nei suoi Stati se
questi non fosse stato spinto alla
guerra dall’Austria. Si trattava di
costringere, per bisogno di denaro,
Enrico IV a sposare Maria de’
Medici. Enrico si decise, intascò la
dote, sconfisse sanguinosamente il
duca di Savoia, lo obbligò a trattare
con lui e, lasciandogli il marchesato
di Saluzzo, gli portò via tutta la
Bresse, il Bugey, il Valromey, il
territorio di Gex, le due rive del
Rodano da Ginevra fino a Saint-
Genix e infine Casteldelfino, situato
in cima alla valle di Goito.
A parte Casteldelfino, Carlo
Emanuele in Piemonte non aveva
perso niente. Invece di essere a
cavallo delle Alpi, ne manteneva
soltanto il versante orientale, ma
restava padrone dei valichi tra
Francia e Italia.
Fu in quell’occasione che il nostro
spiritoso Bearnese affibbiò a Carlo
Emanuele il nome di principe delle
Marmotte, che gli rimase.
A partire da allora, il principe
delle Marmotte non poteva far altro
che considerarsi un principe italiano,
e non gli restava che ingrandirsi in
Italia.
Fece diversi tentativi infruttuosi,
finché non gli si presentò
un’opportunità che egli ritenne non
soltanto conveniente, ma
imperdibile.
Francesco IV Gonzaga, duca di
Mantova e del Monferrato, morì
lasciando un’unica figlia, Maria
Gonzaga, nata dal matrimonio con
Margherita di Savoia, figlia di Carlo
Emanuele. Il quale reclamò la tutela
della bambina per la vecchia
duchessa del Monferrato, contando
di farla in seguito sposare con il suo
figlio maggiore, Vittorio Amedeo, e
riunire così il Mantovano e il
Monferrato al Piemonte. Ma il
cardinale Ferdinando Gonzaga,
fratello del duca morto, accorse da
Roma, s’impadronì della reggenza e
fece rinchiudere la nipote nel
castello di Goito, nel timore che
cadesse fra le grinfie dello zio
materno.
Morì anche il cardinale
Ferdinando e Carlo Emanuele vide
un barlume di speranza, ma il terzo
fratello, Vincenzo Gonzaga, venne a
reclamare la successione e se ne
impadronì senza colpo ferire.
Carlo Emanuele pazientò. Carico
di malanni com’era, il nuovo duca
non poteva durare a lungo. Infatti si
ammalò, e questa volta Carlo
Emanuele si credette sicuro di avere
in mano Monferrato e Mantovano.
Ma non vedeva la tempesta che si
andava addensando dall’altra parte
dei monti.
In Francia viveva un certo Luigi
Gonzaga, duca di Nevers, capo di un
ramo cadetto. Suo figlio Charles de
Nevers era zio degli ultimi tre
sovrani del Monferrato. Quindi suo
figlio, il duca di Rethel, era cugino
di Maria Gonzaga, erede di Mantova
e del Monferrato.
Ora, l’interesse del cardinale di
Richelieu – e l’interesse del
cardinale di Richelieu era sempre
quello della Francia – esigeva che ci
fosse uno zelante sostenitore dei
fiori di giglio fra le province
lombarde, sempre pronte a schierarsi
per l’Austria o per la Spagna. Il
marchese di Saint-Chamont, nostro
ambasciatore presso Vincenzo
Gonzaga, ricevette istruzioni da lui e
Vincenzo Gonzaga, morendo,
nominò il duca di Nevers suo erede
universale.
Il duca di Rethel s’installò dunque
a nome di suo padre, con il titolo di
vicario generale, e la principessa
Maria fu mandata in Francia, dove la
si pose sotto la custodia di Caterina
Gonzaga, la vecchia duchessa di
Longueville, vedova di Enrico I
d’Orléans-Longueville, che, in
quanto figlia di Luigi Gonzaga, era
zia di Maria.
Uno dei rivali di Charles de
Nevers era Cesare Gonzaga, duca di
Guastalla, il cui nonno era stato
accusato di aver avvelenato il
Delfino, figlio maggiore di Enrico
II, e di aver assassinato quell’infame
Pierluigi Farnese, duca di Parma,
figlio di papa Paolo III. L’altro lo
conosciamo: era il duca di Savoia.
Questa politica della Francia lo
riavvicinò di colpo alla Spagna e
all’Austria. Gli austriaci occuparono
il Mantovano con un esercito
guidato da Spinola, e don Gonzalo
di Cordoba si incaricò di riprendere
Casale, Nizza della Paglia, 6
Moncalvo e il ponte di Stura.
Gli spagnoli ripresero tutto
eccetto Casale e in due mesi il duca
di Savoia si ritrovò padrone di tutto
il territorio compreso fra il Po, il
Tanaro e il Belbo.
Tutto questo accadeva mentre noi
assediavamo La Rochelle.
Fu allora che la Francia inviò in
aiuto del duca di Rethel, al comando
del marchese d’Uxelles, quei
sedicimila uomini che, mancando di
viveri e di paga, per la negligenza o
piuttosto per il tradimento di Créqui,
furono respinti da Carlo Emanuele,
con gran risentimento del cardinale.
Ma gli rimaneva, nel cuore del
Piemonte, la città di Casale che
aveva valorosamente resistito e sulla
quale sventolava ancora la bandiera
francese: era difesa dal cavaliere di
Gurron, condottiero leale e
coraggioso.
Malgrado la decisa dichiarazione
fatta da Richelieu che la Francia
avrebbe sostenuto i diritti di Charles
de Nevers, il duca di Savoia sperava
fortemente che quel pretendente un
giorno o l’altro sarebbe stato
abbandonato da re Luigi XIII,
conoscendo l’odio nutrito per lui da
Maria de’ Medici, che un tempo egli
aveva rifiutato di sposare con il
pretesto che la famiglia de’ Medici
non era di nascita tale da
imparentarsi con i Gonzaga, già
principi prima che i Medici fossero
anche solo nobiluomini.
Conosciamo adesso la causa dei
risentimenti che perseguitavano il
cardinale e di cui egli si è così
amaramente lamentato con la nipote.
La regina madre odia il cardinale
di Richelieu per una quantità di
ragioni. La prima, e la più aspra, è
che è stato suo amante e non lo è
più; che ha cominciato con
l’obbedirle in ogni cosa e che su
ogni cosa ha finito con l’opporsi a
lei; che Richelieu vuole la grandezza
della Francia e il ridimensionamento
dell’Austria, mentre lei vuole la
grandezza dell’Austria e il
ridimensionamento della Francia; e
infine che Richelieu vuole fare duca
di Mantova Charles de Nevers, di
cui lei invece non vuole fare niente
per via del vecchio rancore che
ancora prova contro di lui.
La regina Anna d’Austria odia il
cardinale di Richelieu perché si è
messo in mezzo alla sua storia
d’amore con il duca di Buckingham,
ha reso pubblica la scandalosa scena
dei giardini di Amiens, ha esiliato da
lei la sua compiacente amica
madame de Chevreuse, e sconfitto
gli inglesi per i quali batte il suo
cuore, che per la Francia non ha
battuto mai; perché lo sospetta
sordamente, senza osare farlo
apertamente, di aver diretto la lama
di Felton contro il petto del bel duca;
e infine perché lui sorveglia
ostinatamente i nuovi amori che le
potrebbe capitare di avere e lei sa
che nessuna delle proprie azioni,
nemmeno la più segreta, gli sfugge.
Il duca d’Orléans odia il cardinale
di Richelieu perché sa che il
cardinale conosce la sua ambizione,
la sua malvagità e la sua viltà, sa che
aspetta con impazienza la morte del
fratello e che sarebbe, nel caso,
capace di affrettarla; perché ha
ostacolato il suo ingresso nel
Consiglio, ha imprigionato il suo
precettore Ornano, decapitato il suo
complice Chalais, e perché – come
tutta punizione per aver congiurato
contro la sua vita – lo ha arricchito e
disonorato. Del resto, non amando
nessuno all’infuori di sé, conta, in
caso di morte di suo fratello, di non
sposare la regina, di sette anni più
vecchia, se non nel caso in cui sia
incinta.
Infine, il re lo odiava perché
sentiva che nel cardinale tutto era
genio, patriottismo, amore vero per
la Francia, mentre in lui tutto era
egoismo, indifferenza, inferiorità;
perché sentiva che non avrebbe
regnato finché il cardinale fosse
rimasto in vita; e, morto il cardinale,
avrebbe regnato male. Ci si
domanda quale filtro gli abbia fatto
bere, quale talismano gli abbia
appeso al collo, quale anello fatato
gli abbia infilato al dito. Il suo
fascino sono le sue casse sempre
piene d’oro e sempre aperte per il re.
Concini lo aveva tenuto nella
miseria, Maria de’ Medici
nell’indigenza. Luigi XIII non aveva
mai avuto denaro. Il mago toccò la
terra con la sua bacchetta e il Pattolo
prese a scorrere sotto gli occhi
stupiti del re che, da quel momento,
ebbe denaro sempre, anche quando
Richelieu non ne aveva.
Nella speranza che adesso sullo
scacchiere dei nostri lettori tutto sia
chiaro quanto su quello di Richelieu,
riprendiamo il nostro racconto dove
lo abbiamo lasciato alla fine del
primo tomo.

1 Album illustrato con incisioni a stampa,


molto in voga come regalo in epoca romantica.
[NdC]
2 Il testo francese ha Matteo, ma non saprei
dire se per un refuso o per un errore di Dumas.
[NdT]
3 Moneta di scarso valore dello Stato della
Chiesa. [NdC]
4 Complotto organizzato da un gruppo di
cattolici che voleva uccidere il re d’Inghilterra
Giacomo I, la sua famiglia e una parte
dell’aristocrazia facendo esplodere il palazzo di
Westminster (5 novembre 1605). Un tradimento
lo fece fallire. [NdC]
5 Charles de Gontaut, duca di Biron (1562-
1602), favorito di Enrico IV per via dei grandi
servizi resi, ammiraglio, poi maresciallo di
Francia, governatore della Borgogna, cospirò
alla fine con la Savoia e la Spagna e, rifiutando
di confessare, cosa che lo avrebbe forse salvato,
fu giustiziato. [NdC]
6 Cittadina piemontese sul fiume Belbo. Oggi
Nizza Monferrato, in provincia di Asti. [NdT]
II
Maria Gonzaga
Per ottenere il risultato che abbiamo
promesso, per riprendere, cioè, il
racconto dove lo abbiamo lasciato
alla fine del nostro ultimo tomo,
occorre che i nostri lettori abbiano la
bontà di entrare con noi nell’hôtel de
Longueville che, addossato a quello
della marchesa di Rambouillet,
insieme a esso taglia in due l’area
che si stende da rue Saint-Thomas-
du-Louvre a rue Saint-Niçaise, il che
significa che è situato, come l’hôtel
de Rambouillet, fra la chiesa di
Saint-Thomas-du-Louvre e
l’ospedale dei Quinze-Vingts.
Soltanto che il suo ingresso è in rue
Saint-Niçaise, proprio di fronte alle
Tuileries, mentre l’ingresso
dell’hôtel della marchesa è, come
abbiamo detto, in rue Saint-Thomas-
du-Louvre.
È trascorsa una settimana dagli
eventi di cui abbiamo finora parlato.
Il palazzo appartenuto al principe
Henri de Condé – lo stesso che
scambiava Chapelain per uno
scultore – e abitato da lui e dalla
principessa sua moglie, che abbiamo
conosciuto alla serata di madame de
Rambouillet, è stato abbandonato
nel 1612, due anni dopo il suo
matrimonio con mademoiselle de
Montmorency, quando acquistò in
rue Neuve-Saint-Lambert un
magnifico palazzo che ha cambiato
il nome della via con quello di rue
de Condé, che porta ancora. Il
palazzo abbandonato dal principe di
Condé era abitato, all’epoca di cui
stiamo parlando, cioè il 13 dicembre
1628 – gli eventi sono così
importanti in quel periodo che è
opportuno precisare le date –, dalla
vecchia duchessa di Longueville e
dalla sua pupilla, Sua Altezza la
principessa Maria, figlia di
Francesco Gonzaga – la cui
successione tanti sconvolgimenti
provoca non solo in Italia, ma anche
in Austria e in Spagna –, nonché di
Margherita di Savoia, a sua volta
figlia di Carlo Emanuele.
Nata nel 1612, 1 Maria aveva
quindi sedici anni. Tutti gli storici
del tempo sono d’accordo nel
dichiarare che era incantevole e i
cronisti, più precisi nelle loro
affermazioni, ci raccontano che la
sua bellezza consisteva in una figura
di altezza media perfettamente
proporzionata, in quella carnagione
olivastra delle donne mantovane –
che la devono, come le donne di
Arles, alle esalazioni delle paludi
che le circondano –, in capelli neri,
occhi azzurri, ciglia e sopracciglia di
velluto, denti di perla, labbra
corallo, e un naso greco di forma
irreprensibile, posto sopra quelle
labbra che non avevano bisogno
dell’aiuto della voce per fare le più
dolci promesse.
Inutile spiegare di quale
importanza fosse il ruolo che era
chiamata a sostenere come fidanzata
del duca di Rethel, figlio di quel
Charles de Nevers, erede del duca
Vincenzo, negli eventi che si
sarebbero di lì a poco svolti. Maria
Gonzaga, la cui bellezza sarebbe
bastata per attirare, come la stella
polare, gli sguardi di tutti i giovani
cavalieri della corte, attirava allo
stesso tempo anche quelli degli
uomini che l’età, la serietà o
l’ambizione spingevano verso la
politica.
Si sapeva che godeva della
potente protezione di Richelieu e
quelli che volevano fare la corte al
cardinale avevano una ragione di più
per fare una corte assidua alla bella
Maria Gonzaga.
È evidentemente in virtù di questa
protezione del cardinale –
protezione testimoniata dalla
presenza di madame de Combalet –
che verso le sette di sera possiamo
veder arrivare in rue Saint-Niçaise e
scendere alla porta dell’hôtel de
Longueville – gli uni dalle loro
carrozze e gli altri dalla nuova
invenzione appena diventata realtà,
cioè le portantine di cui
Souscarrières condivide il brevetto
con madame Cavois – i principali
personaggi del tempo, che, man
mano che arrivano, vengono fatti
entrare nel salone dal soffitto a
cassonetti con dipinti i fatti e le
gesta del bastardo Dunois, fondatore
della casa dei Longueville; e gli
arazzi sono illuminati a stento da un
immenso lampadario che scende dal
centro del soffitto e dai candelabri
posati sui camini e sulle consoles: lì
si trova la principessa Maria.
Fra i primi ad arrivare c’era il
principe.
Poiché il principe svolgerà un
ruolo di un certo rilievo nel nostro
racconto, ne ha giocato uno
importante nell’epoca precedente e
in quella che seguirà – ruolo triste e
misterioso –, chiediamo al lettore il
permesso di fargli conoscere questo
dubbioso germoglio del ramo
principale dei Condé.
I primi Condé erano coraggiosi e
allegri. Questo era vile e cupo.
Dichiarava apertamente: «È vero,
sono un codardo, ma Vendôme è
anche peggio di me», e questo lo
consolava, ammesso che avesse
bisogno di consolazione.
Spieghiamo questo cambiamento.

Morendo assassinato da
Montesquiou a Jarnac, l’affascinante
piccolo principe di Condé il quale,
benché un po’ gobbo, era il cocco di
tutte le donne e di cui si diceva:
Ce petit prince si gentil,
Qui toujours chante et toujours rit,
Toujours caresse sa mignonne,
Dieu gard’ de mal le petit homme, 2

morendo assassinato a Jarnac,


quell’affascinante piccolo principe
di Condé lasciava un figlio, che,
insieme al giovane Henri di Navarra,
divenne il capo del partito
protestante. Era degno figlio di suo
padre, che alla battaglia di Jarnac
aveva caricato alla testa di
cinquecento gentiluomini con un
braccio al collo e l’osso di una
gamba rotta che gli usciva dallo
stivale. Fu lui che il giorno della
Saint-Barthélemy, quando Carlo IX
gli gridò «Messa o morte», rispose
«Morte», mentre Henri di Navarra,
prudente, rispondeva «Messa».
Quello fu l’ultimo dei grandi
Condé della prima generazione.
Non sarebbe morto su un campo
di battaglia, gloriosamente coperto
di ferite e assassinato da un nuovo
Montesquiou; sarebbe stato molto
banalmente avvelenato dalla moglie.
Dopo un’assenza di cinque mesi,
era tornato al suo castello degli
Andelys. La moglie – una dama
d’onore di La Trémouille – era
incinta di un paggio guascone.
Come dessert, alla cena che offrì per
il suo ritorno, gli servì una pesca.
Due ore dopo, era morto.
La stessa notte, il paggio fuggiva
in Spagna.
Accusata dalla voce pubblica,
l’avvelenatrice fu arrestata.
Il figlio dell’adulterio nacque in
prigione, dove sua madre rimase
otto anni senza che si osasse
processarla, tanto si era certi di
trovarla colpevole. A capo di otto
anni, Enrico IV, che non voleva
vedere estinguersi i Condé, quel
magnifico ramo dell’albero dei
Borbone, fece uscire di prigione
senza giudizio la vedova, assolta
dalla clemenza regale ma
condannata dalla coscienza
pubblica.
Diciamo in due parole come
questo Henri, principe di Condé, che
scambiava Chapelain per uno
scultore, avesse sposato
mademoiselle de Montmorency. La
storia è curiosa e merita che apriamo
una parentesi per raccontarla,
dovesse anche essere una parentesi
un po’ lunga. Non è male del resto
che si apprendano dai romanzieri
certi dettagli che gli storici
dimenticano di raccontare, o perché
li ritengono indegni della storia o
perché non li conoscono nemmeno
loro.
Nel 1609, la regina Maria de’
Medici preparava un balletto e re
Enrico IV teneva il broncio perché
in quel balletto composto dalle più
belle dame della corte lei aveva
rifiutato di ammettere fra le ballerine
Jacqueline de Bueil, madre del conte
di Moret. E, poiché le illustri
ballerine che avrebbero partecipato
al balletto dovevano passare davanti
alla porta di Enrico IV per recarsi
alle prove nella sala degli spettacoli
del Louvre, per palesare il suo
cattivo umore il re chiudeva la porta.
Un giorno la lasciò socchiusa.
Da quella porta socchiusa vide
passare mademoiselle Charlotte de
Montmorency.
«Ora» dice nelle sue memorie
Bassompierre, «non c’era sotto il
cielo niente di più bello di
mademoiselle de Montmorency, né
di più aggraziato o più perfetto.»
Questa visione gli parve tanto
radiosa che il suo cattivo umore
prese ali di farfalla per volarsene
via. Il re si alzò dalla poltrona dove
se ne stava immusonito e la seguì
come Enea seguiva Venere avvolta
in una nuvola.
Quel giorno, assistette per la
prima volta al balletto.
C’era una scena in cui le dame
vestite da ninfe – e, per quanto
leggero sia oggi il costume delle
ninfe, nel XVII secolo era ancora
più leggero –, c’era una scena,
dicevamo, in cui le dame vestite da
ninfe fingevano tutte insieme di
alzare i loro giavellotti come se
avessero voluto lanciarli verso un
qualche bersaglio. Mademoiselle de
Montmorency, alzando il suo, si girò
verso il re, come se avesse voluto
trapassarlo. Non sospettando il
pericolo che correva, il re si era
presentato senza armatura. E disse
che la bella Charlotte mise tanta
grazia nel minacciarlo con il suo
giavellotto che egli credette di
sentirlo penetrare nel più profondo
del cuore. Madame de Rambouillet e
mademoiselle Paulet facevano parte
del balletto e quel giorno fecero
entrambe amicizia con
mademoiselle de Montmorency, pur
avendo cinque o sei anni più di lei.
Sempre da quel giorno, il buon re
Enrico IV dimenticò Jacqueline de
Bueil. Dimenticava facilmente,
com’è noto, e non pensò più che a
garantirsi il possesso di
mademoiselle de Montmorency. Si
trattava soltanto di trovare alla bella
Charlotte un marito compiacente
che, grazie a una dote di quattro o
cinquemila lire, chiudesse gli occhi
tanto quanto li avrebbe aperti il re.
Era quello che aveva fatto per la
contessa di Moret, data in sposa a
monsieur de Césy, il quale era
partito per un’ambasceria la sera
stessa delle nozze.
Il re riteneva di avere sottomano il
suo uomo.
Mise gli occhi su quel figlio del
crimine e dell’adulterio: una volta
sposato per mano del re, e alla figlia
di un connestabile, la macchia della
sua nascita sarebbe sparita.
Tutte le condizioni furono peraltro
stabilite con lui. E lui promise tutto
quello che volevano. Il connestabile
diede alla figlia centomila scudi,
Enrico IV mezzo milione e Henri II
de Condé, che il giorno prima aveva
diecimila lire di rendita, il mattino
delle nozze si trovò ad averne
cinquantamila.
È vero che la sera sarebbe dovuto
partire. Non partì.
Tenne però fede alla parte
dell’accordo secondo cui la prima
notte di nozze avrebbe dovuto
rimanere in una camera che non era
quella della moglie, ed Enrico IV,
povero cinquantenne innamorato,
ottenne da lei che gli provasse di
essere sola e padrona di se stessa
mostrandosi sul balcone fra due
torce, con i capelli sciolti.
Quando la vide, il re per poco non
morì di gioia.
Sarebbe troppo lungo seguire
Enrico IV nelle follie che gli fece
commettere quest’ultimo amore, nel
bel mezzo del quale lo fermò il
pugnale di Ravaillac, proprio quanto
stava andando a cercare dalla bella
mademoiselle Paulet le consolazioni
che l’affascinante Leonessa gli
prodigava senza riuscire a
consolarlo.
Dopo la morte del re, monsieur de
Condé ritornò in Francia con la
moglie, che continuava a essere la
damigella di Montmorency e che
divenne madame de Condé solo
durante i tre anni che suo marito
passò alla Bastiglia. Con la ben nota
inclinazione di monsieur de Condé
per gli studenti di Bourges e senza i
tre anni che passò alla Bastiglia,
probabilmente né il Grand Condé né
madame de Longueville sarebbero
mai venuti al mondo.
Il principe era noto soprattutto per
la sua avarizia. Quando era
implicato in qualche processo e
doveva andare a sollecitare i suoi
giudici, girava a cavallo per le vie di
Parigi, su una docile giumenta e con
la scorta di un solo valletto. La
Martelière, famoso avvocato del
tempo, aveva, come il medico, dei
giorni di consultazione gratuita. Lui
ci si recava in quei giorni.
Sempre malvestito, quella sera era
più curato del solito: forse sapeva
che dalla principessa Maria avrebbe
trovato il duca di Montmorency, suo
cognato, e si era fatto bello per lui; il
duca gli aveva infatti detto che la
prima volta in cui lo avesse visto
vestito in maniera indegna di un
principe di sangue avrebbe fatto
finta di non conoscerlo.
Il fatto è che Henri II, duca di
Montmorency, era l’esatto contrario
di Henri II, principe di Condé. Il
fratello della bella Charlotte era
tanto elegante quanto poco lo era
Condé, tanto generoso quanto Condé
era avaro. Avendo un giorno sentito
dire a un gentiluomo che si sarebbe
costruito la propria fortuna se solo
qualcuno gli avesse prestato
ventimila scudi per due anni:
«Smettete di cercare» gli disse.
«Li avete trovati.»
E, scritto a matita su un pezzo di
carta «Buono per ventimila scudi»,
disse al gentiluomo: «Portatelo
domani al mio intendente, e cercate
di stare bene».
Due anni dopo, il gentiluomo
riportò i ventimila scudi a
Montmorency.
«Via, via, signore» gli disse il
duca, «il gesto di riportarmeli è più
che sufficiente, ve li regalo di
cuore.»
Era stato innamoratissimo della
regina, contemporaneamente a
monsieur de Bellegarde, e a questo
proposito rischiarono di tagliarsi
reciprocamente la gola. La regina,
che civettava con entrambi benché
Montmorency avesse allora
trent’anni e Bellegarde sessanta, non
sapeva quale scegliere, quando
Buckingham fece la sua comparsa a
corte e li mise d’accordo. Pare che il
vecchio gentiluomo in
quell’occasione avesse fatto tanto
strepito quanto il giovane principe,
così che in tutte le alcove si
canticchiava questa strofetta:
L’astre de Roger
Ne luit plus au Louvre;
Chacun le découvre,
Et dit qu’un berger
Arrivé de Douvre
L’a fait déloger. 3

Dal momento in cui si sposano, i


re non vedono più chiaro degli altri
mariti, e così per questa faccenda
Luigi XIII esiliò Montmorency a
Chantilly. Tornato in auge grazie
all’influenza di Maria de’ Medici,
era rientrato per un mese a corte, per
poi assumere il governo del
Languedoc; lì aveva appreso la
notizia del duello e dell’esecuzione
capitale di suo cugino François de
Montmorency, conte di Bouteville.
Avendo sposato Maria Felice Orsini,
figlia proprio di quel Virginio Orsini
che aveva accompagnato Maria de’
Medici in Francia, era nipote
acquisito della regina madre, che lo
onorava perciò della sua protezione.
Gelosa come un’italiana, Maria
Orsini, che secondo il poeta
Théophile aveva il biancore delle
nevi celesti, aveva iniziato a
tormentare il marito, il quale, stando
a quanto racconta Tallemant des
Réaux, aveva preso un tale andazzo
che non c’era donna, almeno fra
quelle con un po’ di spirito galante,
che non volesse a tutti i costi essere
un po’ coccolata da lui. Alla fine,
marito e moglie erano giunti a un
compromesso: lui avrebbe potuto
avere tutte le avventure che voleva,
purché gliele raccontasse. Un
giorno, una sua amica le dichiarò di
non capire perché lasciasse tanta
libertà al marito e soprattutto perché
ne esigesse il rendiconto.
«Be’» rispose lei, «faccio in modo
di farmi raccontare tutto quando
siamo a letto e così ho anch’io
quanto mi spetta.»
In effetti, non c’è tanto da stupirsi
che le donne, soprattutto in
quell’epoca così voluttuosa, si
accendessero di passione per un bel
principe di trentatré anni, della
prima famiglia di Francia, ricco a
milioni, governatore di una
provincia, ammiraglio di Francia a
diciassette anni, duca e pari a
diciotto, cavaliere del Saint-Esprit a
venticinque, con quattro connestabili
e sei marescialli fra i propri antenati,
e con un seguito abitualmente
composto da cento gentiluomini e
trenta paggi.

Quella sera, Montmorency era più


bello che mai. Al suo arrivo tutti gli
sguardi si fissarono su di lui e
grande fu lo stupore quando, dopo
che ebbe salutato la principessa
Maria, lo si vide andare a baciare
rispettosamente la mano di madame
de Combalet.
Dopo la morte di suo cugino
Bouteville – che lo aveva
profondamente colpito più per
l’orgoglio ferito di veder tagliare la
testa in piazza a un Montmorency
che per affetto di parente – era la
prima avance che faceva al
cardinale. Ma la dimostrazione non
ingannò nessuno: la guerra con la
Savoia, la Spagna e l’Austria era
imminente e il duca di
Montmorency intendeva disputare a
monsieur de Créqui la spada di
connestabile che in tutte le grandi
cerimonie suo padre e suo nonno
avevano portato davanti al re e
appoggiato sulle proprie ginocchia.
Chi comprese meglio l’intenzione
del duca, e ne fu maggiormente
urtato nelle sue speranze, fu Charles
di Lorena, duca di Guise, figlio di
quel Balafré che aveva combattuto
alla Saint-Barthélemy, e nato nel
1571, cioè l’anno prima del
massacro. Pur essendo più noto per
le sue avventure galanti che per alti
fatti d’arme – benché avesse
partecipato con onore all’assedio
della Rochelle, dove aveva
continuato a combattere su una nave
in preda alle fiamme –, egli ambiva,
se non alla carica di connestabile,
almeno a un posto di primo piano
nell’esercito. Infatti, finché si
trattava di semplici gentiluomini
come Bassompierre, Bellegarde,
Cramail o anche Schomberg, poteva
ancora vantare una certa superiorità,
ma se si trattava del duca di
Montmorency non avrebbe potuto
avere niente di più che un incarico
subalterno. Le vittorie di
Montmorency sui calvinisti, di cui
aveva distrutto la flotta guidata dal
duca di Soubise e ai quali aveva
ripreso le isole di Oléron e di Ré, gli
davano ancor più della sua nascita la
precedenza su tutti i capitani del
tempo.
Fra loro c’era anche la rivalità nei
trionfi amorosi. Benché Guise
avesse un naso camuso e fosse di
bassa statura, aveva ereditato dal
padre una certa maestà nei modi che
faceva di lui un dongiovanni di
successo; le donne gli
rimproveravano un grave difetto, sul
quale peraltro molte sorvolavano
perché, facendo di esse personaggi
alla moda, finiva con il diventare
una qualità. Ai tempi di Enrico IV –
perché, come abbiamo visto dalla
sua data di nascita, il duca di Guise
si avvicinava alla sessantina – gli era
capitata un’avventura che aveva
divertito molto il re.
Una notte in cui aveva preso, non
sul seggio ma nel letto, il posto di un
consigliere che si trovava in viaggio,
quest’ultimo, che avrebbe dovuto
rientrare verso mezzogiorno, fece
invece la sorpresa di arrivare verso
le cinque del mattino. Avendo le
chiavi di casa, raggiunge la camera
della moglie che fortunatamente
aveva chiuso con il chiavistello. Il
consigliere deve bussare e farsi
riconoscere. Nella fretta di aprire per
non insospettirlo, la donna ha
appena il tempo di spingere Guise,
nudo, nello spogliatoio dove il
consigliere teneva i suoi abiti, di
togliere il colletto di pizzo e frugare
nelle tasche di quello che il duca
aveva lasciato su una poltrona, senza
avere il tempo di portarglielo. Poi,
strofinandosi gli occhi come
svegliata di soprassalto, apre al
consigliere, convinta che si sarebbe
messo a letto e addormentato,
dandole modo di far fuggire
l’amante.
La prima cosa che vede il
consigliere entrando è l’abito di
monsignore.
«Be’?» chiede alzando le
sopracciglia, «e questo che cosa
sarebbe, mia cara?»
«Roba che una venditrice di abiti
d’occasione mi ha portato e che se vi
va bene mi darà per quasi niente. Ma
venite a dormire, dovete essere
stanco.»
«No» dice il consigliere, «ho
appuntamento al Palazzo di
Giustizia all’alba e li proverò
subito.»
E, tolti gli abiti infangati, indossa
quelli del duca; rimirandosi tutto
tronfio:
«Sembrano proprio tagliati
addosso a me» dice. «Pagate la
vostra venditrice, mia cara, e se ne
ha degli altri della stessa
provenienza fateveli portare. Io vado
al Palazzo.»
[E infatti, senza perdere altro
tempo, dopo aver cercato e preso dei
documenti dalla sua scrivania, infila
la toga sopra gli abiti che indossa e
se ne va al Palazzo.] 4
Uscito lui, sua moglie richiude la
porta della camera da letto e va ad
aprire quella dello spogliatoio.
«Oh, monsignore! Sarete gelato!»
«No davvero» risponde il duca.
«Ho trovato qui dentro degli abiti di
vostro marito e mentre lui si metteva
i miei stracci io mi sono messo i
suoi. Non sarei stato un uomo di
legge perfetto?»
E così dicendo esce dallo
spogliatoio con il tocco in testa e
vestito da consigliere.
Lei rise del tiro, che le parve
divertente, ma la cosa più divertente
fu che il duca di Guise, avendo
anche lui di prima mattina udienza
al Louvre da Enrico IV, trovò
spiritoso andarci vestito da
consigliere.
Dapprima il re non lo riconobbe, e
poi, fra il serio e il faceto, gli
domandò ragione di quella
mascherata. Guise gli raccontò
l’avventura e, siccome era un ottimo
narratore, il re ne rise molto, senza
però volergli credere.
«Bene, Sire» replicò il duca, «se
non mi credete mandate un usciere
al Palazzo di Giustizia e fate venire
al Louvre il consigliere. Vedrete se
non è vestito con la mia roba.»
Il re, che non perdeva mai
un’occasione di divertimento, trovò
che questa lo fosse e mandò a dire al
consigliere che voleva parlargli
subito.
Questo, sbalordito e incapace di
indovinare a che cosa dovesse un
tale onore, corse al Louvre in tutta
fretta.
Il re, che quando si trattava di
farsi beffe di qualcuno – usiamo
questo vecchio modo di dire allora
molto usato e che ci dispiace veder
scomparire dalla nostra lingua – non
era mai in difficoltà, il re lo tira in
disparte, gli parla di cento cose e,
chiacchierando, gli slaccia la toga.
Molto stupito, il consigliere lascia
fare senza osare dirgli niente,
quando all’improvviso il re esclama:
«Ventre-saint-gris! Signor
consigliere, avete addosso i panni di
monsieur de Guise!»
«Come, di monsieur de Guise?»
chiede il consigliere, pensando che il
re sia impazzito. «Mia moglie li ha
acquistati da una venditrice di abiti
d’occasione.»
«Ah» risponde il re, «non sapevo
che la casa di Guise fosse ridotta
così male da costringere il duca a
vendere i suoi vecchi abiti. Vi
ringrazio di avermi edotto su una
cosa che ignoravo, signor
consigliere!»
E congedò il buon consigliere,
tutto fiero di indossare i panni di un
principe lorenese. Tanto che,
rientrato a casa, la prima cosa che
disse alla moglie fu:
«Sapete, mia cara, di chi sono gli
abiti che porto?»
«No davvero!» rispose lei, un po’
preoccupata.
«Ebbene, sono del duca di Guise»
la informò tronfio il consigliere.
«Chi ve lo ha detto?» chiese la
moglie spaventata.
«Il re, e se potete trovarne altri
allo stesso prezzo prendeteli.»
«Benissimo, caro» rispose la
moglie, «e, dato che ho la vostra
autorizzazione, per lo stesso prezzo
cercherò di prendere tutto il
guardaroba.»
Monsieur de Guise era molto
distratto e a questa distrazione
doveva una delle sue avventure
galanti. Una sera che si era attardato
a giocare da monsieur de Créqui e
che aveva mandato via la carrozza,
Créqui non volle lasciarlo tornare a
piedi all’hôtel de Guise, piuttosto
lontano dal suo. Diede dunque
ordine di sellare il proprio cavallo
per il principe. Guise monta sulla
giumenta e, senza più pensarci,
invece di guidarla, sprofonda nelle
sue fantasie e si lascia guidare da lei.
La giumenta, che a quell’ora era
abituata a portare Créqui dalla sua
amante, porta dritto da lei monsieur
de Guise e non si ferma finché non è
davanti al portone. Arrivato lì, anche
senza riconoscere la porta, Guise
immagina di poter trovare
un’avventura piacevole, scende da
cavallo, si avvolge nel mantello e
bussa.
Una graziosa servetta apre, dà una
pacca alla giumenta che si dirige alla
scuderia dove la sua avena la
aspettava e, per una scala illuminata
appena quanto basta per non
rompersi l’osso del collo, conduce
monsieur de Guise a una camera,
buia quanto la scala. Cavallo e
cavaliere erano abituati a essere
bene accolti nella casa. Guise lo fu a
braccia aperte. Si parlò a bassa voce.
Si agì al buio. Guise, amico di
Créqui, nell’intimità ne aveva
probabilmente preso le abitudini,
così che la dama si addormentò
senza essersi accorta dell’equivoco.
Ma al mattino venne svegliata da
Guise che non faceva che rigirarsi
nel letto.
«Buon Dio, mio caro, che cosa
c’è?»
«C’è» rispose, indiscreto quanto
distratto, il duca «che vorrei essere
già alzato per raccontare a tutti i
miei amici che avete passato la notte
con monsieur de Guise credendo di
averla passata con monsieur de
Créqui.»
Con tutti i suoi difetti, monsieur
de Guise era però molto generoso.
Una mattina il presidente di Chevry
gli mandò per tramite di Raffaello
Corbinelli, padre di Jean Corbinelli,
noto per l’amicizia che gli portava
madame de Sévigné, cinquantamila
lire che il duca gli aveva vinto al
gioco la sera prima. La somma era
divisa in cinque sacchi, quattro
grossi, che contenevano ognuno
diecimila lire in argento, e uno
piccolo, che conteneva diecimila lire
in oro.
Corbinelli voleva contare ma il
duca non glielo permise. E, vedendo
un sacco piccolino, senza
preoccuparsi di sapere che cosa ci
fosse dentro, disse:
«Tenete, amico mio, questo è per
il vostro disturbo.»
Corbinelli torna a casa, apre il
sacco e ci trova diecimila lire in oro.
Subito torna da Guise e:
«Monsignore» gli dice, «dovete
esservi sbagliato, mi avete dato un
sacco d’oro credendo di darmene
uno d’argento.»
Ma il duca di Guise, ergendosi in
tutta la sua piccola statura:
«Tenete, signore, tenete» gli dice.
«I principi della mia casa non
riprendono quello che hanno
regalato.»
E Corbinelli si tenne le sue
diecimila lire.

Quando fu annunciato monsieur


de Montmorency, il duca di Guise
cercava di attaccar briga con
monsieur de Grammont come lui
solo sapeva fare.
«Ebbene, mio caro» gli stava
dichiarando, «lasciatemi dire che
devo lamentarmi di voi.»
«Non certo per il gioco, duca» gli
rispose lui. «Mi vincete in media
centomila lire all’anno, tanto che
mia moglie vi ha offerto una rendita
annuale di diecimila scudi se aveste
accettato di non giocare più con
me.»
«Che ho rifiutato! E no, ci
perderei davvero troppo! Si tratta di
tutt’altro.»
«Di che cosa, allora?»
«Come! Sapendo che, dopo di me,
siete l’uomo più pettegolo che
esista, la settimana scorsa vi ho detto
che ho ottenuto il massimo dei
favori da madame de Sablé, perché
lo andaste a raccontare a tutta Parigi,
e voi non ne avete fatto parola!»
«Ho temuto» replicò Grammont
ridendo «di farvi litigare con
Montmorency.»
«Ah, ma non era finita fra loro?»
chiese il duca.
«Vedete bene che no, dal
momento che stanno litigando.»
In effetti, la marchesa e il duca
litigavano.
«Allora cercate di capire perché,
caro conte» disse il duca, «e
venitemelo a dire.»
Il conte si avvicinò.
«Signore» stava dicendo la
marchesa, «è intollerabile. Mi è stato
riferito che all’ultimo ballo del
Louvre, approfittando del fatto che
io ero ammalata, avete danzato solo
con le più belle dame della corte.»
«Be’, cara marchesa» ribatté il
duca, «che cosa volevate che
facessi?»
«Che ballaste solo con quelle
brutte, signore!»
Il conte di Grammont, arrivato in
tempo per sentire questo scambio di
battute, lo riferì al duca.
«In fede mia, conte» rispose il
duca, «ecco giunto il momento,
direi, di andare a ripetere a
Montmorency la confidenza che vi
ho fatto. Gli farete un favore.»
«In fede mia, no!» replicò
Grammont. «Non lo direi a un
marito, figurarsi a un amante!»
«Allora» riprese il duca con un
sospiro, «glielo dirò io stesso.»
E stava effettivamente muovendo
qualche passo verso il duca quando
la porta del salone aprì i suoi due
battenti e il maggiordomo gridò:
«Sua Altezza Reale monsignor
Gaston d’Orléans.»
Le conversazioni cessarono; chi
era in piedi rimase in piedi, chi era
seduto si alzò, persino la principessa
Maria.
“Bene” si disse madame de
Combalet, confidente del cardinale,
alzandosi a sua volta e salutando più
rispettosamente che mai, “ecco che
inizia la commedia. Non perdiamoci
una parola di quanto si dirà sulla
scena, né, se possibile, di quanto
accadrà dietro le quinte.”
1 In realtà Maria nacque nel 1609; il 1612 è
invece l’anno di nascita di Ludovica Maria
Gonzaga-Nevers, figlia di Carlo Gonzaga-
Nevers, che sarà quindi cognata della “nostra”
Maria. [NdT]
2 Quel principino tanto carino, / intento sempre
a cantare, sempre a ridere, / sempre ad
accarezzare la sua bella, / Dio lo protegga
quell’omino. [NdT]
3 La stella di Roger / al Louvre ha smesso di
brillare; / lo sanno tutti, / e dicono che un pastore
/ venuto da Dover / lo ha fatto sloggiare. [NdT]
Roger era il nome di Bellegarde; i versi sono di
Vincent Voiture. [NdC]
4 Il brano fra parentesi quadre compare
nell’edizione in volume del 1946, ma non nel
testo pubblicato sulle «Nouvelles». [NdC]
III
La commedia ha inizio
Era infatti la prima volta che,
pubblicamente e nel mezzo di una
serata importante, il duca d’Orléans
si presentava dalla principessa Maria
Gonzaga.
Si capiva subito che aveva messo
nel vestirsi una cura tutta
particolare. Indossava un farsetto di
velluto bianco con passamanerie
d’oro e un mantello uguale foderato
di raso color ciliegia. Le scarpe di
velluto erano dello stesso rosso della
fodera. In testa, o piuttosto in mano,
dato che entrando nel salone si era,
contrariamente alle sue abitudini,
scoperto il capo, cosa che tutti
notarono, in mano teneva un
cappello di feltro bianco con una
spighetta adorna di brillanti e piume
color ciliegia. Calze di seta e scarpe
di raso bianco completavano il tutto.
Nastri dei due colori che aveva
adottato, in gran quantità e molto
eleganti, uscivano a onde da tutte le
aperture del farsetto e all’altezza
delle giarrettiere.
Monsignor Gaston era poco
amato, stimato ancora meno.
Abbiamo già visto quanto danno in
quel mondo coraggioso, elegante e
cavalleresco gli avesse causato la
sua condotta nel processo di Chalais;
fu quindi accolto da un silenzio
generale.
Sentendolo annunciare, la
principessa Maria aveva lanciato
uno sguardo d’intesa alla vecchia
duchessa di Longueville. Nel corso
della giornata, avevano ricevuto una
lettera di Monsieur, che avvertiva
madame de Longueville della
propria visita per quella sera e la
pregava, se possibile, di procurargli
qualche minuto di colloquio con la
principessa Maria, alla quale, così
diceva, doveva comunicare cose
della massima importanza.
Il principe avanzò dunque verso la
principessa Maria, fischiettando
un’arietta di caccia, ma, siccome era
risaputo che nemmeno davanti alla
regina madre riusciva a impedirsi di
fischiare, nessuno fu turbato da
questo atteggiamento sconveniente,
neppure la principessa Maria, che gli
tese con grazia la mano.
Il principe la baciò, tenendola a
lungo premuta con forza sulle
labbra. Poi salutò cortesemente la
vecchia duchessa di Longueville,
s’inchinò con leggerezza davanti a
madame de Combalet e,
rivolgendosi insieme ai cavalieri e
alle dame:
«Signore e signori» disse, «non so
come raccomandarvi la nuova
invenzione di Souscarrières. Non c’è
niente di più comodo, sul mio onore.
La conoscete, principessa?»
«No, monsignore, ne ho solo
sentito parlare da qualcuno che ha
usato quel veicolo per venire da me
questa sera.»
«È davvero comodissimo e, per
quanto monsieur de Richelieu e io
non siamo molto amici, non posso
che plaudere a questa invenzione, di
cui ha concesso il brevetto a
Bellegarde. Suo padre, che è grande
scudiero, in tutta la vita non riuscirà
mai a inventare nulla di simile e
propongo di devolvere tutte le
rendite delle sue cariche al figlio per
il servizio che ci rende. Immaginate,
principessa, una carriola molto
pulita, foderata di velluto, con dei
vetri se si vuole vedere fuori e delle
tende se non si vuole essere visti,
dove si sta comodamente seduti. Ce
ne sono a uno o a due posti. Sono
trascinate da alverniati che vanno al
passo, al trotto o al galoppo secondo
le necessità e la retribuzione del
trasportato. Ho provato il passo
finché ero dentro il Louvre e il trotto
quando ne sono uscito. Hanno un
passo ben cadenzato e un trotto
molto dolce. La cosa comoda è che,
se c’è brutto tempo, vengono a
prendervi fin nel vestibolo, dove le
carrozze non possono arrivare; e
quella meravigliosa è che, siccome
non c’è la pedana, non ci si sporca.
La portantina – si chiama portantina
– viene appoggiata e chi ne esce si
trova al livello del suolo. Se questa
invenzione non diventa subito di
moda, sicuramente non sarà per
colpa mia. Ve la raccomando, duca»
concluse rivolgendosi a
Montmorency e salutandolo con un
cenno del capo.
«Me ne sono servito proprio
oggi» rispose il duca inchinandosi
«e sono assolutamente d’accordo
con Vostra Altezza.»
Gaston d’Orléans si voltò verso il
duca di Guise.
«Buongiorno, cugino» disse.
«Notizie della guerra?»
«Bisogna domandarle a voi,
monsignore. Più i raggi del sole ci
sono vicini, più ci illuminano.»
«Sì, quando non ci accecano. Per
quel che mi concerne, in politica
sono cieco almeno da un occhio e,
se continua così, chiederò alla
principessa Maria di ottenere per me
una camera dai suoi vicini Quinze-
Vingts.»
«Se Vostra Altezza desidera avere
notizie, potremo dargliene: ho
saputo che mademoiselle Isabelle de
Lautrec, terminato il suo servizio
presso la regina, verrà questa sera a
riferirci di una lettera che ha
ricevuto da suo padre, il barone di
Lautrec, che, come sapete, si trova a
Mantova presso il duca di Rethel.»
«Ma» chiese monsignor Gaston
«sono notizie che si possono
divulgare?»
«Il barone pensa di sì,
monsignore, a quanto dice nella
lettera.»
«In cambio» disse Gaston, «vi
darò notizie d’alcova, le sole che mi
interessino, ora che ho rinunciato
alla politica.»
«Dite, monsignore, dite!» lo
invitarono ridendo le dame.
Madame de Combalet, per
abitudine, si coprì il viso con il
ventaglio.
«Scommetto» disse il duca di
Guise «che volete parlare di quel
mascalzone di mio figlio...»
«Infatti. Sapete che si fa dare la
camicia, come se fosse un principe
di sangue. Ha trovato otto o dieci
stupidi che lo hanno fatto. Qualche
giorno fa, però, l’ha data all’abate di
Retz che, fingendo di volerla
scaldare, l’ha lasciata cadere nel
fuoco, dove è bruciata. Dopo di che,
l’abate ha preso il suo cappello ed è
uscito.»
«Ha fatto proprio bene» disse il
duca di Guise «e me ne
complimenterò con lui appena mi
capiterà di incontrarlo.»
«Se osassi intervenire» disse
madame de Combalet, «direi che ha
fatto anche di peggio.»
«Dite, signora, raccontate!» fece
il duca di Guise.
«Ebbene, l’ultima volta che si è
recato a Reims da sua sorella,
madame de Saint-Pierre, ha cenato
nel parlatorio con lei e poi, in quanto
principe, è entrato nel convento.
Dopo cena, con i suoi sedici anni, si
mette a correre dietro le suore,
afferra la più bella e, volente o
nolente, la bacia. “Fratello mio,
fratello mio” gridava madame de
Saint-Pierre, “vi prendete gioco
delle spose di Cristo?” Al che lo
scavezzacollo rispose: “Oh, Dio è
troppo potente per consentire che si
bacino le sue spose se tale non è la
sua volontà”. “Mi lamenterò con la
regina!” diceva la suora che era stata
baciata e che era molto carina. La
badessa si preoccupò. “Baciate
anche quella” disse al principe. “Ma,
sorella mia, è bruttissima!”
“Ragione di più. Sembrerà che
abbiate fatto una sciocchezza, che
non foste in voi.” “È proprio
necessario, sorella mia?”
“Assolutamente sì, altrimenti quella
carina andrà a lamentarsi.” “Va
bene, se proprio lo volete, per
quanto brutta sia, avrà un bacio.” E
la baciò; la brutta gliene fu grata e
impedì a quella carina di
lamentarsi.»
«E come sapete tutto questo, bella
vedova?» domandò il duca a
madame de Combalet.
«Madame de Saint-Pierre ha fatto
rapporto a mio zio, che però ha per i
Guise una tale indulgenza che ne ha
riso e basta.»
«L’ho incontrato un mesetto fa»
disse il principe, «con una calza di
seta gialla a mo’ di piuma sul
cappello. Che cosa voleva dire
quella nuova stranezza?»
«Voleva dire» spiegò monsieur
d’Orléans «che in quel momento era
innamorato della Villiers, dell’hôtel
de Bourgogne, che in scena
indossava calze gialle. Lui mandò
Tristan l’Hermite a complimentarsi
con lei per le sue gambe, lei si tolse
una calza e la porse a Tristan
dicendo: “Se monsieur de Joinville
per tre giorni porterà sul cappello
questa calza a mo’ di piuma, poi
potrà venire a chiedermi tutto ciò
che vorrà”.»
«E allora?» domandò madame de
Sablé.
«E allora, lui ha portato la calza
per tre giorni, e c’è qui mio cugino il
duca di Guise, suo padre, che vi dirà
che il quarto giorno è rientrato
all’hôtel de Guise solo alle undici
del mattino.»
«Bella vita per un futuro
arcivescovo!» commentò madame
de Sablé.
«Attualmente» proseguì Sua
Altezza Reale, «è innamorato di
mademoiselle de Pons, una bionda
grassottella dalle guance paffute, al
servizio della regina. L’altro giorno
lei si è purgata. Ha voluto sapere
l’indirizzo del suo farmacista e ha
preso la stessa medicina,
scrivendole: “Non sia mai detto che
voi vi siate purgata e io non lo abbia
fatto insieme a voi”.»
«Ah» disse il duca, «ecco perché
qualche giorno fa quel matto ha
chiamato all’hôtel de Guise tutti gli
addestratori di cani di Parigi.
Figuratevi che sono rientrato al
palazzo e ho trovato il cortile pieno
di cani mascherati in tutti i modi
possibili. Ce n’erano più di trecento,
con una trentina di buffoni che si
trascinavano dietro le loro mute.
“Che cosa stai facendo, Joinville?”
ho chiesto. “Faccio dare uno
spettacolo per me, padre mio.” E
indovinate perché aveva fatto venire
tutti quei saltimbanchi? Per
promettere un luigi ciascuno se entro
tre giorni tutti i cani addestrati di
Parigi avessero saltato solamente per
mademoiselle de Pons.»
«A proposito» disse Gaston che,
irrequieto com’era, trovava che ci si
stesse occupando da troppo tempo
della stessa cosa, «in quanto sua
vicina di casa, cara duchessa, avrete
notizie del povero Pisany... Quelle
che mi ha dato ieri Voiture non
erano troppo cattive.»
«Ho mandato questa mattina a
prenderne, e mi hanno detto che i
medici lo ritengono più o meno fuori
pericolo.»
«Ne avremo di freschissime»
disse Montmorency. «Ho lasciato il
conte di Moret alla porta dell’hôtel
de Rambouillet, dove ha voluto
andare a informarsi di persona.»
«Il conte di Moret? ma come, se
qualcuno diceva che Pisany aveva
voluto farlo uccidere...» disse
madame de Combalet.
«Sì» replicò il duca, «ma pare si
sia trattato di un equivoco.»
Proprio allora si aprì la porta e il
maggiordomo annunciò:
«Monsignor Antoine de Bourbon,
conte di Moret.»
«Eccolo» disse il duca. «Ve la
racconterà lui stesso la storia, e
molto meglio di me, che balbetto
appena provo a dire venti parole di
seguito.»
Il conte di Moret entrò, ed ebbe
subito tutti gli occhi puntati addosso,
soprattutto – va detto – quelli delle
signore.
Non essendo ancora stato
presentato alla principessa Maria,
aspettò sulla soglia che
Montmorency lo andasse a prendere
e lo accompagnasse dalla
principessa, cosa che il duca si
affrettò a fare con la grazia che
metteva in ogni cosa.
Non meno garbatamente, il
giovane principe salutò la
principessa, le baciò la mano, le
diede in due parole notizie del duca
di Rethel, che aveva incontrato
passando da Mantova, baciò la mano
di madame de Longueville, raccolse
e restituì a madame de Combalet
con un’incantevole riverenza il
bouquet che si era staccato dal
soggolo ed era caduto a terra,
quando lei si era spostata per fargli
strada; infine, dopo essersi
profondamente inchinato davanti a
monsignor Gaston, prese
modestamente posto accanto al duca
di Montmorency.
«Parlavamo di voi, caro principe»
gli disse questi, una volta compiuto
il cerimoniale, «proprio un attimo
prima che arrivaste.»
«Bah, devo essere un personaggio
ben importante perché ci si occupi di
me in così buona compagnia...»
«Avete proprio ragione,
monsignore» ribatté una voce di
donna. «Un uomo che si vuole
assassinare perché è l’amante della
sorella di Marion Delorme merita
forse che ci si occupi di lui?»
«Oh, ecco una voce che conosco»
disse il principe. «Non è quella di
mia cugina?»
«Ma certo, compare Jacquelino!»
rispose madame de Fargis facendosi
avanti e tendendogli la mano.
Il conte di Moret gliela strinse.
Poi, sottovoce:
«Lo sapete che devo rivedervi e
soprattutto parlarvi. Sono
innamorato.»
«Di me?»
«Un po’, ma molto di un’altra.»
«Impertinente. E come si
chiama?»
«Non lo so.»
«È bella, almeno?»
«Non l’ho mai vista.»
«È giovane?»
«Credo di sì.»
«Da che cosa lo deducete?»
«Dalla sua voce che ho sentito,
dalla sua mano che ho toccato, dal
suo respiro che ho bevuto.»
«Cugino, come le dite, queste
cose!»
«Ho ventun anni. Le dico come le
sento.»
«Giovinezza, giovinezza» disse
madame de Fargis, «diamante senza
prezzo ma così presto sciupato!»
«Caro conte» interruppe il duca,
«sapete che tutte le signore sono
gelose di vostra cugina, perché mi
pare di avervi sentito chiamare così
madame de Fargis. Vogliono sapere
come mai siete andato a trovare un
uomo che ha cercato di farvi
assassinare.»
«Prima di tutto» rispose il conte
di Moret con la sua incantevole
leggerezza, «perché sono cugino di
madame de Rambouillet.»
«E in che modo?» domandò
Monsieur, che si piccava di
conoscere tutte le genealogie.
«Spiegatecelo, monsieur de Moret!»
«Per via di mia cugina de Fargis,
che ha sposato monsieur de Fargis
d’Angennes, cugino di madame de
Rambouillet.»
«E come fate a essere cugino di
madame de Fargis?»
«Questo è un nostro segreto, vero
cugina Marina?»
«Certo, cugino Jacquelino»
rispose ridendo madame de Fargis.
«Inoltre, prima di essere cugino di
madame de Rambouillet, sono stato
un suo caro amico.»
«Ma se vi ho visto sì e no un paio
di volte da lei...» intervenne
madame de Combalet.
«Mi ha pregato di sospendere le
mie visite.»
«E perché?» domandò madame de
Sablé.
«Perché monsieur de Chevreuse
era geloso di me.»
«A proposito di chi?»
«Quanti siamo in questo salone?
Una trentina. Ve la do mille a uno.
Fa trentamila.»
«Ci arrendiamo» disse Monsieur.
«Di sua moglie.»
Un immenso scoppio di risa
accolse la dichiarazione del conte.
«Ma con tutto questo» disse
madame de Montbazon, che temeva
che da sua sorella si passasse a lei,
«il conte non ha finito la storia del
suo assassinio.»
«Ah, ventre-saint-gris!, ma è
semplicissima. Madame de la
Montagne sarà compromessa se
rivelo che ero il suo amante?»
«Non più di madame de
Chevreuse» disse madame de Sablé.
«Ebbene, il povero Pisany era
convinto che a rendermi felice fosse
madame de Maugiron. Una certa
deviazione nella sua figura lo rende
suscettibile, certe verità che gli
rivela il suo specchio lo rendono
irascibile. Invece di sfidarmi a
duello, sfida che avrei accettato
molto volentieri, ha affidato la sua
causa a uno sgherro. Si è imbattuto
in uno sgherro onesto, che ha
rifiutato. Come vedete, non ha
fortuna. Ha cercato di uccidere lo
sgherro, e l’ha mancato. Ha cercato
di uccidere Souscarrières, che invece
non ha mancato lui. La storia è tutta
qui.»
«Eh no, che non è tutta qui»
insistette Monsieur. «Perché siete
andato a far visita a un uomo che ha
cercato di farvi uccidere?»
«Perché lui non poteva venire da
me. Sono di animo buono,
monsignore. Ho pensato che il
povero Pisany avrebbe potuto
credere che gliene volessi e che
questo gli avrebbe magari procurato
degli incubi. Allora sono andato a
stringergli lealmente la mano e a
dirgli che, se in futuro lui o
chiunque altro credesse di doversi
lamentare di me, non avrà che da
sfidarmi a duello. Sono soltanto un
gentiluomo e non mi riconosco il
diritto di rifiutare la riparazione a
nessuno che io possa avere offeso.»
Il giovane pronunciò queste
parole con tanta dolcezza, e insieme
tanta fermezza, che un mormorio di
approvazione rispose al suo sorriso
franco e leale.
Aveva appena concluso quando la
porta si aprì di nuovo e il
maggiordomo annunciò:
«Mademoiselle Isabelle de
Lautrec.»
La scortava un valletto vestito
della livrea del castello.
Nello scorgere la ragazza, il conte
di Moret provò uno strano
sentimento di attrazione e mosse un
passo come per avvicinarsi a lei.
Graziosa e rossa in viso, lei
avanzò verso la principessa Maria e,
inchinandosi profondamente davanti
alla sua poltrona, disse:
«Signora, Sua Maestà mi ha
lasciata libera perché venissi a
portare a Vostra Altezza una lettera
di mio padre, che contiene buone
notizie per voi, e approfitto del
permesso per deporre questa lettera
ai vostri piedi insieme ai miei
rispetti.»
Alle prime parole pronunciate da
mademoiselle de Lautrec, al conte di
Moret il cuore era balzato nel petto
e, afferrando la mano di madame de
Fargis e stringendola forte,
mormorò:
«Eccola, eccola!... è di lei che
sono innamorato.»
IV
Isabelle e Marina
Come aveva previsto il conte di
Moret senza conoscerla, senza
sapere il suo nome, grazie a quella
meravigliosa intuizione della
giovinezza che rende il sentimento
infallibile più dei sensi,
mademoiselle Isabelle de Lautrec
era di una bellezza perfetta, benché
del tutto diversa da quella della
principessa Maria.
Mentre questa era bruna con gli
occhi azzurri, Isabelle de Lautrec era
bionda con occhi, ciglia e
sopracciglia neri. La pelle, di
abbagliante candore, fine e
trasparente, aveva le delicate
sfumature di un petalo di rosa, il
collo un po’ lungo aveva
l’incantevole ondulazione che si
trova nelle donne del Perugino e
della prima maniera del suo allievo
Sanzio. Le mani affusolate, bianche
e sottili, sembravano modellate su
quelle della Ferronnière di Leonardo
da Vinci. 1 Lo strascico del vestito
non permetteva di intravedere
nemmeno l’ombra dei piedi ma lo
slancio, la flessuosità e la finezza
della figura lasciavano immaginare
che essi fossero in armonia con le
mani, cioè sottili, delicati e arcuati.
Mentre si inchinava davanti alla
principessa, lei la prese fra le braccia
e la baciò sulla fronte.
«Non sia mai» disse «che io lasci
curva davanti a me la figlia di uno
dei migliori servitori della nostra
casa, che per di più viene a portarmi
buone notizie. Ma dite, amata
figliola del nostro amico, vostro
padre ha detto che queste buone
notizie sono riservate a me o posso
renderne partecipi coloro che ci
vogliono bene?»
«Vedrete nel poscritto, signora,
che l’ambasciatore di Sua Maestà,
monsieur de La Saludie, lo autorizza
a diffondere largamente in Italia le
notizie che vi manda e che Vostra
Altezza può a sua volta farle
conoscere in Francia.»
La principessa interrogò con lo
sguardo madame de Combalet che
confermò con un impercettibile
cenno del capo quanto aveva appena
detto la bella messaggera.
Maria lesse prima la lettera per
conto suo.
Intanto la ragazza, che fino a quel
momento aveva guardato solo la
principessa e alla quale le venti o
trenta persone presenti erano
apparse come in un miraggio, si
voltò e si arrischiò, per così dire, a
percorrerle con gli occhi.
Quando il suo sguardo s’incrociò
con quello del conte di Moret,
ognuno dei due, accendendo e
lanciando allo stesso tempo la
scintilla elettrica che sottomette il
cuore alla sua potenza, ricevette e
inferse il colpo.
Isabelle impallidì e si appoggiò
alla poltrona della principessa.
Il conte di Moret si accorse del
suo turbamento e gli parve di sentire
il coro degli angeli intonare un canto
di gloria a Dio!
Annunciandola, il maggiordomo
ne aveva detto il nome; dunque, lei
apparteneva a quell’antica e illustre
famiglia dei Lautrec che le sue
storiche gesta innalzavano al livello
di quelle principesche.
Non aveva mai amato. Fino a quel
momento lui lo aveva sperato;
adesso ne aveva la certezza.
Nel frattempo, la principessa
Maria aveva finito di leggere.
«Signori» disse, «le notizie del
padre della mia cara Isabelle sono
che egli ha incontrato, quando è
passato da Mantova, monsieur de La
Saludie, inviato straordinario di Sua
Maestà presso i principi d’Italia.
Monsieur de La Saludie era
incaricato di significare al duca di
Mantova e al Senato di Venezia, in
nome del cardinale, la presa della
Rochelle. Doveva anche annunciare
che la Francia si preparava a
sostenere Casale e a garantire al
duca Charles de Nevers il possesso
dei suoi Stati. Passando da Torino,
aveva visto il duca Carlo Emanuele
di Savoia e in nome del re, suo
cognato, e del cardinale, lo aveva
invitato a desistere dalle sue mire sul
Monferrato. Era incaricato di offrire
al duca di Savoia, come
contropartita, la città di Trino con i
suoi dodicimila scudi di rendita, con
sovranità territoriale. Con analoghe
istruzioni, monsieur de Bautru si è
recato in Spagna e monsieur de
Charnacé in Austria, Germania e
Svezia.»
«Be’» disse Monsieur, «spero che
il cardinale non ci farà alleare con i
protestanti.»
«Mah» replicò il principe, «se
fosse il solo mezzo per far rimanere
in Germania Wallenstein e i suoi
banditi, da parte mia non avrei
nessuna riserva.»
«Ecco che parla il vostro sangue
ugonotto» ribatté Gaston d’Orléans.
«Pensavo che ci fosse esattamente
tanto sangue ugonotto nelle vene di
Vostra Altezza quanto nelle mie»
disse il principe ridendo: «da Enrico
di Navarra a Henri de Condé, l’unica
differenza è che la messa ha fruttato
il regno al primo e all’altro niente.»
«In ogni modo, signori»
intervenne il duca di Montmorency,
«questa è una grande notizia. E si ha
qualche idea su chi sia il generale
cui verrà affidato il comando
dell’esercito che si manda in Italia?»
«Ancora no» disse Monsieur, «ma
è probabile, caro duca, che il
cardinale, il quale ha comprato per
un milione la vostra carica di
ammiraglio per poter condurre come
voleva lui l’assedio della Rochelle,
comprerà per un altro milione, o
anche per due, se occorre, il diritto
di dirigere in prima persona la
campagna d’Italia.»
«Converrete, monsignore» disse
madame de Combalet, «che se la
dirigesse come ha diretto l’assedio
della Rochelle né il re né la Francia
avrebbero molto da recriminare e
che molti che chiederebbero un
milione invece di darlo non se la
caverebbero forse altrettanto bene.»
Gaston si morse le labbra. Dopo
essersi fatto dare cinquecentomila
lire per le spese della sua campagna,
all’assedio della Rochelle non si era
fatto vedere neanche un istante.
«Spero, monsignore» osservò il
duca di Guise, «che non vi lascerete
sfuggire questa occasione per far
valere i vostri diritti.»
«Se parteciperò io» disse
Monsieur, «parteciperete anche voi,
caro cugino. Ho ricevuto abbastanza
dalla casa di Guise, tramite le mani
di mademoiselle de Montpensier,
per essere felice di potervi provare
che non sono un ingrato. E anche
voi, caro duca» proseguì Gaston,
passando a Montmorency, «e ne
sarei tanto più compiaciuto in
quanto sarebbe per me una bella
occasione per riparare le ingiustizie
che fin qui vi sono state fatte. Fra le
armi di vostro padre si trova una
spada di connestabile che non mi
sembra debba essere troppo pesante
per il braccio del figlio. Solamente,
caro duca, non dimenticate che se
questo avvenisse mi farebbe piacere
vedere al vostro fianco, alle sue
prime prove d’armi, sotto un
maestro della vostra qualità, il mio
carissimo fratello, il conte di
Moret.»
Il conte s’inchinò. Quanto al duca,
che le dichiarazioni di Gaston
lusingavano nella sua massima
ambizione:
«Ecco parole» rispose «che non
sono seminate nella sabbia,
monsignore. E se l’occasione si
presenterà, Vostra Altezza vedrà che
ho buona memoria.»
Proprio allora, il maggiordomo
entrò da una porta laterale e disse
sottovoce qualcosa alla vecchia
duchessa di Longueville, che subito
uscì da quella stessa porta.
Gli uomini si riunirono attorno a
Monsieur. La certezza di una guerra,
certezza che avevano appena
acquisito – perché si sapeva che il
Savoiardo non avrebbe lasciato
sguarnito Casale, gli spagnoli non
avrebbero permesso che il
Monferrato venisse ripreso e
Ferdinando non avrebbe lasciato che
il duca di Nevers si stabilisse a
Mantova –, conferiva a Monsieur
particolare importanza. Era
impossibile che si organizzasse una
simile spedizione senza di lui e, in
quel caso, la sua alta carica
nell’esercito gli avrebbe concesso di
disporre di qualche interessante
comando.
Il maggiordomo rientrò dopo
pochi minuti e disse sottovoce
qualcosa alla principessa Maria, che
uscì insieme a lui dalla stessa porta
da cui era passata madame de
Longueville.
Madame de Combalet, che era
accanto a lei, udì il nome Vautier e
trasalì. Come si ricorderà, Vautier
era l’uomo segreto della regina
madre.
Cinque minuti dopo, lo stesso
maggiordomo andò a pregare
Gaston d’Orléans di raggiungere la
duchessa di Longueville e la
principessa Maria.
«Signori» disse, salutando i suoi
interlocutori, «non dimenticate che
io non conto nulla, che non ho altra
ambizione che quella di essere il
cavaliere della principessa Maria e
che, non contando nulla, non ho
promesso nulla a nessuno!»
E su queste parole, con il cappello
in testa e le mani nelle tasche delle
braghe, come sua abitudine, uscì
saltellando.
Appena fu uscito, il conte di
Moret, approfittando del generale
stupore provocato dalle sparizioni
successive della vecchia duchessa di
Longueville, della principessa Maria
e di Sua Altezza Reale Monsieur,
attraversò il salone, si diresse verso
Isabelle de Lautrec e, inchinandosi
davanti alla ragazza che, interdetta,
arrossiva:
«Signorina» le disse, «vi prego di
tenere per certo che esiste al mondo
un uomo che, la notte in cui vi ha
incontrata senza avervi vista, ha
giurato che vi sarebbe appartenuto
per la vita e per la morte, e che
questa sera, dopo avervi vista,
rinnova il suo giuramento.
Quest’uomo è il conte di Moret.»
E senza aspettare la risposta della
ragazza, ancora più rossa e interdetta
di prima, la salutò rispettosamente e
uscì.
Passando per un corridoio buio
che portava all’anticamera,
anch’essa piuttosto male illuminata,
com’era consuetudine a quel tempo,
il conte di Moret sentì un braccio
che s’infilava sotto il suo, poi,
proveniente da una cuffia nera
foderata di raso rosa un alito di
fiamma passargli sul viso, mentre
una voce gli diceva con accento di
dolce rimprovero:
«Così, ecco sacrificata la povera
Marina.»
Lui riconobbe la voce, ma più
ancora l’alito bruciante di madame
de Fargis che già una volta, alla
locanda della Barbe Peinte, gli
aveva sfiorato il viso.
«Il conte di Moret le sfugge, è
vero» disse chinandosi verso quel
fiato divorante che pareva uscire
dalla bocca della stessa Venere
Astartea, 2 «ma...»
«Ma, che cosa?» domandò lei
alzandosi sulla punta dei piedi
cosicché, malgrado l’oscurità, il
giovane poteva veder brillare nella
cuffia i suoi occhi come neri
diamanti e i suoi denti come un filo
di perle.
«Ma» continuò il conte di Moret
«Jacquelino rimane a lei e, se lei se
ne accontenta...»
«Se ne accontenterà» disse
l’incantatrice.
E il giovane subito sentì sulle
labbra il morso acre e dolce di
quell’amore che nell’antichità,
quando per ogni cosa c’era una
parola e per ogni sentimento un
nome, era stato chiamato Eros.
Mentre, barcollando sotto il
brivido voluttuoso che gli passava
nelle vene e che sembrava fargli
affluire verso il cuore fino all’ultima
goccia di sangue, Antoine de
Bourbon, con gli occhi serrati, la
bocca socchiusa, la testa rovesciata
all’indietro, si appoggiava alla
parete con un sospiro simile a un
gemito, la bella Marina liberava il
braccio dal suo e, leggera come
l’uccello di Venere, si slanciava
verso una portantina, dicendo:
«Al Louvre!»
«In verità» disse il conte di Moret
staccandosi dalla parete dove
sembrava incrostato, «viva la
Francia, per gli amori. Per lo meno,
ce n’è tutta una varietà. Sono tornato
da appena quindici giorni e sono già
impegnato con tre persone, pur
amandone davvero soltanto una. Ma,
ventre saint-gris!, non sono mica
figlio di Enrico IV per niente! E se
anche avessi sei amori invece di tre,
be’, si farebbe del proprio meglio!»
Ebbro, abbagliato, inciampando a
ogni passo, raggiunse lo scalone,
chiamò i suoi uomini, salì a sua
volta su una portantina e si fece
condurre all’hôtel de Montmorency
fantasticando sui suoi tre amori.

1 In realtà nel celebre dipinto di Leonardo da


Vinci del 1490-1495 (Ritratto di dama, detto La
Belle Ferronnière), oggi conservato al Louvre, le
mani non si vedono proprio. [NdT]
2 Astarte era una divinità fenicia, e di tutte le
nazioni semitiche, il cui culto comprendeva a
volte anche la prostituzione sacra; la greca
Afrodite, così come l’egizia Iside, è stata
identificata con lei. [NdT]
V
Dove monsignor Gaston,
come re Carlo IX, recita la sua
commediola
Vedendo la vecchia duchessa di
Longueville, la principessa Maria e
monsignor Gaston uscire dalla stessa
porta, chiamati dallo stesso
maggiordomo, il resto della
compagnia immaginò che fosse
accaduto qualcosa di straordinario e
– sia discrezione sia che l’ora
appena suonata, le undici, indicava il
momento della ritirata –, dopo aver
aspettato qualche minuto, se ne
andò.
Madame de Combalet stava
uscendo come gli altri quando il
maggiordomo, che sembrava spiare
il suo passaggio nel corridoio buio
di cui abbiamo già parlato, le disse
sottovoce:
«La signora duchessa vi sarebbe
molto grata se non ve ne andaste
prima di averla vista.»
E, al contempo, le aprì la porta di
un salottino dove avrebbe potuto
aspettare da sola.
Madame de Combalet non si era
sbagliata quando aveva creduto di
udire il nome di Vautier, che era in
effetti stato mandato da madame de
Longueville per avvertirla che la
regina madre sarebbe stata scontenta
di veder ripetersi le due o tre visite
che Gaston d’Orléans aveva già fatto
alla principessa Maria Gonzaga.
Era stato allora che madame de
Longueville aveva fatto chiamare la
nipote per metterla al corrente del
messaggio della regina madre.
Persona franca e leale, la
principessa aveva subito proposto di
chiamare il principe e di chiedergli
una spiegazione. Vautier avrebbe
voluto ritirarsi ma le due signore gli
ordinarono di rimanere e di ripetere
al principe i termini precisi che
aveva usato con loro.
Abbiamo visto come il principe
uscì dal salone.
Guidato dal maggiordomo, entrò
nello studio dove era atteso. Nello
scorgere Vautier, mostrò un lampo di
stupore, vero o finto che fosse;
lanciandogli uno sguardo duro e
avanzando verso di lui, gli
domandò:
«Che cosa fate qui, signore, e chi
vi ha mandato?»
Ovviamente Vautier sapeva che la
collera della regina madre era finta,
avendo letto insieme a lei il
consiglio del duca di Savoia che
stava appunto mettendo in pratica;
ma ignorava fino a che punto Gaston
fosse coinvolto in questo finto litigio
che doveva mettere sotto gli occhi di
tutti il disaccordo fra madre e figlio.
«Monsignore» disse, «io sono
solo l’umile servitore della regina,
vostra augusta madre, e devo di
conseguenza eseguire i suoi ordini.
Appunto dietro suo ordine vengo a
supplicare la signora duchessa di
Longueville e la signora principessa
Maria di non incoraggiare un amore
che contrasterebbe la volontà del re
e la sua.»
«Avete sentito, monsignore»
intervenne madame de Longueville.
«Un desiderio regale espresso in
questi termini somiglia a un’accusa.
Ci aspettiamo dunque dalla lealtà di
Vostra Altezza che Sua Maestà la
regina sia messa al corrente dei
motivi delle vostre visite e dello
scopo per il quale esse vengono
fatte.»
«Vautier» disse il duca con il tono
superlativamente altero che sapeva
assumere quando era il caso e che
anzi assumeva più spesso di quanto
non fosse il caso, «siete troppo
informato sugli eventi importanti
occorsi alla corte di Francia
dall’inizio del secolo per ignorare il
giorno e l’anno della mia nascita.»
«Dio me ne guardi, monsignore.
Vostra Altezza è nata il 25 aprile
1608.»
«Ebbene, signore, oggi è il 13
dicembre 1628, il che significa che
ho vent’anni, sette mesi e
diciannove giorni. Dunque, da sette
anni, sette mesi e diciannove giorni
sono uscito dalla tutela delle donne.
Non basta: una prima volta sono
stato sposato contro il mio volere.
Sono sufficientemente ricco per
rendere ricca mia moglie, se fosse
povera, abbastanza nobile per
rendere nobile lei se non lo fosse e,
la seconda volta, intendo – dal
momento che la ragione di Stato non
ha nulla a che vedere con un figlio
non primogenito –, intendo, la
seconda volta, sposarmi come voglio
io.»
«Monsignore» replicarono
insieme madame de Longueville e
sua nipote, «non vorrete, non
foss’altro che per riguardo nei nostri
confronti, che monsieur Vautier porti
a Sua Maestà la regina vostra madre
una simile risposta...»
«Monsieur Vautier, se gli sta
bene, può dire che non ho risposto e
allora, rientrando al Louvre,
risponderò io stesso alla mia signora
madre.»
E fece segno di uscire a Vautier,
che chinò la testa e obbedì.
«Monsignore...» disse madame de
Longueville.
Ma Gaston, interrompendola:
«Signora, già da diversi mesi,
meglio, da quando l’ho vista la
prima volta, amo la principessa
Maria. Il rispetto che nutro per lei e
per voi fa sì che non avrei
probabilmente confessato questo
sentimento prima dei miei ventun
anni, dato che da parte sua, grazie a
Dio, lei ha tutto il tempo di
aspettare, non avendo che sedici
anni. Ma visto che da una parte la
cattiva volontà di mia madre cerca
di allontanarmi da lei; visto che
dall’altra la politica esige che colei
che amo vada in sposa a un piccolo
e povero principe italiano, dirò a Sua
Altezza: signora, le mie guance
rosee non mi rendono adatto alla
galanteria in voga, cioè a mostrarmi
sofferente, a impallidire e a essere
sempre lì lì per svenire, ma non per
questo vi amo di meno. Spetta
dunque a voi riflettere sulla mia
offerta, poiché, naturalmente lo
capite, l’offerta del mio cuore è
quella della mia mano. Scegliete
quindi fra il duca di Rethel e me, fra
Mantova e Parigi, fra un piccolo
principe italiano e il fratello del re di
Francia.»
«Oh, monsignore» disse madame
de Longueville, «se foste libero
delle vostre azioni come un semplice
gentiluomo, se non dipendeste dalla
regina, dal cardinale, dal re...»
«Dal re, signora? Certo, dipendo
dal re, ma spetta a me ottenere il suo
consenso a questo matrimonio e me
ne faccio garante. Ma quanto al
cardinale e alla regina, saranno forse
loro, ben presto, a dipendere da me.»
«Come può essere, monsignore?»
chiesero le due signore.
«Oh, mio Dio, ve lo dirò» fece
Gaston affettando franchezza. «Mio
fratello Luigi XIII, sposato da tredici
anni e senza figli dopo tredici anni
di matrimonio, non ne avrà mai;
quanto alla sua salute, la conoscete
ed è evidente che un giorno o l’altro
lascerà a me il trono di Francia.»
«Quindi, monsignore» disse
madame de Longueville, «ritenete
che la morte del re vostro fratello
non possa tardare?»
La principessa Maria non parlava
ma, poiché il suo cuore che non
aveva preferenze lasciava che
l’ambizione germogliasse nella sua
giovane testa, non perdeva una
parola di quello che diceva
Monsieur.
«Bouvard lo considera ormai
perduto, signora, e si stupisce che
sia ancora vivo. E su questo gli
auguri sono d’accordo con
Bouvard.»
«Gli auguri?» domandò madame
de Longueville.
Maria si fece ancora più attenta.
«Mia madre ha consultato il
primo astrologo d’Italia, Fabroni, e
lui ha risposto che re Luigi avrebbe
detto addio al mondo prima che il
sole abbia percorso il segno del
Gambero dell’anno 1630. Gli dà
quindi diciotto mesi di vita. E la
stessa cosa è stata detta a me e a
diversi miei familiari da un medico
di nome Duval. È vero che mal
gliene è incolto perché il cardinale,
saputo che aveva fatto l’oroscopo
del re, lo ha fatto arrestare e
condannare segretamente alle galere,
in virtù delle antiche leggi romane
che vietano di cercare di sapere
quanti anni ha un principe da vivere.
Ebbene, signora, mia madre sa
queste cose. Mia madre, come la
regina e come me, si aspetta la
morte del suo primogenito. Ecco
perché, per avere su di me
l’influenza che ha avuto su mio
fratello, vuole che io sposi una
principessa toscana che le sarà
debitrice della corona. Ma non sarà
così. Lo giuro su Dio! Vi amo e, a
meno che voi non proviate per me
un’invincibile avversione, sarete mia
moglie.»
«Monsignore ha idea» domandò
la duchessa di Longueville «di che
cosa pensi il cardinale di Richelieu a
proposito di questo matrimonio?»
«Non preoccupatevi del cardinale,
sarà nostro.»
«E come?»
«Perbacco» fece il duca
d’Orléans, «per questo bisognerà
che mi diate una mano.»
«In che modo?»
«Il conte di Soissons è stanco del
suo esilio, no?»
«Non ne può più, ma su questo
argomento non si riesce a ottenere
niente da monsieur de Richelieu.»
«Be’, e se sposasse sua nipote?»
«Madame de Combalet?»
Le due signore si guardarono.
«Il cardinale» proseguì Gaston
«per imparentarsi con una casa reale
farebbe qualsiasi cosa.»
Le due signore si guardarono
un’altra volta.
«Monsignore sta parlando
seriamente?» domandò madame de
Longueville.
«Non potrei essere più serio.»
«Allora ne potrei parlare a mia
figlia, che ha grande influenza su
suo fratello.»
«Parlategliene, signora.»
Poi, rivolgendosi alla principessa
Maria:
«Ma tutto ciò, signora, non è che
un progetto vano se, in questo
complotto, il vostro cuore non si fa
complice del mio.»
«Vostra Altezza sa che sono
promessa al duca di Rethel» rispose
la principessa. «Personalmente non
posso fare nulla contro la catena che
mi lega e mi impedisce di parlare,
ma, il giorno in cui questa catena
fosse spezzata e la mia parola libera,
Vostra Altezza creda pure che non
avrà da lamentarsi della mia
risposta.»
La principessa fece una riverenza
e si preparò a uscire, ma Gaston le
afferrò una mano e, baciandola con
passione:
«Signora» le disse, «avete appena
fatto di me il più felice degli uomini
e non voglio nemmeno mettere in
dubbio il successo di un progetto dal
quale dipende la mia felicità.»
E mentre la principessa Maria
usciva da una porta, Gaston si
precipitava fuori dall’altra con lo
slancio di un uomo che ha bisogno
di cercare nell’aria aperta un
refrigerio alla propria passione.
Madame de Longueville,
ricordando di aver fatto pregare
madame de Combalet di aspettarla,
spinse una porta che si trovava di
fronte a lei e che, non essendo
chiusa, cedette alla prima pressione.
Fu sul punto di gettare un grido di
stupore trovandosi davanti la nipote
del cardinale, che il maggiordomo
aveva imprudentemente fatto entrare
nella camera accanto a quella dove
si era appena svolta quella
conversazione con monsignor
Gaston d’Orléans.
«Signora» attaccò la duchessa,
«tenendo monsignore il cardinale
per nostro amico e protettore, e non
volendo far nulla di misterioso o di
sgradevole nei suoi confronti, vi
avevo pregata di ascoltare la fine di
una spiegazione tra noi e la regina
madre, spiegazione provocata dalle
due o tre visite che Sua Altezza
Reale Monsieur ci ha fatto.»
«Vi ringrazio, cara duchessa»
disse madame de Combalet, «e vi
prego di credere che apprezzo la
delicatezza che vi ha suggerito di
aprire la porta di questo studiolo in
modo che non perdessi una parola
del vostro colloquio.»
«E» domandò la duchessa con una
certa esitazione «avete udito,
suppongo, tutta la parte che vi
riguardava? Quanto a me, a parte
l’onore di vedere mia nipote
duchessa d’Orléans, sorella del re,
forse regina, sarei molto felice,
signora, di vedervi entrare nella
nostra famiglia, e mia figlia e io
faremo uso di tutta la nostra
influenza sul conte di Soissons,
sempre ammesso che ce ne sia
bisogno, cosa di cui dubito.»
«Vi ringrazio, signora» rispose
madame de Combalet, «e apprezzo
al suo giusto valore l’onore che
sarebbe per me diventare la moglie
di un principe di sangue. Ma
rivestendo gli abiti vedovili ho fatto
due giuramenti: il primo, che non mi
sarei mai risposata; il secondo, che
mi sarei dedicata completamente a
mio zio. Manterrò i miei giuramenti,
signora, senza altro rimpianto,
credetemi, che quello che proverei
nel veder fallire il piano di Monsieur
a causa mia.»
E, salutando madame de
Longueville, si congedò con il più
cortese ma anche il più calmo
sorriso del mondo dall’ambiziosa
duchessa madre, che non si
capacitava di veder preferire un
giuramento all’orgogliosa
prospettiva di diventare contessa di
Soissons.
VI
Eva e il serpente
Come si ricorderà, madame de
Fargis aveva detto: «Al Louvre!». E,
obbedendo all’ordine, i suoi
portantini l’avevano depositata
davanti alla scala di servizio che
portava dal re e dalla regina e che
veniva aperta in sostituzione del
grande scalone quando questo
veniva chiuso, cioè alle dieci di sera.
Madame de Fargis riprendeva
quella sera stessa la sua settimana di
servizio presso la regina. La regina
le voleva molto bene, come ne
voleva a madame de Chevreuse. Ma
su madame de Chevreuse, che si era
distinta per un’infinità
d’imprudenze, il re e il cardinale
tenevano gli occhi aperti. Questa
donna sempre ridente era antipatica
a Luigi XIII che in vita sua non
aveva riso dieci volte, nemmeno da
bambino. Esiliata, come abbiamo
già detto, madame de Chevreuse,
l’avevano sostituita con madame de
Fargis, ancora più compiacente di
madame de Chevreuse: bella,
ardente, sfrontata, sembrava fatta
apposta per agguerrire la regina con
il suo esempio. A offrirle l’insperata
fortuna di essere sistemata presso la
regina era stata prima di tutto la
posizione del marito, monsieur de
Fargis d’Angennes, cugino di
madame de Rambouillet e
ambasciatore di Francia a Madrid,
ma quel che più di tutto l’aveva
aiutata nelle sue mire ambiziose era
stato il suo soggiorno di tre anni
dalle carmelitane di rue Saint-
Jacques, dove aveva stretto amicizia
con madame de Combalet, che
l’aveva raccomandata al cardinale.
La regina l’aspettava con
impazienza. Pur continuando a
rimpiangere, e anche a piangere,
Buckingham, l’avventurosa
principessa cominciava a desiderare,
se non avventure, almeno emozioni
nuove. Il suo cuore ventiseienne,
dove il marito non era mai stato
nemmeno tentato di occupare il
minimo spazio, chiedeva di essere
occupato da apparenze d’amore, in
mancanza di passioni reali, e, come
le arpe eoliche piazzate in cima alle
torri, gettava un grido, un lamento,
un suono gioioso, più spesso una
vaga vibrazione, a ogni refolo che
passava.
Inoltre il suo avvenire non le
sorrideva più del suo passato.
Tenersi caro quel re scontento, quel
triste padrone, quel marito privo di
desideri, era quanto di meglio le
potesse succedere. Dopo quella
morte, che sembrava tanto prossima
che tutti se l’aspettavano e ci erano
preparati, la cosa migliore per lei
sarebbe stata sposare il cognato: di
sette anni più giovane, Monsieur
cullava la speranza di prenderla in
moglie solo per paura che, in un
moto di disperazione o d’amore, la
regina trovasse alla sua condizione
un rimedio che avrebbe allontanato
per sempre lui dal trono, facendo lei
reggente.
E in effetti, in caso di morte del
re, Anna d’Austria aveva solo tre
possibilità: sposare Gaston
d’Orléans, essere reggente o venir
rimandata in Spagna.
Se ne stava dunque triste e
pensierosa in uno studiolo contiguo
alla sua camera, dove erano
ammessi solo gli amici più intimi e
le dame addette al suo servizio,
scorrendo con lo sguardo, senza
leggerla veramente, una nuova
tragicommedia di Guillén de Castro,
che le aveva dato monsieur de
Mirabel, l’ambasciatore spagnolo, e
che s’intitolava La giovinezza del
Cid.
Riconobbe madame de Fargis
dalla sua maniera di grattare alla
porta e, gettando lontano quel libro
che qualche anno dopo avrebbe
avuto tanta influenza sulla sua vita,
gridò con voce impaziente e allegra:
«Entrate!»
Così incoraggiata, più che entrare,
madame de Fargis fece irruzione
nello studiolo e cadde ai piedi di
Anna d’Austria, afferrandone le
belle mani e baciandole con un
trasporto che fece sorridere la
regina.
«Sai» le disse, «a volte
m’immagino, mia bella Fargis, che
tu sia un amante travestito da donna
e che un giorno o l’altro, quando
sarai ben sicura del mio affetto, mi
rivelerai improvvisamente la tua
vera identità...»
«Ebbene, se così fosse, mia bella
Maestà, mia graziosa sovrana»
replicò fissando su Anna d’Austria i
suoi occhi appassionati mentre, con i
denti serrati e le labbra socchiuse, le
stringeva le mani con un brivido
nervoso, «ne sareste proprio
disperata?»
«Oh sì, davvero disperata, perché
mi vedrei costretta a suonare e a farti
mettere alla porta, e così non ti
vedrei più, con mio grande
rammarico perché, insieme a
Chevreuse, sei la sola capace di
distrarmi.»
«Dio mio, che cosa selvaggia e
contro natura è mai la virtù, se
ottiene l’unico risultato di
allontanare l’uno dall’altro i cuori
che si amano, e quanto mi paiono
più vicini allo spirito divino le
anime indulgenti come la mia che
non le vostre ipocrite bacchettone
che prendono di traverso ogni
minimo complimento.»
«Sai che non ti vedo da una
settimana, Fargis?»
«Soltanto? Buon Dio, mia dolce
regina, a me sembra un secolo!»
«E che cos’hai fatto in questo
secolo?»
«Non molto di buono, mia cara
Maestà. Mi sono innamorata,
credo.»
«Credi?»
«Sì.»
«Mio Dio, che pazza sei a dire
cose simili e quanto meglio sarebbe
chiuderti la bocca con la mano alla
prima parola che dici.»
«Che Vostra Maestà ci provi e
vedrà come sarà ricevuta la sua
mano.»
Anna ridendo le mise sulle labbra
il palmo di una mano che madame
de Fargis, sempre in ginocchio
davanti a lei, baciò con passione.
Anna ritirò con gesto brusco la
mano.
«Non darmi baci così, bellezza,
mi metti la febbre addosso. E di chi
sei innamorata?»
«Di un sogno.»
«Come, di un sogno?»
«Ma sì, nella nostra epoca, l’età
dei Vendôme, dei Condé, dei
Grammont, dei Courtauvaux e dei
Baradas, è un sogno trovare un
giovane di ventidue anni bello,
nobile e innamorato.»
«Di te?»
«Di me, sì, forse. Però ne ama
un’altra.»
«Sei proprio matta, Fargis, e non
capisco niente di quel che mi dici.»
«Per forza, Vostra Maestà è una
vera e propria suora.»
«E tu che cosa sei, allora? Non
vieni fuori dalle carmelitane?»
«Certo, insieme a madame de
Combalet.»
«E dicevi che sei innamorata di
un sogno?»
«Sì, e voi lo conoscete anche, il
mio sogno.»
«Io?»
«Quando penso che, se sarò
dannata per questo peccato, avrò
perduto la mia anima per Vostra
Maestà...»
«Oh, mia povera Fargis, ci avrai
pur messo un po’ del tuo...»
«Vostra Maestà non lo trova
affascinante?»
«Ma chi, insomma?»
«Il nostro messaggero, il conte di
Moret.»
«Ah, in effetti sì, è un gentiluomo
degno di questo nome e mi è parso
un vero cavaliere.»
«Mia cara regina, se tutti i figli di
Enrico IV fossero come lui,
garantisco che il trono di Francia
non mancherebbe di eredi, come
accade in questo momento.»
«A proposito di eredi» disse
pensierosa la regina, «ti devo
mostrare la lettera che mi ha
consegnato. È di mio fratello Filippo
IV e contiene un consiglio che non
capisco bene.»
«Ve lo spiegherò io! Ci sono ben
poche cose che non capisco.»
«Sibilla!» disse la regina
guardandola con un sorriso che
indicava quanto lei fosse
assolutamente certa della sua
perspicacia.
E si mosse per alzarsi, con la sua
abituale disinvoltura.
«Posso risparmiare una fatica a
Vostra Maestà?» domandò madame
de Fargis.
«No, solo io conosco il segreto
del cassetto dove si trova la lettera.»
E si diresse verso un mobiletto
che aprì come si aprono tutti i
mobili, tirò a sé un cassetto, fece
scattare il segreto e prese nel doppio
fondo del cassetto la copia del
dispaccio che il conte le aveva
portato e che, oltre alla lettera
ufficiale di don Gonzalo di Cordoba,
ne conteneva, come si ricorderà, una
destinata alla sola regina.
Poi, con questa lettera, tornò a
prendere posto sulla specie di divano
dov’era seduta.
«Mettiti qui, vicino a me» disse a
Fargis.
«Come, sullo stesso sedile di Sua
Maestà!»
«Sì, dobbiamo parlare sottovoce.»
Madame de Fargis lanciò
un’occhiata sulla carta che la regina
teneva in mano.
«Vediamo» disse, «ascolto e mi
concentro. Intanto, che cosa dicono
quelle tre o quattro righe?»
«Niente. Mi consigliano di tenere
in Spagna tuo marito più a lungo
possibile.»
«Niente? Vostra Maestà chiama
niente una cosa simile? Ma è
importantissimo, invece. Certo che
monsieur de Fargis deve rimanere in
Spagna, e più a lungo possibile.
Dieci anni, venti, per sempre. Oh,
finalmente un uomo capace di dare
un buon consiglio! Vediamo l’altro,
e, se è all’altezza del primo, dichiaro
solennemente che Vostra Maestà ha
per consigliere re Salomone in
persona! Coraggio, avanti, avanti!»
«Non sarai mai seria, nemmeno
nelle cose più importanti?»
E la regina alzò piano le spalle.
«Ecco quello che mi dice mio
fratello Filippo IV.»
«E che Vostra Maestà non capisce
bene.»
«Che non capisco affatto, Fargis»
disse la regina affettando un’aria
perfettamente innocente.
«Vediamo un po’.»
«“Sorella mia”» lesse la regina,
«“il nostro caro amico monsieur de
Fargis mi ha messo a conoscenza del
progetto per cui, in caso di morte di
re Luigi XIII, andreste in sposa a
suo fratello ed erede al trono Gaston
d’Orléans.”»
«Gran brutto progetto» interruppe
madame de Fargis, «per cadere dalla
padella alla brace.»
«Aspetta!»
E la regina proseguì:
«“Ma sarebbe ancora meglio se al
momento di quella morte voi foste
incinta.”»
«Ah, certo!» mormorò madame
de Fargis, «questa sarebbe la cosa
migliore!»
«“Le regine di Francia”» continuò
Anna d’Austria, che pareva cercasse
il senso delle frasi che leggeva,
«“hanno sui loro sposi un grande
vantaggio: possono fare dei Delfini
senza di loro, e loro invece senza le
mogli non possono.”»
«È questo che Vostra Maestà non
capisce affatto?»
«Sì, o per lo meno mi sembra
impraticabile, mia buona Fargis.»
«Che disgrazia» disse madame de
Fargis alzando gli occhi al cielo,
«che disgrazia avere a che fare con
una donna troppo onesta in
circostanze come questa, quando c’è
di mezzo non soltanto la felicità di
una grande regina, ma la sorte di un
grande popolo!»
«Che cosa intendi dire?»
«Intendo dire che se nei giardini
di Amiens, vero?, voi aveste fatto
quello che avrei fatto io al vostro
posto, essendo con un uomo che
amava Vostra Maestà più della vita,
poiché ha dato la vita per lei, se,
invece di chiamare Laporte o
Putange, voi non aveste chiamato
proprio nessuno...»
«Ebbene?»
«Ebbene, forse adesso vostro
fratello non avrebbe bisogno di darvi
il consiglio che vi dà e quel Delfino
così difficile da fare sarebbe fatto.»
«Ma sarebbe stato un doppio
crimine!»
«Come può Vostra Maestà vedere
due crimini in un atto che le viene
consigliato non solo da un grande re,
ma da un re noto per la sua
devozione?»
«Prima avrei tradito mio marito, e
poi avrei messo sul trono di Francia
il figlio di un inglese.»
«Tanto per cominciare, tradire un
marito in tutti i paesi del mondo è un
peccato veniale, e Vostra Maestà
non ha che da guardarsi intorno per
essere certa che la maggioranza
delle sue suddite, se non dei suoi
sudditi, la pensa così. In secondo
luogo, tradire un marito come re
Luigi XIII, che non è un marito, o lo
è così poco che non mette conto
parlarne, non solo non è nemmeno
un peccato veniale, ma addirittura è
un’azione meritevole.»
«Fargis!»
«Ma sì, in fondo al cuore lo
sapete bene, signora, eppure non
siete ancora giunta al punto di
rimproverarvi quel disgraziato grido
che ha fatto tanto scandalo mentre il
silenzio avrebbe sistemato tutto...»
«Ahimè!»
«Ecco risolta la prima questione,
e il vostro “ahimè!” mi dà partita
vinta. Rimane la seconda, e lì sono
costretta a riconoscere che Vostra
Maestà ha assolutamente ragione.»
«Vedi!»
«Ma mettiamo per esempio che,
invece di avere a che fare con un
inglese, un uomo affascinante, ma
straniero, mettiamo che aveste avuto
a che fare con un uomo non meno
affascinante di lui» (Anna sospirò),
«un uomo di stirpe francese, meglio
ancora, di stirpe reale, un figlio di
Enrico IV, per esempio, mentre re
Luigi XIII, per i suoi gusti, le sue
abitudini, il suo carattere, ha tutta
l’aria di discendere da un certo
Virginio Orsini.»
«Fargis, credi anche tu a queste
calunnie?»
«Se si tratta di calunnie, in ogni
caso esse provengono dal paese di
Vostra Maestà. Mettiamo, insomma,
che il conte di Moret si fosse trovato
al posto del duca di Buckingham,
pensate che il crimine sarebbe stato
altrettanto grave o non si sarebbe
invece trattato di un mezzo di cui la
Provvidenza si sarebbe servita per
rimettere il vero sangue di Enrico IV
sul trono di Francia?»
«Ma Fargis, non sono innamorata
del conte di Moret, io!»
«Benissimo! in questo, signora,
consisterebbe l’espiazione del
peccato perché fareste un sacrificio
e, in questo caso, lo fareste più per
la gloria e la sorte della Francia che
per il vostro personale interesse!»
«Fargis, non capisco come una
donna possa darsi a un uomo che
non è suo marito e non muoia di
vergogna la prima volta che si trova
faccia a faccia con quell’uomo.»
«Signora, signora!» esclamò
Fargis, «se tutte le donne la
pensassero come Vostra Maestà,
quanti mariti sarebbero in lutto
senza sapere di che malattia sono
morte le loro mogli! Ma sì, un
tempo cose così sono accadute, ma,
dopo che sono stati inventati i
ventagli, simili incidenti sono
diventati molto meno frequenti.»
«Fargis, Fargis! Sei veramente la
persona più immorale del mondo e
dubito che persino la stessa
Chevreuse sia perversa quanto te. E
di chi è innamorato il tuo sogno?»
«Della vostra protetta Isabelle.»
«Di Isabelle de Lautrec, che me
l’ha portato qui l’altra sera? Ma
dove l’aveva vista?»
«Non l’aveva vista. L’amore è
nato giocando a mosca cieca con lei
nell’ombra dei corridoi e nei
salottini bui.»
«Povero ragazzo! Non andrà così
liscio il suo amore. Credo ci sia un
accordo tra suo padre e un certo
visconte di Pontis. Comunque ne
riparleremo, Fargis. Vorrei
ricompensare il servizio che mi ha
reso.»
«E anche quello che potrebbe
ancora rendervi.»
«Fargis!»
«Signora?»
«Incredibile, risponde tranquilla
come se non avesse detto delle
enormità! Vieni ad aiutarmi a
coricarmi, Fargis, ragazza mia.
Oddio, che stupidi sogni mi farai
fare con tutte le tue storie!»
E la regina, alzandosi, questa
volta, passò nella sua camera da
letto, ancora più languida e
indolente del solito, appoggiata alla
spalla della sua consigliera Fargis,
che si potrà accusare di molte cose
ma non certo di egoismo nei suoi
amori.
VII
Dove il cardinale usa a suo
vantaggio
il brevetto che ha concesso a
Souscarrières
Messo sull’avviso dal biglietto
trovato addosso al medico Senelle e
decifrato da Rossignol, nella scena
svoltasi dalla duchessa di
Longueville fra Monsieur, la
principessa Maria e Vautier – scena
che gli aveva riferito madame de
Combalet – il cardinale non aveva
visto altro che l’attuazione del
progetto concordato tra i suoi nemici
e l’entrata in campo di Maria de’
Medici.
Non c’era dubbio che la regina
madre fosse la sua più implacabile
avversaria – abbiamo spiegato
altrove le ragioni di tale odio – e che
fosse anche quella da cui aveva più
da temere per via dell’influenza che
conservava sul figlio e dei mezzi
oscuri di cui il suo ministro Bérulle
disponeva.
Dunque era Maria de’ Medici che
occorreva distruggere, era dalla sua
influenza fatale, che aveva
riconquistato al ritorno dall’esilio,
che bisognava purgare Luigi XIII,
da quella influenza e non da
quell’umor nero contro il quale
Bouvard si accaniva e che era la sua
vita stessa.
Esisteva un modo, terribile, per
ottenere questo scopo. Richelieu
aveva sempre esitato, ma gli
sembrava giunta l’ora dei rimedi
eroici: si trattava di dimostrare a
Luigi XIII l’incontestabile
complicità di sua madre nella morte
di Enrico IV. Luigi XIII aveva la
grande virtù di professare per Enrico
IV, fosse o non fosse suo padre, la
più totale venerazione e il massimo
rispetto.
Punendo Concini il giorno in cui
lo aveva fatto assassinare da Vitry
sul ponte levatoio del Louvre, aveva
punito più il complice dell’omicidio
del re che l’amante della madre e il
dilapidatore delle fortune francesi.
Ora, di una cosa egli era certo: nel
momento stesso in cui Luigi XIII
fosse stato convinto della complicità
della madre, lei non avrebbe avuto
davanti a sé altra possibilità che
riprendere la strada dell’esilio.
Non appena la pendola dello
studio batté le undici e mezza,
Richelieu prese quindi due
documenti che aveva già firmato e
sigillato alla sua scrivania, chiamò il
suo valletto, Guillemot, si tolse
l’abito rosso, il camice di pizzo e la
mozzetta di pelliccia, indossò un
semplice saio simile a quello di
padre Joseph, mandò a chiamare una
portantina, abbassò il cappuccio
sugli occhi, scese, montò sulla
portantina e ordinò di condurlo in
rue de l’Homme-Armé, alla locanda
della Barbe Peinte.
Da place Royale a rue de
l’Homme-Armé il tragitto era breve.
Imboccarono rue Neuve-Sainte-
Catherine, rue des Francs-
Bourgeois, voltarono a sinistra in
rue du Temple, a destra in rue des
Blancs-Manteaux e si trovarono in
rue de l’Homme-Armé.
Il cardinale osservò qualcosa che
gli parve fare onore a Soleil: benché
mezzanotte fosse suonata
all’orologio dei Blancs-Manteaux, la
locanda era ancora illuminata, come
se dovesse ricevere di notte
altrettanti ospiti che di giorno, e un
ragazzo era di sentinella, pronto a
riceverli se si fossero presentati.
Il cardinale ordinò ai suoi uomini
di aspettarlo all’angolo di rue du
Plâtre; poi, scendendo dalla
portantina, entrò nella locanda della
Barbe Peinte dove il ragazzo di
sentinella, scambiandolo per padre
Joseph, gli chiese se volesse vedere
il suo penitente Latil.
Il cardinale era andato lì apposta.
Dal momento che Latil non era
morto all’istante, se la sarebbe
cavata; del resto, in vita sua aveva
ricevuto talmente tanti colpi di spada
che si poteva dire che uno nuovo
doveva per forza attraversarne uno
vecchio.
Però Latil stava ancora molto
male, pur intravedendo già il
momento in cui, con la borsa del
conte di Moret in tasca, avrebbe
potuto farsi trasportare all’hôtel de
Montmorency.
Non aveva più visto padre Joseph,
cui si era confessato senza
conoscerlo, ma con suo gran stupore
aveva visto arrivare il medico del
cardinale, che, obbedendo alle
pressanti raccomandazioni del
segretario di Sua Eminenza, aveva
avuto di lui la massima cura, tanto
che Latil non sapeva a quale buona
sorte dovesse attribuire le premure
di cui era oggetto. Non lo si era
potuto lasciare sul tavolo e nella sala
bassa. Era stato trasportato al primo
piano, nonché in un letto; gli
avevano dato la camera numero 11,
contigua alla numero 13, che la bella
Marina – madame de Fargis, se
preferite – si era riservata per un
mese.
Latil si svegliò alla luce della
candela con cui il ragazzo di
sentinella faceva strada al cardinale
e la prima cosa che scorse al
chiarore di quella candela, che il
ragazzo lasciò su un tavolo nel
ritirarsi, fu una lunga figura grigia
che riconobbe come quella di un
cappuccino.
Per Latil, al mondo non c’erano
evidentemente altri cappuccini oltre
a quello che lo aveva confessato, e
anzi – lo dobbiamo dire anche a
costo di nuocere con questa
confidenza alla considerazione
religiosa che i nostri lettori possono
nutrire per il degno ferito –, anzi,
proprio a quella sera della
confessione risalivano le sue prime e
ultime relazioni con quel venerabile
ramo dell’albero di san Francesco,
tollerato, benché non approvato, dal
generale dell’Ordine.
Pensò dunque che il degno
cappuccino o lo credesse peggiorato
e venisse a confessarlo un’altra
volta, o lo credesse morto e venisse
per seppellirlo.
«Ahimè, padre, non abbiate fretta.
Grazie a Dio e alle vostre preghiere,
è avvenuto un miracolo a mio
vantaggio e pare che il povero
Étienne Latil potrà continuare a
essere un galantuomo a modo suo,
nonostante i marchesi e i visconti
che lo trattano da sgherro e da
bandito mettendosi in quattro contro
di lui.»
«So tutto del vostro encomiabile
comportamento, fratello mio, e
vengo a felicitarmene con voi, oltre
che a congratularmi per l’inizio della
vostra convalescenza.»
«Diavolo!» replicò Latil, «era così
urgente da dovermi svegliare a
quest’ora? E non potevate aspettare
che facesse giorno per venire a
congratularvi?»
«No» disse il cappuccino, «perché
dovevo parlare quanto prima e in
gran segreto con voi, fratello mio.»
«Affari di Stato?»
«Precisamente, affari di Stato.»
«Be’» continuò Latil, sempre
ridendo, per quanto glielo
concedevano le due ferite e le
quattro piaghe. «Non è che siete
l’Eminenza Grigia, per caso?»
«Meglio» rispose il cardinale
ridendo anche lui, «sono l’Eminenza
Rossa.»
E spinse indietro il cappuccio
perché Latil si rendesse ben conto di
chi aveva davanti.
«Acc...!» fece Latil tirandosi
indietro con un involontario moto di
terrore. «Per il mio santo patrono
lapidato alle porte di Gerusalemme,
siete proprio voi, monsignore!»
«Sì, e valutate l’importanza della
questione visto che, affrontando tutti
i rischi di un’uscita notturna e senza
scorta, vengo a parlare con voi.»
«Monsignore troverà in me un
obbediente servitore, finché le forze
me lo permetteranno.»
«Fate con calma e raccogliete i
vostri ricordi.»
Ci fu un attimo di silenzio, mentre
lo sguardo del cardinale si fissava su
Latil, come per penetrarne il
pensiero.
«Benché molto giovane, vi
sentivate molto amico del defunto
re, dato che avete rifiutato di
uccidere suo figlio, malgrado la
somma enorme che vi è stata
offerta.»
«Sì, monsignore, e devo dire che
la fedeltà che portavo alla sua
memoria fu una delle ragioni per cui
abbandonai il servizio di monsieur
d’Épernon.»
«Mi è stato assicurato che vi
trovavate proprio sul predellino
della carrozza quando il re fu
assassinato. Potete dirmi che cosa fu
fatto all’assassino in quel momento,
e dopo? E quanto il duca parve
colpito da quella catastrofe?»
«Ero al Louvre con il duca
d’Épernon, ma aspettavo nel cortile.
Alle quattro precise, il re scese.»
«Mi potete dire» domandò il
cardinale «se era triste o allegro?»
«Profondamente triste,
monsignore. Ma a questo proposito
devo raccontare tutto quello che
so?»
«Tutto!» disse il cardinale, «se ve
ne sentite la forza.»
«A rendere triste il re non erano
solo i presentimenti, ma le
predizioni. Immagino che le
conosciate, monsignore...»
«Non mi trovavo a Parigi a quel
tempo, vi arrivai solamente cinque
anni dopo. Quindi non so niente,
agite con me di conseguenza.»
«Bene, monsignore, vi racconterò
tutto, perché, a dire il vero, mi
sembra che la vostra presenza mi
restituisca le forze e che la vicenda
sulla quale mi interrogate sia grata al
Signore, il quale ha permesso la
morte del re, mio padrone, ma non
permette che rimanga impunita.»
«Coraggio, amico mio, vi state
incamminando su una via
benedetta.»
«Nel 1607» proseguì il ferito,
facendo uno sforzo visibile per
richiamare ricordi che la perdita di
sangue aveva cancellato dalla sua
memoria, «alla grande fiera di
Francoforte erano stati messi in
vendita diversi libri di astrologia nei
quali si diceva che il re di Francia
sarebbe morto nel suo
cinquantanovesimo anno d’età, cioè
nel 1610. Quello stesso anno, un
priore di Montargis trovò a più
riprese sull’altare avvertimenti che il
re sarebbe stato assassinato. Un
giorno, la regina madre venne a
trovare il duca nel suo palazzo. Si
chiusero in una camera, ma, curioso
come un paggio, mi infilai in uno
stanzino e sentii la regina dire che
un certo Olivé, dottore in teologia,
in un libro dedicato a Filippo III,
aveva previsto la morte del re per il
1610. Predizione di cui il re era a
conoscenza, e secondo la quale al
momento della morte Enrico IV
sarebbe stato in carrozza.»
«In tutto questo, non si parlò di un
certo Lagarde?» domandò il
cardinale. 1
«Sì, monsignore» disse Latil, «e
mi fate tornare in mente un dettaglio
che stavo dimenticando, dettaglio
che, oltre tutto, mise molto in
agitazione monsieur d’Épernon.
Questo Lagarde, tornando dalla
guerra contro i turchi, si era fermato
a Napoli, dove aveva alloggiato
presso un certo Hébert, ex segretario
di Biron. Poiché la morte di
quest’ultimo risaliva a soli due anni
prima, tutti i cospiratori implicati in
quel complotto erano ancora in
esilio. Hébert lo invitò una volta a
cena e durante la cena egli vide
entrare un uomo alto e viola, il quale
dichiarò che i rifugiati potevano
sperare di rientrare presto in Francia
perché prima della fine del 1610 lui
avrebbe ucciso il re. Lagarde aveva
chiesto il suo nome. Gli avevano
risposto che si chiamava Ravaillac e
che era un uomo di monsieur
d’Épernon.»
«Sì» disse il cardinale,
«conoscevo più o meno questa
storia.»
«Monsignore vuole che tagli
corto?»
«No, non tagliate una sola parola,
meglio saperne troppo che troppo
poco.»
«Quando Lagarde si trovava a
Napoli, lo avevano portato da un
gesuita, padre Alagon, che lo aveva
insistentemente spinto a uccidere
Enrico IV. “Scegliete un giorno di
caccia” gli diceva. Ravaillac avrebbe
colpito a piedi e lui a cavallo. Sulla
via del ritorno, ricevette una lettera
in cui gli si rinnovavano le stesse
proposte. Non appena a Parigi,
Lagarde portò la lettera al re: in essa
erano citati Ravaillac e d’Épernon.»
«Non avete saputo se il re fosse
rimasto impressionato da questa
comunicazione?»
«Oh, sì, molto impressionato. Al
Louvre nessuno sapeva da dove gli
venisse la sua tristezza. Conservò
questo fatale segreto per otto giorni.
Poi lasciò la corte, rimase solo a
Ivry, in una casetta del suo capitano
delle guardie. Infine, non resistendo
più, andò all’Arsénal e disse tutto a
Sully, pregandolo di far preparare
immediatamente un piccolissimo
alloggio, quattro camere, perché le
potesse cambiare.»
«E così quel re» mormorò
Richelieu, «quel re tanto buono, il
migliore che abbia avuto la Francia,
era ridotto, come quel Tiberio che
era un’onta per il mondo intero, a
cambiare ogni notte di camera per la
paura di essere assassinato! E io di
tanto in tanto ho il coraggio di
lamentarmi!»
«Infine, un giorno in cui il re
passava accanto agli Innocents, un
uomo vestito di verde, dall’aspetto
lugubre, gli gridò: “In nome di
Nostro Signore e della santa
Vergine, Sire, vi devo parlare. È
vero che combatterete contro il
papa?”. Il re voleva fermarsi e
parlare a quell’uomo. Glielo
impedirono. Erano tutte queste cose
a renderlo triste come un uomo che
va incontro alla morte, quel
disgraziato 14 maggio, quando lo
vidi scendere dallo scalone del
Louvre e salire in carrozza. Fu allora
che monsieur d’Épernon mi chiamò
e mi disse di salire sul predellino.»
«Vi ricordate» chiese Richelieu
«quante persone c’erano nella
carrozza e come erano disposte?»
«Tre persone, monsignore: il re,
monsieur de Montbazon e monsieur
d’Épernon. Monsieur de Montbazon
era a destra, monsieur d’Épernon a
sinistra, il re in mezzo. Distinsi
perfettamente allora un uomo che
stava appoggiato alle mura del
Louvre e aspettava come se avesse
saputo che il re doveva uscire. Nel
vedere la carrozza scoperta che gli
consentiva di riconoscere il re, si
staccò dalle mura, e ci seguì.»
«Era l’assassino?»
«Sì, ma non lo conoscevo. Il re
non aveva scorta. Dapprima aveva
detto che sarebbe andato a trovare
Sully, che era ammalato, poi, in rue
de l’Arbre-Sec; poi ci aveva
ripensato e aveva dato ordine di
recarsi da mademoiselle Paulet,
dicendo che voleva pregarla di
occuparsi dell’educazione di suo
figlio Vendôme, che manifestava
pessime inclinazioni italiane.»
«Continuate, su!» insistette il
cardinale. «È così che si riesce a non
dimenticare alcun dettaglio.»
«Oh, monsignore, è come se fossi
ancora lì. Era una giornata
magnifica. Erano circa le quattro e
un quarto. Benché tutti
riconoscessero Enrico IV, nessuno
gridava “Viva il re!”. Il popolo era
triste e diffidente.»
«Mentre si arrivava in rue des
Bourdonnais, monsieur d’Épernon
tenne occupato il re con qualche
cosa?»
«Ah, monsignore» esclamò Latil,
«sembra che ne sappiate quanto
me!»
«Vi ho detto che non sapevo
niente, invece. Andate avanti.»
«Sì, monsignore, gli diede una
lettera da leggere. Il re lesse e non
s’interessò più di quello che gli
accadeva intorno.»
«Ecco!» mormorò il cardinale.
«A più o meno un terzo di rue de
la Ferronnerie, una carrozza che
trasportava vino e una che
trasportava fieno s’incrociarono. Ci
fu un momento di difficoltà, il
cocchiere si tenne sulla sua sinistra e
il mozzo della ruota quasi toccò il
muro dei Saints-Innocents. Mi
strinsi contro la portiera per paura di
essere schiacciato. La carrozza si
fermò. Proprio allora un uomo salì
su un paracarro, mi scostò con una
mano e passando davanti a monsieur
d’Épernon, che si tirava indietro
come per lasciar passare il suo
braccio, colpì una prima volta il re.
“Soccorso” gridò il re, “sono
ferito!”, e alzò il braccio con cui
teneva la lettera, dando modo
all’assassino di colpire una seconda
volta. Colpì. Questa volta il re emise
solo un sospiro. Era morto. “Il re è
soltanto ferito!” gridò monsieur
d’Épernon coprendolo con il suo
mantello. Non vidi altro. Stavo
lottando con l’assassino che avevo
afferrato per l’abito e che mi
tagliuzzava le mani con il coltello,
ma non lo mollai finché non lo vidi
preso e solidamente legato. “Non
uccidetelo” gridò monsieur
d’Épernon, “e conducetelo al
Louvre!”»
Richelieu posò una mano su
quella del ferito, come per
interromperlo.
«Il duca ha gridato queste
parole?»
«Sì, monsignore, ma l’assassino
era già stato preso e non c’era più
pericolo che lo si uccidesse. Lo
trascinarono al Louvre. Io lo seguii.
Mi pareva che fosse una mia preda.
Lo indicai con le mani insanguinate
e gridai: “È lui, eccolo, ecco chi ha
ucciso il re”. “Quale? Quale?”
gridavano. “Quello vestito di
verde!” Si sentivano pianti, grida,
minacce contro l’assassino. La
carrozza del re non riusciva ad
avanzare, tanta era la folla intorno.
Davanti al magazzino per la custodia
dei mobili, riconobbi il maresciallo
d’Ancre. Un uomo gli annunciò la
notizia fatale, e lui rientrò in fretta
nel castello. Salì dritto
all’appartamento della regina, aprì la
porta e, senza fare nomi, come se lei
avesse dovuto sapere di chi si
trattava, gridò in italiano: “È
amazzato [sic]”.»
«È ammazzato!» ripeté Richelieu.
«Si accorda perfettamente con
quello che mi era già stato riferito. Il
resto, adesso.»
«L’assassino fu portato e deposto
all’hôtel de Retz, contiguo al
Louvre. Misero delle sentinelle di
guardia alla porta, ma non la
chiusero, perché tutti potessero
entrare. Mi piazzai lì. Mi sembrava
che quell’uomo appartenesse a me.
Raccontai quello che aveva fatto e
come si erano svolte le cose. Fra i
visitatori arrivò padre Coton, il
confessore del re.»
«Venne lì? Ne siete sicuro?»
«Ci venne, sì, monsignore.»
«Parlò con Ravaillac?»
«Sì.»
«Avete sentito che cosa gli
diceva?»
«Sì, certo, e posso ripeterlo parola
per parola.»
«Fatelo, allora!»
«Con aria paterna, gli diceva:
“Amico mio...”.»
«Chiamava Ravaillac amico
mio!»
«Sì. Gli raccomandava: “Amico
mio, badate di non far preoccupare
la gente perbene!”.»
«E l’assassino com’era?»
«Assolutamente tranquillo, come
uno che si sa solidamente
sostenuto.»
«Rimase all’hôtel de Retz?»
«No. Monsieur d’Épernon lo fece
portare da lui, dove restò dal 14 al
17. Ebbe così tutto il tempo di
vederlo e di parlare con lui quanto
voleva. Solamente il 17 lo
condussero alla Conciergerie.»
«Qual è l’ora precisa in cui il re fu
ucciso?»
«Le quattro e venti.»
«E a che ora si diffuse a Parigi la
notizia della sua morte?»
«Non prima delle nove. Alle sei e
mezza la regina era stata proclamata
reggente.»
«Una straniera, che ancora non
aveva smesso di parlare italiano»
osservò amaramente Richelieu,
«un’austriaca, bisnipote di Carlo V,
cugina di Filippo II, insomma la
Lega. Concludiamo con Ravaillac.»
«Nessuno meglio di me può
raccontarvi che cosa accadde. Gli
sono stato alle costole fino alla ruota
di tortura. Mi lasciavano fare,
dicevano: “È il paggio di monsieur
d’Épernon; è stato lui ad arrestare
l’assassino”, e le donne mi
abbracciavano, mentre gli uomini
gridavano frenetici: “Viva il re!”,
che era morto. Il popolo, che
all’inizio era restato calmo, come
stordito dalla notizia, era ormai
pazzo di rabbia. La gente si
raggruppava davanti alla
Conciergerie e, non potendo lapidare
il colpevole, lapidava i muri.»
«Non ha mai denunciato
nessuno?»
«Non durante gli interrogatori.
Per me, è chiaro che continuava a
credere che all’ultimo momento si
sarebbe salvato. Disse soltanto che i
preti di Angoulême cui si era rivolto,
confessando la propria intenzione di
uccidere un re eretico, lo avevano
assolto e, invece di distoglierlo dal
suo progetto, avevano aggiunto
all’assoluzione un piccolo
reliquiario che gli avevano detto
contenere un pezzo della vera croce.
Il reliquiario, aperto dai giudici in
sua presenza, non conteneva proprio
niente. Grazie a Dio, gli uomini non
avevano osato rendere Nostro
Signore Gesù complice di un
crimine come quello.»
«E lui che cosa disse vedendo che
lo avevano imbrogliato?»
«Si limitò a dichiarare:
“L’impostura ricadrà sul capo degli
impostori”.»
«Ho potuto vedere un verbale del
processo pubblico» disse il
cardinale. «Vi si dice: “Quanto
accadde durante l’interrogatorio è il
segreto della corte”.»
«Non ero presente
all’interrogatorio» rispose Latil, «ma
ero con il boia accanto alla ruota. La
sentenza stabiliva che il colpevole
dovesse essere squartato e torturato
con la tenaglia, ma non ci si fermò
lì. Il procuratore del re, monsieur La
Guesle, propose di aggiungere allo
squartamento il piombo fuso, l’olio
e la pece bollenti, accompagnati da
una mistura di cera e di zolfo. Il
tutto fu approvato entusiasticamente.
Se si fosse lasciata via libera al
popolo, se la sarebbe cavata in fretta
e in cinque minuti Ravaillac sarebbe
stato fatto a pezzi. Quando uscì di
prigione per recarsi verso il greto, si
levò una tale tempesta di urla di
rabbia, di maledizioni, di minacce,
che soltanto allora egli comprese
l’enormità del suo crimine. Sul
patibolo, si voltò verso il popolo,
chiese grazia e, con voce pietosa,
domandò che gli si offrisse, a lui che
si accingeva a soffrire tanto, la
consolazione di un Salve Regina.»
«E tale consolazione gli fu
concessa?»
«Sì, proprio! Come un sol uomo,
tutta la piazza gridò: “Giuda sia
dannato!”.» 2
«Proseguite» disse Richelieu.
«Stavate dicendo che eravate sul
patibolo accanto al boia?»
«Sì, mi era stato concesso questo
favore» rispose Latil, «in quanto
avevo arrestato, o almeno
contribuito ad arrestare,
l’assassino.»
«Ebbene» disse il cardinale, «mi
hanno appunto detto che sul patibolo
aveva reso delle confessioni.»
«Ecco che cosa accadde,
monsignore. Vostra Eminenza
comprende che, quando si è stati
presenti a uno spettacolo del genere,
possono passare giorni, mesi, anni,
ce lo si ricorda tutta la vita. Dopo i
primi tiri dei cavalli, tiri inutili
perché non erano riusciti a staccare
nemmeno un membro del corpo,
mentre facevano colare negli squarci
aperti sulle braccia, sul petto e sulle
cosce del piombo fuso, poi l’olio
bollente, lo zolfo acceso, quel corpo
che era tutto una piaga non resistette
al dolore e gridò al carnefice:
“Basta, basta! Parlerò”. Il boia si
fermò. L’usciere, che era ai piedi del
patibolo, vi salì e su un foglio
diverso da quello del verbale
dell’esecuzione scrisse quanto dettò
la vittima.»
«Ebbene» incalzò il cardinale, «in
quel momento supremo che cosa
confessò?»
«Volli avvicinarmi» disse Latil,
«ma me lo impedirono. Mi sembrò
solo di sentire il nome di d’Épernon
e quello della regina.»
«Ma quel verbale? Quel foglio
volante? Non ne avete mai sentito
parlare quando eravate dal duca?»
«Al contrario, monsignore, ne ho
sentito parlare spessissimo.»
«Che cosa se ne diceva?»
«Per il verbale dell’esecuzione, si
diceva che il relatore lo aveva messo
in una cassetta che aveva nascosto
nello spessore del muro al capezzale
del letto. Quanto al foglio volante,
era affidato, sempre secondo quanto
si diceva, alla famiglia Joly de
Fleury, che negava di averlo ma che,
con gran disperazione di monsieur
d’Épernon, lo aveva mostrato a
qualche amico: costoro, per via della
pessima scrittura dell’usciere, lo
avevano decifrato a fatica, ma alla
fine vi avevano letto i nomi del duca
e della regina.»
«E dopo che quel foglio fu
scritto?»
«Dopo che quel foglio fu scritto,
il processo riprese. Siccome i cavalli
forniti dalla polizia militare erano
dei ronzini pelle e ossa, senza la
forza di staccare le membra dal
corpo, un gentiluomo offrì il cavallo
che montava e che strappò via una
coscia al primo tiro. Siccome la
vittima era ancora viva, il boia
voleva finirlo, ma i lacchè di tutti i
signori che assistevano
all’esecuzione saltarono gli steccati
dietro cui si affollavano, si
arrampicarono sul patibolo e
crivellarono di colpi di spada quel
corpo mutilato. Allora anche il
popolo vi si avventò sopra, lo
ridusse in minuscoli pezzetti e andò
a ogni incrocio a bruciare la carne
del parricida. Rientrando al Louvre,
ho visto le guardie svizzere che
arrostivano una gamba sotto le
finestre della regina. Ecco!»
«È tutto quello che sapete?»
«Sì, monsignore, a parte che ho
sentito parecchie volte raccontare
come fu diviso il tesoro che Sully
fece tanta fatica a mettere insieme.»
«Questo lo so. Solo il principe di
Condé si prese quattro milioni, ma
questo non mi preoccupa più di
tanto. Torniamo alla vera questione
e ditemi se in mezzo a tutte quelle
storie avete mai sentito parlare di
una certa marchesa d’Escoman.»
«Altroché!» fece Latil. «Una
donnina un po’ gobba che da
ragazza si chiamava Jacqueline Le
Voyer detta de Coëtman e non
d’Escoman. Benché le si attribuisse
abitualmente quel titolo, non era
affatto marchesa, visto che suo
marito si chiamava Isaac de Varenne
e basta. Era l’amante del duca.
Ravaillac rimase sei mesi da lei. Fu
accusata di essere stata sua complice
nell’uccisione del re. A chiunque
volesse ascoltarla, raccontava che la
regina madre faceva parte del
complotto, ma che Ravaillac non lo
sapeva.»
«Che cosa ne è stato di quella
donna?» chiese il cardinale.
«È stata arrestata qualche giorno
prima della morte del re.»
«Lo so, è anche rimasta in
prigione fino al 1619, quando fu
portata via dalla prigione dove si
trovava e trasferita in un’altra, ma
non sono riuscito a sapere quale. Voi
lo sapete?»
«Monsignore ricorderà che nel
1613 una sentenza del Parlamento
mise fine a tutte le inchieste, “visto
il lignaggio degli accusati”. Quel
“visto il lignaggio degli accusati”
era una perpetua minaccia. Con
Concini ucciso e Luynes
onnipotente si sarebbe potuto
riprendere il processo e portarlo a
conclusione, ma Luynes preferì
riconciliarsi con la regina madre e
farsene un’alleata piuttosto che
rovinarla ed esporsi un giorno alla
collera di Luigi XIII. Aveva dunque
preteso dal Parlamento che la
sentenza fosse modificata a
vantaggio della regina, l’accusa
fosse dichiarata menzognera, Maria
de’ Medici e d’Épernon discolpati e
la Coëtman condannata.»
«Fu allora che lei sparì, infatti.
Ma quello che vi ho chiesto è in che
prigione sia stata portata:
probabilmente non lo sapete, visto
che non mi avete risposto.»
«Sì, invece, monsignore. Vi posso
dire dov’è o almeno dov’era, poiché
da nove anni solo Dio sa se è viva o
morta.»
«Dio permetterà che sia viva!»
esclamò il cardinale con una fede
così accesa da far facilmente intuire
quanta parte di quella certezza
dipendesse dal bisogno che aveva di
saperla viva.
E aggiunse:
«Ho sempre osservato che, più il
corpo soffre, più l’anima vi si
aggrappa.»
«Ebbene, monsignore» disse
Latil, «fu rinchiusa in un in pace
dove le sue ossa devono ancora
essere, se non c’è più la carne.»
«E voi sapete dove si trova questo
in pace?» incalzò il cardinale.
«È stato costruito apposta,
monsignore, in un angolo del cortile
delle Filles Repenties. Era una
tomba la cui porta fu murata alle sue
spalle. La si vedeva dietro una
finestra inferrata, le passavano da
mangiare e da bere attraverso le
sbarre.»
«E voi l’avete vista?»
«L’ho vista, monsignore.
Lasciavano che i bambini le
lanciassero pietre come a una bestia
feroce e come una bestia feroce lei
ruggiva, dicendo: “Mentono, non
sono stata io ad assassinarlo, sono
stati quelli che mi hanno fatto
chiudere qui”.»
Il cardinale si alzò.
«Non c’è un attimo da perdere»
esclamò. «Ho bisogno di quella
donna.»
Poi, a Latil:
«Guarite, amico mio, e una volta
guarito non preoccupatevi più del
vostro futuro.»
«Accidenti! Con una promessa
simile, monsignore, non mancherò»
disse il ferito. «Ma» aggiunse «era
ora.»
«Ora di che cosa?» domandò
Richelieu.
«Di concludere, monsignore. Mi
sento venir meno e... starò per
morire?...»
E con un sospiro lasciò ricadere la
testa sul guanciale.
Il cardinale si guardò attorno e
vide un flacone che a suo avviso
doveva contenere un cordiale. Ne
versò qualche goccia in un
cucchiaino e la fece inghiottire al
ferito che riaprì gli occhi con un
altro sospiro, ma questa volta di
sollievo.
Il cardinale posò allora un dito
sulle labbra per raccomandare il
silenzio a Latil, si ricoprì il volto
con il cappuccio del saio e uscì.

1 Correggiamo qui la lezione «duc»


dell’edizione francese, chiaramente erronea.
[NdT]
2 Per i dettagli più particolareggiati e curiosi
sull’assassinio di Enrico IV e la morte di
Ravaillac, si veda il volume del nostro grande
storico Michelet, intitolato Henri IV et Richelieu.
[NdA]
VIII
L’in pace
Era all’incirca l’una e mezza del
mattino, ma l’ora avanzata era per il
cardinale una ragione di più per
proseguire le sue indagini.
Presentandosi di giorno alla porta di
quell’infame convento dove si
ammassavano tutte le sgualdrine
raccolte nei luoghi malfamati di
Parigi, temeva che si facesse in
tempo, una volta conosciuto il
motivo della sua visita, a far sparire
colei che andava a cercarvi. Sapeva
quale velo Concini, la regina madre
e d’Épernon avessero cercato di
stendere, e avevano anzi steso, sul
terribile dramma dell’omicidio di
Enrico IV. Sapeva, e ne abbiamo
visto qualcosa nel capitolo
precedente, che le prove scritte
erano sparite. Temeva che facessero
sparire anche le prove viventi. Latil
era un filo conduttore che la mano
della morte poteva spezzare da un
momento all’altro. Aveva bisogno di
quella donna a casa della quale, a
quanto si diceva, Ravaillac aveva
vissuto sei mesi e che, per essere
entrata in quel segreto di Stato, era
morta, o stava morendo in un in
pace, una delle tombe inventate da
quei mirabili torturatori che
chiamano monaci, i quali cercano di
restituire in sofferenze fisiche al loro
prossimo le sofferenze fisiche e
morali che si sono imposte a un’età
in cui spesso non sono in grado di
sapere se avranno la forza di
sopportarle.
Rue de l’Homme-Armé, o meglio
rue du Plâtre, dove la bussola del
falso cappuccino lo aspettava, era
parecchio lontana da rue des Postes,
dove si trovava il convento delle
Filles Repenties, lo stesso luogo in
cui ci furono poi le Madelonnettes.
Ma il cardinale prevenne le
obiezioni dei portantini facendo
scivolare in mano a ognuno due
luigi d’argento. Rifletterono quindi
un momento sul percorso più breve
da seguire e cioè rue des Billettes,
rue de la Coutellerie, il pont Notre-
Dame, il Petit-Pont, rue Saint-
Jacques e rue de l’Estrapade, dalla
quale si arrivava a rue des Postes
dove, all’angolo con rue du
Chevalier, si trovava il convento
delle Filles Repenties.
Quando la bussola si fermò
davanti alla porta, alla chiesa Saint-
Jacques du Haut-Pas suonavano le
due.
Il cardinale sporse la testa e
ordinò a uno dei portantini di
suonare energicamente.
Il più alto dei due obbedì.
Dopo alcuni minuti, durante i
quali il cardinale, impaziente, aveva
fatto suonare il campanello altre due
volte, si aprì una specie di sportello
e la suora guardiana mise fuori la
testa, chiedendo che cosa volessero.
«Ditele che un padre cappuccino
inviato da padre Joseph deve parlare
con la superiora di cose della
massima importanza.»
Il portantino ripeté parola per
parola la frase del cardinale.
«Quale padre Joseph?» chiese la
guardiana.
«Mi sembra che ce ne sia uno
soltanto» intervenne una voce
imperiosa dall’interno della bussola.
«Il segretario del cardinale.»
La voce aveva un tale accento di
autorità che la guardiana non fece
altre domande, chiuse lo sportello e
scomparve.
Qualche istante dopo, la porta si
spalancava. La portantina poté
entrare sotto la volta del convento e
la porta che l’aveva fatta passare le
si richiuse dietro.
La bussola fu posata a terra e il
frate ne uscì.
«Scende la superiora?» domandò.
«Subito. Ma se Vostra Reverenza
è venuta qui soltanto per
intrattenersi con una delle nostre
prigioniere, non c’era bisogno di
svegliare per questo la madre
superiora: ho licenza di far entrare
nelle celle delle recluse ogni
servitore di Dio che porti la veste o
il saio.»
L’occhio del cardinale mandò un
lampo.
Allora quel che gli avevano
riferito era vero: le disgraziate che
venivano rinchiuse in quel convento
perché si pentissero delle loro colpe
vi trovavano invece il modo di
commetterne di nuove.
Il primo moto del severo
sacerdote era stato di rifiutare
l’offerta della guardiana. Ma,
riflettendo che in quel modo avrebbe
forse raggiunto più sicuramente e
più in fretta il suo scopo:
«Bene» disse, «conducetemi
allora alla cella di madame de
Coëtman.»
La guardiana fece un passo
indietro.
«Signore Gesù!» disse facendosi
il segno della croce. «Che nome mai
Vostra Reverenza ha pronunciato!»
«Mi sembra sia il nome di una
delle vostre prigioniere!»
La guardiana rimase in silenzio.
«Colei che voglio vedere è
morta?» chiese il cardinale con voce
malcerta, nel timore di ricevere una
risposta affermativa.
La guardiana continuava a tacere.
«Vi ho chiesto se è viva o morta»
insistette il cardinale con un tono in
cui si cominciava a sentir fremere
l’impazienza.
«È morta» disse una voce persa
nell’oscurità che proveniva dall’altra
parte della grata che dava accesso
alla parte interna del convento.
Il cardinale fissò uno sguardo
acuto dalla parte da cui veniva la
voce e, nelle tenebre, distinse una
forma umana che riconobbe per
essere una seconda monaca.
«Chi siete» domandò, «voi che
rispondete così perentoriamente a
una domanda che non era stata
rivolta a voi?»
«Sono colei cui spetta di
rispondere a domande di questo
genere, benché io non riconosca a
nessuno il diritto di farle.»
«E io sono colui che le fa» replicò
il cardinale «e al quale, volenti o
nolenti, si è tenuti a rispondere.»
Poi, rivolgendosi alla guardiana,
sempre immobile e silenziosa:
«Portate un lume» disse.
Non ci si poteva sbagliare sul
tono di colui che parlava, era la voce
ferma e imperativa dell’uomo che ha
il diritto di comandare.
La guardiana, dunque, senza
aspettare conferma dell’ordine che
le era impartito, rientrò e tornò
subito con una candela accesa.
«Ordine del cardinale» disse il
falso cappuccino togliendosi dal
petto un foglio che spiegò e sul
quale, sotto qualche riga di scrittura,
si vide brillare un grosso sigillo di
cera rossa.
E tese il foglio alla superiora, che
lo prese attraverso le sbarre della
grata.
Intanto la guardiana faceva
passare dalle sbarre la candela
accesa, così che la superiora potesse
leggere queste righe:
Per ordine del cardinale ministro, in
nome del potere spirituale e temporale, in
nome dello Stato e della Chiesa, si
ingiunge di rispondere a tutte le domande,
qualsiasi e su qualunque argomento esse
siano, che porrà il latore della presente e
di metterlo in contatto con la prigioniera
che indicherà.
13 dicembre dell’anno di grazia di
Nostro Signore Gesù Cristo 1628.
Armand, cardinale di Richelieu

«Davanti a un comando di questo


genere» disse la superiora, «posso
solamente inchinarmi.»
«Vogliate allora ordinare alla
suora guardiana di rientrare nella sua
cella e di chiudervisi.»
«Avete sentito, suor Perpetua?»
disse la superiora. «Obbedite.»
Suor Perpetua posò il candeliere
sul gradino più alto che portava alla
grata, tornò nella sua torre e vi si
chiuse dentro.
Da parte sua, il cardinale ordinò ai
suoi portantini di arretrare con la
bussola fino alla porta sulla strada e
di tenersi pronti a obbedirgli al
primo segnale.
La superiora intanto aveva aperto
la grata e il cardinale entrò nel
parlatorio.
«Perché, sorella, mi avete detto
che la dama di Coëtman era morta,
mentre non lo è?»
«Perché tengo per morto chiunque
una sentenza abbia separato dalla
società dei suoi simili.»
«Sono separati dalla società dei
loro simili soltanto coloro sui quali
si è richiusa la pietra della tomba.»
«La pietra della tomba si è
richiusa su quella di cui chiedete.»
«La pietra che si richiude su una
persona viva non è quella della
tomba, è la porta di una prigione, e
qualsiasi porta di prigione può
riaprirsi.»
«Anche quando» disse la monaca
guardando in faccia il religioso «una
sentenza del Parlamento ha ordinato
che quella porta rimanga chiusa per
tutta l’eternità?»
«Non ci sono sentenze sulle quali
la giustizia non possa tornare, e io
sono colui che il Signore ha inviato
sulla terra per giudicare i giudici.»
«Non c’è che un uomo in Francia
che possa parlare così.»
«Il re?» domandò il frate.
«No, ma colui che, inferiore a lui
per rango, gli è superiore per
ingegno, monsignor il cardinale di
Richelieu. Siete il cardinale in
persona? In questo caso obbedirò,
ma gli ordini che ho ricevuto sono
così perentori che resisterò a
chiunque altro.»
«Prendete il lume e conducetemi
alla tomba della dama di Coëtman,
che si trova nell’angolo sinistro in
fondo al cortile. Sono il cardinale.»
Spingendo indietro il cappuccio,
scoprì intanto quel volto che a chi lo
vedeva in certe circostanze faceva lo
stesso effetto di quello di Medusa
nell’antichità.
La superiora restò per un attimo
immobile, paralizzata non tanto
dalla resistenza quanto dallo
stupore; poi, con quell’obbedienza
passiva che un ordine di Richelieu
imponeva generalmente a colui cui
era rivolto, si chinò, prese il
candeliere e, con il braccio teso,
facendo strada, disse:
«Seguitemi, monsignore.»
Richelieu la seguì. Attraversarono
il cortile.
Era una notte tranquilla, ma
fredda e buia; le stelle brillavano nel
cielo scuro, con quegli scintillii che
annunciano il prossimo arrivo delle
gelate invernali.
La fiamma della candela saliva
dritta verso il cielo, senza che un
alito di vento la piegasse.
Intorno al prete e alla religiosa
c’era un cerchio di luce che si
spostava insieme a loro e che
illuminava, una dopo l’altra, le cose
verso cui avanzavano, lasciando
nell’ombra quelle che avevano
superato.
Scorsero infine una costruzione
tondeggiante come un marabutto
arabo. Al centro, ad altezza d’uomo,
si apriva un buco nero e quadrato, la
finestra. Avvicinandosi ci si
accorgeva che era chiusa da
un’inferriata dalle sbarre tanto
ravvicinate fra loro che ci passava a
stento un pugno.
«È lì?» domandò il cardinale.
«È lì» rispose la superiora.
E man mano che procedevano,
parve al cardinale che un volto
livido e due mani pallide incollate a
quelle sbarre se ne staccassero e
sparissero nell’oscurità interna del
sepolcro.
Il cardinale si avvicinò per primo
e, malgrado l’odore nauseabondo
che usciva da quella tomba, incollò a
sua volta il viso alle sbarre per
cercare di guardare dentro.
Ma il buio era così profondo che
poté distinguere solamente due luci
verdastre che brillavano
nell’oscurità come due occhi di fiera
selvatica.
Fece un passo indietro, prese la
candela dalle mani della superiora e
la passò attraverso le sbarre
all’interno della cella.
Ma l’aria era così mefitica,
spessa, tanto carica di miasmi che
penetrando nella cella la fiamma
della candela impallidì, si abbassò e
rischiò di spegnersi.
Il cardinale la tirò verso di lui e
all’aria aperta essa riprese la sua
vivacità.
Allora, per ripulire l’aria e
illuminare intanto l’interno di quella
tomba, il cardinale diede fuoco al
foglio su cui compariva l’ordine che
aveva firmato e di cui non aveva più
bisogno, dato che si era fatto
riconoscere, e gettò quella carta
fiammeggiante nella cella.
Malgrado la densità dell’aria, vi si
fece allora una luce sufficiente
perché il cardinale potesse vedere
contro il muro, di fronte alla porta,
una figura rannicchiata, i gomiti
sulle ginocchia, il mento sopra i
pugni; era completamente nuda, a
eccezione di un resto di veste che la
copriva dalla vita alle ginocchia; i
capelli le cadevano sulle spalle e
spazzavano le pietre umide del
pavimento.
Quell’essere livido, ripugnante,
tremante, guardava con occhi cavi,
fissi, quasi folli il frate che veniva a
cercarla nella sua notte.
A ogni alito le uscivano dal petto
gemiti regolari, faticosi come il
respiro di un’agonia. Tanto lunga e
persistente era stata la sofferenza
che il lamento si era regolarizzato in
un rantolo monotono e doloroso.
Per quanto poco sensibile al
dolore altrui nonché al proprio, a
quello spettacolo il cardinale
rabbrividì dalla testa ai piedi e
lanciò un’occhiata di minaccioso
rimprovero alla superiora, che
mormorò:
«Questo era l’ordine.»
«L’ordine di chi?» chiese il
cardinale.
«Della sentenza.»
«Che cosa diceva questa
sentenza?»
«Jacqueline Le Voyer, detta
marchesa di Coëtman, moglie di
Isaac de Varenne, sarà rinchiusa in
una cella di pietra che verrà murata
dietro di lei in modo che nessuno vi
possa entrare, e dove sarà nutrita
unicamente a pane e acqua.»
Il cardinale si passò una mano
sulla fronte.
Poi, avvicinandosi al finestrino
con la grata e, quindi, alla cella dove
il buio era tornato a regnare:
«Siete voi» chiese spingendo la
voce verso il punto della cella in cui
aveva visto la figura spettrale, «siete
voi Jacqueline Le Voyer, dama di
Coëtman?»
«Ho fame! ho freddo!» rispose la
voce, sottolineata da un doloroso
singhiozzo.
«Rispondete prima alla mia
domanda» insistette il cardinale.
«Oh, quando vi avrò detto che
sono quella che avete chiamato per
nome, mi lascerete morire di fame.
Da due giorni mi hanno dimenticata,
malgrado le mie grida.»
Il cardinale lanciò un’altra
occhiata alla superiora.
«L’ordine, l’ordine!» mormorò
lei.
«L’ordine era di nutrirla a pane e
acqua, non di lasciarla morire di
fame!»
«Perché si intestardisce a vivere?»
disse la superiora.
Il cardinale sentì salirgli alle
labbra qualcosa di simile a una
bestemmia.
Si fece il segno della croce.
«Bene» disse, «mi direte da chi è
venuto quest’ordine di lasciarla
morire o, lo giuro su Dio, prenderete
il suo posto in questa cella.»
Tornando poi alla miserabile che
era oggetto della discussione, il
cardinale dichiarò:
«Se mi assicurate di essere voi la
dama di Coëtman, se risponderete
lealmente e sinceramente alle
domande che vi devo fare, fra un’ora
avrete abiti, fuoco e pane.»
«Abiti! fuoco! pane!» esclamò la
prigioniera. «Su che cosa lo
giurate?»
«Sulle cinque piaghe di Nostro
Signore.»
«Chi siete?»
«Sono un prete.»
«Allora non vi credo. Sono nove
anni che i preti e le suore mi
torturano. Lasciatemi morire. Non
parlerò.»
«Ero un gentiluomo prima di
essere un prete» esclamò il
cardinale, «e giuro sulla mia parola
di gentiluomo.»
«E secondo voi» domandò la
prigioniera, «che cosa succederebbe
a chi venisse meno a questi due
giuramenti?»
«Perderebbe l’onore in questo
mondo e sarebbe dannato
nell’altro.»
«Ma sì» esclamò lei, «sì, accada
quel che accada, dirò tutto!»
«E se sarò soddisfatto di quello
che direte, insieme al pane, agli abiti
e al fuoco, riavrete la libertà.»
«La libertà!» esclamò la
prigioniera, lanciandosi contro
l’apertura, alla quale comparve il
suo volto sparuto, «sì, sono
Jacqueline Le Voyer, dama di
Coëtman! Sì, dirò tutto, tutto, tutto!»
Poi, come presa da un accesso di
gioiosa follia:
«La libertà!» urlò scoppiando a
ridere, ma di quel riso sinistro che
mette i brividi, e scuotendo le sbarre
con una forza insospettabile in quel
corpo magro e debilitato. «La
libertà! Oh! ma allora siete Gesù
Cristo in persona, per poter dire ai
morti: “Alzatevi e uscite dalle vostre
tombe!”.»
«Sorella» disse il cardinale
voltandosi verso la superiora,
«dimenticherò tutto se entro cinque
minuti vedrò qui degli strumenti con
cui aprire in questa tomba un varco
abbastanza grande da poterci far
passare questa donna.»
«Seguitemi» disse la superiora.
Il cardinale accennò un
movimento.
«Non vi allontanate, non vi
allontanate!» disse la prigioniera.
«Se vi porta via con lei, non
tornerete, non vi rivedrò più. Il
raggio del cielo che è sceso nel mio
inferno si spegnerà e io ripiomberò
nelle tenebre.»
Il cardinale stese la mano verso di
lei.
«State tranquilla, povera creatura»
disse. «Con l’aiuto di Dio il vostro
martirio volge alla fine.»
Ma lei, afferrando con le mani
scarnite la mano del cardinale e
trattenendola come dentro un
astuccio:
«Oh» esclamò, «la tengo, la
vostra mano! La prima mano
d’uomo che si sia tesa verso di me in
dieci anni! Le altre erano artigli di
tigre! Che tu sia benedetta, che tu sia
benedetta, mano umana!»
E la prigioniera ricoprì di baci la
mano del cardinale.
Lui non ebbe cuore di ritirarla e,
chiamando i suoi due portantini, che
accorsero:
«Seguite questa donna» disse,
indicando la superiora che, con la
candela in mano, li guidò a una
specie di cantina dove si tenevano
gli attrezzi per il giardino e da dove
uscirono cinque minuti dopo, il più
alto dei due con una vanga sulla
spalla e l’altro con in mano una
pinza.
Studiarono il muro e si misero al
lavoro nel punto in cui parve loro
meno spesso.
«E adesso che cosa devo fare,
monsignore?» domandò la
superiora.
«Andate a far riscaldare la vostra
camera» ordinò il cardinale, «e
preparate una cena.»
La superiora si allontanò.
Il cardinale poté seguirla con gli
occhi grazie alla candela accesa che
portava con sé. La vide rientrare nel
convento. Probabilmente non le era
nemmeno passato per la mente di
contrastare l’evento che si stava
svolgendo. Sapeva fin troppo bene
che al punto in cui si trovava, pur
essendo allora il potere del cardinale
ben lontano dall’aver raggiunto le
altezze cui sarebbe in seguito
arrivato, non poteva aspettarsi
misericordia se non da lui, essendo
ancora a quel tempo il suo potere
ecclesiastico più esteso di quello
temporale. Sotto entrambi i profili,
del resto, lei dipendeva interamente
da lui, dal potere temporale come
casa di correzione, da quello
ecclesiastico come convento.
Quando la prigioniera sentì
risuonare i colpi della vanga e lo
stridio della pinza sulla pietra, solo
allora credette alle promesse del
cardinale.
«Allora è vero, è vero!» esclamò.
«Oh, ditemi chi siete, perché io
possa benedirvi in questo mondo e
nell’aldilà!»
Ma quando udì cadere le prime
pietre all’interno, quando i suoi
occhi, abituati alle tenebre come
quelli degli uccelli notturni, videro
infiltrarsi nella sua tomba non la
luce ma l’oscurità trasparente che si
faceva strada da un’apertura diversa
rispetto a quella finestrella sbarrata
che da nove anni le offriva tutta la
luce che i suoi occhi potevano
vedere, tutta l’aria che il suo petto
poteva respirare, lasciò la mano del
cardinale e, a rischio di farsi
spezzare le mani dalla vanga, afferrò
le pietre scuotendole con tutte le sue
forze, cercando di smuoverle per
affrettare l’opera della sua
liberazione.
Ancor prima che il buco fosse
abbastanza grande per permetterle di
uscire, mise fuori la testa, poi le
spalle, senza preoccuparsi di ferirle,
gridando:
«Aiutatemi, aiutatemi, dunque!
tiratemi fuori dalla mia tomba, miei
liberatori benedetti, miei amati
fratelli!»
E poiché, grazie ai suoi sforzi, era
già uscita per metà, presero da sotto
le braccia quel corpo che aveva il
colore e la freddezza della pietra
dalla quale sembrava spuntare e lo
tirarono verso di loro.
Il primo moto di quella povera
creatura quando fu uscita, quando
ebbe respirato a pieni polmoni
un’aria pura, quando ebbe teso le
braccia verso le stelle con un
doloroso grido di gioia, fu di cadere
in ginocchio per ringraziare Dio;
poi, vedendo ritto a due passi da lei
il suo salvatore, tese le braccia dalla
sua parte e si slanciò verso di lui con
un grido di riconoscenza.
Ma lui, sia per pietà di quella
donna mezza nuda sia per pudore
personale, si era già tolto il saio da
frate che, per poter essere messo e
tolto più in fretta, era aperto davanti
dall’alto in basso e glielo aveva
posato sulle spalle, rimanendo con
l’abito che aveva sotto, un insieme
da cavaliere, nero con nastri viola.
«Copritevi con questa veste,
sorella» le disse, «mentre aspettiamo
gli abiti che vi sono stati promessi.»
Poi, siccome lei barcollava, per
l’emozione e perché le forze le
venivano meno:
«Brava gente» disse ai portantini
dando loro una borsa che poteva
contenere il doppio di quanto aveva
promesso loro, «prendete questa
donna troppo debole per camminare
e portatemela nella camera della
superiora.»
Poi, salendo in quella camera
dove, secondo i suoi ordini, un gran
fuoco fiammeggiava nel camino e
due candele erano accese su un
tavolo:
«Ora» disse alla superiora, «carta,
penna e inchiostro, e andatevene!»
La superiora obbedì.
Il cardinale, rimasto solo, si
sedette al tavolo, mormorando:
«Questa volta credo che lo spirito
divino sia con me.»
In quel momento, il più alto dei
due uomini portò fra le braccia,
come fosse un bambino, la
prigioniera svenuta e la depose,
avvolta nel saio da frate, poco
lontano dal fuoco, dove gli indicava
il cardinale.
Poi, salutando rispettosamente
come se, conoscendo la grandezza
del ruolo, vi aggiungesse quella
dell’azione, uscì.
IX
Il racconto
Il cardinale rimase solo con quella
povera creatura inanimata che si
sarebbe potuta credere morta se
tremiti nervosi non avessero agitato
di tanto in tanto la veste di grosso
panno che la avvolgeva mostrando
della sua persona solamente il
rilievo del corpo, più simile a quello
di un cadavere che a quello di un
essere vivente.
Ma a poco a poco la benefica
influenza del fuoco si fece sentire, il
saio si mosse più di frequente.
Tendendosi istintivamente verso il
fuoco, dalle maniche uscirono due
mani, che si sarebbero prese per
quelle di uno scheletro se le unghie
smisuratamente lunghe non le
avessero indicate come appartenenti
a un corpo che non aveva ancora
esaurito le sue sofferenze in questo
mondo. Poi apparve il volto: pallido,
le orbite degli occhi ingrandite dalla
sofferenza, cerchiate di nero fino a
metà delle guance, le labbra tirate
verso l’alto e verso il basso che
mostravano i denti serrati, un volto
rinsecchito come quello di una
tartaruga che sporge dal carapace.
Le gambe si tesero nella stessa
direzione, lasciando vedere
all’estremità della veste due piedi di
marmo. Poi, con un movimento
tanto rigido da parere meccanico, il
corpo si ritrovò seduto e, sorde come
uscissero dal petto di un morto, si
udirono queste parole:
«Dio, com’è bello il fuoco!»
E come un bambino che non ne
conosce il pericolo, insensibilmente
si avvicinò a quel fuoco, di cui le
sue membra raggelate misuravano
male il calore.
«State attenta, sorella» disse il
cardinale, «vi bruciate.»
La dama di Coëtman trasalì e si
girò tutta dalla parte da cui
proveniva la voce. Non aveva visto
che nella stanza ci fosse un’altra
persona oltre a lei, o meglio non
aveva visto nient’altro al di fuori di
quel fuoco che la attirava con la
vertigine di un abisso.
Guardò per un attimo il cardinale,
che non riconobbe nei suoi abiti da
cavaliere, avendolo visto solo vestito
da frate.
«Chi siete?» gli domandò.
«Conosco la vostra voce, ma non
voi.»
«Sono quello che per ora vi ha
dato una veste e del fuoco, e che vi
darà del pane e la libertà.»
Lei cercò di ricordare, sforzando
la memoria:
«Oh, sì» disse, trascinandosi
verso il cardinale, «sì, mi avete
promesso tutto questo.»
Poi si guardò attorno e,
abbassando la voce:
«Ma sarete in grado di mantenere
quello che avete promesso? Ho
nemici terribili e potenti.»
«State tranquilla, il vostro
protettore è più terribile e potente di
loro.»
«Chi è?»
«Dio.»
La dama di Coëtman scosse il
capo.
«È da molto che si è dimenticato
di me.»
«Sì, ma quando si ricorda non
dimentica più.»
«Che fame!» disse lei.
In quel momento, come se avesse
impartito un ordine immediatamente
eseguito, la porta si aprì ed
entrarono due religiose, con del
pane, del vino, una tazza di brodo e
un pollo freddo.
Nel vederle, la dama di Coëtman
lanciò un urlo di spavento.
«Oh, i miei carnefici!» gridò.
«Proteggetemi!»
E andò ad accovacciarsi dietro la
poltrona del cardinale, per mettere il
suo sconosciuto difensore tra lei e le
religiose.
«Quello che ho portato è
sufficiente, monsignore?» domandò
dalla soglia la madre superiora.
«Sì, ma potete ben vedere quale
terrore ispirino le vostre suore alla
prigioniera. Ordinate loro di posare
quello che hanno portato su quel
tavolo e di ritirarsi.»
Le religiose misero il brodo, il
pollo, il pane, il vino, il bicchiere
sull’estremità del tavolo opposta a
dove si trovava la dama di Coëtman.
C’erano un cucchiaio nella tazza,
una forchetta e un coltello nel piatto
del pollo.
«Venite» disse la superiora alle
sue monache.
Si diressero tutte e tre verso la
porta.
Il cardinale alzò un dito. La
superiora, inteso che quel gesto era
rivolto a lei, si fermò.
«Considerate che io assaggerò
tutto ciò che questa donna mangerà
e berrà» disse.
«Fatelo senza timore,
monsignore» rispose la superiora.
E uscì, con una riverenza.
La prigioniera aspettò che la porta
si richiudesse e subito allungò un
braccio scarnito verso il tavolo, che
guardava intanto con avidità.
Ma il cardinale s’impadronì della
tazza di brodo, da cui bevve due o
tre sorsi prima di rivolgersi
all’affamata che, le braccia tese
verso di lui, lo covava con lo
sguardo.
«Avete detto che sono due giorni
che non mangiate?»
«Sì, monsignore.»
«Perché mi chiamate
monsignore?»
«Ho sentito che la superiora vi
chiamava così e del resto dovete
essere un grande della terra per
osare prendere le mie difese come
state facendo.»
«Se non mangiate da tre giorni,
ragione di più per prendere tutte le
precauzioni. Tenete questa tazza, ma
bevete il brodo a cucchiaiate.»
«Farò quello che ordinate,
monsignore, in ogni cosa e per
sempre.»
Prese avidamente la tazza dalle
mani del cardinale e portò alla bocca
la prima cucchiaiata di brodo.
Ma la gola sembrava essersi
chiusa, lo stomaco ristretto; il brodo
fu inghiottito con difficoltà e dolore.
A poco a poco, però, la difficoltà
si attenuò e dopo la quinta o sesta
cucchiaiata lei poté bere quel che
restava direttamente dalla tazza.
Quando finì, era così debole che
un sudore freddo le bagnò la fronte e
fu sul punto di svenire.
Il cardinale le versò un quarto di
bicchiere di vino, raccomandandole,
dopo averlo assaggiato anche lui, di
berlo a piccoli sorsi.
Lei bevve a più riprese. Le guance
si tinsero di un colore febbrile e,
portandosi una mano al petto:
«Oh» disse, «è fuoco quel che ho
bevuto!»
«Ora» le disse il cardinale,
«riprendetevi un poco, parliamo.»
E, avvicinando per lei una
poltrona all’angolo del camino, la
aiutò a sedervisi.
Nessuno, nel vedere quell’uomo
che dedicava a quel povero relitto
umano le premure di un infermiere,
avrebbe certo potuto riconoscere in
lui il prelato terribile, il terrore della
nobiltà francese, colui che faceva
cadere le teste che la monarchia non
avrebbe nemmeno tentato di far
chinare.
Si potrebbe obiettare che dietro la
sua misericordia si celava
l’interesse. Ma risponderemo che,
quando è necessaria, la crudeltà
politica diviene giustizia.
«Ho ancora tanta fame» disse la
povera donna, lanciando verso il
tavolo un’occhiata avida.
«Fra poco» disse il cardinale
«mangerete. Intanto, io ho
mantenuto la mia promessa: avete
caldo, fra poco mangerete, avrete
degli abiti, sarete libera. Mantenete
la vostra.»
«Che cosa volete sapere?»
«Come avete conosciuto
Ravaillac e dove lo avete visto per la
prima volta?»
«A Parigi, in casa mia. Ero la più
intima confidente di madame
Henriette d’Entragues. Ravaillac era
di Angoulême e abitava lì, in place
du Duc-d’Épernon. C’erano state
due brutte faccende. Accusato di un
omicidio, era stato un anno in
prigione, poi era stato assolto, ma in
prigione si era indebitato. Ne uscì
solo per ritornarvi.»
«Avete mai sentito parlare delle
sue visioni?»
«Me le raccontò lui stesso. La
principale, che fu anche la prima, fu
questa. Una volta che accendeva il
fuoco, con la testa china, vide un
ramo di vite che cambiava forma.
Divenne la tromba sacra
dell’arcangelo. Si adattò da sola alla
sua bocca e, senza che lui dovesse
soffiarci dentro, suonò alla guerra
santa, mentre torrenti di ostie gli
uscivano da destra e da sinistra della
bocca.»
«Non aveva studiato teologia?»
domandò il cardinale.
«Si era limitato a studiare quella
formula di diritto secondo cui ogni
cristiano ha diritto di uccidere un re
nemico del papa. Quando uscì di
prigione, monsieur d’Épernon,
sapendo che era un uomo di fede
visitato dallo spirito del Signore e
che era stato praticante presso suo
padre, sollecitatore di processi, lo
mandò a seguire un processo a
Parigi. Siccome doveva passare per
Orléans, gli fornì delle
raccomandazioni per monsieur
d’Entragues e per sua figlia,
Henriette: e loro gli affidarono una
lettera perché a Parigi alloggiasse da
me.»
«Che effetto vi fece la prima volta
che lo vedeste?» domandò il
cardinale.
«Dapprima il suo volto mi
spaventò. Era un uomo grande e
grosso, ben piantato, con i capelli
rosso scuro e una carnagione
nerastra. Quando lo vidi, mi parve di
vedere Giuda. Ma dopo aver aperto
la lettera di madame Henriette e
letto che era un uomo molto
religioso, e dopo essermi resa conto
di persona che era di carattere
dolcissimo, la paura mi passò.»
«E partì da casa vostra per andare
a Napoli, vero?»
«Sì, per conto del duca
d’Épernon. Si recò a mangiare da un
certo Hébert, segretario di Biron, e
annunciò che avrebbe ucciso il re:
era la prima volta che lo diceva.»
«Sì, questo lo so già. Un certo
Latil mi ha raccontato la stessa cosa.
Lo avete conosciuto?»
«Sì, certo, all’epoca in cui fui
arrestata era il valletto di monsieur
d’Épernon. Deve sapere parecchie
cose anche lui.»
«Quello che sa me l’ha detto.
Continuate.»
«Ho molta fame» disse la dama di
Coëtman.
Il cardinale le versò un bicchiere
di vino e le permise di inzupparci un
pezzo di pane. Dopo aver bevuto di
quel vino e mangiato di quel pane,
lei si sentì riconfortata.
«Lo avete visto dopo il suo
ritorno da Napoli?» domandò il
cardinale.
«Chi? Ravaillac? Sì, fu allora che
in due occasioni, il giorno
dell’Ascensione e quello del Corpus
Domini, mi disse tutto, e cioè che
era deciso a uccidere il re.»
«E che faccia aveva nel farvi
questa confidenza?»
«Piangeva, dicendo che era pieno
di dubbi, ma che vi era costretto.»
«Da che cosa?»
«Dalla riconoscenza che doveva a
monsieur d’Épernon, il quale faceva
assassinare il re per salvare la regina
madre dal pericolo in cui si
trovava.»
«E qual era questo pericolo?»
«Il re voleva far processare
Concini per concussione, facendolo
condannare all’impiccagione, e la
regina madre per adulterio,
facendola tornare a Firenze.»
«E dopo queste confidenze, che
cosa decideste di fare?»
«Siccome Ravaillac a quell’epoca
non sapeva che la regina madre
partecipasse alla congiura, pensai di
dirle ogni cosa. Avevo scritto al re
per chiedergli udienza, ma non mi
aveva risposto. E, in effetti, allora
aveva tutt’altro per la testa: il suo
amore per la principessa di Condé
era al culmine. Scrissi dunque alla
regina, e per tre volte, che avevo
un’importante informazione da darle
riguardo alla salvezza del re, e mi
offrivo di fornirgliene tutte le prove.
La regina mi fece rispondere che
aspettassi tre giorni, poi mi avrebbe
ascoltato. I tre giorni passarono, il
quarto lei partì per Saint-Cloud.»
«Tramite chi vi fece dire queste
cose?»
«Tramite Vautier, che a quel
tempo era il suo farmacista.»
«E allora che cosa avete
pensato?»
«Che Ravaillac si sbagliava e che
la regina madre partecipava alla
congiura.»
«E allora?»
«Allora, siccome ero decisa a
salvare il re a ogni costo, andai dai
gesuiti di rue Saint-Antoine a
chiedere del confessore del re.»
«Come vi hanno accolta?»
«Malissimo.»
«Lo avete trovato, padre Coton?»
«No, padre Coton era uscito. Mi
ha ricevuto il padre procuratore, che
mi ha risposto che ero una
visionaria. “Avvertite almeno il
confessore di Sua Maestà” gli ho
detto. “E perché?” mi ha risposto.
“Ma se uccidono il re!” ho gridato.
“Impicciatevi degli affari vostri.”
“Badate!” ho insistito, “se succede
una disgrazia al re, vado dritta dai
giudici e riferisco che non mi avete
ascoltata.” “Andate direttamente da
padre Coton, allora.” “Dov’è?” “A
Fontainebleau. Inutile che ci andiate,
ci andrò io stesso.” Il giorno dopo,
siccome non mi fidavo della parola
del padre procuratore, presi una
carrozza a nolo e stavo dirigendomi
verso Fontainebleau quando fui
arrestata.»
«Come si chiamava il procuratore
dei gesuiti?»
«Padre Philippe. Ma dalla
prigione ho scritto ancora due lettere
alla regina e una delle due sono
sicura che lei l’ha ricevuta.»
«E l’altra?»
«E l’altra l’ho mandata a
monsieur de Sully.»
«Per che tramite?»
«Quello di mademoiselle de
Gournay.»
«Credo di conoscerla, una vecchia
signorina che si occupa di libri?»
«Proprio lei. Andò a trovare
monsieur de Sully all’Arsenal, ma
poiché nella mia lettera si facevano i
nomi di d’Épernon e di Concini, e vi
raccontavo dei miei svariati tentativi
di informare la regina, monsieur de
Sully non osò mostrarla al re; gli
disse solo che era minacciato e che,
se voleva, ci avrebbe convocato al
Louvre, me e mademoiselle de
Gournay. Ma purtroppo il re aveva
ricevuto tanti avvertimenti di quel
genere che alzò le spalle e monsieur
de Sully restituì la lettera a
mademoiselle de Gournay non
ritenendola degna di fede.»
«E che data poteva avere quella
lettera?»
«Doveva essere del 10 o 11
maggio.»
«Credete che mademoiselle de
Gournay l’abbia conservata?»
«È possibile. Io non l’ho mai
rivista. Una notte, fui portata via
dalla prigione in cui mi trovavo.
Allora tenevo ancora il conto del
tempo, era la notte del 28 ottobre
1619. Un usciere entrò nella mia
cella, mi fece alzare in piedi e mi
lesse una sentenza del Parlamento
che mi condannava a passare il resto
della mia esistenza in un loculo
privo di porta, che avesse come
finestra un abbaino sbarrato, dove
sarei stata nutrita solo a pane e
acqua. Già essere in prigione per
aver cercato di salvare il re mi
pareva una cosa davvero dura e
ingiusta, ma quella nuova condanna
mi annichilì. Nel sentir leggere la
sentenza, caddi svenuta sul
pavimento. Avevo appena ventisette
anni, per quanto tempo avrei dovuto
soffrire? Mentre ero priva di sensi
mi presero e mi portarono via in una
carrozza. L’aria sul viso, che
proveniva da un finestrino aperto,
mi fece rinvenire. Ero seduta fra due
guardie, ognuna mi teneva un polso
con una catenella. Avevo addosso un
saio di bigello nero, quello di cui ho
ancora addosso i brandelli. Sapevo
che mi stavano portando al convento
delle Filles Repenties, ma ignoravo
di che cosa si trattasse e dove si
trovasse. La carrozza oltrepassò una
porta che le si aprì davanti, si inoltrò
in un androne, entrò in un cortile e si
fermò presso la tomba da cui mi
avete tolta. Mi fecero passare da
un’apertura, e dietro di me passò una
delle due guardie. Ero più morta che
viva, non opposi la minima
resistenza. Lui mi fece mettere in
piedi contro la finestrella. Mi passò
attorno al collo una delle catene che
mi tenevano i polsi, e la seconda
guardia dall’esterno mi tenne ferma
contro la finestrella mentre l’altra
usciva tranquillamente. Non appena
fu uscita, due uomini che avevo
intravisto nel buio si misero al
lavoro. Erano due manovali, e
muravano l’apertura. Solamente
allora tornai in me. Lanciai un grido
terribile e cercai di lanciarmi contro
di loro. Ero trattenuta per il collo.
Per un attimo ebbi l’idea di
strangolarmi e tirai con tutte le mie
forze. Gli anelli della catena mi
entrarono nel collo, ma siccome non
c’era un nodo scorsoio non potevo
far altro che tirare più che potevo in
avanti. Speravo che quella tensione
sarebbe bastata. Il respiro era ormai
un rantolo, vedevo tutto rosso
sangue. La guardia mollò la catena.
Mi precipitai verso l’apertura, ma i
manovali l’avevano già chiusa per
tre quarti. Passai le mani attraverso
il buco che restava, tentando di
demolire quella costruzione ancora
fresca. Uno dei manovali mi coprì le
mani di gesso e l’altro vi posò sopra
un’enorme pietra. Ero presa come
dentro una trappola. Gridai, urlai. In
un attimo mi resi conto del nuovo
supplizio cui sarei stata condannata:
siccome nessuno poteva entrare
nella cella e io mi trovavo attaccata
alla parete opposta alla finestrella,
sarei morta di fame, con le mani
sigillate nel muro. Chiesi grazia.
Senza rispondermi, uno dei
manovali sollevò con una pinza la
pietra. Feci un violento sforzo per
poter strappare dall’interstizio le
mani semischiacciate e finii con il
cadere sotto la finestra, sfinita dagli
sforzi che avevo fatto per uccidermi
e per impedire ai manovali di
chiudere l’apertura. Nel frattempo la
loro opera tenebrosa e fatale fu
portata a termine. Quando rinvenni,
la porta della mia tomba era murata.
Ero una sepolta viva. La sentenza
emessa dal Parlamento era stata
eseguita.
Per una settimana fui come pazza.
I primi quattro giorni non facevo che
rotolarmi nella mia tomba gridando
disperatamente. In quei quattro
giorni non toccai cibo, volevo
lasciarmi morire di fame e credevo
che ne avrei avuto la forza. Fu la
sete a vincermi. Il quinto giorno,
avevo la gola in fiamme. Bevvi
qualche goccia d’acqua: era come
acconsentire a vivere.
Mi dicevo inoltre che in tutta
quella storia ci doveva essere un
errore sul quale qualcuno avrebbe
riflettuto, mi dicevo che era
impossibile che sotto il regno del
figlio di Enrico IV, mentre la sua
vedova era onnipotente, era
impossibile, mi dicevo, che
punissero proprio me, che avevo
voluto salvare Enrico IV, più
crudelmente dell’assassino che lo
aveva ucciso, visto che il suo
supplizio era durato un’ora mentre
Dio solo sapeva quante ore, quanti
giorni, quanti anni sarebbe durato il
mio.
Ma anche questa speranza finì per
spegnersi.
Quando mi risolsi a vivere, chiesi
della paglia per coricarmi ma la
superiora mi rispose che la sentenza
stabiliva che avrei avuto pane e
acqua per nutrirmi e che se il
Parlamento avesse voluto
concedermi della paglia per
giaciglio lo avrebbe specificato. Mi
fu dunque rifiutata una balla di
paglia, qualcosa che si accorda
perfino agli animali più umili.
Quando sopraggiunsero le rigide
notti invernali, sperai di morire di
freddo. Avevo sentito dire che quella
era una morte abbastanza dolce. Più
volte, nel corso del primo inverno,
mi addormentai, o meglio svenni,
soccombendo al rigore del clima. Mi
svegliai ghiacciata, irrigidita,
paralizzata, ma mi svegliai.
Vidi rinascere la primavera. Vidi
riapparire i fiori. Vidi rinverdire gli
alberi. Dolci brezze penetrarono fin
nella mia cella, e offrii loro il mio
viso bagnato di pianto. L’inverno
sembrava aver inaridito la fonte
delle mie lacrime, che ritornarono
con la primavera, cioè con la vita.
Non riuscirei a descrivervi la
dolce malinconia che mi pervase al
primo raggio di sole che venne
attraverso la finestrella a illuminare
il mio sepolcro. Tesi verso di esso le
braccia tentando di afferrarlo e
stringermelo al cuore. Mi sfuggiva,
ahimè!, fuggevole come le speranze
di cui pareva il simbolo.
Per i primi quattro anni e per una
parte del quinto, segnai i giorni sul
muro con un pezzo di pietra che i
bambini mi avevano tirato al tempo
della mia furia, ma quando vidi
tornare il quinto inverno il coraggio
mi abbandonò. A che pro contare i
giorni della mia vita? Meglio
sarebbe stato dimenticare anche
quelli che mi sarebbero rimasti da
vivere.
In capo a un anno, coricandomi
sulla nuda terra, potendomi
appoggiare solo contro una parete
umida, le mie vesti iniziarono a
logorarsi; in capo a due si
strappavano come carta fradicia, poi
caddero a pezzi. Aspettai fino
all’ultimo per chiederne altri, ma la
superiora mi rispose che la sentenza
stabiliva che mi avrebbero dato pane
e acqua per nutrirmi, ma non che mi
avrebbero dato delle vesti, che al
pane e all’acqua avevo diritto, ma a
niente di più.
A poco a poco rimasi nuda. Venne
l’inverno. Quelle notti terribili, che
il primo anno avevo tanto faticato a
sopportare vestita di un abito caldo,
le subii nuda, o quasi. Raccoglievo i
brandelli che mi cadevano dalle
vesti, li riattaccavo gli uni agli altri,
me li incollavo, per così dire, alla
pelle, ma a poco a poco caddero uno
dopo l’altro come la corteccia di un
albero e mi ritrovai nuda. Ogni tanto
venivano dei preti a guardarmi
attraverso la finestrella. I primi che
vidi li pregai, li chiamai uomini del
Signore, angeli dell’umanità. Si
misero a ridere. Dopo che rimasi
nuda, venivano più spesso di prima,
ma io non gli rivolgevo più la
parola, e mi coprivo più che potevo
con i capelli e con le mani. Ormai,
del resto, vivevo come un automa,
più o meno come vivono gli animali.
Avevo smesso, o quasi, di pensare.
Bevevo, mangiavo, dormivo il più
possibile: almeno mentre dormivo
non mi accorgevo di essere viva.
Tre giorni fa non mi portarono da
mangiare alla solita ora. Pensai che
si trattasse di una dimenticanza.
Aspettai. Venne la sera. Avevo fame,
chiamai. Nessuno rispose. Quella
notte, pur soffrendo già molto,
riuscii ancora a dormire. L’indomani
all’alba ero già aggrappata alle
sbarre della mia finestra per veder
arrivare il mio pasto. Non arrivò
nemmeno quel giorno. Passarono
delle suore, le chiamai, ma non mi
risposero nemmeno, dicevano il
rosario. Scese la notte. Compresi che
avevano deciso di lasciarmi morire
di fame. Com’è debole e triste la
nostra natura! La morte sarebbe stata
per me un’immensa fortuna: io ne
ebbi paura.
Quella seconda notte riuscii a
dormire solo un’ora o due, e durante
quei brevi assopimenti feci sogni
spaventosi. Dolori atroci allo
stomaco e al ventre mi risvegliavano
pochi attimi dopo che la stanchezza,
più che il sonno, mi aveva fatto
chiudere gli occhi. Tornò la luce, ma
non mi alzai neanche per andare
incontro al cibo, ero assolutamente
certa che non sarebbe arrivato. La
giornata trascorse tra terribili
sofferenze. Gridavo, non più per
chiedere pane, ma perché il dolore
mi faceva gridare.
Inutile dire che le mie grida non
richiamarono nessuno.
A più riprese cercai di pregare, ma
invano. La parola Dio, che ora mi
torna così facilmente alle labbra,
non riuscivo a trovarla.
La luce si oscurò, l’ombra avanzò
nel mio sepolcro, poi nel cortile, poi
scese la notte. Mi convinsi che fosse
l’ultima, tale era la mia angoscia.
Smisi di gridare. Non ne avevo più
la forza. Rantolavo.
Nella mia agonia, contavo le ore
della notte, senza che me ne
sfuggisse nemmeno una. L’orologio
sembrava battermi dentro le pareti
della testa facendone scaturire
milioni di scintille. Mezzanotte era
appena suonata quando arrivò fino a
me il rumore della porta che si
apriva e si richiudeva, rumore
insolito per quell’ora. Mi trascinai
fino alla finestrella, aggrappandomi
con le mani e con i denti alle sbarre
per non cadere, e vidi della luce,
prima sotto l’androne, poi nel
parlatorio, poi quella luce scese nel
cortile e si diresse verso di me. Per
un attimo ripresi a sperare ma, nel
vedere che l’uomo che
accompagnava la superiora era un
frate, tutto finì. Le mie mani
lasciarono le sbarre, poi anche i
denti – con maggior fatica perché
sembrava si fossero saldati al ferro –
e mi andai a sedere dove mi avete
vista.
Era tempo. Ancora ventiquattro
ore e avreste trovato soltanto il mio
cadavere.»
Come se avesse aspettato la fine
di quel racconto per entrare – e forse
in effetti la aspettava –, alle ultime
parole della dama di Coëtman la
superiora comparve all’uscio della
camera.
«Che cosa ordina monsignore?»
chiese.
«Prima di tutto una domanda, e a
questa domanda, come vi ho detto,
va risposto con assoluta sincerità.»
«Sto aspettando, monsignore»
rispose la superiora inchinandosi.
«Chi è venuto a dirvi che ci si
stupiva che questa povera creatura,
nuda, a pane e acqua, già più che a
metà discesa nel sepolcro,
continuasse a vivere?»
«È monsignore che mi ordina di
parlare?» domandò la superiora.
«Sono io che, in virtù della mia
duplice autorità, spirituale e
temporale, vi dico: voglio sapere chi
è il vero carnefice di questa donna,
gli altri non sono che dei
torturatori.»
«È messer Vautier, astrologo e
medico della regina madre.»
«Quello cui ho spedito le mie
lettere» disse la dama di Coëtman,
«ma a quel tempo era solo il suo
farmacista.»
«Ebbene» disse il cardinale,
«occorre che il desiderio di chi
voleva la morte di questa donna sia
esaudito.»
Tese la mano verso la dama di
Coëtman.
«Per tutti, eccettuati voi e io,
questa donna è morta. Per questo,
stanotte avete fatto aprire la
prigione. Per tirarne fuori il suo
cadavere. E adesso fate seppellire al
suo posto e con il suo nome una
pietra, una trave, una morta vera che
andrete a prendere nel primo ospizio
che trovate, non m’importa, questo
riguarda voi e non me.»
«Sarà fatto secondo i vostri
ordini, monsignore.»
«Tre delle vostre religiose sono a
conoscenza del segreto: la portinaia
che ci ha aperto la porta e le due
suore che hanno portato la cena.
Spiegherete loro che cosa succede a
quelli che parlano quando
dovrebbero tacere. Del resto» e
mostrò con un dito secco e
autoritario la dama di Coëtman, «del
resto, avranno sotto gli occhi
l’esempio della signora.»
«È tutto, monsignore?»
«È tutto! Scendendo, avrete la
bontà di dire al più alto dei miei
portantini che entro un quarto d’ora
devo avere qui una bussola uguale
alla prima, ma che si chiuda a
chiave, con delle tende alle
portiere.»
«Gli trasmetterò gli ordini di
monsignore.»
Il cardinale permise di riprendere
il sopravvento a quell’aspetto
gioviale del suo carattere che
abbiamo già visto apparire la notte
in cui aveva dato a Souscarrières e a
madame Cavois il brevetto delle
portantine di cui anche lui aveva
appena sperimentato la praticità,
aspetto che ritroveremo più di una
volta durante il nostro racconto.
«Ora» disse il cardinale alla dama
di Coëtman, «credo che stiate
abbastanza bene da poter mangiare
un’ala di questo uccello e bere un
mezzo bicchiere di questo vino alla
salute della nostra brava superiora.»
Tre giorni dopo, il nostro cronista
L’Estoile, sulla base delle
informazioni inviate dalla superiora
delle Filles Repenties, scriveva sul
suo diario la seguente annotazione:
Nella notte fra il 13 e il 14 dicembre,
nella celletta di pietra che era stata
costruita per lei nel cortile del convento
delle Filles Repenties e da cui non era mai
uscita in nove anni, cioè dalla sentenza del
Parlamento che la condannava a una
detenzione perpetua a pane e acqua, è
morta la damigella Jacqueline Le Voyer,
detta dama di Coëtman, moglie di Isaac de
Varenne, sospettata di complicità con
Ravaillac nell’omicidio del buon re Enrico
IV. È stata sepolta nel cimitero del
convento la notte successiva.
X
Maximilien de Béthune,
duca di Sully, barone di Rosny
Per tutta la durata del racconto della
dama di Coëtman, il cardinale aveva
ascoltato con la massima attenzione
quel lungo e doloroso poema. Ma,
benché ogni parola della povera
vittima costituisse una prova morale
della complicità di Concini, di
d’Épernon e della regina madre
nell’omicidio di Enrico IV, non era
saltata fuori nessuna prova evidente,
lampante e irrecusabile.
Più chiara del giorno e più
limpida del cristallo era però
l’innocenza della dama di Coëtman,
oltre ai suoi sforzi per evitare
l’odioso parricidio del 14 maggio,
sforzi che aveva pagato con nove
anni di prigione alla Conciergerie e
altri nove nel sepolcro delle Filles
Repenties.
Al cardinale rimaneva da
procurarsi, e doveva procurarselo a
ogni costo, dato che il verbale del
processo a Ravaillac era stato
bruciato, quel foglio scritto sotto
tortura che conteneva le ultime
rivelazioni di Ravaillac.
La difficoltà, potremmo dire
l’impossibilità, era tutta lì. Ed era da
lì che il cardinale aveva cominciato,
prima di fare le ricerche in cui lo
vediamo impegnato. Ma fin
dall’inizio, si era imbattuto in un
ostacolo che gli era parso
invalicabile.
Ci sembra di aver detto che quel
foglio era rimasto in mano al
relatore parlamentare, messer Joly
de Fleury. Disgraziatamente questo
signore era morto due anni prima, e
soltanto dopo il processo di Chalais,
al suo ritorno da Nantes, il cardinale
aveva pensato di raccogliere prove
contro la regina madre, perché solo
all’epoca di quel processo aveva
potuto valutare l’estensione
dell’odio che Maria de’ Medici
nutriva per lui.
Messer Joly de Fleury aveva
lasciato un figlio e una figlia.
Il cardinale li aveva chiamati
entrambi nello studio della sua casa
di place Royale e li aveva interrogati
sull’esistenza di quel foglio così
importante per lui e anche per la
storia.
Ma quel foglio non era più in
mano loro, ed ecco come ne era
uscito.
Nel marzo 1617, undici anni
prima, un ragazzo tra i quindici e
sedici anni vestito tutto di nero, con
un grande cappello abbassato a
coprire gli occhi, si era presentato da
messer Joly de Fleury, insieme a un
compagno di una dozzina di anni più
vecchio di lui. Il relatore
parlamentare li aveva ricevuti nel
suo studio, aveva parlato circa
un’ora con loro e li aveva
riaccompagnati con tutti i segni di
un grande rispetto fino al portone
sulla via, dove li aspettava una
carrozza – cosa rara a quel tempo –,
e la sera, a cena, il bravo magistrato
aveva detto ai figli:
«Ragazzi miei, se mai dopo la mia
morte qualcuno si rivolgesse a voi
per chiedervi quel foglio volante con
le confessioni di Ravaillac alla
tortura, dite che quel foglio non è
più in vostro possesso o, meglio
ancora, che non è mai esistito.»
Cinque o sei mesi prima
dell’epoca in cui ha avuto inizio il
nostro racconto, il cardinale aveva
fatto chiamare nel suo studio i figli
di messer Joly de Fleury e li aveva
interrogati. Loro avevano dapprima
cercato di negare l’esistenza del
foglio, come aveva consigliato il
padre, ma, incalzati dalle domande
del cardinale, dopo essersi
rapidamente consultati, avevano
finito per dirgli tutto.
Ignoravano però completamente
chi potessero essere i due visitatori
misteriosi che con pieno diritto, a
quanto pareva, erano andati a
chiedere al loro padre quella carta
importante e se l’erano portata via.
Sei mesi dopo, la gravità del
pericolo che lo minacciava aveva
costretto il cardinale a nuove
ricerche.
Come abbiamo visto, quella carta,
complemento dell’edificio che stava
costruendo per farsene un riparo
contro i colpi di Maria de’ Medici,
gli era più necessaria che mai. Ma
più che mai, egli disperava di poterla
trovare.
Tuttavia, come aveva detto padre
Joseph, la Provvidenza aveva fino a
quel momento fatto tanto per il
cardinale che era lecito sperare che
non avrebbe interrotto quel bel
percorso.
Intanto, come prova secondaria, si
sarebbe procurato quella lettera che
madame de Coëtman aveva scritto al
re e fatto arrivare a Sully tramite
mademoiselle de Gournay, sia che
Sully ce l’avesse ancora sia che
l’avesse restituita a mademoiselle de
Gournay.
Del resto, saperlo era la cosa più
semplice del mondo: il vecchio
ministro, o meglio il vecchio amico
di re Enrico IV, era ancora vivo, e
abitava d’estate nel suo castello di
Villebon, d’inverno nel suo palazzo
di rue Saint-Antoine, tra rue Royale
e rue de l’Égout-Sainte-Catherine. Si
diceva che, fedele alle abitudini
prese quando lavorava, fosse sempre
in piedi, e nel suo studio, alle cinque
della mattina. Il cardinale tolse dal
taschino un magnifico orologio:
erano le quattro.
Alle cinque e mezza precise, dopo
essere passato da casa in place
Royale per prendere un cappello,
dare ordine di avvertire i suoi ospiti
quasi quotidiani, padre Mulot e il
parassita Lafollone, che li aspettava
per colazione, e far sapere al suo
buffone Bois-Robert che aveva
bisogno di parlargli prima di
mezzogiorno, il cardinale bussava
alla porta dell’hôtel Sully, che gli fu
aperta da uno svizzero vestito come
si usava sotto quello che cominciava
a essere chiamato “il regno del
Grande Re”.
Approfittiamo di questa visita
fatta da Richelieu a Sully, dal
misconosciuto ministro
dell’avvenire al ministro un po’
sopravvalutato del passato, per
presentare ai nostri lettori una delle
più curiose personalità della fine del
XVI e inizio XVII secolo,
personalità compresa poco e
soprattutto descritta male dagli
storici che si sono accontentati di
guardarlo dal davanti, cioè nella sua
fisionomia d’apparato, invece di
farne il giro e studiarla nei suoi
diversi aspetti.
Maximilien de Béthune, duca di
Sully, raggiunta, all’epoca di cui
parliamo, l’età di sessantotto anni,
aveva singolari pretese riguardo alla
sua nascita; invece di lasciarsi
discendere semplicemente, come
suo padre e suo nonno, dalla casa
dei conti di Béthune de Flandre, si
era costruito un albero genealogico
secondo il quale discendeva da uno
scozzese, un certo Bethun, il che gli
consentiva, quando scriveva
all’arcivescovo di Glasgow, di
chiamarlo “cugino mio”. Aveva
anche un’altra fantasia, ed era quella
di dirsi affine della casa di Guise
tramite quella di Coucy, il che lo
rendeva parente dell’imperatore
d’Austria e del re di Spagna.
Sully, che veniva chiamato
monsieur de Rosny perché era nato a
Rosny, paese vicino a Mantes,
malgrado la sua parentela con
l’arcivescovo di Glasgow e la sua
affinità con le case d’Austria e di
Spagna, era un uomo di assai umili
origini. Quando Gabrielle d’Estrées,
credendo di potersene fare un
servitore devoto e avendo altresì da
lamentarsi della rude franchezza di
monsieur de Sancy, sovrintendente
alle Finanze, ottenne da Enrico IV di
sostituire quel cattivo cortigiano con
Sully, Enrico IV – ed era uno dei
peggiori difetti di quel grande re –,
dimentico fino all’ingratitudine e
debole fino alla vigliaccheria nei
confronti delle sue amanti, Enrico
IV, pressato dall’egoistica richiesta
di Gabrielle, non ricordò più che
Sancy, per mettere gli svizzeri dalla
sua parte, aveva dato in pegno il bel
diamante che porta ancor oggi il suo
nome e che fa parte dei gioielli della
corona. Ora, a forza di sacrifici
compiuti per la Francia, il povero
sovrintendente alle Finanze era
diventato così povero, invece che
arricchirsi come avrebbe fatto il suo
successore, che Enrico IV era stato
costretto a dargli quella che a quei
tempi si chiamava sentenza di difesa
e che non era altro che un
salvacondotto contro i suoi creditori.
Così il buon Sancy, assai faceto di
carattere, si lasciava a volte arrestare
come un qualunque debitore e
portare fino alle soglie del carcere.
Poi, arrivato lì, mostrava la sua
sentenza, faceva una riverenza agli
uscieri e se ne andava per la sua
strada, lasciando che anch’essi se ne
andassero per la loro dove meglio
credevano.
Ma la prima cosa che Sully non
mancò di fare, quando venne il
momento di mostrarsi riconoscente
verso la sua protettrice, fu di essere
infedele alla religione del ricordo.
Quando Enrico IV, trovando nel suo
desiderio di sposare Gabrielle il
vantaggio di avere dei figli già fatti,
parlò seriamente di un matrimonio
con lei, trovò in Sully uno dei più
accaniti avversari di questa unione.
Eppure l’idea del re di sposare
Gabrielle non era un semplice
capriccio d’innamorato. Voleva dare
alla Francia qualcosa che non aveva
mai avuto: una regina francese.
Con il suo prodigioso istinto
politico e la profonda conoscenza
della propria debolezza, Enrico IV
non si nascondeva che, chiunque
fosse la donna che avrebbe sposato,
quella donna avrebbe avuto una
grande influenza sulle sorti dello
Stato. Per quanto, nel paio d’ore che
dedicava ogni giorno agli affari,
risolvesse le questioni più ardue con
la rapida vivacità di un comando
militare, tutti lo sapevano: quel
terribile capitano, che voleva lo
credessero libero e assoluto, aveva
in casa, moglie o amante, il proprio
generale, ed era questo che, dalla
camera da letto, impartiva la
maggior parte delle volte i suoi
ordini al Consiglio.
Con un re così, il matrimonio era
quindi una questione importante.
Agli spagnoli sarebbe importato
poco di essere stati sconfitti ad
Arques e a Ivry, 1 purché una regina
spagnola di nascita o di spirito,
eliminando Gabrielle, fosse entrata
nel letto del re e dal letto del re
avesse messo le mani sul regno.
Quando Enrico IV aveva deciso di
risposarsi, era più o meno l’unico
sovrano d’Europa che portasse la
spada. Era l’uomo impareggiabile, il
vincitore che appariva all’Europa in
sella al grande cavallo dal
pennacchio bianco di Ivry. Ebbene,
quella spada, la spada della Francia,
non bisognava che una regina
straniera gliela rubasse a letto: un
grande politico, un uomo di genio,
Richelieu, per esempio, questo lo
avrebbe capito, e invece Sully non lo
capì affatto: Sully che, con i suoi
duri occhi azzurri e la carnagione
rosea, a sessant’anni, forse per
giustificare le sue millantate origini
scozzesi, era molto più temuto che
amato, anche da Enrico IV. Portava
ovunque il terrore, dice Marbault, 2
segretario di Duplessy-Mornay [sic],
i suoi atti e i suoi occhi mettevano
paura.
Era prima di tutto un soldato,
avendo combattuto per tutta la vita;
una mano attiva, energica e, cosa più
rara, una mano finanziaria. Già in
quella mano essenzialmente
centralizzatrice teneva la Guerra, le
Finanze, la Marina. Volle anche
l’Artiglieria. Gabrielle commise la
sciocchezza di far attribuire la carica
di gran maestro al proprio padre, un
uomo mediocre. Sully cercava solo
l’occasione di mostrarsi ingrato,
gliela offrirono, la prese al volo. Dal
giorno in cui Gabrielle aveva fatto
questa ingiuria a Sully, diciamo
meglio, si era accaparrata questo
ingiusto privilegio, aveva dato le sue
dimissioni da regina di Francia.
Enrico IV aveva riconosciuto i
suoi due figli, li aveva insigniti di
titoli principeschi e con questi titoli
li aveva fatti battezzare. Il segretario
di Stato de Fresnes inviò a Sully
l’atto di riconoscimento del
battesimo dei “figli di Francia”:
«Non esistono figli di Francia» disse
Sully rimandando indietro l’atto.
Il re non osò insistere.
Per Sully, era un modo di tastare
il suo padrone. Forse, se Enrico IV
lo avesse preteso, Sully avrebbe
ceduto. Fu Enrico IV a cedere; e
Sully si rese allora conto che Enrico
IV non amava Gabrielle tanto
quanto credeva.
Le oppose come rivale – a lei che
cominciava a invecchiare – una
rivale sempre giovane, sempre bella,
sempre seducente: una cassa piena!
Gabrielle era, ahimè!, una cassa
vuota.
Quella piena apparteneva al
granduca di Toscana, che qualche
anno prima aveva mandato al re un
ritratto di sua nipote, splendente di
gioventù e freschezza, nel quale
l’obesità precoce di Maria de’
Medici poteva passare per salute
fiorente.
Gabrielle lo vide.
«Non temo il ritratto» disse, «ma
la cassa sì.»
A Enrico IV fu intimato di
scegliere tra la donna e il denaro.
E poiché non si decideva
abbastanza in fretta per il denaro,
avvelenarono la donna.
A Parigi viveva un ex calzolaio
lucchese ma di ascendenze
moresche, un certo Zamet, il quale
firmava ogni carta così: «Signore da
millesettecento scudi». Abile in tutti
i mestieri, in ognuno dei quali
sapeva far fortuna, Zamet, quando
era calzolaio, era riuscito a fare del
piede di Enrico III – piede piatto,
per servirci di un termine tecnico di
quegli artigiani – un vero piede
femminile. Incantato di vedersi un
piede così incantevole, Enrico III
nominò Zamet direttore dei piccoli
studi in cui faceva educare e istruire
dodici chierichetti: quell’ottimo re
amava la musica.
In quell’impiego Zamet cominciò
la sua fortuna. Nel momento più
caldo della Lega, quando tutti
avevano bisogno di denaro, a tutti
lui ne aveva imprestato, a quelli
della Lega, agli spagnoli, persino al
re di Navarra, cui nessuno voleva
imprestare niente. Aveva previsto la
grandezza di Enrico IV, come Creso
quella di Cesare? Se così era, si
trattava di una somiglianza in più
con il celebre banchiere romano.
Quell’uomo era l’uomo del
granduca Ferdinando.
Sully e Zamet si compresero.
Bisognava aspettare il momento
opportuno e coglierlo. Se avevano il
giusto colpo d’occhio e la mano
sicura, la partita era vinta.
Sully aveva lavorato come
valletto da Gabrielle, lo dice lui
stesso nelle sue memorie: un giorno,
mentre discutevano, lei lo chiamò
“valletto”. Sully non aveva niente in
contrario a essere un valletto, ma
non voleva che glielo dicessero.
Si lamentò con Enrico IV, che
disse a Gabrielle:
«Preferisco un valletto come lui a
dieci amanti come voi.»
L’ora era giunta.
Ferdinando, l’ex cardinale, stava
in agguato, allungando al di sopra
delle Alpi il veleno che aveva ucciso
suo fratello Francesco e sua cognata
Bianca.
Gabrielle era a Fontainebleau con
il re. Si avvicinava Pasqua. Il suo
confessore pretese da lei che la
festeggiasse a Parigi e lei ebbe l’idea
fatale di trascorrerla da Zamet, un
moro, cosa che le avrebbe portato
sfortuna!
Sully, che aveva litigato con lei,
andò a trovarla. Perché? Forse
perché gli pareva impossibile che
avesse commesso un’imprudenza
simile.
La povera donna già si vedeva
regina. Per lusingare Sully, fece
come se lo fosse già, dicendo che
avrebbe sempre visto con piacere la
duchessa sua moglie ai suoi
couchers e ai suoi levers. 3 La
duchessa, furiosa, gridò
all’impertinenza.
«Le cose non andranno come si
crede» le disse Sully per placarla «e
assisterete a un bel tiro ben giocato,
vedrete se la corda non si rompe.»
È chiaro che era a conoscenza di
ogni cosa.
Come! Sully sapeva che Gabrielle
sarebbe stata avvelenata?
Ma certo! Sully era un uomo di
Stato, quindi se ne andò da Parigi
per lasciare campo libero agli
avvelenatori, ma raccomandò che lo
tenessero informato.
Diciamo gli avvelenatori perché
ce n’erano due. Il secondo si
chiamava Lavarenne, e morì di un
colpo apoplettico perché una gazza,
invece di chiamarlo con un nome di
uomo, lo aveva chiamato con quello
di un pesce.
Come Zamet era un ex calzolaio,
Lavarenne era un ex cuoco. 4 Un
furfante patentato che Enrico IV
aveva pescato nelle cucine di
Madame sua sorella, dove godeva di
grande fama per la sua abilità nel
farcire i polli. Lei lo incontrò un
giorno, quando lui ormai aveva fatto
fortuna, e «Mio povero Lavarenne»
gli disse, «sembra proprio che
abbiate guadagnato di più portando
pollastre a mio fratello che
lardellandole da me».
Questa uscita di Madame spiega
l’errore della gazza e la suscettibilità
dell’ex lardellatore di polli.
È a lui che Sully aveva
raccomandato:
«Voglio essere il primo a sapere
se per caso accade qualcosa a
madame de Beaufort.» 5
Lavarenne non mancò di farlo.
Sully fu tra i primi a essere
avvertito.
Gli raccontò come Gabrielle fosse
stata improvvisamente colpita da
una malattia strana che l’aveva
sfigurata a tal punto che, nel timore
che quella vista disgustasse Enrico
IV, se mai lei si fosse ripresa,
Lavarenne si era permesso di
scrivergli supplicandolo di rimanere
a Fontainebleau, per risparmiargli un
tal dispiacere; tanto più che era
morta.
E aggiunse:
«E io sono qui, a tenere questa
povera donna come morta fra le
braccia, sicuro che non abbia più di
un’ora da vivere.»
I due furfanti erano quindi così
sicuri della qualità del loro veleno
che, mentre la povera Gabrielle era
ancora viva, uno di loro scriveva al
re che era morta e a Sully che stava
per morire.
Non morì però così in fretta come
si credeva. La sua agonia durò fino
al sabato mattina. Il venerdì sera
Lavarenne aveva inviato un
messaggero, che arrivò che era
ancora buio, a Sully; il duca baciò la
moglie, che era a letto, e le disse:
«Ragazza mia, non andrete ai
levers e ai couchers della signora
duchessa. La corda si è rotta. Ora
che è morta, che il Signore le dia
una vita lunga e felice!»
Del resto, racconta lui stesso
l’episodio in questi termini nelle sue
memorie.
Morta Gabrielle, Sully non faticò
a far decidere Enrico IV per Maria
de’ Medici.
Ma nell’intervallo di tempo fra la
morte e il matrimonio, si dovette
rompere un’altra corda: quella di
Henriette d’Entragues.
Tra i nostri re di Francia, Enrico
IV detiene la peculiarità di essere
stato sempre innamorato. Gabrielle
era appena morta che lui si
innamorò di Henriette d’Entragues,
figlia di Marie Touchet. Per cedere,
lei esigeva una promessa di
matrimonio; perché sua figlia
cedesse, il padre esigeva
cinquecentomila lire.
Il re mostrò la promessa di
matrimonio a Sully e gli ordinò di
preparare cinquecentomila lire per il
padre.
Sully stracciò la promessa di
matrimonio e fece portare mezzo
milione in monete d’argento nella
stanza attigua alla camera da letto
del re.
Rientrando in camera, Enrico IV
sprofondò fino alle ginocchia negli
charles e negli henris, 6 e persino
nei fiorini: una parte della somma
veniva infatti dalla Toscana.
«Ohilà» disse, «e questo cos’è?»
«Sono le cinquecentomila lire con
cui volete pagare a monsieur
d’Entragues un amore che sua figlia
non vi darà.»
«Ventre-saint-gris!» esclamò il re,
«non avrei mai pensato che
cinquecentomila lire fossero così
tante. Cercate di sistemare la
faccenda per la metà, mio bravo
Sully!»
Sully la sistemò per trecentomila
lire e consegnò il denaro, ma, come
lui aveva predetto a Enrico IV,
Henriette d’Entragues non si
consegnò affatto.
Inutile dire che Enrico IV, con
tutti i rischi che ne potevano
conseguire, rifece la promessa di
matrimonio stracciata dal suo
ministro.
Sully, soprannominato
“restauratore del tesoro pubblico”,
non perdette certo il suo durante
questa restaurazione, come accadde
invece a Sancy. Non vogliamo dire
che fosse ladro o concussionario, ma
sapeva come fare i suoi affari senza
mai perdere un’occasione di
guadagno. Enrico IV lo sapeva e
spesso ci scherzava sopra. Un giorno
Sully inciampò mentre attraversava
il cortile del Louvre, nel salutare il
re che si trovava al balcone.
«Non meravigliatevi che abbia
messo un piede in fallo» commentò
il re. «Se la più vigorosa delle mie
guardie svizzere avesse tanto vino
nella testa quante bustarelle ha Sully
in tasca non si limiterebbe a
inciampare, cadrebbe lungo
disteso!» 7

Pur essendo sovrintendente alle


Finanze, Sully, avaro per sé come lo
era per la Francia, non possedeva
ancora una carrozza e girava per
Parigi a cavallo. E poiché montava
piuttosto male, tutti, persino i
bambini, lo prendevano in giro.
Fu di certo il più arcigno dei
sovrintendenti possibili. Un italiano
che si era recato all’Arsenal per la
quinta o sesta volta senza riuscire a
farsi pagare quello che gli era
dovuto, nel vedere tre malfattori
impiccati in place de Grève esclamò:
«Beati voi, che non dovete più
vedervela con quel furfante di
Sully!»
Sully non aveva con tutti la stessa
fortuna che con quel bravo italiano,
il quale si limitava a invidiare gli
impiccati che non dovevano più
vedersela con lui. Un certo Pradel,
ex maggiordomo del vecchio
maresciallo di Biron, non riusciva ad
averla vinta con Sully, che non solo
non voleva pagargli lo stipendio ma
un giorno cercò di metterlo alla
porta spingendolo fuori. Questo
accadeva nella sala da pranzo di
Sully, dove la tavola era
apparecchiata: Pradel afferrò un
coltello dal tavolo e inseguì Sully fin
nella sua stanza blindata di cui lui
riuscì appena in tempo a chiudere la
porta davanti al suo irascibile
creditore. Ma Pradel, sempre con il
suo coltello in mano, andò dal re, e
gli dichiarò che gli andava
benissimo farsi impiccare se prima
però poteva aprire la pancia a
monsieur de Sully. Sully pagò.
Era stato il primo a far piantare
olmi lungo le strade maestre, ed era
tanto odiato che la gente ci prendeva
gusto a tagliarli e siccome, dal suo
nome, essi venivano chiamati
Rosny, si diceva abbattendoli: «È un
Rosny, facciamone un Biron». 8
A proposito di Biron, nelle sue
memorie Sully racconta che il
maresciallo, insieme a una dozzina
di dongiovanni della corte, aveva
messo in piedi un balletto che però
non riuscivano a completare; il re
aveva osservato: «Non ne verrete
mai a capo se Rosny non vi aiuta». E
appena lui ci mise mano, il balletto
riuscì alla perfezione.
In effetti – cosa difficile a credersi
se si è visto Sully solamente nei
racconti di storia, dove appare
sempre accigliato, con la sua austera
faccia ugonotta –, in effetti Sully
andava pazzo per il ballo. Ogni sera,
fino alla morte di Enrico IV – dopo
quella morte smise di ballare –, ogni
sera uno dei camerieri personali del
re, un certo Laroche, gli suonava
con il liuto le danze dell’epoca e fin
dalle prime vibrazioni delle corde
Sully incominciava a ballare da solo,
con in testa uno straordinario
berretto che di solito usava nel suo
studio. È vero che in genere aveva in
tutto due spettatori, a meno che, per
rendere più completa la festa, non si
facessero chiamare – come dice
Tallemant des Réaux che nei
confronti di Sully è molto severo –
delle donne di pessima reputazione.
Noi ci limiteremo a definirla dubbia.
I due spettatori, che in caso di
necessità, come abbiamo visto, si
trasformavano in attori, erano il
presidente di Chevry e il sire di
Chevigny.
Se per ballare davanti a lui ci
fosse voluta solamente una donna
leggera, avrebbe potuto
accontentarsi della duchessa di
Sully, le cui intemperanze, del resto,
lo preoccupavano così poco che, nel
consegnarle la rendita mensile
stabilita per lei, le diceva sempre:
«Un tanto per la tavola, un tanto per
i vostri vestiti, un tanto per i vostri
amanti».
Un giorno, stufo di incontrare
sulla scala di casa sua tanta gente
che non aveva niente a che vedere
con lui e che chiedeva della
duchessa, fece costruire una scala
che portava direttamente da lei.
Quando fu terminata, le disse:
«Signora, ho fatto fare una scala
apposta per voi. Fateci passare quelli
che sapete, e se ne incontro
qualcuno sulla mia scala gliene
faccio saltare tutti i gradini.»
Quando fu nominato gran maestro
dell’artiglieria, prese come sigillo
un’aquila che teneva una saetta, con
il motto Quo iussa Iovis. 9
Quello di Richelieu, che saliva le
scale di Sully alle cinque e mezza
della mattina, era, lo ricordiamo,
un’aquila in mezzo alle nuvole con
Aquila in nubibus, appunto.
«Chi devo annunciare?» domandò
il valletto che faceva strada a quel
mattiniero visitatore.
Sorridendo in anticipo dell’effetto
che tale annuncio avrebbe prodotto:
«Annunciate» rispose «il
cardinale di Richelieu.»
1 Ivry-la-Bataille, nel dipartimento dell’Eure.
[NdC]
2 Di Marbault, segretario del “papa degli
ugonotti” Philippe Duplessis-Mornay, si
conoscono delle Remarques sur les Mémoires
[...] de Henry le Grand [...] de Maximilian de
Bethune, duc de Sully, edite per la prima volta
nel 1837. [NdT]
3 Riti che accompagnavano il momento di
alzarsi (lever) e quello di coricarsi (coucher) dei
sovrani, cui erano ammessi solo i cortigiani più
intimi e che assumeranno particolare rilievo
durante il regno del Re Sole. [NdT]
4 Dumas si confonde. François-Pierre de La
Varenne, celebre cuoco, è nato solamente nel
1618, dunque parecchio tempo dopo i fatti qui
raccontati. Nella biografia Henri IV (Les Belles
Lettres, Paris 1998) il personaggio è descritto
come «cameriere personale di Enrico IV, un
certo Fouquet, detto La Varenne [...] zelante
confidente degli amori del re». Dumas aggiunge:
«Il poveretto morì di paura perché una gazza
addomesticata cui era antipatico, invece di
chiamarlo con il suo cognome, Fouquet, lo
chiamò con il nome di un pesce». [NdC]
5 Titolo nobiliare che Enrico IV aveva conferito
a Gabrielle d’Estrées. [NdC]
6 Monete d’argento furono coniate per quasi
tutti i re francesi a partire da Luigi XII. [NdT]
7 Il francese gioca sul doppio senso di pots de
vin, che significa boccali di vino, ma anche
bustarelle, tangenti: «Si le plus vigoureux de
mes Suisses avait autant de pots de vin dans la
tête que Sully en a dans son gousset». [NdT]
8 Allusione al duca di Biron, cui era stata
tagliata la testa. [NdC]
9 Dove Giove comanda. [NdT]
XI
Le due aquile
In verità, l’annuncio che colpì
l’orecchio di Sully, mentre si voltava
per vedere quale importuno venisse
a disturbarlo prima dell’alba,
produsse effetti quanto mai inattesi.
Era intento a redigere le
voluminose memorie che ci ha
lasciato e si alzò dalla sua poltrona
all’annuncio del valletto.
Vestito alla moda del 1610, cioè
come ci si vestiva diciotto o venti
anni prima, di velluto nero, con
spacchi da cui usciva del raso viola
nelle braghe e nel farsetto, portava
una gorgiera inamidata, i capelli
corti, la barba lunga; in quella barba
era infilzato, come in quella di
Coligny, uno stuzzicadenti perché
non dovesse disturbarsi ad andarlo a
cercare; benché fosse da molto
tempo passato di moda, e un’ampia
veste da camera coprisse il farsetto
scendendo fino alle scarpe di feltro,
portava le sue onorificenze di
diamanti e le sue catene al collo
come se avesse dovuto, alla solita
ora, partecipare al Consiglio di
Enrico IV. Verso l’una, se c’era bel
tempo, lo si vedeva scendere così
agghindato, tranne che per la veste
da camera, dal suo palazzo, seguito
da quattro svizzeri che manteneva
come sue guardie, e passeggiare
sotto gli archi del Palais-Royal, dove
tutti si fermavano a guardarlo, e lui
si muoveva grave e lento, simile al
fantasma del secolo passato.
Quei due uomini che si trovavano
per la prima volta uno davanti
all’altro erano diversamente
rappresentati dai loro motti – Aquila
in nubibus, l’aquila nelle nubi che
dal cuore delle nuvole tutto dirigeva
in Francia, rappresentava
mirabilmente il ministro onnipotente
grazie al quale Luigi XIII era re;
mentre l’aquila che scagliava saette
Quo iussa Iovis descriveva meno
precisamente Sully, braccio destro di
Enrico IV, che però si limitava a
obbedire quando Enrico IV
comandava e che senza Enrico IV
non sarebbe stato niente.
È possibile che alcuni lettori si
lamentino dell’inutilità di tutti questi
dettagli e, desiderosi solamente del
pittoresco e dell’ignoto, diranno di
conoscerli già quanto me; non è
infatti per quelli che conoscono
quanto me tali dettagli che li registro
qui, dove loro possono saltarli, bensì
per quelli che li ignorano o per
quelli, ancor più numerosi, che,
attratti dall’ambiziosa definizione di
romanzo storico, vogliono imparare
qualcosa leggendolo, così da
giustificare quella definizione.
Giovane rispetto a Sully – aveva
quarantadue anni e Sully sessantotto
–, Richelieu avanzò verso il vecchio
amico di Enrico IV con il rispetto
che doveva alla sua età e alla sua
fama.
Sully gli indicò una poltrona.
Richelieu prese una sedia.
L’orgoglioso vecchio, esperto di
etichetta delle corti, fu sensibile al
particolare.
«La mia visita vi stupisce, signor
duca?» gli chiese sorridendo il
cardinale.
«Confesso» rispose Sully con la
sua abituale rudezza «che non me
l’aspettavo.»
«E perché, signor duca? Tutti i
ministri che hanno lavorato o
lavorano per la posterità – e noi
siamo tra quelli – partecipano della
prosperità, della gloria e della
grandezza del regno sotto il quale
sono chiamati a rendere servigi alla
Francia. Dunque perché io, che
servo umilmente il figlio, non dovrei
venire a cercare appoggio, consigli,
anche informazioni, presso colui che
tanto gloriosamente ha servito il
padre?»
«Bah» fece Sully con amarezza,
«chi si ricorda dei servigi resi
quando chi li rendeva è diventato
inutile? Un vecchio albero morto
non è più buono neanche per il
fuoco, tanto che non gli si fa
nemmeno l’onore di abbatterlo.»
«Spesso il legno morto brilla di
notte, signor duca, mentre quello
vivo nell’oscurità si perde. Ma,
ringraziando Dio, posso accettare il
paragone; voi siete ancora una
quercia; e spero che tra quei rami gli
uccelli chiamati ricordi cantino
armoniosamente la vostra gloria.»
«Mi hanno detto che scrivete
versi, monsignore» disse
sdegnosamente Sully.
«Sì, a tempo perso, ma non per
me, signor duca. Ho imparato la
poesia non per essere io poeta ma
per saper giudicare la poesia e
ricompensare i poeti.»
«Ai miei tempi» replicò Sully,
«non ci si occupava di quei signori.»
«I vostri, messere, erano tempi
gloriosi. Vi si registravano nomi di
battaglie come quelle di Coutras,
Arques, Ivry, Fontaine-Française; si
riprendevano i progetti di Francesco
I e di Enrico II contro la casa
d’Austria e voi eravate un pilastro di
quella grande politica.»
«Cosa che mi mise in urto con la
regina madre.»
«Si stabiliva allora l’influenza
francese in Italia» proseguì il
cardinale, senza dar segno di aver
notato l’interruzione che invece
registrò con cura nella mente. «Si
annettevano la Savoia, la Bresse, il
Bugey e il Valromey; si sostenevano
i Paesi Bassi contro la Spagna; in
Germania si avvicinavano i luterani
ai cattolici; si elaborava il progetto,
e voi ne eravate uno dei cervelli, di
una sorta di repubblica cristiana, in
cui tutte le contese sarebbero state
valutate da una dieta sovrana, in cui
tutte le religioni sarebbero state
messe in condizioni di parità, in cui
si prendevano le armi per far rendere
agli eredi di Juiliers i territori
confiscati loro dall’imperatore
Mattia.»
«Già, e fu nel bel mezzo di questi
progetti che i parricidi lo colpirono.»
Richelieu registrò questa seconda
interruzione accanto alla prima,
perché su entrambe aveva intenzione
di tornare, e proseguì:
«In epoche così gloriose non c’è
tempo da spendere per le lettere, non
è sotto Cesare che nascono gli
Orazio e i Virgilio, o, se nascono
sotto Cesare, cantano solamente
sotto Augusto. Ammiro i vostri
guerrieri e i vostri legislatori,
monsieur de Sully, non disprezzate
troppo i miei poeti. I guerrieri e i
legislatori rendono grandi gli imperi,
ma i poeti li illuminano. L’avvenire,
come il passato, è una notte. Di
quella notte i poeti sono i fari.
Domandate oggi chi erano i ministri
e i generali di Augusto, vi citeranno
Agrippa, tutti gli altri sono caduti
nell’oblio. Domandate chi erano i
protetti di Mecenate, vi citeranno
Virgilio, Orazio, Vario Rufo,
Tibullo... Ovidio proscritto è una
macchia sul regno del nipote di
Cesare. Io non posso essere Agrippa
o Sully, lasciatemi essere
Mecenate.»
Sully guardò meravigliato
quell’uomo del cui tirannico
dispotismo gli avevano mille volte
parlato e che veniva a trovarlo per
ricordargli i giorni gloriosi della sua
potenza e mettere la sua presente
grandezza ai piedi della sua
grandezza passata.
Trasse dalla barba lo stuzzicadenti
e passandoselo fra i denti, che
avrebbero fatto onore a un
giovanotto:
«Bene, bene» disse, «lascio in
pace i vostri poeti, benché quello
che fanno non valga poi un
granché.»
«Monsieur de Sully» replicò
Richelieu, «quanto tempo fa avete
fatto piantare gli olmi che danno
ombra alle nostre strade?»
«Monsieur de Richelieu» disse
Sully, «fu dal 1598 al 1604, quindi
ventiquattro anni fa.»
«Quando li avete piantati erano
belli e rigogliosi come oggi?»
«Tenendo conto che li hanno
conciati ben bene i miei olmi.»
«Sì, so che il popolo, che
fraintende le migliori intenzioni e
che non ha visto l’ombra che la
mano previdente di un grande uomo
seminava sulle strade per il
benessere dei viaggiatori stanchi, ne
ha strappato una parte, ma quelli che
sono sopravvissuti non hanno
allargato i loro rami, moltiplicato le
loro foglie?»
«Sì, sì, certo» rispose Sully tutto
contento, «e quando vedo i superstiti
così rigogliosi, così verdi e sani
quasi mi consolo per quelli che non
ci sono più.»
«Ebbene, monsieur de Sully»
disse Richelieu, «a me accade la
stessa cosa con i miei poeti. La
critica ne strapperà via una parte, il
buon gusto un’altra, ma quelli che
rimarranno ne risulteranno più forti
e fertili. Oggi ho piantato un olmo
che si chiama Rotrou, domani
probabilmente pianterò una quercia
che si chiamerà Corneille. Intanto,
annaffio. Non citerò quelli che sono
cresciuti da soli sotto il vostro
regno: Desmarets, Bois-Robert,
Mairet, Voiture, Chapelain,
Gombauld, Baro, Raissiguier, La
Morelle, Grandchamp, che so... non
è colpa mia se crescono male e se,
invece di formare una foresta, fanno
sì e no un bosco ceduo.»
«D’accordo, d’accordo» disse
Sully. «Ai grandi lavoratori – e si
dice che voi lo siate, signor
cardinale – occorrono delle
distrazioni, e tanto vale che nei
vostri momenti liberi facciate il
giardiniere.»
«Se Dio benedice il mio giardino,
monsieur de Sully, diventerà quello
del mondo intero!»
«Ma insomma» tagliò corto Sully,
«presumo che non vi siate alzato alle
cinque del mattino per venire a
complimentarvi con me e parlarmi
dei vostri poeti.»
«Prima di tutto non mi sono
alzato alle cinque del mattino»
ribatté sorridendo il cardinale. «In
verità, non mi sono ancora coricato.
Ai vostri tempi, monsieur de Sully,
forse ci si coricava tardi e ci si
alzava presto, ma almeno si
dormiva. Nei tempi che sono i miei
non si dorme più. No, non sono
venuto apposta per complimentarmi
con voi e parlarvi dei miei poeti. Ma
se ne è presentata l’occasione e non
me la sono lasciata sfuggire. Sono
venuto per parlarvi di due cose, di
cui avete parlato voi per primo.»
«Io vi ho parlato di due cose?»
«Sì.»
«Ma se non ho detto niente...»
«Perdonatemi, quando vi ho
parlato dei vostri grandi progetti
contro l’Austria e la Spagna, voi
avete detto: “Progetti che mi misero
in urto con la regina madre”.»
«È vero. Non è austriaca per parte
della madre Giovanna, e spagnola
per parte dello zio Carlo V?»
«Esattamente, eppure se era
regina di Francia lo doveva a voi,
monsieur de Sully.»
«Ho sbagliato a dare quel
consiglio al mio augusto padrone, re
Enrico IV. E molto spesso, poi, me
ne sono pentito.»
«Ebbene, la stessa lotta che avete
dovuto sostenere vent’anni fa,
soccombendo, la sostengo oggi io e
forse soccomberò a mia volta, per
disgrazia della Francia, perché ho
due regine contro di me: la giovane
e la vecchia.»
«Per fortuna» disse Sully
accennando un sorriso e masticando
lo stuzzicadenti, «non è la giovane
quella più influente. Re Enrico IV
amava troppo, suo figlio non ama
abbastanza.»
«Avete mai riflettuto, signor duca,
sulla differenza tra padre e figlio?»
Sully guardò Richelieu con aria
beffarda, come per chiedergli: “È
qui che siete arrivato?”.
Poi:
«Tra padre e figlio...» ripeté con
uno strano tono. «Sì, certo, ci ho
riflettuto spesso.»
«Il padre lo ricordate: tutto
azione, capace di fare venti leghe a
cavallo in un giorno e giocare a
pallacorda la sera, sempre in piedi;
riuniva il Consiglio mentre
camminava, sempre camminando
riceveva gli ambasciatori, cacciava
dalla mattina alla sera, pieno di
slanci per ogni cosa, giocava per
guadagnare, barando quando non
vinceva, restituendo il denaro mal
guadagnato, sì, ma senza potersi
trattenere dal barare, con una
sensibilità nervosa, una fisionomia
sorridente, ma di un sorriso sempre
prossimo alle lacrime, volubile fino
alla follia, ma incapace di non
mettere una parte del cuore anche
nei più insignificanti capricci.
Tradiva le donne, ma le onorava.
Nascendo, aveva ricevuto dal cielo
quel dono immenso che fa piangere
santa Teresa su Satana, capace solo
di odiare: lui amava.»
«Avete conosciuto re Enrico IV?»
«L’ho visto una o due volte
quando ero giovane» disse
Richelieu, «e basta. Ma l’ho studiato
molto. All’opposto di lui, guardate
suo figlio: lento come un vecchio,
tetro come un trapassato, non
cammina quasi mai, rimane in piedi,
ma immobile, accanto a una finestra,
a guardare senza vedere, caccia
come un automa, gioca senza il
desiderio di guadagnare, senza il
fastidio di perdere, dorme molto,
piange poco, non ama niente e, quel
che è peggio, nessuno.»
«Mi sembra di capire che su un
uomo così voi non abbiate presa.»
«Sì, invece, perché con tutto
questo lui possiede due qualità: ha
l’orgoglio della monarchia, è geloso
dell’onore della Francia. Con questi
due speroni riesco a spronarlo. E
riuscirei a farne un grande re senza
la madre, incessantemente di
traverso sulla mia strada per
difendere la Spagna o sostenere
l’Austria quando, emulando la
politica del grande re Enrico e del
suo grande ministro Sully, voglio
attaccare quei due eterni nemici
della Francia. Ebbene, maestro,
vengo da voi, da voi che studio e
ammiro, soprattutto come esperto di
finanza, vengo a chiedere il vostro
appoggio contro il cattivo genio che
fu un tempo il vostro nemico e che è
oggi il mio.»
«In che cosa posso aiutarvi»
domandò Sully, «voi che dicono più
potente del re?»
«Avete detto che fu nel bel mezzo
di questi progetti che i parricidi
colpirono Enrico IV.»
«Ho detto i parricidi o il
parricida?»
«Avete detto i parricidi.»
Sully rimase in silenzio.
«Ebbene» proseguì Richelieu
avvicinando la sua sedia alla
poltrona di Sully, «volete raccogliere
tutti i vostri ricordi a proposito di
quel fatale 14 maggio e dirmi quali
avvertimenti avete ricevuto?»
«Ne ricevemmo molti, ma
purtroppo non vi facemmo
attenzione. Quando la Provvidenza
veglia, accade spesso che gli uomini
dormano. Ma prima di tutto re
Enrico IV aveva commesso due
imprudenze.»
«Quali?»
«Dopo aver promesso a papa
Paolo V di richiamare i gesuiti,
quando lui lo invitò a mantenere la
promessa gli rispose: “Se avessi due
vite, ne darei volentieri una per
soddisfare Vostra Santità, ma poiché
ne ho una soltanto la conservo per il
vostro servizio e per l’interesse dei
miei sudditi”. La seconda fu di
lasciar insultare in pieno Parlamento
il cavaliere della regina,
l’illustrissimo furfante Concino
Concini. Lei si ritenne
personalmente umiliata quando vide
il suo cicisbeo, il suo brillante
vincitore di giostre, colui che aveva
eclissato principi e sconfitto
magistrati, spennato da gente di
cultura. Giurò al re una vendetta
italiana e chiuse il cuore a tutti gli
avvertimenti che le vennero dati.»
«E questi avvertimenti non
arrivarono soprattutto da una donna
chiamata dama di Coëtman?»
Sully ebbe un sussulto.
«Sì, soprattutto da lei» rispose.
«Ma ce ne furono altri. Ci fu un
certo Lagarde, che si trovava a
Napoli da Hébert, che mise in
guardia il re e che d’Épernon fece
assassinare. Ci fu un certo Labrosse,
che non è mai stato ritrovato e che,
la mattina del 14 maggio, avvertì
monsieur de Vendôme che il
passaggio dal 13 al 14 sarebbe stato
fatale al re [perché non so se avete
badato all’influenza del numero 14
sulla nascita, la vita e la morte di re
Enrico IV.»
«No» rispose Richelieu, che dava
corda a Sully per essere sicuro che
arrivasse dove voleva lui.
«Ascoltate» disse quel profondo
studioso di calcoli, che aveva ridotto
tutto alla scienza dei numeri: «1°, re
Enrico IV è nato quattordici secoli,
quattordici decadi e quattordici anni
dopo la natività di Nostro Signore;
2°, il suo primo giorno è stato il 14
dicembre e l’ultimo il 14 maggio;
3°, nel suo nome, Henri di Navarra,
c’erano quattordici lettere; 4°, è
vissuto quattro volte quattordici
anni, quattro volte quattordici giorni
e quattordici settimane; 5°, è stato
ferito da Jean Chatel quattordici
giorni dopo il 14 dicembre nell’anno
1594, e tra questo momento e quello
della sua morte passano quattordici
anni, quattordici mesi e quattordici
volte cinque giorni; 6°, il 14 marzo
vinse la battaglia di Ivry; 7°, il
Delfino, nostro attuale re, fu
battezzato il 14 agosto; 8°, il re fu
ucciso il 14 maggio, quattordici
secoli, quattordici lustri dopo
l’incarnazione; 9°, Ravaillac fu
giustiziato quattordici giorni dopo la
morte del re; 10°, infine,
centoquindici volte quattordici fa
1610, millesimo dell’anno in cui
morì.»
«Sì» disse Richelieu, «è curioso e
bizzarro a un tempo. Di certo non
ignorate che ognuno ha il suo
numero fatale,] 1 ma» insistette,
«quella dama di Coëtman non si è
rivolta anche a voi, signor duca?»
Sully abbassò la testa.
«Anche i migliori e i più fidati
hanno le loro miopie, tuttavia ne
parlai al re. Ma lui alzò le spalle e
disse: “Che cosa volete, Rosny – mi
aveva sempre chiamato con il mio
nome d’origine, pur avendomi fatto
duca di Sully –, sarà come Dio
vorrà”.»
«Siete stato avvertito con una
lettera, vero, signor duca?»
«Sì.»
«A chi era indirizzata la lettera?»
«A me, perché la consegnassi al
re.»
«Da chi vi era stata indirizzata?»
«Dalla dama di Coëtman.»
«Un’altra donna si era incaricata
di consegnarvela?»
«Mademoiselle de Gournay.»
«E posso chiedervi, signor duca –
considerate che è per il bene e
l’onore della Francia che ho l’onore
di farvi queste domande...»
Sully accennò con il capo che era
pronto a rispondere.
«... quella lettera, perché non la
consegnaste al re?»
«Perché i nomi della regina Maria
de’ Medici, di d’Épernon e di
Concini vi erano scritti a chiare
lettere.»
«L’avete conservata quella lettera,
signor duca?»
«No, l’ho restituita.»
«Posso domandarvi a chi?»
«A chi me l’aveva portata,
mademoiselle de Gournay.»
«Signor duca, avete qualcosa in
contrario a scrivermi queste parole:
“Mademoiselle de Gournay è
autorizzata a consegnare al signor
cardinale la lettera indirizzata l’11
maggio 1610 al duca di Sully dalla
dama di Coëtman”?»
«No, se mademoiselle de Gournay
ve la rifiutasse. Ma ve la darà,
perché è povera e ha gran necessità
che voi le diate del denaro, senza
bisogno della mia autorizzazione.»
«E se rifiutasse, però?»
«Mandatemi un messaggero che
vi riporterà la mia autorizzazione.»
«Ancora un’ultima cosa,
monsieur de Sully, e avrete tutta la
mia riconoscenza.»
Sully s’inchinò.
«Presso monsieur Joly de Fleury,
all’angolo di rue Saint-Honoré con
rue des Bons-Enfants, in una
cassetta murata, esisteva il verbale
del processo di Ravaillac in
Parlamento.»
«La cassetta è stata reclamata e
portata al Palazzo di Giustizia, dove
è scomparsa in un incendio. Di
modo che a Joly de Fleury è rimasto
solo il possesso del verbale dettato
da Ravaillac sul patibolo, fra le
tenaglie e il piombo fuso.»
«Quel foglio non è più nelle mani
della famiglia.»
«Infatti è stato restituito da Joly
de Fleury prima della sua morte.»
«Sapete a chi?»
«Sì.»
«Lo sapete!» esclamò Richelieu
senza trattenere un moto di gioia.
«Allora me lo direte, vero? Quel
foglio costituisce la mia personale
salvezza, che non conta niente, ma
soprattutto la gloria, la grandezza,
l’onore della Francia, che conta più
di tutto. In nome del cielo, ditemi a
chi è stato consegnato quel foglio.»
«Impossibile.»
«E perché impossibile?»
«Ho giurato.»
Il cardinale si alzò.
«Dal momento che il duca di
Sully ha giurato, onore al suo
giuramento, ma, davvero, c’è una
fatalità sospesa sulla Francia.»
E senza nemmeno una parola per
cercare di smuovere Sully, gli
s’inchinò profondamente davanti,
ricevette da parte del vecchio
ministro un saluto educato ma privo
di trasporto, e si ritirò, cominciando
a dubitare di quella Provvidenza di
cui padre Joseph gli aveva promesso
il soccorso.

1 Il passo fra parentesi quadre figura


nell’edizione in volume del 1946, ma non nel
testo pubblicato sulle «Nouvelles». [NdC]
XII
Il cardinale in veste da camera
Il cardinale rientrò a casa, in place
Royale, verso le sette del mattino,
licenziò i portantini, che si
dichiararono ben pagati e quindi
soddisfatti della nottata, si coricò
due ore e intorno alle nove e mezza
del mattino scese nel suo studio in
pantofole e veste da camera.
Quello studio era l’universo del
duca di Richelieu. Lì lavorava dalle
dodici alle quattordici ore al giorno.
Lì faceva colazione con il suo
confessore, i suoi buffoni e i suoi
parassiti. 1 Spesso vi dormiva anche,
su un grande divano a forma di letto
su cui si buttava quando gli impegni
politici diventavano eccessivi. Di
solito cenava lì con sua nipote.
Nessuno poteva entrare in quello
studio che conteneva tutti i segreti di
Stato se non in presenza di
Richelieu, a eccezione del suo
segretario Charpentier, su cui poteva
contare come su se stesso.
Una volta entrato, ordinava a
Charpentier di aprirne tutte le porte,
tranne quella che portava da Marion
Delorme, di cui lui solo aveva la
chiave.
Cavois aveva commesso
l’indiscrezione di dire che a volte,
quando il cardinale, invece di
risalire in camera sua per coricarsi,
si buttava vestito sul divano dello
studio, nel corso della notte gli era
capitato di sentire una seconda voce,
dal timbro inequivocabilmente
femminile, dialogare con lui.
Le malelingue avevano diffuso la
voce che fosse Marion Delorme,
allora nel fiore della bellezza e della
gioventù, visto che aveva appena
diciotto anni, a passare come una
fata attraverso i muri o attraverso il
buco della serratura come un silfo
per andare a parlare con il cardinale
di cose che non avevano
assolutamente nulla a che fare con la
politica.
Ma nessuno poteva dire di averla
mai vista dal cardinale.
Del resto, noi, che siamo entrati in
quello studio che incuteva tanto
timore e ne conosciamo i segreti,
sappiamo che Richelieu
corrispondeva con la sua bella vicina
tramite una cassetta delle lettere, e
dunque Marion Delorme non aveva
nessun bisogno di andare dal
cardinale né lui da lei.
Quel giorno doveva avere
qualcosa da dirle, perché, come già
gli abbiamo visto fare, appena
entrato nello studio scrisse due righe
su un pezzo di carta, aprì la porta di
comunicazione, fece scivolare la
carta sotto la seconda porta, tirò il
cordone del campanello e richiuse la
prima.
Quella carta, possiamo dirlo ai
nostri lettori, cui non nascondiamo
niente, conteneva le seguenti
domande:
Nell’ultima settimana, quante volte il
conte di Moret si è recato da madame de
la Montagne? È fedele o infedele? Che
cosa si sa di lui?

La firma era, come sempre,


Armand. Bisogna però dire che la
scrittura e la firma erano contraffatte
e non avevano niente in comune con
quelle del grande ministro.
Dopo di che, chiamò Charpentier
e gli domandò chi c’era nel salotto
attiguo.
«Il reverendo padre Mulot,
monsieur de Lafollone e monsieur
de Bois-Robert» rispose il
segretario.
«Va bene, fateli entrare» disse
Richelieu.
Abbiamo detto che il cardinale di
solito faceva colazione con il suo
confessore, i suoi buffoni e i suoi
parassiti, e forse i nostri lettori si
sono stupiti della compagnia in cui
abbiamo messo il confessore di Sua
Eminenza, ma padre Mulot non era
uno di quei rigidi casisti che
sovraccaricano il loro penitente di
Pater noster e di Ave Maria.
No, padre Mulot era, prima di
tutto, un amico del cardinale. Undici
anni prima, al momento
dell’assassinio del maresciallo
d’Ancre, quando la regina madre era
stata esiliata a Blois e il cardinale ad
Avignone, padre Mulot, vuoi per
amicizia verso il giovane Richelieu,
vuoi per fiducia nel suo futuro
genio, aveva venduto tutto quello
che possedeva, ne aveva ricavato tre
o quattromila scudi e li aveva portati
al cardinale, allora vescovo di
Luçon. Inoltre egli si esprimeva
liberamente con tutti, senza
imbarazzo, qualunque fosse la
persona che aveva davanti.
Soprattutto a proposito del vino di
cattiva qualità era particolarmente
intrattabile, in quanto vero amatore
di quello buono. Una sera che
cenava da monsieur d’Alaincourt,
governatore di Lione, ed era
scontento del vino che gli servivano,
chiamò il valletto che glielo aveva
versato e, prendendolo per
un’orecchia:
«Ragazzo mio» gli disse, «siete
proprio un furfante a non avvertire il
vostro padrone che, forse non
intendendosene, crede di offrirci
vino e ci offre vinaccio.»
Con quel suo culto della vigna, il
bravo sacerdote si era fatto venire un
naso che la sera avrebbe potuto
servire da lanterna, come quello di
Bardolph, l’allegro compare di
Enrico IV; così che un giorno,
quando era ancora soltanto vescovo
di Luçon, Richelieu si stava
provando dei cappelli di castoro e
padre Mulot lo guardava; dopo
averne scelto uno, mettendoselo in
testa, Richelieu domandò:
«Mi sta bene questo?»
«Starebbe ancora meglio a Vostra
Grandezza» rispose Bois-Robert «se
avesse il colore del naso del vostro
cappellano.»
Battuta che a Bois-Robert il buon
Mulot non perdonò mai.
Il secondo convitato atteso dal
cardinale era Lafollone, un
gentiluomo della Turenna. Era una
specie di guardiano che il cardinale
si era fatto dare dal re prima di avere
delle guardie vere e proprie, per
evitare che lo si disturbasse
inutilmente o per cose di poco conto.
Questo Lafollone era buon
mangiatore quanto Mulot era buon
bevitore e veder bere uno e
mangiare l’altro era un piacere che il
cardinale si concedeva quasi tutti i
giorni. È un fatto che Lafollone
pensava esclusivamente alla tavola.
Quando gli altri dicevano che
sarebbe stato bello quel giorno
passeggiare o andare a caccia o fare
il bagno, lui invariabilmente diceva
che sarebbe stato bello mangiare! E
alla fine, pur avendo un suo corpo di
guardie, il cardinale si tenne
comunque Lafollone.
Il terzo convitato, o meglio la
terza persona che il cardinale aveva
fatto chiamare, era François Le
Métel de Bois-Robert, uno dei suoi
collaboratori, ma più ancora il suo
buffone. All’inizio, non si sa perché,
Bois-Robert non gli era piaciuto per
niente. Era scappato da Rouen, dove
era avvocato, per una brutta
faccenda di una ragazza che lo
accusava di avere avuto due figli da
lui. Arrivato a Parigi, si era attaccato
al cardinale del Perron, poi aveva
cercato di passare al servizio del
cardinale, ma, come abbiamo detto,
non gli era affatto simpatico: diverse
volte aveva rimproverato ai suoi
collaboratori di non riuscire a
liberarlo della sua presenza.
«Eh, signore» gli disse Bois-
Robert un giorno, «voi permettete ai
cani di mangiare i resti della vostra
tavola; non valgo neanche un cane,
io?»
Quell’umiltà disarmò il cardinale,
che da allora non solo lo aveva preso
in simpatia, ma addirittura non
poteva più fare a meno di lui.
Quando era di buon umore, il
cardinale lo chiamava Le Bois e
basta, per via di una percentuale che
gli aveva donato monsieur de
Châteauneuf sul legname
proveniente dalla Normandia.
Era il suo giornale del mattino: da
Bois-Robert il cardinale sapeva tutto
quanto accadeva in quella
repubblica delle lettere che
cominciava allora a consolidarsi.
Inoltre Bois-Robert, che aveva un
cuore d’oro, guidava la mano del
cardinale nei benefici che doveva
distribuire e a volte la forzava, anche
suo malgrado, ad aprirsi quando
voleva rimanere chiusa per qualche
ragione di odio o di gelosia. A modo
suo, Bois-Robert gli dimostrava che
chi ha il potere di vendicarsi non
deve odiare e che chi è onnipotente
non ha motivo di essere geloso.
È comprensibile che, con la mente
sempre rivolta alla politica, alle
incessanti minacce di complotti, alla
lotta accanita contro tutto ciò che
aveva intorno, il cardinale avesse
ogni tanto bisogno di lasciarsi
andare all’allegria, che diventava per
lui una forma di igiene: troppo teso,
e soprattutto sempre teso, l’arco si
sarebbe spezzato.
In particolare, dopo notti come
quella che aveva passato e nel
mezzo delle sue più cupe riflessioni
sul futuro il cardinale cercava la
compagnia dei tre uomini con i quali
lo vedremo deporre per qualche
istante il suo lavoro, le sue angosce
e le sue fatiche.
Del resto, oltre ai racconti che lui
come al solito sperava di ottenere
dall’inesauribile vivacità di Bois-
Robert, doveva incaricarlo di
scoprire dove abitava mademoiselle
de Gournay e di portarla da lui.
Non appena ebbe lasciato nel
corridoio la lettera per Marion
Delorme, ordinò quindi a
Charpentier, come abbiamo detto, di
far entrare i suoi convitati.
Charpentier aprì la porta.
Bois-Robert e Lafollone facevano
complimenti per cedersi
reciprocamente il passo, ma Mulot,
che pareva di cattivo umore, li
scostò entrambi e passò per primo.
Aveva in mano una lettera.
«Oh, oh, caro padre, che cosa
avete?»
«Che cos’ho?» gridò Mulot
battendo i piedi. «Ho che sono
furioso!»
«E perché?»
«Continueranno a far sempre le
stesse cretinerie!»
«Chi?»
«Quelli che mi scrivono da parte
vostra.»
«Dio mio, che cos’avranno mai
cacciato nella vostra lettera?»
«Non è la lettera che non va.
Anzi, contrariamente alle abitudini
dei vostri uomini, è anche
abbastanza educata.»
«Allora che cos’è che non va?»
«L’indirizzo. Sapete bene che non
sono il vostro cappellano,
considerato che, se mai consentissi a
essere il cappellano di qualcuno,
sarebbe qualcuno di più grande di
voi. Sono canonico della Sainte-
Chapelle.»
«E invece che cos’hanno scritto
sull’indirizzo?»
«A monsieur – monsieur! –
Mulot, cappellano di Sua Eminenza,
i cretini!»
«Però!» replicò il cardinale, ben
consapevole che così si sarebbe
attirato una rispostaccia, «e se fossi
stato io a scrivere l’indirizzo?»
«Se foste stato voi non sarei per
niente stupito. Non sarebbe certo,
Dio mi è testimone, la prima
stupidaggine che fate!»
«Mi fa piacere sapere che questa
cosa vi dà fastidio.»
«Non mi dà fastidio, mi esaspera
proprio!»
«Meglio così!»
«Perché meglio così?»
«Perché non siete mai tanto
divertente come quando siete
arrabbiato e, siccome vedervi
arrabbiato mi piace molto, d’ora in
poi vi scriverò solo “monsieur
Mulot, cappellano di Sua
Eminenza”.»
«Fatelo e vedrete!»
«Che cosa vedrò?»
«Vi lascerò mangiare da solo.»
«Bene, manderò Cavois a
prendervi.»
«Non mangerò.»
«Verrete costretto a farlo.»
«Non berrò.»
«Vi farò stappare sotto il naso
bottiglie di romanée, di closvougeot
e di chambertin.» 2
«Tacete, zitto!» gridò Mulot, al
colmo dell’esasperazione,
avanzando verso il cardinale con i
pugni chiusi. «Guardate, lo dico
forte, siete un uomo cattivo!»
«Mulot, Mulot!» replicò il
cardinale, che più il suo
interlocutore si arrabbiava più
rideva, «vi farò impiccare!»
«E con che pretesto?»
«Che venite meno al segreto della
confessione!»
I presenti scoppiarono a ridere,
mentre Mulot strappava la lettera e
la buttava nel fuoco.
Durante la discussione, era stata
portata una tavola già apparecchiata.
«Oh, guardiamo che cosa c’è per
colazione» disse Lafollone, «e
vediamo un po’ se vale la pena di
aver disturbato un bravo gentiluomo
che a casa sua ne aveva già una
bell’e pronta.»
E scoprendo i piatti uno dopo
l’altro:
«Ah, petti di cappone brasati,
salame di piviere e allodola, due
beccacce arrosto, funghi farciti alla
provenzale, gamberi alla bordolese –
a rigore, con questo si può
mangiare.»
«Quante storie» fece Mulot, «di
cibo ce ne sarà sempre abbastanza,
lo sanno tutti che il signor cardinale
cade in tutti i peccati mortali, e in
particolare in quello della gola, ma
sono i vini che dobbiamo esaminare.
Bouzy rosso, uhm!, un bordeaux
pregiato, ma, come tutti i bordeaux,
va bene per chi soffre di mal di
stomaco. Viva i vini di Borgogna!
Nuits, ah!, pommard, moulin-à-
vent, 3 non è il meglio ma insomma
bisognerà che ce ne accontentiamo!»
«Ma come, reverendo, avete a
colazione champagne, bordeaux,
bourgogne e trovate che non sia
abbastanza?»
«Non dico che non ce n’è
abbastanza» disse Mulot
addolcendosi, «dico soltanto che
potrebbe essere migliore.»
«Fai colazione con noi, Bois-
Robert?» domandò il cardinale.
«Sua Eminenza mi deve scusare.
Mi avete convocato per questa
mattina, ma non mi hanno detto
niente della colazione e io ho
mangiato con Racan, che si toglieva
le braghe su un paracarri all’angolo
fra rue Vieille-du-Temple e rue
Saint-Antoine.»
«Cosa diavolo mi stai
raccontando? Mettetevi a tavola,
Mulot; sedetevi, Lafollone, e
silenzio, voglio ascoltare monsieur
Le Bois che ci racconterà una storia
carina delle sue.»
«Racconti, racconti, io non lo
interrompo di certo.»
«Bevo questo bicchiere di
pommard al vostro racconto, Le
Bois, e che sia più divertente del
solito» disse Mulot ancora un po’
irritato.
«Non posso renderlo più
divertente di quanto non sia» replicò
Bois-Robert, «dato che racconto la
verità.»
«La verità!» disse il cardinale,
«come se fosse normale togliersi le
braghe in mezzo alla strada alle otto
e mezza del mattino, su un
paracarro!»
«Vedrete, monsignore. Vostra
Eminenza sa che Malherbe abita a
cento passi da qui, in rue des
Tournelles.»
«Sì, lo so» rispose il cardinale
che, mangiando molto poco perché
era debole di stomaco, poteva
parlare mentre mangiava.
«Bene, pare che ieri sera abbia
fatto bagordi insieme a Ivrande e
Racan e, siccome Malherbe ha una
camera sola, i tre compagni, ubriachi
fradici, hanno dormito nella stessa
camera. Racan si sveglia per primo,
perché aveva da fare presto. Si alza,
scambia le braghe di Ivrande per le
sue mutande, le infila, ci indossa
sopra le sue, finisce di prepararsi ed
esce. Cinque minuti dopo, Ivrande
vuole alzarsi anche lui e non trova
più le sue braghe. “Accidenti” dice a
Malherbe, “di certo se le è prese
quel distratto patentato di Racan!” Si
infila le braghe di Malherbe che era
ancora a letto e, malgrado le sue
urla, esce di corsa per raggiungere
Racan: lo vede che se ne va tutto
serio con un sedere due volte più
grande del solito. Lo raggiunge e
reclama la sua proprietà. “Perbacco!
È vero, hai ragione!” gli dice Racan.
E senza por tempo in mezzo si siede,
come ho avuto l’onore di dire a
Vostra Eminenza, all’angolo fra rue
Vieille-du-Temple e rue Saint-
Antoine, il luogo di passaggio più
frequentato di Parigi, toglie prima le
braghe di sopra, poi quelle di sotto,
le restituisce a Ivrande e si rimette le
sue. Io sono arrivato in quel
momento e gli ho offerto di invitarlo
a colazione. Dapprima ha rifiutato
dicendo che si era alzato così presto
solo perché aveva da portare a
termine una faccenda della massima
importanza, ma quando ha cercato di
ricordarsi di quale faccenda si
trattava non c’è riuscito. Solo alla
fine della colazione, si è
improvvisamente dato un colpo sulla
fronte. “Ecco, adesso ricordo che
cosa dovevo fare.”»
«E che cosa doveva fare?»
domandò il cardinale che, come
sempre, ascoltava con gran piacere i
racconti di Bois-Robert.
«Doveva andare a chiedere
notizie della marchesa di
Rambouillet, che da quando è
capitato quell’incidente al marchese
di Pisany ha la febbre.»
«In effetti» disse il cardinale,
«adesso che mi ci fai pensare, Le
Bois, ho saputo da mia nipote che
era ammalata. Andrai a chiedere sue
notizie da parte mia, passando da...»
«Inutile, monsignore.»
«Perché inutile?»
«Perché è guarita.»
«Guarita? E chi l’ha curata?»
«Voiture.»
«E da quando è diventato
medico?»
«Non lo è, ma Vostra Eminenza
vedrà che non c’è nessun bisogno di
essere medico per guarire dalla
febbre.»
«Ah, no?»
«Basta avere due orsi.»
«Come due orsi?»
«Sì, il nostro amico Voiture aveva
sentito dire che, facendo una grossa
sorpresa a qualcuno che avesse la
febbre, lo si poteva guarire, e così
passeggiava per strada chiedendosi
quale sorpresa avrebbe potuto fare a
madame de Rambouillet, quando
s’imbatté in due che portavano in
giro orsi ammaestrati per mostrarli
alla gente. “Oh, perbacco, ecco quel
che fa al caso mio!” Prende con sé i
savoiardi e gli animali e porta il tutto
all’hôtel de Rambouillet. La
marchesa era seduta accanto al
fuoco, dietro un paravento. Voiture
entra a passi felpati, avvicina due
sedie al paravento e ci fa salire sopra
gli orsi. Madame de Rambouillet
sente soffiare, si volta e si vede
dietro due musi ringhiosi. Ha
creduto di morire di paura, ma la
febbre era passata.»
«Bella, la storia» disse il
cardinale. «Che cosa ne pensate,
Mulot?»
«Penso che agli occhi del Signore
tutti i mezzi siano buoni» rispose il
cappellano, che il vino rendeva
tenero nei confronti della religione,
«purché si sia in pace con lui.»
«Il Signore! Alla larga dal
predicatore! Guardate in che
compagnia mette Dio: con Voiture,
un savoiardo e due orsi, il tutto dalla
marchesa di Rambouillet!»
«Dio è in ogni luogo» disse il
cappellano, levando santamente gli
occhi e il bicchiere al cielo. «Ma
voi, monsignore, non credete in
Dio!»
«Come, non credo in Dio?»
esclamò il cardinale.
«Non mi direte che ci credete,
adesso» replicò il prete fissando sul
cardinale i suoi occhietti neri
illuminati dal naso.
«Ma certo che ci credo!»
«Ma via, nella vostra ultima
confessione avete ammesso che non
ci credevate!»
«Lafollone! Le Bois!» esclamò
ridendo il cardinale, «non credete a
una parola di quel che vi dice Mulot.
È talmente ubriaco che confonde la
mia confessione con il suo esame di
coscienza. Avete finito, Lafollone?»
«Sto finendo, monsignore.»
«Bene, appena avete finito,
ringraziateci e andatevene. Devo
incaricare Le Bois di una missione
segreta.»
«E io, monsignore» disse Le Bois,
«ho una piccola petizione da
presentarvi.»
«Un altro protetto.»
«No, monsignore, una protetta.»
«Le Bois, Le Bois, stai perdendo
la testa, amico mio.»
«Oh, monsignore! Ha
settant’anni!»
«E che cosa fa la tua protetta?»
«Versi, monsignore.»
«Versi?»
«Sì, e molto belli! Ne volete
ascoltare qualcuno?»
«No di certo, Mulot si
addormenterebbe e a Lafollone
rimarrebbe tutto sullo stomaco.»
«Soltanto quattro.»
«Be’, per quattro non vedo
controindicazioni.»
«Tenete, monsignore» disse Bois-
Robert porgendo al cardinale
un’incisione di Giovanna d’Arco
che aveva posato su una sedia
entrando.
«Ma questa» osservò il cardinale
«è un’incisione, e tu mi parli di
versi.»
«Leggete sotto l’incisione,
monsignore.»
«Ah, benissimo, ecco!»
E il cardinale lesse questi quattro
versi:
Peux-tu bien accorder, Vierge du ciel
chérie,
La douceur de tes yeux et ce glaive irrité?
La douceur de mes yeux caresse ma
Patrie,
Et mon glaive en fureur lui rend sa
Liberté. 4

«Guarda, guarda!» fece il


cardinale, e li rilesse una seconda
volta. «Sono belli questi versi,
hanno un andamento fiero e potente.
Di chi sono?»
«Leggete il nome dell’autore,
monsignore, è scritto sotto.»
«Marie Le Jars, damigella di
Gournay. Come!» esclamò il
cardinale, «sono di mademoiselle de
Gournay questi versi?»
«Di mademoiselle de Gournay, sì,
monsignore.»
«Quella mademoiselle de
Gournay autrice di un volume
intitolato L’Ombre?»
«L’autrice di un volume intitolato
L’Ombre.»
«Ma è proprio da lei che volevo
mandarti, Le Bois.»
«Che coincidenza!»
«Prendi la mia carrozza e vai a
cercarmela.»
«Disgraziato!» intervenne Mulot.
«Gli farà fare tante di quelle corse
per i suoi poveri poeti che li farà
schiattare, i cavalli di monsignore.»
«Reverendo» replicò Bois-Robert,
«se Dio avesse creato i cavalli di
monsignore perché si riposassero, li
avrebbe fatti canonici della Sainte-
Chapelle.»
«Ah, questa volta ve le ha cantate,
caro mio» disse Richelieu
scoppiando a ridere, mentre Mulot
mugugnava, senza trovare niente da
ribattere.
«Il cappellano di monsignore può
stare tranquillo.»
«Non sono il cappellano di
monsignore!» urlò Mulot esasperato.
«La damigella di Gournay è qui.»
«Come, la damigella di Gournay è
qui?» si stupì il cardinale.
«Sì. Dal momento che avevo
intenzione di chiedere per lei un
favore a Sua Eminenza ed ero
sicuro, conoscendo la sua bontà, che
me lo avrebbe accordato, le ho fatto
dire di trovarsi da monsignore fra le
dieci e le dieci e mezza. Quindi
penso che stia aspettando.»
«Sei un uomo prezioso, Le Bois.
Coraggio, reverendo, ancora un
bicchiere di nuits, e voi, Lafollone,
ancora un cucchiaio di quella
confettura, e poi rendete grazie. Non
bisogna far aspettare mademoiselle
de Gournay, che è nobile e figlia
adottiva di Montaigne.»
Lafollone incrociò con aria
angelica le mani sul grosso ventre e,
con gli occhi devotamente levati al
cielo:
«Signore Iddio» disse, «fateci la
grazia di digerire bene l’ottima
colazione che abbiamo mangiato
così di gusto.»
Era quello che il cardinale
definiva il “grazie” di Lafollone.
«E adesso, signori, lasciatemi.»
Lafollone e Mulot a questo invito
si alzarono – Lafollone con il volto
beato, Mulot con la faccia
ingrugnata – e si diressero alla porta,
Lafollone girando su se stesso per
dire:
«Certo che da Sua Eminenza si
mangia proprio bene.»
Mulot vacillando come un Sileno
e balbettando:
«Un cardinale che non crede in
Dio! Abominio e desolazione!»
Quanto a Bois-Robert, felice di
poter dare una buona notizia alla sua
protetta, si era già slanciato fuori
dallo studio di Sua Eminenza.
Il cardinale rimase da solo un
istante, che, per quanto breve, bastò
a far riprendere al suo viso angoloso,
alla fronte pallida e allo sguardo
pensieroso la loro severa fisionomia.
«Il foglio esiste» mormorò. «Sully
sa chi ce l’ha. E lo saprò anch’io!»
E mentre Bois-Robert entrava
tenendo per mano la damigella di
Gournay, il sorriso, ospite inusuale
di quella cupa fisionomia, gli
riapparve per un attimo sulle labbra.

1 Il termine (parasite nell’originale) è usato


ricordando il suo significato antico (ad Atene
designava funzionari del culto di svariate
divinità con attribuzioni non ben definite, che
partecipavano alla divisione della vittima
sacrificata) insieme a quello più moderno di
scroccone, amante della buona tavola, spesso
incaricato di allietare gli ospiti con buffonerie,
senza assumere il significato decisamente
spregiativo che gli attribuiamo oggi. [NdT]
2 Pregiati vini rossi della Borgogna. [NdT]
3 I primi due sono rossi della Côte d’Or
borgognona, il moulin-à-vent è un beaujolais.
[NdT]
4 Puoi tu, amata Vergine celeste, conciliare / la
dolcezza dei tuoi occhi e questa spada furiosa? /
La dolcezza dei miei occhi accarezza la Patria, /
e la mia spada furente le rende la Libertà. [NdT]
XIII
La damigella di Gournay
La damigella di Gournay, come
abbiamo già detto, era una zitella,
nata verso la metà del XVI secolo.
Era piccarda, e di buona famiglia.
Quando aveva diciannove anni,
aveva letto gli Essais di Montaigne e
ne era rimasta così colpita che aveva
voluto conoscerne l’autore.
Montaigne era arrivato a Parigi
proprio in quel periodo. Subito lei si
procurò il suo indirizzo, gli inviò i
propri saluti e gli espresse la stima
che provava per lui e per la sua
opera.
Montaigne si recò da lei il giorno
successivo e la trovò così giovane ed
entusiasta che le offrì il suo affetto,
chiedendole di considerarlo come un
padre, offerta che lei accolse con
gratitudine, tanto che a partire da
quel giorno aggiunse sotto la sua
firma: «Figlia d’elezione di
Montaigne».
Come abbiamo visto, componeva
versi non troppo brutti, che però non
la nutrivano abbastanza, e si trovava
in uno stato prossimo alla miseria
quando Bois-Robert, che era
soprannominato “avvocato delle
Muse afflitte”, venne a conoscenza
della sua indigenza e decise di
presentarla al cardinale di Richelieu.
Bois-Robert era così sicuro del
suo potere sul cardinale da dire:
«Non chiedo altro che di poter
essere nell’altro mondo in rapporti
tanto buoni con monsignor Gesù
Cristo quanto lo sono in questo con
monsignor il cardinale.»
Non esitò quindi a condurre in
place Royale la sua protetta e, per
uno strano destino, le aveva dato
appuntamento nel salone d’attesa del
cardinale lo stesso giorno e la stessa
ora in cui il cardinale intendeva
chiedergli di portarla da lui.
La povera signorina si trovava
dunque lì al momento opportuno e
pareva aver prevenuto, abile
postulante, i desideri del cardinale,
che la ricevette, lo abbiamo già
visto, con volto sorridente e, poiché
conosceva a memoria i suoi letterati
parigini, la ricevette con un
complimento interamente composto
da vecchie e straordinarie battute
tratte dal suo libro L’Ombre.
«Voi ridete di questa povera
vecchia» gli disse lei; «ma ridete
pure, grande genio: non deve forse il
mondo intero contribuire al vostro
svago?»
Il cardinale, meravigliato da tanta
presenza di spirito e toccato da tanta
umiltà, le porse le proprie scuse. Poi,
rivolgendosi a Bois-Robert:
«Vediamo, Le Bois» disse, «che
cosa desideri che facciamo per
mademoiselle de Gournay?»
«Non tocca a me mettere limiti
alla generosità di Vostra Eminenza»
replicò Bois-Robert inchinandosi.
«Allora» riprese il cardinale, «le
do una pensione di duecento scudi.»
Era molto per quell’epoca,
soprattutto per una povera signorina.
Duecento scudi equivalevano a
milleduecento lire, cioè quattro-
cinquemila di oggi.
La damigella di Gournay abbozzò
quindi un gesto e una frase di
ringraziamento, ma Bois-Robert, che
non era soddisfatto e non riteneva
che il cardinale se la potesse cavare
con così poco, interruppe il gesto e
la prima parola della frase.
«Monsignore ha detto duecento
scudi?»
«Sì» rispose il cardinale.
«Va bene per lei, monsignore, e
lei ve ne ringrazia. Ma
mademoiselle de Gournay ha dei
domestici.»
«Ah, ha dei domestici?» fece il
cardinale.
«Sì, una figlia della nobiltà non
può servirsi da sola. Monsignore lo
capisce.»
«Capisco, sì. E che domestici ha
mademoiselle de Gournay?»
domandò il cardinale.
«Ha mademoiselle Jamyn»
rispose Bois-Robert.
«Oh, monsieur Bois-Robert»
mormorò la zitella, trovando che
Bois-Robert esagerasse con le
libertà sul terreno della benevolenza
del cardinale.
«Lasciate fare a me, lasciate fare a
me» disse Bois-Robert, «conosco
Sua Eminenza.»
«E chi sarebbe mademoiselle
Jamyn?» domandò il cardinale.
«La bastarda di Amadis Jamyn,
paggio di Ronsard.»
«Do cinquanta lire all’anno per la
bastarda di Amadis Jamyn, paggio
di Ronsard» disse il cardinale.
La vecchia signorina fece per
alzarsi, ma Bois-Robert la fece
risedere.
«Va bene per Amadis Jamyn»
disse il tenace avvocato, «e
mademoiselle de Gournay vi
ringrazia a nome suo. Ma ha ancora
la diletta Piaillon.»
«E la diletta Piaillon chi è?»
domandò il cardinale, mentre la
povera mademoiselle de Gournay
faceva a Bois-Robert gesti disperati
che lui non sembrava nemmeno
vedere.
«La diletta Piaillon. Vostra
Eminenza non conosce la diletta
Piaillon?»
«No, Le Bois, lo ammetto.»
«È la gatta di mademoiselle de
Gournay.»
«Monsignore» esclamò la povera
donna, «perdonate, vi prego.»
Il cardinale fece un cenno con la
mano per rassicurarla.
«Do venti lire di pensione alla
diletta Piaillon, a condizione che
abbia da mangiare della trippa.»
«Certo, ne avrà, e anche cucinata
à la mode de Caen, se Vostra
Eminenza vuole così. E
mademoiselle de Gournay vi
ringrazia a nome della diletta
Piaillon, monsignore, ma...»
«Come, Le Bois, c’è ancora un
ma?» chiese il cardinale senza poter
trattenere una risata.
«Sì, monsignore, la diletta
Piaillon ha appena fatto i cuccioli.»
«Oh!» fece la damigella di
Gournay confusa, giungendo le
mani.
«Quanti gattini?»
«Cinque!»
«Però!» replicò il cardinale, «la
diletta Piaillon è ben prolifica. Va
bene, Le Bois, aggiungo una pistola
per ogni gattino.»
«E adesso, mademoiselle de
Gournay» disse Bois-Robert felice,
«vi consento di ringraziare Sua
Eminenza.»
«Non ancora, non ancora» disse il
cardinale, «e non tocca a
mademoiselle de Gournay
ringraziarmi, mentre toccherà
probabilmente a me ringraziare lei
fra un momento.»
«Mah!» fece Bois-Robert stupito.
«Lasciaci soli, Le Bois, ho un
favore da chiedere a mademoiselle
de Gournay.»
Bois-Robert gettò uno sguardo
sbalordito sul cardinale, poi su
mademoiselle de Gournay.
«Sì, ho capito che cosa ti passa
per la testa, balordo che non sei
altro!» disse il cardinale. «Ma se mi
giunge alle orecchie un qualunque
discorso sull’onore di mademoiselle
de Gournay proveniente da te, avrai
a che fare con me. Aspetta la
signorina nel salone.»
Bois-Robert salutò e uscì. Non
capiva assolutamente nulla di quanto
stava succedendo.
Il cardinale si assicurò che la
porta fosse ben chiusa e,
avvicinandosi a mademoiselle de
Gournay, non meno stupita di Bois-
Robert, le disse:
«Sì, signorina, ho un favore da
chiedervi.»
«Quale, monsignore?» fece la
poveretta.
«Quello di richiamare i vostri
ricordi. Non vi sarà difficile: credo
che abbiate buona memoria.»
«Eccellente, monsignore, se non
si va troppo indietro.»
«L’informazione che devo
chiedervi riguarda un fatto, o meglio
due fatti che si svolsero fra il 9 e
l’11 maggio 1610.»
Mademoiselle de Gournay
sobbalzò nel sentire questa data, e
dallo sguardo che lanciò al cardinale
trapelava una certa preoccupazione.
«Fra il 9 e l’11 maggio» ripeté,
«fra il 9 e l’11 maggio 1610, cioè
l’anno in cui fu ucciso il nostro
povero caro re Enrico IV,
beneamato.»
«Esattamente, signorina, e
l’informazione che vi devo chiedere
è relativa alla sua morte.»
Mademoiselle de Gournay non
rispose, ma la sua preoccupazione
parve aumentare.
«Non vi preoccupate, signorina»
disse Richelieu, «la sorta
d’interrogatorio che vi farò subire
non riguarda in nessun modo voi e,
ben lungi dal volervene, sappiate,
per essere grata solamente a voi
stessa, sappiate che il favore che vi
ho appena accordato, e che è ben al
di sotto dei vostri meriti, lo dovete
alla vostra fedeltà ai buoni princìpi
molto più che ai buoni uffici di
Bois-Robert.»
«Perdonatemi, monsignore, ma
non ci capisco niente» disse la
povera donna tutta agitata.
«Basteranno due parole per farvi
comprendere. Voi avete conosciuto
una donna chiamata Jacqueline Le
Voyer, dama di Coëtman.»
Questa volta mademoiselle de
Gournay trasalì e impallidì
visibilmente.
«Sì» disse. «È del mio stesso
paese, ma ha una trentina di anni
meno di me, se è ancora viva.»
«Vi ha consegnato il 9 o il 10
maggio, non ricordava nemmeno lei
il giorno preciso, una lettera
indirizzata a monsieur de Sully, che
avrebbe dovuto consegnarla al re
Enrico IV.»
«Era il 10 maggio, sì,
monsignore.»
«Sapete che cosa conteneva
quella lettera?»
«Era un avvertimento al re che
sarebbe stato assassinato.»
«La lettera citava gli autori del
complotto?»
«Sì, monsignore» disse la
damigella di Gournay tremando.
«Vi ricordate le persone
denunciate dalla dama di Coëtman?»
«Me le ricordo.»
«Volete dirmi i loro nomi?»
«Quello che mi chiedete è molto
grave, monsignore.»
«Avete ragione. Li nominerò io, e
voi vi limiterete a rispondere sì o no,
con un cenno della testa. Le persone
denunciate da madame de Coëtman
erano la regina madre, il maresciallo
d’Ancre e il duca d’Épernon.»
La damigella di Gournay, più
morta che viva, fece un segno
affermativo con il capo.
«Quella lettera» proseguì il
cardinale, «voi la consegnaste a
monsieur de Sully, che commise il
gravissimo errore di non mostrarla al
re e ve la restituì, limitandosi a
parlargliene.»
«È andato tutto esattamente così,
monsignore» disse mademoiselle de
Gournay.
«L’avete conservata quella
lettera?»
«Sì, monsignore, perché solo due
persone avevano il diritto di
reclamarla: il duca di Sully, cui era
indirizzata, e la dama di Coëtman,
che l’aveva scritta.»
«Di monsieur de Sully non avete
mai più sentito parlare?»
«No, monsignore.»
«E nemmeno della dama di
Coëtman?»
«Ho saputo che era stata arrestata
il 13. Da allora non l’ho più vista e
non so se sia morta o viva.»
«Dunque, quella lettera ce
l’avete?»
«Sì, monsignore.»
«Bene, il favore che vi devo
chiedere, cara signorina, è di
consegnarmela.»
«Impossibile, monsignore» disse
mademoiselle de Gournay con una
fermezza di cui non la si sarebbe
creduta capace un attimo prima.
«Perché?»
«Perché, come ho avuto l’onore di
dire a Vostra Eminenza non più di
un istante fa, due sole persone hanno
il diritto di reclamare quella lettera:
la dama di Coëtman, che è stata
accusata di complicità in
quell’oscura e dolorosa vicenda, e
alla quale la lettera può servire da
alibi, e monsieur de Sully.»
«La dama di Coëtman non ha più
bisogno di alibi, ormai, dato che è
morta questa notte, tra l’una e le due
del mattino, al convento delle Filles
Repenties.»
«Che Dio abbia pietà della sua
anima, è stata una martire!» disse
mademoiselle de Gournay facendosi
il segno della croce.
«E quanto al duca di Sully»
proseguì il cardinale, «se si è
preoccupato così poco di quella
lettera in questi diciotto anni, è poco
probabile che se ne preoccupi di più
adesso.»
Mademoiselle de Gournay scosse
la testa.
«Non posso fare niente senza il
permesso di monsieur de Sully,
soprattutto ora che la dama di
Coëtman non c’è più.»
«Se però» disse Richelieu
«mettessi questa lettera come prezzo
dei favori che vi ho accordati?»
Mademoiselle de Gournay si alzò
con suprema dignità:
«Monsignore» disse, «sono una
figlia della nobiltà e quindi una
gentildonna come voi siete un
gentiluomo. Morirò di fame, se
occorre, ma non farò qualcosa che la
mia coscienza mi rimprovererebbe.»
«Non morirete di fame, nobile
signorina, e la vostra coscienza non
avrà nulla da rimproverarvi» disse il
cardinale con evidente soddisfazione
nel vedere tanta lealtà in una
scrittrice da niente. «Ho la promessa
di monsieur de Sully che vi darà
questo permesso e andrete voi stessa
da lui con il mio capitano delle
guardie per domandarglielo.»
Poi, chiamando insieme Cavois e
Bois-Robert, che entrarono da due
porte diverse:
«Cavois» disse, «accompagnerete
per mio conto e nella mia carrozza
mademoiselle de Gournay da
monsieur de Sully. Fate il mio nome,
in modo che venga fatta entrare
senza attendere; poi, sempre in
carrozza, la accompagnerete a casa
sua e lì lei vi consegnerà una lettera
che darete solo a me
personalmente.»
Poi, rivolto a Bois-Robert:
«Le Bois» aggiunse, «raddoppio
la pensione di mademoiselle de
Gournay, della bastarda di Amadis
Jamyn, della diletta Piaillon e dei
gattini. Dico bene e non ho
dimenticato nessuno?»
«No, monsignore» rispose Bois-
Robert al colmo della gioia.
«Ti metterai d’accordo con il mio
tesoriere perché questa pensione
decorra dal 1° gennaio 1628.»
«Ah, monsignore» esclamò la
damigella di Gournay afferrando la
mano di Richelieu per baciargliela.
«Sono io che devo baciare la
vostra, signorina» disse il cardinale.
«Monsignore! Monsignore!» fece
mademoiselle de Gournay, cercando
di ritirare la mano. «A una signorina
della mia età!...»
«Una mano leale ne val bene una
giovane» disse il cardinale.
E baciò la mano a mademoiselle
de Gournay con lo stesso rispetto
che se avesse avuto venticinque
anni.
Mademoiselle de Gournay uscì da
una porta con Cavois e Bois-Robert
dall’altra.
XIV
La relazione di Souscarrières
Rimasto solo, il cardinale chiamò il
suo segretario, Charpentier, e chiese
la corrispondenza. C’erano tre
lettere importanti: una era di Bautru,
l’ambasciatore in Spagna, o meglio
l’inviato, dato che Bautru non fu mai
ambasciatore in carica, perché la sua
posizione di mezzo buffone a corte –
diremmo di uomo di spirito se non
temessimo di essere impertinenti
verso l’alta diplomazia – non
consentiva che gli si attribuisse quel
titolo; la seconda di La Saludie,
inviato straordinario in Piemonte, a
Mantova, a Venezia e a Roma; la
terza di Charnassé, inviato di fiducia
in Germania e incaricato di una
missione segreta per Gustavo
Adolfo.
Del resto, Bautru era stato
probabilmente scelto dal cardinale
solo perché era uno dei più accaniti
nemici di d’Épernon. Essendosi
permesso di fare delle battute sul
duca, questi lo aveva consegnato ai
Simon – si ricorderà che li aveva già
citati Latil come distributori di
frustate. Non ancora ben ristabilito
da quell’“incidente”, con le reni
indolenzite, andò a far visita alla
regina madre appoggiandosi a un
bastone.
«Avete la gotta, monsieur de
Bautru, che dovete camminare con il
bastone?»
«Bautru non ha la gotta, signora»
rispose il principe di Guéménée,
«porta il bastone come san Lorenzo
porta la graticola, per mostrare lo
strumento del suo martirio.»
Quando era in provincia, il
giudice di una cittadina andava a
disturbare Bautru così di frequente
che lui aveva ordinato al suo valletto
di non farlo più entrare. Il giudice si
presenta. Malgrado il divieto, il
valletto lo annuncia.
«Non ti ho ordinato di trovare una
scusa per sbarazzarmi di lui, balordo
che sei?»
«È vero, sì, me lo avete detto! Ma
non so che cosa inventare.»
«Digli che sono a letto,
accidenti!»
Il valletto esce e ritorna.
«Signore, dice che aspetterà che
vi alziate.»
«Allora digli che sono
ammalato.»
Il valletto esce e ritorna.
«Dice, signore, che ha una ricetta
da consigliarvi.»
«Digli che sto per morire.»
Il valletto esce e ritorna.
«Dice, signore, che vuole
salutarvi per l’ultima volta.»
«Digli che sono morto.»
Il valletto esce e ritorna.
«Vuole venire a benedirvi,
signore.»
«E va bene, fallo entrare» disse
sospirando Bautru. «Non avrei mai
creduto di trovare qualcuno più
testardo di me.»
Una delle cose per cui il cardinale
lo apprezzava era la sua onestà.
Diceva di lui: «Preferisco la
coscienza di Bautru, che chiamano
buffone, a quella di due cardinali di
Bérulle»; un’altra cosa per cui lo
apprezzava era il suo sovrano
disprezzo per Roma, che definiva
una chimera apostolica. Un giorno il
cardinale gli comunicò la
promozione di dieci cardinali
nominati da Urbano VIII, l’ultimo
dei quali si chiamava Fachinetti
[sic]. 1 «Io ne conto solo nove»
disse Bautru. «Come? e Fachinetti?»
chiese il cardinale. «Perdonatemi,
monsignore, credevo che fosse
l’appellativo degli altri nove.» 2
Bautru scriveva che la Spagna
non sembrava aver preso sul serio la
sua missione. Il conte duca Olivares
lo aveva accompagnato a vedere il
pollaio del re, che era molto ben
tenuto, e si era detto sicuro che, non
appena Sua Maestà Filippo IV
avesse appreso il suo arrivo, gli
avrebbe mandato de los gallos; che,
in spagnolo, era un gioco di parole
mediocremente cortese per la
Francia. 3 Invitava poi il cardinale a
non vedere in tutte le proposte che la
Spagna gli avrebbe fatto nient’altro
che un modo per guadagnar tempo,
poiché Madrid aveva firmato un
trattato con Carlo Emanuele per
aiutarlo a prendere il Monferrato,
salvo poi dividerlo con lui quando
fosse stato preso. Raccomandava
soprattutto a Sua Eminenza di
continuare a non fidarsi di Fargis,
che apparteneva alla regina madre
anima e corpo – per quanto riguarda
il corpo, almeno, senza dubbio; per
l’anima, Bautru qualche dubbio ce
lo aveva – e faceva solamente quello
che indicava sua moglie, che era poi
quello che dettavano Maria de’
Medici e Anna d’Austria.
Dopo aver letto il dispaccio di
Bautru, Richelieu fece un
impercettibile movimento con le
spalle, e mormorò:
«Preferirei la pace, ma sono
pronto alla guerra.»
Il dispaccio di La Saludie era
ancora più esplicito.
Il duca Carlo Emanuele, al quale
Richelieu faceva offrire la città di
Trino e i suoi dodicimila scudi di
rendita in territori di sovranità, se
avesse rinunciato alle sue pretese su
Mantova e sul Monferrato, aveva
rifiutato rispondendo soltanto che
amava Casale quanto Trino e che
Casale sarebbe stata presa prima che
le truppe del re fossero a Lione.
Quando La Saludie era arrivato a
Mantova, il nuovo duca, che
cominciava a disperare, aveva
ripreso coraggio, ma secondo lui
occorreva rinunciare al piano
originario, cioè a far sbarcare a
Genova il duca di Guise con
settemila uomini, perché gli spagnoli
controllavano tutti i passaggi da
Genova verso il Monferrato. Il re
doveva quindi ripiegare
sull’attraversamento del passo di
Susa, posizione ben difesa, ma non
imprendibile.
La Saludie annunciava che, dopo
aver visto il duca di Savoia e quello
di Mantova, partiva per Venezia.
Richelieu prese il suo quaderno di
appunti e scrisse:
Richiamare il cavalier Marini, nostro
ambasciatore a Torino, e ordinargli di
riferire a Carlo Emanuele che il re lo
considerava un nemico dichiarato.

Charnassé, nella cui intelligenza il


cardinale aveva la massima fiducia,
era partito molto prima degli altri
due, dovendo passare, prima di
arrivare in Svezia, da Costantinopoli
e dalla Russia. Aveva sollecitato lui
dal cardinale questa missione che lo
allontanava da Parigi, sotto il peso di
un immenso dolore per la perdita di
una moglie che adorava. Aveva
attraversato Costantinopoli, la
Russia ed era arrivato da Gustavo.
La lettera del barone era un
panegirico del re di Svezia, che
presentava a Richelieu come il solo
capace di fermare l’avanzare delle
armate imperiali in Germania, se i
protestanti si fossero uniti in una
lega con lui.
Richelieu rifletté un momento,
poi, come cancellando un ultimo
scrupolo:
«Bene» concluse, «il papa dica
quello che vuole. In fin dei conti,
siccome sono cardinale, non può
decardinalizzarmi, e comunque, la
gloria e la grandezza della Francia
prima di tutto.»
E, prendendo un foglio di carta,
scrisse:
Esortare re Gustavo, appena avrà finito
con i russi, a passare in Germania in
soccorso dei suoi correligionari, di cui
Ferdinando progettava la disfatta.
Promettere a re Gustavo che Richelieu
gli fornirà una grossa somma di denaro se
avallerà la sua politica e lasciargli sperare
che il re di Francia attaccherà allo stesso
momento la Lorena per creare una
diversione.
Come si vede, il cardinale non
dimenticava la lettera in codice che
Rossignol aveva decifrato la
settimana precedente.
Infine il cardinale aggiungeva:
Se l’impresa del re di Svezia comincia
bene e promette di essere vittoriosa, il re
di Francia non avrà più nessun riguardo
nei confronti della casa d’Austria.

La lettera per il cavalier Marini e


il dispaccio per Charnassé partirono
quel giorno stesso.
Il cardinale era a questo punto del
suo lavoro di diplomazia quando
entrò Cavois con la lettera di
madame de Coëtman, che Sully
aveva autorizzato mademoiselle de
Gournay a consegnargli.
Era concepita in questi termini:
Al re Enrico IV, Maestà molto amata
Preghiera vivissima, in nome della
Francia, in nome del suo interesse e della
sua vita, di fare arrestare un certo François
Ravaillac, conosciuto ovunque con il
nome di assassino del re, che ha
confessato a me personalmente il suo
orribile progetto, e che, non oso quasi
ripeterlo, si dice spinto a questo parricidio
dalla regina, dal maresciallo d’Ancre e dal
duca d’Épernon.
Poiché tre lettere scritte da me,
umilissima serva di Sua Maestà, alla
regina sono rimaste senza risposta, mi
rivolgo al re e prego e scongiuro, se
necessario, monsieur de Sully, che ritengo
essere il migliore amico di Sua Maestà, di
mostrare questa lettera al re, di cui sono
l’umilissima suddita e serva.
Jacqueline Le Voyer, dama di Coëtman
Richelieu ebbe un gesto di
soddisfazione che mostrava quanto
quella lettera fosse proprio come la
desiderava e, aprendo il cassetto
segreto in cui si trovava il filo
corrispondente alla camera di sua
nipote, dopo aver esitato se
chiamarla o no, lo richiuse,
accorgendosi che Cavois era ancora
davanti a lui e sembrava avere
qualcosa da dirgli.
«Allora, Cavois, noioso che siete,
che cosa volete ancora?» gli
domandò con il tono che i suoi
intimi riconoscevano senza fallo e
che assumeva quando era di buon
umore.
«Eminenza, monsieur de
Souscarrières vi ha mandato il suo
primo rapporto.»
«Ah, è vero! Andate a prendere il
primo rapporto di monsieur de
Souscarrières e portatemelo.»
Come se l’annuncio di Cavois gli
avesse fatto ricordare qualcosa, il
cardinale si alzò, si diresse alla porta
che lo metteva in comunicazione
con la casa di Marion Delorme,
l’aprì e raccolse il biglietto che
giaceva sul pavimento.
Conteneva la seguente
informazione:
Venuto una sola volta questa settimana
da madame de la Montagne. Si pensa che
sia innamorato di una damigella della
regina, Isabelle de Lautrec.

«Ah!» esclamò il cardinale, «la


figlia del barone François de
Lautrec, che è con il duca di Rethel
a Mantova.»
E scrisse l’appunto seguente:
Dare ordine al barone di Lautrec di
richiamare presso di sé la figlia.

Poi, parlando fra sé e sé: «Visto


che intendo mandare il conte di
Moret a combattere in Italia»
mormorò, «così sarà contento di
andarci, non foss’altro che per
avvicinarsi alla sua amata».
Mentre finiva di scrivere il suo
appunto, entrò Cavois e gli
consegnò una busta con le armi del
duca di Bellegarde. Il cardinale la
strappò e lesse:
Rapporto di messer Michel, detto
Souscarrières,
a Sua Eminenza monsignor il cardinale di
Richelieu
Ieri, 13 dicembre, primo giorno
dell’attività di messer Michel, detto
Souscarrières: monsieur Mirabel,
ambasciatore di Spagna, ha preso una
portantina in rue Saint-Sulpice e si è fatto
condurre dal gioielliere Lopez, dove è
arrivato alle undici della mattina.
Verso la stessa ora, madame de Fargis
prendeva una portantina in rue des Poulies
e si faceva condurre anch’essa da Lopez.
Uno dei portantini ha visto
l’ambasciatore di Spagna parlare con la
dama della regina e consegnarle un
biglietto.
A mezzogiorno, il cardinale di Bérulle
ha preso una portantina in quai des
Galeries du Louvre e si è fatto portare dal
duca di Bellegarde e dal maresciallo di
Bassompierre. Dalle mie conoscenze
dentro la casa di monsieur de Bellegarde,
di cui ci si ostina a credermi figlio, ho
saputo che si parlava di un Consiglio
segreto alle Tuileries a proposito della
guerra del Piemonte. A quel Consiglio
saranno convocati monsieur de
Bellegarde, monsieur de Bassompierre,
monsieur de Guise et monsieur de
Marillac. Monsignor il cardinale sarà
avvertito del giorno.

«Ah, lo sapevo che questo


balordo poteva essere utile!»
esclamò il cardinale.
Madame de Bellier, cameriera della
regina, ha preso una portantina verso le
due e si è recata dal farmacista della
regina, Michel Dause, il quale a sua volta,
scesa la notte, ha preso anche lui una
portantina e si è fatto portare al Louvre.

«Quindi» mormorò Richelieu «la


regina in carica vuole avere il suo
Vautier, come la regina madre? La
sorveglieremo.»
E scrisse sul suo quaderno di
appunti:
Comprare madame de Bellier,
cameriera della regina, e il suo amante
Patrocle, scudiero della scuderia piccola.

Poi proseguì la lettura.


Ieri sera verso le otto, Sua Maestà la
regina madre ha preso una portantina per
andare dalla presidentessa di Verdun, dove
da parte sua si stava facendo portare il
famoso astrologo Le Censuré. Il colloquio
è durato un’ora. Le Censuré è uscito
rimirando alla luce del lampione della
portantina un bellissimo anello di brillanti,
dono che con ogni probabilità gli era stato
fatto dalla regina madre. Si ignora
l’argomento della conversazione.
Ieri sera il conte di Moret ha preso una
portantina in rue Sainte-Avoye e si è fatto
condurre all’hôtel de Longueville, dove si
teneva ricevimento e dove si sono recati,
anch’essi in portantina, monsieur
d’Orléans, il duca di Montmorency,
madame de Fargis.
Uscendo, madame de Fargis ha
scambiato qualche parola con il conte di
Moret nel vestibolo. Quelle che si sono
potute sentire sembrano aver soddisfatto
sia madame de Fargis, che si è allontanata
ridendo, sia monsieur de Moret, che se ne
è andato cantando.
«Eccellente, andiamo avanti»
mormorò il cardinale.
Ieri, fra le undici e mezzanotte,
monsignor il cardinale di Richelieu,
travestito da cappuccino...

«Ah!» esclamò il cardinale


interrompendosi. Poi riprese con
crescente curiosità:
... travestito da cappuccino, ha preso
una portantina in rue Royale e si è fatto
portare in rue de l’Homme-Armé, alla
locanda della Barbe Peinte...

«Hum!» fece il cardinale.


... alla locanda della Barbe Peinte dove
è rimasto fino all’una e mezza nella
camera di Étienne Latil. All’una e mezza
Sua Eminenza è scesa e ha dato ordine di
portarla in rue des Postes, al convento
delle Filles Repenties.

«Diavolo, diavolo!»
Poi, incalzato dalla curiosità:
Lì, si è fatta aprire la porta dalla suora
portinaia; ha fatto alzare la superiora; si è
fatta condurre da lei alla cella della dama
di Coëtman. Dopo un quarto d’ora di
colloquio attraverso la finestrella di quella
cella, ha chiamato i suoi due portantini e
ha ordinato loro di praticare un’apertura
nel muro dalla quale la dama di Coëtman
potesse uscire. Mezz’ora dopo, l’ordine di
Sua Eminenza era stato eseguito.

Il cardinale si fermò un momento


come per riflettere, poi continuò:
Poiché uscendo dalla cella la dama di
Coëtman era pressappoco nuda,
monsignor il cardinale l’ha avvolta nel
suo saio e, rimanendo a testa scoperta e in
abito nero, l’ha fatta portare nella camera
della superiora, accanto a un gran fuoco
dove la dama di Coëtman si scaldò e
riprese le forze. Alle tre, monsignore ha
fatto chiamare una seconda portantina per
la dama di Coëtman e l’ha condotta da
Nollet, proprietario dei bagni di fronte al
pont Notre-Dame, dove ha impartito
alcuni ordini prima di proseguire da solo
per la sua strada.

«Guarda, guarda, è abile il


balordo, meglio così, meglio così!
Andiamo avanti.»
Alle cinque meno un quarto, Sua
Eminenza è rientrata a casa, in place
Royale, e alle cinque e qualche minuto,
dopo essersi cambiata d’abito, è risalita
sulla portantina con le sue vesti abituali e
si è diretta verso l’hôtel de Sully, dove è
rimasta circa mezz’ora. Verso le sei e
mezza rientrava in place Royale.
Dieci minuti dopo il suo ritorno,
madame de Combalet prendeva a sua
volta una portantina, si faceva
accompagnare da Nollet e, dopo esservi
rimasta circa un’ora, verso le otto del
mattino riportava a casa sua la dama di
Coëtman, in abito da carmelitana.
Tale è il rapporto che messer Michel,
detto Souscarrières, ha l’onore di
sottoporre a Sua Eminenza, garantendole
l’esattezza dei fatti che vi sono riportati.
In fede
Michel, detto Souscarrières

«Ah, perbacco, questo sì che è un


abile furfante! Cavois! Cavois!»
Il capitano delle guardie entrò.
«Monsignore?»
«È ancora qui l’uomo che ha
portato queste carte?» domandò il
cardinale.
«Monsignore» rispose Cavois, «se
non mi sbaglio, si tratta di monsieur
de Souscarrières in persona.»
«Fatelo entrare, mio caro Cavois,
fatelo entrare.»
Come se non avesse aspettato che
questa autorizzazione, il sire di
Souscarrières comparve sulla soglia
dello studio, con un abito semplice
ma elegante, e fece una profonda
riverenza al cardinale.
«Venite avanti, monsieur Michel.»
«Eccomi, monsignore» replicò
Souscarrières.
«Non mi ero sbagliato nel darvi
fiducia. Siete un uomo capace.»
«Se monsignore è contento di me,
sono anche un uomo felice.»
«Molto contento. Soltanto, non mi
piacciono gli enigmi, perché non ho
il tempo di risolverli. Come può
essere che tutti i particolari che mi
riguardano vi siano giunti a
conoscenza con tanta precisione?»
«Monsignore» rispose
Souscarrières con un sorriso in cui si
poteva veder brillare la
soddisfazione, «avevo immaginato
che Vostra Eminenza avrebbe voluto
provare di persona il nuovo mezzo
di trasporto che aveva autorizzato.»
«E allora?»
«E allora, monsignore, mi sono
nascosto in rue Royale e ho
riconosciuto Vostra Eminenza.»
«E poi?»
«E poi, monsignore, il più alto dei
portantini, quello che ha bussato alla
porta del convento, che ha portato la
dama di Coëtman accanto al fuoco,
che è andato a cercare la portantina
chiusa a chiave, ero io.»
«Ah, adesso ho capito!» esclamò
il cardinale.

1 Cesare Facchinetti (1608-1683), pronipote di


Innocenzo IX, fu nominato cardinale da Urbano
VIII nel Concistoro del 13 luglio 1643. [NdT]
2 Gioco di parole intraducibile, basato
sull’assonanza tra il termine faquin, furfante,
persona impertinente e senza valore, che nel
XVII secolo era un insulto, e il nome Fachinetti.
[NdC]
3 Tallemant des Réaux, da cui Dumas trae
questo episodio, scrive: «e poiché il conte duca
gli mostrò il suo gallinero (pollaio), lui gli disse
che il re suo padrone gli avrebbe mandato dellos
gallos. L’altro si lamentò che gli mandassero dei
buffoni». Raccontata così, la frase contraddice
Dumas: è stato Bautru a dire che il suo re gli
avrebbe mandato dei galli, e il conte duca ha
fatto notare che gli mandava invece dei buffoni,
alludendo alla posizione di mezzo buffone che
Bautru ricopriva alla corte di Francia. [NdC]
PARTE TERZA
I
I larditoi di re Luigi XIII
È ora necessario, ai fini del nostro
racconto, che i lettori ci permettano
di far loro conoscere meglio re Luigi
XIII, che hanno intravisto appena
quella notte in cui, spinto dai
presentimenti del cardinale di
Richelieu nella camera della regina,
vi era entrato soltanto per assicurarsi
che lì non ci fosse una cabala in
corso e annunciare che per ordine di
Bouvard il giorno dopo si sarebbe
purgato e quello successivo si
sarebbe fatto salassare.
Si era purgato, si era fatto
salassare, ma non per questo era più
allegro o colorito, anzi la sua
malinconia e il suo pallore
continuavano a crescere.
Quella malinconia di cui nessuno
conosceva la causa e che si era
impadronita di lui fra i suoi
quattordici e quindici anni lo portava
a tentare, uno dopo l’altro, ogni
sorta di svaghi che non lo svagavano
affatto. Aggiungete anche che,
insieme al suo buffone, l’Angely, era
quasi il solo a corte che vestisse di
nero, il che accentuava la sua aria
lugubre.
Non c’era quindi niente di più
triste dei suoi appartamenti, nei
quali, a eccezione della regina Anna
d’Austria e della regina madre, che
comunque avevano sempre cura di
avvertire il re quando desideravano
andare da lui, nessuna donna entrava
mai.
Spesso, quando si aveva udienza
da lui, arrivando all’ora stabilita, si
veniva ricevuti da Beringhen, che in
quanto primo cameriere era
chiamato monsieur Premier, o da
monsieur de Tréville o da monsieur
de Guitaut. Uno di questi signori vi
faceva entrare in un salone dove
inutilmente si cercava con lo
sguardo il re: il re era nel vano di
una finestra con qualcuno dei suoi
intimi cui aveva fatto l’onore di dire:
«Monsieur Tal dei Tali, venite con
me e annoiamoci». E su questo
punto si poteva essere certi che
sarebbe stato scrupolosamente di
parola per sé e per gli altri.
Dietro consiglio della regina
madre, nel tentativo di avere un po’
di presa su quel tetro personaggio e
fin troppo sicura di non poterla
ottenere con i suoi mezzi, la regina
aveva più di una volta ammesso alla
sua intimità o reclutato nel suo
personale qualche bella donna della
cui fedeltà era certa, sperando che
quel ghiaccio si sarebbe sciolto ai
raggi di due begli occhi; ma sempre
invano.
Quel re che Luynes aveva dovuto
portare nella camera della moglie
dopo quattro anni di matrimonio,
quel re aveva dei favoriti, ma delle
favorite mai. La buggera ha passato
i monti, dicevano gli italiani. 1
La bella madame de Chevreuse,
che a buon titolo era soprannominata
“l’irresistibile”, ci si era provata e
aveva fallito, malgrado la tripla
seduzione della sua giovinezza, della
sua bellezza e del suo spirito.
«Insomma, Sire» gli disse un
giorno, spazientita da
quell’invincibile freddezza, «ma non
avete un’amante?»
«Certo, signora, che ce l’ho»
rispose il re.
«E come l’amate, allora?»
«Dalla cintura in su» rispose il re.
«Bene» ribatté madame de
Chevreuse, «la prossima volta che
vengo al Louvre farò come Gros-
Guillaume: mi metterò la cintura fra
le cosce.» 2
Era una speranza di quel genere
che aveva fatto chiamare a corte la
bella e casta fanciulla che abbiamo
già presentato ai nostri lettori come
Isabelle de Lautrec. La sua
devozione cieca nei confronti della
regina era nota, benché suo padre,
da parte sua, fosse un uomo di
Rethel. Ed era in effetti così bella
che all’inizio Luigi XIII le aveva
dedicato molte attenzioni. Aveva
parlato con lei e la sua intelligenza
lo aveva incantato. Dal canto suo,
lei, totalmente all’oscuro dei progetti
che la riguardavano, aveva risposto
al re con modestia e rispetto. Ma sei
mesi prima del momento cui siamo
arrivati, il re aveva reclutato un
nuovo paggio e non solo non si era
più occupato di Isabelle, ma aveva
anche smesso quasi del tutto di
andare dalla regina.
È vero che i favoriti si
succedevano presso il re con una
rapidità per nulla rassicurante per
colui che, come si dice in termini di
equitazione, aveva per il momento le
redini in mano.
Prima c’era stato Pierrot, il
contadinello di cui abbiamo parlato.
Poi venne Luynes, il capo degli
uccelli dello studio.
Poi il suo portatore di balestra,
d’Esplan, che nominò marchese di
Grimaud.
Poi Chalais, cui permise che
tagliassero la testa.
Poi Baradas, il favorito del
momento.
E infine Saint-Simon, aspirante
favorito, che contava sulla caduta in
disgrazia di Baradas, sempre
facilmente prevedibile conoscendo
la fragilità di quello strano
sentimento che nel re Luigi XIII
occupava un posto indefinibile, a
mezzo fra l’amicizia e l’amore.
Oltre ai suoi favoriti, re Luigi XIII
aveva degli intimi. Erano monsieur
de Tréville, il comandante dei suoi
moschettieri, di cui ci siamo
abbastanza occupati in diversi nostri
libri per permetterci, in questo, di
nominarlo e basta; il conte di
Nogent-Bautru, fratello di quello che
il cardinale aveva appena mandato
in Spagna: la prima volta che era
stato presentato a corte, aveva avuto
la fortuna di portare, per fargli
attraversare un luogo delle Tuileries
dove c’era dell’acqua, il re sulle
spalle, come aveva fatto san
Cristoforo con Gesù Cristo; costui
aveva non solo il raro privilegio,
come il suo buffone, l’Angely, di
potergli dire qualunque cosa, ma
anche quello di spianare quella
lugubre fronte con le sue battute;
Bassompierre, nominato maresciallo
nel 1622, molto più per i ricordi
d’alcova di Maria de’ Medici che
per i suoi personali ricordi di
combattimento, uomo peraltro tanto
brillante e tanto privo di cuore da
riassumere in sé tutta l’epoca che va
dall’ultima parte del XVI secolo alla
prima del XVII; Sublet-Desnoyers,
il suo segretario, o meglio il suo
valletto; La Vieuville, il
sovrintendente alle Finanze; Guitaut,
il suo capitano delle guardie, uomo
assolutamente devoto a lui e alla
regina Anna d’Austria, che a tutte le
offerte fatte dal cardinale per legarlo
a sé aveva sempre e solo risposto:
«Impossibile, Vostra Eminenza,
appartengo al re e il Vangelo
proibisce di servire due padroni»;
infine, il maresciallo di Marillac,
fratello del guardasigilli, destinato a
diventare anch’egli una delle
macchie insanguinate del regno di
Luigi XIII, o piuttosto del governo
del cardinale di Richelieu. 3
Detto questo come spiegazione
preliminare, accadde che,
l’indomani del giorno in cui
Souscarrières aveva presentato al
cardinale un rapporto così veridico e
circostanziato degli eventi della
notte precedente, il re, dopo avere
fatto colazione con Baradas, giocato
a volano con Nogent e ordinato di
avvertire i suoi due musicisti,
Molinier e Justin, di prendere l’uno
il suo liuto e l’altro la sua viola per
distrarlo durante l’impegnativa
occupazione cui si sarebbe dedicato,
si rivolse a Bassompierre, Marillac,
Desnoyers e La Vieuville, che erano
venuti a rendergli omaggio:
«Signori, andiamo a lardellare.»
«Andiamo a lardellare, signori»
gli fece il verso l’Angely, parlando
col naso. «Sentite che assonanza:
lardellare col re.»
E su questa battuta piuttosto
scadente, che non ricorderemmo se
non fosse storica, si schiacciò il
cappello su un orecchio e mise in
testa a Nogent il suo.
«Allora, balordo, che cosa stai
facendo?» gli disse Nogent.
«Copro me e voi» disse l’Angely.
«Davanti al re? Ma cosa ti viene
in mente?»
«Bah, per buffoni come noi, non è
grave.»
«Sire, fate un po’ tacere il vostro
giullare» esclamò furioso Nogent.
«Ma via, Nogent!» disse Luigi
XIII, «si può far tacere l’Angely?»
«Mi pagano per dire di tutto» fece
l’Angely. «Se stessi zitto, farei come
La Vieuville, che nominano
sovrintendente alle Finanze perché
abbia delle finanze e che di finanze
non ne ha. Ruberei il mio
stipendio.»
«Ma Vostra Maestà non ha sentito
che cosa ha detto?» riprese Nogent.
«Certo, ma tu me ne dici ben di
peggio.»
«A voi, Sire?»
«Sì, poco fa, quando giocando ho
mancato un volano, non mi hai
detto: “Bel colpo, Luigi il Giusto”?
Se non ti considerassi un po’ come il
compare dell’Angely, credi che ti
permetterei di dirmi una cosa
simile? Andiamo, signori, andiamo a
lardellare.»
Queste parole, andiamo a
lardellare, richiedono una
spiegazione, altrimenti i nostri lettori
rischierebbero di non capire. E noi la
daremo, questa spiegazione.
Abbiamo già detto in due diverse
occasioni che per combattere la
malinconia il re si dedicava a ogni
sorta di svaghi che non lo svagavano
affatto. Bambino, faceva canovacci
di cuoio, zampilli d’acqua con le
piume; ragazzo, aveva miniato delle
immagini, cosa che i suoi cortigiani
avevano definito dipingere; aveva
fatto quel che i suoi cortigiani
definivano musica, cioè suonato il
tamburo, esercizio che, secondo
Bassompierre, gli riusciva
benissimo; aveva costruito gabbie e
telai con Desnoyers; si era fatto
confetturiere e aveva preparato
confetture eccellenti; poi giardiniere
ed era riuscito a ottenere in febbraio
dei piselli che aveva messo in
vendita e che, per compiacerlo,
monsieur de Montausson aveva
acquistato; dopodiché si era messo a
fare la barba e un bel giorno,
trascinato dalla foga che metteva in
questo svago, aveva riunito tutti i
suoi ufficiali e li aveva rasati,
lasciando loro sul mento, nella sua
parsimoniosa munificenza, soltanto
quel ciuffetto di peli che da quel
giorno, in ricordo di un’augusta
mano, è stato chiamato una royale, 4
tanto che il giorno successivo al
Louvre si spargeva questo Pont-
Breton: 5
– Hélas! ma pauvre barbe,
Qui t’a donc faite ainsi?
– C’est le grand roi Louis,
Treizième de ce nom,
Qui toute ébarba sa maison.
– Ça, monsieur de la Force,
Faut vous la faire aussi!
– Hélas! Sire, merci,
Ne me la faites pas:
Me reconnaîtraient vos soldats!
– Laissons la barbe en pointe
Au cousin Richelieu
Car, par la vertudieu!
Ce serait trop oser
Que de prétendre le raser. 6

Bene, re Luigi XIII aveva finito


con lo stancarsi di radere barbe,
come finiva con lo stancarsi di ogni
cosa, e, essendo sceso nelle sue
cucine per far introdurre una misura
di risparmio, con la quale la
generalessa Coquet perdette la sua
minestra al latte e monsieur de La
Vrillière i suoi biscotti del mattino,
aveva visto il cuoco e i suoi aiutanti
pungere chi delle lombate di vitello,
chi dei filetti di manzo, chi lepri e
chi fagiani; gli era parso che
quell’operazione fosse uno svago fra
i più divertenti. Ne risultò che dopo
circa un mese Sua Maestà lo aveva
adottato: Sua Maestà lardellava e
faceva lardellare con sé i suoi
cortigiani.
Non so se l’arte culinaria avesse
guadagnato passando per le mani del
re, ma le decorazioni avevano fatto
grandi progressi: soprattutto le
lombate di vitello e i filetti di
manzo, che presentavano superfici
più ampie, tornavano nelle cucine
con i disegni più diversi. Il re si
limitava a lardellare a paesaggi,
disegnava cioè alberi, case, cacce,
cani, lupi, cervi, gigli, ma Nogent e
gli altri non si limitavano a figure di
araldica e variavano i loro disegni
nella maniera più fantasiosa, cosa
che a volte valeva loro da parte del
casto Luigi severissime reprimende
ed esiliava senza pietà dalla tavola
del re i pezzi decorati da loro.
E adesso che i nostri lettori sono
sufficientemente informati,
riprendiamo il corso del racconto.
A queste parole: «Signori,
andiamo a lardellare!», i personaggi
che abbiamo nominato si
affrettarono dunque a seguire il
sovrano.
Nel locale destinato al nuovo
esercizio adottato dal re, su ognuno
dei cinque o sei tavoli di marmo si
trovavano una lombata di vitello o
un filetto di manzo o una lepre o un
fagiano, e lo scudiero Georges
aspettava in mezzo a piatti ricolmi di
pezzetti di lardo già preparati, con in
mano dei larditoi d’argento che
consegnava a coloro che
desideravano compiacere Sua
Maestà il re imitandolo, e soprattutto
lasciandosene superare in abilità:
mentre passavano dalla sala da
pranzo a quel locale, Bassompierre
approfittò per posare la mano sulla
spalla del sovrintendente alle
Finanze e dirgli abbastanza piano
per mantenere la forma, ma
abbastanza forte per essere sentito:
«Senza essere troppo curioso,
signor sovrintendente, si potrebbe
domandarvi quando contate di
rimborsarmi per il mio alloggio di
colonnello degli svizzeri che ho
comprato per centomila scudi e
pagato sull’unghia?»
Invece di rispondergli, monsieur
de La Vieuville che, come Nogent,
indulgeva a volte nelle pasquinate, si
mise ad allungare e riavvicinare le
braccia dicendo:
«Nuoto, nuoto, nuoto!»
«In verità» replicò Bassompierre,
«ho decifrato parecchi enigmi in vita
mia, ma di questo non trovo la
chiave!»
«Signor maresciallo» disse La
Vieuville, «quando si nuota, vuol
dire che non si tocca, no?»
«Sì.»
«E quando non si tocca, vuol dire
che non si ha il fondo sotto i piedi.»
«E allora?»
«E allora non ho fondi, e nuoto,
nuoto, nuoto!»
Proprio allora il duca di
Angoulême, bastardo di Carlo IX e
di Marie Touchet, si era unito al
corteo con il duca di Guise, che
abbiamo già visto al ricevimento
della principessa Maria e al quale il
duca d’Orléans aveva promesso un
corpo nell’esercito nel caso in cui
fosse stato luogotenente generale del
re nella spedizione d’Italia. Per farsi
avanti, aspettavano entrambi che il
re li notasse. Bassompierre, che non
trovava niente da rispondere a La
Vieuville e che non amava non avere
l’ultima parola, cercò
coraggiosamente di coinvolgere il
duca di Angoulême – diciamo
coraggiosamente perché in fatto di
repliche il duca di Angoulême aveva
una delle lingue più pronte del suo
tempo.
«Nuotate, nuotate, nuotate, e va
bene; anche le oche e le anatre
nuotano. Ma non è cosa che mi
riguardi, questa. Ah, caspita, se
battessi moneta falsa come monsieur
d’Angoulême allora non avrei di che
preoccuparmi.»
Il duca di Angoulême, che
probabilmente non aveva una
risposta pronta da dare, fece finta di
non sentire, ma re Luigi XIII aveva
sentito e, siccome era piuttosto
maldicente di carattere:
«Avete sentito che cosa dice
monsieur de Bassompierre,
cugino?» esclamò.
«No, Sire, sono sordo
dall’orecchio destro» rispose il duca.
«Come Cesare» osservò
Bassompierre.
«Vi ha chiesto se battete ancora
moneta falsa.»
«Perdonatemi, Sire» intervenne
Bassompierre. «Non chiedo se
monsieur d’Angoulême continua a
battere moneta falsa, che sarebbe
dubitativo. Dico che ne batte, che è
dichiarativo.»
Il duca di Angoulême alzò le
spalle.
«Sono vent’anni» disse «che mi
provocano con questa
stupidaggine.»
«Ma su, diteci, che cosa c’è di
vero, cugino?» domandò il re.
«Oh, Dio! Ecco la verità vera. Nel
mio castello di Grosbois, affitto una
camera a un alchimista, un certo
Merlin, secondo il quale essa è in
una posizione ottimale per la ricerca
della pietra filosofale. Me la paga
quattromila scudi all’anno a
condizione che non gli si chieda che
cosa ci fa e che gli si lasci godere
del privilegio dei membri della casa
reale di Francia di essere lasciati in
pace dalla giustizia. Capite bene,
Sire, che, affittando una sola camera
a un prezzo superiore a quello che
mi veniva offerto per tutto il
castello, non mi metterò a rischio di
perdere un inquilino simile per una
indiscrezione ridicola.»
«Allora, Bassompierre, che
cattiva lingua siete» disse il re. «Che
cosa c’è di più onesto dei traffici di
nostro cugino?»
«E inoltre» disse il duca di
Angoulême, che non voleva darsi
per vinto, «se anche io, figlio del re
di Francia Carlo IX, battessi un po’
di moneta falsa, vostro padre, di
gloriosa memoria, figlio di Antoine
de Bourbon, che era solo re di
Navarra, lui sì che rubava!»
«Come! Mio padre rubava?»
esclamò Luigi XIII.
«Certo» intervenne Bassompierre,
«è tanto vero che un giorno mi ha
detto: “Per fortuna che sono il re,
altrimenti mi impiccherebbero!”.»
«Il re, vostro padre, Sire»
proseguì il duca di Angoulême,
«fatto salvo il rispetto che devo a
Vostra Maestà, tanto per cominciare
rubava al gioco.»
«Al gioco» disse Luigi XIII, «vi
farò notare che al gioco non si ruba,
si bara. E comunque, dopo la partita,
restituiva il denaro.»
«Non sempre» osservò
Bassompierre.
«Come, non sempre?» esclamò il
re.
«No, parola mia, e la vostra
augusta madre confermerà
l’episodio che vi racconto. Un
giorno, o meglio, una sera, in cui
avevo l’onore di giocare con il re e
che c’era una posta di cinquanta
pistole, fra le monete da una pistola
se ne trovarono di quelle da mezza.
“Sire” dissi al re, di cui sapevo che
non ci si poteva fidare, “è stata
Vostra Maestà a voler far passare per
pistole delle mezze pistole?” “No,
siete stato voi” replicò il re. Allora»
proseguì Bassompierre, «ho preso
tutte le mezze pistole, ho aperto una
finestra e le ho buttate ai lacchè che
aspettavano nel cortile e poi sono
tornato a giocare con le pistole
intere.»
«Ah, ah!» disse il re, «avete fatto
così, Bassompierre?»
«Sì, Sire, e la vostra augusta
madre ha anche detto a questo
proposito: “Oggi Bassompierre fa il
re e il re fa Bassompierre”.»
«Ben detto, parola di gentiluomo»
esclamò Luigi XIII. «E che cos’ha
risposto mio padre?»
«Sire, probabilmente i suoi
problemi coniugali con la regina
Margherita lo avevano reso ingiusto,
perché ha risposto, secondo me
assolutamente a torto: “Vi
piacerebbe che lo fosse davvero, il
re, così avreste un marito più
giovane”.»
«E chi vinse la partita?» domandò
Luigi XIII.
«Re Enrico IV, Sire, tanto è vero
che, nella preoccupazione che gli
aveva messo addosso l’osservazione
della regina, intascò, checché ne
dica Vostra Maestà, l’intera posta
senza rendermi neanche la
differenza che c’era fra le pistole e
le mezze pistole.»
«Oh» disse il duca di Angoulême,
«io l’ho visto rubare ben altro...»
«Mio padre?» domandò Luigi
XIII.
«L’ho visto rubare un mantello,
io!»
«Un mantello?...»
«È vero che era ancora soltanto re
di Navarra.»
«Be’, raccontateci questa storia,
cugino.»
«Re Enrico III era appena morto
assassinato a Saint-Cloud, proprio in
quella casa di monsieur de Gondy
dove, quando era ancora duca di
Angiò, aveva deciso la Saint-
Barthélemy, e dopo un anno esatto
da che quella decisione era stata
presa. Bene, il re di Navarra si
trovava lì, dato che Enrico III morì
fra le sue braccia, affidandogli il
trono. E, poiché doveva portare il
lutto in velluto viola e non aveva di
che acquistare un farsetto e delle
braghe, arrotolò il mantello del
morto, che era proprio del colore e
della stoffa di cui aveva bisogno per
i suoi abiti da lutto, se lo ficcò sotto
il braccio e se ne andò, credendo che
nessuno lo avesse notato. Enrico IV
aveva però come scusa, se i re per
rubare hanno bisogno di scuse, di
essere così povero che, senza la
coincidenza di quel mantello, il lutto
non lo avrebbe potuto portare!»
«E voi adesso vi lamentate di non
poter pagare i vostri domestici,
cugino» disse il re, «quando il re
non aveva nemmeno una camera da
poter affittare per quattromila scudi
all’anno a un alchimista.»
«Perdonatemi, Sire» disse il duca
di Angoulême, «è possibile che i
miei domestici si siano lamentati che
non li pagavo, ma io personalmente
non mi sono mai lamentato di non
poterli pagare. Tanto è vero, come
diceva poco fa monsieur de
Bassompierre, che l’ultima volta in
cui sono venuti a chiedermi il loro
stipendio ho risposto chiaro e tondo:
“Vi dovete arrangiare, imbecilli che
siete! All’hôtel d’Angoulême
arrivano quattro vie, siete in
un’ottima posizione. Industriatevi”.
E loro hanno seguito il mio
consiglio. È vero che da quel giorno
si sente, sì, parlare di qualche furto
notturno in rue Pavée, in rue des
Francs-Bourgeois, in rue Neuve-
Sainte-Catherine e in rue de la
Couture, ma quei miei balordi non
mi parlano più del loro stipendio.»
«Già» disse Luigi XIII, «e un bel
giorno li farò impiccare davanti alla
porta del vostro palazzo, i vostri
balordi!»
«Se avrete il favore del cardinale,
Sire!» disse il duca di Angoulême
ridendo.
«Lardelliamo, signori» replicò il
re, furioso.
E si lanciò su una lombata di
vitello che si mise a trafiggere con
non minor furore che se il larditoio
fosse stato una spada e la lombata di
vitello il cardinale.
«Ah, Luigi, in fede mia» disse
l’Angely, «mi sembra proprio che
questa volta sia stato tu a essere
lardellato!»

1 In italiano nel testo. Nel XVII secolo


buggerare significava anche usare contro
natura. [NdC]
2 Robert Guérin, detto Gros-Guillaume, era un
celebre attore del XVII secolo. Molto grasso,
portava due cinture, una delle quali molto sotto
la pancia. [NdC]
3 Il maresciallo Louis de Marillac fu decapitato
nel 1632. [NdC]
4 Letteralmente regale: un pizzetto. [NdT]
5 Canzonetta satirica in voga nel XVI e XVII
secolo. [NdC]
6 Ahimè, mia povera barba, / chi ti ha ridotto
così? / È stato il grande re Luigi, / tredicesimo
del suo nome, / a sbarbare tutti i suoi uomini. //
Coraggio, monsieur de la Force, / dovete farvela
anche voi! / Ahimè, Sire, vi prego, / non
fatemela: / i vostri soldati mi riconoscerebbero!
// Lasciamo la barba a punta / al cugino
Richelieu / perché, perdiana!, / sarebbe troppo
osare / pretendere di radere anche lui. [NdT]
II
Intanto che il re lardella
Erano battute come quella – che
d’altronde il suo seguito non gli
risparmiava – a far infuriare il re
contro il suo ministro e a fargli
prendere quelle decisioni improvvise
e inattese che portavano di continuo
il cardinale a un pelo dalla disgrazia.
Se i nemici di Sua Eminenza
coglievano il re in uno di quei
momenti, egli era pronto a adottare
insieme a loro le risoluzioni più
estreme, salvo poi non seguirle, e a
far loro le più grandiose promesse,
salvo poi non mantenerle.
Ora, poiché la bile che gli aveva
provocato il duca di Angoulême gli
montava fino alla gola, il re, pur
continuando a lardellare la sua
lombata di vitello, si guardava
intorno cercando qualcuno che gli
offrisse una ragione plausibile per
fargli ricadere addosso la propria
collera. Il suo sguardo si fermò sui
due musicisti, sistemati su una sorta
di pedana, uno a grattare il suo liuto
e l’altro a raschiare la sua viola con
la stessa animosità con cui il re
pungeva il suo vitello.
Si rese conto di una cosa cui fino
a quel momento non aveva badato, e
cioè che ognuno dei due era vestito
solo a metà.
Molinier, che aveva un farsetto,
non aveva né braghe a sbuffo né
calze.
Justin, che aveva calze e braghe a
sbuffo, non aveva farsetto.
«Be’?» chiese Luigi XIII. «Che
cosa sarebbe questa mascherata?»
«Un attimo» disse l’Angely,
«tocca a me rispondere.»
«Buffone!» esclamò il re, «sta’
attento a non stancarmi alla fine!»
L’Angely prese un larditoio dalle
mani di Georges e si mise in guardia
come se reggesse una spada.
«Come se avessi paura di te»
disse. «Vieni avanti, se hai
coraggio!»
Presso Luigi XIII l’Angely
godeva di privilegi che nessun altro
aveva. Contrariamente agli altri re,
Luigi XIII non voleva essere
rallegrato: la maggior parte delle
volte, quando erano soli, la loro
conversazione ruotava intorno alla
morte. A Luigi XIII piaceva
moltissimo fare sull’ipotesi
dell’aldilà le supposizioni più
fantasiose e soprattutto più
disperanti. L’Angely lo
accompagnava, e spesso lo guidava,
in quel pellegrinaggio
nell’oltretomba. Era l’Orazio di
questo nuovo principe di Danimarca,
che forse – chi può saperlo? –
cercava come il primo gli assassini
di suo padre, e il dialogo di Amleto
con i becchini era un’amena
conversazione in confronto alla loro.
Così, nelle sue discussioni con
l’Angely, era quasi sempre il re a
cedere e a darla vinta al buffone.
Fu così anche questa volta.
«Avanti» disse Luigi XIII,
«spiegati, buffone!»
«Luigi, tu che sei stato
soprannominato Luigi il Giusto
perché sei nato sotto il segno della
Bilancia, sii per una volta degno del
tuo nome, perché il mio confratello
Nogent non ti insulti come ha fatto
poco fa. Ieri, per non so quale
sciocchezza, tu, re di Francia e di
Navarra, hai commesso la
meschinità di togliere a questi
poveretti metà del loro stipendio.
Bene, Sire, chi ha solo metà del
salario non può vestirsi che a metà.
E adesso, se vuoi prendertela con
qualcuno per la trasandatezza del
loro abbigliamento, attacca briga
con me, perché il consiglio di venire
vestiti così gliel’ho dato io.»
«Consiglio da buffone!» disse il
re.
«Sono i soli che hanno successo»
replicò l’Angely.
«D’accordo» disse il re, «li
perdono.»
«Ringraziate Sua graziosa Maestà
Luigi il Giusto» esclamò l’Angely.
I due musicisti si alzarono e
fecero la riverenza.
«Va bene, va bene, basta così»
disse il re.
Poi si guardò intorno per vedere
chi c’era a dedicarsi al suo stesso
lavoro.
Desnoyers pungeva una lepre, La
Vieuville un fagiano, Nogent un
filetto di manzo, Saint-Simon, che
non pungeva niente, teneva il piatto
del lardo; Bassompierre
chiacchierava con il duca di Guise,
Baradas giocava con il bilboquet, il
duca di Angoulême si era
accomodato in una poltrona e
dormiva, o fingeva di dormire.
«Che cosa state dicendo al duca di
Guise, maresciallo?» domandò il re.
«Dev’essere particolarmente
interessante.»
«Per noi lo è, Sire» rispose
Bassompierre. «Monsieur de Guise
vuole attaccar briga con me.»
«A che proposito?»
«Pare che monsieur de Vendôme
si annoi, in prigione.»
«Questa poi!» disse l’Angely,
«credevo ci si annoiasse solamente
al Louvre!»
«E mi ha scritto» proseguì
Bassompierre.
«A voi?»
«Si vede che crede io goda del
vostro favore.»
«E che cosa vuole, mio fratello
Vendôme?»
«Che tu gli mandi uno dei tuoi
paggi!» disse l’Angely.
«Taci, buffone!» disse il re.
«Vuole uscire da Vincennes e fare
la guerra d’Italia.»
«Allora» intervenne l’Angely,
«che i piemontesi stiano attenti a
voltare le spalle.»
«E scrive a voi?»
«Sì, pur dicendo che lo considera
inutile, dato che evidentemente sto
dalla parte del duca di Guise.»
«E perché?»
«Perché sono l’amante di sua
sorella, madame de Conti.»
«E che cosa gli avete risposto?»
«Ho risposto che non c’entrava
niente, che ero stato amante di tutte
le sue zie e che non per questo lui mi
piaceva di più.»
«E voi, cugino di Angoulême, che
cosa fate?» domandò il re.
«Sogno, Sire.»
«Che cosa?»
«La guerra del Piemonte.»
«E che cosa sognate?»
«Sogno, Sire, che Vostra Maestà
si mette a capo del suo esercito e
marcia personalmente sull’Italia, e
che, su una delle montagne più alte
delle Alpi, si incide il suo nome fra
quello di Annibale e quello di
Carlomagno. Che cosa ne dite del
mio sogno, Sire?»
«Meglio sognare così che stare
svegli come questi altri» disse
l’Angely.
«E chi comanderà sotto di me?
Mio fratello o il cardinale?»
domandò il re.
«Intendiamoci» intervenne
l’Angely: «se è tuo fratello,
comanderà sotto di te; ma se è il
cardinale, comanderà su di te.»
«Dove c’è il re» disse il duca di
Guise, «nessun altro comanda.»
«Sarà!» disse l’Angely, «come se
vostro padre, il Balafré, non avesse
comandato a Parigi ai tempi di
Enrico III!»
«Non che questo gli abbia portato
fortuna!» osservò Bassompierre. 1
«Signori» disse il re, «la guerra
del Piemonte è una faccenda
importante, e così mia madre e io
abbiamo stabilito che sarà decisa in
Consiglio. Credo siate stato
avvertito, maresciallo, che sarete
presente a quel Consiglio. Monsieur
d’Angoulême e monsieur de Guise,
vi avverto adesso io. Non vi
nascondo che nel Consiglio della
regina molti sono favorevoli a
Monsieur.»
«Sire» replicò il duca di
Angoulême, «dichiaro in anticipo, e
forte, che io voterò per il cardinale:
dopo l’episodio della Rochelle,
togliergli il comando, a meno che
non sia per darlo al re, sarebbe una
vera ingiustizia.»
«È la vostra opinione?» disse il re.
«Sì, Sire.»
«Lo sapete che due anni fa il
cardinale voleva mandarvi a
Vincennes e che sono stato io a
impedirglielo?»
«Vostra Maestà ha sbagliato.»
«Come, ho sbagliato?»
«Se Sua Eminenza voleva
mandarmi a Vincennes, vuol dire
che meritavo di andarci.»
«Prendi esempio da tuo cugino di
Angoulême» disse l’Angely, «è
uomo di esperienza.»
«Devo dedurre, cugino, che se vi
si offrisse il comando dell’armata
non sareste della stessa opinione?»
«Se il mio re, che rispetto e al
quale devo obbedienza, mi ordinasse
di assumere il comando, lo
assumerei. Ma se si limitasse a
offrirmelo, lo porterei a Sua
Eminenza dicendole: “Mettetemi
alla pari con Bassompierre,
Bellegarde, Guise e Créqui, e sarò
più che soddisfatto”.»
«Accidenti, monsieur
d’Angoulême» disse Bassompierre,
«non vi sapevo tanto modesto!»
«Sono modesto quando mi
giudico, maresciallo, e orgoglioso
quando mi confronto.»
«E tu, Luigi, vediamo, per chi
sarai tu? Per il cardinale, per
Monsieur o per te? Quanto a me,
dichiaro che al posto tuo io
nominerei Monsieur.»
«E questo perché, buffone?»
«Perché, essendo stato malato
durante tutto l’assedio della
Rochelle, probabilmente gli
piacerebbe prendersi la sua rivincita
in Italia. Forse i paesi caldi a tuo
fratello si confanno più di quelli
freddi.»
«Non quando ci fa troppo caldo»
disse Baradas.
«Ah, finalmente parli» disse il re.
«Sì» replicò Baradas, «quando ho
qualcosa da dire. Altrimenti taccio.»
«Perché non lardelli?»
«Perché ho le mani pulite e non
voglio sporcarle, perché sono
profumato e non voglio puzzare.»
«Guarda» disse Luigi XIII
togliendosi di tasca una boccetta,
«ho qui qualcosa con cui
profumarti.»
«Che cos’è?»
«Acqua di fiori d’arancio.»
«Sapete bene che la detesto, la
vostra acqua di fiori d’arancio.»
Il re si accostò a Baradas e gli
spruzzò in viso qualche goccia
dell’essenza contenuta nella
boccetta. Ma appena si sentì bagnare
il viso, il giovane si slanciò contro il
re, gli strappò dalle mani la boccetta
e la scagliò sul pavimento dove andò
in mille pezzi.
«Ah, signori» disse il re
sbiancando in volto, «che cosa
fareste a un paggio che vi insultasse
come ha fatto questo tanghero con
me?»
Tutti tacevano.
Bassompierre, l’unico incapace di
trattenere la lingua, disse:
«Lo farei frustare, Sire!»
«Ah, mi fareste frustare, voi,
maresciallo!» gridò Baradas
esasperato.
E sguainando la spada, malgrado
la presenza del re, si gettò contro il
maresciallo. I duchi di Guise e di
Angoulême lo trattennero.
«Monsieur Baradas» disse
Bassompierre, «dal momento che è
proibito sguainare la spada davanti
al re, pena farsi tagliare la mano,
permetterete che, senza mancare del
rispetto che devo a lui, dia a voi la
lezione che meritate. Georges, un
larditoio!»
E, prendendone uno dalle mani
dello scudiero:
«Lasciate andare monsieur
Baradas.»
Lo lasciarono e, ignorando le
grida del re, lui si lanciò furioso
contro il maresciallo. Ma questi era
un vecchio spadaccino che, se non
aveva sguainato spesso la spada
contro il nemico, la aveva però
sguainata più di una volta contro i
suoi amici, cosicché con perfetta
maestria, senza nemmeno alzarsi
dalla poltrona in cui era seduto, parò
i colpi del favorito e, approfittando
della prima occasione che si
presentò, gli conficcò il suo larditoio
nella spalla, lasciandocelo.
«Ecco fatto, caro il mio
giovanotto, questo è ancora meglio
della frusta e ve ne ricorderete più a
lungo.»
Vedendo il sangue arrossare la
manica di Baradas, il re lanciò un
grido.
«Monsieur de Bassompierre»
disse, «non ripresentatevi mai più
davanti a me!»
Bassompierre prese il cappello.
«Sire» disse, «Vostra Maestà mi
consentirà di ricorrere contro questa
sentenza.»
«Presso chi?» chiese il re.
«Presso Filippo sveglio.» 2
E mentre il re gridava: «Bouvard!
Chiamate Bouvard!», Bassompierre
uscì alzando le spalle, salutando con
un cenno i duchi di Angoulême e di
Guise, e mormorando:
«Lui, figlio di Enrico IV! Ma
quando mai!...»

1 Nel contesto della cosiddetta “guerra dei tre


Henri”, Henri de Guise, capo della Lega
Cattolica, si oppose al re Enrico III, vicino
invece agli ugonotti, il cui capo, Henri di
Borbone-Navarra, secondo la legge salica
avrebbe dovuto succedergli sul trono, dato che
Enrico III non aveva figli; nel 1588 Enrico III
proibì al duca di Guise di entrare a Parigi, ma
questi infranse il divieto e a seguito del suo
ingresso nella capitale scoppiò contro i soldati
del re una rivolta popolare (la “giornata delle
barricate”); Enrico III, fuggito a Chartres,
convocò gli Stati Generali, che si svolsero a
Blois e durante i quali ordinò l’assassinio di
Henri de Guise. [NdT]
2 Narra una leggenda che Filippo il Macedone
si sia addormentato, sopraffatto dal caldo,
mentre processava un suo soldato. Quando
questo finì la sua arringa, il re si svegliò di
soprassalto e pronunciò una sentenza di morte.
«Faccio ricorso!» esclamò il soldato. «Presso
chi? il re sono io!» disse Filippo. «Faccio ricorso
presso Filippo sveglio contro Filippo
addormentato» rispose il soldato, ottenendo così
la grazia del re, pieno di vergogna. Dumas usa
questa espressione in parecchi suoi romanzi.
[NdC]
III
Il negozio di Ildefonso Lopez
I nostri lettori ricorderanno
certamente di aver visto nella
relazione di Souscarrières al
cardinale che madame de Fargis e
l’ambasciatore spagnolo, monsieur
de Mirabel, si erano scambiati un
biglietto dal lapidario Lopez.
Bene, quello che Souscarrières
ignorava è che il lapidario Lopez
apparteneva anima e corpo al
cardinale, cosa che gli tornava
utilissima perché nella sua doppia
identità di mussulmano e di ebreo –
alcuni lo credevano ebreo e altri
mussulmano – avrebbe fatto molta
fatica a cavarsela senza danni,
benché si premurasse di mangiare
ostentatamente ogni giorno carne di
maiale a testimonianza che non era
seguace né di Mosè né di Maometto,
i quali proibiscono entrambi quella
carne ai loro adepti.
Un giorno aveva comunque
rischiato di pagar cara l’idiozia di un
relatore di ricorsi al Consiglio di
Stato. Poiché era stato accusato di
pagare in Francia delle pensioni per
la Spagna, uno di quei relatori si
presentò da lui, esaminò i suoi
registri e vi trovò questa scritta che
giudicò quanto mai compromettente:
«Guadamassil 1 por il Señor de
Bassompierre.»
Avvertito che sarebbe stato
accusato di alto tradimento insieme
al maresciallo, si precipitò da
madame de Rambouillet, che,
insieme alla bella Julie, era una delle
sue migliori clienti. Andava a
chiederle protezione e a dirle che
tutto il suo crimine consisteva
nell’aver scritto sul registro delle
richieste «Guadamassil por il Señor
de Bassompierre».
Madame de Rambouillet fece
scendere il marito e gli espose il
caso. Lui si recò subito dal relatore
di ricorsi, che era suo amico, a
testimoniare dell’innocenza di
Lopez.
«Eppure, caro marchese, la cosa è
evidente» gli disse il relatore.
«Guadamassil!»
Il marchese lo interruppe.
«Voi parlate spagnolo?»
«No.»
«Sapete che cosa significa
guadamassil?»
«No, ma già il termine mi fa
supporre qualcosa di grandioso.»
«Bene, caro signore, quella frase
significa: tappezzerie di cuoio per
monsieur de Bassompierre.»
Il relatore si rifiutava di crederci.
Si dovette procurare un dizionario di
spagnolo e il relatore vi cercò
personalmente la traduzione della
parola che lo aveva tanto
preoccupato.
Lopez era di origine moresca, ma,
quando nel 1610 i mori erano stati
cacciati dalla Spagna, lui era stato
inviato in Francia per difendere gli
interessi degli esuli e si era rivolto al
marchese di Rambouillet, che
parlava spagnolo.
Lopez era un uomo brillante.
Consigliò a dei mercanti di tessuti
un’operazione a Costantinopoli;
l’operazione ebbe successo e i
mercanti gli diedero sul loro
guadagno una percentuale sulla
quale lui non contava. Con quel
denaro, acquistò un diamante
grezzo, lo fece tagliare, ci guadagnò
sopra, cosicché da ogni parte gli
mandavano diamanti grezzi
ritenendolo il miglior tagliatore di
diamanti esistente. Di conseguenza,
gli passarono per le mani le più belle
pietre preziose dell’epoca, tanto più
che ebbe la fortuna di trovare un
operaio ancora più bravo di lui che
acconsentì a lavorare al suo servizio:
era talmente abile che, quando
occorreva, sapeva tagliare un
diamante in due con un solo colpo di
martello.
Quando si era trattato dell’assedio
della Rochelle, il cardinale lo aveva
mandato in Olanda per far costruire
delle navi e anche per comprarne di
già pronte. Ad Amsterdam e a
Rotterdam aveva acquistato una
quantità di oggetti provenienti
dall’India e dalla Cina, di modo che
aveva non solo importato, ma
addirittura inventato il bric-à-brac
in Francia. Avendo portato all’apice
la sua fortuna con la missione in
Olanda – senza che nessuno fosse al
corrente della causa reale di quel
viaggio –, aveva potuto diventare
all’insaputa di tutti un uomo del
cardinale.
Aveva notato anch’egli la
coincidenza della visita
dell’ambasciatore spagnolo con
quella di madame de Fargis e il suo
tagliatore di diamanti aveva visto
che si erano scambiati un biglietto,
così che il cardinale su
quell’episodio era stato informato
due volte: poiché la segnalazione di
Lopez confermava in tutto e per
tutto quella di Souscarrières, la sua
stima per l’intelligenza di
quest’ultimo ne era risultata
accresciuta.
E quando la regina la mattina del
14 ordinò portantine per tutti i suoi
intimi, il cardinale sapeva che non si
trattava tanto della visita di una
donna che vuole acquistare gioielli
quanto di quella di una regina che
vuole vendere il suo regno.
Così, verso le undici di mattina
del 14 dicembre, nel momento in cui
Bassompierre piantava un larditoio
nel deltoide di Baradas, e la regina si
preparava a scendere, accompagnata
da madame de Fargis, da Isabelle de
Lautrec, da madame de Chevreuse e
da Patroclo, suo primo scudiero,
entrò madame de Bellier, sua prima
cameriera, con una gabbia da
pappagalli coperta da un manto
spagnolo in una mano e nell’altra
una lettera.
«Oh, Dio mio, che cosa mi
portate?» domandò la regina.
«Un regalo offerto a Vostra
Maestà da Sua Altezza l’infanta
Clara Eugenia.»
«Allora proviene da Bruxelles?»
domandò ancora la regina.
«Sì, Vostra Maestà, e questa è la
lettera con cui la principessa
accompagna il regalo.»
«Vediamolo, prima» disse la
regina con curiosità tutta femminile,
tendendo la mano verso il manto.
«No» disse madame de Bellier
scostando la gabbia. «Vostra Maestà
deve prima leggere la lettera.»
«E chi ha portato la lettera e la
gabbia?»
«Michel Dause, il farmacista di
Vostra Maestà. Vostra Maestà sa che
è lui il nostro corrispondente in
Belgio. Ecco la lettera di Sua
Altezza.»
La regina prese la lettera, ruppe il
sigillo e lesse:
Mia cara nipote,
vi mando un magnifico pappagallo
che, a patto che non lo spaventiate
scoprendolo, vi farà un complimento in
cinque diverse lingue. È un bravo
animaletto, molto dolce e fedele. Sono
certa che non avrete mai motivo di
lamentarvi di lui.
La vostra devota zia
Clara Eugenia

«Parla, parla!» disse la regina.


Subito da sotto il manto uscì una
vocina che disse in francese:
«La regina Anna d’Austria è la
più bella principessa del mondo.»
«Oh, è meraviglioso!» esclamò la
regina. «Ora, mio caro uccellino,
vorrei sentirti parlare in spagnolo.»
Non appena ebbe espresso questo
desiderio, il pappagallo disse:
«Yo quiero doña Ana hacer por
usted todo para que sus deseos
lleguen.» 2
«Adesso in italiano» disse la
regina. «Avete qualcosa da dirmi in
italiano?»
L’uccellino non si fece attendere e
si sentì la stessa voce, solo con
accento italiano, dire:
«Darei la mia vita per la
carissima padrona mia.» 3
La regina batté le mani di gioia.
«E quali altre lingue parla il mio
pappagallo?»
«Inglese e olandese, Maestà»
rispose madame de Bellier.
«In inglese, in inglese!» disse
Anna d’Austria.
E senza farsi chiedere altro il
pappagallo disse subito:
«Give me your hand and I shall
give you my heart.» 4
«Ah» disse la regina, «non ho
capito molto bene. Sapete l’inglese,
Isabelle cara?»
«Sì, signora.»
«Avete capito?»
«Il pappagallo ha detto: “Datemi
la mano e vi darò il mio cuore”.»
«Bravo!» disse la regina. «E poi,
quale altra lingua avete detto che
conosce, Bellier?»
«L’olandese, signora.»
«Oh, che peccato!» esclamò la
regina. «Qui non c’è nessuno che sa
l’olandese.»
«Ma sì, Vostra Maestà» replicò
madame de Fargis. «Beringhen
viene dalla Frisia, lui lo sa
l’olandese!»
«Chiamate Beringhen» disse la
regina. «Dev’essere nell’anticamera
del re.»
Madame de Fargis corse via e
riportò con sé Beringhen.
Era un bel ragazzo alto, dai
capelli biondi e la barba rossa, metà
olandese metà tedesco, ma cresciuto
in Francia. Molto amato dal re, al
quale, da parte sua, era molto
devoto.
Madame de Fargis era andata a
tirarlo per la manica; fedele alla sua
consegna e non sapendo che cosa
volessero da lui, per fargli lasciare il
suo posto in anticamera si era
dovuto far valere l’ordine esplicito
della regina.
Ma il pappagallo era così
intelligente che, una volta entrato
Beringhen, capì che poteva parlare
olandese e, senza aspettare che gli
chiedessero il suo quinto
complimento, disse:
«Och, myne welbeminde koningin,
ik bemin u, maar ik bemin u meer in
hollandsch, myne liefste geboorte
taal.»
«Oh, oh!» esclamò sbalordito
Beringhen, «questo pappagallo parla
olandese come se venisse da
Amsterdam.»
«E, per favore, monsieur de
Beringhen, che cosa mi ha detto?»
domandò la regina.
«Ha detto a Vostra Maestà: “O
diletta regina, vi amo, ma in
olandese vi amo ancora di più,
perché è la mia cara lingua natale”.»
«Bene» disse la regina, «adesso si
può vederlo, e non ho dubbi che sia
bello quanto istruito.»
Così dicendo, tirò il manto e,
come sospettava, invece di un
pappagallo nella gabbia apparve una
graziosa piccola nana in costume
frisone, alta sì e no due piedi, che
fece una bella riverenza a Sua
Maestà.
Poi uscì dalla gabbia attraverso la
porticina, che era grande abbastanza
perché lei ci passasse senza chinarsi,
e fece una seconda riverenza, ancora
più aggraziata della prima.
La regina la prese fra le braccia e
l’abbracciò come avrebbe fatto con
un bambino, e infatti, benché avesse
più di quindici anni, non era molto
più alta di una bimba di due.
Proprio allora si udì chiamare per
i corridoi:
«Monsieur Premier, monsieur
Premier!»
Secondo l’etichetta di corte, così
veniva chiamato il primo cameriere
del re.
Beringhen, che non aveva più
niente da fare dalla regina, uscì in
fretta e sulla soglia incontrò il
secondo cameriere che lo cercava.
La regina udì questo rapido
scambio di parole mentre la porta
era ancora aperta:
«Che cosa c’è?»
«Il re chiede di chiamare
monsieur Bouvard.»
«Oh, Dio!» esclamò la regina. «È
successo qualcosa a Sua Maestà?»
E uscì per sapere qualcosa, ma
poté solo scorgere le braghe dei due
camerieri che correvano uno da una
parte e l’altro dall’altra.
Fu annunciato alla regina che le
portantine erano pronte.
«Ma non posso certo uscire senza
sapere che cosa è successo al re.»
«Perché Vostra Maestà non va da
lui?» domandò mademoiselle de
Lautrec.
«Non oso» disse la regina, «il re
non mi ha fatto chiamare.»
«Strano paese» mormorò Isabelle,
«quello in cui una moglie
preoccupata non osa chiedere notizie
del marito.»
«Volete che vada io a prenderne?»
intervenne madame de Fargis.
«E se il re si arrabbia?»
«Be’, mica mi mangerà il vostro
re Luigi XIII.»
Avvicinandosi poi alla regina e
parlando pianissimo:
«Cerco di vederlo un attimo e vi
porto notizie.»
In tre salti fu fuori. In capo a
cinque minuti rientrò preceduta da
un rumoroso scoppio di risa.
La regina tirò il fiato.
«Sembra che non sia tanto grave»
disse.
«Gravissimo, invece: c’è stato un
duello.»
«Un duello?» chiese la regina.
«Sì, proprio davanti al re.»
«E chi sono gli audaci che hanno
osato?»
«Monsieur de Bassompierre e
monsieur Baradas. Monsieur
Baradas è stato ferito.»
«Di un colpo di spada?»
«No, di un colpo di larditoio.»
E madame de Fargis, che era
tornata seria, scoppiò di nuovo in
una di quelle risate rumorose tipiche
della sua natura gioiosa, che si
sgranavano come un rosario di perle.
«E adesso che avete avuto notizie,
signore» disse la regina, «non credo
che questo incidente debba
impedirci di andare a trovare il señor
Lopez.»
E dal momento che Baradas, per
quanto di bell’aspetto, non ispirava
gran simpatia né alla regina né alle
dame del suo seguito, a nessuna
passò per il capo di opporre la
minima obiezione alla proposta della
regina.
Lei sistemò la piccola nana in
braccio a madame de Bellier. Le
avevano domandato come si
chiamava e aveva risposto Gretchen,
che significa sia margherita sia
perla.
In fondo allo scalone del Louvre,
trovarono le portantine, una delle
quali a due posti. Vi salì la regina,
con madame de Fargis e la piccola
Gretchen.
Dieci minuti dopo erano da
Lopez, che abitava all’angolo di rue
du Mouton con place de Grève.
Nel momento in cui la bussola
della regina veniva posata davanti
alla porta di Lopez, ritto sulla soglia
con il berretto in mano, un giovane
si precipitò ad aprire la portiera e
offrire il braccio alla regina.
Quel giovane era il conte di
Moret.
Due righe della cugina Marina
avevano avvertito il cugino
Jacquelino che la regina si sarebbe
trovata da Lopez dalle undici a
mezzogiorno e lui era accorso.
Era lì per salutare la regina,
stringere la mano a madame de
Fargis o scambiare uno sguardo con
Isabelle? Non sapremmo dire, ma
quel che possiamo affermare è che
dopo aver salutato la regina e averla
condotta nel negozio, dopo aver
stretto la mano a madame de Fargis,
corse alla seconda portantina e,
offrendo il braccio a mademoiselle
de Lautrec con il medesimo
cerimoniale adottato con la regina:
«Perdonatemi, signorina» disse a
Isabelle, «di non essere venuto
prima da voi, come esigeva il mio
cuore, ma davanti alla regina il
rispetto deve avere la precedenza su
tutto, anche sull’amore.»
Accompagnata la ragazza a unirsi
al gruppo che circondava la regina,
la salutò e fece un passo indietro
senza darle il tempo di rispondere se
non arrossendo.
L’atteggiamento del conte di
Moret era così diverso da quello
degli altri gentiluomini e, nelle tre
occasioni in cui si era trovato
davanti a Isabelle, le aveva
dimostrato tanto rispetto ed espresso
tanto amore che ognuno di quegli
incontri non aveva potuto non
lasciare una traccia nel cuore della
ragazza; rimase dunque immobile e
pensierosa in un angolo del negozio
di Lopez, senza degnare di
un’occhiata tutti i tesori in mostra
davanti a lei.
Appena giunta, la regina aveva
cercato con lo sguardo
l’ambasciatore di Spagna e lo aveva
scorto mentre parlava con il
tagliatore di diamanti, cui sembrava
chiedere il valore di alcune pietre.
Da parte sua, lei portava a Lopez
un magnifico filo di perle, in cui
bisognava sostituire con perle vive
quelle che erano morte.
Ma il prezzo delle otto o dieci
perle mancanti era così elevato che
la regina aveva qualche esitazione a
ordinarle a Lopez: madame de
Fargis, che chiacchierava con il
conte di Moret prestando un
orecchio a quel che Antoine de
Bourbon le diceva e l’altro a quel
che diceva la regina, accorse.
«Che cosa succede a Vostra
Maestà» domandò, «e che cosa la
turba?»
«Lo vedete, mia cara» rispose la
regina. «Intanto ho voglia di quel bel
crocifisso e quell’ebreo di Lopez
non vuole darmelo per meno di
mille pistole.»
«Ah, Lopez» disse madame de
Fargis, «non è ragionevole vendere
la copia per mille pistole quando per
l’originale vi siete accontentato di
trenta denari.»
«Prima di tutto» replicò Lopez,
«non sono ebreo, bensì
mussulmano.»
«Ebreo o mussulmano, fa lo
stesso» disse madame de Fargis.
«E poi» continuò la regina, «ho
bisogno di dodici perle per sistemare
la mia collana e vuole vendermele
per cinquanta pistole l’una.»
«Tutto qui quel che vi turba?»
domandò madame de Fargis. «Ce le
ho, le vostre settecento pistole.»
«E dove, amica mia?» chiese la
regina.
«Nelle tasche di quell’omone nero
che cerca di vendere, lì in fondo,
tutto quel tessuto indiano.»
«Ma è Particelli!»
«No, non confondiamo, è
monsieur d’Émery.»
«Be’, Particelli o d’Émery non è
la stessa cosa?»
«Sì, signora, per tutti, ma non per
il re.»
«Non capisco.»
«Come, non sapete che, quando il
cardinale gli ha dato la carica di
tesoriere degli argenti presso il re
con il nome di monsieur d’Émery, il
re ha commentato: “E va bene,
monsignore, datela a questo
d’Émery il più in fretta possibile”?
“E perché?” ha chiesto,
meravigliato, il cardinale. “Perché
mi hanno detto che quel furfante di
Particelli avanzava pretese su quella
carica.” “Be’” ha risposto il
cardinale, “in ogni caso, Particelli è
stato impiccato.” “Tanto meglio” ha
ribattuto il re, “perché era un gran
ladro.”»
«E allora?» domandò la regina,
che continuava a non capire.
«E allora» spiegò madame de
Fargis, «basta che io dica una parola
all’orecchio di monsieur d’Émery
perché lui vi dia immediatamente le
vostre settecento pistole.»
«E come potrò sdebitarmi con
lui?»
«Semplicemente non dicendo al
re che Particelli e d’Émery sono la
stessa persona.»
E corse da d’Émery, talmente
occupato con le sue stoffe da non
avere nemmeno visto la regina,
anche perché ci vedeva poco: ma
appena seppe che era lì e soprattutto
appena madame de Fargis gli ebbe
detto due parole all’orecchio,
accorse veloce quanto glielo
permettevano le gambette corte e il
grosso ventre.
«Oh, signora» disse madame de
Fargis, «dovete ringraziare monsieur
Particelli.»
«D’Émery» intervenne il
tesoriere.
«E di che cosa, mio Dio?» chiese
la regina.
«Non appena monsieur Particelli
ha saputo del vostro piccolo
problema...»
«D’Émery, d’Émery» ripeté il
tesoriere.
«... si è offerto di aprire a Vostra
Maestà un credito da Lopez di
ventimila lire.»
«Ventimila lire!» esclamò
l’ometto. «Accidenti!»
«Volete fare di più, trovate che
non sia abbastanza per una grande
regina, monsieur Particelli?»
«D’Émery, d’Émery, d’Émery!»
ripeté lui disperato. «Sono
felicissimo di poter essere utile a
Sua Maestà, ma in nome del cielo,
chiamatemi d’Émery.»
«È vero» osservò madame de
Fargis, «Particelli è il nome di un
impiccato.»
«Grazie, monsieur d’Émery»
disse la regina. «In verità, mi
rendete un vero servigio.»
«Sono sempre debitore di Vostra
Maestà, ma le sarei infinitamente
grato se pregasse madame de Fargis,
che si sbaglia sempre, di non
chiamarmi più Particelli.»
«D’accordo, monsieur d’Émery,
d’accordo, però andate a dire a
monsieur Lopez che la regina può
fare acquisti da lui per ventimila lire
e che dovrà trattare solamente con
voi.»
«Immediatamente, ma siamo
d’accordo, vero? Mai più Particelli,
vero?»
«No, monsieur d’Émery! no,
monsieur d’Émery! no, monsieur
d’Émery» rispose madame de Fargis
seguendo l’ex impiccato finché non
lo vide parlare con Lopez.
Nel frattempo, la regina e
l’ambasciatore di Spagna si erano
scambiati un’occhiata e si erano
insensibilmente avvicinati l’uno
all’altra. Il conte di Moret,
appoggiato a una colonna, guardava
Isabelle de Lautrec, che faceva finta
di giocare con la nana e di
chiacchierare con madame de
Bellier ma che, nel sentire lo
sguardo acceso di Antoine de
Bourbon fisso su di sé, non seguiva
affatto, dobbiamo ben dirlo, né il
gioco dell’una né la conversazione
dell’altra. Madame de Fargis
vigilava a che il credito aperto a Sua
Maestà fosse davvero di ventimila
lire; d’Émery e Lopez discutevano le
condizioni di tale credito. Ognuno
insomma era così intento agli affari
suoi che nessuno pensava a quelli
dell’ambasciatore e della regina i
quali, a forza di andarsi incontro, si
trovarono infine faccia a faccia.
I convenevoli furono brevi, e si
passò rapidamente alle cose
interessanti.
«Vostra Maestà ha ricevuto»
chiese l’ambasciatore «una lettera di
don Gonzalo?»
«Sì, per il tramite del conte di
Moret.»
«Ne ha letto non solo le righe
visibili, scritte dal governatore di
Milano...»
«... ma anche quelle invisibili
scritte da mio fratello.»
«E la regina ha meditato sul
consiglio che le veniva dato?»
La regina arrossì e abbassò gli
occhi.
«Signora» disse l’ambasciatore,
«ci sono ragioni di Stato davanti alle
quali le fronti più alte si chinano, le
virtù più austere cedono. Se il re
morisse...»
«Dio ci preservi da tale disgrazia,
signore!»
«Insomma, se il re morisse, che
cosa ne sarebbe di voi?»
«Spetterebbe a Dio decidere.»
«Non bisogna lasciar decidere
tutto a Dio, signora. Avete qualche
motivo per fidarvi di Monsieur?»
«Nessuno, è un miserabile!»
«Sareste rimandata in Spagna, o
confinata in qualche convento
francese.»
«Non mi nascondo che tale
sarebbe la mia sorte.»
«Potete contare su qualche
appoggio da parte di vostra
suocera?»
«No, su nessuno. Finge di essermi
affezionata ma in fondo mi detesta.»
«Vedete... E invece, con Vostra
Maestà incinta alla morte del re, tutti
sarebbero ai piedi della reggente.»
«Lo so, signore.»
«E allora?»
La regina sospirò.
«Non sono innamorata di
nessuno» mormorò.
«Volete dire che siete ancora
innamorata di qualcuno che
purtroppo è inutile amare.»
Anna d’Austria si asciugò una
lacrima.
«Lopez ci guarda, signora» disse
l’ambasciatore. «Non ho la stessa
vostra fiducia in quell’uomo.
Separiamoci, ma prima
promettetemi una cosa.»
«Quale, signore?»
«Una cosa che vi chiedo in nome
del vostro augusto fratello, in nome
della pace della Francia e della
Spagna.»
«Che cosa volete che vi prometta,
signore?»
«Ebbene, che nelle circostanze
gravi che abbiamo previsto, voi
chiuderete gli occhi e vi lascerete
guidare da madame de Fargis.»
«La regina ve lo promette,
signore» intervenne madame de
Fargis comparendo fra la regina e
l’ambasciatore. «E io m’impegno in
nome di Sua Maestà.»
Poi, sottovoce:
«Lopez vi guarda» disse «e il
tagliatore di diamanti vi ascolta.»
«Signora» disse la regina alzando
la voce, «sono quasi le due del
pomeriggio, dobbiamo rientrare al
Louvre per cenare e soprattutto per
chiedere notizie di quel povero
monsieur Baradas!»

1 In catalano, pelle di montone con ornamenti


policromi e dorature usata per rivestimenti
murali, paramenti d’altare, paraventi eccetera. La
parola spagnola equivalente è guadamecí. [NdC]
2 Vorrei fare per te, donna Anna, tutto quello
che posso perché si esaudiscano i tuoi desideri.
[NdT]
3 In italiano nel testo. [NdT]
4 Datemi la vostra mano e vi darò il mio cuore.
[NdT]
IV
I consigli dell’Angely
In un primo tempo, quando il suo
favorito gli aveva strappato dalle
mani il flacone di acqua di fiori
d’arancio che gli offriva per
profumarsi e gliel’aveva scagliata ai
piedi, re Luigi XIII, come si è visto,
era stato offeso dalla sua insolenza.
Ma, non appena aveva visto colare
dalla ferita infertagli da monsieur de
Bassompierre il prezioso sangue del
suo diletto Baradas, tutta la sua
collera si era trasformata in dolore:
gettandosi a corpo morto su di lui,
aveva strappato via il larditoio
rimasto nella ferita e, malgrado lui si
opponesse, non per rispetto ma per
furore, aveva cercato di medicare lui
stesso la piaga, fidandosi delle
proprie conoscenze nel campo della
medicina.
Ma la bontà di Luigi XIII per il
suo favorito, fosse bontà o piuttosto
debolezza, che ricordava quella di
Enrico III per i suoi mignons, 1
aveva fatto di lui un bambino
viziato.
Respinse il re, respinse tutti,
dichiarando che non avrebbe
dimenticato l’insulto che gli era
stato fatto e la parte avuta dal re in
quell’insulto a meno che non gli
fosse resa giustizia mandando il
maresciallo di Bassompierre alla
Bastiglia o concedendogli un duello
pubblico, come quello che aveva
illustrato il regno di Enrico II e che
si era concluso con la morte di La
Châtaigneraie. 2
Il re cercò di calmarlo; Baradas
avrebbe perdonato un colpo di spada
– e anzi avrebbe potuto anche trarre
un certo orgoglio da un colpo di
spada del maresciallo di
Bassompierre –, ma un colpo di
larditoio non poteva perdonarlo.
Tutto fu dunque vano, il ferito era
irremovibile: o un duello ufficiale,
alla presenza del re e di tutta la
corte, o il maresciallo alla Bastiglia.
Baradas si ritirò dunque nella sua
camera, con la stessa maestà di
Achille quando si ritirò nella sua
tenda dopo che Agamennone si era
rifiutato di rendergli la bella
Briseide.
È vero che l’evento aveva
seminato una certa agitazione fra i
lardellatori, e anche fra quelli che
non lardellavano. I duchi di Guise e
di Angoulême avevano per primi
[ritenuto di essere di troppo in quella
scena di famiglia e, riprendendo i
loro cappelli, avevano] 3 raggiunto
la porta ed erano usciti insieme.
Richiusa la porta e oltrepassata la
soglia, il duca di Guise si era
fermato e, guardando Angoulême:
«Ebbene» gli domandò, «che cosa
ne dite?»
L’altro alzò le spalle.
«Dico che il mio povero re Enrico
III, tanto calunniato, in fin dei conti,
per la morte di Quélus, di
Schomberg e di Maugiron, si è
disperato meno del nostro buon re
Luigi XIII per il graffio di monsieur
Baradas.»
«È mai possibile che un re
somigli così poco a suo padre?»
mormorò il duca di Guise lanciando
un’occhiata di lato come se avesse
voluto vedere attraverso la porta che
cosa stava accadendo nella camera
da cui era appena uscito. «In fede
mia, confesso che tutto sommato
preferivo re Enrico IV, anche se
dentro di sé era rimasto ugonotto.»
«Bah, dite così perché Enrico IV è
morto, ma finché era vivo lo
detestavate.»
«Aveva fatto abbastanza male alla
nostra famiglia perché non fossimo
fra i suoi migliori amici.»
«Questo ve lo concedo» disse il
duca di Angoulême, «ma quello che
non posso concedervi è che vogliate
trovare assolutamente una
somiglianza tra i figli e i mariti delle
loro madri. Sapete bene che di
questa somiglianza non a tutti è dato
di godere. A cominciare da voi, per
esempio, mio caro duca» e
Angoulême si appoggiò
amichevolmente al braccio del suo
interlocutore, mettendo il piede su
un gradino della scala, «a
cominciare da voi: io, che ho avuto
l’onore di conoscere il marito di
vostra madre e che ho la fortuna di
conoscervi, oserei dire, senza la
benché minima malizia, s’intende,
che tra voi e lui non esiste alcuna
somiglianza.»
«Mio caro, carissimo duca!»
mormorò Guise non sapendo, o
meglio sapendo anche troppo, dove
poteva condurlo un interlocutore
beffardo come Angoulême,
imboccando una simile strada.
«Davvero» insisté il duca con
quell’aria bonacciona che assumeva
con tanta arte che non si capiva mai
se prendeva in giro o parlava sul
serio, «davvero, è lampante,
perbacco! Tutti, tranne voi,
ricordiamo bene il vostro povero
padre. Era alto, e voi siete piccolo;
aveva il naso aquilino, e voi lo avete
camuso; aveva gli occhi neri, e voi li
avete grigi.»
«Dite anche che aveva uno sfregio
sulla guancia e io no!»
«Perché non potete avere
qualcosa che si prende solo in
battaglia, voi che il fuoco non lo
avete mai visto.»
«Come!» sbottò il duca di Guise,
«non ho mai visto il fuoco? E alla
Rochelle, allora?»
«È vero, dimenticavo! Ha
attaccato la vostra nave, il fuoco!»
«Duca» disse Guise, staccando il
braccio da quello di Angoulême,
«credo che questa sia una delle
vostre giornate cattive, ed è meglio
se ci separiamo.»
«Io, in una cattiva giornata? Che
cosa vi ho mai detto? Niente di
sgradevole, spero, oppure l’ho fatto
senza volerlo. Si rassomiglia a chi si
può, lo capite bene, è il caso che
decide. Io, per esempio, rassomiglio
forse a mio padre Carlo IX, che era
rosso di capelli e di pelle? Ma non
per questo ci si deve rattristare, a
qualcuno si somiglia sempre.
Guardate il nostro re, per dirne uno,
be’, rassomiglia a quel cugino della
regina madre che è venuto in
Francia con lei, il duca di Bracciano.
Ve lo ricordate, Virginio Orsini? E
dal canto suo, Monsieur somiglia al
maresciallo d’Ancre come una
goccia d’acqua a un’altra. E voi, voi
forse non immaginate nemmeno a
chi rassomigliate.»
«No, e non mi interessa saperlo.»
«Ah, già, voi non potete averlo
conosciuto perché è stato ucciso da
vostro zio Mayenne sei mesi prima
della vostra nascita. Bene,
rassomigliate tanto che vi si
scambierebbe l’uno per l’altro al
conte di Saint-Mégrin. Non ve
l’aveva detto nessuno?»
«Sì, solo che quando me lo hanno
detto mi sono arrabbiato, caro duca,
vi avverto.»
«Perché ve lo dicevano con
cattiveria e non senza malizia come
faccio io. Mi sono forse arrabbiato
poco fa quando monsieur de
Bassompierre mi ha detto che batto
moneta falsa? Ma evidentemente
siete voi a essere maldisposto oggi, e
non io, quindi vi lascio.»
«Direi che fate bene» disse Guise
avviandosi dalla parte di rue de
l’Arbre-Sec, che conduceva verso
rue Saint-Honoré.
E affrettando il passo, si allontanò
rapidamente dal suo caustico
interlocutore, che restò per un attimo
impalato con l’aria stupita di chi non
capisce come gli altri possano avere
una suscettibilità che lui si vantava
di non avere.
Poi si diresse verso il Pont-Neuf,
sperando di trovare in quel luogo di
passaggio un’altra vittima e torturare
qualcun altro come aveva iniziato a
fare con il duca di Guise.
Nel frattempo, gli altri cortigiani
si erano a poco a poco eclissati e il
re si era trovato solo con l’Angely. Il
quale, non volendo perdere una così
bella occasione per recitare il suo
ruolo di buffone, si piantò davanti al
re che rimaneva seduto, triste, con la
testa china e gli occhi fissi a terra.
«Eh!» emise con un gran sospiro.
Luigi alzò il capo.
«E allora?» gli domandò con il
tono di chi si aspetta che il suo
interlocutore gli dia comunque
ragione.
«E allora!» ripeté l’Angely con lo
stesso tono lamentoso.
«Che cosa dici di monsieur de
Bassompierre?»
«Dico» rispose l’Angely,
lasciando percepire un’ironica
ammirazione, «che si destreggia
piuttosto bene con il larditoio e che
forse ha fatto il cuoco da giovane.»
Un lampo passò nello sguardo
spento di Luigi XIII.
«L’Angely» disse, «ti proibisco di
scherzare sull’incidente occorso a
monsieur Baradas.»
Il viso dell’Angely espresse un
dolore profondo.
«La corte prenderà il lutto?»
domandò.
«Se dici ancora una parola,
buffone» disse il re alzandosi e
picchiando i piedi, «ti faccio frustare
a sangue.»
«Bene» replicò l’Angely
sedendosi come per mettere al riparo
la parte minacciata sulla poltrona
che il re aveva lasciato libera.
«Eccomi minacciato dai paggi di
Sua Maestà: quando commetteranno
uno sbaglio, frusteranno me. Ah, il
mio compare Nogent aveva proprio
ragione: non ti chiami Luigi il
Giusto senza motivo, accidenti!»
«Oh» disse Luigi XIII senza
ribattere alla battuta del buffone, alla
quale non avrebbe saputo che cosa
rispondere. «Mi vendicherò su
monsieur de Bassompierre.»
«Hai mai sentito la storia di un
serpente che volendo rodere una
lima si consumò i denti?»
«Che cosa intendi dirmi ancora
con i tuoi apologhi?»
«Intendo dire, figlio mio, che, pur
essendo re, non hai il potere di
perdere i tuoi nemici più che di
salvare i tuoi amici. Questo spetta al
nostro ministro Richelieu. Chiamano
“il Giusto” te finché sei vivo ma
probabilmente dopo la sua morte
sarà lui che chiameranno così.»
«Come?»
«Non la pensi così, Luigi? Io sì.
Guarda, per esempio, quando è
venuto a dirti: “Sire, mentre io
provvedo alla vostra salvezza e alla
gloria della Francia, vostro fratello
cospira contro di me, cioè contro di
voi. Doveva invitarmi a cena, con
tutto il suo seguito, al castello di
Fleury e, quando fossimo stati a
tavola, monsieur de Chalais avrebbe
dovuto trapassarmi da parte a parte
con la spada. Ecco qui la prova. E
del resto, chiedete a vostro fratello.
Ve lo dirà lui stesso”. Tu chiedi a tuo
fratello. Lui si spaventa, come
sempre, si butta ai tuoi piedi e ti dice
tutto. Ah! Questo è alto tradimento
che merita di veder cadere una testa
sul patibolo. Ma quando tu andassi a
dire a monsieur de Richelieu:
“Cardinale, lardellavo. Baradas non
lardellava. Volevo che lardellasse e
al suo rifiuto gli ho gettato in faccia
dell’acqua di fiori d’arancio. Lui,
senza alcun rispetto per la Mia
Maestà, mi ha strappato il flacone
dalle mani e lo ha scagliato a terra.
Ho domandato allora che cosa
meritasse un paggio che si
permetteva di insultare così il suo re.
Il maresciallo di Bassompierre, da
uomo di buon senso, ha risposto: la
frusta, Sire. Al che, monsieur
Baradas ha sguainato la spada e si è
gettato su monsieur de Bassompierre
che, per non mancare al rispetto che
mi doveva, non ha sguainato la sua e
si è accontentato di prendere un
larditoio dalle mani di Georges e di
piantarlo nel braccio di monsieur
Baradas. Chiedo quindi che
monsieur de Bassompierre venga
mandato alla Bastiglia”, il tuo
ministro – e sono dalla sua parte
contro tutti e anche contro di te –, il
tuo ministro, che è la giustizia in
persona, ti risponderà: “Ma è
monsieur de Bassompierre ad avere
ragione, e non il vostro paggio, che
mi asterrò dal mandare alla Bastiglia
perché vi mando solamente i
principi e i grandi signori, ma che
farò frustare per avervi strappato il
flacone di mano, e mettere alla
gogna per avere sguainato la spada
davanti a voi – voi al quale io,
vostro ministro, io, l’uomo più
importante di Francia dopo di voi, e
anche prima di voi, parlo solo a voce
bassa e con la testa china”. Che cosa
risponderai al tuo ministro?»
«Baradas lo amo e Richelieu lo
odio: è tutto quello che posso dirti.»
«Ecco, hai doppiamente torto: tu
odi un grand’uomo che fa tutto il
possibile per renderti grande e ami
un piccolo balordo, incapace persino
di consigliarti un delitto, come
Luynes, o di commetterlo, come
Chalais.»
«Non hai sentito che chiede un
duello ufficiale? Ce n’è un esempio
nella monarchia, quello di Jarnac e
La Châtaigneraie, sotto il regno di
Enrico II.»
«Be’, dimentichi che da allora
sono passati settantacinque anni, che
Jarnac e La Châtaigneraie erano due
grandi signori che potevano tirare di
spada l’uno contro l’altro, che la
Francia era ancora in pieno nei
tempi della cavalleria e che, infine,
contro i duelli non esistevano gli
editti che hanno fatto cadere in place
de Grève la testa di Bouteville, cioè
di un Montmorency. Vai a chiedere a
monsieur de Richelieu di autorizzare
monsieur Baradas, paggio del re, a
battersi contro monsieur de
Bassompierre, maresciallo di
Francia, colonnello generale delle
guardie svizzere, e vedrai come ti
riceverà!»
«Bisogna pure che il povero
Baradas abbia una qualche
soddisfazione, altrimenti farà come
ha detto.»
«E cioè?»
«Resterà nella sua stanza.»
«E credi che la terra smetterà per
questo di girare intorno al sole, dato
che Galileo sostiene che gira? No,
monsieur Baradas è un vanesio e un
ingrato come tutti gli altri, che ti
verrà a noia come gli altri. Quanto a
me, se fossi al tuo posto, so bene che
cosa farei, figlio mio.»
«E che cosa faresti? Perché
insomma, devo riconoscerlo,
l’Angely, a volte mi dai dei buoni
consigli.»
«Puoi pure dire che sono il solo a
dartene di buoni.»
«Insieme al cardinale, di cui
parlavi un attimo fa.»
«Tu non gliene chiedi, e quindi
non può dartene, lui.»
«Allora, l’Angely, che cosa faresti
al mio posto?»
«Sei così malmesso quanto a
favoriti, che proverei con una
favorita.»
Luigi XIII fece un gesto che era
una via di mezzo fra la castità e la
ripugnanza.
«Ti giuro, figlio mio, che non sai
che cosa rifiuti. Non vanno
disprezzate le donne. C’è del buono
in loro.»
«Non alla corte, almeno.»
«Come, non alla corte?»
«Sono talmente spudorate che mi
mettono vergogna.»
«Eh, figlio mio, spero che tu non
dica questo per madame de
Chevreuse...»
«Già, parliamone, di madame de
Chevreuse.»
«Ma guarda» disse l’Angely con
l’aria più innocente del mondo, «e io
che la credevo onesta.»
«Sì! domanda a milord Rich,
domanda a Châteauneuf, domanda al
vecchio arcivescovo di Tours,
Bertrand de Chaux, fra le cui carte è
stato trovato un biglietto da
venticinquemila lire strappato e
firmato da madame de Chevreuse...»
«È vero, sì, mi ricordo anche che
a quell’epoca, su istanza della
regina, che alla sua favorita non
rifiutava niente, come tu non rifiuti
niente al tuo, hai chiesto per quel
bravo arcivescovo il cappello, che ti
fu rifiutato, tanto che il pover’uomo
andava dicendo ovunque: “Se il re
fosse stato in auge, sarei cardinale”.
Comunque tre amanti, fra cui un
arcivescovo, non sono un granché
per una donna che a ventott’anni ha
avuto solo due mariti.»
«Oh, non siamo ancora alla fine
della lista! Domanda a Marillac,
domanda al suo cavalier servente
Crufft, domanda...»
«No, no, grazie. Sono troppo
pigro per andare a chiedere a tutta
quella gente. Preferisco passare a
un’altra. Abbiamo madame de
Fargis. Non mi dirai che non è una
vestale, lei?»
«Stai scherzando, buffone! E
Créqui? Et Cramail? E il
guardasigilli Marillac? Non conosci
quella celebre prosetta latina in
rima:
Fargia dic mihi sodes
Quantas commioisti sordes
Inter primas atque laudes
Quando...» 4

Il re s’interruppe bruscamente.
«In fede mia, no, non la
conoscevo» disse l’Angely,
«cantami la strofa per intero, mi
divertirà.»
«Non potrei mai» disse Luigi
arrossendo. «Ci sono parole che una
bocca casta non riesce nemmeno a
ripetere.»
«Il che non t’impedisce di saperla
a memoria, ipocrita! Andiamo
avanti. Vediamo, che cosa mi dici
della principessa di Conti? È un po’
matura, ma questo non fa che
renderla più esperta.»
«Dopo quello che ne ha detto
Bassompierre, bisognerebbe essere
matti! E dopo quello che ne ha detto
lei stessa, bisognerebbe essere
stupidi!»
«Quello che ne ha detto il
maresciallo l’ho sentito, ma non so
quello che ne dice lei. Di’, parla,
figlio mio, sei così bravo a
raccontare, per lo meno gli aneddoti
sporcaccioni.»
«Be’, diceva a suo fratello, che
giocava sempre senza mai vincere:
“Smettete di giocare, fratello mio”.
Ma lui rispose: “Smetterò di giocare,
mia cara sorella, quando voi
smetterete di fare l’amore”. “Oh,
guardate che cattivo!” ribatté lei,
“non si correggerà mai!” Comunque,
parlare d’amore a una donna sposata
ripugna alla mia coscienza.»
«Questo mi spiega perché non
parlate d’amore alla regina.
Passiamo allora alle signorine.
Vediamo, che cosa dici della bella
mademoiselle de Lautrec? Ah,
questa non puoi proprio dirmi che
non è perbene.»
Luigi arrossì fino alle orecchie.
«Ah, ah» disse l’Angely, «ho per
caso toccato nel segno?»
«Non ho niente da dire contro la
virtù di mademoiselle de Lautrec,
anzi» e nella voce di Luigi XIII si
poteva cogliere senza fatica un
leggero tremito.
«Contro la sua bellezza?»
«Meno ancora.»
«Contro la sua intelligenza?»
«È incantevole, ma...»
«Ma, cosa?»
«Non so se dovrei dirtelo,
l’Angely, ma...»
«Coraggio, avanti!»
«Ma mi è parso che non avesse
grande simpatia per me.»
«Bah, figlio mio, ti fai torto e la
tua modestia ti perde.»
«E se ti do retta, che cosa dirà la
regina?»
«Se si tratta di dare una
spintarella a mademoiselle de
Lautrec, se ne incaricherà, non fosse
che per vederti allontanare da tutte
quelle squallide storie di paggi e
scudieri.»
«Ma Baradas...»
«Baradas sarà geloso come una
scimmia e cercherà di pugnalare
mademoiselle de Lautrec. Ma se la
avvertiamo, potrà mettersi una
corazza come Giovanna d’Arco. In
ogni caso, provaci!»
«E se Baradas, invece di ritornare
da me, si arrabbia del tutto?»
«Be’, ti rimarrà Saint-Simon.»
«È carino quel ragazzo, ed è
l’unico che a caccia sappia soffiare
nel corno.»
«Ebbene, vedi che sei già mezzo
consolato.»
«Che cosa devo fare, l’Angely?»
«Seguire i miei consigli e quelli di
Richelieu. Con un pazzo come me e
un ministro come lui, in sei mesi
saresti il primo sovrano d’Europa.»
«E va bene, allora. Ci proverò»
disse Luigi con un sospiro.
«Quando?» domandò l’Angely.
«Subito, stasera.»
«Coraggio, allora, sii uomo
stasera e domani sarai re.»

1 Così venivano chiamati i giovani omosessuali


di cui si circondava Enrico III, ultimo dei Valois,
che, assassinato nel 1589, nominò suo
successore Enrico IV di Navarra, che diede
inizio alla dinastia dei Borbone. [NdT]
2 Un duello rimasto celebre perché autorizzato
in via eccezionale dal re (in Francia la pratica ne
era vietata fin dall’epoca di Luigi IX, il re santo)
aveva opposto il 10 luglio 1547 due gentiluomini
della corte di Enrico II, La Châtaigneraie e
Jarnac, per futili motivi fomentati dalla rivalità
fra la favorita di Francesco I, da poco
scomparso, e l’onnipotente amante di Enrico II,
Diane de Poitiers; colpito a una gamba
dall’avversario (con un colpo diventato
proverbiale come coup de Jarnac, appunto), La
Châtaigneraie ebbe salva la vita, ma morì la
notte successiva al duello. [NdT]
3 Il passo fra parentesi quadre figura
nell’edizione in volume del 1946, ma non nel
testo pubblicato sulle «Nouvelles». [NdC]
4 Fu il referendario Chastellet a comporre, su
richiesta del cardinale di Richelieu, questa
poesiola salace, in latino, sulla relazione
amorosa fra madame de Fargis e monsieur de
Marillac: «La Fargie, dimmi, di grazia, / quante
porcherie hai commesso / e soprattutto, fra le più
degne di gloria, / quando...» (il seguito, che
Luigi XIII non osa recitare, è decisamente
osceno). [NdC]
V
La confessione
Il giorno dopo che il re, su consiglio
del suo giullare l’Angely, aveva
preso la decisione di far ingelosire
Baradas, il cardinale di Richelieu
spediva Cavois all’hôtel de
Montmorency con una lettera
indirizzata al duca e concepita in
questi termini:
Signor duca,
permettetemi di sfruttare uno dei
privilegi della mia carica di ministro
esprimendovi il profondo desiderio che ho
di vedervi e di parlare seriamente con voi,
uno dei migliori fra coloro che guideranno
la campagna che sta per iniziare.
Permettetemi anche di esprimervi il
desiderio che il colloquio abbia luogo
nella mia casa di place Royale, vicino al
vostro palazzo, nonché di pregarvi di
venire a piedi e senza seguito, perché
questa conversazione, che spero vi lascerà
completamente soddisfatto, rimanga
segreta. Se le nove del mattino fosse
un’ora che vi conviene, converrebbe
perfettamente anche a me.
Potreste farvi accompagnare, se non
avete nulla in contrario e se lui
acconsentisse a farmi lo stesso onore che
ho chiesto a voi, dal vostro giovane
amico, il conte di Moret, a proposito del
quale ho progetti degni del nome che
porta e della fonte da cui discende.
Con la più sincera stima, credetemi,
signor duca, il vostro più devoto servitore.
Armand, cardinale di Richelieu

Un quarto d’ora dopo essere stato


incaricato di portare questa lettera,
Cavois tornò con la risposta del
duca. Montmorency aveva ricevuto
splendidamente il messaggero e
mandava a dire al cardinale che
accettava con riconoscenza
l’appuntamento e che sarebbe stato
da lui all’ora stabilita, insieme al
conte di Moret.
Il cardinale parve molto
soddisfatto della risposta, domandò
a Cavois notizie della moglie,
apprese con piacere che la coppia
godeva della più dolce serenità,
grazie alla cura che aveva avuto,
negli ultimi otto o dieci giorni, di
non trattenere Cavois al Palais-
Royal più di due notti, e si mise a
sbrigare il suo lavoro.
La sera, il cardinale mandò padre
Joseph a prendere notizie del ferito
Latil: migliorava rapidamente ma
ancora non poteva lasciare la
camera.
L’indomani all’alba, secondo le
sue abitudini, il cardinale scese nello
studio, ma, per quanto presto si
fosse alzato, già qualcuno lo
aspettava e gli fu annunciato che una
dama velata, che aveva dichiarato di
non volersi fare riconoscere se non
da lui, si era presentata ed era
rimasta in anticamera.
Erano tante e diverse le persone
impegnate nella sua polizia che il
cardinale pensò di avere a che fare
con uno dei suoi agenti, o meglio
con una delle sue agenti e, senza
nemmeno cercare di indovinare
quale fosse, ordinò al suo cameriere,
Guillemot, di fare entrare la signora
che chiedeva di parlargli e di badare
a che nessuno interrompesse il suo
colloquio con la sconosciuta.
Avrebbe suonato il campanello, se
avesse avuto bisogno di qualcosa.
Poi, dando un’occhiata alla
pendola, vide che mancava più di
un’ora all’arrivo di Montmorency e,
pensando che un’ora gli sarebbe
bastata per liquidare la dama velata,
non ritenne di dover aggiungere altre
raccomandazioni.
Cinque minuti dopo, Guillemot
entrava con la persona annunciata,
che rimase dritta accanto alla porta.
Il cardinale fece un cenno a
Guillemot, che uscì e lo lasciò solo
con la persona che aveva fatto
entrare.
Al cardinale era bastato uno
sguardo per essere certo, dai tre o
quattro passi con cui era entrata
nello studio, che si trattava di una
giovane e per capire dal suo
abbigliamento che apparteneva a
una classe sociale elevata.
Allora, accorgendosi, malgrado il
velo che le copriva il viso, che la
sconosciuta sembrava molto
intimidita:
«Signora» le disse, «avete chiesto
di avere un colloquio con me,
eccomi. Parlate.»
E le faceva intanto segno di
avanzare verso di lui.
La dama velata mosse un passo,
ma, sentendosi vacillare, si appoggiò
con una mano al dorso di una sedia,
mentre con l’altra cercava di
comprimere i battiti del cuore.
La testa leggermente riversa
indicava anche che era in preda a
uno di quegli spasimi causati
dall’emozione o dalla paura.
Il cardinale era osservatore troppo
fine per equivocare su quei segni.
«Dal terrore che vi ispiro,
signora» disse sorridendo, «sarei
tentato di credere che veniate da
parte dei miei nemici. Rassicuratevi,
quand’anche veniste da parte loro,
dal momento che venite a casa mia,
qui sarete comunque ricevuta come
la colomba sull’Arca.»
«Può essere, infatti, che io venga
dal campo dei vostri nemici,
monsignore, ma ne esco da
transfuga e per chiedervi il vostro
appoggio sia come ministro sia
come sacerdote; come sacerdote,
vengo a supplicarvi di ascoltarmi in
confessione, come ministro, vengo a
implorare la vostra protezione.»
E la sconosciuta giunse le mani in
atto di preghiera.
«Mi è facile ascoltarvi in
confessione, doveste anche rimanere
per me una sconosciuta, ma mi è
difficile proteggervi se non so chi
siete.»
«Dal momento in cui avrò la
promessa di essere ascoltata in
confessione da voi, monsignore, non
avrò più ragione alcuna di
nascondere la mia identità, dato che
la confessione metterà alle vostre
labbra un sigillo sacro.»
«Allora» disse sedendosi il
cardinale, «venite qui, figlia mia, e
abbiate doppiamente fiducia in me,
poiché m’invocate al doppio titolo di
sacerdote e di ministro.»
La giovane donna si avvicinò al
cardinale, si inginocchiò accanto a
lui e alzò il velo.
Il cardinale la seguiva con lo
sguardo, e la sua curiosità provava
che era sicuro di non avere a che
fare con una penitente qualsiasi, ma,
quando questa penitente tolse il
velo, non poté trattenere
un’esclamazione di sorpresa:
«Isabelle de Lautrec!» mormorò.
«In persona, monsignore. Posso
sperare che la mia vista non abbia
cambiato nulla alle buone
disposizioni di Vostra Eminenza?»
«No, bambina mia» rispose il
cardinale stringendole forte una
mano, «siete figlia di un buon
servitore della Francia, quindi di un
uomo che stimo e a cui voglio bene,
e da quando siete alla corte di
Francia, dove vi ho vista arrivare
con una certa diffidenza, devo dire
che ho potuto solo approvare la
vostra condotta.»
«Grazie, monsignore, mi rendete
tutta la mia fiducia. Vengo appunto a
implorare la vostra bontà per
sfuggire al doppio pericolo che mi
trovo a correre.»
«Se mi rivolgete una preghiera o
mi chiedete un consiglio, bambina
mia, non rimanete in ginocchio, e
venite a sedervi accanto a me.»
«No, monsignore, lasciatemi stare
così, vi prego. Desidero che le
confessioni che vi farò mantengano
appunto il carattere di una
confessione. Altrimenti
assumerebbero quasi il carattere di
una denuncia e mi si fermerebbero
sulle labbra.»
«Fate come desiderate, figlia mia»
disse il cardinale. «Dio non voglia
che sia io a combattere la
suscettibilità della vostra coscienza,
foss’anche una suscettibilità
eccessiva.»
«Quando mio padre partì per
l’Italia con il duca di Nevers, gli
furono fatte notare due cose: la
fatica che avrei dovuto affrontare in
un lungo viaggio e il pericolo che
avrei corso in una città che sarebbe
stata assediata e presa d’assalto.
Inoltre, mi si offriva presso Sua
Maestà un posto che avrebbe potuto
soddisfare i desideri di una ragazza
anche più ambiziosa di me. E così
mi hanno obbligata a rimanere in
Francia.»
«Proseguite e ditemi se fin da
subito avete subodorato qualche
pericolo nel posto che occupavate.»
«Sì, monsignore. Mi parve che
avessero speculato sulla mia
giovinezza e sulla mia devozione
alla mia regale padrona. Il re, o
spontaneamente, o spinto da consigli
di altri, parve avere per me
un’attenzione che certo non
meritavo. Per qualche tempo, il
rispetto mi impedì di prendere
coscienza delle premure di Sua
Maestà, che del resto la sua
timidezza manteneva nei limiti di
una galante cortesia; tuttavia un
giorno mi sembrò di dover render
conto alla regina di parole che mi
erano state riferite come provenienti
dal re. Ma con mio grande stupore,
la regina si mise a ridere e mi disse:
“Sarebbe un’ottima cosa, bambina
cara, se il re potesse innamorarsi di
voi!”. Dopo aver riflettuto tutta la
notte su quelle parole, mi convinsi
che sul mio soggiorno a corte e sulla
mia posizione presso la regina si
avevano avuto mire diverse da
quelle che mi si erano palesate.
L’indomani le premure del re
aumentarono. In una settimana, era
venuto tre volte nella cerchia della
regina, cosa che non era mai
successa. Ma alla prima parola che
mi rivolse, gli feci una riverenza e
con il pretesto di un’indisposizione
chiesi alla regina il permesso di
ritirarmi. La causa del mio
allontanamento era stata tanto
evidente che a partire da quella
serata il re non solo smise di
parlarmi, ma non mi si avvicinò
nemmeno più. Quanto alla regina
Anna, la mia suscettibilità parve
averle causato un vivo scontento e,
quando le domandai la ragione della
sua freddezza nei miei confronti, si
limitò a rispondere: “Non ho nulla
contro di voi, se non il rimpianto del
favore che avreste potuto renderci e
non ci avete reso”. La regina madre
fu con me ancora più fredda della
nuora.»
«E avete capito» domandò il
cardinale «che genere di favore la
regina si attendeva da voi?»
«Lo sospettavo vagamente,
monsignore, più per l’istintivo
rossore che mi sentivo salire alla
fronte che perché la mia intelligenza
me lo avesse rivelato. Comunque,
poiché la regina, pur senza ritrovare
la sua benevolenza, continuò a
essere gentile con me, non mi
lamentai e rimasi presso di lei,
rendendole tutti i favori che era in
mio potere renderle. Ma ieri,
monsignore, con gran meraviglia
mia e delle due regine, Sua Maestà,
che da più di due settimane non si
era fatta vedere nella cerchia delle
signore, entrò senza avvisare
nessuno del suo arrivo e con un
sorriso in volto, contrariamente al
suo solito, salutò la moglie, baciò la
mano della madre e si diresse verso
di me. Poiché la regina mi aveva
dato il permesso di sedermi davanti
a lei, alla vista del re mi alzai, ma lui
mi fece sedere di nuovo e, mentre
giocava con la nana Gretchen che
l’infanta Clara Eugenia ha mandato
a sua nipote, si rivolse a me per
informarsi della mia salute,
annunciarmi che alla prossima
caccia avrebbe invitato le regine e
chiedermi se volevo accompagnarle.
Le attenzioni del re per una donna
costituivano un evento così
straordinario che mi sentivo gli
occhi di tutti fissi addosso e un
rossore ben più bruciante del primo
mi salì al viso. Non so che cosa ho
risposto a Sua Maestà, o meglio non
ho risposto, balbettando parole
incoerenti. Cercai di alzarmi. Il re
mi trattenne per la mano. Ricaddi
paralizzata sulla sedia. Per
nascondere il mio turbamento, presi
in braccio la piccola Gretchen, ma
lei, che in quella posizione poteva
vedermi in viso, benché lo tenessi
chino, si mise a dire a voce alta:
“Perché piangete?”. E in effetti,
lacrime involontarie mi colavano
silenziose dagli occhi e mi rigavano
le guance. Non so quale significato
attribuì il re al mio pianto, ma mi
strinse la mano, prese delle
caramelline dalla sua confettiera e le
diede alla nana, che scoppiò in una
risata cattiva, mi scivolò dalle
braccia e andò a parlare sottovoce
alla regina. Rimasta sola e isolata,
non osavo né alzarmi né rimanere al
mio posto. Un disagio simile non
poteva durare. Sentii ronzarmi il
sangue nelle orecchie, le tempie mi
si gonfiarono, i mobili sembrarono
ondeggiare, le pareti oscillare, sentii
venir meno le forze, la vita ritirarsi
da me, svenni. Quando ripresi i
sensi, ero distesa sul mio letto e
madame de Fargis era seduta
accanto a me.»
«Madame de Fargis» ripeté il
cardinale sorridendo.
«Sì, monsignore.»
«Proseguite, bambina mia.»
«Non chiedo di meglio, ma quello
che mi disse è così strano, le
felicitazioni che mi rivolse sono così
umilianti, le esortazioni così
singolari che non so come ripeterle a
Vostra Eminenza.»
«Certo» fece il cardinale, «vi
disse che il re era innamorato di voi,
vero? Si complimentò perché
avevate operato su Sua Maestà un
miracolo che nemmeno la regina
aveva saputo operare, e vi esortò a
coltivare quell’amore come meglio
potevate così che, succedendo nelle
buone grazie del re al suo favorito
che gli tiene il broncio, possiate con
la vostra dedizione servire gli
interessi politici dei miei nemici.»
«Il vostro nome, monsignore, non
è mai stato pronunciato.»
«No, per il primo giorno sarebbe
stato troppo. Ma ho indovinato
quello che vi ha detto, vero?»
«Parola per parola, monsignore!»
«E voi che cosa avete risposto?»
«Niente. Avevo ormai capito fino
in fondo quel che le prime premure
del re mi avevano fatto sospettare. Si
voleva fare di me uno strumento
politico. Poco dopo, poiché non
smettevo di piangere e di tremare,
entrò la regina, mi abbracciò, ma
invece di consolarmi quell’abbraccio
mi strinse il cuore e mi raggelò. Mi
sembrò ci dovesse essere un
velenoso segreto nascosto nel bacio
che una donna, soprattutto una
regina, dava alla ragazza minacciata
dall’amore del suo sposo per
convincerla a incoraggiare
quell’amore! Poi, prendendo in
disparte madame de Fargis, la regina
scambiò qualche parola sottovoce
con lei, e mi disse: “Buona notte,
Isabelle cara, abbiate fiducia in tutto
quello che madame de Fargis vi dirà
e soprattutto in quello che la nostra
riconoscenza è disposta a fare in
cambio della vostra dedizione”. E
rientrò nella sua camera. Madame de
Fargis rimase. A sentir lei, dovevo
solamente lasciare che le cose
seguissero il loro corso, lasciare,
cioè, che il re mi amasse. Parlò a
lungo, senza che le rispondessi,
cercando di farmi comprendere in
che cosa consistesse l’amore del re,
e di quanto poco quell’amore si
sarebbe accontentato. Dovette
credere di avermi convinto, perché
mi abbracciò a sua volta e mi lasciò.
Ma, non appena la porta si richiuse
dietro di lei, presi la decisione di
venire da voi, monsignore, gettarmi
ai vostri piedi e raccontarvi tutto.»
«Ma quello che mi fate, piccola
mia» replicò il cardinale, «è il
racconto delle vostre paure: dato che
queste paure non costituiscono un
peccato, né un reato, ma anzi una
prova della vostra innocenza e della
vostra lealtà, non vedo perché vi
siate creduta in obbligo di farmi
questo racconto in ginocchio e sotto
forma di confessione.»
«È che non vi ho detto tutto,
monsignore. L’indifferenza o,
meglio, il timore che m’ispira il re
non li provo per tutti e la mia sola
esitazione a venire da voi non è
causata dalla necessità di dire a
Vostra Eminenza: “Il re mi ama”,
bensì da quella di dirvi:
“Monsignore, temo di amarne un
altro!”.»
«E quest’altro, amarlo è un
reato?»
«No, ma un pericolo sì,
monsignore.»
«E perché un pericolo? La vostra
è l’età dell’amore, e la missione
della donna indicata sia dalla natura
sia dalla società è quella di amare e
di essere amata.»
«Ma non quando colui che lei
crede di amare le è tanto superiore
per rango e nome.»
«Il vostro rango, piccola mia, è
più che onorevole, e, benché non
splenda più come un secolo fa, il
vostro nome è all’altezza dei più bei
nomi di Francia.»
«Monsignore, monsignore, non
incoraggiatemi in questa speranza
folle e soprattutto pericolosa.»
«Pensate di non essere riamata?»
«Credo invece che lui mi ami,
monsignore, ed è questo che mi
spaventa.»
«Vi siete accorta voi di questo
amore?»
«Me lo ha confessato lui.»
«E adesso che la confessione è
stata fatta, mi avete parlato di una
preghiera.»
«Ecco la preghiera, monsignore:
per quanto poco esigente sia l’amore
del re, siccome si avrà ogni interesse
a far sì che tutti ci credano, esso
costituirà una macchia per me nel
momento in cui io lo avrò
autorizzato, e anche se lo avrò
respinto, mentre io non voglio che
colui che mi ama e che io temo di
amare sospetti di me nemmeno per
un attimo; dunque, la mia preghiera,
monsignore, è che mi rimandiate da
mio padre. Per quanto grande sia lì il
pericolo, non lo sarà tanto quanto
qui.»
«Se avessi a che fare con un cuore
meno puro e meno nobile del vostro,
mi unirei anch’io a coloro che non si
preoccupano di appannare la vostra
purezza e di spezzarvi il cuore; vi
direi anch’io: “Lasciatevi amare da
questo re che non ha mai amato
niente al mondo e che forse grazie a
voi comincerà finalmente ad amare”.
Vi direi: “Fingete di farvi complice
di quelle due donne che lavorano per
umiliare la Francia e alleatevi invece
con me, che voglio la sua
grandezza”. Ma voi non siete di
quelle cui fare proposte del genere.
Desiderate lasciare la Francia, la
lascerete. Desiderate tornare da
vostro padre, ve ne darò la
possibilità.»
«Oh, grazie!» esclamò la ragazza
afferrando la mano del cardinale e
baciandola prima che lui avesse
avuto il tempo di opporsi.
«La strada potrebbe essere non
priva di pericoli.»
«I veri pericoli, monsignore, sono
per me in questa corte dove mi vedo
minacciata da rischi misteriosi e
ignoti, dove di continuo sento
tremarmi la terra sotto i piedi, e
dove l’innocenza del mio cuore e la
verginità dei miei pensieri
costituiscono ragioni di più per
soccombere. Allontanatemi da
queste regine che cospirano, da
questi principi che fingono amori
che non provano, da questi
cortigiani intriganti, da queste donne
che consigliano cose impossibili
come fossero semplicissime e
naturali, e da queste auguste bocche
che promettono alla vergogna
ricompense che si dovrebbero
all’onore e alla lealtà; allontanatemi
da qui, monsignore, e ve ne sarò
riconoscente finché il Signore mi
concederà di rimanere onesta e
pura.»
«Non posso rifiutare nulla a chi
mi prega per una causa simile e con
tali istanze. Rialzatevi. Fra un’ora
tutto sarà, se non pronto, almeno
stabilito per la vostra partenza.»
«Non mi assolvete, monsignore?»
«L’assoluzione è inutile a chi è
privo di colpe.»
«Beneditemi almeno, e la vostra
benedizione cancellerà forse il
turbamento del mio cuore.»
«Le mani che stenderei sopra di
voi, bambina mia, carico come sono
di questioni e preoccupazioni
mondane, sarebbero meno pure di
quel cuore, per quanto turbato sia.
Spetta a Dio, non a me benedirvi, e
lo prego con fervore che la sua
suprema bontà prenda il posto del
mio insufficiente affetto.»
In quel momento suonarono le
nove. Richelieu si avvicinò alla
scrivania e suonò un campanello.
Guillemot comparve.
«Sono arrivate le persone che
aspettavo?» domandò il cardinale.
«Il duca è entrato proprio adesso
nella galleria dei quadri.»
«Solo o accompagnato?»
«Con un giovane.»
«Signorina» disse il cardinale,
«prima di darvi una risposta, non
dirò definitiva, ma dettagliata, ho
bisogno di parlare con le due
persone che sono appena arrivate.
Guillemot, conducete mademoiselle
de Lautrec da mia nipote; fra
mezz’ora, entrerete a chiedere se
sono libero.»
E, salutando rispettosamente
mademoiselle de Lautrec, che seguì
il cameriere, andò lui stesso ad
aprire la porta della galleria dei
quadri dove passeggiavano, ma da
pochi minuti soltanto, il duca di
Montmorency e il conte di Moret.
VI
Dove il cardinale di Richelieu
inscena una commedia
senza l’aiuto dei suoi collaboratori
I due principi aspettavano da non
più di un minuto e le esigenze
nonché la molteplicità degli affari
che impegnavano il cardinale erano
troppo risapute perché essi potessero
avere la suscettibilità di mostrare il
minimo risentimento, quand’anche
quest’attesa fosse stata più lunga.
Senza aver raggiunto quel grado
supremo che attinse dopo la famosa
giornata passata alla storia con il
nome di Journée des Dupes, 1
Richelieu era già di fatto, se non di
diritto, considerato primo ministro –
è importante però ricordare che,
nelle questioni di pace e di guerra,
sua era solo l’iniziativa, perché la
sua voce e la preponderanza del suo
ingegno venivano incessantemente
combattute dall’odio delle due
regine e da una specie di Consiglio
di Stato che si riuniva al
Luxembourg sotto la presidenza del
cardinale di Bérulle. Prese le
decisioni, il re interveniva ad
approvare o respingere. Era su
questa approvazione o
disapprovazione che, a seconda
dell’umore di Luigi XIII, avevano
un peso maggiore ora Richelieu ora
la regina madre.
La grande questione da dirimere
entro due o tre giorni non era la
guerra d’Italia – che era già decisa –
ma la scelta del capo cui affidare
l’armata.
E proprio di tale importante
questione il cardinale intendeva
parlare con i due principi che voleva
coinvolgere in questa guerra quando
la vigilia aveva scritto al duca di
Montmorency per fissare un
appuntamento con lui e con il conte
di Moret; ma il suo colloquio con
Isabelle de Lautrec e l’interesse che
la giovane donna aveva suscitato in
lui avevano, almeno nei dettagli,
modificato le sue intenzioni a
proposito del conte di Moret.
Dopo l’esecuzione di suo cugino
Bouteville, era la prima volta che
Montmorency si trovava davanti a
Richelieu, ma abbiamo visto che il
governatore del Languedoc al
ricevimento della principessa Maria
Gonzaga aveva fatto il primo passo
nei confronti del cardinale andando
a salutare madame de Combalet, che
non aveva mancato di riferire allo
zio un episodio di tale rilievo.
Troppo buon politico per non
capire che quel saluto alla nipote era
in realtà rivolto allo zio, il cardinale
intese che si trattava di un’offerta di
pace da parte del principe.
Quanto al conte di Moret, era
un’altra storia. Non solo il giovane,
per il suo carattere tutto francese fra
tanti caratteri italiani e spagnoli, per
il ben noto coraggio di cui, ad
appena ventidue anni, aveva dato
tante prove, ispirava al cardinale un
reale interesse; ma teneva
particolarmente a trattarlo con
riguardo, a proteggerlo, a favorirne
il successo, in quanto era il solo
figlio di Enrico IV che ancora non
avesse apertamente cospirato contro
di lui. Il conte di Moret libero,
onorato, con un posto di comando
nell’esercito, al servizio della
Francia rappresentata nella sua
politica dal duca di Richelieu,
avrebbe fatto da contrappeso ai due
Vendôme incarcerati per aver
tramato contro di lui.
Ora, al cardinale pareva fosse
tempo di fermare il giovane sulla
china che aveva preso. Buttato in
mezzo alle cabale della regina Anna
d’Austria e della regina madre,
pronto a diventare l’amante di
madame de Fargis o a ridiventare
quello di madame de Chevreuse, in
breve si sarebbe trovato impacciato
da tanti di quei legami che non
avrebbe più potuto districarsene,
nemmeno se avesse voluto.
Il cardinale porse la mano a
Montmorency, che la prese e la
strinse con franchezza, ma non si
permise la stessa familiarità con il
conte, che era di sangue reale, e si
inchinò, più o meno come avrebbe
fatto per Monsieur.
Scambiati i primi convenevoli:
«Quando si è trattato della guerra
della Rochelle, duca» disse il
cardinale, «guerra marittima che
desideravo guidare senza
opposizioni, ho ricomprato da voi il
titolo di ammiraglio e ve l’ho pagato
il prezzo che ne chiedevate. Oggi
non è più questione di vendervi,
bensì di offrirvi più di quanto non vi
abbia preso.»
«Sua Eminenza crede davvero»
replicò il duca con il suo miglior
sorriso «che quando ci sono in gioco
contemporaneamente il suo servizio
e il bene dello Stato, per garantirsi la
mia dedizione occorra cominciare
con una promessa?»
«No, duca, so che più di chiunque
altro siete prodigo del vostro
prezioso sangue. E proprio perché
conosco il vostro coraggio e la
vostra lealtà, con voi mi spiegherò
chiaramente.»
Montmorency s’inchinò.
«Quando vostro padre morì, c’era
una carica, quella di connestabile,
che la vostra estrema giovinezza non
vi permetteva di ereditare, pur
essendo erede dei suoi beni e dei
suoi titoli. La spada con il fiordaliso,
lo sapete, non si affida alle mani di
un bambino. Del resto, c’era lì,
pronto a riceverla e portarla con
lealtà, il braccio vigoroso del
signore di Lesdiguières. Fu fatto
connestabile. Quando la lasciò
cadere aveva appena venticinque
anni. Da allora, monsieur de Créqui,
suo genero, aspira a prendere il suo
posto. Ma la spada di connestabile
non si riceve in eredità dalle donne.
Monsieur de Créqui ha avuto
quest’anno un’occasione per
conquistarla: quella di rendere la
spedizione del duca di Nevers un
successo, invece di farla fallire
dichiarandosi per la regina madre
contro la Francia, e contro di me. Ha
firmato così le sue dimissioni da
connestabile; finché sono vivo io,
non lo diventerà mai!»
Un rumoroso respiro di gioia uscì
dal petto del duca di Montmorency,
e questo segno di soddisfazione non
sfuggì al cardinale, che proseguì:
«La fiducia che nutrivo nel
maresciallo di Créqui, la ripongo in
voi, principe. La vostra parentela
con la regina madre non influirà sul
vostro amore per la Francia, dato
che, deve esservi ben chiaro, questa
guerra d’Italia, a seconda del
risultato buono o cattivo che
raggiungerà, segnerà la grandezza o
il ridimensionamento della Francia.»
E poiché il conte di Moret
ascoltava attentamente le parole del
cardinale:
«Fate bene a prestarmi attenzione
anche voi, mio giovane principe»
disse, «perché nessuno più di voi
deve amare questa Francia, per la
quale il vostro augusto padre ha dato
tutto, persino la vita.»
E rendendosi conto che
Montmorency aspettava impaziente
la conclusione del suo discorso:
«Finirò in due parole» disse, «e
metterò in queste ultime la stessa
franchezza che ho impiegato in tutto
il nostro colloquio. Se, come spero,
la guida di questa guerra sarà
affidata a me, voi, caro duca, avrete
il comando supremo dell’esercito e
quando, messa fine all’assedio di
Casale, entrerete per primo nella
piazzaforte, dietro la porta troverete
quella spada di connestabile, che
così ritornerà per la terza volta alla
vostra famiglia. E ora riflettete,
signor duca. Se da qualcun altro vi
aspettate di più che da me, datevi a
quest’altro, io non ve ne vorrò, visto
che vi lascio intera la vostra libertà.»
«La vostra mano, monsignore»
rispose Montmorency.
Il cardinale gli tese la mano.
«In nome della Francia,
monsignore» gli disse
Montmorency, «accoglietemi come
vostro vassallo. Prometto di
obbedire in tutto e per tutto a Vostra
Eminenza, eccezion fatta per il caso
in cui l’onore del mio nome venisse
compromesso.»
«Se non sono principe, duca»
replicò Richelieu con suprema
dignità, «sono gentiluomo. Potete
essere certo che non chiederò a un
Montmorency mai niente di cui
debba arrossire.»
«E quando si dovrà essere pronti,
monsignore?»
«Prima possibile, duca. Sempre
supponendo che la direzione della
guerra venga affidata a me, conto di
incominciare la campagna all’inizio
del mese prossimo.»
«Allora non c’è tempo da perdere,
monsignore. Parto per la mia
circoscrizione questa sera stessa e il
10 gennaio sarò a Lione con cento
gentiluomini e cinquecento
cavalieri.»
«Però» interruppe il cardinale,
«bisogna anche ipotizzare che la
direzione della guerra sia affidata a
un altro. Posso permettermi di
domandarvi che cosa fareste in quel
caso?»
«Poiché nessun altro all’infuori di
Vostra Eminenza mi sembra
all’altezza di questo progetto,
obbedirò solamente a re Luigi XIII e
a voi.»
«Partite, principe. Ve l’ho detto
dove vi aspetta la spada di
connestabile.»
«Devo condurre con me il mio
giovane amico, il conte di Moret?»
«No, duca. Sul conte di Moret ho
mire tutte particolari e desidero
affidargli una missione importante.
Se la rifiuta, sarà libero di
raggiungervi. Solamente, lasciategli
un servitore su cui possa contare
come su se stesso, perché la
missione che gli affiderò richiede
coraggio da parte sua e abnegazione
da parte di chi lo accompagnerà.»
Il duca e il conte di Moret
scambiarono qualche parola
sottovoce, e il cardinale, fra quelle
rivolte da Moret al duca, poté
distinguere:
«Lasciatemi Galaor.»
Poi, con il cuore in festa, il duca
afferrò la mano del cardinale, la
strinse con gratitudine e uscì veloce
dallo studio.
Rimasto solo con il conte di
Moret, il cardinale gli si avvicinò e,
guardandolo con rispettosa
tenerezza:
«Conte» gli disse, «non
meravigliatevi dell’interesse che mi
permetto di nutrire per voi, interesse
cui mi autorizzano la mia posizione
e la mia età, che è il doppio della
vostra: voi solo, fra i figli di re
Enrico IV, siete il suo ritratto
vivente, ed è consentito amare il
figlio a chi ha amato il padre.»
Il giovane principe si trovava per
la prima volta davanti a Richelieu,
per la prima volta udiva il suono
della sua voce e, prevenuto contro di
lui da quello che ne aveva sentito
dire, si stupì sia che quel viso severo
potesse distendersi, sia che quella
voce imperiosa potesse addolcirsi.
«Monsignore» gli rispose ridendo,
ma non senza lasciar trapelare una
certa emozione, «Vostra Eminenza è
troppo buona a occuparsi di un
giovane pazzo che finora non ha
pensato che a divertirsi più che
poteva e che, se gli si chiedesse di
che cosa è capace, non saprebbe
nemmeno lui che cosa rispondere.»
«Un vero figlio di Enrico IV è
capace di tutto, signore» replicò il
cardinale, «perché insieme al sangue
si trasmettono il coraggio e
l’intelligenza. Ed è per questo che
non voglio, permettendovi di
mettervi su una cattiva strada, farvi
correre i pericoli cui vi esponete.»
«Io, monsignore!» esclamò il
giovane, piuttosto sorpreso. «Quale
cattiva strada ho dunque imboccato,
e quali sono i pericoli che mi
minacciano?»
«Volete, conte, prestarmi qualche
minuto di attenzione? E, in questi
pochi minuti, ascoltarmi
seriamente?»
«Sarebbe un dovere che la mia età
e il mio nome mi imporrebbero se
anche voi non foste ministro e uomo
di genio. Vi ascolto dunque non
seriamente ma rispettosamente.»
«Siete arrivato a Parigi gli ultimi
giorni di novembre, il 28, credo.»
«Sì, il 28, monsignore.»
«Dovevate consegnare delle
lettere dal Milanese e dal Piemonte
per la regina Maria de’ Medici, per
la regina Anna d’Austria e per
Monsieur.»
Il conte guardò meravigliato il
cardinale, esitò un attimo, ma poi,
trascinato dalla verità e
dall’influenza che esercita un uomo
di genio, rispose:
«Sì, monsignore.»
«Ma poiché le due regine e
Monsieur erano andati incontro al
re, avete dovuto fermarvi una
settimana a Parigi. Per non restare
senza far niente in quella settimana
avete fatto la corte a madame de la
Montagne, sorella di Marion
Delorme. Giovane, bello, ricco,
figlio di re, non avete dovuto
languire: il giorno dopo esservi
presentato in casa sua, eravate il suo
amante.»
«È questo che chiamate mettermi
su una cattiva strada e espormi a
pericoli che vorreste evitarmi?»
domandò Moret ridendo, stupito che
un ministro serio come il cardinale
entrasse in simili dettagli.
«No, signore. Ora ci arriviamo.
No, non è essere l’amante della
sorella di una cortigiana che chiamo
mettersi su una cattiva strada, anche
se avete potuto constatare che questo
amore non è del tutto privo di rischi.
Quel matto di Pisany ha creduto che
foste l’amante di madame de
Maugiron e ha cercato di farvi
uccidere. Fortunatamente ha trovato
un sicario più galantuomo di lui, il
quale, per fedeltà alla memoria del
grande re, ha rifiutato di alzare la
mano su suo figlio. È vero che
quell’uomo coraggioso è stato
vittima della sua onestà e che voi
stesso l’avete visto disteso su un
tavolo, in punto di morte, mentre si
confessava a un cappuccino.»
«Posso domandarvi, monsignore»
interruppe il conte di Moret,
sperando di mettere in difficoltà
Richelieu, «quando e dove sono
stato testimone di questo doloroso
spettacolo?»
«Il 5 dicembre scorso, verso le sei
di sera, in una sala della locanda
della Barbe Peinte, proprio quando,
travestito da gentiluomo basco,
avevate appena lasciato madame de
Fargis travestita da catalana che
veniva ad annunciarvi che la regina
Anna d’Austria, la regina Maria de’
Medici e Monsieur vi aspettavano al
Louvre fra le undici e mezzanotte.»
«In fede mia, monsignore, questa
volta mi arrendo e riconosco che la
vostra polizia è davvero efficiente.»
«Ebbene, conte, credete che io
abbia raccolto su di voi notizie così
precise per me e per paura del danno
che potete arrecarmi?»
«Non lo so, ma è probabile che
Vostra Eminenza abbia comunque
avuto un qualche interesse.»
«Uno grande, conte. Ho voluto
salvare il figlio di re Enrico IV dal
male che poteva procurare a se
stesso.»
«E come, monsignore?»
«Che la regina Maria de’ Medici,
italiana e austriaca insieme, che la
regina Anna d’Austria, insieme
spagnola e austriaca, cospirino
contro la Francia è un reato, ma un
reato che si può capire: fin troppo
spesso i legami familiari hanno la
meglio sui doveri della regalità. Ma
che il conte di Moret, vale a dire il
figlio di una francese e del re più
francese che ci sia mai stato, cospiri
con due regine cieche e spergiure in
favore della Spagna e dell’Austria è
una cosa che non permetterò,
ricorrendo prima alla persuasione,
poi alla preghiera e infine, se è
necessario, alla forza.»
«Ma chi vi ha detto che io cospiri,
monsignore?»
«Ancora non cospirate, conte, ma
forse, per slancio cavalleresco, non
avreste tardato a farlo, ed è per
questo che vi ho voluto dire: figlio
di Enrico IV, vostro padre ha
perseguito per tutta la vita il
ridimensionamento della Spagna e
dell’Austria; non alleatevi con
coloro che vogliono accrescerne la
grandezza a scapito degli interessi
della Francia. Figlio di Enrico IV,
l’Austria e la Spagna hanno ucciso
vostro padre; non commettete
l’empietà di allearvi con i suoi
assassini!»
«E perché Vostra Eminenza non
dice a Monsieur quello che sta
dicendo a me?»
«Perché Monsieur non ha niente a
che vedere in questa storia, essendo
figlio di Concini e non di Enrico
IV.»
«Pensate a quello che dite,
cardinale!»
«Sì, so di espormi alla collera
della regina madre, alla collera di
Monsieur, persino a quella del re, se
il conte di Moret si allontana da chi
vuole il suo bene per stare dalla
parte di chi, secondo loro, persegue
il male. Ma il conte di Moret sarà
grato del grande interesse che ho per
lui e che nasce unicamente dal
grande amore e dalla grande
ammirazione che nutro per il re suo
padre, e il conte di Moret manterrà il
segreto su tutto quello che gli ho
detto questa mattina, per il suo bene
e per quello della Francia.»
«Vostra Eminenza non ha bisogno
che le dia la mia parola, vero?»
«Non si chiedono queste cose al
figlio di Enrico IV.»
«Ma insomma, Vostra Eminenza
non mi ha fatto venire solo per
darmi dei consigli, ma anche, le ho
sentito dire, per affidarmi una
missione.»
«Sì, conte. Una missione che vi
allontani dal pericolo che temo per
voi.»
«Che mi allontani dal pericolo?»
Richelieu annuì.
«E quindi da Parigi?»
«Si tratterebbe di ritornare in
Italia.»
«Hum!» fece Moret.
«Avete delle ragioni per non
ritornare in Italia?»
«No, ma ne avrei per rimanere a
Parigi.»
«Allora rifiutate, conte?»
«No, non rifiuto, soprattutto se la
missione si può rimandare.»
«Si tratta di partire questa sera o
al massimo domani.»
«Impossibile, monsignore» disse
il conte di Moret scuotendo la testa.
«Come!» esclamò il cardinale,
«lascerete che si combatta una
guerra senza prendervi parte?»
«No. Ma lascerò Parigi insieme a
tutti gli altri, e il più tardi possibile.»
«È una decisione irrevocabile,
conte?»
«Irrevocabile, monsignore!»
«Mi dispiace la vostra ripugnanza
a partire. Soltanto a voi, al vostro
coraggio, alla vostra lealtà e alla
vostra cortesia avrei voluto affidare
la figlia di un uomo per il quale
nutro la massima stima. Cercherò
qualcuno, conte, che vi sostituisca
presso mademoiselle Isabelle de
Lautrec.»
«Isabelle de Lautrec!» esclamò il
conte di Moret. «Era Isabelle de
Lautrec che volevate rimandare da
suo padre?»
«Lei, sì. Perché questo nome vi
sorprende?»
«Ah, ma... monsignore,
perdonatemi.»
«Ci rifletterò e le troverò un altro
protettore.»
«No, no, monsignore, è inutile
che cerchiate, il difensore di
mademoiselle de Lautrec lo avete
già trovato, eccolo, sono io!»
«Allora» disse il cardinale, «non
devo più preoccuparmi?»
«No, monsignore.»
«Accettate?»
«Accetto.»
«In questo caso, ecco le mie
ultime istruzioni.»
«Ascolto.»
«Consegnate mademoiselle de
Lautrec, che durante tutto il viaggio
sarà per voi sacra come una
sorella...»
«Lo giuro!»
«... a suo padre, che si trova a
Mantova. Poi verrete a raggiungere
l’esercito e prenderete un comando
agli ordini di monsieur de
Montmorency.»
«Sì, monsignore.»
«E se per caso – un uomo
previdente, lo capite bene, deve
mettere in conto tutte le possibilità –
se per caso voi foste innamorato...»
Il conte accennò un gesto.
«È una supposizione,
naturalmente, dato che non vi siete
mai visti, e non vi conoscete affatto.
Ebbene, se si desse questo caso, non
posso fare niente per voi, signore,
che siete figlio di re, ma posso fare
molto per mademoiselle de Lautrec
e per suo padre.»
«Potete fare di me il più felice
degli uomini, monsignore. Io amo
mademoiselle de Lautrec.»
«Ah, davvero! Che
combinazione! E sarebbe stata forse
lei che, la sera in cui vi siete recato
al Louvre, vi ha accolto dalle mani
di madame de Chevreuse travestita
da paggio e vi ha guidato attraverso
il corridoio buio fino alla camera
della regina? Ammettete che se
fosse andata così sarebbe davvero un
caso miracoloso!»
«Monsignore» disse il conte di
Moret guardando sbalordito il
cardinale, «la mia ammirazione per
voi è pari solo alla mia
riconoscenza, ma...»
Il conte, preoccupato,
s’interruppe.
«Ma, che cosa?» domandò il
cardinale.
«Mi rimane un dubbio.»
«Quale?»
«Amo mademoiselle de Lautrec,
ma non so se lei mi ami e se,
malgrado tutta la mia dedizione,
voglia accettarmi come suo
protettore.»
«Oh, quanto a questo, conte, la
cosa non mi riguarda più e diventa
affar vostro. Spetta a voi ottenere da
lei quello che desiderate.»
«Ma dove? Come potrò vederla?
Non ho nessuna occasione di
incontrarla e, se occorre, come dice
Vostra Eminenza, che la sua
partenza avvenga stasera o al più
tardi domani mattina, non so come
fare a vederla prima di allora.»
«Avete ragione, conte, è urgente
che vi incontriate, e mentre ci
riflettete per conto vostro ci
rifletterò anch’io. Aspettatemi un
momento qui nello studio, devo dare
degli ordini.»
Il conte di Moret s’inchinò,
seguendo con uno sguardo in cui si
mescolavano stupore e ammirazione
quell’uomo così notevolmente
superiore agli altri che, dal suo
studio, guidava l’Europa e che,
malgrado gli intrighi che lo
circondavano, malgrado i pericoli
che lo minacciavano, trovava il
tempo di occuparsi di interessi
individuali e scendere fin nei minimi
dettagli della vita.
Chiusasi la porta da cui il
cardinale era scomparso, il conte di
Moret vi tenne macchinalmente gli
occhi fissati e non ne aveva ancora
distolto lo sguardo quando quella
porta si riaprì e vi vide inquadrata,
invece del cardinale, mademoiselle
de Lautrec in persona.
I due innamorati, come colpiti
insieme da una scossa elettrica,
lanciarono entrambi
un’esclamazione stupita. Poi, rapido
come il pensiero, Moret cadde di
slancio in ginocchio davanti a
Isabelle e le afferrò la mano,
baciandola con un ardore che
provava alla ragazza che quello che
aveva trovato era forse un protettore
pericoloso, ma certamente un
difensore devoto.
Intanto il cardinale, raggiunto il
suo scopo di allontanare dalla corte
il figlio di Enrico IV e di attirarlo
dalla sua parte, si rallegrava di aver
trovato una fine alla sua
tragicommedia senza la
partecipazione dei suoi abituali
collaboratori, Desmarets, Rotrou,
L’Estoile e Mairet.
Si ricorderà che Corneille non
aveva ancora avuto l’onore di essere
presentato al cardinale.
1 “Giornata degli imbrogli” fu definito da
Guillaume Bautru, conte di Serrant, il 10
novembre 1630: quella domenica, e il lunedì
successivo, capovolgendo tutte le premesse che
nei giorni precedenti sembravano dare per certi il
trionfo di Maria de’ Medici e la disgrazia del
cardinale, Luigi XIII confermò la sua fiducia a
Richelieu, che da allora governerà incontrastato,
mandando in esilio la regina madre («Tengo di
più al mio paese che a mia madre» avrebbe
dichiarato il re) che si rifugerà nei Paesi Bassi
spagnoli, Gaston d’Orléans che verrà accolto alla
corte di Charles di Lorena, da dove continuerà a
complottare contro il fratello, e i loro sostenitori,
fra cui il maresciallo di Bassompierre. Nel suo
Catherine de Médicis, Balzac sostiene che
Richelieu trionfò su Maria de’ Medici mostrando
al re le prove della sua complicità nell’assassinio
di Enrico IV. [NdT]
VII
Il Consiglio
Il grande evento, l’evento atteso con
ansia da tutti, soprattutto da
Richelieu, che si credeva sicuro del
re quanto si poteva essere sicuri di
Luigi XIII, era la convocazione di
un Consiglio presso la regina madre,
al palazzo del Luxembourg che lei
durante la reggenza aveva fatto
costruire sul modello dei palazzi
fiorentini e per la cui galleria
Rubens aveva eseguito, dieci anni
prima, i magnifici quadri che
rappresentano gli episodi più
importanti della vita di Maria de’
Medici e che formano oggi uno dei
principali ornamenti del Louvre.
Il Consiglio si svolgeva di sera.
Era formato dal ministero
personale della regina Maria de’
Medici – composto da persone che
le appartenevano completamente,
presieduto dal cardinale di Bérulle e
diretto da Vautier –, più il
maresciallo di Marillac, diventato
maresciallo senza aver mai avuto il
battesimo del fuoco e che, nelle sue
memorie, il cardinale chiama sempre
Marillac-l’Épée perché, avendo
avuto da ridire al gioco della
pallacorda con un certo Caboche, lo
aveva ucciso incontrandolo per
strada, senza dargli il tempo di
difendersi; c’era poi il fratello
maggiore di questo, Michel de
Marillac, il guardasigilli, uno degli
amanti di madame de Fargis. Nelle
grandi circostanze, a questo
Consiglio si aggiungevano delle
specie di consiglieri onorari, scelti
fra i capitani più celebri e i più
nobili signori dell’epoca, e così al
Consiglio cui faremo accedere i
nostri lettori si erano aggiunti i
duchi di Angoulême, di Guise e di
Bellegarde e il maresciallo di
Bassompierre.
Recentemente era rientrato in
questo Consiglio Monsieur, che ne
era uscito per le vicende legate al
processo di Chalais. Il re da parte
sua vi assisteva quando riteneva la
discussione abbastanza importante
da richiedere la sua presenza.
Una volta che il Consiglio aveva
deliberato, come abbiamo detto, si
riferiva al re, il quale approvava,
disapprovava o addirittura cambiava
completamente la decisione adottata.
Il cardinale di Richelieu, già
primo ministro nei fatti per
l’influenza del suo genio, ma che ne
ebbe la carica e il potere assoluto
solo un anno dopo gli eventi che
abbiamo appena raccontato, aveva
dalla sua in questo Consiglio solo la
propria voce, ma quasi sempre
portava il re sulle proprie posizioni,
appoggiate di solito dai due
Marillac, dal duca di Guise, dal duca
di Angoulême e, qualche volta, dal
maresciallo di Bassompierre, ma
sempre sistematicamente contrastate
dalla regina madre, da Vautier, dal
cardinale di Bérulle e dalle due o tre
voci che obbedivano passivamente
ai cenni affermativi o negativi che
Maria de’ Medici faceva loro.
Quella sera Monsieur, adducendo
a pretesto il suo litigio con la regina
madre, aveva dichiarato che non
avrebbe assistito al Consiglio, ma la
sua assenza lo rendeva più potente
che mai, visto che la regina madre si
faceva carico dei suoi interessi.
Il Consiglio era indetto per le otto
di sera.
Alle otto e un quarto, tutti i
convocati erano al loro posto e
stavano in piedi davanti alla regina
Maria de’ Medici, seduta.
Alle otto e mezza il re entrò,
salutò la madre, che si alzò a sua
volta, le baciò la mano, sedette
accanto a lei su una poltrona un po’
più alta della sua, si coprì il capo e
pronunciò le parole sacramentali:
«Sedetevi, signori.»
I membri del ministero e i
consiglieri onorari sedettero attorno
al tavolo, su sgabelli del numero dei
partecipanti con potere di voto,
disposti lì a quello scopo.
Il re diede un’occhiata circolare in
modo da passare in rassegna tutti i
presenti; poi, con la stessa voce
atona e malinconica con cui avrebbe
detto qualunque altra cosa, osservò:
«Non vedo Monsieur, mio
fratello: come mai?»
«Probabilmente non osa
presentarsi a noi a causa della sua
disobbedienza alla vostra volontà. È
desiderio di Vostra Maestà che
procediamo senza di lui?»
Il re, senza rispondere, fece con la
testa un cenno affermativo.
Poi, rivolgendosi non solo ai
membri del Consiglio, ma anche ai
gentiluomini convocati per
esprimere il loro parere sulla
deliberazione:
«Signori» disse, «tutti sapete
quale argomento si tratta oggi.
Bisogna decidere se far togliere
l’assedio di Casale, soccorrere
Mantova per dar forza alle pretese
del duca di Nevers – pretese che
abbiamo appoggiato – e mettere fine
alle mire del duca di Savoia sul
Monferrato. Benché il diritto di
decidere della pace o della guerra sia
un diritto regale, desideriamo che i
vostri lumi ci rischiarino prima di
prendere una decisione, senza che i
consigli che vi chiediamo riducano
minimamente il nostro diritto. Do la
parola al nostro ministro, il cardinale
di Richelieu, per esporci lo stato
delle cose.»
Richelieu si alzò e, salutando le
due Maestà:
«L’esposizione sarà breve» disse.
«Il duca Vincenzo Gonzaga,
morendo, ha lasciato tutti i suoi
diritti sul ducato di Mantova al duca
di Nevers, zio degli ultimi tre signori
di quel ducato, morti senza eredi
maschi. Il duca di Savoia aveva
sperato di sposare uno dei suoi figli
con l’erede del Monferrato e del
Mantovano e così crearsi in Italia
quella potenza di secondo piano
oggetto costante della sua ambizione
che tanto spesso lo ha spinto a
tradire le promesse fatte alla
Francia. Il ministro di Sua Maestà re
Luigi XIII ha ritenuto allora fosse
una buona politica, essendo già
alleati con il Santo Padre e con i
veneziani, quella di trovarsi un
partigiano zelante in mezzo alle
signorie lombarde appoggiando
l’avvento di un francese ai ducati di
Mantova e del Monferrato e
acquisire così, grazie a lui, una
influenza stabile nelle questioni
italiane, neutralizzando, invece,
quella della Spagna e dell’Austria. È
in questa prospettiva che il ministro
di Sua Maestà ha agito fino a questo
momento. E, proprio per spianare la
strada a questa campagna, svariati
mesi orsono, aveva inviato una
prima armata che, per un errore del
maresciallo di Créqui – errore che si
potrebbe quasi definire tradimento –,
non è stata sconfitta dal duca di
Savoia, come i nemici della Francia
si sono affrettati a dichiarare, bensì
si è dispersa e per così dire dissolta
al soffio della fame, mancando i
fanti di viveri, i cavalieri di viveri e
di foraggio. Adottata dunque questa
politica, compiuto questo primo
passo ostile, si trattava soltanto di
aspettare un momento favorevole
per proseguire l’impresa. Questo
momento, il ministro di Sua Maestà
ritiene che sia giunto. La Rochelle
conquistata ci consente di disporre
del nostro esercito e della nostra
flotta. La questione posta alle Loro
Maestà è dunque questa: la guerra si
farà o no? E, se la si fa, la si farà
subito o si aspetterà? Il ministro di
Sua Maestà, che è per la guerra e per
la guerra immediata, è pronto a
rispondere alle obiezioni che gli
verranno mosse.»
E salutando il re e la regina
Maria, il cardinale sedette, lasciando
la parola ai suoi avversari, o meglio
al suo solo avversario, il cardinale di
Bérulle.
Questo, da parte sua, ben sapendo
che toccava a lui rispondere,
consultò con lo sguardo la regina
madre, che gli rispose con un cenno
di conferma, si alzò, salutò le due
Maestà e disse:
«Il progetto di fare la guerra in
Italia, malgrado le buone ragioni
apparenti che ci ha dato il cardinale
di Richelieu, a noi pare non solo
pericoloso, ma irrealizzabile. La
Germania, pressoché sottomessa,
fornisce all’imperatore Ferdinando
armate innumerevoli alle quali le
forze militari della Francia non
possono essere nemmeno
paragonate; e Sua Maestà Filippo
IV, augusto fratello della regina,
trova, da parte sua, nelle miniere del
Nuovo Mondo tesori sufficienti a
pagare eserciti numerosi quanto
quelli degli antichi re persiani. In
questo momento, invece di pensare
all’Italia, l’imperatore si preoccupa
solo di ridurre i protestanti e
strappar loro di mano i vescovadi, i
monasteri e gli altri beni
ecclesiastici di cui si sono
ingiustamente impadroniti. Perché la
Francia, cioè la figlia primogenita
della Chiesa, dovrebbe opporsi a una
tanto nobile e cristiana impresa?
Non sarebbe invece meglio che il re
l’appoggiasse e finisse di estirpare
l’eresia in Francia, mentre
l’imperatore e il re di Spagna si
impegneranno a sconfiggerla in
Germania e nei Paesi Bassi? Per
realizzare disegni chimerici e
addirittura opposti al bene della
Chiesa, monsieur de Richelieu parla
di pace con l’Inghilterra e lascia
intravedere un’alleanza con le
potenze eretiche, cosa capace di
appannare per sempre la gloria di
Sua Maestà. Invece di fare una pace
con l’Inghilterra, non potremmo,
proseguendo con le ostilità contro re
Carlo I, sperare di condurlo
finalmente a dare soddisfazione alla
Francia richiamando le donne e i
servitori della regina, così
indegnamente cacciati
contravvenendo a un trattato
solenne, e a cessare le persecuzioni
contro i cattolici inglesi? Come
possiamo sapere se la volontà divina
non sia di ristabilire la vera religione
in Inghilterra, mentre Francia,
Germania e Paesi Bassi si
impegnano a distruggere l’eresia?
Nella convinzione di aver parlato
negli interessi della Francia e del
trono, metto la mia umile opinione
ai piedi delle Loro Maestà.»
E il cardinale sedette a sua volta,
non senza avere raccolto con lo
sguardo i segni di approvazione che
gli indirizzavano apertamente la
regina Maria e i membri del suo
Consiglio, e segretamente il
guardasigilli, che madame de Fargis
si era premurata di far aderire al
partito delle regine.
Il re, rivolgendosi allora al
cardinale di Richelieu:
«Avete sentito, signor cardinale?»
gli disse. «Se avete qualcosa da
rispondere, rispondete.»
Richelieu si alzò.
«Credo che il mio onorevole
collega, il cardinale di Bérulle, sia
male informato sulla situazione
politica tedesca e su quella
economica spagnola. La potenza
dell’imperatore Ferdinando, che
dalle sue parole appare tanto
temibile, non è affatto così salda in
Germania da non poter essere scossa
il giorno in cui, senza bisogno di
allearci con lui, spingeremo contro
l’imperatore il leone del Nord, il
grande Gustavo Adolfo: per
prendere questa decisione egli non
aspetta altro che qualche centinaia di
migliaia di lire, che al momento
giusto gli faremo brillare davanti
agli occhi come quei fari che
indicano alle navi la loro rotta. Il
ministro di Sua Maestà sa anche da
fonte certa che quelle armate di
Ferdinando di cui parla il cardinale
di Bérulle danno molto fastidio al
duca di Baviera Massimiliano, capo
della Lega Cattolica. Il ministro di
Sua Maestà si fa forte di potere, al
momento giusto, stringere quelle
armate così terribili tra il fuoco di
quelle protestanti di Gustavo Adolfo
e di quelle cattoliche di
Massimiliano. Quanto ai
favoleggiati tesori di re Filippo IV,
sia permesso al ministro di Sua
Maestà di riportarli alle loro corrette
proporzioni. Il re di Spagna ricava
appena cinquecentomila scudi
all’anno dalle Indie, e il Consiglio di
Madrid è rimasto molto sconcertato
quando, due mesi fa, si è appreso
che l’ammiraglio dei Paesi Bassi,
Hein, aveva catturato e fatto colare a
picco nel golfo del Messico i galeoni
spagnoli e il loro carico, valutato
dodici milioni; dopo questa notizia,
il re di Spagna si ritrovò con le
finanze così in disordine che non
poté mandare all’imperatore
Ferdinando il sussidio di un milione
che gli aveva promesso. Ora, per
rispondere alla seconda parte del
discorso del suo avversario, il
ministro del re farà umilmente
osservare a Sua Maestà che non
potrebbe tollerare senza perdere il
suo onore gli attacchi contro il duca
di Mantova, che non solo ella ha
riconosciuto come tale, ma che tale è
stato nominato grazie all’influenza
di monsieur de Saint-Chamans, suo
ambasciatore, sull’ultimo duca.
Oltre a proteggere i suoi alleati in
Italia, Sua Maestà ha anche il dovere
di proteggere contro la Spagna
quella bella contrada europea, che la
Spagna appunto tende
incessantemente a soggiogare e dove
è già troppo potente. Se non
appoggiamo energicamente il duca
di Mantova, nell’impossibilità di
resistere alla Spagna, lui sarà
costretto ad acconsentire allo
scambio dei suoi Stati con altri fuori
dai confini italiani, che è quanto
oggi gli offre la corte spagnola. Non
dimenticate che già il defunto duca
Vincenzo è stato sul punto di
acconsentire a questo mercato e di
barattare il Monferrato per fare
dispetto a Carlo Emanuele dandogli
vicini capaci di ostacolare i suoi
continui movimenti. Insomma, il
parere del ministro di Sua Maestà è
che ci sarebbe non solo danno ma
anche onta a lasciare impunita la
temerarietà del duca di Savoia, che
da più di trent’anni mette scompiglio
negli affari della Francia e dei suoi
alleati, che mille volte ha
complottato contro il servizio e
l’interesse di Sua Maestà, di cui si
trova lo zampino nella cospirazione
di Chalais come in quella di Brion, e
che si è alleato con gli inglesi nei
loro interventi contro l’isola di Ré e
contro La Rochelle.»
Voltandosi poi verso il re e
rivolgendosi direttamente a lui:
«Prendendo quella città ribelle»
aggiunse il cardinale di Richelieu,
«avete felicemente portato a
termine, Sire, il progetto più
glorioso per voi e più vantaggioso
per il vostro paese. L’Italia, oppressa
da un anno dalle armi del re di
Spagna e del duca di Savoia,
implora il soccorso del vostro
braccio vittorioso. Rifiuterete di
prendere in mano la causa dei vostri
vicini e alleati, che si vuole
ingiustamente spogliare della loro
eredità? Ebbene, Sire, io, vostro
ministro, oso promettervi che, se
oggi vi risolverete a questa nobile
decisione, l’esito non sarà meno
felice che quello dell’assedio della
Rochelle. Io non sono profeta» e
Richelieu rivolse qui un sorriso al
suo collega, cardinale di Bérulle,
«né figlio di profeta, ma posso
assicurare a Vostra Maestà che, se
non si perde tempo nell’esecuzione
di questo disegno, entro la fine del
prossimo mese di maggio avrete
liberato Casale e stabilito la pace in
Italia. E, tornando con l’esercito in
Languedoc, nel mese di luglio avrete
completato la disfatta del partito
ugonotto. E infine, vittoriosa
ovunque, Vostra Maestà potrà
riposarsi a Fontainebleau o altrove
nelle belle giornate autunnali.» 1
Un moto di approvazione corse
tra i gentiluomini invitati ad
assistere alla seduta e apparve
evidente che il duca di Angoulême e
soprattutto il duca di Guise
approvavano con particolare
convinzione il parere di Richelieu.
Il re prese la parola:
«Il cardinale» disse «ha fatto bene
a dire, ogni volta che ha parlato di sé
e della politica seguita, “il ministro
del re”, perché tale politica è stata
scelta sulla base dei miei ordini. Sì,
condividiamo la sua opinione; sì, la
guerra in Italia è necessaria; sì,
dobbiamo sostenere i nostri alleati in
quel paese; sì, dobbiamo mantenervi
la nostra supremazia,
ridimensionando il più possibile non
solo il potere ma anche l’influenza
della Spagna. Ne va del nostro
onore.»
Malgrado il rispetto dovuto al re,
dalla parte dei sostenitori del
cardinale partì qualche applauso,
mentre i partigiani della regina
trattenevano a stento i loro
mormorii. Maria de’ Medici e il
cardinale di Bérulle scambiarono
sottovoce qualche parola vivace.
Il viso del re assunse
un’espressione severa. Lanciò uno
sguardo di traverso, quasi
minaccioso, dalla parte da cui
venivano i mormorii e proseguì:
«La questione di cui ora
dobbiamo preoccuparci non è
dunque discutere la pace o la guerra,
dal momento che la guerra è decisa,
ma l’epoca in cui dobbiamo iniziare
le operazioni belliche. È inteso che,
ascoltate le diverse opinioni, ci
riserviamo di decidere noi in ultima
istanza. Parlate, monsieur de
Bérulle, poiché siete, lo sappiamo
bene, l’espressione di una volontà
che rispettiamo sempre, anche
quando non la seguiamo.»
Maria de’ Medici fece un lieve
cenno di ringraziamento a Luigi
XIII, che aveva parlato rimanendo
seduto e a capo coperto.
Poi, rivolgendosi a Bérulle:
«Un invito del re è un ordine»
disse. «Parlate, signor cardinale.»
Bérulle si alzò:
«Il ministro del re» disse con
affettazione, sottolineando le parole
ministro del re, «ha proposto di fare
la guerra immediatamente e mi
dispiace essere, anche su questo
punto, di parere diametralmente
opposto al suo. Se non erro, Sua
Maestà esprime il desiderio di
guidare personalmente questa
guerra. Per due ragioni, quindi, mi
dichiarerò contrario a intraprenderla
con troppa precipitazione. La prima
di queste ragioni è questa: l’esercito
del re, reduce dal lungo assedio della
Rochelle, ha bisogno di riprendersi
nei tranquilli quartieri d’inverno;
trascinandolo dalle rive dell’Oceano
ai piedi delle Alpi senza lasciargli il
tempo di riposare, si rischia di
vedere i soldati disertare in massa,
scoraggiati da una lunga marcia;
sarebbe una crudeltà esporre quei
brav’uomini ai rigori invernali su
montagne innevate e inaccessibili, e
un crimine di lesa maestà condurvi il
re. Se anche avessimo il denaro, e
non lo abbiamo, dato che, non prima
della settimana scorsa, su centomila
lire che l’augusta madre di Sua
Maestà ha fatto richiedere al suo
ministro, lui, adducendo la penuria
di denaro, ha potuto mandargliene
solamente cinquantamila, se anche
avessimo il denaro, e non lo
abbiamo, tutti i muli del regno non
basterebbero a portare i viveri
necessari all’esercito, senza contare
che è impossibile trasportare in
questo periodo dell’anno l’artiglieria
per cammini sconosciuti che anche
in estate si dovrebbero far studiare a
degli ingegneri. Non è meglio
rimandare la spedizione alla
primavera? Da qui ad allora ci si
potrà preparare e la maggior parte
delle cose necessarie si potranno
trasportare per mare. I veneziani, più
interessati di noi alle vicende del
duca di Mantova, non si agitano più
di tanto alla prospettiva
dell’invasione del Monferrato da
parte di Carlo Emanuele e
pretendono di lasciare tutta
l’impresa nelle mani del re. È lecito
presumere che quei signori
s’imbarcheranno con maggior
entusiasmo quando vedranno più
oppresso il duca di Mantova e più
lontano il soccorso francese? Infine,
ciò che Sua Maestà deve evitare con
ogni cura possibile è rompere con il
re cattolico, perché questo sarebbe
per il paese ben più dannoso di
quanto vantaggioso gli possa essere
conservare Casale e Mantova. Ho
detto!»
Il discorso del cardinale di Bérulle
parve avere un certo effetto sul
Consiglio. Non discuteva più la
guerra a favore della quale il re si
era dichiarato, discuteva
l’opportunità di questa guerra nella
difficile contingenza in cui ci si
trovava. Del resto, i capitani
ammessi al Consiglio – Bellegarde,
il duca di Angoulême, il duca di
Guise, Marillac-l’Épée –, non
essendo più giovani appassionati
alla guerra per le prospettive che
offriva alla loro ambizione, ne
desideravano una in cui ci fossero
più pericoli che fatiche, dato che per
sfidare la fatica bisogna essere
giovani, mentre per sfidare il
pericolo basta essere coraggiosi.
Il cardinale di Richelieu si alzò:
«Risponderò al mio onorevole
collega su tutti i punti» disse. «Sì –
benché io non creda che Sua Maestà
abbia ancora preso su questo punto
una decisione definitiva –, credo che
sia intenzione del re guidare
personalmente questa guerra. Sua
Maestà in proposito deciderà nella
sua saggezza, e io ho un solo timore:
che sacrifichi il suo proprio interesse
a quello dello Stato, come è dovere
di un re. Quanto al discorso delle
fatiche che l’esercito dovrà
sopportare, il cardinale di Bérulle
non si preoccupi: una parte,
trasportata per mare, sbarca in
queste ore a Marsiglia e marcia su
Lione, dove si stabilirà il quartier
generale. L’altra avanza a piccole
tappe attraverso la Francia, ben
nutrita, ben alloggiata, ben pagata,
senza aver perduto per diserzione in
quest’ultimo mese nemmeno un
uomo, perché un soldato ben pagato,
ben alloggiato e ben nutrito non
diserta. Quanto alle difficoltà che
l’esercito incontrerà nel superare le
Alpi, è meglio affrontarle subito e
dover lottare con la natura piuttosto
che dare al nemico il tempo di
coprire di cannoni e fortezze i passi
che l’esercito intende attraversare. È
vero che qualche giorno fa ho avuto
il rammarico di rifiutare
cinquantamila lire all’augusta madre
del re, sulle centomila che lei mi
aveva fatto l’onore di chiedermi; ma
mi sono permesso di decidere tale
riduzione solo dopo averla
sottoposta al re, che l’ha approvata.
Malgrado questo rifiuto, che
indicava non una mancanza di
denaro, ma solo la necessità di non
fare spese inutili, dal punto di vista
finanziario siamo in grado di fare
questa guerra. Impegnando il mio
onore e i miei beni personali, ho
trovato un prestito di sei milioni.
Quanto ai percorsi, sono stati
studiati da molto tempo, perché da
molto tempo Sua Maestà pensa a
questa guerra e mi ha ordinato di
mandare qualcuno nel Delfinato, in
Savoia e in Piemonte per
individuarli; sulla base del lavoro
fatto da monsieur de Pontis,
monsieur d’Escures, maresciallo
d’alloggio delle armate reali, ha
elaborato una mappa precisa della
regione. Dunque, tutti i preparativi
della guerra sono stati fatti; dunque
il denaro necessario alla guerra è
nelle casse e poiché, a parere di Sua
Maestà, la guerra fuori dai confini
per la gloria delle sue armi e per la
riparazione del suo onore è più
urgente della guerra all’interno –
che, con La Rochelle abbattuta e la
Spagna impegnata in Italia, non
sembra presentare grandi pericoli –
supplico Sua Maestà di decidere di
iniziare immediatamente le
operazioni, rispondendo sulla mia
testa del successo dell’impresa. E, a
mia volta, ho detto.»
E il cardinale riprese il suo posto,
pregando con lo sguardo Luigi XIII
di appoggiare la propria proposta,
che, del resto, sembrava essere stata
anticipatamente convenuta fra lui e
il re.
Il re non fece attendere il
cardinale e, non appena egli ebbe
finito di parlare e si fu seduto,
stendendo la mano sul tappeto del
tavolo:
«Signori» disse, «il mio ministro,
cardinale di Richelieu, vi ha fatto
conoscere la mia volontà. La guerra
contro il duca di Savoia è decisa ed
è nostro desiderio che si dia inizio
alla campagna senza por tempo in
mezzo. Quelli tra di voi che avranno
richieste da avanzare per essere
aiutati nel loro equipaggiamento
dovranno rivolgersi al cardinale. Più
tardi farò sapere se condurrò
personalmente la guerra e chi in
questa guerra sarà il mio
luogotenente generale. Sul che, il
Consiglio essendo stato convocato
con questo solo obiettivo» aggiunse
il re alzandosi, «prego Dio, signori,
che vi conservi in buona salute e vi
protegga. Il Consiglio è tolto.»
E Luigi XIII, salutata la regina
madre, si ritirò.
Il cardinale aveva avuto partita
vinta sui due punti che aveva
proposto: la guerra contro il duca di
Savoia e l’inizio immediato della
campagna. Non c’era quindi alcun
dubbio che riuscisse anche sul terzo,
che consisteva nel farsi affidare la
direzione della guerra d’Italia come
si era fatto affidare quella
dell’assedio della Rochelle.
Tutti quindi gli si raccolsero
intorno per complimentarsi, anche il
guardasigilli Marillac, che, pur
cospirando con la regina, ci teneva a
conservare un’apparenza di
neutralità.
Maria de’ Medici, i denti stretti
per la collera, le sopracciglia
aggrottate, si ritirò quindi dalla sua
parte, accompagnata solamente da
Bérulle e da Vautier.
«Credo» disse «che, come
Francesco I dopo la battaglia di
Pavia, possiamo dire: “Tutto è
perduto fuorché l’onore”.»
«Be’» replicò Vautier, «nulla è
perduto invece, finché il re non avrà
nominato Richelieu suo
luogotenente generale.»
«Ma non vedete che in cuor suo il
re lo ha già fatto?» disse la regina
madre.
«È possibile» disse Vautier,
«comunque in realtà ancora non lo
è.»
«Conoscete un modo per impedire
questa nomina?» domandò Maria
de’ Medici.
«Forse» rispose Vautier, «ma
dovrei avere seduta stante un
colloquio con il duca d’Orléans.»
«Vado a cercarlo e ve lo porto»
disse Bérulle.
«Andate» disse la regina madre
«senza perdere un attimo.»
Poi, rivolgendosi a Vautier:
«E qual è questo modo?»
«Lo dirò a Vostra Maestà quando
saremo in un luogo dove abbiamo la
certezza che nessuno ci possa né
ascoltare né udire.»
«Su, venite, allora.»
La regina e il suo consigliere
imboccarono in fretta un corridoio
che portava agli appartamenti privati
di Maria de’ Medici.

1 Forse i nostri lettori troveranno questo


capitolo un po’ lungo e freddo, ma il nostro
rispetto per i fatti storici ci ha spinto a riprodurre
in ogni dettaglio la seduta che si tenne al
Luxembourg e che decise della guerra d’Italia, e
così pure il testo dei discorsi dei due cardinali.
Facendo romanzi storici, non abbiamo solo la
pretesa di divertire una classe di lettori che sa,
ma anche quella di istruirne un’altra, che non sa,
ed è soprattutto per quest’ultima che scriviamo.
[NdA]
VIII
Il modo di Vautier
Benché avesse un suo appartamento
dalla regina madre, vale a dire nel
palazzo del Luxembourg, il re era
tornato al Louvre per sfuggire al
martellamento di cui le due regine lo
avrebbero certo fatto oggetto.
In effetti, dopo che, rientrata nelle
sue stanze, Maria de’ Medici ebbe
ascoltato con la massima attenzione
e approvato il piano di Vautier,
prima di ricorrervi decise di fare un
ultimo tentativo con il figlio.
Il quale, come abbiamo detto, era
tornato al Louvre e, non appena
arrivato, aveva fatto chiamare
l’Angely.
Ma prima aveva domandato se
monsieur Baradas non aveva detto o
mandato a dire niente.
Baradas aveva mantenuto il più
assoluto silenzio.
Era stato questo silenzio in cui
continuava a ostinarsi il paggio
imbronciato a provocare il cattivo
umore del re durante il Consiglio,
cattivo umore che non era sfuggito a
Vautier, il quale ne conosceva la
causa: su questa causa aveva basato
tutto il suo piano di attacco.
Luigi XIII, che aveva fatto ben
pochi passi avanti con mademoiselle
de Lautrec, si riprometteva di
seguire il consiglio dell’Angely e di
insistere fino a che le voci di questa
sua fantasia fossero arrivate a
Baradas, che il timore di perdere il
proprio credito avrebbe
immediatamente riportato, secondo
l’Angely, ai piedi del re.
Ma a questo piano era sorto
inaspettatamente un impedimento di
cui il re non era riuscito a rendersi
conto e che nessuno aveva potuto
spiegargli. La sera prima, benché
fosse di servizio, mademoiselle de
Lautrec non si era presentata al
circolo della regina e, come risposta
alle domande di Luigi XIII, questa si
era limitata a esprimere tutto il
proprio stupore. Per tutto il giorno
mademoiselle de Lautrec al Louvre
non era comparsa. La regina l’aveva
fatta cercare invano nella sua camera
e in tutto il palazzo; nessuno l’aveva
vista o aveva sue notizie.
Il re, intrigato da questa assenza,
aveva allora incaricato l’Angely di
informarsi a sua volta ed era per
questo che appena rientrato lo aveva
fatto chiamare.
Ma l’Angely non aveva avuto
maggior fortuna degli altri. Tornava
senza aver saputo niente di preciso.
Dal punto di vista del suo reale
interesse per mademoiselle de
Lautrec, la cosa a Luigi XIII era più
o meno indifferente, ma questo non
valeva per Baradas. Il piano era
parso all’Angely tanto infallibile che
alla sua infallibilità aveva finito con
il credere anche il re.
E si disperava, accusando il
destino di opporsi con cura
particolare a tutti i suoi desideri,
quando Beringhen grattò piano alla
porta. Il re riconobbe la maniera di
grattare di Beringhen e, pensando
che potesse essere una persona in
più – e una persona della cui
devozione era certo – cui chiedere
consiglio, rispose con una certa
benevolenza:
«Entrate!»
Il primo cameriere entrò.
«Che cosa vuoi, Beringhen?»
domandò il re. «Non lo sai che non
mi piace che mi si disturbi quando
mi annoio con l’Angely?»
«Non dirò lo stesso» intervenne
l’Angely, «e siete il benvenuto,
monsieur de Beringhen.»
«Sire» disse il cameriere, «non mi
permetterei di disturbare Sua
Maestà, quando mi ha detto che
vuole annoiarsi in pace, per nessuno
che non avesse tutti i diritti di darmi
degli ordini. Ma alle Loro Maestà la
regina Maria de’ Medici e la regina
Anna d’Austria ho dovuto
obbedire.»
«Come!» esclamò Luigi XIII, «le
regine sono qui!»
«Sì, Sire.»
«Tutte e due?»
«Sì, Sire.»
«E vogliono parlarmi insieme?»
«Insieme, sì, Sire.»
Il re si guardò intorno come a
cercare da quale parte avrebbe
potuto fuggire e forse avrebbe
ceduto al suo primo impulso se la
porta non si fosse aperta e non fosse
entrata Maria de’ Medici, seguita da
Anna d’Austria.
Il re si fece pallidissimo e fu preso
da un leggero tremito febbrile cui
era sempre soggetto davanti a una
seria contrarietà: in quei casi, però,
si irrigidiva e diventava
inaccessibile a ogni preghiera.
In questa circostanza, affrontava il
pericolo con l’immobilità e la cupa
ostinazione di un toro che presenti le
corna.
Si rivolse alla madre, come
all’antagonista più pericolosa.
«Parola di gentiluomo, signora» le
disse, «ritenevo la discussione
chiusa con il Consiglio e pensavo
che, chiuso il Consiglio, avrei
evitato altre persecuzioni! Che cosa
volete da me? Avanti, ditemi!»
«Voglio, figlio mio» disse Maria
de’ Medici mentre la regina Anna, a
mani giunte, pareva unirsi nello
spirito alle preghiere della suocera,
«voglio che abbiate pietà almeno di
voi stesso, se non di noi, che
riducete alla disperazione. Non basta
che, debole e sofferente come siete,
quell’uomo vi abbia tenuto sei mesi
nelle paludi dell’Aunis; 1 ecco che
adesso vi vuole far sopportare il
freddo e le nevi delle Alpi nel pieno
rigore dell’inverno!»
«Eh, signora» disse il re, «le
febbri delle paludi dalle quali Dio ha
permesso che mi salvassi, il
cardinale non le ha affrontate quanto
me? E volete dirmi che mentre
espone me ha riguardi per se stesso?
Quelle nevi e quei rigori delle Alpi
sarò solo a sopportarli? Non ci sarà
lui al mio fianco, per dare insieme a
me ai soldati l’esempio del coraggio,
della costanza e delle privazioni?»
«Non lo discuto, figlio mio;
l’esempio infatti è stato dato tanto
dal cardinale quanto da voi. Ma
volete mettere l’importanza della
vostra vita con quella della sua?
Dieci ministri come il cardinale
possono morire senza che la
monarchia vacilli un solo istante; ma
voi, alla vostra minima
indisposizione la Francia trema e
vostra madre e vostra moglie
supplicano Dio di conservarvi a loro
e alla Francia.»
La regina Anna si mise difatti in
ginocchio.
«Monsignore» disse, «siamo in
ginocchio non solo davanti a Dio,
ma anche davanti a voi, per
supplicarvi come supplicheremmo
Dio di non abbandonarci.
Considerate che quello che Vostra
Maestà reputa un dovere è per noi
oggetto di profondo terrore, e,
veramente, se succedesse una
disgrazia a Vostra Maestà, che cosa
succederebbe a noi e alla Francia?»
«Il Signore Iddio, permettendo la
mia morte, ne avrebbe previsto le
conseguenze e sarebbe là per
provvedervi, signora. È impossibile
cambiare alcunché alle decisioni
prese.»
«E perché?» domandò Maria de’
Medici. «Occorre proprio, visto che
questa disgraziata guerra è stata
decisa contro il parere di tutti noi...»
«Volete dire di tutte, signora»
interruppe il re.
«Occorre proprio» proseguì Maria
de’ Medici, senza tener conto
dell’interruzione, «occorre proprio
che la conduciate personalmente?
Non avete il vostro amato
ministro...»
«Sapete benissimo, signora, che
non amo il cardinale. Ma lo rispetto,
lo ammiro e lo considero, dopo Dio,
la Provvidenza di questo regno.»
«Ebbene, Sire, la Provvidenza
veglia sugli Stati da lontano come da
vicino. Incaricate il vostro ministro
di condurre questa guerra e
rimanete, voi, qui con noi.»
«Sì, certo, perché
l’insubordinazione serpeggi tra gli
altri comandanti! Perché i vostri
Guise, i vostri Bassompierre, i vostri
Bellegarde rifiutino di obbedire a un
prete e compromettano il successo
della Francia! No, signora. Perché le
capacità del cardinale vengano
riconosciute, bisogna che io per
primo le riconosca. Ah, se ci fosse
un principe della mia casa di cui
fidarmi!»
«Non c’è vostro fratello? Non c’è
Monsieur?»
«Permettetemi di dirvi, signora,
che vi trovo molto tenera nei
confronti di un figlio disobbediente
e di un fratello ribelle!»
«Proprio per far tornare nella
nostra infelice famiglia la pace che
ne sembra bandita, figlio mio, sono
così tenera nei confronti di quel
figlio che per la sua disobbedienza
meriterebbe, lo ammetto, di essere
punito anziché ricompensato. Ma ci
sono momenti supremi in cui la
logica smette di essere la regola che
guida la politica, in cui bisogna
lasciar da parte ciò che sarebbe
giusto per ottenere ciò che è bene, e
Dio stesso ci offre a volte l’esempio
di questi errori necessari punendo
ciò che è bene e ricompensando ciò
che è male. Nominate, Sire,
nominate il vostro ministro
comandante della guerra e mettete ai
suoi ordini come luogotenente
generale Monsieur: sono certa che se
accordate un tale favore a vostro
fratello, lui rinuncerà al suo amore
insensato e acconsentirà alla
partenza della principessa Maria.»
«Dimenticate, signora» replicò
Luigi XIII aggrottando le
sopracciglia, «che sono il re e quindi
il padrone; perché tale partenza
avvenga, e dovrebbe già essere
avvenuta da tempo, occorre non che
mio fratello acconsenta, ma che io la
ordini. Che lui sembri acconsentire a
fare qualcosa che io ho il diritto di
ordinare significa lottare contro il
mio potere. La mia decisione è stata
presa, signora. Per il futuro,
comanderò io e bisognerà
accontentarsi di obbedirmi. Sono
due anni che agisco così, cioè da
dopo il viaggio di Amiens» disse il
re sottolineando queste parole e
guardando la regina Anna d’Austria,
«e da due anni mi va bene così.»
Anna, che era rimasta in
ginocchio davanti al re, a queste
dure parole si rialzò e arretrò di un
passo portando le mani agli occhi
come per nascondere le lacrime.
Il re accennò a un gesto per
trattenerla, ma fu un gesto appena
percettibile, che represse
immediatamente.
Sua madre tuttavia lo notò e,
prendendogli le mani:
«Luigi, bambino mio» gli disse,
«non è più una discussione, è una
preghiera. Non è più una regina che
parla a un re, è una madre che parla
a suo figlio. Luigi, in nome del mio
amore, che avete a volte
misconosciuto ma al quale avete
sempre finito con il rendere
giustizia, cedete alle nostre
suppliche. Voi siete il re, in voi
risiedono ogni potere e ogni
saggezza, ritornate sulla vostra
decisione e, credetelo, la Francia, e
non solo vostra madre e vostra
moglie, ve ne sarà riconoscente.»
«Va bene, signora» disse il re per
chiudere una discussione che lo
stancava, «la notte porta consiglio e
questa notte rifletterò su quello che
mi avete detto.»
E fece a sua madre e a sua moglie
uno di quei saluti come ne sanno
fare i re e che significano che
l’udienza è terminata.
Le due regine uscirono, Anna
d’Austria appoggiandosi al braccio
della regina madre. Ma non ebbero
fatto venti passi nel corridoio che
una porta si aprì e dallo spiraglio
sbucò la testa di Gaston d’Orléans.
«Allora?» domandò.
«Allora» rispose la regina madre,
«noi abbiamo fatto quello che
potevamo, il resto tocca a voi.»
«Sapete dove si trova
l’appartamento di monsieur
Baradas?» chiese il duca.
«Mi sono informata. La quarta
porta a sinistra, quasi di fronte alla
camera del re.»
«Va bene» disse Gaston. «Dovessi
anche promettergli il mio ducato
d’Orléans, farà quello che vogliamo,
fatto salvo che, ottenuto questo, non
glielo darò di certo.»
Le due regine e il giovane
principe si separarono, le regine per
rientrare nel loro appartamento e
Sua Altezza Reale monsignor
Gaston d’Orléans per dirigersi dalla
parte opposta e raggiungere in punta
di piedi l’appartamento di Baradas.
Non sappiamo che cosa accadde
fra Monsieur e il giovane paggio, se
Monsieur gli promise il ducato
d’Orléans o uno di quelli minori di
Dombes o di Montpensier, ma quel
che sappiamo è che, una mezz’ora
dopo essere entrato nella tenda di
Achille, il moderno Ulisse, sempre
in punta di piedi, raggiungeva
nuovamente l’appartamento delle
due regine, di cui apriva con aria
festante la porta dicendo con voce
colma di speranza:
«Vittoria! È dal re!»
Infatti, più o meno nello stesso
momento, sorprendendo Sua Maestà
proprio quando meno se lo
aspettava, Baradas apriva, senza
prendersi la briga di grattare
secondo l’etichetta, la porta di re
Luigi XIII che, riconoscendo il suo
paggio, lanciava un grido di gioia e
lo accoglieva a braccia aperte.

1 Storica provincia del Nordovest della Francia,


con capitale La Rochelle. Oggi, insieme alla
Saintonge, forma il dipartimento della Charente-
Maritime. [NdT]
IX
L’invisibile fuscello di paglia,
l’impercettibile granello di sabbia
Mentre contro di lui si annodavano
tutti questi bassi intrighi, chino alla
luce di una lampada su una mappa di
quelle che allora si definivano le
marche del regno, mappa che
presentava ai suoi occhi nei minimi
dettagli la doppia frontiera della
Francia e della Savoia, il cardinale
seguiva con monsieur de Pontis, il
suo ingegnere geografo autore della
mappa che aveva davanti, il
percorso che l’armata avrebbe
dovuto seguire, le città e i paesi
dove avrebbe dovuto fare tappa, e
segnava le vie che avrebbero
permesso di arrivare ai viveri
necessari alla sussistenza di
trentamila uomini.
La mappa, rivista da monsieur
d’Escures, come abbiamo detto,
annotava con la massima precisione
valli, montagne, torrenti e persino
ruscelli. Il cardinale era entusiasta:
era la prima volta che ne vedeva una
di quel valore.
Come Bonaparte sopra la mappa
d’Italia, nel marzo 1800, mostrando
le pianure intorno a Marengo,
diceva: «Qui batterò Melas», 1 il
cardinale di Richelieu, uomo tanto
di guerra quanto poco di Chiesa,
diceva in anticipo: «Qui batterò
Carlo Emanuele». Poi, rivolgendosi
tutto felice a monsieur de Pontis:
«Visconte» gli disse, «siete un
servitore del re non solo fedele ma
abile, e quando questa guerra sarà
stata vinta, come speriamo, avrete
diritto a una ricompensa. Sarete voi
a chiedermela e se, cosa di cui non
dubito, sarà a misura delle mie
possibilità questa ricompensa vi è
accordata fin d’ora.»
«Monsignore» disse Pontis
inchinandosi, «ogni uomo ha le sue
ambizioni. C’è chi le concentra nella
testa, e chi nel cuore. Io sono tra
questi ultimi e, quando sarà il
momento, poiché Sua Eminenza me
ne dà il permesso, le aprirò il mio
cuore.»
«Ah!» fece il cardinale, «siete
innamorato, visconte?»
«Sì, monsignore.»
«E amate al di sopra della vostra
condizione?»
«Forse per il nome, ma non per la
fortuna.»
«E come posso esservi utile a
questo proposito?»
«Il padre di colei che amo è un
fedele servitore di Vostra Eminenza,
e non farà nulla senza il suo
consenso.»
Il cardinale rifletté un momento,
come se un ricordo gli tornasse alla
mente.
«Ah!» disse, «non siete stato voi,
caro visconte, che circa un anno fa
avete portato in Francia e condotto
dalla regina mademoiselle Isabelle
de Lautrec?»
«Sì, monsignore» disse
arrossendo il visconte di Pontis.
«Ma a quell’epoca mademoiselle
de Lautrec non era stata presentata a
Sua Maestà come vostra fidanzata?»
«Non come fidanzata, ma come
promessa sì. Monsieur de Lautrec
infatti, appena gli avevo parlato del
mio amore per sua figlia, mi aveva
risposto: “Isabelle ha solo quindici
anni, e voi da parte vostra dovete
ancora farvi una posizione; fra due
anni, quando le cose italiane saranno
sistemate, ne riparleremo e, se sarete
ancora innamorato di Isabelle, se
avrete l’approvazione del cardinale,
sarò felice di chiamarvi mio
figlio”.»
«E mademoiselle de Lautrec ha
avuto qualche parte nelle promesse
del padre?»
«Quando le ho parlato del mio
amore e ha saputo che suo padre mi
aveva autorizzato a farlo,
mademoiselle de Lautrec mi ha
risposto – dovrei dire: si è limitata a
rispondermi – che il suo cuore era
libero e che rispettava troppo suo
padre per non obbedire alla sua
volontà.»
«E quanto tempo fa vi ha parlato
così?»
«Un anno fa, monsignore.»
«E in seguito l’avete rivista?»
«Di rado.»
«E, rivedendola, le avete parlato
del vostro amore?»
«Appena quattro giorni fa.»
«E lei che cosa ha risposto?»
«È arrossita e ha balbettato poche
parole imbarazzate, che ho attribuito
all’emozione.»
Il cardinale sorrise e disse fra sé e
sé:
“Mi sembra che nella sua
confessione abbia dimenticato
questo dettaglio.”
Il visconte di Pontis guardò
preoccupato il cardinale:
«Vostra Eminenza ha per caso
delle obiezioni da muovere ai miei
desideri?»
«Nessuna, visconte, nessuna.
Fatevi amare da mademoiselle de
Lautrec e se ci fosse un
impedimento alla vostra felicità, tale
impedimento non verrà da me.»
La serenità riapparve sul viso del
visconte, che s’inchinò:
«Grazie, monsignore.»
In quel momento la pendola
suonò le due del mattino.
Il cardinale congedò il visconte
con una certa tristezza, perché,
stando alle confessioni di Isabelle,
capiva che gli sarebbe stato difficile,
addirittura impossibile, dare a quel
buon servitore la ricompensa cui
ambiva.
Si preparava a salire in camera
sua quando la porta
dell’appartamento di madame de
Combalet si aprì e lei, sorridendo
con le labbra e con gli occhi,
apparve sulla soglia.
«Oh, Marie, cara» disse il
cardinale, «vi pare ragionevole
vegliare fino a quest’ora della notte,
mentre dovreste essere in camera
vostra a riposare già da tre ore?»
«Caro zio» disse madame de
Combalet, «come i dispiaceri, la
gioia impedisce di dormire e non
avrei potuto chiudere occhio senza
felicitarmi con voi per il vostro
successo. Quando siete triste, mi
lasciate condividere la vostra
tristezza, quando vincete... perché è
una vittoria, vero?, quella che avete
ottenuto oggi?»
«Una vittoria vera, Marie» rispose
il cardinale, cui si allargò il cuore,
mentre respirava a pieni polmoni.
«Ebbene» riprese madame de
Combalet, «quando vincete,
lasciatemi condividere il vostro
trionfo.»
«Sì, avete ragione di reclamare
qualcosa della mia gioia, ne avete
diritto, Marie cara. Voi siete parte
della mia vita e quindi vi è di diritto
riservata una fetta sia del bene sia
del male che mi accade. Solo oggi,
per la prima volta, respiro davvero
liberamente. Questa volta non ho
avuto bisogno, per salire ancora di
un grado, di mettere il piede sul
primo gradino del patibolo di uno
dei miei nemici. Vittoria tanto più
bella, Marie, in quanto
assolutamente pacifica e dovuta
soltanto alla persuasione. Gli schiavi
che si sottomettono con la forza
rimangono nostri nemici, quelli che
si sottomettono con il ragionamento
diventano nostri apostoli. Oh, se Dio
mi aiuta, cara Marie, fra sei mesi ci
sarà una potenza temuta e rispettata
da tutte le altre. E sarà la Francia.
Perché fra sei mesi – purché la
Provvidenza continui a tenermi
lontane quelle due donne perfide! –,
fra sei mesi l’assedio di Casale sarà
tolto, Mantova soccorsa e i
protestanti del Languedoc, vedendo
tornare dall’Italia e dirigersi contro
di loro l’armata vittoriosa,
chiederanno la pace senza che ci sia
bisogno, spero, di far loro la guerra.
E allora il papa non potrà rifiutare di
crearmi legato, legato a latere,
legato a vita, e avrò in mano sia il
potere temporale sia quello
spirituale, perché adesso, così spero
almeno, il re è mio, e, a meno che
non s’incontri sulla mia strada
quell’invisibile fuscello di paglia,
quell’impercettibile granello di
sabbia che fanno naufragare i più
grandi progetti, sono padrone della
Francia e dell’Italia. Abbracciatemi,
Marie, e dormite di quel sonno che
meritate tanto. Quanto a me, non
dico che dormirò, ma cercherò di
dormire.»
«Ma domani sarete a pezzi.»
«No, la gioia sostituisce il sonno e
non mi sono mai sentito così bene.»
«Mi permettete di entrare da voi
domani, quando mi sveglio, caro
zio, per sapere come avete passato la
notte?»
«Entrate, e che la mia alba, come
il mio tramonto, sia uno sguardo dei
vostri begli occhi: sarò certo allora
di avere una buona giornata, come
sono certo ora di avere una buona
notte.»
E baciando madame de Combalet
sulla fronte, la accompagnò alla
porta dello studio e rimase sulla
soglia a guardarla finché non
scomparve nella penombra della
scala.
Solo allora, il cardinale richiuse la
porta e si preparò a salire a sua volta
nelle sue stanze. Ma proprio mentre
stava uscendo dallo studio, sentì
grattare alla porta che conduceva da
Marion Delorme.
Credette di essersi sbagliato, si
fermò e si rimise in ascolto. Questa
volta i colpi si fecero più rapidi e più
forti. Non ci si poteva sbagliare,
qualcuno picchiava sulla porta di
comunicazione che dallo studio si
apriva sulla stanza accanto.
Richelieu diede un giro di chiave
alla porta da cui stava uscendo, andò
a tirare il chiavistello delle altre
porte e, avvicinandosi all’entrata
segreta mascherata nella boiserie:
«Chi bussa?» domandò sottovoce.
«Io» rispose una voce di donna.
«Siete solo?»
«Sì.»
«Apritemi allora. Vi devo mettere
al corrente di una cosa che ritengo di
una certa importanza.»
Il cardinale si guardò intorno per
assicurarsi di essere davvero solo;
poi, schiacciando un pulsante, aprì il
passaggio segreto, che inquadrò un
bel giovane che si arricciava dei
baffi finti.
Quel giovane era Marion.
«Ah, eccovi, bel paggio!» disse
sorridendo Richelieu. «Confesso
che, se c’era qualcuno che aspettavo
a quest’ora, non si trattava certo di
voi.»
«Non mi avete detto: “A
qualunque ora, quando avrete
qualcosa d’importante da dirmi, se
non sono nel mio studio, suonate; se
ci sono, bussate”?»
«L’ho detto, cara Marion, e vi
ringrazio di ricordarlo.»
Sedendosi, il cardinale fece segno
a Marion di sedere accanto a lui.
«Così vestita?» fece Marion
ridendo e piroettando sulla punta dei
piedi per mostrare al cardinale tutta
l’eleganza della sua persona, anche
in un abbigliamento che non era
quello del suo sesso. «No,
mancherei di rispetto a Vostra
Eminenza. Se non vi dispiace,
monsignore, resterò in piedi a farvi
il mio breve rapporto, a meno che
non preferiate che vi parli con un
ginocchio a terra, ma in questo caso
sarebbe una confessione e non un
rapporto e la cosa ci porterebbe
troppo lontano.»
«Parlate come volete, Marion»
disse il cardinale, lasciando che una
certa preoccupazione gli apparisse
sul volto, «perché, se non vado
errato, mi avete chiesto questo
colloquio per prepararmi a una
cattiva notizia, e siccome alle cattive
notizie bisogna porre riparo, non le
si conosce mai troppo presto.»
«Non saprei dire se la notizia sia
buona o cattiva. Il mio istinto
femminile mi dice che non è buona.
Giudicherete voi.»
«Vi ascolto.»
«Vostra Eminenza sa che il re
aveva litigato con il suo favorito,
Baradas?»
«So che Baradas aveva litigato
con il re.»
«Sì, è più corretto perché era
Baradas che teneva il muso al re.
Bene, questa sera, mentre il re era
con il suo buffone, l’Angely, le due
regine sono entrate e sono uscite
dopo circa mezz’ora. Erano molto
turbate e hanno parlato un attimo
con il duca d’Orléans; dopo di che,
il duca d’Orléans si è intrattenuto
per quasi un quarto d’ora con
Baradas nel vano di una finestra;
sembrava discutessero; poi il
principe e il paggio si sono messi
d’accordo e sono usciti insieme.
Monsieur è rimasto nel corridoio
finché non ha visto Baradas entrare
dal re, e poi è scomparso a sua volta
nel corridoio che porta
all’appartamento delle regine.»
Il cardinale rimase un istante
pensieroso, poi, guardando Marion
senza cercare di dissimulare la
propria preoccupazione:
«Mi fornite particolari tanto
precisi» disse «che non vi chiedo se
siete sicura della loro attendibilità.»
«Ne sono sicura, e del resto non
ho ragioni per nascondere a Vostra
Eminenza da chi li ho saputi.»
«Se non sono indiscreto, mia
bell’amica, confesso che sarei
contento di saperlo.»
«Non solo non siete indiscreto,
ma sono certa di fare cosa grata a
chi me li ha forniti.»
«Allora è un amico?»
«È qualcuno che desidera che
Vostra Eminenza lo consideri un
servitore devoto.»
«Il suo nome?»
«Saint-Simon.»
«Quel piccolo paggio del re?»
«Esattamente.»
«Lo conoscete?»
«Lo conosco e non lo conosco,
ma in ogni modo questa sera è
venuto da me.»
«Questa sera o questa notte?»
«Accontentatevi di quello che vi
dirò, monsignore. Dunque, questa
sera è venuto da me e mi ha
raccontato, fresca fresca, questa
storia. Usciva dal Louvre. Andando
dal suo collega Baradas, aveva visto
le regine uscire dalla camera del re.
Erano così preoccupate che non si
sono accorte di lui, e lui ha
continuato per la sua strada dopo
aver visto che parlavano con
Monsieur in un andito fra una porta
e l’altra. Poi è entrato da Baradas; il
paggio teneva ancora il muso e
diceva che l’indomani se ne sarebbe
andato dal Louvre. Dopo un attimo,
è entrato Monsieur. Non ha badato a
Saint-Simon, che è rimasto lì buono
buono e ha visto, come vi ho detto,
il suo collega parlare con il principe
nel vano di una finestra, poi uscire
tutti e due, Baradas per entrare dal re
e Monsieur per correre, con ogni
probabilità, a render conto del suo
successo alle regine.»
«E voi dite che il piccolo Saint-
Simon è venuto a raccontarvi queste
cose perché mi fossero ripetute?»
«Ah, sentite, vi ripeto le sue
parole: “Cara Marion” mi ha detto,
“in tutti questi andirivieni io credo si
nasconda una macchinazione contro
il cardinale di Richelieu. Si dice che
siate una sua buona amica, io non vi
domando se sia vero o no, ma, se è
vero, avvertitelo e ditegli che sono il
suo umile servitore”.»
«È un ragazzo sveglio e non lo
dimenticherò quando se ne
presenterà l’occasione, diteglielo da
parte mia. Quanto a voi, Marion,
mia cara, non so come potrei
provarvi la mia riconoscenza.»
«Oh, monsignore...»
«Ci penserò, ma intanto...» e il
cardinale si tolse dal dito un
magnifico diamante.
«Tenete» proseguì, «prendete
questo diamante in mio ricordo.»
Ma invece di tendere la mano,
Marion se la metteva dietro la
schiena.
Il cardinale gliela prese, le tolse
lui il guanto e le mise il diamante al
dito.
Poi, baciandole la mano:
«Marion» le disse, «siatemi
sempre amica come ora e non ve ne
pentirete.»
«Monsignore, io tradisco a volte i
miei amanti, mai i miei amici.»
E con un pugno sul fianco, il
cappello in mano, il bel viso
spensierato di giovinezza, le labbra
sorridenti di voluttà e di amore, con
una riverenza degna di un vero
paggio, rientrò in casa sua,
guardando il suo diamante e
cantando una villanella di Desportes.
Rimasto solo, il cardinale si passò
una mano sulla fronte rabbuiata:
«Ah» disse, «eccolo, l’invisibile
fuscello di paglia, l’impercettibile
granello di sabbia!»
Poi, con un’espressione di
indescrivibile disprezzo:
«Ah» disse, «un Baradas!»

1 Michael von Melas, generale austriaco, a


capo dell’armata d’Italia nel 1800, fu sconfitto
da Napoleone Bonaparte a Marengo. [NdT]
X
La decisione di Richelieu
Il cardinale trascorse una notte
molto agitata. Come aveva pensato
la bella Marion, che si metteva in
diretto contatto con lui solo nelle
occasioni importanti, la notizia che
gli aveva portato era grave: il re
rappacificato con il suo favorito
grazie all’intervento di Monsieur,
l’acerrimo nemico del cardinale. Era
una porta spalancata a sgradevoli
congetture; Richelieu esaminò la
questione in tutti i suoi aspetti e
l’indomani, non diremo quando si
svegliò, ma quando si alzò, aveva
prestabilito un piano per ogni
eventualità.
Verso le nove del mattino fu
annunciato un messo del re; fu fatto
entrare nello studio dove il cardinale
era già sceso. Consegnò un plico
chiuso da un grande sigillo rosso a
Sua Eminenza che, prima ancora di
sapere che cosa contenesse la lettera,
gli diede, come faceva sempre
quando gli arrivava un messaggero
da parte del re, una borsa con venti
pistole. Il cardinale aveva nel
cassetto delle borse già pronte per
queste occasioni. Un’occhiata alla
lettera lo aveva assicurato che
veniva direttamente dal re, perché
aveva riconosciuto la scrittura di Sua
Maestà nell’indirizzo. Invitò dunque
il messo ad aspettare nello studio del
suo segretario, Charpentier, nel caso
in cui dovesse consegnargli una
risposta.
Poi, come l’atleta per il
combattimento fisico raccoglie le
forze e si strofina con l’olio, lui, per
il combattimento morale, si raccolse
un istante, passò un fazzoletto sulla
fronte umida di sudore e si preparò a
rompere il sigillo.
Nel frattempo, senza che lui se ne
accorgesse, una porta si era aperta e
nello spiraglio di quella porta il viso
ansioso di madame de Combalet era
apparso. Aveva saputo da Guillemot
che suo zio aveva dormito male e da
Charpentier che era arrivato un
messaggio del re. Aveva allora osato
entrare senza essere chiamata nello
studio dallo zio, nella certezza,
comunque, di essere sempre la
benvenuta.
Ma quando vide il cardinale
seduto con in mano una lettera che
esitava ad aprire, intuì le sue
angosce e, pur ignorando la visita di
Marion Delorme, indovinò che
qualcosa di nuovo doveva essere
accaduto.
Finalmente Richelieu aprì il
messaggio e, via via che leggeva,
qualcosa di simile a un’ombra gli si
stendeva sul viso.
Lei scivolò silenziosa lungo la
parete e si appoggiò a una poltrona a
pochi passi da lui.
Il cardinale aveva fatto un gesto,
ma poiché a quel gesto non erano
seguite parole, madame de Combalet
credette di non essere stata vista.
Il cardinale continuava a leggere,
ma, ogni pochi secondi, si asciugava
la fronte.
Era evidentemente in preda a
un’angoscia profonda.
Madame de Combalet gli si
avvicinò tanto da sentire il suo
respiro affannoso.
Poi lui lasciò ricadere sulla
scrivania la mano che teneva la
lettera e che sembrava non avere più
la forza di reggerla.
La testa si voltò piano verso la
nipote mostrandole un viso pallido e
agitato da moti convulsi, mentre le
tendeva una mano tremante.
Madame de Combalet si precipitò
a baciare quella mano, ma il
cardinale le passò un braccio intorno
alla vita, l’attirò a sé, se la strinse
forte al cuore e con l’altra mano le
diede la lettera, cercando di
sorridere:
«Leggete» le disse.
Madame de Combalet lesse
sottovoce.
«Leggete a voce alta» le disse il
cardinale, «ho bisogno di studiare
con freddezza questa lettera. Il
suono della vostra voce mi darà
sollievo.»
Madame de Combalet lesse:
Signor cardinale e caro amico,
dopo matura riflessione sulla
situazione interna ed estera, che sono a
nostro parere ugualmente gravi, riteniamo
che, delle due, la questione interna sia più
importante a causa dei disordini che
monsieur de Rohan e i suoi ugonotti
suscitano nel regno, e abbiamo deciso,
avendo piena fiducia nel genio politico di
cui ci avete dato tante prove, di lasciarvi a
Parigi a governare il paese in nostra
assenza mentre noi, insieme al nostro
amato fratello Monsieur come
luogotenente generale e i signori di
Angoulême, di Bassompierre, di
Bellegarde e di Guise come capitani,
andremo a fare togliere l’assedio di
Casale, passando con le buone o con le
cattive attraverso gli Stati del duca di
Savoia, riservandoci di darvi notizia di
come vanno le nostre cose, di chiedervi
delle vostre e di ricorrere in caso di
difficoltà ai vostri saggi consigli tramite
corrieri quotidiani.
Detto questo, vi preghiamo, signor
cardinale e caro amico, di farci avere lo
stato preciso delle truppe che
compongono la nostra armata, dei pezzi di
artiglieria in grado di affrontare la
campagna e delle somme che possono
essere messe a nostra disposizione, tolte
quelle che riterrete necessarie alla
conduzione del vostro ministero.
Ho lungamente riflettuto prima di
prendere la decisione che vi comunico,
perché ricordavo le parole del grande
poeta italiano, costretto a rimanere a
Firenze per i disordini che agitavano la
città e desideroso tuttavia di recarsi a
Venezia per portare a termine
un’importante trattativa: «Se resto, chi va?
Se vado, chi resta?». 1 Più fortunato di
lui, ho la buona sorte di avere in voi,
signor cardinale e caro amico, un secondo
me stesso, e, lasciandovi a Parigi, è come
se restassi e partissi allo stesso tempo.
A questo punto, signor cardinale e caro
amico, non avendo la presente altri
obiettivi, prego il Signore che vi conservi
in buona salute e sotto la sua santa e
degna protezione.
Il vostro affezionato
Luigi

Via via che avanzava nella lettura,


la voce di madame de Combalet era
andata alterandosi e, giunta alle
ultime righe, era appena percettibile.
Ma benché il cardinale l’avesse
letta una sola volta, quella lettera gli
si era incisa nella mente in modo
incancellabile ed era in effetti per
calmare la propria agitazione che
aveva invocato il soccorso della
dolce voce di madame de Combalet,
capace di avere sulle sue molteplici
irritazioni lo stesso effetto dell’arpa
di David sulle demenze di Saul.
Quando ebbe finito, lei posò la
guancia sulla testa del cardinale.
«Che cattiveria!» esclamò.
«Hanno giurato di farvi morire di
dolore!»
«Vediamo, che cosa fareste al mio
posto, Marie?»
«Non mi state consultando
seriamente, zio?»
«Molto seriamente.»
«Oh, io, al vostro posto!»
Esitò.
«Voi, al mio posto. Coraggio,
andate avanti.»
«Al vostro posto li abbandonerei
al loro destino. Vedremo un po’
come se la caveranno senza di voi.»
«È il vostro consiglio, Marie?»
Lei si raddrizzò e, facendo ricorso
a tutta la sua energia:
«Sì, lo è» rispose. «Tutta quella
gente, re, regine, principi, è indegna
di tutto quello che vi affannate a fare
per lei.»
«E allora, che cosa faremo, se
lascio perdere quella gente, come li
chiamate voi?»
«Andremo in una delle vostre
abbazie, una delle più belle, e ci
vivremo tranquilli, io amandovi e
prendendomi cura di voi, voi
dedicandovi alla natura e alla poesia,
a comporre quei versi che vi ridanno
la pace.»
«Siete la consolazione
personificata, Marie carissima, e ho
sempre trovato buoni i vostri
consigli. Questa volta, poi, il vostro
parere è in accordo con la mia
volontà. Ieri sera, dopo che siete
uscita dal mio studio, sono stato
preavvertito, o quasi, di ciò che si
stava tramando contro di me. Ho
così avuto tutta la notte per
prepararmi al colpo che mi è stato
sferrato e avevo già deciso.»
Allungò la mano, prese un foglio
di carta e scrisse:
Sire,
sono quanto mai lusingato dalla nuova
attestazione di stima e di fiducia che
Vostra Maestà si degna di testimoniarmi,
ma non posso purtroppo accettarla. La
mia salute, già vacillante, è peggiorata
durante l’assedio della Rochelle, che
abbiamo, con l’aiuto di Dio, condotto a
buon fine. Ma questo sforzo mi ha
completamente spossato, e il mio medico,
la mia famiglia e i miei amici esigono da
me la promessa di un riposo assoluto, che
solo la lontananza dagli affari e la
solitudine della campagna possono
garantirmi. Mi ritiro quindi, Sire, nella
mia casa di Chaillot, che avevo acquistato
in previsione della mia pensione. Vi
prego, Sire, di accettare la mia decisione,
continuando a considerarmi il più umile e
soprattutto il più fedele dei vostri sudditi.
Armand, cardinale di Richelieu

Madame de Combalet si era


discretamente allontanata. Il
cardinale la richiamò con un cenno e
le porse il foglio. Man mano che
leggeva, grosse lacrime silenziose
scendevano a rigarle le guance.
«Voi piangete!» esclamò
Richelieu.
«Sì» rispose lei, «e sono lacrime
sante!»
«Che cosa intendete per lacrime
sante, Marie?»
«Quelle che si versano, con la
gioia nel cuore, sulla cecità del
proprio re e sulla disgrazia del
proprio paese.»
Il cardinale rialzò la testa e posò
una mano sul braccio della nipote.
«Sì, avete ragione» disse, «ma
Dio, che a volte abbandona i re, non
altrettanto facilmente abbandona i
regni. La vita dei primi è effimera,
quella dei secondi dura secoli.
Credetemi, Marie, la Francia occupa
in Europa un posto troppo
importante e ha un ruolo troppo
insostituibile nell’avvenire perché il
Signore distolga da lei il suo
sguardo. Quello che io ho
cominciato un altro lo porterà a
compimento, e non è un uomo in più
o in meno che può cambiare le sue
sorti.»
«Ma è giusto» osservò madame
de Combalet «che l’uomo che ha
preparato le sorti del suo paese non
sia quello che le porta a compimento
e che per l’uno non ci siano stati che
lavoro e lotta, per l’altro ci sia la
gloria?»
«Senza saperlo, Marie» disse il
cardinale la cui fronte si rasserenava
sempre di più, «avete sfiorato
quell’enigma che da tremila anni
propone agli uomini quella sfinge
accovacciata agli angoli delle
fortune che crollano per fare spazio
alle disgrazie immeritate. Quella
sfinge, la chiamano Dubbio. Perché
Dio, che è suprema giustizia, a volte
è, o piuttosto sembra a volte che sia,
suprema ingiustizia?»
«Non mi rivolto contro Dio, zio,
cerco solo di capire.»
«Dio ha il diritto di essere
ingiusto, Marie, perché, avendo
l’eternità fra le mani, ha tutto
l’avvenire per riparare le sue
ingiustizie. Del resto, se noi
potessimo penetrare i suoi segreti, ci
accorgeremmo che quanto pare
ingiusto ai nostri occhi è solo un
mezzo per raggiungere in maniera
più certa i suoi scopi. Ci troviamo di
fronte a una questione importante fra
Sua Maestà, che Dio la protegga, e
me, che prima o poi doveva essere
affrontata. Con chi starà il re? con la
sua famiglia? o con la Francia? Io
sto con la Francia. Dio sta con la
Francia. Ora, chi sarà contro di me,
se Dio è con me?»
Premette un campanello. Al
secondo colpo, comparve il suo
segretario Charpentier.
«Charpentier» disse, «fate
immediatamente preparare la lista
degli uomini in grado di marciare
per la campagna d’Italia, e dei pezzi
di artiglieria in condizione di essere
usati. Mi occorre questa lista entro
un quarto d’ora.»
Charpentier s’inchinò e uscì.
Allora il cardinale tornò alla
scrivania, riprese la penna e, sotto
l’ultima riga delle sue dimissioni,
scrisse:
P.S. Vostra Maestà riceverà qui
allegata la lista degli uomini che
compongono l’armata e lo stato dei
materiali inerenti. Quanto alla somma di
sei milioni presi a prestito su mia garanzia
– il cardinale consultò un quadernino che
aveva sempre con sé –, essa ammonta a
tre milioni ottocentottantaduemila lire
chiuse in una cassa di cui il mio segretario
avrà l’onore di consegnare la chiave a
Vostra Maestà.
Poiché non ho uno studio al Louvre e
temo che, nel trasportare i documenti di
Stato affidati alle mie cure, qualche carta
importante vada perduta, lascio non solo il
mio studio ma anche la mia casa a Vostra
Maestà. Considerato che tutto quello che
ho mi viene da lei, tutto quello che ho è
suo. I miei servitori rimarranno per
facilitarle il lavoro e i rapporti quotidiani
che ora fanno a me saranno fatti a lei.
Oggi alle due Vostra Maestà potrà
prendere, o far prendere, possesso della
mia casa.
Concludo queste righe come ho
concluso quelle che le precedono,
osandomi dire il più obbediente ma anche
il più fedele suddito di Vostra Maestà.
Armand, cardinale di Richelieu

A mano a mano che scriveva, il


cardinale ripeteva a voce alta quello
che aveva scritto, di modo che non
ebbe bisogno di far leggere il post
scriptum alla nipote per fargliene
conoscere il contenuto.
Proprio allora Charpentier gli
portava l’elenco richiesto – c’erano
a disposizione trentacinquemila
uomini e settanta cannoni erano in
grado di essere usati durante la
campagna.
Il cardinale unì l’elenco alla
lettera, chiuse tutto in una busta,
chiamò il messo e gli diede il plico,
dicendo:
«A Sua Maestà personalmente.»
E aggiunse alla prima una
seconda borsa.
Secondo gli ordini del cardinale,
la carrozza era pronta. Il cardinale
scese, portando con sé da casa sua
solo gli abiti che aveva addosso. Salì
in carrozza con madame de
Combalet, fece salire accanto al
cocchiere Guillemot, il solo
servitore che si tenesse, e disse:
«A Chaillot!»
Poi, rivolgendosi alla nipote,
aggiunse:
«Se fra tre giorni il re non sarà
venuto a Chaillot, fra quattro
partiremo per il mio vescovado di
Luçon.»

1 Nel suo Trattatello in laude di Dante (22),


Boccaccio sostiene che il poeta della Divina
Commedia abbia pronunciato quella frase prima
di accettare un’ambasciata presso papa Bonifacio
VIII. [NdT]
XI
Uccelli rapaci
Come abbiamo appena visto, il
consiglio del duca di Savoia aveva
avuto pieno successo: «Se la
campagna d’Italia viene decisa
malgrado la vostra opposizione»
aveva scritto nella lettera segreta a
Maria de’ Medici, «ottenete il
comando dell’armata per il duca
d’Orléans, con il pretesto di
allontanarlo dalla sua folle passione.
Il cardinale duca, la cui unica
ambizione è di essere ricordato
come il più grande generale del suo
tempo, non sopporterà tale onta e
darà le dimissioni. Resterebbe un
solo timore: che il re non le
accetti!».
Ma verso le dieci del mattino al
Louvre non si conosceva ancora la
decisione del cardinale, che era
attesa con impazienza, e, fatto
singolare, tra gli augusti personaggi
che la aspettavano pareva regnare la
più completa armonia.
Gli augusti personaggi erano il re,
la regina madre, la regina Anna e
Monsieur.
Monsieur aveva inscenato con la
regina madre una riconciliazione
tanto poco sincera quanto il loro
litigio; in buoni o cattivi rapporti che
fosse in apparenza con gli altri,
Monsieur odiava tutti
indistintamente; cuore vile e sleale,
disprezzato da tutti, intuiva il
disprezzo sotto le lodi e i sorrisi, e lo
ricambiava con l’odio.
Erano tutti riuniti nel salottino
attiguo alla camera di Anna
d’Austria, là dove abbiamo visto
madame de Fargis, con la
spensierata depravazione della sua
natura spiritosa e corrotta, darle così
buoni consigli.
Nelle camere del re, di Maria de’
Medici e del duca d’Orléans stavano
– l’orecchio teso come attendenti
pronti a eseguire gli ordini –, nella
camera del re, La Vieuville, Nogent-
Bautru e Baradas, tornato al culmine
del suo favore; nella camera della
regina madre, il cardinale di Bérulle
e Vautier; nella camera del duca
d’Orléans, il medico Senelle, cui du
Tremblay aveva sottratto la famosa
lettera cifrata in cui Monsieur era
invitato, in caso di disgrazia, a
recarsi in Lorena; Senelle, però,
credendo di averla semplicemente
perduta, continuava a tenere con sé
il cameriere che, comprato
dall’Eminenza Grigia, lo aveva già
tradito e, essendo stato ben retribuito
per il proprio tradimento, era pronto
a rifarlo. Quanto alla regina Anna,
non era rimasta indietro e in camera
sua si trovavano madame de
Chevreuse, madame de Fargis e la
nanetta Gretchen, della cui fedeltà,
come ricorderemo, aveva risposto
l’infanta Clara Eugenia
offrendogliela in dono e che, grazie
alla sua piccolezza, poteva essere
fatta passare dove una persona di
taglia normale non avrebbe potuto.
Verso le dieci e mezza – si ricorda
che il cardinale lo aveva fatto
aspettare –, il messo arrivò. Poiché il
re aveva dato ordine di farlo entrare
nel salottino della regina e lui aveva
ricevuto dal cardinale l’ingiunzione
di consegnare la risposta soltanto
nelle mani del re, poté senza intoppi
eseguire subito la sua duplice
missione.
Il re prese la lettera con visibile
turbamento, mentre tutti fissavano
ansiosi quel plico che conteneva il
futuro del loro odio e delle loro
ambizioni, e chiese:
«Il cardinale non vi ha incaricato
di dirmi niente a voce?»
«Niente, Sire, se non di presentare
i suoi umili rispetti a Vostra Maestà
e di consegnare soltanto a lei
personalmente questa lettera.»
«Va bene» disse il re, «andate
pure!»
Il messo si ritirò; il re aprì la
lettera e si accinse a leggerla.
«A voce alta, Sire, a voce alta!»
esclamò la regina Maria con un tono
in cui, per un’abile ponderazione di
due opposti elementi, il comando si
univa alla preghiera.
Il re la guardò, come per
domandarle se una lettura a voce
alta non avrebbe presentato degli
inconvenienti.
«Ma no» rispose la regina, «qui
non abbiamo tutti i medesimi
interessi?»
Un lieve movimento di
sopracciglia indicò che il re forse
non condivideva per intero
l’opinione della madre. Ma, sia
rispetto del suo desiderio, sia
abitudine all’obbedienza, cominciò a
leggere la lettera che i nostri lettori
già conoscono, ma che riproponiamo
perché possano assistere all’effetto
che produsse sui diversi auditori
chiamati ad ascoltarla.
«Sire...»
A questa parola, calò un tale
silenzio che Luigi alzò gli occhi dal
foglio e li riportò sui suoi auditori
per assicurarsi che non fossero
svaniti come fantasmi.
«Ascoltiamo, Sire» disse la regina
madre impaziente.
«“Sire, sono quanto mai lusingato
dalla nuova attestazione di stima e di
fiducia che Vostra Maestà si degna
di testimoniarmi...”»
«Oh!» esclamò Maria de’ Medici,
che non riusciva a controllare
l’ansia, «accetta!»
«Aspettate, signora» disse il re.
«C’è un ma.»
«Leggete, allora, Sire, leggete.»
«Se volete che legga, signora, non
interrompetemi.»
E riprese, con la stessa lentezza
che metteva in ogni cosa:
«“... ma non posso purtroppo
accettarla.”»
«Ah! rifiuta» esclamarono
all’unisono la regina madre e
Monsieur, incapaci di contenersi.
Il re fece un gesto di fastidio.
«Perdonateci, Sire» disse la regina
madre, «e proseguite, vi prego!»
Anna d’Austria, colma d’odio
almeno quanto Maria de’ Medici,
ma più padrona di sé per l’abitudine
alla dissimulazione, appoggiò una
candida mano fremente d’emozione
sulla veste di raso nero della suocera
per raccomandarle cautela e silenzio.
Il re riprese:
«“La mia salute, già vacillante, è
peggiorata durante l’assedio della
Rochelle, che abbiamo, con l’aiuto
di Dio, condotto a buon fine. Ma
questo sforzo mi ha completamente
spossato, e il mio medico, la mia
famiglia e i miei amici esigono da
me la promessa di un riposo
assoluto, che solo la lontananza
dagli affari e la solitudine della
campagna possono garantirmi.”»
«Ah!» disse Maria de’ Medici
respirando a pieni polmoni, «che si
riposi, sì, per il bene del regno e la
pace dell’Europa!»
«Madre, madre!» la richiamò il
duca d’Orléans, che vedeva con
preoccupazione rabbuiarsi lo
sguardo del re.
Anna premette più forte il
ginocchio della suocera.
«Ah!» ripeté questa, senza
riuscire a trattenersi, «non saprete
mai, figlio mio, quanto ho da
rimproverare a quell’uomo!»
«Invece sì, signora» disse Luigi
XIII, aggrottando le sopracciglia.
«Sì, invece, lo so.»
E sottolineando ostentatamente
queste ultime parole, continuò con
mal repressa irritazione:
«“Mi ritiro quindi, Sire, nella mia
casa di Chaillot, che avevo
acquistato in previsione della mia
pensione. Vi prego, Sire, di accettare
la mia decisione, continuando a
considerarmi il più umile e
soprattutto il più fedele dei vostri
sudditi. Armand, cardinale di
Richelieu.”»
Tutti si alzarono
contemporaneamente, credendo
terminata la lettura. Le due regine si
abbracciarono e il duca d’Orléans si
avvicinò al re per baciargli la mano.
Ma il re fermò tutti con uno
sguardo.
«Non è finita. C’è un post
scriptum.»
Benché madame de Sévigné non
avesse ancora detto che di solito è
nel post scriptum che si trova la
parte più importante delle lettere, a
quelle parole, “c’è un post
scriptum”, tutti si fermarono e la
regina madre non poté trattenersi dal
dire al figlio:
«Mi auguro, Sire, che se il
cardinale torna sulla sua decisione
voi non tornerete sulla vostra.»
«Ho promesso, signora» replicò
Luigi XIII.
«Ascoltiamo il post scriptum,
madre mia» incitò Monsieur.
Il re lesse:
«“P.S. Vostra Maestà riceverà qui
allegata la lista degli uomini che
compongono l’armata e lo stato dei
materiali inerenti. Quanto alla
somma di sei milioni presi a prestito
su mia garanzia, essa ammonta a tre
milioni ottocentottantaduemila lire
chiuse in una cassa di cui il mio
segretario avrà l’onore di
consegnare la chiave a Vostra
Maestà.”»
«Quasi quattro milioni!» esclamò
la regina Maria de’ Medici con una
cupidigia che non si prendeva la
pena di dissimulare.
Il re batté un piede, si fece
silenzio.
«“Poiché non ho uno studio al
Louvre e temo che, nel trasportare i
documenti di Stato affidati alle mie
cure, qualche carta importante vada
perduta, lascio non solo il mio studio
ma anche la mia casa a Vostra
Maestà. Considerato che tutto quello
che ho mi viene da lei, tutto quello
che ho è suo. I miei servitori
rimarranno per facilitarle il lavoro e
i rapporti quotidiani che ora fanno a
me saranno fatti a lei.
Oggi alle due Vostra Maestà potrà
prendere, o far prendere, possesso
della mia casa.
Concludo queste righe come ho
concluso quelle che le precedono,
osandomi dire il più obbediente ma
anche il più fedele suddito di Vostra
Maestà. Armand, cardinale di
Richelieu.”»
«Ecco!» disse il re, lo sguardo
cupo e la voce roca, «eccovi tutti
contenti e ognuno di voi già crede di
essere il padrone!»
La regina Maria, che fra tutti era
quella che maggiormente contava su
quella supremazia, rispose per
prima:
«Sapete meglio di chiunque, Sire,
che qui siete voi il solo padrone e
che io per prima darò l’esempio
dell’obbedienza, ma mi permetterò
di esprimere il mio parere perché gli
affari non abbiano a soffrire del
ritiro del cardinale.»
«Quale, signora?» domandò il re.
«Qualunque parere espresso da voi
sarà benvenuto.»
«Sarebbe di formare, seduta
stante, un Consiglio per dirigere gli
affari interni in vostra assenza.»
«Dunque, ora che devo fare la
guerra insieme a mio fratello, non
vedete più nel fatto che mi allontani
quegli inconvenienti per la mia vita
e la mia salute che vi vedevate
quando la dovevo fare con il
cardinale?»
«Mi siete parso così deciso su
questo punto, figlio mio, nel
resistere alle preghiere mie e della
regina vostra moglie, che non ho più
osato tornarvi sopra.»
«E chi proporreste, signora, per
formare questo Consiglio?»
«Non vedo» rispose la regina
madre «chi potreste mettere al posto
di monsieur de Richelieu se non il
cardinale di Bérulle.»
«E poi?»
«Avete monsieur de La Vieuville
alle Finanze e monsieur de Marillac
ai Sigilli. Si possono lasciare.»
Il re fece un cenno con la testa.
«E alla Guerra?» domandò.
«Avete il maresciallo, fratello del
guardasigilli. Un Consiglio così,
composto da uomini devoti e
presieduto da voi, figlio mio,
basterebbe a provvedere alla
sicurezza dello Stato.»
«Inoltre» intervenne Monsieur,
«ci sono i due ammiragliati di
Lorient e del Ponent, da cui
certamente il cardinale ha dato le
dimissioni insieme a quelle del suo
ministero.»
«Dimenticate, signore, che li ha
acquistati uno da monsieur de Guise
e l’altro da monsieur de
Montmorency, e che li ha pagati un
milione ciascuno.»
«Va bene, glieli ricompreremo»
replicò Monsieur.
«Con i suoi soldi?» domandò il re
cui un certo spirito di giustizia
faceva apparire piuttosto vergognosa
questa transazione, di cui sapeva
Monsieur assolutamente capace.
Monsieur mangiò la foglia e,
impennandosi sotto lo sperone:
«Ma no, Sire» disse. «Con il
permesso di Vostra Maestà, io ne
ricomprerò una e credo che
monsieur de Condé ricomprerebbe
l’altra volentieri. A meno che il re
non preferisca che le ricompri io
entrambe. Di solito sono i fratelli dei
re a essere grandi ammiragli del
regno.»
«D’accordo, ci penseremo»
rispose il re.
«Vi farò solo osservare, figlio
mio» disse Maria de’ Medici, «che,
prima di affidare a monsieur de La
Vieuville, come ministro delle
Finanze, la somma lasciata nelle
casse dal cardinale di Richelieu,
senza farlo sapere a nessuno il re
potrebbe permettersi qualche
generosità, cosa che non sarebbe poi
altro che un atto di giustizia.»
«Non certo nei confronti di mio
fratello, comunque: a quanto pare, è
più ricco di noi! Non ha appena
detto di avere due milioni per
riacquistare l’ammiragliato del
Ponent e quello di Lorient?»
«Ho detto che li avrei trovati,
Sire. Monsieur de Richelieu ne ha
trovati sei sulla sua parola, presumo
di poterne trovare due ipotecando i
miei beni.»
«Io, che di beni non ne ho» disse
Maria de’ Medici, «avevo proprio
bisogno di quelle centomila lire che
avevo domandato al cardinale e di
cui lui me ne ha potuto dare solo
cinquantamila. Con le altre
cinquantamila, contavo di dare un
acconto al mio pittore, Rubens, che
finora ha ricevuto solo diecimila lire
per i ventidue quadri che ha dipinto
per la mia galleria del Luxembourg,
consacrati alla gloriosa memoria del
re vostro padre.»
«E in memoria del re mio padre»
disse Luigi XIII con un tono che
fece trasalire Maria de’ Medici, «le
avrete, signora.»
Poi, rivolgendosi ad Anna
d’Austria:
«E voi, signora» le chiese, «non
avete qualche analoga richiesta da
farmi?»
«Mi avevate autorizzata, Sire»
rispose Anna d’Austria abbassando
lo sguardo, «a far riassortire da
Lopez un filo di perle che mi
avevate regalato, perché alcune sono
morte. Ma sono perle tanto belle che
il costo di quelle simili, trovate a
fatica, ha superato l’enorme somma
di ventimila lire.»
«Le avrete, signora, ed è pagare
un decimo di quanto merita
l’interesse così sincero che
mostravate ieri per la mia salute,
quando siete venuta a supplicarmi di
non esporla alle nevi delle Alpi,
affrontando le operazioni con il
cardinale. Non avete altre preghiere
da rivolgermi?»
Anna tacque.
Maria de’ Medici prese la parola
per lei:
«So che la regina, mia figlia,
sarebbe felice di poter ricompensare
con un dono di diecimila lire la
dedizione della sua dama d’onore,
madame de Fargis, che manderebbe
la metà della somma a suo marito,
ambasciatore a Madrid, il quale, con
l’esiguo stipendio che riceve, non
riesce a rappresentare degnamente
Vostra Maestà.»
«Quel che chiede è tanto
modesto» rispose il re «che non
posso certo rifiutarglielo.»
«Quanto a me» intervenne
Monsieur, «spero che Vostra Maestà
sia tanto generosa, tenuto conto del
grado elevato che mi attribuisce
sotto i suoi comandi, di non esigere
che io faccia la guerra a mie spese,
come si dice, e voglia valutare per la
mia partecipazione alla
campagna...»
Monsieur esitò sulla cifra.
«Quanto?» domandò il re.
«Centocinquantamila lire,
almeno.»
«Comprendo» replicò il re con
accento lievemente ironico «che,
avendo appena speso due milioni per
i due ammiragliati, vi troviate un po’
in difficoltà per la vostra
partecipazione alle operazioni, ma vi
farò osservare che il cardinale, che
era solo mio ministro e che aveva
speso anch’egli quei due milioni per
comprare quelle stesse cariche dai
signori di Guise e di Montmorency,
invece di farsi dare da me o dalla
Francia centocinquantamila lire per
la sua partecipazione alla campagna,
ci prestava, alla Francia e a me, sei
milioni. È vero che non è mio
fratello, e che la parentela costa.»
«Ma se non va alla vostra
famiglia, figlio mio» osservò Maria
de’ Medici, «a chi deve andare il
denaro?»
«Avete ragione, signora» rispose
Luigi XIII, «e a questo proposito
abbiamo il simbolo del pellicano
che, quando non ha più cibo da dare
ai suoi piccoli, li nutre con il suo
sangue. È vero che si tratta dei suoi
figli e che, io, di figli non ne ho. Ma
forse, se non avesse figli, il
pellicano darebbe il suo sangue alla
famiglia. Vostro figlio, signora, avrà
le sue centocinquantamila lire per la
sua campagna.»
Luigi XIII sottolineò le parole
vostro figlio perché tutti sapevano
che Gaston era il figlio prediletto di
Maria de’ Medici.
«C’è altro?» domandò poi.
«Anch’io» disse Maria «avrei un
fedele servitore da ricompensare e,
benché nessuna ricompensa possa
pagare una così assoluta dedizione,
quando ho chiesto qualcosa per lui,
mi è sempre stata opposta la penuria
di denaro in cui ci trovavamo. Ora
che la Provvidenza vuole che quel
denaro che ci mancava...»
«Badate, signora» la interruppe il
re. «Avete detto la Provvidenza.
Questo denaro ci viene dal
cardinale, non dalla Provvidenza. Se
confondete l’uno con l’altra e il
cardinale diventa per noi la
Provvidenza, allora saremmo degli
empi a rivoltarci contro di lui,
perché sarebbe come rivoltarci
contro di essa.»
«Vi farò comunque osservare,
figlio mio, che nella ripartizione dei
vostri benefici monsieur Vautier non
ha avuto nulla.»
«Gli accordo la stessa somma
accordata all’amica della regina,
madame de Fargis, ma fermatevi
adesso, vi prego, perché sui tre
milioni ottocentottantamila lire che
la Provvidenza – no, sbaglio, il
cardinale – ci lascia,
duecentoquarantamila lire se ne
sono già andate e bisogna calcolare
che anch’io ho qualche fedele
servitore da ricompensare, non fosse
che il mio buffone l’Angely, che non
mi chiede mai niente.»
«Gode del favore della vostra
presenza, figlio mio» disse la regina.
«Il solo favore che nessuno gli
contende, madre mia. Ma è
mezzogiorno» osservò il re tirando
l’orologio fuori dalla tasca. «Alle
due devo prendere possesso dello
studio del cardinale ed ecco il mio
primo cameriere che gratta alla porta
per annunciarmi che il pranzo è
servito.»
«Buon appetito, fratello mio» gli
augurò Monsieur, che, al culmine
della gioia, già si vedeva insignito di
due ammiragliati e luogotenente
generale delle armate reali, con
centocinquantamila lire per la sua
campagna.
«Non devo augurarvene
altrettanto, signore» disse il re, «dato
che da questo punto di vista, grazie a
Dio, non ho bisogno di
rassicurazioni.»
E su questa battuta il re uscì,
piuttosto stupito che gli affari di
Stato avessero già avuto il potere di
fargli ritardare il pranzo, operazione
che aveva regolarmente luogo dalle
undici alle undici e dieci del
mattino.
Se il buon medico Héroard non
fosse morto sei mesi prima,
sapremmo, con l’approssimazione di
una cucchiaiata di minestra e una
ciliegia secca in più o in meno, che
cosa mangiò e bevve Sua Maestà
Luigi XIII durante quel pasto che
inaugurava l’era del suo regno
effettivo. Invece tutto quello che ne
sappiamo è che mangiò da solo con
il suo favorito Baradas, che all’una e
mezza salì in carrozza dicendo al
cocchiere: «Place Royale, palazzo
del cardinale», che alle due in punto,
guidato dal segretario Charpentier,
entrava nello studio e, sorridente,
con un sospiro di soddisfazione, si
sedeva sulla poltrona del ministro in
disgrazia, mormorando queste
parole di cui ignorava il peso e la
portata:
«Finalmente! Adesso regnerò!»
XII
Il re regna
Cresciuto tra le folli spese della
reggenza, durante la quale tutto il
denaro della Francia se ne andava in
feste e caroselli indetti in onore del
bel cavaliere giunto al potere come
servo della regina, quando la
Francia, impoverita dal saccheggio
del tesoro di Enrico IV, accumulato
con gran fatica da Sully, aveva visto
tutta la sua ricchezza passare nelle
mani dei d’Épernon, dei Guise, dei
Condé, insomma di tutti i suoi
grandi signori che bisognava
comprare a qualunque prezzo per
farsene uno scudo contro l’odio del
popolo che accusava a gran voce la
regina di aver assassinato il suo re,
Luigi XIII aveva sempre vissuto
poveramente fino al momento in cui
aveva nominato ministro monsieur
de Richelieu. Con una saggia
amministrazione ricalcata sul
modello di quella di Sully, e più
disinteressata di quella del suo
predecessore, il cardinale era
riuscito a rimettere ordine nelle
finanze e a ritrovare il metallo che
ormai si credeva essere proprietà
esclusiva della Spagna: l’oro.
A che prezzo però quel dittatore
della disperazione 1 aveva raggiunto
l’obiettivo! Non era allora pensabile
fare uso dello strumento cui si
ricorrerà nel 1789, senza tuttavia
riuscire a impedire la bancarotta del
1795: tassare i nobili e il clero. Se
solo lo avesse proposto, la sua
disgrazia sarebbe stata immediata.
Dovette dunque andare a cercarlo, e
lì lo sostenne la sua implacabile
fermezza, nelle viscere stesse della
Francia, nel popolo, fra i poveri.
Fosse anche il popolo dimagrito
giorno dopo giorno, occorreva
rovinare la Francia per salvarla: a
Occidente dagli inglesi, a Oriente e a
Nord dagli austriaci, a Sud dagli
spagnoli. In quattro anni, aumentò la
taglia 2 di diciannove milioni; e in
effetti, bisognava creare la flotta,
rifornire l’esercito. Si doveva
chiudere gli occhi sulla miseria della
gente, le orecchie alle grida dei
poveri – e questa era la causa del
suo sguardo cupo, del suo volto
lugubre. Soprattutto si doveva
trovare, senza filtri, né pozioni, né
anelli magici, un modo per
impadronirsi del re. Quel mezzo,
Richelieu lo trovò: Luigi XIII non
aveva mai avuto denaro, lui glielo
procurò.
Ecco da dove veniva la cieca
ammirazione del re per il suo
ministro.
Come non ammirare, infatti, un
uomo che impegnava la propria
parola per trovare un prestito di sei
milioni, quando il re, non solo sulla
sua parola, ma nemmeno mettendo
la sua firma, avrebbe trovato
cinquantamila lire?
Stentava quindi a credere ai tre
milioni ottocentottantamila lire di
Richelieu, e la prima cosa che chiese
a Charpentier fu la chiave del
famoso tesoro.
Charpentier, senza obiettare,
pregò il re di alzarsi, spostò la
scrivania in mezzo allo studio, alzò
il tappeto su cui il giorno prima il
cardinale e ora il re appoggiavano i
piedi, scoprì una botola di cui fece
scattare un meccanismo nascosto e
che, una volta aperta, offrì allo
sguardo un’enorme cassa di ferro.
Con una combinazione di lettere e
cifre che il segretario mostrò al re la
cassa si aprì con la stessa facilità
della botola e mostrò agli occhi
abbagliati di Luigi XIII la somma
che era tanto ansioso di vedere.
Poi, salutato il re, Charpentier si
ritirò rispettosamente obbedendo
con ogni probabilità agli ordini
ricevuti e lasciando una di fronte
all’altra le due maestà, dell’oro e del
potere.
A quell’epoca, in cui non
esistevano né banche né banconote
che rappresentassero i capitali, i
contanti in Francia erano rari. I tre
milioni ottocentottantamila lire del
cardinale consistevano quindi in un
milione circa di monete d’oro con
l’effigie di Carlo IX, di Enrico III e
di Enrico IV, un milione circa di
dobloni spagnoli, sette o
ottocentomila lire in lingotti
messicani e, per il resto, in un
sacchetto di diamanti, ognuno dei
quali, avvolto come una caramella
nella sua cartina, recava scritto su
un’etichetta il suo valore.
Invece del sentimento di esultanza
che aveva creduto di provare alla
vista dell’oro, Luigi XIII fu colto da
un’indicibile tristezza; dopo aver
esaminato le monete, riconosciuto le
diverse effigi, affondato il braccio in
quel mare dalle onde fulve per
saggiarne la profondità, dopo aver
soppesato sulla mano i lingotti
d’oro, ammirato in controluce la
limpidezza dei diamanti e rimesso
ogni cosa al suo posto, si rialzò e,
dritto in piedi, guardò quei milioni
che tanta fatica erano costati a colui
che li aveva raccolti e che erano il
frutto del più puro disinteresse.
Rifletteva sulla facilità con cui da
quella somma aveva già sottratto
quasi trecentomila lire per
ricompensare sia devozioni che
lavoravano contro di lui sia l’odio
per l’uomo cui tale somma si doveva
e, per quanto si sforzasse di non
porsi domande di quel genere, si
chiedeva se nelle sue mani quell’oro
sarebbe stato utile alla Francia e a
lui quanto lo sarebbe stato
rimanendo fra le mani del suo
ministro.
Poi, senza toglierne nemmeno una
monetina, premette due volte il
campanello per chiamare
Charpentier, gli ordinò di richiudere
la cassa e la botola; una volta chiuse,
gli rese la chiave.
«Della somma chiusa in questa
cassa non darete nulla» disse, «se
non dietro una mia richiesta scritta.»
Charpentier s’inchinò.
«Con chi lavorerò?» gli domandò
il re.
«Il signor cardinale» rispose il
segretario «lavorava sempre da
solo.»
«Da solo? E a che cosa lavorava,
da solo?»
«Agli affari di Stato, Sire.»
«Ma non si lavora da soli agli
affari di Stato!»
«Aveva agenti che gli facevano
rapporto.»
«Quali erano i più importanti?»
«Padre Joseph, lo spagnolo
Lopez, monsieur de Souscarrières e
altri di cui avrò l’onore di indicare il
nome a Vostra Maestà a mano a
mano che si presenteranno o che vi
presenterò i loro rapporti. Tutti sono
comunque stati avvertiti che d’ora in
poi dovranno rendere conto a Vostra
Maestà.»
«Va bene.»
«Inoltre, Sire» proseguì
Charpentier, «ci sono gli agenti
inviati dal signor cardinale alle
diverse potenze europee: monsieur
de Bautru in Spagna, monsieur de
La Saludie in Italia e monsieur de
Charnassé in Germania. Dei corrieri
hanno annunciato per oggi o al
massimo domani il loro ritorno.»
«Appena saranno tornati e avrete
trasmesso loro gli ordini del
cardinale, li condurrete da me. In
questo momento c’è qualcuno che
aspetta?»
«Monsieur Cavois, capitano delle
guardie del signor cardinale,
chiederebbe l’onore di essere
ricevuto da Vostra Maestà.»
«Ho sentito dire che monsieur
Cavois è un brav’uomo e un bravo
soldato. Sarò lieto di vederlo.»
Charpentier si diresse alla porta
d’ingresso.
«Monsieur Cavois» disse.
Cavois comparve.
«Entrate, entrate, monsieur
Cavois» gli disse il re. «Volevate
parlarmi?»
«Sì, Sire. Ho una grazia da
chiedere a Vostra Maestà.»
«Dite pure. Siete un buon
servitore, sarà per me un piacere
accordarvela.»
«Sire, desidero che Vostra Maestà
mi dia licenza di congedarmi.»
«Congedarvi! E perché, monsieur
Cavois?»
«Ero un uomo del cardinale,
perché era ministro, ma dal
momento che il signor cardinale non
è più ministro io non sono più
nessuno.»
«Vi correggo, signore, siete un
mio uomo.»
«So che se Vostra Maestà lo esige
dovrò rimanere al suo servizio, ma
la avverto che sarò un cattivo
servitore.»
«E perché dovreste essere un
cattivo servitore per me se eravate
un buon servitore per il cardinale?»
«Perché ci mettevo il cuore, Sire.»
«E con me non lo mettereste?»
«Confesso, Sire, che con Vostra
Maestà ci sarebbe soltanto il
dovere.»
«E che cosa vi legava così al
cardinale?»
«Il bene che mi aveva fatto.»
«E se vi voglio fare del bene
anch’io, quanto e più del cardinale?»
Cavois scosse la testa.
«Non è più la stessa cosa.»
«Non è più la stessa cosa?» ripeté
il re.
«No, il bene si percepisce a
seconda del bisogno che ne avete
quando ve lo si fa. Quando il signor
cardinale mi ha fatto del bene, mi
ero appena sposato. Il signor
cardinale mi ha aiutato ad allevare i
miei figli e, ancora di recente, mi ha
accordato, o meglio ha accordato a
mia moglie, un privilegio grazie al
quale guadagneremo dodici o
quindicimila lire all’anno.»
«Ah! Il signor cardinale accorda
alle mogli dei suoi servitori cariche
di Stato che rendono dai dodici ai
quindicimila lire all’anno. Buono a
sapersi!»
«Non ho detto carica, Sire, ho
detto privilegio.»
«E quale sarebbe il privilegio
accordato a madame Cavois?»
«Il diritto di affittare, a metà con
monsieur Michel, le portantine nelle
vie di Parigi.»
Il re rifletté un istante, guardando
da sotto in su Cavois, immobile,
ritto, con il cappello nella mano
destra e con il mignolo della sinistra
incollato alla cucitura delle braghe.
«E se, monsieur Cavois, vi
affidassi nelle mie guardie lo stesso
grado che avevate in quelle del
cardinale?»
«Avete già monsieur de Jussac,
Sire, che è un ufficiale irreprensibile
al quale Vostra Maestà non vorrà
certo arrecare un dispiacere.»
«Nominerò Jussac maresciallo di
campo.»
«Se monsieur de Jussac – cosa di
cui non dubito – ama Vostra Maestà
come io amo il signor cardinale,
preferirà rimanere capitano vicino al
re che maresciallo di campo lontano
da lui.»
«Ma se lasciate il servizio,
monsieur Cavois...»
«Tale è il mio desiderio, Sire.»
«... a titolo di ricompensa per il
tempo passato al servizio del signor
cardinale, accettereste volentieri una
gratifica di millecinquecento o
duemila pistole?»
«Sire» rispose Cavois,
inchinandosi, «del tempo passato al
servizio del signor cardinale sono
stato ricompensato secondo i miei
meriti e anche di più. Stiamo per
fare la guerra, Sire, e per una guerra
occorre denaro, molto denaro.
Tenete le gratifiche per quelli che
combatteranno, e non per quelli che,
come me, avendo votato a un uomo
la loro sorte, cadono insieme a
quell’uomo.»
«Tutti i servitori del cardinale
sono come voi, monsieur Cavois?»
«Credo di sì, Sire, e mi considero
uno dei meno degni.»
«Quindi non ambite a niente, non
desiderate niente?»
«Nient’altro, Sire, che seguire il
signor cardinale ovunque andrà e
continuare a far parte dei suoi
familiari, anche come l’ultimo dei
suoi servitori.»
«Va bene, monsieur Cavois»
rispose il re, seccato da questa
ostinazione del capitano nel rifiutare
qualsiasi offerta. «Siete libero.»
Cavois salutò, uscì camminando
all’indietro e urtò Charpentier che
stava entrando.
«E voi, Charpentier» gli gridò il
re, «rifiuterete anche voi, come
Cavois, di servirmi?»
«No, Sire, perché ho ricevuto dal
signor cardinale l’ordine di rimanere
presso Vostra Maestà fino al
momento in cui un altro ministro
prenda il suo posto o Vostra Maestà
sia stata messa perfettamente al
corrente di tutto quanto concerne il
lavoro.»
«E quando sarò stato messo al
corrente del lavoro, o un altro
ministro s’installerà, che cosa
farete?»
«Chiederò a Vostra Maestà il
permesso di andare a raggiungere il
signor cardinale, che è abituato a
essere servito da me.»
«E se» replicò il re «io chiedessi
al signor cardinale di lasciarvi
presso di me? Dato che avrò un
ministro che, non facendo tutto
come il signor cardinale, mi lascerà
qualcosa da fare, ho bisogno di un
uomo onesto e intelligente e so che
voi avete entrambe le qualità.»
«Non dubito, Sire, che il signor
cardinale acconsentirebbe
immediatamente alla richiesta di
Vostra Maestà, essendo io troppo
poca cosa perché egli la contenda al
suo padrone e signore. Ma allora
sarei io, Sire, a buttarmi ai vostri
piedi e a dirvi: “Ho un padre di
settant’anni, una madre di sessanta.
Posso abbandonarli per il signor
cardinale, che li ha soccorsi e ancora
li soccorre nella loro miseria, ma dal
momento in cui non sono più con lui
il mio posto è con loro. Sire,
permettete a un figlio di andare a
chiudere gli occhi ai suoi vecchi
genitori”. E sono sicuro, Sire, che
Vostra Maestà non solo esaudirebbe
la mia preghiera, ma anche la
approverebbe.»
«Onorerai il padre e la madre,
per avere lunga vita» rispose Luigi
XIII, sempre più seccato. «Il giorno
in cui un nuovo ministro prenderà il
posto del signor cardinale, sarete
libero, monsieur Charpentier.»
«Devo rendere a Vostra Maestà la
chiave che mi ha affidato?»
«No, tenetela, perché se il signor
cardinale, che ha servitori così
eccellenti che il re deve
invidiarglieli, l’ha data a voi,
significa che non poteva essere in
mani più oneste. Ma conoscete la
mia scrittura e il mio sigillo:
onorateli.»
Charpentier s’inchinò.
«Non c’è qui un certo Rossignol»
domandò il re, «di cui ho sentito
parlare come capace di decifrare
ogni codice segreto?»
«Sì, Sire.»
«Desidero vederlo.»
«Verrà premendo tre volte questo
campanello. Sua Maestà desidera
che lo chiami io o vuole chiamarlo
lei stessa?»
«Chiamatelo» disse il re.
Charpentier premette il
campanello e la porta di Rossignol si
aprì.
Rossignol aveva in mano un
foglio.
«Devo andare o rimanere, Sire?»
domandò Charpentier.
«Lasciateci» disse il re.
Charpentier uscì.
«Siete voi Rossignol?» domandò
il re.
«Sì, Sire» rispose l’ometto,
continuando a scrutare il foglio.
«Vi si dice abile decodificatore...»
«È vero, Sire, che da questo punto
di vista credo di essere senza pari.»
«Siete capace di decifrare
qualunque codice?»
«Finora ce n’è uno solo che non
sono riuscito a decifrare, ma con
l’aiuto di Dio ci riuscirò, come ho
decifrato gli altri.»
«Qual è l’ultimo codice che avete
decifrato?»
«Una lettera del duca di Lorena a
Monsieur.»
«A mio fratello?»
«Sì, Sire, a Sua Altezza Reale.»
«E che cosa diceva il duca di
Lorena a mio fratello?»
«Vostra Maestà desidera
saperlo?»
«Certo!»
«Vado a prenderla.»
Rossignol mosse un passo per
uscire; poi, volgendosi indietro:
«Originale o traduzione?»
domandò.
«Entrambe, signore.»
Rossignol tornò nel suo studio,
agile come il furetto di cui aveva la
conformazione cerebrale, aprendo la
porta solo di quel tanto che gli
occorreva per passare, e ricomparve
quasi subito con in mano i due fogli
richiesti, continuando, mentre
camminava, a cercare di decifrare
quello con cui era inizialmente
entrato.
«Eccoli, Sire.»
E gli porse l’originale del duca di
Lorena insieme alla traduzione.
Il re cominciò con l’originale, e
lesse:
«“Se Giove...”»
«Monsieur» spiegò Rossignol,
interrompendo il re.
«“Verrà cacciato dall’Olimpo...”»
proseguì il re.
«Dal Louvre» disse Rossignol.
«E perché Monsieur dovrebbe
essere cacciato dalla corte?»
domandò il re.
«Perché cospira» rispose
tranquillamente Rossignol.
«Monsieur cospira? E contro
chi?»
«Contro Vostra Maestà e contro lo
Stato.»
«Vi rendete conto di quello che
dite, signore?»
«Dico a Vostra Maestà quello che
leggerà, se va avanti.»
«“... può”» proseguì Luigi XIII
«“rifugiarsi a Creta.”»
«In Lorena.»
«“Minosse...”»
«Il duca Charles IV.»
«“... sarà felice di offrirgli
ospitalità. Ma la salute di Cefalo...”»
«La salute di Vostra Maestà.»
«Sono io Cefalo?»
«Sì, Sire.»
«So chi era Minosse, ma non
ricordo chi fosse Cefalo. Chi era?»
«Un principe della Tessaglia, Sire,
sposo di una principessa ateniese
molto bella che aveva esiliato perché
gli era stata infedele, ma con la
quale poi si rappacificò.»
Luigi XIII aggrottò le ciglia.
«Ah!» disse, «e questo Cefalo,
marito di una sposa infedele con la
quale si è rappacificato malgrado la
sua infedeltà, sarei io?»
«Sì, Sire, siete voi» rispose
tranquillamente Rossignol.
«Ne siete sicuro?»
«Perbacco! Del resto, Vostra
Maestà vedrà.»
«Dove eravamo?»
«Se Monsieur verrà cacciato dal
Louvre, può rifugiarsi in Lorena. Il
duca Charles IV sarà felice di
offrirgli ospitalità. “Ma la salute di
Cefalo...”, cioè del re: eravate
arrivato qui, Sire.»
Il re proseguì.
«“... non può durare.” Come, non
può durare?»
«Significa che Vostra Maestà è
malata, molto malata, per lo meno
secondo il duca di Lorena.»
«Ah!» fece il re impallidendo,
«sono malato, molto malato!»
Si avvicinò a uno specchio e si
guardò, cercò in tasca dei sali, ma,
non trovandoli, scosse la testa, cercò
di controllarsi e, con voce alterata,
continuò a leggere:
«“Perché, in caso di morte, non
far sposare Procri...” Procri?»
«Sì, la regina» fece Rossignol.
«Procri era la moglie infedele di
Cefalo.»
«“... non far sposare Procri con
Giove?” Con Monsieur?» esclamò il
re.
«Sì, Sire, con Monsieur.»
«Con Monsieur!»
Il re si asciugò con il fazzoletto il
sudore che gli colava dalla fronte e
continuò:
«“Corre voce che l’Oracolo...”»
«Il signor cardinale.»
«“... voglia sbarazzarsi di Procri
per far sposare Venere...”»
Il re guardò Rossignol che, pur
rispondendo al re, continuava a
tormentare il foglio che aveva in
mano.
«Venere?» ripeté il re, impaziente.
«Madame de Combalet, madame
de Combalet» disse in fretta
Rossignol.
«“... a Cefalo”» proseguì il re.
«Farmi sposare madame de
Combalet? A me? Dove hanno preso
questa idea? “Nell’attesa, che Giove
– cioè Monsieur – continui a fare la
corte a Ebe...”»
«Alla principessa Maria.»
«“... e a fingere, a proposito di
questa passione, il più profondo
disaccordo con Giunone.”»
«Con la regina madre.»
«“È importante che, per quanto
astuto sia, o meglio creda di essere,
l’Oracolo – il cardinale – si inganni
e creda Giove innamorato di Ebe.”
Firmato Minosse.»
«Charles IV.»
«Ah» mormorò il re, «ecco il
segreto di questo grande amore che
si sacrifica al posto di luogotenente
generale! Ah, la mia salute non può
durare! Ah, quando sarò morto, si
farà sposare la mia vedova a mio
fratello! Ma, grazie a Dio, benché
malato, e molto malato, come
dicono loro, non sono ancora morto.
Ah, mio fratello cospira! Ah, e se la
sua cospirazione viene scoperta può
ritirarsi in Lorena e il duca lo
accoglierà con piacere! Pensano che
la Francia non possa mangiarsi in un
boccone la Lorena e il suo duca?
Non bastava che ci avesse regalato i
Guise!»
Poi, voltandosi di scatto verso
Rossignol:
«E come è arrivata in mano al
cardinale questa lettera?» domandò
il re.
«Era stata affidata a monsieur
Senelle.»
«Uno dei miei medici» osservò
Luigi XIII. «Sono proprio
circondato da gente fedele.»
«Ma il cameriere di monsieur
Senelle, in previsione di qualche
cabala fra la corte di Lorena e quella
francese, era già stato comprato da
padre Joseph.»
«Un uomo capace questo padre
Joseph, a quanto pare» disse il re.
Rossignol strizzò l’occhio.
«L’ombra del signor cardinale!»
disse.
«E allora, il cameriere di
Senelle?»
«Gli ha rubato la lettera e ce l’ha
mandata.»
«E allora Senelle che cosa ha
fatto?»
«Non aveva ancora fatto molta
strada da Nancy, è tornato indietro e
ha detto al duca che aveva per
sbaglio bruciato la sua lettera
insieme ad altre carte. Il duca non ha
sospettato niente e gliene ha dato
un’altra, che è quella che Sua
Altezza Reale Monsieur ha
ricevuto.»
«E che cosa ha risposto mio
fratello Giove al saggio Minosse?»
domandò il re con un riso febbrile
che agitò per un attimo i suoi baffi
anche dopo che ebbe finito di
parlare.
«Non lo so ancora. È la sua
risposta che ho in mano.»
«Come? Avete in mano la sua
risposta?»
«Sì, Sire.»
«Datemi.»
«Vostra Maestà non ci capirà
niente, visto che non ci ho ancora
capito niente nemmeno io.»
«Come mai?»
«Perché, nel timore di qualche
sorpresa a proposito della prima
lettera smarrita, hanno inventato un
nuovo codice.»
Il re diede un’occhiata alla lettera
e lesse queste poche parole
assolutamente incomprensibili:
«Astre so-Be-L’amb nella gioia
L.M.T. Se vuole essere Se...»
«E riuscirete a scoprire che cosa
significa?»
«Domani lo saprò, Sire.»
«Non è la scrittura di mio
fratello.»
«No, questa volta il cameriere non
ha osato rubare la lettera per paura
di essere sospettato, e si è
accontentato di copiarla.»
«E questa quando è stata scritta?»
«Oggi, verso mezzogiorno, Sire.»
«E ne avete già la copia?»
«Padre Joseph me l’ha consegnata
alle due.»
Il re rimase pensieroso un istante;
poi, voltandosi verso l’ometto, che
gli aveva tolto la lettera in codice
dalle mani ed era intento a
decifrarla:
«Resterete con me, vero,
monsieur Rossignol?» gli domandò.
«Sì, Sire, fino a che questa lettera
non sarà stata decifrata.»
«Come, fino a che questa lettera
non sarà stata decifrata! Credevo
foste un uomo del cardinale.»
«Lo sono, infatti, ma solo finché è
ministro. Dal momento che non è
più ministro, non ha più bisogno di
me.»
«Ma sono io che ho bisogno di
voi.»
«Sire» disse Rossignol, scuotendo
la testa con un movimento così
deciso che gli occhiali rischiarono di
cadergli, «domani lascio la Francia.»
«E perché?»
«Perché servendo il cardinale,
cioè Vostra Maestà, decifrando i
codici che inventavano per le loro
cabale, mi sono fatto fra gli
aristocratici nemici terribili, nemici
contro i quali solo il cardinale
poteva proteggermi.»
«E se sarò io a proteggervi?»
«Se anche Sua Maestà volesse
farlo...»
«Allora?»
«... non ne avrà il potere.»
«Come!» disse il re aggrottando la
fronte.
«Inoltre» continuò Rossignol, «io
devo tutto al signor cardinale. Ero
un povero ragazzo di Alby e il caso
volle che il signor cardinale venisse
a conoscenza del mio talento di
decodificatore. Mi chiamò, mi offrì
un posto da mille scudi, poi da
duemila, poi aggiunse venti pistole
per ogni lettera che decifravo, e così,
in sei anni, con una o due lettere
almeno da decifrare ogni settimana,
ho raccolto una bella somma, che ho
solidamente investito.»
«Dove?»
«In Inghilterra.»
«Andate in Inghilterra per entrare
al servizio di re Carlo?»
«Re Carlo mi ha offerto duemila
pistole all’anno e cinquanta pistole
per ogni lettera decifrata per lasciare
il servizio del cardinale. Ho
rifiutato.»
«E se vi offrissi la stessa cifra di
re Carlo?»
«Sire, la vita è il bene più
prezioso, visto che, una volta sotto
terra, sopra non ci si ritorna. Ora,
con il signor cardinale in disgrazia,
sia pure con la reale protezione di
Vostra Maestà e forse proprio a
causa di tale protezione, non mi
resterebbe una settimana da vivere.
C’è voluta tutta l’autorità del signor
cardinale perché non lasciassi Parigi
questa mattina, nell’attimo stesso in
cui lui se ne andava di casa, e fossi
disposto a sacrificargli la vita e il
resto rimanendo ancora ventiquattro
ore al servizio di Vostra Maestà.»
«Quindi a me non sareste disposto
a sacrificare la vostra vita?»
«La devozione si deve solo ai
parenti o a un benefattore. Cercate la
devozione fra i vostri parenti, Sire, o
fra coloro cui avete fatto del bene.
Non dubito che la troverete.»
«Non dubitate, eh? Io ne dubito,
invece!»
«E ora che ho detto a Vostra
Maestà perché sono rimasto, e cioè
per servirla, ora che conosce i rischi
in cui posso incorrere se resto in
Francia e la mia fretta di lasciarla,
supplicherò Vostra Maestà di non
opporsi alla mia partenza, per la
quale tutto è già pronto.»
«Non mi opporrò, ma all’esplicita
condizione che non entriate al
servizio di un principe straniero che
possa impiegare il vostro talento
contro la Francia.»
«Ne do la mia parola a Vostra
Maestà.»
«Insomma, il signor cardinale è
davvero fortunato ad avere servitori
come voi e i vostri colleghi.»
Il re guardò l’orologio.
«Sono le quattro» disse. «Domani
alle dieci del mattino sarò qui.
Cercate di aver decifrato per allora il
nuovo codice.»
«L’avrò fatto, Sire.»
Poi, siccome il re prendeva il
cappello per ritirarsi:
«Sua Maestà non vuole parlare
con padre Joseph?» domandò
Rossignol.
«Sì, sì, certo» disse il re, «dite a
Charpentier di farlo entrare appena
arriva.»
«È qui, Sire.»
«Che entri, allora. Gli parlerò
subito.»
«Eccolo, Sire» disse Rossignol,
scostandosi per lasciare il posto
all’Eminenza Grigia.
Il frate comparve subito e si
fermò umilmente sulla soglia dello
studio.
«Venite, venite avanti, padre»
disse il re.
Il frate si avvicinò a capo chino,
con le mani incrociate sul petto e
tutti i segni apparenti dell’umiltà.
«Sono qui, Sire» disse il
cappuccino fermandosi a quattro
passi dal re.
«Eravate qui, padre» osservò il re
guardando il frate con curiosità,
perché quello che gli sfilava davanti
agli occhi era un mondo
completamente nuovo.
«Sì, Sire.»
«Da molto tempo?»
«Da quasi un’ora.»
«E avete aspettato un’ora senza
farmi dire che c’eravate?»
«Un umile frate, come sono io,
non deve fare altro, Sire, che
attendere gli ordini del suo re.»
«Si dice siate un uomo di grandi
capacità, padre.»
«Sono i miei nemici a dirlo, Sire»
replicò il frate, con gli occhi
santamente abbassati.
«Aiutavate il cardinale a portare il
peso del suo ministero?»
«Come Simone di Cirene aiutò
Nostro Signore a portare la croce.»
«Siete un grande campione del
cristianesimo, padre; se foste vissuto
nell’XI secolo, avreste predicato la
crociata, come un secondo Pietro
l’Eremita.»
«L’ho predicata nel XVII, Sire,
ma invano.»
«E come?»
«Ho scritto un poema latino,
intitolato La Turciade, per spingere i
principi cristiani contro i
mussulmani. Ma quei tempi erano
passati, o non erano ancora arrivati.»
«Rendevate grandi servigi al
cardinale?»
«Sua Eminenza non poteva fare
tutto. Facevo quel poco che potevo
per aiutarla.»
«Quanto vi dava all’anno il
cardinale?»
«Niente, Sire. Al nostro ordine è
vietato ricevere altro che elemosine.
Sua Eminenza pagava solo la mia
carrozza.»
«Avete una carrozza?»
«Sì, Sire, ma non per vanità.
Prima avevo un asino.»
«L’umile cavalcatura di Nostro
Signore» osservò il re.
«Monsignore però trovava che
non fosse abbastanza veloce.»
«E vi ha regalato una carrozza?»
«No, Sire, prima un cavallo. Per
umiltà, non volevo avere una
carrozza. Disgraziatamente, quel
cavallo era una giumenta, e così un
giorno che il mio segretario, padre
Ange Sabini, montava uno
stallone...»
«Sì, capisco» interruppe il re, «e
allora avete accettato la carrozza che
il cardinale vi aveva offerto?»
«Mi rassegnai, sì, Sire. Poi ho
pensato» proseguì il frate «che
sarebbe stato gradito a Dio che
coloro che si umiliavano fossero
glorificati.»
«Benché il cardinale si sia ritirato,
desidero tenervi accanto a me,
padre» riprese il re. «Mi direte quali
favori desiderate che io vi renda.»
«Nessuno, Sire. Forse per la
salvezza della mia anima mi sono
già inoltrato fin troppo sulla via
degli onori.»
«Ma avrete un desiderio
qualunque che io possa
soddisfare...»
«Quello di ritornare al mio
convento da dove forse non sarei
mai dovuto uscire.»
«Siete troppo utile agli affari dello
Stato perché io ve lo consenta.»
«Io vedevo solo attraverso gli
occhi di Sua Eminenza, Sire. Spenta
la fiaccola, sono cieco.»
«In ogni condizione, padre, anche
in quella religiosa, è consentita
un’ambizione proporzionata al
proprio merito. Dio non offre un
talento perché colui che lo ha
ricevuto non lo metta a frutto. Il
signor cardinale è per voi un
esempio dell’altezza che si può
raggiungere.»
«E dalla quale, quindi, si può
anche cadere.»
«Ma da qualsiasi altezza si cada,
quando si cade con il berretto
cardinalizio la lotta è sopportabile.»
Un lampo di cupidigia scivolò tra
le ciglia abbassate del cappuccino.
E quel lampo non sfuggì al re.
«Avete mai sognato gli alti gradi
ecclesiastici?»
«Forse sì, con il signor cardinale,
sono stato abbagliato da questi
sogni.»
«Perché solamente con il
cardinale?»
«Perché per raggiungere questo
obiettivo mi ci sarebbe voluto tutto
il credito di cui lui gode a Roma.»
«Credete che il mio credito non
valga il suo?»
«Vostra Maestà ha cercato di far
dare il berretto all’arcivescovo di
Tours, che era arcivescovo, a
maggior ragione non ci riuscirebbe
con un povero cappuccino.»
Luigi XIII lanciò a padre Joseph
uno sguardo penetrante, ma era
impossibile leggere alcunché su quel
volto di marmo, in quegli occhi
abbassati. Solo le labbra si
muovevano.
«Inoltre» proseguì il cappuccino,
«c’è un fatto grave che domina tutti
gli altri: in quei compiti che Dio e il
signor cardinale mi hanno imposto,
ci sono occasioni innumerevoli di
compiere peccati che
compromettono la salvezza della
nostra anima. Ora, con il signor
cardinale, che ha avuto da Roma
grandi poteri – penitenziali e
remissionali –, non mi devo
preoccupare di niente; se durante il
giorno pecco in azioni o in parole, la
sera mi confesso, monsignore il
cardinale mi assolve, tutto è detto, io
posso dormire tranquillo. Ma se
servissi un padrone laico, fosse
anche un re, questo re non mi
potrebbe assolvere. Non potrei più
peccare, e senza poter peccare non
farei il mio lavoro come si deve.»
Il re continuava a guardare il frate
che parlava e, via via che quello
parlava, una certa ripugnanza gli si
dipingeva sul viso.
«E quando desiderate ritornare al
vostro convento?» domandò quando
padre Joseph ebbe finito.
«Non appena avrò il permesso di
Vostra Maestà.»
«Lo avete, padre» disse secco il
re.
«Vostra Maestà ha esaudito ogni
mio desiderio» disse il cappuccino,
incrociando le mani sul petto e
inchinandosi fino a terra.
E con lo stesso passo rigido e
raggelato con cui era entrato, il
passo di una statua, uscì senza
nemmeno voltarsi per salutare
ancora il re dalla soglia.
«Ipocrita e ambizioso, te non ti
rimpiango certo!» mormorò Luigi
XIII.
Poi, dopo averlo seguito con lo
sguardo nella penombra
dell’anticamera:
«Comunque» disse, «c’è una sola
cosa certa, ed è che se questa sera io
dessi le dimissioni da re, come
questa mattina il cardinale le ha date
da ministro, non troverei per
seguirmi in esilio e condividere la
mia disgrazia non dico quattro
uomini, ma neanche tre, neanche
due, e forse neanche uno.»
Poi, riprendendosi:
«Ma sì» disse, «c’è il mio buffone
l’Angely. È vero però che è
matto!» 3

1 Espressione di Michelet. [NdA]


2 Tributo straordinario imposto, generalmente
dal paese vittorioso, al popolo dopo una guerra.
[NdT]
3 Buffone in francese si dice fou, come matto.
[NdT]
XIII
Gli ambasciatori
L’indomani alle dieci precise il re,
come aveva detto, si trovava nello
studio del cardinale.
Le cose che andava scoprendo,
pur umiliandolo, lo interessavano
profondamente.
Rientrato al Louvre, il giorno
prima, non aveva visto nessuno, si
era chiuso in camera con Baradas e,
per ricompensarlo del servizio che
gli aveva reso sbarazzandolo del
cardinale, gli aveva dato un buono di
tremila pistole da far valere con
Charpentier.
Era più che giusto che, avendo
fatto più degli altri, Baradas fosse
ricompensato per primo.
Comunque, prima di dare a
Monsieur le sue centocinquantamila
lire, alla regina le sue trentamila,
alla regina madre le sue
sessantamila, non gli sarebbe
spiaciuto vedere la risposta di
Monsieur al duca di Lorena, risposta
che Rossignol gli aveva promesso
per le dieci del mattino seguente.
Ora, come abbiamo detto, alle
dieci in punto il re era entrato nello
studio del cardinale e, prima ancora
di aver buttato il mantello su una
poltrona e appoggiato il cappello su
un tavolo, aveva premuto tre volte il
campanello.
Rossignol comparve con
l’abituale puntualità.
«Ebbene?» domandò il re.
«Ebbene, Sire, ce l’abbiamo, quel
famoso codice!»
«Svelto, dammi! Prima la
chiave.»
«Eccola, Sire.»
E in testa alla versione, sullo
stesso foglio, gli presentò la chiave.
Il re lesse:

Se il re
Astre so la regina
Be la regina madre
L’amb Monsieur
L.M. il cardinale
T. la morte
Pif-paf la guerra
zane il duca di Lorena
gier madame de Chevreuse
Oel madame de Fargis
O incinta

«E adesso?» domandò.
«Applicate il codice, Sire.»
«No» disse il re, «fatelo voi, che
siete più pratico. Mi romperei la
testa in questo lavoro.»
Rossignol prese il foglio e lesse:
La regina, la regina madre e il duca
d’Orléans nella gioia. Il cardinale morto.
Il re vuole essere re. La guerra con il
principe delle Marmotte decisa, ma a capo
vi è il duca d’Orléans. Il duca d’Orléans,
innamorato della figlia del duca di Lorena,
non vuole in nessun caso sposare la
regina, che ha sette anni più di lui. Teme
solo che, con le premure di madame de
Fargis o di madame de Chevreuse, lei sia
incinta al momento della morte del re.
Gaston d’Orléans

Il re aveva ascoltato senza


interrompere. Solo, si era a più
riprese asciugato la fronte, rigando il
pavimento con la rotella del suo
sperone.
«Incinta» mormorò, «incinta. In
ogni modo, se sarà incinta, non lo
sarà di me.»
Poi, rivolgendosi a Rossignol:
«Sono le prime lettere di questo
genere che decifrate, signore?»
«Oh, no, Sire. Ne ho già decifrate
dieci o dodici simili.»
«Come! Il signor cardinale non
me le mostrava?»
«Perché tormentare Vostra
Maestà, se lui vegliava che non vi
capitasse niente?»
«Ma accusato, cacciato da quella
gente, perché non si è servito delle
armi che aveva contro di loro?»
«Ha temuto che facessero più
male al re che ai suoi nemici.»
Il re fece qualche passo su e giù,
avanti e indietro nello studio, a testa
bassa e con il cappello sugli occhi.
Poi, tornando verso Rossignol:
«Fatemi una copia di ognuna di
quelle lettere cifrate, ma con sopra la
chiave.»
«Sì, Sire.»
«Credete che ce ne saranno
altre?»
«Certamente, Sire.»
«Chi devo ricevere oggi?»
«Questo non mi riguarda, Sire. Io
mi occupo solo dei miei codici. È a
monsieur Charpentier che dovete
chiedere.»
Prima ancora che Rossignol fosse
uscito, il re aveva premuto due volte
con mano febbrile il campanello.
Colpi rapidi e violenti che
provavano lo stato d’animo del re.
Charpentier entrò veloce, ma si
fermò sulla soglia.
Il re era rimasto pensieroso, gli
occhi fissi a terra, un pugno
appoggiato sulla scrivania del
cardinale, mormorando:
«Incinta... La regina incinta... Uno
straniero sul trono di Francia. Un
inglese, magari!»
Poi, a voce più bassa, come se
temesse lui stesso di sentire quello
che diceva:
«Non c’è niente di impossibile. Si
dà per certo che l’esempio sia già
stato dato, e in famiglia.»
Assorto in questo pensiero, il re
non aveva visto Charpentier.
Credendo che non avesse risposto
alla chiamata, rialzò impaziente la
testa, pronto a premere di nuovo il
campanello, quando lui, intuendo
dal gesto la sua intenzione, si
affrettò a fare un passo avanti,
dicendo:
«Eccomi, Sire.»
«Bene» disse il re guardandolo e
cercando di riprendere il controllo.
«Che cosa facciamo oggi?»
«Sire, il conte di Bautru è arrivato
dalla Spagna e il conte di La Saludie
da Venezia.»
«Che cosa ci sono andati a fare?»
«Lo ignoro, Sire. Ho avuto
l’onore di dirvi ieri che era stato il
signor cardinale a mandarli e ho
aggiunto che monsieur de Charnassé
sarebbe arrivato anche lui dalla
Svezia, stasera o domani al più
tardi.»
«Li avete informati che il
cardinale non è più ministro e che
sarò io a riceverli al suo posto?»
«Ho trasmesso loro l’ordine di
Sua Eminenza di rendere conto a
Sua Maestà della loro missione
come avrebbero fatto con lei.»
«Chi è arrivato per primo?»
«Monsieur de Bautru.»
«Appena sarà qui, fatelo entrare.»
«È già qui.»
«Che entri, allora.»
Charpentier si voltò, pronunciò
qualche parola a bassa voce e si fece
da parte per lasciar entrare Bautru.
L’ambasciatore era vestito da
viaggio e si scusò di presentarsi così
al re, ma aveva creduto di dover
parlare con il cardinale e, una volta
in anticamera, non aveva voluto fare
aspettare Sua Maestà.
«Monsieur de Bautru» gli disse il
re, «so che il signor cardinale ha
grande stima di voi e vi considera un
uomo sincero, dichiarando che
preferisce la semplice coscienza di
un Bautru a due cardinali di
Bérulle.»
«Credo, Sire, di essere degno
della fiducia di cui mi onorava il
signor cardinale.»
«E vi mostrerete degno della mia,
vero, signore, dicendomi tutto quello
che direste a lui?»
«Tutto, Sire?» domandò Bautru
guardando fisso il re.
«Tutto. Sono alla ricerca della
verità e la voglio intera.»
«Allora, Sire, cominciate con il
sostituire il vostro ambasciatore
Fargis che, invece di seguire le
istruzioni del cardinale, tutte intese
alla gloria e alla grandezza di Sua
Maestà, segue quelle della regina
madre, tutte dirette al
ridimensionamento della Francia.»
«Me lo avevano già detto. Va
bene, ci rifletterò. Avete visto il
conte duca Olivares?»
«Sì, Sire.»
«Di quale missione eravate
incaricato presso di lui?»
«Di concludere in maniera
amichevole, se fosse stato possibile,
la questione di Mantova.»
«E allora?»
«Quando ho cercato di parlare con
lui di affari, mi ha risposto
portandomi al pollaio di Sua Maestà
il re Filippo IV, che raccoglie le
specie più strane del mondo, e mi ha
proposto di mandarne dei campioni
a Vostra Maestà.»
«Ma vi prendeva in giro, mi
pare!»
«Me, Sire, e soprattutto colui che
rappresentavo.»
«Signore!»
«Mi avete chiesto la verità, Sire.
Io ve la dico. Volete che menta? Ho
abbastanza spirito per inventare
menzogne gradevoli invece che dure
verità.»
«No, ditemi la verità, qualunque
essa sia. Che cosa si pensa della
nostra spedizione in Italia?»
«Ne ridono, Sire.»
«Ne ridono? Non sanno che ne
assumo io il comando?»
«Sì, Sire, ma dicono che le regine
vi faranno cambiare idea o che
Monsieur comanderà ai vostri ordini
e siccome, di fatto, si obbedirà
soltanto alle regine e a Monsieur,
questa spedizione finirà come quella
del duca di Nevers.»
«Ah! Questo è ciò che si pensa a
Madrid?»
«Sì, Sire, ne sono anzi così sicuri
da scrivere – l’ho saputo da un
segretario del conte duca, che ho
comprato –, da scrivere a don
Gonzalo di Cordoba: “Se a
comandare l’armata saranno il re e
Monsieur, non preoccupatevi di
niente. L’armata non supererà il
passo di Susa. Ma se invece il
comando della guerra, sotto il re o
senza il re, sarà affidato al cardinale,
non trascurate nulla e distaccate tutte
le forze che potete al soccorso del
duca di Savoia”.»
«Siete sicuro di quello che mi
dite?»
«Assolutamente sicuro, Sire.»
Il re riprese a camminare per lo
studio, la testa china e il cappello
abbassato sugli occhi, come faceva
quando era molto preoccupato; poi,
fermandosi di colpo e guardando
fisso Bautru:
«E della regina» domandò «avete
sentito dire qualcosa?»
«Chiacchiere di corte, e basta.»
«Ma che cosa dicevano queste
chiacchiere di corte?»
«Niente che si possa riferire a
Vostra Maestà.»
«Non importa. Voglio sapere.»
«Calunnie, Sire. Non lasciatevi
sporcare da tutto quel fango.»
«Vi ho detto, signore» disse Luigi
XIII impaziente, battendo il piede,
«che, calunnia o verità, voglio
sapere che cosa si dice della
regina!»
Bautru s’inchinò.
«Ogni suddito fedele deve
obbedire a un ordine di Vostra
Maestà.»
«Obbedite, allora.»
«Si diceva che, essendo la salute
di Vostra Maestà vacillante...»
«Vacillante... vacillante la mia
salute! È quello che sperano tutti
loro. La mia morte è la loro ancora
di salvezza. Continuate.»
«Si diceva che, essendo la vostra
salute vacillante, la regina avrebbe
preso ogni precauzione per
assicurarsi...»
Bautru esitò.
«Assicurarsi che cosa?» domandò
il re. «Parlate! parlate, insomma!»
«Per assicurarsi la reggenza.»
«Ma la reggenza esiste solo
quando c’è un erede alla corona!»
«Per assicurarsi la reggenza»
ripeté Bautru.
Il re batté il piede.
«Così, lì come qui, in Spagna
come in Lorena; in Lorena il timore,
in Spagna la speranza. La regina
reggente, infatti, significa la Spagna
a Parigi. Così, è questo che si dice
laggiù?»
«Mi avete ordinato di parlare,
Sire. Ho obbedito.»
E Bautru s’inchinò davanti al re.
«Avete fatto bene. Vi ho detto che
ero alla ricerca della verità, ne ho
trovato le tracce e grazie a Dio sono
abbastanza buon cacciatore da
seguirle fino in fondo.»
«Quali sono gli ordini di Vostra
Maestà?»
«Andate a riposare, signore,
dovete essere stanco.»
«Vostra Maestà non mi dice se ho
avuto la fortuna di piacerle, o la
disgrazia di ferirla.»
«Non posso dire che mi abbiate
fatto proprio piacere, monsieur
Bautru. Ma mi siete stato utile, che è
meglio. C’è un posto vacante di
consigliere di Stato, mi fate pensare
che ho qualcuno da ricompensare.»
E Luigi XIII, togliendosi il
guanto, porse la mano da baciare
all’ambasciatore straordinario presso
Filippo IV.
Bautru, secondo l’etichetta, uscì a
ritroso, per non voltare le spalle al
re.
«Così» mormorò il re rimasto
solo, «la mia morte è una speranza,
il mio onore un giocattolo, la mia
successione una lotteria. Se mio
fratello arriverà al trono, sarà solo
per vendere e tradire la Francia; mia
madre, la vedova di Enrico IV, la
vedova di quel grande re che è stato
ucciso perché diventava sempre più
grande e la sua ombra copriva gli
altri regni, mia madre lo aiuterà a
farlo. Per fortuna» e il re rise di un
riso stridulo e nervoso, «per fortuna
quando morirò la regina sarà incinta,
il che risolverà ogni cosa. Che
fortuna che io sia sposato!»
Poi, lo sguardo incupito e la voce
alterata:
«Non mi meraviglio più» disse
«che ce l’abbiano tanto con il
cardinale!»
Gli parve di sentire un leggero
rumore e si voltò verso la porta, che
infatti si stava aprendo.
«Vostra Maestà desidera ricevere
monsieur de La Saludie?» domandò
Charpentier.
«Ma certo!» rispose il re. «Imparo
solo cose del massimo interesse!»
Poi, con lo stesso riso quasi
convulso:
«E poi si dice che i re non sanno
che cosa succede in casa loro! Sono
gli ultimi a saperlo, è vero, ma
quando vogliono saperlo ci
riescono!»
Poi, siccome La Saludie rimaneva
accanto alla porta:
«Venite, venite!» disse. «Vi
aspettavo, monsieur de La Saludie.
Vi è stato detto, vero?, che
sostituisco il signor cardinale?
Parlate e non abbiate più segreti per
me di quanti ne avreste per lui.»
«Ma, Sire» obiettò La Saludie,
«stando così le cose, non so se vi
devo riferire...»
«Riferirmi che cosa?»
«Gli elogi che vengono fatti in
Italia di un uomo che sembra avere
fatto qualcosa che vi è dispiaciuto.»
«Ah, ah! In Italia si elogia il
cardinale? E che cosa si dice di lui al
di là delle montagne?»
«Sire, lì non sanno ancora che il
signor cardinale non è più ministro e
si rallegrano che Vostra Maestà
abbia al suo servizio il primo genio
politico e militare del secolo. La
presa della Rochelle, che il signor
cardinale mi aveva incaricato di
annunciare al duca di Mantova, alla
Signoria di Venezia e a Sua Santità
Urbano VIII, è stata appresa a
Mantova con gioia, a Venezia con
entusiasmo e a Roma con
riconoscenza, così come la
spedizione che progettate in Italia,
spaventando Carlo Emanuele, ha
rassicurato tutti gli altri principi.
Ecco le lettere del duca di Mantova,
del Senato di Venezia e di Sua
Santità, che esprimono la massima
fiducia nel genio del cardinale.
Ognuna delle tre potenze interessate
al vostro successo in Italia, Sire, per
contribuirvi per quanto possono, mi
hanno incaricato di incassare presso
i loro rispettivi banchieri tratte per
un milione e mezzo.»
«E a nome di chi sono quelle
tratte?»
«Quello del signor cardinale, Sire.
Deve solo girarle e ritirare il denaro.
Sono pagabili a vista.»
Il re le prese, le voltò e le rivoltò.
«Un milione e mezzo» disse, «e
sei milioni che si è fatto prestare; è
con questi soldi che faremo la
guerra. Tutto il denaro viene da
quest’uomo, come da quest’uomo
vengono la grandezza e la gloria
della Francia.»
Poi un’idea improvvisa gli balenò
nella mente: Luigi XIII chiamò
Charpentier con due colpi di
campanello.
Charpentier comparve.
«Voi sapete» domandò il re «da
chi il cardinale si è fatto prestare i
sei milioni con i quali ha affrontato
le prime spese della guerra?»
«Sì, Sire, da monsieur de
Bullion.»
«Si è fatto molto pregare prima di
prestarglieli?»
«Nient’affatto, Sire, glieli ha
offerti lui.»
«Come mai?»
«Il signor cardinale si lamentava
del fatto che l’armata del marchese
d’Uxelles si era dissolta per
mancanza di denaro, di cui la regina
madre si era impadronita, e di viveri,
che il maresciallo di Créqui non le
aveva fatto arrivare. “È un’armata
perduta” diceva Sua Eminenza.
“Be’” ha detto monsieur de Bullion,
“se ne deve reclutare un’altra, ecco
tutto.” “E con che cosa?” “Con che
cosa? Vi darò di che reclutare
un’armata di cinquantamila uomini e
un milione d’oro in contanti.” “Non
mi serve un milione, me ne servono
sei.” “Quando?” “Prima possibile.”
“Questa sera è troppo tardi?” Il
cardinale si mise a ridere. “Ce li
avete in tasca?” “No, ma ce li ho da
Fieubet, tesoriere del risparmio. Vi
do un buono per lui e voi mandate a
prenderli.” “E che cosa chiedete in
garanzia, monsieur de Bullion?” Lui
si alzò e salutò Sua Eminenza. “La
vostra parola, monsignore” disse. Il
cardinale lo abbracciò. Monsieur de
Bullion scrisse qualche riga su un
foglietto di carta. Il cardinale gli
espresse la propria riconoscenza e
tutto finì lì.»
«Va bene. Sapete dove abita
monsieur de Bullion?»
«Alla tesoreria, suppongo.»
«Aspettate.»
Il re sedette alla scrivania del
cardinale e scrisse:
Monsieur de Bullion,
ho bisogno per mie questioni personali
della somma di cinquantamila lire e non
voglio prelevarla dal denaro che avete
avuto la compiacenza di prestare al signor
cardinale. Vi prego di prestarmela, se vi è
possibile. M’impegno sulla mia parola di
rendervela entro un mese.
Il vostro affezionato
Luigi

Rivolgendosi poi a Charpentier:


«C’è Beringhen?» domandò.
«Sì, Sire.»
«Consegnategli questo foglio,
ditegli di prendere una portantina e
di recarsi da monsieur de Bullion.
Deve aspettare una risposta.»
Charpentier prese il foglio e uscì,
ma rientrò quasi subito:
«E allora?» chiese il re.
«Monsieur Beringhen è andato,
ma volevo dire a Vostra Maestà che
monsieur de Charnassé è arrivato
dalla Prussia Occidentale con una
lettera di re Gustavo Adolfo per il
signor cardinale.»
Luigi annuì con il capo.
«Monsieur de La Saludie» disse,
«non dovete più dirci niente?»
«Sì, Sire, devo assicurarvi del mio
rispetto, pregandovi allo stesso
tempo che mi consentiate di
aggiungervi il mio dispiacere per la
partenza di monsieur de Richelieu:
era lui che aspettavano in Italia,
contavano su di lui e il mio dovere
di suddito fedele mi obbliga a dire a
Sua Maestà che sarei l’uomo più
felice del mondo se mi permettesse
di salutare il signor cardinale,
benché in disgrazia.»
«Farò di meglio, monsieur de La
Saludie» replicò il re. «Vi fornirò io
stesso l’occasione di vederlo.»
La Saludie s’inchinò.
«Ecco le tratte di Mantova,
Venezia e Roma; andate a Chaillot a
presentare i vostri omaggi al signor
cardinale, consegnategli le lettere
indirizzate a lui, pregatelo di
incassare le tratte e passate da
monsieur de Bullion a nome di Sua
Eminenza perché vi dia il denaro. Vi
autorizzo, per fare più in fretta, a
prendere la mia carrozza, che è alla
porta: più in fretta tornerete, più vi
sarò riconoscente del vostro zelo.»
La Saludie s’inchinò e, senza
perdere un secondo in convenevoli o
in omaggi, uscì per eseguire gli
ordini del re.
Charpentier era rimasto sulla
soglia.
«Aspetto monsieur de Charnassé»
disse il re.
Al Louvre il re non era mai stato
obbedito come lo era in casa del
cardinale; non aveva finito di
esprimere il suo desiderio di vedere
monsieur de Charnassé che questo
gli compariva davanti.
«Allora, barone, mi dicono che
avete fatto buon viaggio.»
«Sì, Sire.»
«Vogliate mettermene subito al
corrente. Da ieri ho imparato a
conoscere il valore del tempo.»
«Vostra Maestà sa perché sono
stato inviato in Germania.»
«Il signor cardinale, avendo tutta
la mia fiducia e l’autorizzazione a
prendere iniziative in ogni campo, si
è limitato ad annunciarmi la vostra
partenza e a farmi avvertire del
vostro ritorno. Non so nulla di più.»
«Vostra Maestà desidera che le
ripeta in maniera precisa quali
istruzioni avevo ricevuto?»
«Ditemi.»
«Eccole parola per parola, dato
che le ho imparate a memoria, nel
caso in cui quelle scritte fossero
andate perse: “Le numerose imprese
della casa austriaca a danno degli
alleati del re lo costringono a
prendere misure efficaci per la loro
difesa; così, domata La Rochelle,
Sua Maestà ha immediatamente
deciso di inviare le sue truppe
migliori e di marciare lei stessa in
soccorso dell’Italia. Di conseguenza,
il re spedisce in tutta fretta monsieur
de Charnassé in Germania per
offrire ai suoi abitanti tutto ciò che
dipende da Sua Maestà e assicurarli
del proprio desiderio di assisterli,
purché vogliano agire di concerto
con il re e lavorare da parte loro alla
loro reciproca difesa. Il sire di
Charnassé si premurerà di spiegare
quali mezzi Sua Maestà giudichi più
appropriati e convenienti ai suoi
piani in favore degli alleati”.»
«Queste sono le vostre istruzioni
generali» disse il re, «ma dovevate
averne anche di particolari, no?»
«Sì, Sire, per il duca
Massimiliano di Baviera, che Sua
Eminenza sapeva essere fortemente
irritato contro l’imperatore. Si
trattava di spingerlo a fare una lega
cattolica che si opponesse alle mire
di Ferdinando sulla Germania e
sull’Italia, mentre Gustavo Adolfo, a
capo dei suoi protestanti, avrebbe
attaccato l’imperatore.»
«E che istruzioni avevate a
proposito di re Gustavo Adolfo?»
«Ero incaricato di promettere a re
Gustavo, se avesse voluto mettersi a
capo di una lega protestante, come il
duca di Baviera si sarebbe messo a
capo di quella cattolica, un sussidio
di cinquecentomila lire all’anno, poi
di promettergli che Vostra Maestà
avrebbe dal canto suo attaccato la
Lorena, regione vicina alla
Germania e focolaio di cabale contro
la Francia.»
«Sì» disse il re sorridendo,
«capisco, Creta e il re Minosse, ma
che cosa ci guadagnerebbe il
cardinale, o meglio che cosa ci
guadagnerei io ad attaccare la
Lorena?»
«Che i principi della casa
d’Austria, costretti a piazzare una
buona parte delle truppe in Alsazia e
nell’Alto Reno, avrebbero distolto lo
sguardo dall’Italia e vi avrebbero
dovuto per forza lasciar compiere
tranquillamente la vostra spedizione
su Mantova.»
Luigi si prese la fronte fra le
mani. Quelle prospettive del suo
ministro, così ampie, gli sfuggivano
per la loro stessa ampiezza e, troppo
costrette nel suo cervello,
sembravano lì lì per farlo esplodere.
Dopo un attimo, chiese:
«E re Gustavo Adolfo accetta?»
«Sì, Sire, ma solo a certe
condizioni.»
«Che sono?»
«Contenute in questa lettera, Sire»
disse Charnassé togliendosi di tasca
un plico con lo stemma della Svezia.
«Ma Vostra Maestà ci tiene
assolutamente a leggere questa
lettera o, cosa che sarebbe forse
migliore, permette che gliene
spieghi il senso?»
«Voglio leggere tutto, signore»
disse il re togliendogli la lettera di
mano.
«Non dimenticate, Sire, che re
Gustavo Adolfo è un allegro
compagnone, che dice la sua su
tutto, che si preoccupa poco delle
forme diplomatiche e dice quello
che pensa più da soldato che da re.»
«Se l’ho dimenticato, mi tornerà
in mente e, se non lo so, lo
imparerò.»
E, dissuggellata la lettera, lesse,
ma sottovoce.
Da Stuhm, dopo la vittoria che restituisce
alla Svezia
tutte le piazzeforti della Livonia e della
Prussia polacca
Oggi, 19 dicembre 1628
Mio caro cardinale,
sapete che sono un po’ pagano e quindi
non stupitevi della familiarità con cui mi
rivolgo a un principe della Chiesa.
Voi siete un grand’uomo; di più: un
uomo di genio; di più: un uomo onesto,
con cui si può parlare d’affari, e si può
farne. Facciamo dunque, se volete, gli
affari della Francia e della Svezia, ma
facciamoli insieme. Sono disposto a
trattare con voi, ma non con altri.
Siete sicuro del vostro re? Siete certo
che al primo soffio di vento non passerà,
com’è suo solito, dalla parte di sua madre,
di sua moglie, di suo fratello, del suo
favorito – che sia Luynes o Chalais – o
del suo confessore? E che voi, che
nell’unghia del vostro mignolo avete più
talento di tutta quella gente, re, regine,
principi, favoriti, ecclesiastici, non sarete
un bel giorno rovesciato da qualche
intrigo o capriccio di serraglio, né più né
meno che un visir o un pascià?
Se ne siete sicuro, fatemi l’onore di
scrivermi: Amico Gustavo, sono certo di
poter dominare per tre anni quelle teste
vuote o sventate che mi procurano tanto
lavoro e tanti fastidi. Sono certo di
mantenere tutti gli impegni che prenderò
con voi in nome del mio re, e io inizio
immediatamente la campagna. Ma non
ditemi: il re farà. Per voi e sulla vostra
parola riunisco l’esercito, salgo a cavallo,
saccheggio Praga, brucio Vienna, aro la
terra dove sorge Pest, ma per il re di
Francia e sulla parola del re di Francia
non farò suonare un tamburo, caricare un
fucile, sellare un cavallo.
Se questo vi va bene, mio
Eminentissimo, rimandate da me
monsieur de Charnassé, che mi piace
molto, benché lo trovi un po’ malinconico.
Ma, ci si mettesse anche il diavolo, se
partecipa con me alla campagna, lo farò
diventare allegro a forza di vino
ungherese.
Dato che scrivo a un uomo
intelligente, non vi metterò sotto la
protezione di Dio, ma sotto quella del
vostro genio, e mi dichiaro con gioia e
orgoglio il vostro affezionato
Gustavo Adolfo

Il re lesse la lettera con irritazione


crescente e quando ebbe finito la
sgualcì fra le mani.
Poi, rivolto al barone di
Charnassé:
«Conoscevate il contenuto di
questa lettera?» gli domandò.
«Ne conoscevo il senso, non il
testo, Sire.»
«Barbaro! Orso del Nord!»
mormorò il re.
«Sire» gli fece osservare
Charnassé, «quel barbaro ha appena
sconfitto i russi e i polacchi. Ha
imparato a combattere agli ordini di
un francese, un certo La Gardie. È
l’inventore della guerra moderna, è
l’unico, insomma, capace di fermare
l’ambizione del re Ferdinando e di
vincere Tilly e Wallenstein.»
«Sì, lo so che questo è quello che
si dice» rispose il re. «So che questa
è l’opinione del cardinale, il miglior
uomo di guerra dopo re Gustavo
Adolfo» aggiunse con un riso che
voleva essere di scherno ed era
solamente nervoso, «ma forse non è
la mia.»
«Ne sarei sinceramente
dispiaciuto, Sire» replicò Charnassé
inchinandosi.
«Ah!, sembra che abbiate voglia
di ritornare dal re di Svezia,
barone...»
«Sarebbe per me un grande onore
e, credo, una grande fortuna per la
Francia.»
«Purtroppo è impossibile» disse
Luigi XIII, «dato che Sua Maestà
svedese vuole trattare solamente con
il cardinale, e il cardinale non si
occupa più di questi affari.»
Poi, voltandosi verso la porta
dove qualcuno grattava:
«Ebbene, che cosa c’è adesso?»
E riconoscendo dal modo di
grattare che si trattava del primo
cameriere:
«Siete voi, Beringhen?»
domandò. «Entrate.»
Beringhen entrò.
«Sire» disse porgendo al re una
grande lettera chiusa da un largo
sigillo, «ecco la risposta di monsieur
de Bullion.»
Il re aprì e lesse:
Sire,
mi vedete alla disperazione, ma per
rendere servizio a monsieur de Richelieu
ho vuotato le mie casse fino all’ultimo
scudo e, per quanto desideri compiacerla,
non sono in grado di dire a Vostra Maestà
quando potrei darle le cinquantamila lire
che mi chiede.
Con sincero dispiacere e
profondissimo rispetto, Sire, ho l’onore di
dichiararmi l’umilissimo, fedelissimo e
obbedientissimo suddito di Vostra Maestà.
Bullion
Luigi si morse i baffi. La lettera di
Gustavo lo rendeva edotto del suo
credito politico, la lettera di Bullion
di quello finanziario.
Proprio allora tornava La Saludie,
seguito da quattro uomini piegati
sotto il peso dei sacchi che
portavano.
«E questo che cos’è?» domandò il
re.
«Sire» rispose La Saludie, «è il
milione e mezzo di lire che
monsieur de Bullion manda al
cardinale.»
«Monsieur de Bullion? Ha del
denaro, allora?»
«Si direbbe proprio di sì, Sire»
rispose La Saludie.
«E da chi ha fatto scontare le
tratte, questa volta? Da Fieubet?»
«No, Sire. Questa era la sua prima
idea, ma poi ha detto che per una
piccola somma non valeva la pena e
si è accontentato di fare un buono
per il suo primo addetto, monsieur
Lambert.»
«Impertinente!» mormorò il re.
«Non ha soldi per prestarmi
cinquantamila lire e trova un milione
e mezzo per scontare a monsieur de
Richelieu le tratte di Mantova, di
Venezia e di Roma.»
Lasciandosi poi cadere in una
poltrona, schiacciato sotto il peso
della lotta morale che combatteva
dal giorno prima e che cominciava a
mostrargli la propria immagine
nell’inflessibile specchio della
verità:
«Signori» disse a Charnassé e a
La Saludie, «vi ringrazio. Siete
servitori bravi e fedeli. Fra qualche
giorno vi farò chiamare per
comunicarvi le mie decisioni.»
E fece loro segno con la mano che
potevano ritirarsi.
I due salutarono e uscirono.
I quattro facchini avevano
deposto i sacchi e aspettavano.
Luigi allungò languidamente una
mano verso il campanello e premette
due volte.
Charpentier comparve.
«Monsieur Charpentier» disse il
re, «mettete questo milione e mezzo
di lire insieme al resto e prima
pagate questi uomini.»
Charpentier diede a ognuno dei
facchini un luigi d’argento, e loro
uscirono.
«Monsieur Charpentier» disse il
re, «non so se verrò domani. Mi
sento terribilmente stanco.»
«Sarebbe un guaio se Vostra
Maestà non venisse» replicò
Charpentier. «Domani è il giorno dei
rapporti.»
«Quali rapporti?»
«I rapporti della polizia del signor
cardinale.»
«Chi sono i suoi principali
agenti?»
«Padre Joseph, che avete
autorizzato a ritornare nel suo
convento e che dunque domani
evidentemente non verrà. Monsieur
Lopez, lo spagnolo. Monsieur de
Souscarrières.»
«Questi rapporti sono scritti o
vengono loro a farli di persona?»
«Dal momento che gli agenti del
signor cardinale sanno che dovranno
presentarli al re, ci terranno
probabilmente a venire a farli a
voce.»
«Verrò» disse il re alzandosi
faticosamente.
«Quindi, se gli agenti verranno di
persona?»
«Li riceverò.»
«Devo però avvertire Vostra
Maestà sulla qualità di uno di questi
agenti, di cui ancora non le ho
parlato.»
«Un quarto agente, allora?»
«Un agente più segreto degli
altri.»
«E chi è questo agente?»
«Una donna, Sire.»
«Madame de Combalet?»
«Mi perdoni, Sire, madame de
Combalet non è un agente di Sua
Eminenza, è sua nipote.»
«E come si chiama questa donna?
È un nome conosciuto?»
«Molto conosciuto, Sire.»
«Ed è?»
«Marion Delorme.»
«Il signor cardinale riceve quella
cortigiana?»
«E ne fa le massime lodi:
l’altroieri sera è da lei che ha saputo
che ieri mattina sarebbe
probabilmente caduto in disgrazia.»
«Da lei?» ripeté il re al colmo
della meraviglia.
«Quando il signor cardinale vuole
informazioni sicure della corte, di
solito si rivolge a lei. Magari,
sapendo che c’è Vostra Maestà nello
studio al posto del cardinale, avrà
qualcosa d’importante da dire a
Vostra Maestà.»
«Ma non verrà qui pubblicamente,
immagino?»
«No, Sire. Casa sua è adiacente a
questa e il cardinale ha fatto fare un
varco nel muro per poter mettere in
comunicazione le due abitazioni con
una porta.»
«Siete sicuro, monsieur
Charpentier, di non fare cosa
sgradita a Sua Eminenza dandomi
simili dettagli?»
«Al contrario, li do a Vostra
Maestà dietro suo ordine.»
«E dove si trova questa porta?»
«Dentro quel pannello, Sire. Se
domani, mentre lavora, il re, in un
momento in cui sarà solo, sentirà
bussare dei colpetti a quella porta e
vorrà fare a mademoiselle Delorme
l’onore di riceverla, basterà che
schiacci questo bottone e la porta si
aprirà. Se non vuole farle questo
onore, risponderà con tre colpi a
intervalli regolari. Dieci minuti
dopo, sentirà suonare un
campanello. Lo spazio fra le porte
sarà vuoto e Vostra Maestà troverà
per terra il rapporto scritto.»
Luigi XIII rifletté un momento.
Era evidente che dentro di lui si
davano aspra battaglia la curiosità e
la ripugnanza che provava per tutte
le donne, e più che mai per quelle
della condizione di Marion Delorme.
Alla fine fu la curiosità a
trionfare.
«Se il signor cardinale, uomo di
Chiesa, con tutti i crismi della
consacrazione, riceve mademoiselle
Delorme, mi pare» disse «che possa
riceverla anch’io. E comunque, se è
peccato, lo confesserò. A domani,
monsieur Charpentier.»
E il re uscì, più pallido, stanco e
vacillante del giorno prima, ma
anche con idee più chiare sulla
difficoltà di essere un grande
ministro e sulla facilità di essere un
re mediocre.
XIV
Gli intervalli del potere reale
Al Louvre serpeggiava grande
inquietudine: dopo le sue sedute in
place Royale, il re non aveva più
visto né la regina madre né la regina
né il duca d’Orléans né nessun altro
dei suoi familiari, cosicché nessuno
aveva ricevuto da lui né le somme
richieste né i buoni al portatore
senza i quali non le potevano
incassare.
Inoltre il nuovo ministero Bérulle-
Marillac-l’Épée, formatosi sull’onda
dell’entusiasmo seguita alle
dimissioni del cardinale, non aveva
ricevuto alcun ordine di riunirsi e
quindi non aveva ancora deliberato
su niente.
Per di più Beringhen, che vedeva
il re quando usciva e quando
tornava, che lo vestiva al mattino e
lo spogliava alla sera, aveva sparso
la voce che ogni volta il re era più
triste quando tornava che quando
usciva, più taciturno la sera che il
mattino.
Il buffone l’Angely e il paggio
Baradas erano gli unici ad avere
accesso alla sua camera.
Di tutti gli uccelli rapaci che
allungavano becco e artigli verso il
tesoro del cardinale, Baradas era il
solo ad aver ricevuto il suo buono da
tremila pistole da far valere su
Charpentier. È vero che lui non
aveva aperto il becco né allungato
gli artigli, la gratifica gli era arrivata
senza che la chiedesse. Aveva i
difetti ma anche le qualità della
giovinezza. Era prodigo quando
aveva denaro, ma incapace di
servirsi della propria influenza sul re
per alimentare questa prodigalità.
Prosciugatasi la fonte, aspettava
tranquillo – a patto di avere begli
abiti, bei cavalli, belle armi – che
ricominciasse a scorrere; poi,
quando scorreva di nuovo, la
prosciugava con la stessa
noncuranza e rapidità.
Durante l’assenza del re, Baradas
si era molto intrattenuto con il suo
amico Saint-Simon su quella
benedizione che gli pioveva dal
cielo, e che contava di condividere
con il suo giovane amico. I due
ragazzi – erano ragazzi ancora:
Baradas, il maggiore, aveva appena
vent’anni – avevano fatto magnifici
progetti sulle tremila pistole. Per un
mese almeno avrebbero vissuto
come principi. Ma una volta stabilito
che cosa fare, rimaneva una
preoccupazione: il buono del re
sarebbe stato pagato? Avevano visto
tanti di quei buoni reali tornare
indietro, senza che il tesoriere
avesse onorato l’augusta firma, che
avrebbero preferito quella del più
piccolo mercante di Parigi a quella
di Luigi, per quanto maestosamente
si stendesse sotto le due righe e
mezza che costituivano il corpo del
biglietto.
Allora Baradas si era messo in
disparte, aveva preso carta,
inchiostro e penna e aveva
intrapreso quell’operazione
colossale per un gentiluomo
dell’epoca che consisteva nello
scrivere una lettera. A furia di
strofinarsi la fronte e di grattarsi la
testa, c’era riuscito, si era messo la
lettera in tasca, aveva
coraggiosamente atteso il rientro del
re e, ancor più coraggiosamente, gli
aveva domandato quando avrebbe
potuto presentarsi dal tesoriere per
incassare il buono di cui Sua Maestà
lo aveva gratificato.
Il re gli aveva risposto che poteva
presentarsi quando voleva, il
tesoriere era ai suoi ordini.
Baradas aveva baciato la mano
del re, aveva sceso i gradini a
quattro a quattro, era saltato in una
portantina dell’impresa Michel e
Cavois e si era immediatamente
fatto condurre dal signor cardinale, o
piuttosto a casa del signor cardinale.
Lì aveva trovato il segretario
Charpentier, fedele al suo incarico, e
gli aveva presentato il buono.
Charpentier lo aveva preso, letto,
esaminato, e poi, riconosciuti la
scrittura e il sigillo del re, aveva
rispettosamente salutato Baradas, lo
aveva pregato di attendere un
momento lasciando a lui la ricevuta
e dopo cinque minuti era ricomparso
con un sacco d’oro di tremila
pistole.
Alla vista del sacco, Baradas, che
non ci credeva, si era sentito
allargare il cuore. Charpentier gli
aveva offerto di ricontare la somma
davanti a lui, ma Baradas, che non
vedeva l’ora di stringersi al petto
quel benedetto sacco, aveva risposto
che un cassiere così preciso era per
forza un cassiere infallibile e aveva
cercato di portarsi via il sacco, ma le
sue forze, ancora mal recuperate
dopo la ferita, non erano bastate, e
Charpentier aveva dovuto
portarglielo fino alla bussola.
Lì Baradas aveva pescato una
manciata di luigi d’argento e di
scudi d’oro che aveva offerto a
Charpentier, ma lui aveva rifiutato
con una riverenza.
Baradas era rimasto sbalordito,
mentre la porta del palazzo del
cardinale si richiudeva dietro
Charpentier.
Ma a poco a poco Baradas si era
ripreso dallo sbalordimento. Si era
orientato e, facendosi seguire dai
portantini per non perdere di vista il
suo sacco, si era recato alla casa più
vicina, si era fermato davanti alla
porta e, toltasi di tasca una lettera,
l’aveva consegnata all’elegante
lacchè che era venuto ad aprirla,
dicendo:
«Per mademoiselle Delorme.»
E aveva aggiunto alla lettera due
scudi, che il lacchè si era ben
guardato dal rifiutare come aveva
fatto Charpentier. Poi era risalito
sulla bussola e, con la voce
imperiosa di chi ha il portafoglio
riccamente fornito, aveva gridato ai
conducenti:
«Al Louvre!»
E i conducenti, cui non erano
sfuggiti né la rotondità del sacco né
l’aumento di peso, erano partiti a un
passo che riconosciamo senza
esitazioni come l’antenato del
moderno passo atletico.
In un quarto d’ora Baradas, che
non aveva smesso un attimo di
accarezzare con la mano il suo
compagno di viaggio, era alla porta
del Louvre e vi incontrava madame
de Fargis che scendeva come lui da
una portantina.
Si erano riconosciuti; un sorriso
aveva piegato le labbra sensuali
della maliziosa giovane donna che,
nel vedere gli sforzi di Baradas per
alzare con il suo braccio dolente
quel sacco troppo pesante, gli
domandò con insolente cortesia:
«Volete che vi aiuti, monsieur
Baradas?»
«Grazie, signora» aveva risposto
il paggio. «Se poteste pregare il mio
collega Saint-Simon di scendere, mi
fareste veramente un favore.»
«Ma certamente» aveva risposto
la giovane civetta, «con grande
piacere, monsieur Baradas.»
E aveva salito rapida le scale,
rialzando la lunga gonna con l’arte
particolare che hanno certe donne di
mostrare la parte bassa delle gambe
fino all’inizio del polpaccio in modo
da lasciar indovinare il resto.
Cinque minuti dopo, Saint-Simon
scendeva. Baradas ricompensava
generosamente i portantini e i due
giovani, unendo le loro forze,
salivano le scale portando il sacco di
denaro, come nei quadri del
Veronese si vedono due bei giovani
portare ai convitati seduti a tavola
una grossa anfora contenente
l’ebbrezza di venti uomini.
Nel frattempo, Luigi XIII, dopo il
suo pasto delle cinque, conversava
con il suo buffone cui non era
sfuggito l’aggravio di tristezza di
Sua Maestà.
Luigi XIII era seduto davanti alla
tavola, da una parte del grande
camino di camera sua; l’Angely,
dall’altra parte dello stesso camino,
era arrampicato su un’alta sedia
come un pappagallo sul trespolo,
con i tacchi sul piolo più basso in
modo da servirsi delle ginocchia per
appoggiarvi il piatto, con una
disinvoltura che faceva onore al suo
equilibrio.
Il re sgranocchiava qualche
cosetta, qualche ciliegia secca, senza
appetito, e bagnava appena le labbra
in un bicchiere ornato di uno
splendente stemma regale oro e
azzurro. Aveva tenuto sul capo il
largo cappello di feltro nero con le
piume dello stesso colore, e la sua
ombra gli proiettava sul volto un
velo che lo rendeva ancora più cupo
di quanto non fosse.
L’Angely, che invece aveva una
gran fame, si era sentito rifiorire alla
vista del secondo pasto che sempre
veniva servito a quell’epoca fra le
cinque e le sei di sera. Aveva quindi
tirato dalla parte del tavolo più
vicina a lui un’enorme terrina di
fagiano, beccacce e beccafichi e,
dopo averne offerto al re, che aveva
rifiutato con un cenno del capo,
aveva cominciato a tagliarne fette
che parevano mattoni e che
passavano rapidamente dalla terrina
al suo piatto, ma ancora più
rapidamente dal suo piatto al suo
stomaco. Dopo aver attaccato il
fagiano, come piatto forte, era alle
beccacce e contava di finire con i
beccafichi, innaffiando il tutto con
un vino che veniva chiamato vino
del cardinale e che era
semplicemente il nostro attuale
bordeaux: il re e il cardinale, che
avevano i due stomaci peggiori del
regno, lo apprezzavano per la sua
digeribilità, mentre l’Angely, che
aveva forse il miglior stomaco
dell’universo, lo gustava per il suo
bouquet e per la sua rotondità.
Una prima bottiglia di quel vino
facile era già passata dalla tavola al
focolare del camino, dove una
seconda bottiglia era appena andata
a raggiungerla a una ragionevole
distanza dal fuoco per intiepidire – i
buongustai, per i quali non c’è nulla
di sacro, nemmeno la grammatica,
hanno reso intransitivo questo verbo,
e noi facciamo come loro. Benché
fosse rimasta in piedi, si vedeva
chiaramente dalla sua trasparenza e
dal suo precario equilibrio che aveva
perso fino all’ultima goccia del
sangue generoso che la teneva in
vita e che l’Angely, accarezzando
invece con lo sguardo e con la mano
la sua vicina, aveva ormai per lei
solo quel vago rispetto che si riserva
ai morti. Del resto l’Angely che,
simile a quel filosofo greco nemico
del superfluo, avrebbe anch’egli
buttato nel fiume la sua scodella di
legno se avesse visto un bambino
bere nel cavo della mano, 1 l’Angely
aveva eliminato il bicchiere come
parassita intermediario,
accontentandosi, quando sentiva il
bisogno – e lo sentiva spesso – di
dissetarsi, di allungare la mano fino
al collo della bottiglia e di accostare
quel collo alla bocca.
L’Angely, che aveva appena
teneramente abbracciato la sua
bottiglia, emetteva un sospiro di
soddisfazione proprio mentre Luigi
ne emetteva uno di tristezza.
L’Angely rimase immobile, la
bottiglia in una mano, la forchetta
nell’altra.
«Decisamente» osservò, «sembra
che non sia divertente essere re,
soprattutto quando si regna.»
«Ah, sono proprio infelice, mio
povero l’Angely» rispose il re.
«Raccontami, figlio mio, ti sarà
d’aiuto» invitò l’Angely, posando a
terra la bottiglia e infilando un altro
pezzo di pasticcio nel piatto.
«Perché sei tanto infelice?»
«Tutti mi derubano, tutti mi
ingannano, tutti mi tradiscono.»
«Be’, e te ne rendi conto solo
adesso?»
«No, ne ho la conferma.»
«Su, su, figlio mio, non siamo
pessimisti. Ti confesso che per
quello che mi riguarda non trovo che
le cose qui vadano così male. Ho
ben pranzato, ben cenato, questo
pasticcio era buono, questo vino
eccellente, la terra gira così piano
che non me ne accorgo, e sento in
tutto il corpo un dolce calore e un
piacevole benessere che mi fa
vedere la vita attraverso un velo
rosa.»
«L’Angely» disse Luigi XIII con
la massima serietà, «niente eresie,
ragazzo mio, o ti faccio frustare.»
«Come!» replicò l’Angely, «è
un’eresia guardare la vita attraverso
un velo rosa?»
«No, ma è un’eresia dire che la
terra gira.»
«Ah, in fede mia, non sono il
primo a dirlo, e i signori Copernico
e Galileo lo hanno detto prima di
me.»
«Sì, ma la Bibbia ha detto il
contrario, e converrai che Mo sè ne
sapeva quanto tutti i Copernico e
tutti i Galileo della terra!»
«Hum, hum!» mormorò l’Angely.
«Vediamo» insistette il re, «se il
sole fosse immobile, come avrebbe
potuto Giosue fermarlo per tre
giorni?»
«Sei proprio sicuro che Giosue
abbia fermato il sole per tre giorni?»
«Non lui, il Signore.»
«E tu credi che il Signore si sia
preso questa briga per dare il tempo
al suo eletto di fare a pezzi l’esercito
di Adonisedech e dei quattro re di
Cana suoi alleati, e murarli vivi tutti
in una caverna? In fede mia, se fossi
stato io il Signore, invece di fermare
il sole avrei fatto scendere la notte
per dare invece a quei poveri diavoli
una possibilità di fuga.»
«L’Angely, l’Angely» disse
tristemente il re, «puzzi di ugonotto
lontano un miglio!»
«Stai attento, Luigi, che tu hai
questa puzza anche più di me,
ammettendo che tu sia figlio di tuo
padre.»
«L’Angely!» esclamò il re.
«Hai ragione, Luigi» disse
l’Angely attaccando i beccafichi,
«non parliamo di teologia. E mi
dicevi, figlio mio, che tutti ti
ingannano?»
«Tutti, l’Angely!»
«Eccetto tua madre, però?»
«Mia madre come gli altri.»
«Mah! Eccetto tua moglie,
spero.»
«Mia moglie più degli altri.»
«Oh! Eccetto tuo fratello, però.»
«Mio fratello più di tutti.»
«Be’, e io che credevo fosse solo
il cardinale a ingannarti!»
«L’Angely, io credo invece che
fosse solo il signor cardinale a non
ingannarmi.»
«Ma allora è il mondo
all’incontrario!»
Luigi scosse tristemente il capo.
«E io che avevo sentito dire che
nella tua gioia per esserti sbarazzato
di lui, avevi elargito doni a tutta la
tua famiglia!»
«Purtroppo!»
«Che avevi regalato sessantamila
lire a tua madre, trentamila alla
regina, centocinquantamila a
Monsieur!»
«Veramente glieli ho soltanto
promessi, l’Angely.»
«Be’, allora non ce li hanno
ancora in mano!»
«L’Angely» esclamò d’un tratto il
re, «mi viene voglia di fare una
cosa...»
«Non di farmi bruciare come
eretico o impiccare come ladro,
spero!»
«No. È che fintanto che ho del
denaro...»
«Hai del denaro?»
«Sì, ragazzo mio.»
«Parola d’onore?»
«In fede di gentiluomo. E molto.»
«Be’, dai retta a me» disse
l’Angely riabbracciando la bottiglia,
«approfittane per comprare del vino
come questo, figlio mio. L’annata
1629 potrebbe essere cattiva.»
«No, non è questo che desidero,
lo sai che bevo solo acqua.»
«Perbacco, ecco perché sei così
triste!»
«Dovrei essere matto per essere
allegro.»
«Io sono matto eppure non sono
allegro. 2 Su, finiamola. Qual è
questa voglia?»
«Mi piacerebbe fare la tua
fortuna, l’Angely.»
«La mia fortuna? A me? E che
bisogno ho di fortuna? Sono nutrito
e alloggiato al Louvre. Quando ho
bisogno di soldi rovescio le tue
tasche e prendo quello che ci trovo.
È vero che non ci trovo mai molto.
Ma mi basta così e non mi lamento.»
«Lo so che non ti lamenti, e
questo mi rende ancora più triste.»
«Ma allora tutto ti rattrista!
Accidenti, che brutto carattere!»
«Non ti lamenti tu, cui non do mai
niente, e loro, cui faccio regali di
continuo, si lamentano senza sosta.»
«Lascia che si lamentino, figlio
mio.»
«Se io morissi, l’Angely...»
«Ecco un’altra idea gaia che ti
passa per la testa. Aspetta almeno il
carnevale, per essere così allegro!»
«... se io morissi, loro ti
caccerebbero via senza darti
nemmeno un maravedì.» 3
«Be’, me ne andrei.»
«Che cosa ne sarebbe di te?»
«Potrei farmi trappista! Accidenti,
la Trappe, paragonata al Louvre, è
un luogo di follie.»
«Sperano tutti che io muoia. Che
cosa ne dici, l’Angely?»
«Dico che devi vivere per farli
arrabbiare.»
«Non è un granché divertente
vivere, l’Angely.»
«Credi che ci si diverta di più a
Saint-Denis che al Louvre?»
«A Saint-Denis c’è solo il corpo,
ragazzo mio, l’anima è in cielo.»
«Credi che ci si diverta di più in
cielo che a Saint-Denis?»
«Non ci si diverte da nessuna
parte, l’Angely» rispose il re con
tono lugubre.
«Luigi, ti avverto che ti lascerò
annoiarti da solo. Mi stai facendo
venire freddo alle ossa.»
«Allora non vuoi che ti
arricchisca?»
«Voglio che tu mi lasci finire la
mia bottiglia e il mio pasticcio!»
«Ti darò un buono di tremila
pistole, come quello che ho dato a
Baradas.»
«Ah! Hai dato a Baradas un
buono di tremila pistole?»
«Sì.»
«Be’, puoi vantarti di averlo
investito bene, quel denaro!»
«Credi che ne farà cattivo uso?»
«Nient’affatto, ne farà un uso
eccellente. Se lo mangerà con dei
bravi ragazzi e delle belle ragazze.»
«Insomma, l’Angely, tu non credi
in niente!»
«Nemmeno nella virtù di
monsieur Baradas.»
«Si fa peccato a parlare con te.»
«C’è del vero in quello che dici, e
quindi ti darò un consiglio, figlio
mio.»
«Quale?»
«Passare nel tuo oratorio, pregare
per la mia conversione e lasciarmi
mangiare tranquillo il mio dessert.»
«Da un buffone può venire un
buon consiglio» disse il re alzandosi.
«Vado a pregare.»
E il re si diresse verso il suo
oratorio.
«Ecco» disse l’Angely, «vai a
pregare per me e io mangerò, berrò e
canterò per te. Vedremo chi ne trarrà
maggior profitto.»
E infatti, mentre Luigi XIII, più
triste che mai, entrava nel suo
oratorio e richiudeva la porta dietro
di sé, l’Angely, che aveva finito la
seconda bottiglia, ne iniziava una
terza cantando:
Lorsque Bacchus entre chez moi
Je sens l’ennui, je sens l’émoi
S’endormir et, ravi, me semble
Que dans mes coffres j’ai plus d’or,
Plus d’argent et plus de Trésor
Que Midas et Crésus ensemble.
Je ne veux rien sinon tourner,
Sauter, danser, me couronner
La tête d’un tortis de lierre.
Je foule en esprit les honneurs,
Rois, reines, princes, grands seigneurs,
Et du pied j’écrase la terre.
Versez-moi donc du vin nouveau
Pour m’arracher hors du cerveau
Le soin par qui le cœur me tombe.
Versez donc pour me l’arracher.
Il vaut mieux, amis, se coucher
Ivre au lit que mort dans la tombe! 4

1 Si tratta di un episodio riferito alla vita di


Diogene, fondatore della filosofia cinica, morto
nel 323 a.C. [NdT]
2 Come si è già visto, buffone in francese si
dice fou, come matto. [NdT]
3 Moneta spagnola di scarso valore. [NdC]
4 Quando entra Bacco in me / sento la noia, e il
turbamento / assopirsi e, colmo di gioia, mi
sembra / di avere nelle mie casse più oro, / più
argento e più ricchezze / di Mida e di Creso
messi insieme. // Voglio solo girare, / saltare,
ballare, incoronarmi / il capo di un tralcio
d’edera. / Calpesto in spirito tutti gli onori, / re,
regine, principi e gran signori, / e con il piede
schiaccio la terra. // Versatemi quindi del vino
nuovo / per strapparmi via dal cervello / le
preoccupazioni che mi fanno cadere il cuore. /
Versate, su, per strapparle via. / È meglio, amici
miei, coricarsi / ubriachi nel letto che morti nella
tomba! [NdT]
XV
Tu quoque, Baradas!
Quando Luigi XIII uscì
dall’oratorio, trovò l’Angely che, le
braccia incrociate sul tavolo, la testa
appoggiata sulle braccia, dormiva, o
faceva finta di dormire.
Lo guardò per un momento con
malinconia profonda, e quell’animo
incompleto, debole ed egoista, che
pure, ogni tanto, era rischiarato da
illuminazioni istintive del vero e del
giusto che la cattiva educazione
ricevuta non aveva saputo spegnere
del tutto, fu preso da profonda
compassione per quel compagno
della sua tristezza, che aveva
dedicato a lui la sua vita non per
rallegrarlo, come facevano gli altri
buffoni con i re suoi predecessori,
ma per percorrere insieme a lui tutti
i cerchi di quel monotono inferno
dal cielo cupo che si chiama noia.
Ricordò l’offerta che gli aveva fatto
e che con la sua abituale noncuranza
l’Angely aveva non rifiutato ma
eluso. Gli tornarono alla mente il
disinteresse e la pazienza con cui
l’Angely subiva tutti i capricci del
suo cattivo umore, la sua devozione
disinteressata fra gli affetti
ambiziosi e le avide amicizie che lo
circondavano e, cercando intorno un
calamaio, una penna e un foglio,
scrisse, con tutte le dovute
informazioni e formule, quel buono
di tremila pistole che doveva fare da
pendant a quello di Baradas, e glielo
fece scivolare in tasca stando ben
attento a non svegliarlo. Poi, tornato
nella sua camera, si fece suonare il
liuto per un’ora dai suoi menestrelli,
chiamò Beringhen, si fece mettere a
letto e, una volta coricato, fece
chiamare Baradas perché andasse a
parlare con lui.
Baradas entrò tutto contento:
aveva appena finito di contare e
ricontare, di impilare e rimpilare le
sue tremila pistole.
Il re lo fece sedere ai piedi del
letto e, con aria di rimprovero:
«Perché hai quest’aria tanto
allegra, Baradas?» gli domandò.
«Ho quest’aria tanto allegra»
rispose lui «perché non ho nessun
motivo di essere triste e, invece, ho
una ragione di essere contento.»
«Quale ragione?» domandò Luigi
XIII con un sospiro.
«Vostra Maestà forse dimentica di
avermi offerto in dono tremila
pistole?»
«No, no, me ne ricordo, invece.»
«Ebbene, devo dire a Vostra
Maestà che su quelle tremila pistole
non ci contavo proprio.»
«E perché non ci contavi?»
«L’uomo propone e Dio dispone!»
«Ma se è re, l’uomo?»
«Questo non impedisce a Dio di
essere Dio!»
«E allora?»
«E allora, Sire, con mia grande
meraviglia, sono stato pagato a vista,
sull’unghia. Accidenti! Monsieur
Charpentier mi pare ben più grande
di monsieur de La Vieuville, che
quando gli si chiedono dei soldi
risponde tranquillamente: “Io nuoto,
nuoto, nuoto...”.»
«E così, hai le tue tremila
pistole?»
«Sì, Sire.»
«E sei dunque ricco?»
«Eh, eh!»
«Che cosa ne farai? Li spenderai
da cattivo cristiano, come il figliol
prodigo, al gioco e con le donne?»
«Oh, Sire!» disse Baradas con la
sua aria ipocrita, «Vostra Maestà sa
che io non gioco mai!»
«So che me lo hai detto.»
«E quanto alle donne, non le
posso soffrire.»
«È proprio vero, Baradas?»
«È la ragione dei miei continui
litigi con quel cattivo soggetto di
Saint-Simon, al quale addito sempre
l’esempio di Vostra Maestà.»
«Vedi, Baradas, la donna è stata
creata per farci perdere l’anima. Non
è stata sedotta dal serpente: la donna
è il serpente stesso.»
«Oh, come dite bene, Sire! Mi
ricorderò questa massima per
scriverla nel mio messale!»
«A proposito di messa, domenica
scorsa ti guardavo e mi sei parso ben
distratto, Baradas.»
«È parso così a Vostra Maestà
perché il caso ha voluto che i miei
occhi si voltassero dalla stessa parte
dei suoi, verso mademoiselle de
Lautrec.»
Il re si mordicchiò i baffi e,
cambiando discorso:
«Vediamo» domandò, «che cosa
conti di fare con i tuoi soldi?»
«Se ne avessi tre o quattro volte
tanto, farei delle opere pie» rispose
il paggio. «Lo consacrerei alla
fondazione di un convento o alla
costruzione di una cappella, ma non
avendo che una somma limitata...»
«Non sono ricco, Baradas» disse
il re.
«Non mi lamento, Sire, anzi mi
ritengo molto fortunato. Dico
soltanto che, disponendo di una
somma limitata, prima di tutto ne
darò metà a mia madre e alle mie
sorelle.»
Luigi approvò con un cenno del
capo.
«Poi» continuò Baradas,
«dividerò le millecinquecento
pistole che restano in due parti:
settecentocinquanta mi serviranno
ad acquistare due buoni cavalli per
seguire Vostra Maestà nella
campagna d’Italia, a prendere e
vestire un lacchè, a comprare delle
armi...»
A ogni proposta di Baradas, il re
aveva applaudito.
«E degli ultimi
settecentocinquanta che cosa ne
farai?»
«Li terrò come riserva e per le
piccole spese. Grazie a Dio, Sire»
proseguì Baradas levando lo sguardo
al cielo, «non mancano buone azioni
da compiere e dappertutto si
incontrano orfani da soccorrere e
vedove da consolare.»
«Abbracciami, Baradas,
abbracciami!» esclamò il re,
commosso fino alle lacrime. «Usa il
tuo denaro come hai detto, piccolo
mio, e farò in modo che il tuo
piccolo tesoro non si esaurisca.»
«Sire» rispose Baradas, «voi siete
grande, magnifico, saggio come re
Salomone, e agli occhi del Signore
avete su di lui il vantaggio di non
avere trecento donne e ottocento...»
«Oh, Signore, e che cosa ne
farei?» interruppe il re, spaventato
solo all’idea, alzando le braccia al
cielo. «Ma questa conversazione è
già un peccato, Baradas, perché
presenta alla mente idee e oggetti
contrari alla morale e alla religione.»
«Vostra Maestà ha ragione» disse
Baradas. «Vuole che le faccia
qualche lettura devota?»
Baradas sapeva che era la maniera
più rapida per far addormentare il re.
Si alzò, andò a prendere La
Consolation éternelle di Gerson, 1
tornò a sedersi non sul letto ma lì
accanto e cominciò a leggere con
aria compunta.
Alla terza pagina, il re dormiva
profondamente.
In punta di piedi Baradas si alzò,
rimise a posto il libro, raggiunse la
porta senza far rumore,
silenziosamente la aprì, la richiuse, e
andò a riprendere con Saint-Simon
la partita a dadi interrotta.
L’indomani alle dieci il re usciva
in carrozza dal Louvre e alle dieci e
un quarto entrava in quello studio
verde dove negli ultimi due giorni
tante cose di cui nemmeno
sospettava l’esistenza o di cui aveva
una visione falsata gli erano apparse
nella loro vera luce.
Trovò ad attenderlo Charpentier.
Il re era pallido, stanco, abbattuto.
Domandò se i rapporti erano
arrivati.
Charpentier rispose che non ci
sarebbero stati rapporti da padre
Joseph, rientrato nel suo convento,
ma soltanto da Souscarrières e da
Lopez.
«E questi rapporti ci sono?»
domandò il re.
«Ho avuto l’onore di dire a Sua
Maestà» rispose Charpentier «che,
sapendo che dovranno presentarli al
re, Souscarrières e Lopez hanno
detto che avrebbero portato i loro
rapporti personalmente. Sua Maestà
potrà semplicemente leggere i
rapporti o farli chiamare se desidera
ulteriori chiarimenti.»
«E li hanno portati?»
«Monsieur Lopez è di là con il
suo, ma per lasciare a Sua Maestà
tutto il tempo di parlare con lui e di
aprire la corrispondenza del signor
cardinale, ho dato appuntamento a
monsieur de Souscarrières
solamente a mezzogiorno.»
«Fate entrare Lopez.»
Charpentier uscì e qualche
secondo dopo annunciò don
Ildefonso Lopez.
Lopez entrò con il cappello in
mano e inchinandosi fino a terra.
«Va bene, basta così, monsieur
Lopez» disse il re. «Vi conosco da
molto tempo e mi costate caro.»
«Come sarebbe, Sire?»
«Non è da voi che la regina
acquista i suoi gioielli?»
«Sì, Sire.»
«Ebbene, ancora l’altroieri la
regina mi ha chiesto ventimila lire
per far riassortire da voi un filo di
perle.»
Lopez si mise a ridere, e, nel riso,
mostrò dei denti che avrebbe potuto
far passare per perle.
«Di che cosa ridete?» domandò il
re.
«Sire, devo parlare a voi come
parlerei al signor cardinale?»
«Esattamente.»
«Allora, nel rapporto che facevo
oggi per Sua Eminenza c’è un
paragrafo dedicato a quel filo di
perle, o meglio alle sue
conseguenze.»
«Leggetemi quel paragrafo.»
«Sono agli ordini del re, ma
Vostra Maestà non capirebbe niente
della mia lettura se non le dessi
qualche spiegazione preliminare.»
«Datemela.»
«Il 22 dicembre scorso, Sua
Maestà la regina si presentò
effettivamente da me con la scusa di
riassortire un filo di perle.»
«Con la scusa, avete detto?»
«Con la scusa, sì, Sire.»
«Qual era invece lo scopo reale?»
«Incontrarsi con l’ambasciatore di
Spagna, il marchese di Mirabel, che
avrebbe dovuto trovarsi lì per caso.»
«Per caso?»
«Certo, Sire. È sempre per caso
che Sua Maestà la regina incontra il
marchese di Mirabel, al quale è stato
vietato l’ingresso al Louvre tranne
che nei giorni di ricevimento o in
quelli in cui venisse mandato a
chiamare.»
«Sono stato io a dare quegli
ordini, dietro consiglio del
cardinale.»
«E quindi, quando Sua Maestà la
regina ha qualcosa da dire
all’ambasciatore del re suo fratello,
o qualcosa da ascoltare da lui, lo
deve incontrare per caso, dato che
non può vederlo in altro modo.»
«E questo incontro avviene da
voi?»
«Con l’autorizzazione del signor
cardinale.»
«E dunque la regina si è
incontrata con l’ambasciatore di
Spagna?»
«Sì, Sire.»
«Hanno avuto un lungo
colloquio?»
«Hanno scambiato solo poche
parole.»
«Bisognerebbe sapere di che
parole si trattava.»
«Il signor cardinale già lo sa.»
«Ma io non lo so. Il signor
cardinale era molto discreto.»
«Il che significa che non voleva
tormentare Sua Maestà inutilmente.»
«E quali sono queste parole?»
«Posso riferire a Vostra Maestà
solo quelle udite dal mio tagliatore
di diamanti.»
«Che conosce lo spagnolo?»
«Gliel’ho fatto imparare per
ordine del signor cardinale, ma tutti
credono che non lo capisca, di modo
che nessuno diffida di lui. Questo è
quello che si sono detti.
L’ambasciatore: “Vostra Maestà ha
ricevuto tramite l’intermediario del
governatore di Milano e grazie alla
premura del conte di Moret una
lettera del suo illustre fratello?”. La
regina: “Sì, signore”. “Vostra
Maestà ha riflettuto sul suo
contenuto?” “Ci ho già riflettuto, ci
rifletterò ancora e vi darò una
risposta.” “Tramite chi?” “Tramite
una scatola che sembrerà contenere
delle stoffe e che conterrà quella
piccola nana che vedete giocare con
madame de Bellier e con
mademoiselle de Lautrec.” “Credete
di potervi fidare?” “Mi è stata
offerta in dono da mia zia Clara
Eugenia, infanta dei Paesi Bassi, e
interamente devota alla causa
spagnola.”»
«Devota alla causa spagnola...»
ripeté il re. «Così, tutti quelli che mi
circondano sono devoti alla causa
spagnola, cioè a quella dei miei
nemici. E quella piccola nana?»
«Ieri l’hanno portata nella sua
scatola e, siccome parla spagnolo
benissimo, ha detto a monsieur de
Mirabel: “La signora mia padrona
mi ha detto che prenderà in
considerazione il consiglio di suo
fratello e che, se la salute del re
continuasse a peggiorare, farebbe in
modo di non essere presa alla
sprovvista”.»
«Non essere presa alla
sprovvista» ripeté il re.
«Non abbiamo capito che cosa
intendesse dire, Sire» disse Lopez
abbassando il capo.
«Lo capisco io» disse il re
aggrottando le ciglia «e questo
basta. E la regina non vi ha anche
mandato a dire che sarebbe stata in
grado di pagare le perle che ha
comprato da voi?»
«Sono già stato pagato, Sire»
disse Lopez.
«Come, siete già stato pagato?»
«Sì, Sire.»
«E da chi?»
«Da monsieur Particelli.»
«Particelli? Il banchiere italiano?»
«Sì.»
«Ma mi hanno detto che è stato
impiccato.»
«È vero, è vero, ma prima di
morire ha ceduto la sua banca a
monsieur d’Émery, un uomo
perbene.»
«Su tutto» mormorò Luigi XIII,
«su tutto, mi derubano e mi
ingannano su tutto! E la regina non
ha rivisto monsieur de Mirabel?»
«La regina in carica no; la regina
madre sì.»
«Mia madre? E quando?»
«Ieri.»
«E a che scopo?»
«Per annunciargli che il signor
cardinale era caduto in disgrazia,
che monsieur de Bérulle prendeva il
suo posto, che Monsieur era stato
nominato luogotenente generale e
che poteva quindi scrivere a re
Filippo IV o al conte duca che la
guerra in Italia non si farà.»
«Come, la guerra in Italia non si
farà?»
«Sono le parole precise di Sua
Maestà.»
«Sì, capisco. Si lascerà
quest’armata, come la prima, senza
paghe, senza viveri, senza abiti. Oh,
che miserabili! che miserabili!»
esclamò il re, premendosi la fronte
con le mani. «Avete altro da dirmi?»
«Cose di poca importanza, Sire.
Monsieur Baradas è venuto questa
mattina nel negozio a comprare dei
gioielli.»
«Che gioielli?»
«Una collana, un braccialetto, dei
fermagli per capelli.»
«Per quanto?»
«Per trecento pistole.»
«E cosa deve farsene di collane,
un braccialetto, fermagli per
capelli?»
«Probabilmente per un’amante,
Sire.»
«Ma come» ribatté il re. «Ancora
ieri sera mi diceva di detestare le
donne! E poi?»
«Nient’altro, Sire.»
«Riassumiamo. La regina Anna e
monsieur de Mirabel: se le mie
condizioni di salute peggiorassero,
lei farà in modo di non essere presa
alla sprovvista. La regina madre e
monsieur de Mirabel: lui può
scrivere a Sua Maestà Filippo IV
che la guerra d’Italia non si farà,
dato che monsieur de Bérulle
sostituisce il cardinale di Richelieu e
che mio fratello sarà luogotenente
generale. E poi monsieur Baradas:
che compra collane, braccialetti,
fermagli per capelli con il denaro
che gli ho regalato. Basta così,
monsieur Lopez. Ho saputo da voi
tutto quello che volevo sapere.
Continuate a servirmi bene, o a
servire bene il cardinale, che è la
stessa cosa, e non fatevi sfuggire una
parola di quanto si dirà presso di
voi.»
«Vostra Maestà si è resa conto che
è una raccomandazione superflua.»
«Andate, andate, monsieur Lopez.
Non vedo l’ora di finirla, con tutti
questi tradimenti. Uscendo, dite che
mandino da me monsieur de
Souscarrières, se c’è.»
«Eccomi, Sire» disse una voce.
E Souscarrières comparve sulla
soglia, il cappello in mano, la gamba
piegata e il collo del piede teso in
avanti, diminuito, per via di quella
posizione, di una metà della sua
statura.
«Ah, stavate ascoltando, signore»
osservò il re.
«No, Sire, ma il mio zelo nei
confronti di Vostra Maestà è tale da
farmi intuire che Vostra Maestà
desiderava vedermi.»
«Ah! e avete molte cose
interessanti da dirmi?»
«Il mio rapporto risale a soli due
giorni fa, Sire.»
«Ditemi che cosa è successo in
questi due giorni.»
«L’altroieri Monsieur, l’augusto
fratello di Vostra Maestà, ha preso
una portantina e si è fatto condurre
dall’ambasciatore del duca di
Lorena e dall’ambasciatore di
Spagna.»
«So che cosa ci andava a fare.
Proseguite.»
«Ieri verso le undici Sua Maestà
la regina madre ha preso una
portantina e si è fatta condurre al
negozio di Lopez, proprio quando
l’ambasciatore di Spagna prendeva
anche lui una portantina e si faceva
condurre allo stesso indirizzo.»
«So che cosa dovevano dirsi.
Proseguite.»
«Ieri monsieur Baradas ha preso
una portantina al Louvre, si è fatto
condurre in place Royale dal signor
cardinale. È salito e cinque minuti
dopo è uscito con un sacco molto
pesante di denaro.»
«Lo so.»
«Dalla porta del signor cardinale
ha raggiunto a piedi quella vicina.»
«Quale porta?» domandò il re con
una certa vivacità.
«Quella di mademoiselle
Delorme.»
«Quella di mademoiselle
Delorme?... Ed è entrato da lei?»
«No, Sire, si è limitato a bussare
alla porta, un lacchè ha aperto e
monsieur Baradas gli ha consegnato
una lettera.»
«Una lettera!»
«Sì, Sire. Una volta consegnata la
lettera, è risalito in portantina e si è
fatto riaccompagnare al Louvre.
Questa mattina è uscito di nuovo...»
«Sì, si è fatto condurre da Lopez
dove ha comprato dei gioielli e da
lì... da lì dove è andato?»
«È tornato al Louvre, Sire,
ordinando una portantina per tutta la
notte.»
«Avete altro da dirmi?»
«Su chi, Sire?»
«Su monsieur Baradas.»
«No, Sire.»
«Allora andate.»
«Ma, Sire, dovrei parlarvi di
madame de Fargis.»
«Andate.»
«Di monsieur de Marillac.»
«Andate.»
«Di Monsieur.»
«Quello che ne so mi basta,
andate.»
«Del ferito Étienne Latil, che si è
fatto portare a Chaillot dal signor
cardinale.»
«Non m’interessa, andate.»
«Allora mi ritiro, Sire.»
«Ritiratevi.»
«Ritirandomi, posso sperare che il
re sia contento di me?»
«Anche troppo!»
Souscarrières salutò e uscì a
ritroso.
Il re premette due volte il
campanello senza nemmeno
aspettare che fosse uscito.
Charpentier accorse.
«Monsieur Charpentier» disse il
re, «quando il signor cardinale
doveva parlare con mademoiselle
Delorme, come faceva a
chiamarla?»
«Semplicissimo» rispose
Charpentier. Spinse la molla, fece
girare sui cardini la porta segreta,
tirò il cordone del campanello che si
trovava tra le due porte e,
rivolgendosi al re:
«Se mademoiselle Delorme è in
casa» disse, «verrà immediatamente.
Devo richiudere la porta?»
«Inutile.»
«Sua Maestà desidera essere sola
o preferisce che io rimanga?»
«Lasciatemi solo.»
Charpentier si ritirò. Da parte sua,
Luigi XIII rimase ritto e impaziente
davanti al passaggio segreto.
In capo a qualche secondo, un
passo leggero si fece sentire e, per
leggero che fosse, l’orecchio teso
del re lo percepì.
«Ah!» disse, «adesso saprò se è
vero!»
Aveva appena finito di parlare che
la porta si aprì e Marion Delorme,
vestita di un abito di raso bianco,
con un semplice filo di perle al
collo, una selva di riccioli neri
sciolti sulle spalle bianche e rotonde,
comparve nello splendore della sua
bellezza di diciottenne.
Per quanto poco sensibile alla
bellezza femminile, Luigi XIII fece
un passo indietro, abbagliato.
Marion entrò, fece un’adorabile
reverenza in cui rispetto e civetteria
erano sapientemente dosati e, con gli
occhi bassi, modesta come una
collegiale:
«Il mio sovrano, davanti al quale
non speravo di avere l’onore di
comparire mai, mi ha mandato a
chiamare: è alle sue ginocchia che
devo ascoltare le sue parole, ai suoi
piedi che devo ricevere i suoi
ordini!»
Il re balbettò qualche frase
incoerente che diede a Marion il
tempo di gioire del successo
ottenuto.
«Non è possibile» disse il re, «non
è possibile, m’inganno o
m’ingannano, non siete
mademoiselle Marie Delorme!»
«Purtroppo, Sire, non sono che
Marion!»
«Allora, se siete Marion...»
Lei s’inchinò, gli occhi bassi, con
umiltà perfetta.
«... se siete Marion» proseguì il
re, «ieri dovete aver ricevuto una
lettera.»
«Ne ricevo molte ogni giorno,
Sire» replicò ridendo la cortigiana.
«Una lettera che vi è stata portata
fra le cinque e le sei.»
«Fra le cinque e le sei, Sire, ho
ricevuto quattordici lettere.»
«Le avete conservate?»
«Ne ho bruciate dodici. Ho
conservato sul cuore la tredicesima,
ed ecco qui la quattordicesima.»
«È la sua scrittura» esclamò il re,
togliendo rapido la lettera dalle mani
di Marion.
Poi, girandola e rigirandola:
«Non è stata aperta» osservò.
«Viene da una persona molto
vicina al re e, sapendo che oggi
avrei forse avuto il supremo onore di
vedere il re, mi sono fatta un dovere
di rendere a Sua Maestà la lettera
esattamente come l’avevo ricevuta.»
Il re guardò stupito Marion e poi
indispettito la lettera.
«Ah, mi piacerebbe proprio
sapere che cosa c’è dentro» disse.
«C’è un sistema, Sire, basta
aprirla.»
«Se fossi il luogotenente di
polizia lo farei» replicò Luigi XIII,
«ma sono il re.»
Marion gli prese con dolcezza la
lettera dalle mani.
«Ma dal momento che è
indirizzata a me, io posso aprirla.»
E, dopo aver rotto il sigillo,
restituì la lettera a Luigi XIII.
Lui esitò ancora un attimo, ma poi
tutti i cattivi sentimenti che
consigliano un cuore preso dalla
passione ebbero la meglio su
quell’effimero impulso di
delicatezza e lesse sottovoce,
abbassando il tono via via che
avanzava nella lettura.
Dobbiamo ammettere che il
contenuto della lettera non era fatto
per restituire a Luigi XIII quel buon
umore la cui espressione, comunque,
se mai vi era apparsa, non si era mai
soffermata sul suo viso più di
qualche minuto.
Ecco il contenuto della lettera:
Bella Marion,
ho vent’anni; diverse donne hanno già
avuto la bontà non solo di dirmi che sono
un bel ragazzo, ma anche di fare in modo
che non potessi dubitare di questa loro
opinione. Inoltre, sono il favorito molto
favorito di re Luigi XIII che, pur spilorcio
com’è, mi ha appena, non so in virtù di
quale ispirazione, fatto dono di tremila
pistole. Il mio amico Saint-Simon mi
assicura che siete non solo la più bella ma
la migliore prostituta del mondo. Ebbene,
si tratta di far fuori noi due, in un mese, le
trentamila lire che quell’imbecille del mio
re mi ha regalato. Mettiamone diecimila in
abiti e gioielli, diecimila in cavalli e
carrozza, e le ultime diecimila in balli e
gioco. È una proposta che gradite? Ditemi
di sì e corro da voi con il mio sacco. Se
invece non la gradite, ditemi di no e corro
a gettarmi nel fiume con il mio sacco al
collo.
Direte di sì, vero? Non vorrete certo
essere la causa della morte di un povero
ragazzo la cui unica colpa è di amarvi
perdutamente senza mai aver avuto
l’onore di vedervi.
Nell’attesa di domani sera, il mio
sacco e io siamo ai vostri piedi.
Il vostro devotissimo
Baradas

Luigi aveva letto le ultime pagine


con voce tremante, che sarebbe stata
inintelligibile se anche avesse
parlato abbastanza forte da farsi
sentire.
Lette che ebbe le ultime parole, le
braccia gli si abbandonarono, la
mano che teneva la lettera cadde
all’altezza del ginocchio. Impallidì
tanto da apparire livido, alzò al cielo
uno sguardo colmo della più
profonda disperazione e, come
Cesare, che sembrava non aver quasi
sentito le pugnalate degli altri
congiurati, sentendosi colpito dalla
sola mano che gli era cara, esclamò:
«Tu quoque, Brute!», Luigi XIII
esclamò con voce degna di
compassione: «Anche tu, dunque,
Baradas!».
E senza degnare di un’occhiata
Marion Delorme, senza nemmeno
mostrare di accorgersi che lei ci
fosse, il re si gettò sulle spalle il
mantello senza allacciarlo, si mise il
feltro in testa, calcandoselo fin sugli
occhi con un colpo della mano,
scese a precipizio le scale e si fiondò
nella sua carrozza di cui un lacchè
teneva aperta la portiera, gridando al
cocchiere:
«A Chaillot!»
Quanto a Marion, che a quella
curiosa sortita del re era corsa alla
finestra e lo aveva visto slanciarsi
nella carrozza, rimase per un attimo
immobile dopo che la vettura era
scomparsa, e poi, sorridendo furba e
beffarda come solo lei sapeva fare:
«Credo proprio» disse «che avrei
fatto meglio a venire vestita da
paggio.»

1 Jean Gerson (1363-1429), teologo e filosofo


francese, fra i probabili autori dell’Imitation de
Jésus-Christ, noto anche come Le Livre de
l’éternelle consolation; fu uno dei sostenitori
dell’autonomia da Roma della Chiesa gallicana,
e contribuì alla condanna a morte dell’eretico Jan
Hus. [NdT]
XVI
Come, uscendo ognuno per la prima
volta,
Étienne Latil e il marchese di Pisany
ebbero la fortuna di incontrarsi
Abbiamo già detto che il cardinale si
era ritirato nella sua casa di
campagna di Chaillot per lasciare
quella di place Royale, cioè il suo
ministero, a Luigi XIII.
La voce della sua disgrazia si era
rapidamente sparsa per Parigi e
madame de Fargis, durante un
incontro alla Barbe Peinte con il
guardasigilli Marillac, lo aveva
messo al corrente di quella grande
notizia.
Grande notizia che, presto
tracimata dalla camera in cui era
stata detta, era scesa fino a madame
Soleil, da madame Soleil aveva
raggiunto il suo sposo, era entrata
nella camera di Étienne Latil che
aveva lasciato il letto da tre giorni
soltanto e cominciava a camminare
nella stanza, appoggiandosi alla sua
spada.
Soleil gli aveva offerto il proprio
bastone, una bella canna dal pomolo
d’agata come l’anello del bastardo
Mudarra, 1 ma Latil aveva rifiutato,
ritenendo indegno di uno spadaccino
usare come sostegno qualcosa che
non fosse la sua spada.
Alla notizia della disgrazia di
Richelieu si fermò di colpo, si
appoggiò alla spada con entrambe le
mani e, guardando dritto in faccia
Soleil, gli domandò:
«È vero quello che dici?»
«Vero come il Vangelo.»
«E da chi lo hai saputo?»
«Da una dama di corte.»
Étienne Latil conosceva
abbastanza bene la casa che dopo
l’incidente aveva dovuto eleggere
come domicilio per sapere che vi si
ospitavano, sotto false sembianze,
visitatori di ogni condizione.
Fece dunque qualche passo, tutto
immerso nelle sue riflessioni, e,
tornando a rivolgersi a Soleil:
«E adesso che non è più ministro,
che cosa pensi della sicurezza
personale del signor cardinale?»
Soleil scosse la testa ed emise una
specie di grugnito.
«Penso» rispose «che, se non
porta le sue guardie con sé, a
Chaillot farebbe bene a indossare
sotto la mozzetta la corazza che alla
Rochelle vi indossava sopra.»
«Credi» domandò Latil «che sia
l’unico pericolo che corre?»
«Per il cibo» disse Soleil, «penso
che sua nipote, madame de
Combalet, prenderà la saggia
precauzione di trovare qualcuno che
lo assaggi prima di lui.»
Poi aggiunse con l’ampio sorriso
che illuminava la sua facciona:
«Il problema è trovarlo, quel
qualcuno!»
«Trovato, Soleil» disse Latil.
«Chiamami una portantina.»
«Come?» esclamò Soleil, «non
farete l’imprudenza di uscire?»
«Farò quest’imprudenza, sì, caro
il mio ospite, e siccome so bene che
si tratta di un’imprudenza e che
un’imprudenza, nelle mie
condizioni, può costarmi la vita,
regoleremo i nostri conti in modo
che se muoio tu non perda niente.
Tre settimane di malattia, nove
brocche di tisana, due boccali di
vino e le cure assidue di madame
Soleil, che non hanno prezzo, tutto
questo vale più di venti pistole?»
«Guardate, monsieur Latil, che
non vi chiedo niente e che l’onore di
avervi alloggiato, nutrito...»
«Oh, nutrito! Per quello non c’è
voluto molto!»
«... e dissetato mi basterebbe. Ma
se proprio volete darmi venti pistole
in segno della vostra
soddisfazione...»
«Non le rifiuterai, no?»
«Non vi farei questo insulto, Dio
me ne guardi!»
«Chiama una portantina, mentre
conto le tue venti pistole.»
Soleil salutò e uscì, rientrò, andò
dritto al tavolo su cui erano allineate
le duecento lire per l’attrazione
naturale che esiste fra il denaro e gli
osti, contò i soldi con un’occhiata,
con la sicurezza tipica di certi
mestieri, e poi, quando fu certo che
non mancava nemmeno un
centesimo alle duecento lire:
«C’è la vostra portantina,
padrone» disse.
Latil rimise nel fodero la spada
che aveva posato sul tavolo e,
facendo imperiosamente cenno a
Soleil che si avvicinasse:
«Forza, dammi il braccio!» disse.
«Darvi il braccio per farvi uscire
di casa mia, monsieur Étienne, lo
faccio davvero controvoglia.»
«Soleil, amico mio» replicò Latil,
«sarebbe un dispiacere per me
vedere la più piccola nube su questa
tua faccia raggiante, quindi ti
prometto che al mio ritorno sarai la
prima persona che verrò a trovare,
soprattutto se mi tieni da parte una
brocca di quel vinello di Coulange
che incontro così volentieri da soli
due giorni e che lascio con il
rimpianto di non averlo conosciuto
meglio.»
«Ne ho una botte da trecento
brocche, monsieur Latil: la conservo
per voi.»
«A tre brocche al giorno, ce n’è
per tre mesi. Puoi essere certo di
avermi per tre mesi a pensione da te,
Soleil, se i miei mezzi me lo
consentiranno.»
«Be’, vorrà dire che in caso
contrario vi faremo credito. Un
uomo che ha per amici monsieur de
Moret, monsieur de Montmorency,
monsieur de Richelieu, un figlio di
re, un principe e un cardinale...»
Latil scosse il capo.
«Un bravo appaltatore d’imposte
sarebbe meno onorevole ma più
sicuro, mio caro Soleil» sentenziò
entrando nella portantina.
«Dove devo dire di portarvi?»
«Prima all’hôtel de Montmorency,
dove ho un dovere da compiere, e
poi a Chaillot.»
«All’hôtel di monsignore il duca
di Montmorency» gridò Soleil, in
modo tale che l’ordine fosse udito
sia in rue des Blancs-Manteaux sia
in rue Sainte-Croix-de-la-
Bretonnerie.
I portantini non se lo fecero dire
due volte e partirono con passo
veloce ed elastico, dovuto alla
raccomandazione di Soleil che
avessero cura del suo cliente, reduce
da una lunga e dolorosa malattia.
Si fermarono alla porta del duca.
La guardia svizzera in alta uniforme,
con il bastone in mano, era ritta sulla
soglia.
Latil le fece cenno di avvicinarsi e
la guardia obbedì.
«Eccovi una mezza pistola, amico
mio» disse, «fatemi la cortesia di
rispondermi.»
La guardia svizzera si tolse il
cappello, che era una maniera di
acconsentire.
«Sono un gentiluomo ferito cui il
signor conte di Moret ha fatto
l’onore di una visita durante la sua
malattia e cui ha fatto promettere di
rendere quella visita non appena
avessi potuto reggermi in piedi.
Esco oggi per la prima volta e
mantengo la promessa. Posso avere
l’onore di essere ricevuto dal signor
conte?»
«Il signor conte di Moret ha
lasciato il palazzo da cinque giorni e
nessuno sa dove si trovi.»
«Nemmeno monsignore?»
«Monsignore era partito il giorno
prima per le sue terre in
Languedoc.»
«Sono sfortunato, ma ho tenuto
fede alla promessa fatta al signor
conte. Non si può chiedere di più a
un uomo d’onore.»
«Devo riferire» disse la guardia
svizzera «che nel lasciare il palazzo
il signor conte di Moret ha fatto fare
dal suo paggio Galaor, che lo
accompagna e che è tornato indietro
apposta, una raccomandazione che
forse riguarda Vostra Signoria.»
«Quale?»
«Ha ordinato che se un
gentiluomo di nome Étienne Latil si
fosse presentato qui, gli si offrisse
vitto e alloggio e lo si trattasse
insomma come un uomo di fiducia
del suo seguito.»
Latil si tolse tanto di cappello in
onore dell’assente monsieur de
Moret, e disse:
«Il signor conte di Moret ha agito
da degno figlio di Enrico IV qual è.
In effetti, sono io quel gentiluomo e
avrò al suo ritorno l’onore di
presentargli i miei ringraziamenti e
di mettermi al suo servizio. Ecco
un’altra mezza pistola, amico mio,
per il piacere che mi fate
annunciandomi che il signor conte di
Moret ha pensato a me. Portantini, a
Chaillot, all’hôtel del signor
cardinale.»
I portantini si risistemarono fra le
loro stanghe e ripresero lo stesso
passo imboccando rue Simon-le-
Franc, rue Maubué e rue
Troussevache per raggiungere rue
Saint-Honoré, passando da rue de la
Ferronnerie.
Ora, il caso volle che nell’attimo
stesso in cui Latil, alla porta
dell’hôtel de Montmorency, diceva
ai portantini: «A Chaillot!», il caso
volle, dicevamo, che il marchese di
Pisany, che gli eventi importanti fin
qui narrati ci hanno costretto a
perdere di vista, abbastanza
ristabilito dal colpo di spada
infertogli da Souscarrières per fare
una prima uscita di casa, ritenendo
che quella prima uscita dovesse
portarlo a porgere le proprie scuse al
conte di Moret, il marchese di
Pisany saliva anche lui su una
portantina e, dopo aver
raccomandato agli uomini tutte le
precauzioni dovute a un malato,
concludeva con queste parole:
«All’hôtel de Montmorency!».
I portantini che partivano
dall’hôtel de Rambouillet percorsero
ovviamente rue Saint-Thomas-du-
Louvre e imboccarono rue Saint-
Honoré, che risalirono per arrivare
in rue de la Ferronnerie.
Questa duplice manovra fece sì
che le due portantine s’incrociassero
all’altezza di rue de l’Arbre-Sec e
che il marchese di Pisany,
preoccupato di come rivolgere al
conte di Moret, di cui ignorava
l’assenza, un complimento piuttosto
difficile, non riconoscesse Étienne
Latil, mentre lui, che non aveva
nulla di cui preoccuparsi, riconobbe
il marchese.
Si può immaginare che effetto
ebbe una simile visione
sull’irascibile spadaccino. Gettò un
grido che fece fermare di botto i
portantini e, sporgendosi
dall’apertura:
«Ehi, signor gobbo!» gridò.
Forse sarebbe stato più
intelligente da parte del marchese di
Pisany non accorgersi che
quell’appellativo si riferiva a lui, ma
era tale la coscienza della propria
gibbosità che d’istinto sporse anche
lui la testa dalla portiera per vedere
chi lo chiamasse con la sua infermità
invece che con il suo titolo.
«Desiderate?» domandò facendo
segno ai portantini di fermarsi.
«Desidero che mi aspettiate un
momento. Ho un vecchio conto da
regolare con voi» rispose Latil; poi,
ai suoi uomini:
«Svelti» disse, «avvicinate la mia
portantina a quella di quel
gentiluomo e fate in modo che le
portiere siano esattamente una di
fronte all’altra.»
Gli uomini si girarono dentro le
loro stanghe e sistemarono la
portantina di Latil dove lui aveva
ordinato.
«Va bene così?» domandarono.
«Perfettamente, sì» rispose Latil.
«Ah!»
Questa esclamazione era strappata
allo spadaccino dalla gioia di
trovarsi di fronte allo sconosciuto
marchese, il cui titolo gli era stato
rivelato dall’anello che gli aveva
mostrato.
Da parte sua, Pisany aveva infine
riconosciuto Latil.
«Avanti!» gridò ai suoi portantini.
«Non ho nulla a che fare con
quest’uomo.»
«Già, ma per vostra disgrazia
quest’uomo ha qualcosa a che fare
con voi, carino mio. Non muovetevi,
voi» urlò Latil agli uomini della
portantina avversaria, che
sembravano voler obbedire
all’ordine ricevuto. «Non muovetevi
o, ventre-saint-gris!, come diceva re
Enrico IV, vi taglio le orecchie!»
Gli uomini, che avevano già
sollevato la portantina, la
riappoggiarono sul selciato.
Attirati dal rumore, i passanti
cominciarono a radunarsi intorno
alle due portantine.
«E io, se non vi muovete, vi
faccio bastonare dai miei
domestici!»
I portantini del marchese scossero
il capo.
«Preferiamo essere bastonati»
dissero «che farci tagliare le
orecchie.»
Poi, togliendo le stanghe dai
passanti in cui erano infilate:
«Del resto» replicarono, «se
arrivano i vostri domestici con i
bastoni, abbiamo di che rispondere.»
«Bravi, amici miei!» disse Latil,
vedendo che la fortuna gli era amica.
«Ecco quattro pistole per bere alla
mia salute. Posso dirvi il mio nome,
mi chiamo Étienne Latil, mentre
sfido il vostro marchese gobbo a
dire il suo.»
«Miserabile!» esclamò Pisany.
«Allora non ti bastano i due colpi di
spada che ti ho già rifilato?»
«Non solo mi bastano» rispose
Latil, «ma mi avanzano. E quindi ve
ne voglio assolutamente rendere
uno.»
«Approfitti del fatto che non mi
reggo ancora in piedi!»
«Ah, davvero?» disse Latil.
«Allora siamo pari. Ci batteremo da
seduti. In guardia, marchese. Ah,
adesso non avete con voi le vostre
tre guardie del corpo, e vi sfido a
farmi colpire alla schiena!»
E Latil sguainò la spada
alzandone la punta fino agli occhi
del suo avversario.
Non c’era modo di indietreggiare.
Una cerchia di persone circondava le
due portantine. E poi, lo abbiamo
già detto, il marchese di Pisany era
coraggioso. Sguainò a sua volta la
spada e, senza che si vedessero i due
combattenti, poiché le sole portiere
aperte erano quelle che si
fronteggiavano, si videro due lame
uscire ognuna da una portiera,
incrociarsi e, attaccando con delle
finte, contrattaccando a regola
d’arte, affondare rabbiosamente ora
nell’una ora nell’altra portiera.
Infine, dopo un duello che durò
più o meno cinque minuti, con gran
divertimento degli spettatori, un
grido, o meglio una bestemmia, uscì
da una delle portantine: Latil aveva
inchiodato il braccio del suo
avversario alla struttura della sua
portantina.
«Fatto» commentò Latil,
«consideratelo un acconto, mio bel
marchese, e non dimenticate che
farò lo stesso ogni volta che vi
incontrerò.»
I popolani hanno una spiccata
predilezione per i vincitori,
soprattutto quando sono belli e
generosi. Latil era più bello che
brutto, e aveva dato prova di
generosità lanciando quattro pistole
sul selciato.
Il marchese di Pisany era brutto e
sconfitto, e non aveva tirato fuori
nemmeno un soldo.
Se avesse fatto appello alla
giustizia dei presenti, gli avrebbero
certamente dato torto.
Se lo tenne per detto.
«All’hôtel de Rambouillet» disse
Pisany.
«A Chaillot» disse Étienne Latil.

1 Titolo e personaggio di una commedia di


Lope de Vega. [NdC]
XVII
Il cardinale a Chaillot
Giunto a Chaillot, il cardinale si era
trovato più o meno nella stessa
situazione di Atlante dopo che,
stanco di portare il mondo, lo aveva
deposto per qualche istante sulle
spalle dell’amico Ercole.
Respirò.
«Ah!» mormorò, «avrò tutto il
tempo di comporre versi!»
E in effetti Chaillot era il ritiro in
cui il cardinale si riposava dalla
politica componendo non diremo
poesia, ma versi.
Uno studio al piano terreno, la cui
porta si apriva su un magnifico
giardino, su un viale di tigli ombroso
e fresco anche nei giorni più ardenti
dell’estate, era il santuario dove si
rifugiava per un paio di giorni al
mese.
Questa volta veniva a chiedergli
riposo e oblio. Per quanto tempo?
Non lo sapeva.
Nel mettere piede in quell’oasi
poetica, la sua prima idea era stata di
mandare a chiamare i suoi
collaboratori abituali cui, come un
generale, distribuiva i compiti in
quella grande battaglia del pensiero
che era in piena attività in Spagna,
andava languendo in Italia, si era
conclusa in Inghilterra con
Shakespeare e stava per cominciare
in Francia con Rotrou e Corneille.
Poi aveva riflettuto che nella sua
casa di Chaillot non era più
l’onnipotente ministro che
distribuiva ricompense, bensì un
semplice privato con in più, rispetto
agli altri, lo svantaggio di essere
molto compromettente per i suoi
amici. Aveva dunque deciso di
aspettare che i suoi vecchi amici
andassero da lui, ma che ci
andassero senza essere chiamati.
Aveva tirato fuori da uno
scatolone lo schema di una nuova
tragedia, Mirame, una vendetta
contro l’attuale regina, e le scene
che aveva già abbozzato.
Cattolico mediocre anziché no, il
cardinale di Richelieu non era
nemmeno abbastanza buon cristiano
da praticare l’oblio delle ingiurie.
Profondamente ferito dal misterioso
e invisibile intrigo che lo aveva
rovesciato e di cui riteneva la regina
Anna uno dei più attivi responsabili,
si consolava con l’idea di renderle il
male che gli aveva fatto.
Siamo quanto mai dispiaciuti di
rivelare le segrete debolezze del
grande ministro, ma abbiamo scelto
di scriverne la storia e non il
panegirico.
Il primo segno di simpatia gli
venne da dove meno se lo aspettava.
Il suo cameriere, Guillemot, gli
annunciò che una portantina si era
fermata davanti alla porta, ne era
sceso, appoggiandosi ai muri, un
uomo che pareva non essersi del
tutto ripreso da una grave malattia o
ferita, si era fermato e seduto su una
panca nell’anticamera, dichiarando:
«Questo è il mio posto.»
I portantini, pagati, erano ripartiti
di buon passo.
Quell’uomo, con in testa un feltro
un po’ malridotto, era avvolto in un
mantello color tabacco, indossava
panni più da militare che da civile, e
portava a tracolla una spada che non
si ritrovava se non nei disegni di
Callot, allora all’inizio del suo
successo.
A chi gli domandava chi si
dovesse annunciare al cardinale
aveva risposto:
«Non conto niente, non
annunciate nessuno.»
Gli avevano chiesto che cosa
venisse a fare e lui aveva risposto
semplicemente:
«Il signor cardinale non ha più le
sue guardie, vengo a vegliare sulla
sua sicurezza.»
Guillemot aveva trovato che la
cosa fosse abbastanza bizzarra da
doverla riferire a madame de
Combalet e doverne mettere a
conoscenza il cardinale. Aveva
riferito a madame de Combalet e ne
aveva messo a conoscenza il
cardinale, che ordinò di condurre da
lui il suo misterioso difensore.
Cinque minuti dopo, la porta si
apriva ed Étienne Latil, pallido,
appoggiandosi allo stipite per non
cadere, compariva sulla soglia, il
cappello nella mano destra, la mano
sinistra sull’elsa della spada.
Fisionomista com’era, con la sua
eccezionale memoria per i visi che
incontrava, a Richelieu bastò
un’occhiata per riconoscerlo.
«Ah!» disse, «siete voi, caro
Latil!»
«In persona, Vostra Eminenza.»
«State meglio, a quanto pare.»
«Sì, monsignore, e approfitto
della mia convalescenza per venire a
offrire a Vostra Eminenza i miei
servizi.»
«Grazie, grazie» replicò ridendo il
cardinale, «ma non c’è nessuno di
cui mi voglia disfare!»
«Questo è possibile» disse Latil,
«ma non c’è nessuno che vorrebbe
disfarsi di voi?»
«Ah, questo è più che probabile!»
In quel momento da una porta
laterale entrò madame de Combalet
e il suo sguardo preoccupato si
spostò rapido dallo zio allo
sconosciuto avventuriero.
«Guardate, Marie» le disse il
cardinale, «siate riconoscente come
lo sono io a questo bravo ragazzo, il
primo che venga a offrirmi i suoi
servizi da che sono in disgrazia.»
«Oh, non sarò certamente
l’ultimo» replicò Latil, «però non mi
dispiace affatto essere arrivato prima
degli altri.»
«Zio» intervenne madame de
Combalet con quello sguardo acuto
e compassionevole che hanno solo le
donne, «questo signore è molto
pallido e mi sembra privo di forze.»
«Un motivo di merito in più. Il
mio medico, che lo visita
regolarmente, mi ha detto che è fuori
pericolo solo da una settimana e da
soli tre giorni si alza dal letto. E
dunque dicevo che è tanto più
meritevole da parte sua essersi
disturbato per me.»
«Ma non è» chiese madame de
Combalet «quel signore che ha
rischiato di morire in una rissa alla
locanda della Barbe Peinte?»
«Siete troppo buona, mia bella
signora, era un vero e proprio
agguato, ma l’ho appena ritrovato,
quel maledetto gobbo, e l’ho
rimandato a casa con un bel colpo di
spada nel braccio.»
«Il marchese di Pisany?» esclamò
madame de Combalet. «Poveretto,
non ha proprio fortuna. Otto giorni
fa era ancora a letto per la ferita
ricevuta lo stesso giorno in cui avete
rischiato di essere ucciso.»
«Marchese di Pisany?» ripeté
Latil. «Non mi dispiace sapere il suo
nome. Ecco dunque perché ha detto
ai suoi portantini: “All’hôtel de
Rambouillet”, mentre io dicevo ai
miei: “A Chaillot”! Hôtel de
Rambouillet, me lo ricorderò questo
indirizzo!»
«Ma come avete fatto a battervi,
se vi reggete a stento?» domandò il
cardinale.
«Ci siamo battuti rimanendo nelle
nostre portantine, monsignore. È
molto comodo, quando si è malati.»
«E lo venite a dire a me, dopo gli
editti che ho emanato sui duelli! È
vero» aggiunse il cardinale «che non
sono più ministro e che, non
essendolo più, questa miglioria farà
la fine di tutte le altre che ho tentato:
entro un anno saranno sparite!»
E il sospiro del cardinale provò
che non era ancora tanto distaccato
dalle cose di questo mondo quanto
avrebbe voluto far credere.
«Ma dicevate, caro zio» riprese
madame de Combalet, «che
monsieur Latil – vi chiamate Latil,
vero? – veniva a offrirvi i suoi
servizi. Che genere di servizi?»
Latil mostrò la sua spada.
«Servizi di attacco e di difesa
insieme. Il signor cardinale non ha
più un capitano delle guardie e non
ha più guardie: tocca a me farne le
veci.»
«Come sarebbe “non ha più un
capitano delle guardie”?» replicò
una voce di donna alle spalle di
Latil. «A me sembra che abbia
sempre il suo Cavois, che è poi
anche il mio.»
«Ah» disse il cardinale, «mi pare
di conoscerla questa voce. Venite,
cara madame Cavois, venite qui!»
Una donna svelta e pimpante,
benché fosse ormai sulla trentina e
le forme di un tempo cominciassero
a nascondersi sotto una certa
rotondità, scivolò rapidamente fra
Latil e lo stipite della porta opposto
a quello cui lui si appoggiava e si
trovò di fronte al cardinale e a
madame de Combalet.
«Ah» disse fregandosi le mani,
«vi siete finalmente sbarazzato del
vostro orribile ministero e di tutti i
problemi che ci dava!»
«Come, che ci dava?» rispose il
cardinale. «Volete dire che il mio
ministero dava problemi anche a
voi, cara signora?»
«Direi! Non ci dormivo né di
notte né di giorno. Temevo sempre
per Vostra Eminenza una qualche
catastrofe in cui il mio povero
Cavois si sarebbe trovato
immischiato. Di giorno continuavo a
pensarci e trasalivo al minimo
rumore, di notte ne sognavo e mi
svegliavo di soprassalto. Non avete
idea di che brutti sogni fa una donna
quando dorme da sola!»
«Ma monsieur Cavois?» domandò
madame de Combalet ridendo.
«Sì, mica dormiva con me!
Povero Cavois! Grazie a Dio, non è
la buona volontà che gli manca. In
nove anni abbiamo avuto dieci
figli, 1 il che prova che non
s’impigrisce troppo, ma più andava
avanti più peggiorava. Il signor
cardinale lo aveva portato con sé
all’assedio della Rochelle, dove è
rimasto otto mesi! Per fortuna che
ero incinta quando è partito, così
non è stato tempo perso. Ma il
signor cardinale stava per portarlo in
Italia, cara signora. Capite? E Dio sa
per quanto tempo! Ma ho tanto
pregato il Signore che credo abbia
fatto un miracolo per me e che sia
grazie alle mie preghiere che il
signor cardinale ha perso il suo
posto.»
«Grazie, madame Cavois!» disse
ridendo il cardinale.
«Sì, grazie» disse anche madame
de Combalet, «in effetti è un grande
favore che Dio ci concede quello di
rendere a voi vostro marito e a me
mio zio.»
«Be’» replicò madame Cavois,
«uno zio e un marito, non è mica la
stessa cosa.»
«Ma se non segue me» osservò il
cardinale, «Cavois seguirà il re.»
«Dove? dove?» domandò
madame Cavois.
«In Italia!»
«Neanche per sogno! Ah, non lo
conoscete ancora, signor cardinale.
Lui, lasciarmi? Lui, separarsi dalla
sua mogliettina? Mai!»
«Ma vi avrebbe ben lasciata, si
sarebbe ben separato da voi per
me?»
«Per voi, sì. Perché io non lo so
che cosa gli avevate fatto, ma lo
avevate come stregato. Non è che sia
tanto forte di testa, pover’uomo, e se
non avesse avuto me per mandare
avanti la casa e tirare su i bambini,
non so come se la sarebbe cavata.
Ma per uno che non siete voi,
separarsi da sua moglie! Offendere
Dio andando a letto con lei una volta
ogni tanto, quando capita! Mai!»
«E i doveri della sua carica?»
«Quale carica?»
«Lasciando il mio servizio,
Cavois passa a quello del re.»
«Ah, sì! Ascoltatemi bene!
Lasciando il vostro servizio,
monsignore, Cavois passa al mio.
Spero proprio che a quest’ora abbia
già comunicato a Sua Maestà le sue
dimissioni.»
«Vi ha detto che lo avrebbe
fatto?» domandò madame de
Combalet.
«C’è bisogno che mi dica che
cosa farà? Non lo so in anticipo, io?
Credete che non veda dentro di lui
come in una sfera di cristallo? Se vi
dico che a quest’ora è cosa fatta, è
cosa fatta e basta!»
«Ma, cara madame Cavois» disse
il cardinale, «il posto di capitano
delle guardie valeva seimila lire
all’anno. Sono seimila lire che
mancheranno alla vostra famiglia: la
decenza non mi permette di avere,
da semplice privato, un capitano
delle guardie a seimila lire all’anno.
Pensate ai vostri otto figli.»
«Perché, non ci avete provveduto
voi a loro? E il privilegio delle
portantine, che vale almeno
dodicimila lire all’anno, non è
preferibile a un posto che il re dà e
toglie secondo il suo capriccio?
Grazie a Dio, i nostri figli sono
grandi e grossi e vedrete voi stesso
se non stanno bene. Entrate,
bambini, entrate tutti!»
«Come, i vostri figli sono qui?»
«Tranne l’ultimo, che è nato
durante l’assedio della Rochelle e
che è a balia, dato che ha solo
cinque mesi. Ma ha dato una delega
a quello che sta crescendo.»
«Ma come, siete già incinta,
madame Cavois?»
«Sai che miracolo! È già un mese
che mio marito è tornato. Venite
tutti, entrate, il signor cardinale lo
permette.»
«Lo permetto, sì, ma intanto
permetto o piuttosto ordino a
monsieur Latil di sedersi. Prendete
una poltrona e sedetevi, Latil.»
Latil obbedì senza rispondere. Se
fosse rimasto in piedi un attimo di
più, si sarebbe sentito male.
Nel frattempo, tutta la progenie
dei Cavois sfilava in ordine di
altezza, il più grande, un bel
bambino di dieci anni, in testa, poi
una bambina, poi un maschietto, poi
un’altra bambina, e via via fino
all’ultimo, un bimbo di due anni.
In fila davanti al cardinale,
sembravano le canne di un flauto di
Pan.
«E adesso» disse madame Cavois,
«questo è l’uomo cui dobbiamo
tutto, voi, vostro padre e io.
Inginocchiatevi davanti a lui per
ringraziarlo.»
«Madame Cavois, madame
Cavois! Ci si inginocchia solamente
davanti a Dio!»
«E a chi lo rappresenta. E
comunque spetta a me dare ordini ai
miei figli. In ginocchio,
marmaglia!»
I bambini obbedirono.
«Ecco, adesso, Armand» disse
madame Cavois rivolta al suo
primogenito, «ripeti al signor
cardinale la preghiera che ti ho
insegnato e che dici ogni sera e ogni
mattina.»
«Signore, mio Dio» recitò il
bambino, «date la salute a mio
padre, a mia madre, ai miei fratelli e
alle mie sorelle e fate che Sua
Eminenza il cardinale, cui dobbiamo
tutto e al quale vi supplichiamo di
accordare tutti i beni possibili, perda
il suo ministero in modo che papà
possa tornare a casa tutte le sere.»
«Amen!» risposero in coro tutti
gli altri bambini.
«Ah, be’» disse ridendo il
cardinale, «non mi stupisce proprio
che una preghiera fatta così di buon
cuore e da tante voci sia stata
esaudita!»
«Ecco fatto!» concluse madame
Cavois. «E adesso che abbiamo
detto al signor cardinale tutto quello
che dovevamo dirgli, alzatevi e
andiamo.»
I bambini si alzarono tutti
insieme, così come si erano
inginocchiati.
«Come obbediscono, eh?» disse
madame Cavois.
«Se mai torno al mio ministero,
madame Cavois» replicò il
cardinale, «vi faccio nominare
istruttore delle truppe di Sua
Maestà.»
«Dio ce ne guardi, monsignore.»
Madame de Combalet baciò i
bambini e la madre, che li fece salire
a due a due in tre portantine in attesa
davanti alla porta, e salì nella quarta
con il più piccolo.
Il cardinale li seguì con lo
sguardo, piuttosto commosso.
«Monsignore» disse Latil
sollevandosi sulla sua poltrona, «non
avete più bisogno della mia spada,
poiché monsieur Cavois vi segue
nella vostra disgrazia, ma non
dovete temere solo le armi. La
vostra nemica si chiama de’
Medici.»
«Pensate così anche voi, vero?»
disse madame de Combalet
tornando. «Il veleno...»
«Ci vuole una persona fidata che
assaggi prima di voi tutto ciò che
mangerà Vostra Eminenza. Mi offro
io.»
«Oh, per questo, caro monsieur
Latil» disse sorridendo madame de
Combalet, «arrivate troppo tardi. Si
è già offerto qualcuno.»
«Ed è stato accettato?»
«Lo spero, almeno» rispose
madame de Combalet guardando
affettuosamente lo zio.
«E chi sarebbe?»
«Io» disse madame de Combalet.
«Allora» disse Latil, «qui non
servo più. Addio, monsignore.»
«Che cosa fate?» domandò il
cardinale.
«Me ne vado. Avete un capitano
delle guardie, avete un assaggiatore,
a che titolo rimarrei presso Vostra
Eminenza?»
«A titolo di amico. Étienne Latil,
un cuore come il vostro è raro e
adesso che l’ho trovato non lo
voglio perdere.»
Poi, rivolgendosi a madame de
Combalet:
«Mia cara Marie» le disse, «affido
a voi, anima e corpo, il mio amico
Latil. Se non trovo in questo
momento un modo d’impiegarlo
secondo i suoi meriti, forse se ne
presenterà l’occasione fra qualche
tempo. Andate, supponendo che i
miei amici letterati mi siano fedeli
quanto il mio capitano delle guardie
e il mio luogotenente, bisogna che
prepari loro un compito per
domani.»
«Monsieur Jean Rotrou» annunciò
la voce di Guillemot.
«Vedete» disse il cardinale a
madame de Combalet e a Latil.
«Eccone già uno che non si è fatto
attendere.»
«Mio Dio» disse Latil, «perché
mai mio padre non mi ha fatto
studiare la poesia?»
1 Nel quindicesimo capitolo della prima parte,
madame Cavois aveva invece parlato di otto
figli, di cui due morti. [NdT]
XVIII
Mirame
Rotrou non era solo.
Il cardinale guardò con curiosità
quel compagno sconosciuto che lo
seguiva con il cappello in mano,
inchinandosi quanto basta per
manifestare ammirazione, ma non
servilismo.
«Eccovi qui, Rotrou» disse il
cardinale tenendogli la mano fra le
proprie. «Non vi nascondo che
contavo sulla fedeltà dei miei
confratelli poeti più che su quella di
chiunque altro. Sono felice di vedere
che siete il più fedele dei miei
fedeli.»
«Se avessi potuto prevedere
quello che vi sta accadendo,
monsignore, mi avreste trovato qui e
sarei stato io ad aprire all’uomo
illustre in disgrazia le porte del suo
ritiro. Ah» proseguì Rotrou
fregandosi le mani, «allora
mettiamoci a lavorare; è così bello
comporre versi!»
«Questo giovane condivide la
vostra opinione?» domandò
Richelieu guardando il compagno di
Rotrou.
«La condivide tanto che è stato lui
a correre da me per annunciarmi
quello che aveva appena saputo nel
salotto di madame de Rambouillet e
supplicarmi di presentarlo a voi
senza indugi, ora che Vostra
Eminenza non era più ministro. La
sua speranza è che, ora che gli affari
di Stato vi lasciano un po’ di tempo,
troviate quello di andare a vedere la
sua commedia che metteranno in
scena all’hôtel de Bourgogne.»
La proposta, che, rivolta a un
cardinale, ai giorni nostri potrebbe
apparire piuttosto bizzarra, a
quell’epoca non aveva nulla di
strano e non scandalizzò affatto
Richelieu.
«E quale sarà la commedia messa
in scena?» domandò.
«Rispondi tu» invitò Rotrou.
«Mélite, monsignore» rispose
timidamente il giovane vestito di
nero.
«Ah, ah!» replicò Richelieu, «se
la memoria non m’inganna, siete
quel monsieur Corneille che
secondo il vostro amico Rotrou ci
eclisserà tutti, lui come gli altri.»
«L’amicizia è indulgente,
monsignore, e il mio compatriota
Rotrou più che un amico è per me
un fratello.»
«Mi piace vedere nella poesia
quelle unioni che gli antichi hanno a
volte cantato fra i guerrieri, ma mai
fra i poeti.»
Poi, rivolgendosi a Corneille:
«Siete ambizioso, giovanotto?»
«Sì, monsignore. Ho
un’ambizione in particolare che, se
si realizzasse, mi colmerebbe di
gioia.»
«Quale?»
«Domandate al mio amico
Rotrou.»
«Oh, oh! un ambizioso timido!»
«Meglio di così, monsignore:
modesto.»
«E quest’ambizione» domandò il
cardinale «io posso realizzarla?»
«Sì, monsignore, con una sola
parola» rispose Corneille.
«Coraggio, allora. Sono più
disposto che mai a realizzare le
ambizioni degli altri da quando ho
visto l’annientamento delle mie.»
«Monsignore, il mio amico
Corneille ambisce all’onore di
essere ricevuto nel novero dei vostri
collaboratori. Se Vostra Eminenza
avesse mantenuto la sua carica,
avrebbe atteso il successo della sua
commedia per esservi presentato,
ma, dal momento che siete tornato a
essere semplicemente un
grand’uomo con del tempo per sé,
mi ha detto: “Jean, amico mio, il
cardinale si metterà al lavoro,
affrettiamoci o per me non ci sarà
più posto”.»
«Il posto c’è, monsieur Corneille»
disse il cardinale, «ed è vostro.
Cenerete con me, signori, e se,
prima, arriveranno i nostri
compagni, vi distribuirò questa sera
stessa lo schema di una nuova
tragedia, per la quale ho già steso
l’abbozzo di alcune scene.»
Il cardinale non sbagliava nelle
sue supposizioni e quella sera si
riunirono intorno a una stessa tavola
coloro che vennero poi chiamati i
Cinq auteurs: Bois-Robert, Colletet,
L’Estoile, Rotrou e Corneille.
Richelieu fece gli onori della sua
tavola con la cordialità di un
collega; poi, terminata la cena, si
trasferì con loro nello studio, dove,
ardendo dall’impazienza di rendere i
suoi collaboratori partecipi del
proprio entusiasmo per il soggetto su
cui li avrebbe messi al lavoro, si
affrettò a prendere dalla sua
scrivania un quadernetto dove, con
la sua scrittura dalle lettere grandi,
era scritta la parola
MIRAME

«Signori» disse il cardinale, «di


tutto quanto abbiamo finora
intrapreso, questa è l’opera che
preferisco. Il nome che già avete
letto, Mirame, 1 non vi dice nulla,
perché, come la commedia stessa, è
opera di pura invenzione, ma, poiché
all’uomo non è dato di inventare ma
solo di riprodurre idee generali e
fatti accaduti, modificando, a
seconda del grado di fantasia del
poeta, la forma sotto cui li
riproduce, molto probabilmente
riconoscerete sotto i nomi falsi
quelli veri e nelle località
immaginarie quelle reali.
Naturalmente siete liberi di fare,
anche ad alta voce, i commenti che
vorrete.»
I presenti s’inchinarono.
Solamente Corneille guardò Rotrou,
come a dire: “Non ci capisco
assolutamente nulla, ma mi rimetto a
te perché mi spieghi che cosa
significa questa scena”. Rotrou con
un cenno gli rispose che gli avrebbe
in seguito dato tutte le spiegazioni
che voleva.
Richelieu lasciò ai due giovani il
tempo di fare il loro mimo e riprese:
«Immagino un re della Bitinia –
uno qualunque – rivale del re della
Colchide. Il re della Bitinia ha una
figlia, Mirame, che ha una
confidente, Almira, e una donna del
suo seguito, Alcina. Dal canto suo, il
re della Colchide, in guerra con
quello della Bitinia, ha un favorito
molto seducente, amabile, elegante.
Pensandoci bene, troveremmo
certamente in uno dei paesi
confinanti con la Francia un tipo
simile ad Arimante.»
«Il duca di Buckingham» disse
Bois-Robert.
«Appunto» disse Richelieu.
Rotrou diede un colpetto con il
ginocchio contro quello di Corneille,
che spalancò gli occhi, continuando
a non capirci niente, malgrado il
nome di Buckingham che pure
chiariva la questione.
«Il re della Frigia Azamor, alleato
del re della Bitinia, non solo è
innamorato, ma è anche fidanzato di
Mirame.»
«Che non lo ama» intervenne
Bois-Robert, «perché è innamorata
di Arimante.»
«Hai proprio indovinato, Le Bois»
disse Richelieu ridendo. «La
situazione vi è chiara, signori?»
«È semplicissimo» rispose
Colletet. «Mirame ama il nemico di
suo padre e tradisce il padre per
l’amante.»
Rotrou diede un’altra ginocchiata
a Corneille, che ci capiva sempre
meno.
«Eh, come correte, Colletet» disse
il cardinale. «Tradisce... tradisce...
una donna tradisce il marito, ma una
figlia, tradire completamente,
materialmente, suo padre, no,
sarebbe troppo forte. Lei si
accontenta, nel secondo atto, di
ricevere il suo amante nei giardini
del palazzo.»
«Come una certa regina di
Francia» intervenne L’Estoile «ha
ricevuto lord Buckingham...»
«Insomma, L’Estoile, volete
smetterla? Se vi sentisse vostro
padre, affiderebbe questa cosa al suo
diario come fatto storico. Allora: si
viene alle mani. Arimante,
inizialmente in vantaggio, viene poi
sconfitto da Azamor, per uno di quei
rovesci di fortuna così frequenti
negli annali di guerra. Mirame viene
a sapere prima della vittoria e poi
della disfatta, il che le permette di
abbandonarsi ai più diversi
sentimenti. Vinto, Arimante non ha
voluto sopravvivere alla vergogna e
si è gettato sulla propria spada. Lo
credono morto. Mirame vuole
morire e si rivolge alla sua
confidente, madame de Chevreuse...
Ma no! Come mai ho detto
“madame de Chevreuse” parlando di
Mirame? Si rivolge alla sua
confidente Almira che le propone di
avvelenarsi insieme a lei con
un’erba che ha portato dalla
Colchide. Entrambe annusano l’erba
e svengono. Nel frattempo, le ferite
di Arimante, che non sono mortali,
sono state medicate. Lui riprende i
sensi, ma solo per disperarsi della
morte di Mirame. Almira mette fine
alle angosce di tutti confessando di
aver fatto annusare alla principessa
un’erba non velenosa, ma solo
narcotica, la stessa con la quale
Medea ha addormentato il serpente
che faceva la guardia al toson d’oro,
e quindi Mirame non è morta, ma
dorme soltanto; ritorna poi in sé per
apprendere che il suo amante vive,
che il re della Colchide offre la pace,
che Azamor rinuncia alla sua mano
e che più nulla si oppone alla sua
unione con Arimante.»
«Bravo!» gridarono in coro
Colletet, L’Estoile e Bois-Robert.
«Sublime!» rincarò la dose Bois-
Robert.
«Effettivamente, da questo
intreccio si può tirare fuori
qualcosa» disse Rotrou. «Che cosa
ne pensi, Corneille?»
Lui fece un cenno con il capo.
«Mi sembrate piuttosto freddo,
monsieur Corneille» osservò
Richelieu, un po’ seccato dal
silenzio del più giovane dei suoi
ascoltatori, che si aspettava di veder
scoppiare d’entusiasmo.
«No, monsignore, sto solo
riflettendo a come tagliare gli atti.»
«È già tutto indicato» replicò
Richelieu. «Il primo atto si chiude
sulla scena con Almira e Mirame,
quando Mirame acconsente a
ricevere Arimante nei giardini del
palazzo. Il secondo finisce quando,
dopo averlo ricevuto, lei ripensa con
spavento a quello che ha fatto ed
esclama:
Qu’ai-je dit! qu’ai-je fait! je suis bien
criminelle!
Que d’infidélités pour paraître fidèle!» 2

«Bravo!» dichiarò Le Bois.


«Bell’antitesi! Pensiero magnifico!»
«Il terzo» proseguì il cardinale «si
conclude con la disperazione di
Azamor nel vedere che Mirame
preferisce Arimante, benché
sconfitto, a lui. Il quarto con la
decisione di Mirame di morire e il
quinto con il consenso del re della
Bitinia alle nozze della figlia con
Arimante.»
«Ma se lo schema è fatto, è fatta
anche la tragedia, monsignore!»
disse L’Estoile.
«Non solo è fatto lo schema»
ribatté Richelieu, «ma anche un
certo numero di versi cui tengo
molto e che quindi si dovrà trovare il
modo di inserire nella mia opera.»
«Vediamoli, monsignore» disse
Bois-Robert.
«Nella prima scena fra il re e il
suo confidente Acaste, il re,
lamentandosi dell’amore di sua
figlia per il nemico del regno, dice:
Les projets d’Arimant s’en iront en fumée,
Je méprise l’effet d’une si grande armée;
Mais j’en crains bien la cause et ne puis
sans effroi
Penser qu’elle me touche ou qu’elle vient
de moi.
En effet, c’est mon sang, c’est lui que je
redoute.
ACASTE
Quoi, Sire, votre sang!
IL RE
Oui, mon sang. Mais écoute:
Je m’expliquerai mieux, c’est mon sang le
plus beau
Celle qui vous paraît un céleste flambeau
Est un flambeau fatal à toute ma famille,
Et peut-être à l’État; en un mot: c’est ma
fille.
Son cœur qui s’abandonne aux jeux d’un
étranger
En l’attirant ici, m’attire le danger,
Cependant que partout je me montre
invincible,
Elle se laisse vaincre!
ACASTE
O dieux! Est-il possible?
IL RE
Acaste, il est trop vrai. Par différents
efforts
On sape mon État et dedans et dehors,
On corrompt mes sujets, on conspire ma
perte
Tantôt ouvertement, tantôt à force
couverte!» 3

A questi versi, enfaticamente


declamati, risposero gli applausi dei
cinque ascoltatori.
La versificazione a quel tempo era
ancora ben lontana dalla perfezione
cui la portarono Corneille e Racine.
L’antitesi spadroneggiava e si
preferivano ancora i versi a effetto a
quelli belli. In seguito si preferirono
i bei versi a quelli buoni, poi si
comprese finalmente che i buoni
versi, quelli situazionali, erano i
migliori di tutti.
Esaltato da quell’unanime
consenso, Richelieu proseguì.
«Nello stesso atto» disse, «ho
abbozzato una scena tra Mirame e
suo padre, una scena che quello tra
voi che si incaricherà del primo atto
dovrà conservare. In quella scena è
racchiuso il mio pensiero, un
pensiero di cui non voglio cambiare
una virgola.»
«Dite, monsignore» lo invitarono
L’Estoile, Colletet e Bois-Robert.
«Vi ascoltiamo, monsignore»
disse Rotrou.
«Ho dimenticato di dirvi che
Mirame era prima stata fidanzata
con il principe della Colchide, ma,
essendo egli defunto, lei si serve di
quel pretesto per restare fedele ad
Arimante e non sposare Azamor.
Ecco la scena fra lei e suo padre.
Ognuno è libero di leggervi le
allusioni che crede.
IL RE
Ma fille, un doute ici tient mon âme en
balance.
Le superbe Arimant, plein de vaine
espérance,
Demande à me parler et prétend de vous
voir.
Sans espoir de la paix, dois-je le
recevoir?» 4

«Leggete: lord Buckingham che


viene come ambasciatore da Sua
Maestà Luigi XIII» disse Bois-
Robert.
Rotrou toccò per la terza volta il
ginocchio di Corneille, che gli rese il
gesto: cominciava a capire.
«Mirame» disse Richelieu
«risponde:
S’il veut faire la paix, sa venue est ma
joie,
Si vous la concluez, je veux bien qu’il me
voie
Mais s’il rompt avec nous, on pourrait
m’obliger
Aussitôt à mourir qu’à voir cet étranger.
IL RE
Si du roi de Colchos, il avait l’héritage?
MIRAME
S’il vous hait, il aura ma haine pour
partage.
IL RE
Bien qu’il soit né sujet, il a de hauts
desseins.
MIRAME
S’il agit contre vous, il faut les rendre
vains.
IL RE
Il prétend avoir Mars et l’amour
favorables. 5
Tengo particolarmente a questo
verso, che deve rimanere com’è»
s’interruppe Richelieu.
«Chi osasse toccarlo» replicò
Bois-Robert «si rivelerebbe incapace
di comprenderne la bellezza.
Continuate, continuate!»
Il cardinale riprese, scandendo
compiaciuto il verso:
«Il prétend avoir Mars et l’amour
favorables.
MIRAME
Ceux qui prétendent trop sont souvent
misérables.»

«Spero che non lascerete toccare


nemmeno questo» disse Colletet.
Richelieu proseguì:
«IL RE
Il se vante d’avoir quelque bonheur secret.
MIRAME
Un amour bien traité devrait être
discret.» 6

«Bel pensiero» mormorò


Corneille.
«Trovate, giovanotto?» domandò
compiaciuto Richelieu.
«IL RE
Il dit qu’il est aimé d’une fort belle dame.
MIRAME
Ce n’est donc pas de moi dont il a captivé
l’âme.
IL RE
Pourquoi rougissez-vous s’il n’est point
votre amant?
MIRAME
Vous me voyez rougir de courroux
seulement!» 7

Richelieu s’interruppe.
«Ecco, mi sono fermato qui»
disse. «Per il secondo e il terzo atto
ho buttato giù delle scene che
comunicherò a chi ne sarà
incaricato.»
«Chi si incaricherà del primo e
del secondo, monsignore?» disse
Bois-Robert. «Chi oserà mettere i
propri versi prima e dopo i vostri?»
«Guardate, signori» disse
Richelieu al colmo della gioia,
sensibile com’era, proprio come un
bambino, agli elogi in campo
letterario, lui, così severo con se
stesso nelle questioni politiche,
«guardate, se ritenete troppo gravoso
il peso dei primi due atti, potremo
tirare a sorte tutti e cinque.»
«La giovinezza non ha esitazioni,
monsignore» disse Rotrou. «Il mio
amico Corneille e io ci faremo
carico dei primi due atti.»
«Temerari!» esclamò Richelieu
ridendo.
«Vostra Eminenza avrà solo la
bontà di darci uno schema
dettagliato delle scene, in modo che
non ci discostiamo nemmeno un
attimo dalla sua volontà.»
«Allora io mi incaricherò del
terzo» disse Bois-Robert.
«E io del quarto» disse L’Estoile.
«E io del quinto» disse Colletet.
«Se vi occuperete voi del quinto,
Colletet» disse Richelieu, «vi devo
raccomandare...» e, battendogli su
una spalla, lo condusse nel vano di
una finestra, dove prese a parlargli a
bassa voce.
Intanto Rotrou si chinò verso il
suo amico Corneille e gli disse
all’orecchio:
«Pierre, a partire da questo
momento, hai la fortuna nelle tue
mani, sta a te non lasciartela
scappare.»
«Che cosa devo fare?» domandò
Corneille, ingenuo.
«Versi che non siano migliori di
quelli del cardinale» rispose Rotrou.

1 Dumas anticipa di tredici anni, per le


necessità del suo racconto, la cronologia reale: la
tragicommedia Mirame è stata infatti scritta nel
1641. Per la stessa ragione, attribuisce la
redazione di quella pièce al gruppo dei Cinq
auteurs, mentre è stato solo Jean Desmarets de
Saint-Sorlin a comporla, probabilmente
seguendo le indicazioni di Richelieu e
utilizzando brani scritti da lui. Per mettere in
scena quella pièce Richelieu fece costruire, senza
badare a spese, una sala di spettacolo nel Palais-
Cardinal (oggi Palais-Royal). La prima, cui
assistette la regina Anna d’Austria, fu un fiasco
completo. [NdC]
2 Che ho detto! che ho fatto! sono una
criminale! / Quante infedeltà per sembrare
fedele! [NdT]
3 – I piani di Arimante andranno in fumo, non
temo gli effetti di un’armata così grande; ma ne
temo la causa e non posso pensare senza
spavento che mi tocca da vicino o che dipende
da me. In verità è il mio sangue che temo.
– Come, Sire! Il vostro sangue!
– Sì, il mio sangue. Ma ascolta, mi spiegherò
meglio: la parte migliore del mio sangue, quella
che vi sembra un vessillo celeste, è un vessillo
fatale a tutta la mia famiglia, e forse allo Stato;
in una parola, si tratta di mia figlia. Il suo cuore
che si abbandona ai giochi di uno straniero,
attirandolo qui, attira il pericolo verso di me, e
mentre ovunque io mi mostro invincibile, lei si
lascia vincere.
– O dèi! È mai possibile?
– Acaste, è vero, purtroppo. Con sforzi di ogni
tipo si mina il mio Stato dall’interno e
dall’esterno; si corrompono i miei sudditi; ora
apertamente, ora di nascosto, si cospira per la
mia perdita! [NdT]
4 – Figlia mia, un dubbio mi tiene l’anima
sospesa. Il fiero Arimante, colmo di vane
speranze, chiede di parlarmi e pretende
d’incontrarvi. Senza speranza di pace, devo
riceverlo? [NdT]
5 – Se vuole la pace, la sua venuta è una gioia
per me, e, se la concludete, accetto di vederlo;
ma se rompe con noi, sarà più facile costringermi
a morire che a incontrare quello straniero.
– E se fosse l’erede del re della Colchide?
– Se vi odia, avrà il mio odio in cambio.
– Benché suddito di nascita, egli ha grandi
progetti.
– Se agisce contro di voi, bisogna vanificarli.
– Va dicendo di avere Marte e l’amore dalla sua
parte. [NdT]
6 – Quelli che parlano troppo sono spesso dei
miserabili.
– Vanta il possesso di una felicità segreta.
– Un amore corrisposto dovrebbe essere capace
di tacere. [NdT]
7 – Dice di essere amato da una dama
bellissima.
– Dunque non è la mia l’anima che ha
conquistato.
– Perché arrossite, se non è il vostro amante?
– Solo di collera mi vedete arrossire. [NdT]
XIX
Le novità della corte
Distribuiti i cinque atti di Mirame,
fatte le raccomandazioni a Colletet
per il quinto, i collaboratori del
cardinale si congedarono, tranne
Corneille e Rotrou, che trattenne per
una parte della notte per dettare loro
l’intero schema dei primi due atti.
Bois-Robert doveva tornare
l’indomani in mattinata e ricevere le
istruzioni per sé e per gli altri due
compagni, cui le avrebbe poi
trasmesse.
Corneille e Rotrou dormirono a
Chaillot.
La mattina seguente fecero
colazione con il cardinale che
impartì loro le ultime
raccomandazioni. Durante la
colazione, arrivò Bois-Robert:
Rotrou e Corneille si congedarono,
Bois-Robert rimase.
Per lui il cardinale non aveva
segreti e Bois-Robert aveva intuito,
malgrado Richelieu ostentasse di
non occuparsi d’altro che della sua
tragedia, quale profonda
preoccupazione si nascondesse
dietro quel frivolo impegno.
Bois-Robert si era messo in
contatto con Charpentier e con
Rossignol, aveva saputo del ritorno
di Bautru, di La Saludie e di
Charnacé. Era andato a trovare
padre Joseph nel suo convento e, già
il giorno prima, aveva potuto riferire
al cardinale la risposta del frate.
Risposta che aveva molto rallegrato
Richelieu, che aveva piena fiducia
nella discrezione del frate, ma non
altrettanta nella sua ambizione, che,
effettivamente, in seguito lo avrebbe
tradito, ma che non aveva ritenuto
ancora giunta l’ora del tradimento.
Infine sapeva che Souscarrières e
Lopez dovevano fare in giornata il
loro rapporto.
Dunque, sopravviveva una
possibilità di rivedere il re, e quella
terza giornata che il cardinale aveva
fissato come termine delle sue
speranze non era ancora finita.
Verso le due, si sentì il galoppo di
un cavallo. Il cardinale corse alla
finestra, pur avendo la certezza che
il cavaliere non poteva che essere il
re.
Per quanto sicuro di sé fosse, al
cardinale sfuggì un grido di gioia:
un giovane con la divisa dei paggi
del re saltò agilmente giù dal cavallo
e gettò la briglia al braccio di un
lacchè del cardinale, il quale
riconobbe Saint-Simon, quell’amico
di Baradas che aveva dato a Marion
Delorme un avvertimento tanto
prezioso.
«Bois-Robert» disse in fretta il
cardinale, «fa’ entrare da me quel
ragazzo e bada che nessuno ci
interrompa.»
Bois-Robert si precipitò giù dalle
scale e quasi subito si sentì il passo
rapido del ragazzo che saliva i
gradini quattro per volta.
Sulla soglia della camera in cui il
cardinale lo aspettava si trovò faccia
a faccia con lui. Si fermò di botto, si
strappò, più che togliersi, il cappello
dalla testa e mise un ginocchio a
terra davanti al cardinale.
«Che cosa fate, signore?» gli
chiese questi ridendo. «Non sono il
re!»
«Non lo siete più, monsignore, è
vero, ma con l’aiuto di Dio tornerete
a esserlo.»
Un brivido di piacere percorse le
vene del cardinale.
«Mi siete stato utile, signore»
disse, «e se sarò di nuovo ministro,
cosa che avrei probabilmente torto a
desiderare, cercherò di dimenticare i
miei nemici, ma vi prometto di
ricordarmi dei miei amici. Avete
qualcosa di buono da annunciarmi?
Ma rialzatevi, vi prego.»
«Vengo da parte di una bella
dama che non oso nominare davanti
a monsignore» rispose Saint-Simon
rialzandosi.
«Va bene, lo indovinerò.»
«Mi ha incaricato di dire a Vostra
Eminenza che avrebbe visto il re
verso le tre e che sarebbe molto
stupita se alle tre e mezza il re non
fosse da voi.»
«Quella dama» osservò Richelieu
«evidentemente non fa parte della
corte, visto che ignora le regole
dell’etichetta, altrimenti non
potrebbe supporre che il re possa
recarsi dal più umile dei suoi
sudditi.»
«Quella dama non appartiene alla
corte, è vero» disse Saint-Simon.
«Non frequenta la corte, anche
questo è vero, ma molte persone
della corte vanno da lei e si
ritengono onorate di farlo. Ne
consegue che sarei molto propenso a
credere alle sue predizioni, se mi
accordasse l’onore di farmene.»
«Non ve ne ha mai fatte?»
«A me, monsignore?» replicò
Saint-Simon ridendo del riso franco
della giovinezza e mostrando una
splendida dentatura.
«Sì, non vi ha mai detto che se,
come molto probabilmente accadrà,
monsieur Baradas non avesse più il
favore del re, sarebbe monsieur de
Saint-Simon a succedergli e che
all’avanzamento di quel ragazzo un
certo cardinale, che è stato ministro
e che si sostiene debba esserlo di
nuovo, non solo non si opporrebbe,
ma anzi collaborerebbe?»
«Mi ha detto qualcosa di simile,
monsignore, ma non era una
predizione. Era una promessa e mi
fido meno delle promesse di Marion
Delorme... oddio! ecco che l’ho
nominata senza volerlo!»
«Sono come Cesare» replicò
Richelieu, «sono un po’ duro
d’orecchio alla parte destra. Non ho
sentito.»
«Perdonate, monsignore, credevo
che Cesare sentisse male
dall’orecchio sinistro.»
«È possibile» ribatté il cardinale,
«ma in ogni modo ho un vantaggio
su di lui: sono sordo da quella da cui
non voglio sentire. Ma voi arrivate
dalla corte. Ci sono novità? Sia
chiaro che vi chiedo soltanto quelle
che tutti sanno e che io, stando a
Chaillot, cioè in provincia, non so.»
«Le notizie, eccole in poche
parole. Tre giorni fa il signor
cardinale ha dato le dimissioni e
c’era una festa al Louvre.»
«Questo lo so.»
«Il re ha fatto promesse a tutti:
centocinquantamila lire a Monsieur,
il duca d’Orléans, sessantamila lire
alla regina madre, trentamila alla
regina in carica.»
«E gliele ha date?»
«No, e qui sta l’imprudenza: gli
augusti destinatari si sono fidati
della parola del re e, invece di fargli
firmare seduta stante dei buoni per
un certo intendente di nome
Charpentier, si sono accontentati
della promessa del re. Ma...»
«Ma?»
«Ma il giorno dopo, tornando da
place Royale, il re non ha ricevuto
nessuno e si è chiuso nei suoi
appartamenti, dove ha pranzato da
solo con l’Angely, al quale ha
offerto trentamila lire che l’Angely
ha rifiutato recisamente.»
«Ah!»
«Questo stupisce Vostra
Eminenza?»
«No.»
«Allora ha mandato a chiamare
Baradas, al quale ha promesso
trentamila lire, ma Baradas, meno
fiducioso di Monsieur, di Sua
Maestà la regina madre, di Sua
Maestà la regina in carica, si è fatto
subito firmare il buono e in serata è
andato a riscuoterlo.»
«E gli altri?»
«Gli altri aspettano ancora.
Questa mattina al Louvre si è tenuto
il Consiglio, composto da Monsieur,
dalla regina madre, dalla regina in
carica, da Marillac-les-Sceaux, da
Marillac-l’Épée, da La Vieuville,
che continua a nuotare – visto che il
re ha consegnato la chiave del tesoro
a monsieur Charpentier –, da
monsieur de Bassompierre e non so
da chi altro.»
«Il re! il re!»
«Il re?» ripeté Saint-Simon.
«Era presente al Consiglio?»
«No, monsignore, il re ha fatto
sapere che era indisposto.»
«E di che cosa si è parlato, lo
sapete?»
«Della guerra, probabilmente.»
«Che cosa ve lo fa credere?»
«Monsignor Gaston è uscito
furioso per una frase che gli ha detto
monsieur de Bassompierre.»
«Sentiamo questa frase!»
«Monsignor Gaston, in qualità di
luogotenente generale, tracciava il
percorso dell’armata. Si trattava di
attraversare un fiume, la Durance,
credo. “Dove la attraverseremo?”
domandò Bassompierre. E così
monsignor Gaston è uscito furioso
dal Consiglio.»
Un sorriso di gioia illuminò il
viso di Richelieu.
«Non so proprio perché» disse
«non lascio che attraversino i fiumi
dove vogliono e non rimango in
disparte per ridere tranquillamente
dei loro disastri.»
«Di cui non ridereste,
monsignore» disse Saint-Simon con
un tono più grave di quello che ci si
sarebbe potuto aspettare da lui.
Richelieu lo guardò.
«Perché il loro disastro» proseguì
il giovane, «il loro disastro sarebbe
quello della Francia.»
«Bene, signore» disse il cardinale,
«vi ringrazio. Voi dite dunque che il
re dall’altroieri non ha visto nessuno
della sua famiglia.»
«Nessuno, monsignore, ve lo
confermo.»
«E che solo monsieur Baradas ha
incassato le sue trentamila lire.»
«Di questo sono sicuro. Mi ha
fatto chiamare in fondo alla scala
per aiutarlo a trasportare da lui tutto
il suo tesoro.»
«E che cosa se ne farà delle sue
trentamila lire?»
«Per ora niente, monsignore. Ma
ha offerto con una lettera a Marion
Delorme... visto che ho già detto una
volta il suo nome, posso ripeterlo
una seconda, vero, monsignore?»
«Sì. Che cosa ha offerto a Marion
Delorme?»
«Di mangiarseli con lui.»
«E come gliel’ha fatta questa
offerta? A voce?»
«No, per lettera, fortunatamente.»
«E Marion l’ha conservata questa
lettera, spero. Ce l’ha lei?»
Saint-Simon prese l’orologio.
«Le tre e mezza» disse
guardandolo. «A quest’ora deve
averla consegnata.»
«A chi?»
«Ma al re, monsignore!»
«Al re!»
«Ecco perché riteneva che vedrete
il re prima che la giornata finisca.»
«Ah, ora comprendo!»
Proprio allora si udì il rumore di
una carrozza che avanzava a tutta
velocità.
Il cardinale, sbiancando in viso, si
appoggiò a una poltrona.
Saint-Simon corse alla finestra.
«Il re!» gridò.
In quello stesso istante si aprì la
porta che dava sulla scala e Bois-
Robert si precipitò nella stanza,
gridando:
«Il re!»
La porta di madame de Combalet
si aprì e, con voce tremante
d’emozione:
«Il re» mormorò lei.
«Uscite tutti» disse il cardinale,
«e lasciatemi solo con Sua Maestà.»
Ognuno sparì da una porta
diversa, mentre il cardinale si
asciugava la fronte.
Allora si udirono dei passi lungo
la scala, che salivano senza fretta un
gradino dopo l’altro.
Guillemot comparve sulla soglia e
annunciò:
«Il re.»
«In fede mia» mormorò il
cardinale, «la mia vicina, Marion
Delorme, è decisamente un
diplomatico di tutto rispetto.»
XX
Perché re Luigi XIII
vestiva sempre di nero
Guillemot scomparve rapidamente.
Re Luigi XIII e il cardinale di
Richelieu si trovarono l’uno di
fronte all’altro.
«Sire» disse Richelieu
inchinandosi rispettosamente, «sono
stato così sorpreso nell’apprendere
che il re si sarebbe presentato alla
porta della mia umile casa che,
invece di precipitarmi incontro a lui,
come avrei dovuto, e aspettarlo in
fondo alla scala, sono rimasto qui, i
piedi inchiodati al pavimento, e
ancora adesso, alla sua augusta
presenza, non mi capacito che Sua
Maestà in persona si sia degnata di
venire da me.»
Il re si guardò intorno.
«Siamo soli, signor cardinale?»
domandò.
«Soli, Vostra Maestà.»
«Ne siete sicuro?»
«Ne sono sicuro, Sire.»
«E possiamo parlare in assoluta
libertà?»
«In assoluta libertà.»
«Allora chiudete la porta e
ascoltatemi.»
Il cardinale s’inchinò, obbedì,
chiuse la porta e indicò al re una
poltrona nella quale, più che sedersi,
il sovrano si lasciò cadere.
Il cardinale rimase in piedi in
attesa.
Il re alzò lentamente gli occhi sul
cardinale e, guardandolo un
momento:
«Signor cardinale» disse, «ho
avuto torto.»
«Torto, Sire? A che proposito?»
«A fare quello che ho fatto.»
Il cardinale fissò a sua volta il re.
«Sire» disse, «fra noi era
necessaria, credo, una spiegazione,
una di quelle spiegazioni chiare,
nette, precise, che non lasciano
dietro di sé un dubbio, una nube,
un’ombra. Le parole che ha
pronunciato Vostra Maestà mi fanno
ritenere che l’ora di tale spiegazione
sia giunta.»
«Signor cardinale» disse Luigi
XIII raddrizzandosi, «spero non
dimenticherete...»
«... che voi siete re Luigi XIII e io
sono il suo umile servitore, il
cardinale di Richelieu? No, Sire,
state tranquillo. Tuttavia, con il
profondo rispetto che nutro per
Vostra Maestà, chiedo il permesso di
dirle tutto. Se avrò la disgrazia di
ferirla, mi ritirerò così lontano che
non avrà mai il fastidio di rivedermi,
né il disturbo di sentire in futuro
pronunciare il mio nome. Se invece
Vostra Maestà riconoscerà che le
mie sono ragioni valide, che i miei
motivi di lamentarmi sono reali,
dovrà soltanto dirmi “Cardinale,
avete ragione” con lo stesso tono
con cui mi ha detto “Ho avuto
torto”, e lasceremo che il passato
sprofondi nell’abisso dell’oblio.»
«Parlate, signore» disse il re, «vi
ascolto.»
«Sire, cominciamo, se non vi
dispiace, da ciò che non può essere
messo in discussione: il mio
disinteresse e la mia onestà.»
«Li ho mai attaccati?»
«No, ma Vostra Maestà ha
permesso che li si attaccasse davanti
a lei, e questo è un suo grande
torto.»
«Signore!» esclamò il re.
«Sire, o dirò tutto o tacerò. Vostra
Maestà mi ordina di tacere?»
«No, ventre saint-gris!, come
diceva il re mio padre. Vi ordino di
parlare, invece, ma moderate i vostri
rimproveri.»
«Mi vedo però costretto a fare a
Vostra Maestà quelli che credo si
meriti.»
Il re si alzò, batté un piede a terra,
andò dalla poltrona alla finestra,
dalla finestra alla porta, dalla porta
alla poltrona, guardò Richelieu che
rimaneva in silenzio e infine si
risedette, dicendo:
«Parlate, metto il mio orgoglio
regale ai piedi del crocifisso. Sono
pronto ad ascoltare ogni cosa.»
«Ho detto, Sire, che avrei
cominciato dal mio disinteresse e
dalla mia onestà. Vi prego dunque di
ascoltarmi.»
Luigi XIII assentì con il capo.
«Il mio patrimonio» proseguì il
cardinale «mi frutta venticinquemila
lire di rendita. Il re mi ha fatto dono
di sei abbazie che fruttano
centoventicinquemila lire. Le mie
rendite, quindi, assommano a
centocinquantamila lire.»
«Lo so» disse il re.
«Vostra Maestà sa anche di certo
che, in quanto ministro, sono
circondato da complotti e pugnali, al
punto che mi occorrono delle
guardie e un capitano per
difendermi.»
«Sì, so anche questo.»
«Ebbene, Sire, ho rifiutato
sessantamila lire di pensione che mi
avete offerto dopo la presa della
Rochelle.»
«Lo ricordo.»
«Ho rifiutato le retribuzioni legate
all’ammiragliato, quarantamila lire.
Ho rifiutato il diritto d’ammiraglio,
centomila scudi, o meglio l’ho
accettato ma per farne dono allo
Stato. Infine, ho rifiutato un milione
che i finanzieri mi offrivano per non
essere perseguiti dalla legge. Sono
stati perseguiti e li ho costretti a
versare dieci milioni nelle casse del
re.»
«Non c’è nulla da contestare in
tutto questo, signor cardinale» disse
il re togliendosi il cappello, «e mi
compiaccio di dichiarare che siete
l’uomo più onesto del mio regno.»
Il cardinale s’inchinò.
«Ora» proseguì, «quali sono i
miei nemici presso Vostra Maestà?
Chi è che mi accusa di fronte alla
Francia e mi calunnia agli occhi
dell’Europa? Si tratta di quelli che
dovrebbero essere i primi a rendermi
giustizia come fate voi, Sire: Sua
Altezza Reale monsignor Gaston,
vostro fratello, Sua Maestà la regina
in carica, Anna, Sua Maestà la
regina madre.»
Il re sospirò: il cardinale aveva
messo il dito nella piaga. E
continuò:
«Sua Altezza Reale Monsieur mi
ha sempre detestato. Come ho
risposto al suo odio? Nell’affare di
Chalais, si trattava di niente di meno
che di assassinarmi. Le confessioni
di tutti, persino di Monsieur, sono
state chiare e precise. Come mi sono
vendicato? Gli ho fatto sposare la
più ricca ereditiera del regno,
mademoiselle de Montpensier, ho
ottenuto per lui da Vostra Maestà
l’appannaggio e il titolo di duca
d’Orléans. Monsignor Gaston
possiede ora un milione e mezzo di
rendite.»
«Il che significa che è più ricco di
me, signor cardinale.»
«Il re non ha bisogno di essere
ricco, può tutto ciò che vuole:
quando il re ha bisogno di un
milione, domanda un milione ed è
tutto.»
«È vero» osservò il re, «visto che
l’altroieri me ne avete dati quattro, e
ieri uno e mezzo.»
«Devo ricordare a Vostra Maestà
quanto male mi vuole la regina
Anna e tutto quello che ha fatto
contro di me? E di che cosa sono
colpevole ai suoi occhi? Il rispetto
mi chiude la bocca.»
«No, parlate, signor cardinale.
Posso, devo, voglio sentirmi dire
tutto.»
«Sire, la grande disgrazia dei
principi, la grande calamità degli
Stati sono i matrimoni dei sovrani
con principesse straniere. Le regine
provenienti sia dall’Austria sia
dall’Italia sia dalla Spagna portano
sul trono simpatie familiari che, in
determinate circostanze, diventano
crimini di Stato. Quante regine
hanno rubato, e ancora ruberanno, a
vantaggio del padre o dei fratelli la
spada di Francia da sotto il letto del
re, loro marito? Che cosa succede in
quei casi? Si tratta di tradimento e,
poiché è un tradimento che non si
può far pagare ai veri colpevoli, si
colpisce chi è intorno a loro, e
cadono teste che non dovrebbero
cadere. Dopo aver cospirato con
l’Inghilterra, la regina Anna, che me
ne vuole perché in me vede il
campione della Francia, cospira oggi
con la Spagna e con l’Austria.»
«Lo so, lo so» disse il re con voce
soffocata. «Ma la regina Anna non
ha alcun potere su di me.»
«È vero. Ma potete dire altrettanto
della regina Maria, Sire? Della
regina Maria, la più crudele dei miei
nemici, perché è a lei che sono stato
più devoto, è per lei che ho fatto di
più?»
«Perdonatela, signor cardinale.»
«No, Sire, non la perdono.»
«Nemmeno se sono io a
pregarvi?»
«Nemmeno se me lo ordinate. E
come ho detto a Vostra Maestà,
poiché è venuta a cercarmi fin qui,
bisogna che l’intera verità le sia
rivelata.»
Il re sospirò, e replicò con voce
alterata:
«Credete che non la conosca, la
verità?»
«Non per intero. E per intero vi
deve essere detta, una volta. Vostra
madre, Sire, è il cattivo genio della
Francia, vostra madre, Sire, è
terribile a dirsi a suo figlio, ma
vostra madre...»
«Ebbene, mia madre?» domandò
il re guardando fisso il cardinale.
Quello sguardo del re, che
avrebbe fermato le parole sulle
labbra di un uomo meno deciso a
portare fino in fondo la sua sfida di
quanto non fosse il cardinale,
sembrò invece farle sgorgare.
«Vostra madre, Sire, vostra madre
era infedele al suo sposo. Prima di
essere la moglie di suo marito,
vostra madre, quando è approdata a
Marsiglia...»
«Tacete, signore» disse il re. «Si
dice che i muri abbiano orecchie, a
volte; se ascoltano e capiscono,
possono parlare e nessuno, al di
fuori di voi e di me, deve sapere
perché esito a dare un erede alla
corona, mentre tutti mi spingono a
farlo, voi per primo. E quanto vi
dico è così vero, signore» aggiunse
il re alzandosi e afferrando la mano
del cardinale, «che, se credessi mio
fratello figlio di re Enrico IV, cioè
del solo sangue che abbia diritto di
regnare sulla Francia, quanto è vero
Dio, e voi mi comprendete, signore,
avrei già abdicato in suo favore e mi
sarei ritirato in un chiostro, a pregare
per mia madre e per la Francia.
Avete altro da dirmi, signore?
Perché dopo avere detto queste cose,
ora potete dirmi tutto.»
«Ebbene sì, Sire, vi dirò tutto»
esclamò sbalordito il cardinale,
«perché comincio a capire che al
rispetto che già nutro per Vostra
Maestà va aggiunto un sentimento di
ammirazione tanto più profondo in
quanto rimarrà segreto. Oh! Sire!
Quale orizzonte di tristezza mi
nascondeva il velo che avete or ora
sollevato! E Dio mi è testimone che,
se non ritenessi che il futuro della
Francia sia coinvolto in quanto sto
per dirvi, mi fermerei qui e non
andrei fino in fondo. Sire! Avete mai
pensato alla morte di re Enrico IV?»
«Ahimè, signore, non penso ad
altro!»
«Ma riflettendo sulla sua morte,
avete cercato di veder chiaro nel
terribile mistero di quel 14
maggio?»
«Sì, e ci sono riuscito.»
«Ma i veri assassini, Sire, li
conoscete?»
«L’assassinio del maresciallo
d’Ancre, di cui parlo senza rimorsi,
e che commetterei ancora domani,
se non fosse già stato commesso
undici anni fa, vi proverà che, se non
conoscevo gli altri, uno almeno lo
conoscevo.»
«Ma io, Sire, io che non avevo le
stesse ragioni di Vostra Maestà per
rimanere nel buio, io sono andato
fino in fondo al mistero e li conosco
tutti gli assassini, io.»
Il re gemette.
«Ignorate, Sire, che c’è stata una
santa donna, una creatura devota,
che, consapevole che il delitto
sarebbe stato commesso, aveva
giurato, lei, che quel delitto non si
sarebbe commesso. Sapete qual è
stata la sua ricompensa?»
«L’hanno rinchiusa in una tomba,
di cui, viva, ha visto la porta murarsi
su di lei e dove è rimasta diciotto
anni, 1 esposta ai raggi brucianti
dell’estate, al gelo della tramontana
invernale. La sua cella si trovava
presso le Filles Repenties. Si
chiamava Coëtman. È morta non più
di dieci o dodici giorni fa.»
«E sapendo questo, Sire, Vostra
Maestà ha permesso che si compisse
una simile iniquità?»
«I sovrani sono persone sacre,
signor cardinale» rispose Luigi XIII,
manifestando quel culto terribile
della monarchia che sotto Luigi XIV
sarebbe arrivato all’idolatria. «Guai
a coloro che penetrano i loro
segreti.»
«Ebbene, Sire, quel segreto, c’è
un’altra persona oltre a voi, un’altra
oltre a me, che lo conosce.»
Il re fissò il suo sguardo chiaro sul
cardinale. Un occhio che interrogava
meglio di ogni parola.
«Forse avete sentito dire»
proseguì Richelieu «che sul patibolo
Ravaillac aveva chiesto di fare delle
confessioni.»
«Sì» disse Luigi XIII,
impallidendo.
«Forse avete anche sentito dire
che il cancelliere del tribunale si
avvicinò allora a lui e, sotto
dettatura del tormentato, già
mutilato per metà, scrisse il nome
dei veri colpevoli?»
«Sì» disse Luigi XIII, «su un
foglio volante, staccato dal verbale.»
Al cardinale parve di vederlo
ancora più pallido.
«Forse avete anche sentito dire
che quel foglio era stato raccolto dal
relatore Joly de Fleury, e da lui
accuratamente conservato?»
«Sì, ho sentito dire tutte queste
cose, signor cardinale. E poi? e
poi?»
«Ebbene, ho cercato di recuperare
quel foglio dai figli di monsieur Joly
de Fleury.»
«E per farne che cosa, volevate
riprendere quel foglio?»
«Per darlo a Vostra Maestà, che lo
avrebbe distrutto.»
«E allora?»
«E allora, Sire, quel foglio non è
più in possesso dei figli di monsieur
Joly de Fleury. Due sconosciuti, un
giovane di sedici anni e un uomo di
ventisei, si sono presentati un giorno
dal relatore, si sono fatti riconoscere
da lui, si sono mostrati abbastanza
influenti da farsi consegnare quel
prezioso foglietto e lo hanno portato
via.»
«E Vostra Eminenza, che sa tutto,
non è riuscita a sapere chi erano quei
due uomini?» domandò il re.
«No, Sire» rispose il cardinale.
«E allora ve lo dirò io» rispose il
re afferrando febbrile il braccio del
cardinale. «Il più vecchio di quei
due uomini era monsieur de Luynes,
il più giovane ero io.»
«Voi, Sire?» e il cardinale arretrò,
stupefatto.
«E» continuò il re frugandosi nel
petto e traendo da una tasca interna
un foglio ingiallito e stropicciato, «e
quel verbale dettato da Ravaillac sul
patibolo, quel foglio fatale che reca i
nomi dei colpevoli, eccolo.»
«Oh, Sire, Sire!» disse Richelieu
rendendosi conto dal pallore del re
di quanto avesse dovuto patire
durante tutta quella scena,
«perdonatemi tutto quello che vi ho
detto. Credevo che voi lo ignoraste.»
«E a che cosa attribuivate la mia
tristezza, il mio isolamento, il mio
lutto? È forse abitudine dei re di
Francia vestirsi come mi vesto io?
Per noi sovrani, il lutto per un padre,
per una madre, un fratello, una
sorella, un parente si porta vestendo
di viola, ma per tutti gli uomini, re e
sudditi, il lutto per la felicità si porta
vestendo di nero.»
«Sire» disse il cardinale, «è
inutile conservare quel documento,
bruciatelo.»
«No, signore, sono debole, ma per
fortuna conosco me stesso. Mia
madre resta in fin dei conti mia
madre e di tanto in tanto riprende la
sua influenza su di me. Ma quando
sento che tale influenza mi fa
deviare dalla retta via e mi spinge a
qualcosa d’ingiusto, guardo questa
carta ed essa mi rende la forza.
Questo documento, signor
cardinale» disse il re con voce cupa,
ma decisa, «tenetelo come un patto
fra noi, e il giorno in cui sarà
necessario che io rompa con mia
madre, che la allontani da me, la
esili da Parigi, la cacci dalla Francia,
esigete da me, con questo foglio in
mano, quello che vorrete.»
Il cardinale esitava.
«Prendete» disse il re,
«prendetelo. Lo voglio.»
Il cardinale s’inchinò e prese il
foglio.
«Poiché Vostra Maestà lo vuole»
disse.
«E ora, signor cardinale, non
ponetemi altre condizioni. La
Francia e io ci rimettiamo nelle
vostre mani.»
Il cardinale prese le mani del re,
mise un ginocchio a terra, le baciò e
disse:
«Sire, in cambio di questo istante,
spero che Vostra Maestà voglia
accettare che le consacri tutta la mia
vita.»
«Ci conto, signore» rispose il re
con la suprema maestà che sapeva
assumere in certe circostanze. E
aggiunse: «E ora, mio caro
cardinale, dimentichiamo tutto
quello che è successo, disdegniamo
tutti i miserabili intrighi di mia
madre, di mio fratello e della regina,
e occupiamoci soltanto della gloria
delle nostre armi e della grandezza
della Francia!».
1 In realtà, i primi nove dei suoi diciotto anni di
prigionia la dama di Coëtman li scontò alla
Conciergerie. [NdT]
XXI
Dove il cardinale sistema i conti del
re
L’indomani, alle due del
pomeriggio, re Luigi XIII, seduto in
una grande poltrona, il bastone fra le
gambe, il cappello dalle piume nere
appoggiato sul bastone, le ciglia un
po’ meno corrugate, il volto un po’
meno pallido del solito, guardava il
cardinale di Richelieu che lavorava
seduto alla sua scrivania.
Si trovavano entrambi in quello
studio di place Royale dove abbiamo
visto il re, nei tre giorni del suo
regno, passare ore tanto difficili.
Il cardinale scriveva, il re
aspettava.
Il cardinale alzò la testa.
«Sire» disse, «ho scritto in
Spagna, a Mantova, a Venezia e a
Roma e ho avuto l’onore di mostrare
a Vostra Maestà, che le ha
approvate, le mie lettere. Sempre per
ordine di Vostra Maestà, ho adesso
scritto a suo cugino, il re di Svezia.
Era una risposta più difficile delle
altre: Sua Maestà re Gustavo
Adolfo, troppo distante da noi, non
sa valutare correttamente gli uomini,
pur sapendo giudicare gli eventi con
la sua testa e non con le impressioni
di carattere generale.»
«Leggete, leggete, signor
cardinale» disse Luigi XIII.
«Conosco perfettamente il contenuto
della lettera di mio cugino
Gustavo.»
Il cardinale s’inchinò e lesse:
Sire,
la familiarità con cui Vostra Maestà si
degna di scrivermi rappresenta per me un
grande onore, mentre una mia familiarità
nei confronti di Vostra Maestà, benché da
voi autorizzata, rappresenterebbe a un
tempo una mancanza di rispetto e un oblio
dell’umiltà che m’impongono la poca
opinione che ho di me stesso e il titolo di
principe della Chiesa che vi degnate di
darmi.
No, Sire, non sono un grand’uomo!
No, Sire, non sono un uomo di genio!
Sono solamente, come voi vi degnate di
dirmi, un uomo onesto. Ed è da questo
punto di vista che il re, mio padrone, si
degna di concedermi il suo
apprezzamento, non avendo bisogno di
ricorrere a nessun altro se non a se stesso
in tutte le questioni in cui si richiede
l’intervento di genio e di grandezza.
Tratterò dunque direttamente con Vostra
Maestà come desidera, ma solo in quanto
ministro del re di Francia.
Sì, Sire, sono sicuro del mio re, più
sicuro oggi di quanto non lo sia mai stato,
poiché ancora oggi mi ha dato –
mantenendomi al potere contro il parere
della regina Maria de’ Medici, sua madre,
contro quello della regina Anna, sua
sposa, contro quello di monsignor Gaston,
suo fratello – un’ulteriore prova del fatto
che, se il suo cuore cede talvolta a bei
sentimenti di pietà filiale, di affetto
fraterno e di tenerezza coniugale, felicità e
gloria degli altri uomini che Dio ha posto
in ogni cuore onesto e ben nato, presto la
ragione di Stato interviene a correggere
quei nobili slanci dell’anima ai quali i
sovrani sono talvolta costretti a resistere,
costruendosi una virtù aspra e severa che
antepone il bene dei sudditi e le necessità
di governo anche alle stesse leggi della
natura.
Una delle peggiori disgrazie della
regalità, Sire, è che Dio ha posto così in
alto i suoi rappresentanti in terra che i re,
nell’impossibilità di avere amici, sono
costretti ad avere favoriti. Avete potuto
tuttavia constatare che, ben lungi dal
lasciarsi influenzare dai suoi favoriti, il
mio re – cui è stato dato il bel soprannome
di Giusto – ha invece saputo
abbandonarli, e ne è prova quel monsieur
de Chalais da voi citato, alle mani della
giustizia criminale nel momento in cui si
erano intromessi in maniera fatale negli
affari di Stato; il mio padrone ha sguardo
troppo penetrante e mano troppo ferma
per consentire che un intrigo, per quanto
ben ordito sia e per quanto potenti siano
coloro che lo mettono in atto, rovesci mai
un uomo che ha consacrato la sua
intelligenza al suo re e il suo cuore alla
Francia. Un giorno forse non sarò più al
potere, ma posso affermare con certezza
che non sarà una caduta.
Sì, Sire – e mi autorizza a dirvelo il
mio re che ho avuto l’onore di informare
della vostra lettera, non avendo nulla da
nascondergli –, sì, sono certo di rimanere
tre anni al potere e di mantenere in nome
del re e mio gli impegni che mi assumo
direttamente con voi per assertivo ordine
del mio padrone.
Quanto a chiamare Vostra Maestà
“amico Gustavo”, conosco solo due
uomini nell’antichità – Alessandro e
Cesare – e tre nella nostra moderna
monarchia – Carlomagno, Filippo
Augusto ed Enrico IV – che possano
permettersi nei vostri confronti una tanto
lusinghiera intimità.
Io, che sono ben poca cosa, posso solo
dichiararmi di Vostra Maestà l’umilissimo
e obbedientissimo servitore.
Armand, cardinale di Richelieu
P.S. Come desidera Vostra Maestà e
come il mio re è lieto di ordinare, sarà il
signor barone di Charnassé a consegnarvi
questa lettera: a lui è affidato l’incarico di
negoziare con Vostra Maestà l’importante
questione della lega protestante a
proposito della quale gode dei pieni poteri
del re, cui, se ci tenete assolutamente,
aggiungerò i miei.

Durante la lettura di questa lunga


lettera, che era un’apologia del re,
un po’ troppo disinvoltamente
attaccato da Gustavo Adolfo, Luigi
XIII aveva sempre assentito con il
capo, pur mordendosi i baffi a due o
tre passaggi, ma quando la lettera fu
finita rimase un momento
pensieroso e domandò al cardinale:
«Eminenza, voi, in quanto
teologo, potete assicurarmi che
questa alleanza con un eretico non
compromette la salvezza della mia
anima?»
«Poiché sono stato io a
consigliarla a Vostra Maestà»
rispose il cardinale, «se c’è peccato,
lo prendo su di me.»
«Questo un po’ mi rassicura»
disse Luigi XIII, «ma, avendo fatto
da che voi siete ministro, e contando
di fare in avvenire, ogni cosa
secondo i vostri consigli, caro
cardinale, credete che uno di noi
possa essere dannato senza l’altro?»
«La questione è troppo difficile
perché io cerchi di rispondervi, ma
tutto ciò che posso dire a Vostra
Maestà è che la preghiera che
rivolgo a Dio è di non separarmi mai
da lei, né in questo mondo né
nell’altro.»
«Ah!» sospirò il re, «allora il
nostro lavoro è terminato, caro
cardinale.»
«Non ancora, Sire, e prego Vostra
Maestà di accordarmi ancora
qualche istante per parlarle degli
impegni che ha preso e delle
promesse che ha fatto.»
«Intendete parlare delle somme
che mi avevano chiesto mio fratello,
mia madre e mia moglie?»
«Sì, Sire.»
«Dei traditori, dei bugiardi e degli
infedeli! Voi, che predicate tanto
l’economia, non mi consiglierete di
ricompensare l’infedeltà, la
menzogna e il tradimento!»
«No, Sire, dirò tuttavia a Vostra
Maestà che una parola regale è
sacra; una volta data, deve essere
mantenuta. Vostra Maestà ha
promesso centocinquantamila lire a
suo fratello...»
«Come luogotenente generale, ma
dato che non lo è più...»
«Ragione di più per risarcirlo.»
«Un imbroglione che ha finto di
amare la principessa Maria
solamente per crearci fastidi di ogni
genere!»
«Da cui siamo usciti, spero, visto
che ha dichiarato lui stesso di
rinunciare a questo amore.»
«Mettendo un prezzo alla sua
rinuncia.»
«Se ha fissato un prezzo, Sire,
bisogna pagargli quella rinuncia al
prezzo che ha stabilito.»
«Centocinquantamila lire?»
«È caro, lo so, ma un re ha
soltanto la sua parola.»
«Non appena avrà quelle
centocinquantamila lire, scapperà a
Creta dal re Minosse, come chiama
il duca Charles IV.»
«Tanto meglio, Sire, perché così
quelle centocinquantamila lire
saranno ben investite: per
centocinquantamila lire prenderemo
la Lorena.»
«E credete che l’imperatore
Ferdinando ci lascerà fare?»
«A che cosa ci servirebbe
altrimenti Gustavo Adolfo?»
Il re rifletté un istante.
«Siete uno straordinario giocatore
di scacchi, signor cardinale» disse.
«Monsieur avrà le sue
centocinquantamila lire. Ma che mia
madre non conti sulle sue
sessantamila.»
«Sire, Sua Maestà la regina madre
aveva bisogno da tempo di quella
somma, visto che mi aveva chiesto
centomila lire e che, con mio grande
rammarico, avevo potuto dargliene
soltanto cinquantamila. Ma a
quell’epoca non avevamo soldi,
mentre oggi ne abbiamo.»
«Cardinale! State dimenticando
tutto quello che mi avete detto ieri
su mia madre.»
«Vi ho forse detto che non era
vostra madre, Sire?»
«No. Per disgrazia mia e per
quella della Francia, lo è.»
«Sire, avete firmato a Sua Maestà
la regina madre un buono di
sessantamila lire.»
«Ho promesso, non ho firmato
niente.»
«Una promessa del re è ben più
sacra di uno scritto, Sire.»
«Allora sarete voi e non io a
darglieli. Può essere che ce ne sia in
qualche modo riconoscente e che ci
lasci in pace.»
«La regina non ci lascerà mai in
pace, Sire. Possiede lo spirito
molesto dei Medici e passerà la vita
a rimpiangere due cose che non può
riprendersi: la giovinezza svanita e il
potere perduto.»
«Passi allora per la regina madre,
ma la regina, che si fa pagare il suo
filo di perle da monsieur d’Émery e
poi lo domanda di nuovo a me... Oh,
questo poi!»
«Questo, Sire, ci prova una sola
cosa, ed è che la regina, per ricorrere
a simili mezzi, è in grave difficoltà.
Ora, non è accettabile, se il re ha la
chiave di una cassa contenente più
di quattro milioni, che la regina si
faccia prestare ventimila lire da un
privato cittadino. Spero che Vostra
Maestà sia d’accordo e che, invece
di un buono da trentamila lire, ne
firmerà alla regina uno da
cinquantamila, a condizione che lei
rimborsi le ventimila lire a monsieur
d’Émery. La corona di Francia è in
oro puro, Sire, e deve risplendere
tanto sulla fronte della regina quanto
su quella del re.»
Il re si alzò, andò dal cardinale e
gli tese la mano.
«Non siete soltanto, signor
cardinale» gli disse, «un grande
ministro e un buon consigliere, ma
anche un nemico generoso. Vi
autorizzo, signor cardinale, a far
pagare le somme di cui abbiamo
stabilito l’impiego.»
«È stato il re a prometterle, tocca
al re sdebitarsi. Il re firmerà dei
buoni che saranno presentati alla
cassa e pagati a vista, ma mi sembra
che Sua Maestà dimentichi una delle
gratifiche che ha accordato.»
«Quale?»
«Mi pareva che, nella sua
generosa ripartizione, il re avesse
accordato a monsieur l’Angely, il
suo buffone, la stessa somma che a
monsieur Baradas, il suo favorito:
trentamila lire...»
Il re arrossì.
«L’Angely ha rifiutato» disse.
«Ragione di più, Sire, per
mostrarsi generoso. Monsieur
l’Angely ha rifiutato perché quelli
che chiedono o accettano lo
ritengano matto davvero e non
sollecitino quindi il suo posto
accanto a Vostra Maestà. Ma il re ha
solamente due veri amici accanto a
sé: il suo buffone e me. Non sia
ingrato con uno, dopo aver così
generosamente ricompensato
l’altro.»
«Va bene, avete ragione, signor
cardinale, ma c’è un balordo che ha
meritato tutta la mia collera e
quello...»
«Quello, Sire, Vostra Maestà non
dimenticherà che è stato per tre mesi
il suo favorito e che un re di Francia
può ben dare diecimila lire al mese a
colui che onora della sua intimità.»
«Sì, ma che le vada a offrire a una
ragazza come Marion Delorme!»
«Ragazza molto utile, Sire, dal
momento che è stata lei ad
avvertirmi della disgrazia in cui
sarei caduto e che, dandomi il tempo
di pensare a quella caduta, mi ha
permesso di guardarla in faccia.
Senza di lei, Sire, venendo a
conoscenza senza esservi preparato
che non meritavo più le bontà del re,
sarei morto sul colpo. Una
compagnia per monsieur Baradas,
Sire, che prova che lui vi rimane
fedele, così come voi rimanete per
lui un buon padrone.»
Il re rifletté un momento, e poi:
«Signor cardinale» domandò,
«che cosa dite del suo collega Saint-
Simon?»
«Dico che mi è stato molto
raccomandato, Sire, da una persona
cui sono molto affezionato, e che è
adatto a prendere presso Vostra
Maestà il posto che l’ingratitudine di
monsieur Baradas lascia vacante.»
«Senza contare» aggiunse il re
«che suona il corno a meraviglia.
Sono lieto che me lo raccomandiate,
cardinale. Vedrò di fare qualcosa per
lui. A proposito, e il Consiglio?»
«Vostra Maestà vuole fissarlo per
domani mattina al Louvre? Esporrò
il mio piano per la campagna e, per
attraversare i fiumi, cercheremo di
avere qualcosa di più delle dita di
Monsieur.»
Il re guardò il cardinale con lo
sbalordimento che manifestava ogni
volta che lo scopriva al corrente di
qualcosa che avrebbe dovuto
ignorare.
«Mio caro cardinale» gli disse
ridendo, «non c’è dubbio che
abbiate un diavolo al vostro servizio,
a meno che – cosa cui ho pensato
più di una volta – il diavolo non
siate voi.»
PARTE QUARTA
I
La valanga
Proprio mentre il Consiglio,
convocato questa volta da Richelieu,
si riuniva al Louvre, cioè verso le
undici del mattino, una piccola
carovana, partita da Oulx all’alba,
compariva davanti alle prime case
della cittadina di Exilles, all’estrema
frontiera della Francia, separata
dagli Stati del principe di Piemonte
soltanto da Chaumont, ultimo borgo
appartenente al territorio francese.
La carovana era composta da
quattro persone: due uomini e due
donne.
Nei due uomini, che viaggiavano
a volto scoperto e vestiti da baschi,
era facile riconoscere due giovani, il
più vecchio dei quali aveva ventitré
anni e il più giovane sì e no diciotto.
Quanto alle due donne, stabilirne
l’età era più difficile, vestite
com’erano di mantelle dai larghi
cappucci che nascondevano
interamente il viso, precauzione da
attribuire sia al freddo sia al
desiderio di non essere riconosciute.
A quel tempo le Alpi non erano,
come oggi, solcate dalle magnifiche
strade del Sempione, del Moncenisio
e del San Gottardo, e in Italia si
entrava soltanto attraverso sentieri
dove solo per rari tratti due pedoni
avrebbero potuto camminare
affiancati e dove i muli andavano al
trotto, andatura, peraltro, che oltre a
essere loro familiare risulta anche
quanto mai simpatica.
Per il momento, il più vecchio dei
due cavalieri procedeva a piedi,
tenendo per la briglia quello dei
muli montato dalla più giovane delle
due donne: non vedendo nessuno
sulla strada, oltre a una specie di
venditore ambulante che precedeva
di circa cinquecento passi la
carovana e frustava un piccolo
cavallo carico di pacchi davanti a
lui, lei aveva spinto indietro il
cappuccio: i capelli di un dolce
biondo, l’incarnato di meravigliosa
freschezza rivelavano che poteva
avere dai sedici ai diciotto anni.
L’altra donna seguiva, il viso
affondato per intero nel cappuccio.
A testa china, sia per il peso dei
pensieri sia per quello della
stanchezza, sembrava del tutto
indifferente al sentiero che
percorreva, o meglio che percorreva
la sua cavalcatura, sull’estrema
cresta di una parete rocciosa che da
una parte sovrastava un precipizio e
dall’altra era sovrastata dalla
montagna coperta di neve. Il suo
mulo, più preoccupato del cammino
di quanto non fosse lei, abbassava di
tanto in tanto la testa, annusava il
vuoto e, dalla cura con cui avanzava
una zampa soltanto quando le altre
tre erano saldamente appoggiate a
terra, sembrava comprendere il
pericolo che un passo falso avrebbe
comportato per lui.
Era un pericolo tanto reale che,
per non vederlo e forse per non
cedere a quel demone del vuoto che
chiamano vertigine e al quale è così
difficile resistere, il quarto
viaggiatore, un giovane dai capelli
biondi, la corporatura snella e ben
fatta, gli occhi fiammeggianti di vita
e di giovinezza, cavalcando il suo
mulo alla maniera delle donne, cioè
di traverso, e voltando le spalle al
precipizio, cantava,
accompagnandosi con un mandolino
appeso al collo con un nastro
azzurro, i versi che seguono, mentre
il quarto mulo, lasciato libero dal
suo cavaliere, seguiva liberamente
quello del cantore.
Vénus est, par cent mille noms
Et par cent mille autres surnoms,
Des pauvres amants outragée;
L’un la dit plus dure que le fer
L’autre la surnomme enfer
Et l’autre la nomme enragée.
L’un l’appelle soucis et pleurs
L’autre tristesse et douleurs,
Et l’autre la désespérée.
Mais moi, parce qu’elle a toujours
Été propice à mes amours
Je la surnomme la sucrée! 1

Quanto al più vecchio dei due


giovani, troppo preoccupato per
farlo, non suonava la viola né
cantava.
Tutte le sue cure erano
concentrate sulla giovane donna di
cui si era fatto guida e sui pericoli
che la minacciavano, lei e la sua
cavalcatura, su quel sentiero stretto e
difficile, mentre lei lo guardava con
l’occhio dolce e incantevole con cui
le donne guardano l’uomo che
amano e che non solo le ama, ma si
consacra sia alla loro sicurezza sia
alla loro fantasia, dedizione, questa,
di cui a volte esse sono più grate che
della prima.
Dopo un po’, a una svolta del
sentiero, la carovana si fermò per
risolvere una grave questione.
Come dicevo, si avvicinavano a
Chaumont, cioè all’ultimo borgo
francese, dato che già da due ore
avevano superato Exilles e il suo
forte; si trovavano dunque distanti sì
e no mezza lega dal confine che
separa il Delfinato dal Piemonte.
Oltre quel confine, si sarebbero
trovati in paese ostile, perché Carlo
Emanuele non solo era a conoscenza
dei grandi preparativi che il
cardinale organizzava contro di lui,
ma era anche stato ufficialmente
avvertito dal governo francese che,
se non avesse permesso di passare
alle truppe che andavano a liberare
Casale dall’assedio e non si fosse
unito a loro, doveva ritenere già
dichiarata la guerra contro di lui.
Ora la grave questione da
risolvere era questa: sarebbero
passati apertamente da quello che
chiamavano il passo di Susa,
correndo il rischio di essere
riconosciuti e arrestati da Carlo
Emanuele, o avrebbero preso una
guida e l’avrebbero seguita per
qualche via traversa che avrebbe
consentito di evitare Susa e Torino,
per arrivare direttamente in
Lombardia?
La ragazza, con l’incantevole
fiducia che la donna innamorata
nutre per l’uomo che ama, si
abbandonava completamente alla
prudenza e al coraggio della sua
guida; si limitava a guardarlo con i
suoi begli occhi neri e il suo dolce
sorriso, e a dire:
«Sapete meglio di me che cosa
occorre fare, fate come credete
opportuno.»
Spaventato da una tale
responsabilità nei confronti della
donna che amava, il giovane si
voltò, come per interrogarla, verso
quella dal viso nascosto sotto il
cappuccio.
«E voi, signora» le domandò,
«che cosa ne pensate?»
Quella cui si rivolgeva si tolse il
cappuccio, e mostrò il volto di una
donna dai quarantacinque ai
cinquant’anni, invecchiato,
smagrito, profondamente segnato da
una lunga sofferenza. Solamente gli
occhi, divenuti troppo grandi a forza
di cercare di vedere l’ignoto,
vivevano in quella faccia pallida che
sembrava già preda della rigidità
della morte.
«Scusate?» domandò.
Non aveva ascoltato niente,
sentito niente, si era a malapena resa
conto che si erano fermati.
Il giovane alzò la voce, perché il
rumore della Dora che correva in
fondo al burrone impediva di sentire
parole pronunciate non solo a voce
bassa, ma anche con un tono
normale.
Il giovane le espose la questione.
«Il mio parere» disse lei, «visto
che me lo chiedete, è che noi ci
fermiamo nella prossima città e che
chiediamo informazioni sui luoghi,
dato che si tratta di una città di
frontiera. Se esistono cammini
traversi, ce li indicheranno. Se
abbiamo bisogno di una guida, lì la
troveremo. Qualche ora in più o in
meno non conta niente, quello che
conta è che noi non siamo, cioè che
voi non siate, riconosciuti.»
«Cara signora» rispose il giovane,
«la saggezza ha parlato con la vostra
bocca, e seguiremo il vostro
consiglio.»
«Allora?» domandò la ragazza.
«Allora, tutto è deciso. Ma che
cosa stavate guardando?»
«Guardate, non è miracoloso su
questo altopiano?»
Gli occhi del giovane si volsero
nella direzione indicata.
«Che cosa?»
«Fiori, in questa stagione!»
E in effetti, quasi immediatamente
sotto la linea delle nevi, si vedeva
brillare qualche fiore di un rosso
vivo.
«Qui, Isabelle cara» disse il
giovane, «non esistono stagioni e
l’inverno è più o meno perenne;
tuttavia ogni tanto, per rallegrare la
vista e perché si possa dire che nella
sua inestinguibile fecondità la natura
è sempre giovane, qualche bella fata,
passando, lascia cadere dalla mano i
semi di questo fiore che cresce fin
nel mezzo delle nevi e che, per
questa ragione, viene chiamato rosa
delle Alpi.»
«Che fiore magnifico!» disse
Isabelle.
«Desiderate averlo?» esclamò il
giovane; e, prima che la ragazza
potesse rispondere, si era slanciato e
si arrampicava sulla parete che lo
separava dall’altopiano dove il fiore
cresceva.
«Conte, conte» esclamò la
ragazza, «per amor di Dio, non fate
queste pazzie o non oserò più
guardare o vedere niente.»
Ma colui cui era stato dato il titolo
di conte, e nel quale non abbiamo
ragione di non riconoscere il conte
di Moret, era già arrivato
sull’altopiano, aveva raccolto il fiore
e, da vero montanaro, si lasciava
scivolare lungo la roccia, dopo avere
avuto però l’accortezza di legarsi,
per ogni eventualità, una corda in
vita, corda destinata ad aiutare il
viaggiatore nelle salite e nelle
discese impervie.
Offrì la rosa delle Alpi alla
ragazza che, arrossendo di piacere,
se la portò alle labbra, poi aprì la
veste e se la fece scivolare in seno.
In quel momento, si udì un
rumore come di tuono proveniente
dalla cima della montagna. Una
nuvola di neve oscurò l’aria e si vide
scivolare con la rapidità del fulmine
sull’erto declivio una massa bianca
che precipitava dall’alto in basso e
che, via via che precipitava,
aumentava di forza e di velocità.
«Attenzione alla valanga!» gridò
il viaggiatore più giovane saltando
giù dal suo mulo, mentre il suo
compagno, prendendo Isabelle fra le
braccia, si appoggiava insieme a lei
contro la parete rocciosa alla ricerca
di protezione.
La viaggiatrice pallida spinse
indietro il cappuccio e guardò
tranquilla che cosa stava
succedendo.
A un tratto però lanciò un grido.
La valanga occupava uno spazio
di circa cinquecento passi e
cominciava duecento metri prima
della piccola carovana, che sentì la
terra tremarle sotto i piedi e il soffio
potente della morte passarle davanti.
Ma quello della donna pallida non
era un grido di terrore per se stessa;
lei sola aveva visto quello che non
avevano potuto vedere né l’uomo
più giovane, cioè il paggio Galaor,
preoccupato della propria
sopravvivenza personale, né il conte
di Moret, preoccupato della salvezza
di Isabelle; lei aveva visto il turbine
folgorante avvolgere l’uomo e
l’animale che camminavano a
trecento passi davanti a loro e
precipitarli nel burrone.
A quel grido, il conte di Moret e
Galaor si voltarono, con ansietà
tanto maggiore in quanto, sentendosi
d’istinto salvi, per quella reazione
che è naturale nell’uomo si
preoccuparono allora del pericolo
incombente sugli altri. Ma videro
solo la donna pallida, che, indicando
con il braccio teso un punto lontano,
gridava:
«Là, là, là!»
Allora volsero gli occhi sul
sentiero che la sua stessa strettezza
aveva salvato dall’ingombro della
valanga.
Il mulo 2 e il mercante che li
precedevano erano spariti, il sentiero
era vuoto.
Il conte di Moret comprese, e
disse a Isabelle:
«Venite avanti piano,
appoggiandovi alla roccia, e voi,
cara madame de Coëtman, seguite
Isabelle. Noi, Galaor, corriamo:
forse quel poveretto si può ancora
salvare.»
E, slanciandosi con l’agilità di un
montanaro, il conte di Moret,
seguito da Galaor, si precipitò verso
il luogo indicato dal dito della donna
pallida che, come abbiamo appena
detto, altri non era se non madame
de Coëtman, che il cardinale di
Richelieu, per quanta fiducia avesse
nel rispetto del conte di Moret e
nella castità di Isabelle, aveva
ritenuto opportuno, non fosse che
per concessione alle convenienze
mondane, dar loro come compagna
di viaggio.

1 Venere è offesa dai poveri amanti / con


centomila nomi / e centomila nomignoli; / uno la
definisce più dura del ferro, / l’altro la
soprannomina inferno / e l’altro la dice furiosa. //
Uno la chiama dolori e lacrime, / l’altro tristezza
e dolori, / e l’altro disperata. / Ma poiché è
sempre stata / propizia ai miei amori, / io la
soprannomino dolcezza. [NdT]
2 Dumas prima aveva parlato di un «piccolo
cavallo». [NdT]
II
Guillaume Coutet
Raggiunto il luogo indicato, i due
giovani si appoggiarono l’uno
all’altro scrutando con terrore il
precipizio.
Dapprima non videro nulla,
perché guardavano troppo lontano,
ma udirono proprio al di sotto di
loro queste parole, articolate tanto
chiaramente quanto lo permetteva il
terrore profondo di chi le
pronunciava:
«Se siete cristiani, per amore di
Dio, salvatemi!»
Spostarono lo sguardo in
direzione della voce e scorsero a
dieci piedi sotto di loro, sopra un
abisso di mille, milleduecento piedi,
un uomo aggrappato a un pino per
metà sradicato, che si piegava sotto
il suo peso.
Appoggiava i piedi su uno
spuntone di roccia che poteva
aiutarlo a rimanere dov’era, ma che
sarebbe divenuto inutile nel
momento in cui l’albero avesse
ceduto del tutto; era chiaro che in
quel momento, che non poteva
tardare, sarebbe precipitato con il
suo sostegno nel burrone. Il conte di
Moret valutò con un’occhiata il
pericolo.
«Taglia un bastone lungo diciotto
pollici» gridò «e forte abbastanza da
reggere un uomo.»
Galaor, uomo di montagna come
Moret, capì immediatamente
l’intento del conte.
Sguainò una specie di pugnale
con una larga lama appuntita e
tagliente, si gettò su un terebinto
spezzato e in pochi istanti ne fece
quello che il conte desiderava, una
specie di piolo di una scala.
Nel frattempo il conte aveva
srotolato la corda che portava
addosso e che era lunga il doppio
della distanza che li separava dal
poveretto che cercavano di salvare.
In pochi secondi il piolo fu
solidamente attaccato all’estremità
della corda e, dopo le parole di
incoraggiamento, il disgraziato
sospeso fra la vita e la morte vide
scendere fino a lui la corda e il
bastone.
Li afferrò, e vi si attaccò con
forza proprio nel momento in cui il
pino sradicato rotolava nel
precipizio.
Rimaneva una preoccupazione: la
roccia sulla quale la corda doveva
scivolare era tagliente e avrebbe
potuto spezzarla mentre la tiravano
su.
Fortunatamente le due donne li
avevano raggiunti, e con loro i muli.
Fecero avvicinare uno di essi al
bordo, abbastanza distante, però, da
permettere a colui che volevano
trarre in salvo di appoggiare i piedi a
terra. Passarono la corda al di sopra
della sella e, mentre Isabelle
pregava, con gli occhi rivolti alla
roccia, e madame de Coëtman
tratteneva con forza quasi virile il
mulo per la briglia, i due uomini si
attaccarono alla corda e insieme la
tirarono verso di loro.
La corda scivolò come su una
puleggia e in capo a pochi secondi si
vide comparire sull’orlo del
precipizio la faccia pallida del
poveretto, appena scampato
miracolosamente alla morte.
Un grido di gioia salutò
quell’apparizione e solamente a quel
grido Isabelle si voltò e unì la sua
voce a quelle dei compagni per
gridare:
«Coraggio, coraggio! Siete
salvo!»
In effetti l’uomo posava i piedi
sulla roccia e, lasciando andare la
corda, si aggrappava alla sella del
mulo.
Fecero arretrare il mulo di un
passo e l’uomo, stremato, si staccò
dal suo nuovo appoggio, agitò le
braccia con una specie di grido
inarticolato e svenne fra le braccia
del conte di Moret, che subito gli
accostò alla bocca una borraccia
piena di uno di quei liquori
tonificanti che hanno preceduto di
cent’anni l’alcol e che da sempre si
preparavano sulle Alpi, e gliene fece
bere qualche goccia.
Evidentemente la forza che lo
aveva sorretto mentre era in pericolo
lo aveva abbandonato nell’attimo
stesso in cui aveva compreso di
essere salvo.
Il conte di Moret lo distese con la
schiena appoggiata alla roccia e,
mentre Isabelle gli faceva annusare
una boccetta di sali alcalini, staccò il
bastone che lanciò lontano con il
disprezzo che l’uomo nutre per ogni
attrezzo che abbia ormai esaurito il
suo compito, e si riarrotolò la corda
in vita.
Da parte sua, Galaor, con la
spensieratezza della sua età,
ringuainava il suo coltello da caccia.
In capo a qualche istante, dopo
due o tre movimenti convulsi,
l’uomo aprì gli occhi: la sua
espressione mostrava che non
ricordava niente di quanto era
successo; ma a poco a poco la
memoria tornò, comprese quanto
doveva a coloro che lo circondavano
e le sue prime parole furono per
ringraziarli.
A sua volta, il conte di Moret, che
l’altro riteneva un semplice
montanaro, gli spiegò che cosa era
accaduto.
«Mi chiamo Guillaume Coutet»
gli rispose l’uomo. «Ho una moglie
che deve a voi se non è vedova, tre
figli che devono a voi se non sono
orfani; ma se avete per qualsiasi
motivo bisogno della mia vita,
chiedetela.»
A quel punto, appoggiandosi al
conte, in preda a quel terrore
retrospettivo più terribile del terrore
che precede o accompagna un
incidente, si avvicinò al burrone,
guardò rabbrividendo il pino
spezzato, poi lanciò un’occhiata
sulla massa informe di neve, di
blocchi di ghiaccio, di alberi
sradicati, di mucchi di rocce che
giacevano sul fondo della valle,
facendo ribollire le acque della Dora
contro l’ostacolo imprevisto che si
frapponeva al suo corso.
Sospirò pensando al mulo e al suo
carico, probabilmente la sua intera
fortuna, ormai perduta.
E, riprendendosi, mormorò:
«La vita è il dono più grande che
da voi ci viene, mio Dio, e, dal
momento che la vita è salva,
ringrazio voi, mio Dio, e coloro che
me l’hanno conservata.»
Ma al momento di rimettersi in
cammino si rese conto che, sia
debolezza interiore, sia agitazione
per la caduta, gli era impossibile
muovere un passo.
«Avete già fatto fin troppo per
me» disse al conte di Moret e a
Isabelle. «Poiché non posso far nulla
in cambio della vita che vi devo, che
almeno io non ritardi oltre il vostro
viaggio. Abbiate soltanto la bontà di
avvertire l’oste del Genévrier d’Or
che è capitato un incidente al suo
parente, Guillaume Coutet, il quale è
rimasto per strada e lo prega di
inviargli dei soccorsi.»
Il conte di Moret disse qualche
parola sottovoce a Isabelle, che fece
un cenno di assenso. Poi,
rivolgendosi al povero diavolo:
«Dal momento che Dio ci ha
concesso la gioia di salvarvi la vita»
gli disse, «non vi abbandoneremo,
amico mio. Siamo ormai a una
mezz’ora dalla città. Salirete sul mio
mulo e, come stavo facendo quando
è capitato l’incidente, io condurrò
per la briglia quello della signora.»
Guillaume Coutet voleva replicare
qualcosa, ma il conte gli chiuse la
bocca dicendogli:
«Ho bisogno di voi, amico mio, e
forse, nel giro di un giorno, potrete
sdebitarvi del servizio che vi ho reso
rendendomene uno ancora
maggiore.»
«Davvero?» domandò Guillaume
Coutet.
«Parola di gentiluomo!» rispose il
conte di Moret, senza accorgersi che
con quelle parole denunciava la
propria identità.
«Scusatemi» disse, inchinandosi,
il venditore ambulante, «vedo bene
che vi devo obbedire a doppio titolo:
prima di tutto perché mi avete
salvato la vita e poi perché il vostro
rango vi autorizza a dare ordini a un
povero contadino quale sono io.»
Con l’aiuto del conte e di Galaor,
a questo punto Guillaume Coutet
salì sul mulo del conte, che
riprendeva il suo posto alla guida del
mulo di Isabelle, felice che l’uomo
che amava avesse avuto l’occasione
di dimostrare davanti a lei la sua
abilità, il suo coraggio e la sua
umanità.
Un quarto d’ora dopo, la piccola
carovana entrava nel borgo di
Chaumont e si fermava alla porta del
Genévrier d’Or.
Appena Guillaume Coutet ebbe
parlato non del rango dell’uomo che
gli aveva salvato la vita, ma del
servizio che gli aveva reso, l’oste
Germain mise l’intera locanda a sua
disposizione.
Il conte di Moret non aveva
bisogno di tutta la locanda; gli
bastavano una grande camera a due
letti per Isabelle e per la dama di
Coëtman e un’altra camera per sé e
per Galaor.
Ebbe quindi la doppia
soddisfazione di avere quanto
desiderava e di non disturbare
nessuno. Quanto a Guillaume
Coutet, ebbe per sé la camera e il
letto di suo cugino. Il medico che
mandarono a chiamare visitò
Guillaume Coutet da capo a piedi e
dichiarò che non aveva rotto nessun
osso dei duecentottantadue che la
natura ha ritenuto necessari alla
costituzione di un uomo. Bisognava
solo fargli fare un bagno di piante
aromatiche in cui far sciogliere
qualche manciata di sale e poi
frizionargli il corpo con della
canfora.
Grazie a questo e a qualche
bicchiere di vino caldo
abbondantemente speziato, il
medico sperava che l’indomani, o al
più tardi due giorni dopo, il malato
sarebbe stato in grado di continuare
il suo cammino.
Il conte di Moret, dopo essersi
occupato di tutto quanto potesse
occorrere al benessere delle due
viaggiatrici, badò personalmente che
le prescrizioni del medico fossero
correttamente eseguite e quando,
dopo essere stato frizionato, il
malato dichiarò di sentirsi meglio,
andò a sedersi al suo capezzale.
Guillaume Coutet rinnovò le sue
dichiarazioni di devozione.
Il conte lo lasciò parlare, e poi,
quando ebbe finito:
«Secondo voi, amico mio» gli
disse, «è stato Dio a mettermi sulla
vostra strada. Può essere. Ma forse,
mettendomici, Dio aveva un duplice
scopo: quello di salvare voi grazie a
me e quello di aiutare me grazie a
voi.»
«Se fosse così» dichiarò il malato,
«mi riterrei l’uomo più felice che sia
mai esistito.»
«Sono stato incaricato da
monsignor il cardinale di Richelieu
– vedete che non voglio avere
segreti per voi e mi affido
completamente alla vostra
riconoscenza –, sono dunque stato
incaricato da monsignor il cardinale
di Richelieu di ricondurre a Mantova
da suo padre la giovane dama che
avete visto e che gli sta grandemente
a cuore.»
«Dio vi guidi e vi protegga nel
vostro viaggio.»
«Sì, ma a Exilles abbiamo saputo
che il passo di Susa era chiuso da
barricate e fortificazioni
severamente sorvegliate; se ci
riconoscono, ci arresteranno, e il
duca di Savoia ci userà come
ostaggi.»
«Bisognerebbe evitare Susa.»
«Si può?»
«Sì, se vi fidate di me.»
«Siete della zona?»
«Sono di Gravière.»
«Conoscete i sentieri?»
«Per evitare i gabellieri sono
passato da ogni sentiero della
montagna.»
«Potete farci da guida?»
«La strada è dura.»
«Non temiamo né il pericolo né la
fatica.»
«Va bene, rispondo io di ogni
cosa.»
Il conte di Moret fece un cenno
con la testa come per dire che quella
promessa gli bastava.
«Questo però non è tutto.»
«Che cosa desiderate d’altro?»
domandò Guillaume Coutet.
«Desidero informazioni sui lavori
che stanno facendo davanti a Susa.»
«Niente di più facile, mio fratello
lavora lì come sterratore.»
«E dove abita vostro fratello?»
«A Gravière, come me.»
«Posso andare a trovarlo, con un
vostro biglietto?»
«E perché invece non far venire
qui lui?»
«È possibile?»
«Niente di più semplice. Gravière
dista appena una mezz’ora da qui:
mio cugino andrà da lui a cavallo e
lo riporterà in groppa.»
«Quanti anni ha vostro fratello?»
«Due o tre più di Vostra
Eccellenza.»
«Che corporatura?»
«Quella di Vostra Eccellenza.»
«Ci sono molte persone di
Gravière impegnate in quei lavori?»
«Soltanto lui.»
«Pensate che vostro fratello sia
disposto a farmi un favore?»
«Quando saprà che cosa avete
fatto per me, si butterà nel fuoco per
voi.»
«Va bene, mandatelo a chiamare;
inutile dire che ci sarà per lui una
buona ricompensa.»
«Inutile, come dice Vostra
Eccellenza: mio fratello è già stato
ricompensato.»
«Allora, mandate il nostro oste a
chiamarlo.»
«Abbiate la cortesia di farlo
venire qui e di lasciarmi solo con lui
perché non possa avere dubbi che
sia io a mandarlo a chiamare.»
«Ve lo chiamo.»
Il conte di Moret uscì e un quarto
d’ora dopo padron Germain
inforcava il cavallo e si dirigeva a
Gravière.
Un’ora dopo rientrava alla
locanda del Genévrier d’Or
riportando in groppa Marie Coutet,
fratello di Guillaume Coutet.
III
Marie Coutet
Marie Coutet era un giovane di
ventisei anni, come aveva detto suo
fratello dandogli tre o quattro anni di
più del conte di Moret. 1 Aveva la
bellezza maschia e la forza virile dei
montanari. L’espressione franca
faceva intuire un cuore leale;
l’agilità scattante del suo corpo si
rivelava nella figura ben fatta, nelle
spalle larghe, nelle membra ben
proporzionate.
Per strada, era stato messo al
corrente della situazione. Sapeva che
suo fratello, travolto da una valanga,
aveva avuto la fortuna di
aggrapparsi, nella caduta, a un pino
ed era stato tratto in salvo da un
viaggiatore che passava di lì.
Quello che ignorava era il motivo
per cui suo fratello, ormai fuori
pericolo, lo mandava a chiamare.
Ciononostante accorreva, con una
prontezza che provava la sua
premura ad assecondare i desideri
del fratello.
Appena arrivato, salì nella camera
di Guillaume Coutet e si intrattenne
con lui una decina di minuti; dopo di
che, chiamato l’oste Germain, lo
pregò di far salire “il gentiluomo”.
Il conte di Moret accettò l’invito.
«Eccellenza» gli disse Guillaume,
«questo è mio fratello Marie, che sa
che vi devo la vita e che si mette,
come me, a vostra completa
disposizione.»
Il conte di Moret gettò una rapida
occhiata al giovane montanaro e gli
parve di riconoscere in lui, di primo
acchito, coraggio e franchezza
insieme.
«Il vostro» gli disse «è un nome
francese.»
«È vero, Eccellenza» rispose
Marie Coutet, «mio fratello e io
siamo di origine francese. Mio padre
e mia madre erano di Phénioux.
Vennero a stabilirsi a Gravière e noi
siamo nati lì» e indicò suo fratello.
«Allora siete rimasti francesi?»
«Di cuore come di nome.»
«Eppure lavorate alle
fortificazioni di Susa.»
«Mi danno dodici soldi per
spostare terra tutto il giorno: tutto il
giorno la sposto, senza
preoccuparmi né del perché la
sposto né del suo proprietario.»
«Ma così lavorate contro il vostro
paese.»
Il giovane alzò le spalle.
«Perché il mio paese non mi fa
lavorare per lui?» domandò.
«Se vi chiedo dei dettagli intorno
ai lavori che fate, me li darete?»
«Non mi hanno chiesto il segreto,
e quindi non sono tenuto a
mantenerlo.»
«Conoscete qualcuno dei termini
tecnici che riguardano le
fortificazioni?»
«Dai nostri ingegneri sento
parlare di ridotte, di mezzelune, di
controscarpate, ma ignoro
completamente che cosa questo
significhi.»
«Non potreste farmi uno schizzo
della forma dei lavori davanti a
Susa, in particolare quelli dei Crêts
de Montabon e de Montmoron?» 2
«Non so né leggere né scrivere.
Non ho mai preso una matita in
mano.»
«È permesso a degli estranei
avvicinarsi ai lavori?»
«No, una fila di sentinelle è
piazzata a circa un quarto di lega
prima.»
«Potete portarmi con voi come
operaio? Mi hanno detto che ne
cercano dappertutto.»
«Per quanti giorni?»
«Uno solo.»
«Non vedendovi tornare il giorno
dopo, avranno dei sospetti.»
«Potete darvi malato per
ventiquattro ore?»
«Sì.»
«E posso presentarmi al vostro
posto?»
«Penso di sì. Mio fratello vi darà
un biglietto per il caposquadra, Jean
Miroux. Il giorno dopo sto meglio,
riprendo il lavoro, non c’è niente da
dire.»
«Avete sentito, Guillaume?»
«Sì, Eccellenza.»
«A che ora si inizia a lavorare?»
«Alle sette del mattino.»
«Allora non c’è tempo da perdere.
Fate scrivere il biglietto da vostro
fratello, tornate a Gravière e alle
sette del mattino sarò al lavoro.»
«E i vestiti?»
«Non ne avete da prestarmi?»
«Il mio guardaroba non è molto
fornito.»
«Non posso trovarne di pronti da
un sarto?»
«Avranno l’aria troppo nuova.»
«Li sporcheremo.»
«Se qualcuno vede Vostra
Eccellenza fare acquisti, sospetterà
qualcosa. Il duca di Savoia ha spie
ovunque.»
«Avete più o meno la mia taglia,
fatelo voi per me. Ecco il denaro.»
«Ma è troppo.»
«Mi renderete quello che non
avrete speso.»
Stabilite così le cose, Marie
Coutet uscì per fare i suoi acquisti,
Guillaume Coutet si fece portare
penna e inchiostro per scrivere il
biglietto e il conte di Moret scese
per avvertire Isabelle della propria
assenza, che spiegò con la necessità
di fare una ricognizione del percorso
che avrebbero dovuto seguire due
giorni dopo.
Lo stretto contatto favorito dal
viaggio, la singolarità della
situazione, la reciproca confessione
del loro amore avevano messo i due
giovani in una posizione per così
dire eccezionale.
La missione ufficiale che aveva
ricevuto Moret di vigilare sulla sua
fidanzata aveva aggiunto alla sua
passione di innamorato qualcosa di
dolce e fraterno; non c’era dunque
nulla di più incantevole delle ore
d’intimità durante le quali ognuno
dei due, osservando l’altro, guardava
fino in fondo al suo cuore, come in
fondo ai laghi che incontravano sul
loro cammino, e, grazie alla rapidità
dei loro pensieri, leggevano
nell’intimo più profondo le due
parole che, simili alle stelle,
parevano un riflesso del cielo: “Ti
amo”.
Isabelle, sotto la sorveglianza
della dama di Coëtman e di Galaor,
e rimanendo per di più al di qua
della frontiera francese, non aveva
niente da temere; ma questo non
valeva per il conte di Moret, che si
arrischiava in una terra straniera e
infida. Così, l’ora che trascorse
accanto alla sua fidanzata fu
accompagnata da tutti i dolci terrori,
tutte le amorose raccomandazioni
che precedono la separazione, per
quanto breve sia o prometta di
essere, di due innamorati. In quelle
ore di incantevole angoscia – che un
innamorato dovrebbe inventarsi per
calcolo, se, purtroppo, non
arrivassero comunque – i casti favori
dell’amore vengono concessi senza
resistenza e quasi senza che ci sia la
volontà di prenderli. Così, dopo
un’ora il giovane si trovava ancora
ai piedi della sua amata e gli pareva
di esserci da dieci minuti, quando
l’oste Germain gli fece riferire che
Marie Coutet lo aspettava con gli
abiti che aveva comperato.
Cosa del tutto inutile – perché lui
non avrebbe mancato di farlo anche
senza prometterlo –, Isabelle gli fece
promettere di non partire senza
salutarla. Dopo un quarto d’ora,
quindi, si presentava davanti a lei
vestito da contadino piemontese.
La ragazza impiegò qualche
minuto a esaminare nel dettaglio la
nuova toilette del conte e a osservare
che ognuno dei pezzi che la
componevano gli stava a meraviglia.
C’è una fase ascendente dell’amore
in cui tutto – persino un saio – rende
più bello l’uomo o la donna che si
ama; per disgrazia c’è anche la fase
opposta, in cui nulla potrebbe più
rendergli il fascino che ha perduto.
Bisognava lasciarsi, a Chaumont
suonavano le dieci di sera. Ci voleva
un’ora 3 per andare a Gravière, dove
sarebbero quindi arrivati alle undici,
e alle sette di mattina il conte
doveva trovarsi al lavoro.
Prima di partire, si munì della
lettera scritta da Guillaume Coutet e
così concepita:
Caro Jean Miroux,
chi vi consegnerà questa lettera vi
riferirà sia del mio ritorno da Lione, dove
ero andato ad acquistare della merce, sia
dell’incidente che mi è capitato tra Saint-
Laurent e Chaumont. Travolto da una
valanga dentro un burrone, sul bordo del
quale per grazia di Dio ho potuto
aggrapparmi a un pino, da quella
posizione quanto mai penosa mi hanno
tratto dei viaggiatori che passavano di lì,
buone anime cristiane che prego Dio di
accogliere nel suo Paradiso. Per farla
breve la mia caduta mi ha tutto
ammaccato e mio fratello Marie è
costretto a rimanere presso di me per
farmi delle frizioni. Ma siccome non
vuole che il suo lavoro soffra della sua
assenza e del mio incidente, vi manda per
sostituirlo suo cugino Jacquelino. Spera
che domani lui possa riprendere servizio e
io il mio lavoro. Soltanto il mio mulo Dur-
au-trot 4 – vi ricordate che lo avete
battezzato voi così – è rotolato in fondo al
burrone ed è perduto, insieme alla merce,
sepolto sotto più di cinquanta piedi di
neve. Ma, grazie a Dio, la vita non è a
rischio per un mulo e per qualche pacco di
stoffa e gli affari andranno avanti lo
stesso.
Vostro cugino, figlio del vostro cugino
germano,
Guillaume Coutet

Il conte di Moret lesse la lettera e,


leggendola, gli venne più di una
volta da sorridere; era esattamente
quale la desiderava anche se dovette
ammettere che avrebbe fatto molta
fatica a dettarla così se si fosse
incaricato lui della sua redazione.
Poiché dopo quella lettera non
c’era più niente da aspettare e il
cavallo dell’oste Germain era già
sellato davanti alla porta, baciò
ancora una volta la mano di Isabelle,
che stava all’ingresso del corridoio,
saltò in sella, invitò Marie Coutet a
salire in groppa dietro di lui, rispose
agli auguri di buon viaggio che una
dolce voce gli mandava dalla
finestra e partì, su un cavallo che, se
la ricerca della paternità non fosse
stata proibita, sarebbe stato
incontestabilmente riconosciuto
quale padre del povero mulo che
Jean Miroux, probabilmente per
esperienza personale, aveva
battezzato Dur-au-trot.
Un’ora dopo i due giovani erano a
Gravière e il giorno dopo, alle sette,
il conte di Moret presentava a Jean
Miroux la lettera di Guillaume
Coutet e veniva ammesso senza
difficoltà nella squadra degli operai,
al posto di Marie Coutet.
Come Guillaume aveva previsto,
Jean Miroux domandò dettagli
sull’incidente occorso a suo cugino,
dettagli che Jacquelino era
perfettamente in grado di fornirgli.

1 In realtà Guillaume Coutet aveva parlato di


«due o tre anni di più». [NdT]
2 Sono due nomi che compaiono solamente in
Gabriel Daniel, Histoire de France. [NdC]
3 Nel capitolo precedente si parla invece di
mezz’ora di distanza da Gravière. [NdT]
4 Duro al trotto. [NdT]
IV
Perché il conte di Moret
era andato a lavorare alle
fortificazioni
del passo di Susa
Come si può facilmente immaginare,
non era certo per soddisfazione e
istruzione personali che il conte di
Moret aveva indossato i panni e
preso il posto di un contadino
piemontese ed era andato a lavorare
per un giorno come semplice
manovale alle fortificazioni del
passo di Susa.
Durante il colloquio che aveva
avuto con lui, il cardinale di
Richelieu gli aveva mostrato
orizzonti politici degni del figlio di
Enrico IV e il figlio di Enrico IV,
essendosi accorto della benevolenza
del grande ministro nei suoi
confronti, aveva deciso di
meritarsela non come un favore ma
come un diritto.
Di conseguenza, avendo
compreso di poter rendere un grande
servizio al cardinale e al re suo
fratello, aveva stabilito di vedere di
persona, a rischio di essere
riconosciuto e considerato una spia,
le fortificazioni che il duca di Savoia
faceva costruire, così da poterne fare
un preciso rendiconto al cardinale.
Al suo ritorno, quindi, dopo avere
augurato a Isabelle, come Romeo a
Giulietta, che il sonno si posasse sui
suoi occhi più lieve di un’ape sopra
una rosa, si ritirò nella sua camera,
dove si era già fatto portare carta,
inchiostro e penna, e cominciò a
scrivere al cardinale questa lettera:
A Sua Eminenza monsignor il cardinale di
Richelieu
Monsignore,
consentite che, al momento di varcare
il confine per l’Italia, indirizzi a Vostra
Eminenza questa lettera per riferirle che
fino a ora il nostro viaggio si è compiuto
senza incidenti degni di rilievo.
Avvicinandoci però alla frontiera, sono
venuto a conoscenza di notizie che mi
paiono poter essere di reale importanza
per Vostra Eminenza, visti i preparativi
che sta organizzando per marciare sul
Piemonte.
Il duca di Savoia, che cerca di
guadagnar tempo promettendo che lascerà
passare le truppe attraverso i suoi Stati, fa
intanto fortificare il passo di Susa.
Ho preso allora la decisione di
rendermi conto di persona dei lavori che
fa eseguire.
La Provvidenza ha voluto che salvassi
la vita a un contadino di Gravière il cui
fratello lavora alle fortificazioni. Ho preso
il posto di quel fratello e ho passato una
giornata con gli operai.
Ma prima di raccontare a Vostra
Eminenza quello che ho visto e fatto in
quella giornata, devo farle un rendiconto
preciso delle difficoltà naturali che
incontrerà sul suo percorso, informandola
il più accuratamente possibile sia di quelle
che deve combattere sia di quelle che deve
evitare.
Chaumont, da dove ho l’onore di
scrivere a Vostra Eminenza, è l’ultimo
borgo appartenente al re. Il confine che
separa il Delfinato dal Piemonte si trova a
un quarto di lega da qui. Poco oltre, nelle
terre del duca di Savoia, si incontra
un’enorme roccia molto ripida, accessibile
da una sola rampa stretta e circondata da
precipizi. Carlo Emanuele considera
questa roccia, che si chiama Gélasse, 1
una fortificazione naturale, un ostacolo
alla marcia dei francesi, e vi tiene una
guarnigione. Se si vuole evitarla, si
penetra in una valle scavata fra due
montagne altissime, una detta Crêt de
Montabon e l’altra Crêt de Montmoron.
I lavori di cui ho parlato a Vostra
Eminenza, e che ho voluto visitare di
persona per dirvi in che cosa consistono,
si eseguono tra quelle due montagne,
varco per Susa e sola porta per l’Italia.
Il duca di Savoia sta facendo chiudere
il passaggio tra le due montagne con una
mezzaluna e una grossa trincea sostenuta
da due barricate distanti circa duecento
passi l’una dall’altra, i cui fuochi
s’incrociano.
Inoltre, Sua Altezza sul doppio pendio
delle due montagne (una delle quali, il
Crêt de Montabon, è sormontata da una
piazzaforte) fa costruire piccole ridotte
dove possono facilmente trovare rifugio
un centinaio di uomini e piccole
postazioni difensive che ne possono
contenere da venti a venticinque. Il tutto
sarà armato con artiglieria pesante che
giungerà da Susa, mentre, dalla nostra
parte, sarà impossibile mettere anche un
solo pezzo in batteria. La valle, lunga un
quarto di lega, in diversi tratti non è più
larga di diciotto, venti passi, e in certi
punti si restringe fino a dieci. È quasi tutta
ingombra di rocce e pietre che nessuna
macchina potrebbe spostare.
Arrivando la mattina ai lavori, venni a
sapere che il duca di Savoia e suo figlio
sarebbero dovuti venire quel giorno da
Torino a Susa per affrettare le
fortificazioni. Arrivarono, infatti, verso
l’una del pomeriggio e subito si recarono
dagli operai; avevano portato e lasciato a
Susa tremila uomini, preannunciando
l’arrivo di altri cinquemila per il giorno
successivo.
Mandato sul pendio del Crêt de
Montmoron per avvertire dell’arrivo del
duca di Savoia, vidi da vicino la seconda
ridotta, corrispondente a quella del Crêt de
Montabon: sono sempre più convinto che
il passo di Susa non possa essere attaccato
frontalmente, ma vada piuttosto aggirato.
Questa notte, verso le tre,
approfittando del chiaro di luna, partiremo
da Chaumont, guidati dall’uomo cui ho
salvato la vita e che garantisce sulla sua
testa di condurci fuori dagli Stati del duca
di Savoia attraverso sentieri a lui noti.
Non appena avrò consegnato
mademoiselle de Lautrec alla sua
famiglia, lascerò Milano e, per la strada
più rapida, vi verrò incontro, signor
cardinale, per riprendere il mio posto nelle
file dell’armata e assicurare Vostra
Eminenza del mio profondo rispetto e
della mia totale ammirazione.
Antoine de Bourbon, conte di Moret

Alle tre di mattina la piccola


carovana si rimetteva effettivamente
in cammino e usciva da Chaumont
nello stesso ordine in cui vi era
entrata, con in più soltanto la guida
Guillaume Coutet.
Erano tutti e cinque a dorso di
mulo, anche se Coutet li aveva
avvisati che per superare certi
passaggi avrebbero dovuto scendere
dalle loro cavalcature. I viaggiatori
si dirigevano verso Gélasse, che si
drizzava nelle tenebre come un
secondo gigante Adamastor; 2 ma
cinquecento passi prima di arrivarci,
Guillaume Coutet, che marciava in
testa, imboccò un sentiero a
malapena visibile che scartava
decisamente verso sinistra. In capo a
un quarto d’ora, si udì il rumore di
un torrente.
Quel torrente, uno dei mille
affluenti che si buttano nel Po, era
gonfio di pioggia e la sua piena
presentava una difficoltà non
prevista.
Guillaume si fermò sulla riva,
guardò sopra e sotto di lui, alla
ricerca di un passaggio più facile;
ma, senza lasciargli il tempo di
riflettere, il conte di Moret, con il
bisogno ardente che provano i cuori
innamorati di gettarsi nel pericolo
quando due begli occhi li guardano,
spinse il suo mulo nel fiume.
Guillaume Coutet, però, era stato
più veloce di lui e, fermando il
mulo, con il tono imperioso che
assumono le guide responsabili di
qualcun altro quando un pericolo
reale si presenta, gli disse:
«Questo è affar mio, non vostro.
Fermatevi!»
Il conte obbedì.
Isabelle scese anche lei la scarpata
e si mise al fianco del giovane.
Galaor e la dama di Coëtman
rimasero sull’argine.
La dama di Coëtman, che sotto la
luce della luna era ancora più pallida
che sotto lo splendore del sole,
guardava il torrente con la stessa
espressione con cui aveva guardato
il precipizio, con l’impassibilità,
cioè, della donna che aveva per dieci
anni vissuto faccia a faccia con la
morte.
Il mulo di Guillaume cominciò ad
avanzare in linea retta per circa un
terzo della larghezza del torrente; lì,
la corrente troppo rapida lo fece
deviare. Per un attimo l’animale,
trascinato, fu costretto a mettersi a
nuotare e il suo cavaliere non poté
più governarlo; grazie, però, al suo
sangue freddo e all’abitudine a quel
genere di incidenti acquisita con il
contrabbando, riuscì a mantenere
fuori dall’acqua la testa del mulo, e
questo, continuando a nuotare e a
lottare, pur essendosi spostato di
venticinque o trenta passi, riuscì
comunque a toccare di nuovo il
fondo e, fradicio e ansimante, portò
il suo cavaliere sull’altra riva.
A quello spettacolo, Isabelle
aveva afferrato la mano del conte di
Moret e la forza con cui la stringeva
dava la misura del suo terrore, non
per il pericolo che correva la guida o
che avrebbe corso di lì a poco anche
lei, ma per quello in cui sarebbe
incorso il suo innamorato se avesse
attraversato per primo, come
inizialmente voleva fare.
Giunto, come abbiamo detto,
sull’altra riva, Guillaume la risalì;
arrivato all’altezza del gruppo fermo
sulla sponda opposta, fece segno di
aspettare e continuò a risalire la
corrente per circa cinquanta passi.
A quel punto rientrò in acqua per
sondare il guado e questa volta fu
più fortunato: riuscì a non perdere
contatto con il fondo, anche se
l’acqua arrivava fino alla pancia del
suo mulo.
Ritornato sulla loro stessa riva,
chiamò con un cenno i suoi
compagni, che si affrettarono a
raggiungerlo; lui non si era spostato
dal luogo dove aveva trovato il
guado, per paura di perdere di vista
la traiettoria che aveva seguito e
quindi di cadere o di far cadere gli
altri in qualche buca.
Avevano deciso come far passare
le due donne.
Prima di tutto avrebbero messo il
mulo di Isabelle fra quello di
Guillaume e quello del conte di
Moret, in modo che lei avesse sia a
destra sia a sinistra qualcuno pronto
ad aiutarla.
Poi Guillaume avrebbe
riattraversato il torrente per la quarta
volta e la dama di Coëtman lo
avrebbe attraversato a sua volta fra
lui e il paggio.
La dama di Coëtman ascoltò
quelle disposizioni con l’abituale
indifferenza e annuì con il capo in
segno di approvazione.
Guillaume, Isabelle e il conte di
Moret entrarono in acqua nell’ordine
convenuto e avanzarono verso l’altra
riva, che raggiunsero senza
inconvenienti.
Ma, voltandosi, la prima cosa che
videro fu la dama di Coëtman che,
senza aspettare che la andassero a
prendere, aveva spinto il mulo
nell’acqua. Galaor non aveva voluto
rimanere indietro e la seguiva.
Raggiunsero entrambi la riva
senza inconvenienti.
Nonostante i lunghi stivali, il
conte di Moret aveva sentito il
freddo dell’acqua salirgli fino alle
ginocchia. Era certo che Isabelle
fosse bagnata quanto lui e temeva
per lei gli effetti di quell’acqua
gelida.
Quando gli domandò dove
avrebbero potuto fermarsi e trovare
del fuoco, Guillaume rispose di
conoscere sulla montagna, a circa
un’ora di cammino, una capanna
dove spesso sostavano i
contrabbandieri; lì avrebbero trovato
fuoco e tutto ciò di cui potessero
avere bisogno.
Il terreno consentiva di percorrere
in fretta una mezza lega. Misero i
muli al trotto e arrivarono
rapidamente ai primi crinali della
montagna.
Fu giocoforza avanzare in fila
indiana, poiché il sentiero si
restringeva tanto da non consentire il
passaggio di due persone affiancate.
Come aveva fatto in tutti gli altri
casi simili, Guillaume prese la testa
del gruppo, seguivano Isabelle e il
conte di Moret, e poi la dama di
Coëtman e Galaor.
La pioggia caduta, inzuppando la
neve, facilitava il cammino;
poterono quindi marciare a passo
allungato e, all’ora indicata da
Guillaume, arrivare alla porta della
capanna.
Isabelle esitava a entrare e
avrebbe preferito proseguire; la
porta socchiusa lasciava intravedere
parecchia gente, e dei generi più
diversi. Ma Guillaume la rassicurò
promettendole un angolo appartato
dove non ci sarebbe stato nessuno il
cui aspetto potesse intimorirla.
Del resto i viaggiatori erano ben
armati; oltre ai coltelli da caccia di
cui abbiamo già parlato – con uno
dei quali abbiamo visto Galaor
tagliare un terebinto e trasformarlo
in piolo – ognuno di essi aveva nelle
bisacce caricate sui muli un paio di
lunghe pistole a ruota, come si
facevano allora. Guillaume, inoltre,
portava in vita un’arma che era una
via di mezzo fra il coltello da caccia
e il pugnale e, a tracolla, una di
quelle carabine che già allora si
facevano arrivare dal Tirolo per la
caccia al camoscio.
Davanti alla porta si fermarono.
Guillaume scese da solo ed entrò.
1 Nella maggior parte dei Mémoires, fra cui
quelli del maresciallo di Bassompierre, quella
roccia è indicata con il nome di Talasse. [NdC]
2 Mitologico gigante delle tempeste, spirito del
Capo di Buona Speranza, descritto nelle
Lusíadas da Luís Vaz de Camões. [NdC]
V
Una sosta in montagna
Guillaume uscì quasi subito, si mise
un dito sulla bocca, prese il suo
mulo per le briglie e fece segno agli
altri di seguirlo.
Girarono intorno alla capanna,
entrarono in una specie di cortile e
portarono i muli sotto una tettoia
dove se ne trovava già una dozzina.
Guillaume fece scendere le due
donne e le invitò a seguirlo. Isabelle
si voltò verso il conte. Ogni cuore
innamorato riprende una parte della
fiducia che aveva riposto in Dio per
riporla nell’essere che ama.
«Ho paura» disse.
«Non temete» replicò il conte, «io
veglio su di voi.»
«In ogni modo» intervenne
Guillaume, che aveva sentito, «se
abbiamo qualcosa da temere, non
sarebbe certo qui, dove ho molti
amici.»
«E noi?» domandò il conte.
«Mettetevi in vita le pistole, non
si tratta di ornamenti superflui nella
zona e nei tempi in cui viaggiamo, e
aspettatemi.»
Tolse dalla groppa dei muli il
bagaglio delle due donne e, seguito
da loro, avanzò verso la capanna.
Li aspettava una donna che li fece
entrare in una specie di forno, nel
camino del quale ben presto brillò
un fuoco splendente.
«Rimanete qui» disse Guillaume a
Isabelle. «Sarete al sicuro quanto al
Genévrier d’Or. Io vado a occuparmi
degli uomini.»
Il conte di Moret e Galaor
avevano seguito le indicazioni di
Guillaume: erano scesi dai muli, si
erano messi in vita le pistole e
avevano preso i loro bagagli: la
garanzia di Guillaume valeva solo
per le persone, e non si estendeva ai
guardaroba.
Si avviarono tutti e tre verso
l’ingresso della capanna e vi
entrarono dalla porta principale,
sulla soglia della quale si erano per
un attimo fermati.
Il timore di Isabelle per la gente
raccolta lì dentro non era infondato.
Meno timidi di lei, i due giovani vi
si mescolarono senza esitazioni: ma
lo sguardo che si scambiarono, il
sorriso che sfiorò le loro labbra, il
gesto simultaneo con cui portarono
la mano al calcio delle loro pistole
indicavano che la loro fiducia nella
promessa di Guillaume non era
totale.
Quanto a lui, contrabbandiere e
bracconiere fin dall’infanzia,
sembrava trovarsi nel suo elemento;
si apriva a spallate e a gomitate un
varco verso l’immenso camino dove
si scaldavano, bevendo e fumando,
una dozzina di individui ai quali
anche l’occhio più perspicace
avrebbe faticato ad attribuire una
qualunque professione, dato che,
non avendone una particolare, erano
pronti a esercitarle tutte.
Guillaume si avvicinò al camino e
disse qualcosa all’orecchio di due
uomini che subito si alzarono e
cedettero i loro posti portandosi via i
sedili, cioè i pacchi su cui erano
seduti, salutando senza segno di
scontento per essere stati disturbati.
Le valigie presero il posto dei
pacchi e il conte di Moret e Galaor
quello dei due uomini.
Solo allora i due giovani
riuscirono a lanciare un’occhiata
all’assembramento di persone che
fino a quel momento avevano
appena intravisto: e quell’occhiata
dava perfettamente ragione ai timori
di mademoiselle de Lautrec.
La maggior parte di chi si trovava
là apparteneva senza possibilità di
dubbio all’onorevole corporazione
di cui faceva parte Guillaume
Coutet; ma gli altri – bracconieri in
cerca di qualunque genere di
selvaggina, vagabondi,
condottieri, 1 mercenari di ogni
paese, spagnoli, italiani, tedeschi –
formavano un miscuglio dei più
strani: per esprimere il pensiero,
ogni lingua ricorreva alle espressioni
non solo più pittoresche, ma più
energiche, di cui anche il chimico
più esperto avrebbe fatto molta
fatica ad analizzare i singoli
elementi.
Lungi del resto dal combinarsi,
quegli elementi sembravano
ostinarsi a mantenere la loro
eterogeneità. Solamente quelli che
appartenevano alla stessa famiglia si
sostenevano e si appoggiavano gli
uni con gli altri.
L’elemento spagnolo era
dominante. Tutti gli assediati che
riuscivano a fuggire da Casale, dove
si moriva di fame, tutti i disertori
che se ne andavano dal Milanese
dietro pretesto di una paga irregolare
raggiungevano la montagna e lì
s’impadronivano di una di quelle
competenze misteriose e notturne di
cui in ogni paese la montagna è
teatro. Riuniti, tutti quegli uomini si
mescolavano, quasi a formare
correnti diverse di un fiume che
corre verso l’abisso. Sopra le loro
teste fluttuava il vapore del tabacco,
delle bevande calde e degli aliti
avvinazzati. Poche candele fumose,
attaccate alle pareti o vacillanti sui
tavoli a ogni pugno che le faceva
sobbalzare, aggiungevano le loro
fetide emanazioni a quell’atmosfera
cui davano luce senza riuscire a
renderla chiara e dove sembravano
apparizioni circondate da un cerchio
giallastro, simili alla luna la vigilia
delle giornate piovose.
Ogni tanto si udivano grida più
violente e più acute, si vedevano
sagome minacciose agitarsi in quella
specie di nebbia; se la discussione si
tramutava in rissa fra uno spagnolo e
un tedesco, fra un francese e un
italiano, tedeschi e spagnoli, francesi
e italiani si univano a quelli della
loro lingua; se le due parti si
ritrovavano pari, o quasi, la mischia
si faceva generale; se invece le forze
di uno degli avversari erano
decisamente inferiori a quelle
dell’altro, li si lasciava concludere la
lite come meglio credevano, con un
bacio di pace o con una coltellata.
I due giovani si erano appena
seduti e cominciavano a scaldarsi
quando una di quelle dispute, che
erano sempre e solamente sopite a
metà, si rianimò in un angolo della
locanda. La mescolanza di
bestemmie tedesche e spagnole
indicava la diversa nazionalità dei
due avversari. Immediatamente si
videro rizzarsi in mezzo ai vapori
una dozzina di individui pronti a
slanciarsi verso l’angolo da cui
nasceva il rumore e in cui volavano
le invettive; e siccome, dei dodici
individui, nove erano spagnoli e tre
tedeschi, i tre tedeschi quasi subito
si rimisero a sedere sulle loro
panche dicendo: «Non è niente», e i
nove spagnoli sui solo sedili
dicendo: «Lasciate perdere».
Quella libertà di azione trasformò
subito due dei litiganti in due
combattenti. Subito gli atti
seguirono la violenza delle parole e
crebbero in violenza insieme a esse:
poi nel cerchio giallastro attorno alla
candela brillarono le lame dei
coltelli; si succedettero imprecazioni
sempre più ravvicinate, che
indicavano ferite più o meno gravi a
seconda che l’imprecazione fosse
più o meno forte; infine si udì un
grido di dolore, un uomo scavalcò
veloce sgabelli e sedie, si slanciò
fuori dalla porta e sparì.
Da sotto il tavolo venne un
rantolo di agonia.
Appena aveva visto luccicare i
coltelli, il conte di Moret aveva
avuto il moto spontaneo, naturale in
ogni cuore non indurito, di andare in
aiuto dei combattenti. Ma con mano
di ferro Guillaume lo aveva preso
per il braccio e inchiodato alla sua
valigia, rendendogli un servizio
tanto prudente quanto poco
filantropico.
«Non muovetevi, perdio!»
«Ma si sgozzeranno, lo vedete
anche voi!» esclamò il conte.
«Non è affar vostro!» replicò
tranquillo Guillaume. «Lasciateli
fare, sono faccende loro!»
E, come abbiamo visto, in effetti
li avevano lasciati fare, con il
risultato che uno, inferto il colpo,
era scappato dalla porta e l’altro,
ricevuto il colpo, si era dapprima
appoggiato al muro, poi, scivolando,
era caduto tra la parete e il banco,
dove rantolava in attesa di morire.
Terminata la lotta, uscito
l’assassino, rimaneva soltanto un
moribondo che si poteva soccorrere
senza inconvenienti; poiché era stato
il tedesco ad avere la peggio, si
lasciò che i suoi due o tre
compatrioti tirassero fuori il corpo
da sotto il tavolo e ce lo coricassero
sopra.
Il colpo era stato inferto dal basso
verso l’alto, con uno di quei coltelli
catalani dalla lama appuntita come
un ago, che poi però si allarga. Era
passato fra la settima e l’ottava
costola ed era diretto al cuore, come
si vide subito dalla posizione della
ferita e dalla rapidità della morte:
appena il ferito fu disteso sul tavolo,
infatti, fu preso da un’ultima
contrazione e spirò.
In mancanza di parenti e amici,
era giusto che l’eredità andasse ai
compatrioti e nessuno si oppose a
tale decisione, che sembrò presa in
maniera amichevole fra i tre figli
della Germania.
Frugarono nelle tasche del morto,
si divisero i suoi soldi, le armi, i
vestiti, come se stessero facendo la
cosa più normale del mondo; poi,
fatta la spartizione, presero – sempre
i tre tedeschi – il cadavere, cui
avevano lasciato addosso camicia e
calze, lo trascinarono fino a un
punto in cui il sentiero costeggiava
un precipizio di mille metri e lo
lasciarono scivolare lungo il declivio
che portava al burrone, come si
lascia scivolare lungo l’asse che lo
porta agli abissi oceanici il corpo di
un marinaio morto a bordo di una
nave in alto mare.
Dopo pochi secondi si udì il tonfo
sordo di un corpo umano che si
sfracellava contro le rocce.
Di padre, madre, parenti,
famiglia, amici non si parlò, e
nessuno ci pensò. Come si
chiamava? Da dove veniva? Chi
era? Anche di quello nessuno si
preoccupò. Era un atomo in meno
nell’infinito, e solo l’occhio di Dio è
abbastanza penetrante da
riconoscere e contare gli atomi
umani.
Una volta morto, il creato non
sentì la sua mancanza più di quanto
non senta quella della rondine che
all’approssimarsi dell’inverno parte
per un altro mondo, non lasciando
nell’aria scia del suo passaggio, o
della formica che il passante, senza
vederla, schiaccia sotto il piede.
L’unica preoccupazione del conte
di Moret fu che Isabelle avesse
potuto assistere a quel tremendo
spettacolo, dato che solo una parete
la separava dal luogo in cui si era
svolto. Si alzò meccanicamente e si
diresse alla porta del suo
nascondiglio; l’ostessa era seduta
sulla soglia.
«Non preoccupatevi, mio bel
giovane» gli disse. «Sono qui a
vegliare.»
Proprio allora, come se Isabelle
avesse sentito attraverso la parete il
suo innamorato che la raggiungeva,
la porta si aprì e, con il suo sorriso
dolce, di angelo che crea il suo
Paradiso ovunque si trovi, gli disse:
«Benvenuto, amico mio. Siamo
pronte e aspettiamo soltanto voi.»
«Allora richiudete la porta, cara
Isabelle. Avverto Guillaume e
Galaor. Aprite solamente alla mia
voce.»
La porta si richiuse, e, voltandosi,
il conte si trovò faccia a faccia con
Guillaume.
«Le signore sono pronte» gli
disse. «Partiamo prima possibile,
questa atmosfera mi dà il
voltastomaco.»
«D’accordo, ma non rientrate, non
devono vederci uscire tutti insieme.
Vi mando il ragazzo e fra dieci
minuti uscirò io con le due valigie.»
«Temete qualche pericolo?»
«C’è gente di ogni genere; e avete
visto quanta importanza danno alla
vita di un uomo.»
«Perché ci avete fatto entrare qui,
sapendo che razza di banditi vi
avremmo trovato?»
«Sono passato da questo sentiero
due mesi fa. Due mesi fa alla
spedizione in Italia non si pensava
nemmeno. È l’avvicinarsi della
guerra che ci porta tutti questi
banditi. Non potevo immaginarlo né
prevederlo, altrimenti avremmo
tirato dritto.»
«Va bene! Andate a chiamare
Galaor. Noi prepariamo i muli,
dovremo solo salirci sopra e
allontanarci.»
«Vado.»
Cinque minuti più tardi, i quattro
viaggiatori e la loro guida lasciavano
con la massima discrezione e il
minor rumore possibili la locanda
dei contrabbandieri e riprendevano il
cammino per un istante interrotto.

1 In italiano nel testo. [NdT]


VI
Le anime e le stelle
Uscendo dal cortile, Guillaume fece
notare al conte la lunga striscia di
sangue che arrossava la neve e
spariva nel punto da cui il cadavere
era stato gettato nel burrone.
La cosa non aveva bisogno di
commenti: si scambiarono
un’occhiata e misero istintivamente
la mano sul calcio delle loro pistole.
Come non aveva sentito nulla,
Isabelle non vide nulla: il conte le
aveva detto di stare tranquilla, e lei
era tranquilla.
La luna diffondeva la sua luce
fredda su tutto il paesaggio coperto
di neve e ogni tanto scompariva
dietro nuvole scure che
percorrevano il cielo come immense
onde di vapore.
Il sentiero era abbastanza facile da
consentire a Isabelle di vagare con
lo sguardo nell’infinità del cielo,
lasciando al mulo la responsabilità
di condurla.
È risaputo che d’inverno le stelle
splendono di un fuoco più puro e
brillante, soprattutto sulle montagne
che, per la loro posizione, svettano
al di sopra delle nebbie terrene.
D’indole sognatrice e
malinconica, Isabelle si perdeva
nella sua contemplazione.
Preoccupato del suo silenzio –
ogni cosa preoccupa gli innamorati
–, il conte di Moret scese dalla sua
mula e si appoggiò con una mano
alla groppa della cavalcatura di
Isabelle, tendendo a lei l’altra.
«A che cosa pensate, amore
mio?» domandò.
«A che cosa volete che pensi, mio
caro, nel guardare questo
firmamento stellato, se non
all’infinita potenza di Dio e a quanto
poco posto occupiamo in questo
universo che il nostro orgoglio crede
creato per noi.»
«E che cosa accadrebbe, mia cara
sognatrice, se conosceste la reale
dimensione di tutti quei mondi che
ci ruotano attorno, in confronto
all’infinita piccolezza del nostro
globo terrestre?»
«La conoscete, voi?»
«Ho studiato l’astronomia con un
grande maestro italiano, professore a
Padova, che, avendomi preso in
particolare simpatia, mi ha rivelato i
suoi segreti che ancora non osa
divulgare, temendo possano essere
pericolosi per la sua sicurezza.»
«La scienza comporta tali segreti,
amico mio?»
«Sì, se questi segreti entrano in
conflitto con le Sacre Scritture!»
«Bisogna credere, prima di tutto!
E nel cuore dei credenti, la fede
prevale sulla scienza.»
«Non dimenticate, Isabelle, che
parlate a un figlio di Enrico IV; che
sono nato da un padre mal
convertito e che la sua
raccomandazione principale, non in
punto di morte, poiché la sua morte
è stata purtroppo così repentina da
non lasciargli il tempo di pensare a
me, ma quando era vivo, era questa:
“Lasciatelo studiare, lasciatelo
imparare e, quando saprà, lasciate
che sottoponga la fede al suo libero
esame”.»
«Non siete cattolico?» domandò
Isabelle un po’ turbata.
«Ma certo, state tranquilla» disse
il conte. «Però il mio professore,
vecchio calvinista, mi ha insegnato a
sottomettere ogni credenza al vaglio
della mia ragione e a respingere
qualsiasi teoria religiosa che
cominci con l’annullare una parte
dell’intelligenza a vantaggio della
fede. Io credo, sì, ma alle cose di cui
posso rendermi conto, rifiuto di
lasciarmi imporre credenze fumose
che nemmeno chi le predica è in
grado di spiegarmi: questo non mi
impedisce di annullarmi in Dio,
nella cui immensa paternità andrei a
cercare un rifugio se mai mi
capitasse una sventura seria.»
«Per fortuna!» disse Isabelle
sorridendo. «Temevo di avere a che
fare con un pagano!»
«Peggio di un pagano, Isabelle!
Un pagano può acconsentire a
convertirsi; un pensatore vuole
vedere chiaro e così facendo, via via
che procede verso la verità eterna, si
allontana dal dogma. Se fossi
vissuto in Spagna ai tempi di Filippo
II, Isabelle cara, è probabile che a
quest’ora sarei stato bruciato come
eretico.»
«Oh, mio Dio! Ma a proposito
delle stelle che contemplavo che
cosa vi diceva quel dotto italiano?»
«Una cosa che voi negherete,
benché a me sembri essere una
verità assoluta.»
«Non negherò nulla che voi
affermiate, amico mio.»
«Siete mai stata in riva al mare?»
«Sono stata due volte a
Marsiglia.»
«Qual era per voi l’ora più bella
della giornata?»
«Quella del tramonto del sole.»
«Non avreste giurato allora che
fosse lui a tracciare la propria strada
nel cielo e, alla fine del giorno, a
precipitarsi in mare?»
«Lo giurerei ancora!»
«Ebbene, vi sbagliavate, Isabelle;
il sole è immobile, ed è la terra che
si muove.»
«Impossibile!»
«Ve lo avevo detto che avreste
negato.»
«Ma se la terra si muovesse, la
sentirei avanzare.»
«No, perché insieme a essa si
muove l’atmosfera che ci avvolge.»
«Ma se fosse la terra ad avanzare,
il sole lo vedremmo sempre.»
«Avete ragione, Isabelle, e il
vostro acume vi illumina quasi
quanto la scienza; non solo la terra
compie un percorso, ma gira anche;
in questo momento, per esempio, il
sole splende dalla parte opposta a
quella in cui ci troviamo.»
«Ma se fosse vero, avremmo i
piedi per aria e la testa in basso.»
«Così è, relativamente; ma
l’atmosfera di cui vi ho parlato ci
avvolge e ci sostiene.»
«Non capisco, Antoine, e, poiché
non voglio dubitare, parliamo
d’altro.»
«Di che cosa parliamo?»
«Di quello cui stavo pensando
quando siete venuto a invadere i
miei pensieri.»
«E a che cosa pensavate?»
«Mi domandavo se tutti questi
mondi sparpagliati al di sopra delle
nostre teste non siano stati creati
come dimora delle nostre anime
dopo la morte.»
«Non vi avrei creduto tanto
ambiziosa, Isabelle cara.»
«Perché ambiziosa?»
«Soltanto due o tre di quei mondi
sono più piccoli del nostro: Venere,
Mercurio e la luna, tre in tutto: altri
sono ottanta, settecento,
millequattrocento volte più grandi
della terra.»
«Il sole, posso ancora capirlo; è
l’astro privilegiato; noi gli dobbiamo
tutto, persino il principio della
nostra esistenza; il suo calore, la sua
potenza, la sua gloria ci circondano
e ci penetrano. È lui che fa battere
non solo i nostri cuori, ma persino il
cuore della terra.»
«Con la vostra immaginazione e
la vostra poesia, cara Isabelle, avete
parlato meglio di quanto non farebbe
il mio maestro italiano con tutta la
sua scienza.»
«Ma com’è possibile» insisté
Isabelle «che quei punti luminosi
che vediamo nel cielo siano più
grandi della terra?»
«E non vi parlo di quelli che
sfuggono alla nostra vista per
l’enorme distanza che li separa da
noi, come Uranio e Saturno; ma
guardate quella stella di un giallo
dorato.»
«La vedo.»
«Si tratta di Giove; è
millequattrocento volte più grande
della terra e ha quattro lune che gli
consentono di godere di luce
perenne e di un’eterna primavera.»
«Ma come mai ci appare così
piccolo, mentre il sole ci sembra
così grande?»
«In effetti il sole è cinque volte
più grande di lui, e noi siamo
soltanto a trentotto milioni di leghe
dal sole, mentre lui ne dista
duecento milioni, si trova, cioè, a
centosettanta milioni di leghe da
noi.»
«Ma chi vi ha detto tutte queste
cose, Antoine?»
«Il mio maestro italiano.»
«E come si chiama?»
«Galileo.»
«E voi credete a quello che vi ha
detto?»
«Ci credo fermamente.»
«Allora, caro conte, mi spaventate
con le vostre distanze, e non credo
che la mia povera anima azzarderà
mai un simile viaggio.»
«Se ce l’abbiamo un’anima,
Isabelle.»
«Ne dubitate?»
«Non mi pare per niente
dimostrato.»
«Non discutiamo su questo: ho la
fortuna, io, non essendo sapiente
quanto voi, di credere all’esistenza
della mia anima!»
«Se voi credete nella vostra
anima, cercherò di credere nella
mia.»
«Ma insomma, supponiamo che
ne abbiate una e che siate libero,
dopo la morte, di scegliere per lei
una dimora, temporanea o eterna che
sia, verso quale mondo la
indirizzereste?»
«E voi, mia cara Isabelle?»
«Confesso di avere una
predilezione per la luna, io: è l’astro
degli innamorati infelici.»
«Per la distanza, dato che è l’astro
più vicino, solamente a più o meno
novantaseimila leghe dalla terra,
avreste ragione, ma di certo è quello
dove la vostra anima starebbe
peggio.»
«Perché?»
«Perché non ci si può vivere,
nemmeno un’anima potrebbe!»
«Oh, che peccato! Ne siete
sicuro?»
«Ascoltatemi: i migliori telescopi
del mondo sono quelli di Padova.
Ebbene, puntati sul vostro pianeta
favorito, cara Isabelle, dimostrano
che è assolutamente sterile e
disabitato, per lo meno nel suo
emisfero visibile; niente atmosfera, e
quindi niente fiumi, niente laghi,
niente mare, niente vita, niente
vegetazione. È vero che dalla parte
che per noi è e resterà sempre
invisibile potrebbe esserci tutto
quello che manca all’altra. Ma, nel
dubbio, non vi consiglierei di
mandarvi la vostra anima, con il che
non voglio dire che la mia non la
seguirebbe anche lì.»
«Ma voi, che conoscete tutti quei
mondi come se li aveste abitati, mio
caro conte, in quale di tutti quegli
astri, quei satelliti, quei pianeti,
perché non so che nome dare a tutte
quelle costellazioni, in quale di loro
attirereste la mia anima, se, come
temo, fosse tanto ostinata a seguire
la vostra anima quanto lo è la vostra
a seguire la mia?»
«Oh, io» rispose il conte «non
avrei esitazioni: su Venere.»
«Per uno che dichiara di non
essere pagano, si tratta di una
dimora piuttosto compromettente. E
dove si trova questa Venere, oggetto
della vostra predilezione?»
«Vedete, Isabelle cara, quel
fiordaliso di fuoco che fiorisce nel
cielo è Venere; è l’annunciatrice
della sera, l’annunciatrice
dell’aurora, il pianeta più radioso di
tutto il nostro sistema; è lontana dal
sole circa ventotto milioni di leghe e
ne riceve calore e luce due volte più
che la terra; ha un’atmosfera simile
alla nostra, e benché sia grande più o
meno la metà di noi, ha montagne
alte centoventimila piedi. Ora, dal
momento che Venere, come
Mercurio, è costantemente, o quasi,
coperta di nuvole, deve essere
attraversata dai ruscelli e dai fiumi
che mancano alla luna e che devono
accompagnare con un mormorio e
una freschezza meravigliosi le
anime che passeggiano sulle loro
rive.»
«Vada dunque per Venere» disse
Isabelle.
Avevano appena concluso quel
patto quando il rumore di un passo
precipitoso che si avvicinava
rapidamente giunse alle orecchie dei
viaggiatori, che si fermarono
istintivamente e si voltarono dalla
parte da cui il rumore proveniva.
Un uomo correva a gran velocità
e, non osando chiamare, faceva con
il cappello dei segni che lo
splendido chiarore della luna,
affacciatasi in quel momento fra due
masse di nuvole, come una barca su
un mare azzurro, permetteva di
scorgere.
Evidentemente quell’uomo
doveva urgentemente comunicare
qualcosa alla piccola carovana.
Quando fu ormai a circa cento
passi, si arrischiò a chiamare
Guillaume.
Guillaume scese dal suo mulo e
corse incontro all’uomo, uno dei
contrabbandieri che aveva invitato a
cedere il posto davanti al fuoco al
conte di Moret e a Galaor.
I due uomini si incontrarono a
circa cinquanta passi dai viaggiatori,
scambiarono qualche parola veloce e
tornarono a grandi passi verso di
loro.
«In guardia, in guardia, amico
Jacquelino» disse Guillaume
ostentando volutamente nei
confronti del conte una familiarità
che ingannasse il suo amico
contrabbandiere sulla condizione
sociale dei viaggiatori, condizione
che quello, peraltro, aveva
perfettamente indovinato, «siamo
inseguiti e bisogna trovare in fretta
un nascondiglio per lasciar passare i
nostri inseguitori.»
VII
Il ponte di Giacon
Ecco infatti che cos’era accaduto
nella locanda dei contrabbandieri
dopo che il conte di Moret, Galaor e
Guillaume Coutet erano usciti dalla
sala comune.
La porta che dava sulla strada
della montagna si era riaperta e si
era vista ricomparire la faccia dello
spagnolo fuggito dopo aver ucciso il
tedesco.
Nella sala tutto era tranquillo
come se non fosse successo niente.
«Ehi, spagnoli!» disse lui, e tornò
fuori.
Gli spagnoli si alzarono e
uscirono per rispondere all’appello
del loro compatriota.
Il contrabbandiere amico di
Guillaume Coutet sospettò qualcosa
di losco, uscì dalla porta sul retro e,
attraverso il cortile, si avvicinò al
gruppo. Udì allora lo spagnolo
raccontare ai suoi compagni di aver
visto attraverso il lucernaio del forno
aperto sul giardino due donne, una
delle quali pareva una gran dama:
secondo lui quelle dame facevano
parte della carovana guidata da
Guillaume.
C’era da fare un colpo, e
probabilmente un buon colpo.
Erano in dieci; avrebbero di certo
avuto la meglio senza grandi sforzi
su tre uomini, uno dei quali era poco
più di un bambino e un altro una
guida che, in quanto tale, non aveva
alcun motivo di farsi uccidere per
della gente che nemmeno
conosceva.
Lo spagnolo non ci aveva messo
molto a convincere i suoi compagni,
ladri e pendagli da forca come lui, e
il gruppo si era separato, perché
ognuno andasse a prendere le sue
armi.
Lui allora si era messo le gambe
in collo e si era lanciato su per la
strada, sicuro di arrivare prima degli
spagnoli, per quanto in fretta
avessero camminato.
Era infatti arrivato prima di loro,
ma non c’era tempo da perdere,
quelli non dovevano essere lontano.
I due uomini, che conoscevano a
menadito la zona, tennero consiglio:
non è facile nascondere cinque
viaggiatori e cinque muli. Dalla
bocca dei due contrabbandieri
uscirono contemporaneamente
queste quattro parole: «Il ponte di
Giacon».
Il ponte di Giacon era un grande
arco di pietra sopra un torrente che
scendeva dalle montagne e si
buttava in un affluente del Po. Il
sentiero si biforcava in due rami,
uno che saliva verso Venaux e l’altro
che scendeva verso Susa, cui girava
attorno, standole però al di sopra.
Lì giunti, i briganti spagnoli
sarebbero stati incerti su quale
prendere: se avevano la fortuna di
non essere scoperti, loro avrebbero
imboccato il sentiero che quelli
avrebbero scartato. Siccome gli
spagnoli non potevano sapere che i
viaggiatori erano stati avvertiti, non
sarebbe nemmeno venuto loro in
mente che si nascondessero.
Dunque era probabile che
avrebbero preso uno dei due sentieri
senza insospettirsi.
Per arrivare al ponte di Giacon ci
voleva ancora una decina di minuti.
Guillaume prese per le briglie il
mulo di Isabelle, il suo compagno
quello della dama di Coëtman, e
affrettarono il passo.
La Provvidenza soccorse i
viaggiatori: un mare di nuvole nere
non solo nascondeva allo sguardo le
belle costellazioni che avevano dato
spunto a Isabelle per una
conversazione tanto poetica e al
conte per una tanto dotta, ma
avanzava anche rapidamente a
inghiottire la luna. Ancora cinque
minuti e gli oggetti che questa
illuminava sarebbero rientrati
nell’oscurità.
Il contrabbandiere lasciò andare le
briglie del mulo della dama di
Coëtman, rimase indietro una
cinquantina di passi, posò l’orecchio
contro il terreno e ascoltò. La
carovana intanto si era fermata,
perché nessun rumore gli impedisse
di sentire.
Dopo qualche secondo lui si
rialzò e corse da loro.
«Li si sente, ma sono ancora a
seicento passi da noi; fra un attimo
per fortuna la luna sarà nascosta.
Non perdiamo tempo, però.»
Si rimisero in marcia. Le nuvole
nere si allargarono a invadere il
cielo; la luna sparì: e proprio allora i
viaggiatori, in un residuo di
crepuscolo, videro rizzarsi davanti a
loro l’arcata del ponte, e sentirono il
rumore del torrente che scendeva
dalla montagna.
Guillaume, che guidava il primo
mulo, lo fece allontanare dal
sentiero, piegando verso sinistra.
Una traccia appena visibile, tagliata
nella roccia, conduceva al torrente,
incassato di una sessantina di piedi.
Quel sentiero, se così si può
chiamare quella specie di
increspatura del terreno, era stato
probabilmente formato dai muli che
nelle calde giornate estive
scendevano fino all’acqua per
rinfrescarsi.
Per quanto ripida e impervia
fosse, la discesa si percorse senza
incidenti.
Il contrabbandiere era rimasto in
alto, sdraiato a terra ad ascoltare.
«Si stanno avvicinando» disse.
«Io mi allontano per distrarli, non
occupatevi di me, badate solo a
impedire ai muli di nitrire; porto la
mula con me.»
Guillaume fece entrare i quattro
viaggiatori sotto l’arco del ponte e
legò la bocca dei muli con dei
fazzoletti, mentre il suo compagno si
allontanava per il ramo del sentiero
che portava a Venaux.
Ben presto si udì distintamente il
passo dei banditi spagnoli. Nascosti
com’erano e protetti dalla doppia
oscurità delle nuvole e del ponte, i
viaggiatori erano completamente
invisibili e, a meno che un rumore o
un imprevisto non li tradisse,
sarebbe stato impossibile scoprirli.
Gli spagnoli si fermarono proprio
sul ponte e intavolarono una
discussione per decidere quale
sentiero imboccare, se quello che
scendeva verso Susa o quello che
saliva verso Venaux.
La discussione era vivace e quelli
fra i viaggiatori che comprendevano
lo spagnolo potevano sentire le
ragioni che ognuno adduceva a
sostegno della propria opinione.
D’improvviso, si sentì una voce
maschile, proveniente da Giacon,
che cantava; Guillaume strinse la
mano del conte di Moret, mettendosi
un dito sulle labbra: aveva
riconosciuto la voce del suo
compagno.
L’effetto di quella voce fu di
interrompere immediatamente la
conversazione dei briganti.
«Bene!» riprese uno di loro dopo
un attimo di silenzio, «avremo delle
informazioni.»
In quattro si staccarono dal
gruppo e andarono incontro a colui
che cantava.
«Ehi, uomo» gli si rivolsero
parlando italiano, benché avessero
usato il termine spagnolo hombre,
«hai incontrato dei viaggiatori sulla
tua strada?»
«Parlate di due uomini e due
donne guidati da Guillaume Coutet,
il mercante di Gravière?» chiese
l’interrogato, rispondendo alla
domanda con un’altra domanda.
«Proprio loro.»
«Be’, saranno sì e no a
cinquecento passi da qui: se dovete
parlare con loro, allungate il passo e
li troverete a metà della strada per
Giacon.»
Quell’informazione tagliò corto
alle incertezze e mise tutti
d’accordo.
I banditi presero il sentiero che
portava a Venaux.
I viaggiatori, dal fondo della loro
oscurità, li videro passare come
ombre, a un passo che, se fossero
stati davvero dove aveva detto il
contrabbandiere, avrebbe permesso
loro di raggiungerli rapidamente.
Quanto al contrabbandiere,
continuò il suo cammino verso Susa,
indicando ai viaggiatori quello che
dovevano percorrere anche loro.
Dopo cinque minuti di attesa
silenziosa, infatti, non sentendo più
risuonare sulla strada i passi dei
banditi, i viaggiatori scesero, guidati
da Guillaume, il letto stesso del
torrente. Cinquecento passi più in là,
si riunivano al contrabbandiere che,
esitando a tornare alla locanda dopo
la falsa informazione che aveva
dato, chiese ai viaggiatori il
permesso di rimanere con loro,
permesso che gli fu prontamente
accordato e cui il conte di Moret
aggiunse la promessa di una lauta
ricompensa per averli così
opportunamente avvertiti, quando
fossero arrivati alla frontiera
piemontese.
Proseguirono affrettando il passo
dei muli, come consentiva il sentiero
diventato un po’ più facile, e si
avvicinarono a Susa senza
accorgersene.
A mano a mano che si
avvicinavano, le due guide
raccomandavano maggior
circospezione; ma il sentiero su cui
procedeva la piccola carovana era
talmente poco conosciuto e poco
frequentato che ci si era dimenticati
di mettervi delle sentinelle, benché
per quella strada, cui la città è in un
certo senso addossata, si potesse
arrivare ai bastioni.
Persino questi erano deserti, visto
che gli ingressi alla città erano
protetti dalle fortificazioni fatte un
quarto di lega più oltre, cioè al passo
di Susa.
Del resto, dopo aver costeggiato
per un po’ i bastioni, il sentiero se ne
discostava bruscamente, rituffandosi
fra le montagne e sbucando a
Malavet, dove si fermarono a
dormire.
L’indomani tennero consiglio.
Potevano scendere in pianura e,
attraverso Rivarolo e Joui, 1

raggiungere il lago Maggiore; ma lì


si correva il rischio, peggiore, di
cadere nelle mani degli spagnoli. È
vero che il conte di Moret, incaricato
alla sua partenza per la Francia di
consegnare una lettera di don
Gonzalo di Cordoba, governatore di
Milano, alla regina Anna, poteva
recarsi direttamente da lui e dire che
ritornava a nome delle due regine,
incaricato di qualche missione per
Roma o per Venezia; ma avrebbe
dovuto giocare d’astuzia e la
dissimulazione pesava al cuore leale
di quel vero figlio di Enrico IV.
Inoltre, il che era ancora più
probabile, quel mezzo, che avrebbe
semplificato le cose, avrebbe anche
abbreviato il viaggio, e invece
Antoine de Bourbon voleva che quel
viaggio durasse indefinitamente.
Dunque il suo parere, del resto
onnipotente, prevalse.
Quel parere era che si facesse una
gran deviazione per Aosta,
Domodossola, Sonovre 2 e,
aggirando il bacino lombardo, si
arrivasse a Verona, dove sarebbero
stati al sicuro. A Verona si sarebbero
separati per un paio di giorni, per
una sosta di cui avrebbero avuto
gran bisogno soprattutto le signore
dopo tutto quel cammino
impossibile da percorrere altrimenti
che a dorso di mulo o a cavallo;
sarebbero poi ripartiti per Mantova,
meta del viaggio.
A Ivrea, il contrabbandiere che
era andato ad avvertire la piccola
carovana del pericolo che correva
lasciò i viaggiatori, perfettamente
ricompensato della sua devozione,
ricompensa che rafforzò in
Guillaume Coutet la convinzione di
avere l’onore di servire da guida a
un grande signore in incognito.
Rendiamogli comunque giustizia
dicendo che fu per riconoscenza, e
non per via di quella certezza, che
insisté per accompagnare i
viaggiatori fino alla conclusione del
loro viaggio. Cosa che non faticò a
ottenere.
Se Guillaume Coutet aveva votato
al conte la riconoscenza che un
uomo deve a chi gli ha salvato la
vita, Antoine de Bourbon provava
nei suoi confronti la profonda
simpatia e il tenero affetto che
prova, da parte sua, il salvatore
verso colui che ha salvato.
Dopo svariati incidenti che, non
essendo della gravità di quelli che
abbiamo raccontato, non presentano
sufficiente interesse da meritare
l’attenzione del lettore, dopo
ventisette giorni di cammino e di
fatiche, arrivarono finalmente a
Mantova, attraverso Tordi, 3

Nogaro 4 e Castellarez. 5
1 Il nome di questa località si trova scritto così
sulle «Nouvelles»: si tratta evidentemente di un
errore, ma non si è potuto identificare il nome
corretto. [NdC]
2 Si veda la nota precedente. In questo caso
potrebbe trattarsi di Sondrio. [NdC]
3 Si veda la nota precedente. [NdC]
4 Si veda la nota precedente. In questo caso
potrebbe trattarsi di Novara. [NdC]
5 Si veda la nota precedente. [NdC]
VIII
Il giuramento
Né una lettera né un corriere né un
qualsivoglia messaggio aveva
annunciato al barone di Lautrec
l’arrivo di sua figlia. Così che, pur
essendo egli ritenuto un padre non
particolarmente tenero, i primi
istanti del ritorno furono dedicati per
intero alle effusioni dell’affetto
paterno e di quello filiale.
Solo dopo un po’ Lautrec riuscì a
occuparsi dei compagni di viaggio di
sua figlia e a leggere la lettera che
gli inviava il cardinale di Richelieu.
Questa lettera lo informava del
nome illustre del giovane cui sua
figlia era stata affidata e
dell’interesse con cui il cardinale si
occupava di Isabelle, ragioni, queste,
che lo spinsero ad avvertire
immediatamente il nuovo duca di
Mantova, Carlo Gonzaga, dell’arrivo
della figlia e dell’illustre ospite
giunto insieme a lei nella sua casa.
Fu dunque spedito un servitore al
castello del Tè, dove risiedeva il
duca, per dargli questa notizia, che
rivestiva per lui notevole importanza
dato che il conte di Moret, cioè il
fratello naturale di Luigi XIII,
avrebbe potuto informarlo
dettagliatamente sulle intenzioni del
cardinale e del re.
Alla richiesta di udienza che gli
era stata fatta, il duca di Mantova
rispose quindi saltando a cavallo e
recandosi personalmente da colui
che a ragione riteneva uno dei suoi
sudditi più fedeli.
Vi trovò il conte di Moret che
trattò da figlio di Enrico IV,
rifiutando di coprirsi il capo e di
sedersi in sua presenza.
Del resto il duca aveva avuto
direttamente dall’ambasciatore
notizie da Parigi il 4 gennaio 1629,
cioè qualche giorno dopo la partenza
del conte di Moret e di Isabelle.
Forte della promessa che gli aveva
fatto il re di appoggiarlo, il cardinale
lo aveva letteralmente rapito, senza
permettere a nessuno di
accompagnarlo; non un cortigiano
che lo tormentasse, non un
consigliere che lo facesse deviare
dalla strada che il cardinale gli
aveva fatto imboccare.
Si sapeva che giovedì 15 gennaio
il re aveva pranzato a Moulins e
dormito a Varenne. Poi più nulla, ed
era il 5 febbraio.
Si sapeva però che la peste, che si
era manifestata in Italia, aveva
oltrepassato le montagne e dilagava
fino a Lione. Avrebbe avuto il re il
coraggio, malgrado il mortale
flagello, malgrado il freddo terribile,
di proseguire il suo cammino, di
sfidare la peste a Lione e il freddo
delle montagne?
Per chi conosceva il vero e
volubile carattere del re, c’era da
temere. Ma per chi conosceva il
carattere inflessibile del cardinale,
c’era da sperare.
Il conte di Moret poté solamente
ripetere al duca di Mantova quanto
gli aveva detto il cardinale: per
cominciare, avrebbero fatto togliere
l’assedio a Casale e si sarebbero
immediatamente preoccupati di far
arrivare dei soccorsi a Mantova.
Non c’era tempo da perdere.
Charles, duca di Nevers, aveva
saputo da fonte certa che Monsieur,
nel primo impeto di collera, si era
messo in contatto con Wallenstein.
Senza vergogna né rimorsi, attirava
verso l’Italia quelle novelle orde di
Attila, pur non sapendo se ci sarebbe
stato a Châlons un Ezio per
annientarle. 1 Due capitani barbari,
Aldringen 2 e Gallas, 3 esperti
nell’arte terribile della distruzione e
del saccheggio, da due o tre mesi
proseguivano lentamente la loro
avanzata e avevano occupato
Worms, Francoforte, la Svevia. Il
povero duca di Mantova li vedeva
già affacciarsi in cima alle Alpi, più
terribili di quelle bande selvagge di
Cimbri e di Teutoni che si
lasciavano scivolare sulle nevi e
attraversavano i fiumi sui loro scudi.
Tutto contribuiva a impedire al
conte di Moret una lunga
permanenza a Mantova. Aveva
promesso al cardinale di tornare per
partecipare alla campagna, e per di
più il duca lo spingeva a ripartire per
esporre al re la sua situazione: e si
trattava di una situazione così grave
che il barone di Lautrec quasi si
rammaricava gli avessero rimandato
a casa sua figlia.
Fin dal giorno dopo il suo arrivo,
Isabelle, chiamata da suo padre,
aveva avuto con lui una spiegazione,
durante la quale il padre le aveva
detto quali impegni aveva preso nei
confronti del visconte di Pontis. Ma
Isabelle aveva opposto con
chiarezza gli impegni che aveva
preso lei nei confronti del conte di
Moret. Per quanto nobile di nascita
fosse monsieur de Pontis, su quel
punto Antoine de Bourbon aveva la
meglio non soltanto su di lui, ma su
qualunque gentiluomo non fosse
diretto discendente di re. Il barone si
limitò dunque a chiamare il conte di
Moret nel suo studio e a interrogarlo
sulle sue intenzioni, che lui espresse
con l’abituale franchezza,
assicurandolo che, se ce ne fosse
stato bisogno, per aiutarlo a ritirare
onorevolmente la sua parola sarebbe
intervenuto di persona il cardinale.
Il barone di Lautrec tenne però a
dichiarare al conte che, se fosse stato
ucciso o avesse preso altri impegni,
lui avrebbe ripreso la sua autorità
paterna sulla figlia – autorità cui
abdicava solo di fronte alla
protezione accordata dal cardinale al
giovane conte –, e che allora non
avrebbe ammesso da parte di
Isabelle nessuna resistenza.
La sera stessa di quel doppio
chiarimento, passeggiando in riva al
fiume di Virgilio, i due giovani si
raccontarono la conversazione che
ognuno aveva avuto con il barone;
era meglio di quanto sperasse
Isabelle e, poiché il suo innamorato
le promise solennemente che non si
sarebbe fatto uccidere e che non
avrebbe mai avuto altra sposa se
non lei, la cosa le sembrò
sufficiente.
Ricorriamo al termine un po’
pretenzioso di sposa, e per di più lo
sottolineiamo, perché ci pare che
nella promessa di Antoine de
Bourbon, per quanto figlio di Enrico
IV, ci fosse una di quelle piccole
restrizioni mentali di cui i gesuiti
facevano un tanto abile uso.
Nell’impegno di non farsi uccidere
non c’era di certo nessun secondo
fine, ma non oseremmo dire la stessa
cosa per quello di non avere mai
altra sposa se non Isabelle de
Lautrec. Pesando ogni parola di
quell’impegno, si vedrà che non si
estendeva alle amanti; e nei
momenti in cui il diavolo lo tentava
– e gli innamorati più fedeli
attraversano tali momenti, anche
quelli che non sono figli dell’eretico
Enrico IV –, in quei momenti
dobbiamo dire che il giovane basco
Jacquelino vedeva passare in una
nube di fuoco la sua bella cugina
Marina, che, tranquilla in mezzo alle
fiamme come una salamandra, gli
lanciava sguardi il cui doppio raggio
andava da una parte verso il suo
cuore ardente e dall’altra verso la
sua mente, ottundendola.
D’altronde, una sera,
nell’anticamera di Maria Gonzaga,
nell’attimo in cui lei saliva sulla
portantina, non aveva preso con
quella terribile incendiaria di cuori
uno di quegli appuntamenti come se
ne prendono con Satana, e da cui
Satana vi libera soltanto dopo che
avete tenuto fede alla parola data,
andandolo a trovare nel profondo
dell’inferno?
Non oseremmo dire che nel
momento in cui Antoine de Bourbon
fece a Isabelle de Lautrec il suo
casto giuramento, privo di qualsiasi
analogia con l’impegno preso con
madame de Fargis, il ricordo di
quella Venere Astartea gli abbia
sussurrato all’orecchio qualcuna di
quelle parole profane con cui
infiammava il cuore dei suoi
innamorati; quello che sappiamo,
però, è che il conte di Moret volle un
altro testimone dell’impegno che
prendeva, oltre a quel fiume pagano
chiamato Mincio; altre lampade,
oltre a tutte quelle costellazioni
mitologiche chiamate Venere,
Giove, Saturno, Cassiopea, e chiese
a Isabelle di rinnovare
quell’impegno in un tempio
cristiano, in presenza di Dio: un
anello, con la data del giorno e della
promessa che quel giorno aveva
visto fare, avrebbe rafforzato ancora
la solennità del giuramento.
Isabelle promise tutto ciò che
volle il suo innamorato, come la sua
compatriota Giulietta, di cui poteva
toccare la tomba solo allungando la
mano. E gli avrebbe di certo
accordato tutto quello che le avesse
chiesto, ripetendogli le parole del
poeta inglese:
Ne crains pas d’épuiser mon amour, s’il
t’est cher!
Mon amour est profond et grand comme
la mer! 4

L’indomani alla stessa ora, cioè


verso le nove di sera, due ombre,
una qualche passo dietro l’altra,
s’infilavano nella chiesa di
Sant’Andrea da una porta laterale e,
alla luce delle lampade
perennemente accese davanti agli ex
voto, in ricordo dei miracoli
compiuti dai diversi santi cui gli
altari sono consacrati, si dirigevano
verso l’altare di Nostra Signora degli
Angeli, nome incantevole, succeduto
a quello, più incantevole ancora, di
Nostra Signora dell’Amore, prima
invocazione con la quale era stata
espressa la devozione, ma che la
suscettibilità di un vescovo le aveva
tolto da circa mezzo secolo.
La ragazza arrivò per prima e
s’inginocchiò.
Il giovane la seguiva e
s’inginocchiò alla sua destra.
Raggianti di gioventù e di
bellezza, erano meravigliosi a
vedersi: lei, la testa china, gli occhi
umidi di dolci lacrime; lui, la fronte
alta, gli occhi splendenti di felicità.
Ognuno espresse dentro di sé una
preghiera – quando diciamo ognuno,
rispondiamo di Isabelle de Lautrec.
Di certo le parole fuggite dal cuore
si formarono sulle sue labbra in uno
slancio sacro verso la madre del
Signore. Ma l’uomo sa pregare
solamente nel dolore; per la felicità,
conosce solamente i balbettii del
desiderio e i sospiri della passione.
Poi, placato quel primo bollore
del cuore, le loro mani si cercarono
e fremettero incontrandosi. Isabelle
emise un sospiro di gioia, simile al
lamento di un sospiro di dolore; e,
senza preoccuparsi del luogo in cui
si trovava:
«Oh, amico mio» disse, «quanto,
quanto ti amo.»
Il conte guardava la Madonna.
«Oh» esclamò, «la Madonna ha
sorriso; e anch’io, anch’io ti amo,
mia Isabelle adorata.»
Il conte si teneva la mano di
Isabelle appoggiata contro il petto.
La liberò dolcemente dalla stretta in
cui la sua l’avvolgeva, la mise a
nudo, poi, togliendolo dal mignolo,
infilò un anello al secondo dito di
quella mano, dicendo:
«Santa madre di Dio, santa
protettrice di tutti gli amori degli
uomini, voi che sorridete alle
fiamme pure e che avete sorriso alla
nostra, siatemi testimone che giuro
di non avere mai altra sposa se non
Isabelle de Lautrec; se vengo meno
al mio giuramento, punitemi.»
«Oh, no, no, Vergine santa»
esclamò Isabelle, «non punitelo!»
«Isabelle!» disse il conte cercando
di stringerla fra le braccia.
Ma lei, trattenuta dalla santità del
luogo, si scostò con dolcezza.
«Madonna venerata e
onnipotente» disse, «ascoltate ora il
mio giuramento: qui, al vostro
altare, ai vostri piedi che abbraccio,
giuro che a partire da oggi
appartengo anima e corpo a colui
che ha infilato al mio dito questo
anello e che, dovesse egli morire o,
peggio ancora, venire meno al suo
giuramento, io non sarò sposa di
nessuno, se non del vostro divino
figliolo.»
Un bacio spense quest’ultima
parola sulle labbra d’Isabelle, e la
Madonna, ricordandosi di essersi
chiamata Nostra Signora degli
Amori prima che Nostra Signora
degli Angeli, sorrise del bacio del
conte come aveva sorriso
dell’esclamazione di Isabelle.

1 Flavio Ezio (395-454), senatore e comandante


supremo delle legioni romane, sconfisse nel V
secolo i barbari. [NdC]
2 Johann von Aldringen (1588-1634), uno dei
capitani dell’armata imperiale durante la guerra
dei Trent’anni. [NdC]
3 Matthias Gallas (1584-1647), intimo amico di
Aldringen, generale dell’armata imperiale
durante la guerra dei Trent’anni. [NdC]
4 Citazione molto libera dei vv. 128-35 di
Romeo and Juliet, II, II: «Non temere di esaurire
il mio amore, se ti è caro! / Il mio amore è
profondo e grande come il mare!». [NdT]
IX
Il diario di monsieur de
Bassompierre
Come il duca di Mantova aveva
saputo dall’ambasciatore, il
cardinale e il re avevano lasciato
Parigi il 4 gennaio e giovedì 15
avevano pranzato a Moulins e
cenato a Varenne, da non confondere
con l’altra Varennes del
dipartimento della Meuse, resa
celebre dall’arresto di un re. 1
Per tutto quell’inizio di
campagna, l’unica guida fedele è il
diario di monsieur de Bassompierre,
ed è dunque questo che seguiremo
per la parte storica del nostro
racconto.
Quando, stretto il suo patto con il
cardinale, il re uscì dallo studio di
Sua Eminenza, incontrò in
anticamera monsieur de
Bassompierre, venuto a rendere
omaggio al cardinale tornato in
auge.
Scorgendolo, il re si fermò e,
rivolgendosi a Richelieu che lo
accompagnava al portone:
«Eccone uno, signor cardinale,
che di certo ci accompagnerà e mi
servirà lealmente.»
Il cardinale approvò sorridendo.
«È quanto fa abitualmente il
signor maresciallo» disse.
«Che Vostra Maestà perdoni se
manco alle leggi dell’etichetta e le
pongo una domanda, ma dove dovrò
accompagnarla?»
«In Italia» rispose il re, «dove mi
reco personalmente per far levare
l’assedio a Casale. Preparatevi
quindi a partire, signor maresciallo;
prenderò oltre a voi Créqui, che
conosce quelle zone, e spero che
faremo parlare di noi.»
«Sono il vostro servo, Sire»
rispose Bassompierre, «e vi
accompagnerò in capo al mondo, e
anche sulla luna, se vi piacesse di
salirvi.»
«Non andremo né così lontano né
così in alto, signor maresciallo. In
ogni caso, l’appuntamento è a
Grenoble. Se vi occorre qualcosa per
la vostra partecipazione alla
campagna, rivolgetevi al signor
cardinale.»
«Sire» replicò Bassompierre,
«con l’aiuto di Dio, non mi
mancherà niente, soprattutto se
Vostra Maestà dà ordine a quel
vecchio furfante di La Vieuville di
pagarmi quanto mi è dovuto come
colonnello generale delle guardie
svizzere.»
Il re si mise a ridere.
«Se La Vieuville non vi paga, sarà
il cardinale a pagarvi.»
«Sul serio?» domandò
Bassompierre dubbioso.
«Tanto sul serio, signor
maresciallo, che se volete darmene
ricevuta qui, seduta stante, siccome
non c’è tempo da perdere visto che
partiamo fra due o tre giorni,
uscirete di qui con i vostri soldi.»
«Signor cardinale» disse
Bassompierre con quell’aria da gran
signore che era una sua caratteristica
esclusiva, «non porto mai denaro
con me, tranne quando vado a
giocare con il re. Se volete, avrò
l’onore di rilasciarvi una quietanza e
manderò un lacchè a ritirare i soldi.»
Uscito il re, Bassompierre rilasciò
la sua ricevuta al cardinale e il
giorno dopo mandò a ritirare il
denaro.
La stessa sera in cui aveva detto a
Luigi XIII che un re non mancava
mai alla parola data, il cardinale
mandò le centocinquantamila lire al
duca d’Orléans, le sessantamila alla
regina madre e le cinquantamila alla
regina Anna.
L’Angely da parte sua ricevette le
trentamila lire che il re gli aveva
offerto e Saint-Simon il suo brevetto
di scudiero con quindicimila lire di
stipendio annuo.
Quanto a Baradas, sappiamo che
non aveva perso tempo e che si era
fatto pagare le sue trentamila lire il
giorno stesso in cui il re gliele aveva
date con un buono al portatore.
Regolati questi conti, anche il
cardinale aveva distribuito le sue
gratifiche. Charpentier, Rossignol e
Cavois avevano goduto della sua
generosità; ma, per quanto generosa,
la gratifica di Cavois non era bastata
a consolare sua moglie che nelle
dimissioni del cardinale aveva
intravisto un seguito di notti
tranquille e senza fastidi, notti che
erano la sola meta di tutte le sue
preghiere, assecondate, come
abbiamo visto, da quelle dei suoi
figli. Purtroppo l’uomo, creando un
Dio individuale, e incaricando quel
Dio di dare a ogni uomo quello che
gli chiede, lo ha talmente oberato di
compiti che in certi momenti egli
deve lasciar passare senza esaudirle
le preghiere più sante e più
ragionevoli.
La povera madame Cavois era
capitata in uno di quei momenti e
Cavois, per seguire Sua Eminenza,
l’avrebbe di nuovo lasciata sola. Per
fortuna, la lasciava incinta.
Il re aveva lasciato a suo fratello il
titolo di luogotenente generale ma,
dal momento che il cardinale
sarebbe andato insieme al re, era
chiaro che sarebbe stato lui a
prendere il comando della campagna
e che la luogotenenza era una
sinecura. Pur avendo dunque
mandato il proprio equipaggiamento
a Montargis e avendolo poi fatto
proseguire al proprio seguito fin
dopo Moulins, giunto a Chavagnes
cambiò idea e annunciò a
Bassompierre che, non volendo
apparire insensibile all’ingiuria
fattagli, si ritirava nel suo principato
di Dombes, dove avrebbe atteso gli
ordini del re. Tutti gli sforzi di
Bassompierre per fargli cambiare
idea risultarono inutili.
Nessuno si lasciò ingannare da
questa decisione di Monsieur e tutti
attribuirono alla sua vigliaccheria le
sedicenti suscettibilità del suo
orgoglio.
Il re aveva attraversato
rapidamente Lione, dove infieriva la
peste, e si era fermato a Grenoble.
Lunedì 19 febbraio mandò a
Vienne il marchese di Thoyras per
riunire l’esercito e occuparsi del
passaggio dell’artiglieria attraverso
le montagne.
Da parte sua, il duca di
Montmorency aveva fatto
annunciare al re che sarebbe arrivato
passando da Nîmes, Sisteron e Gap e
che avrebbe raggiunto il re a
Briançon.
A questo punto cominciavano i
problemi seri.
Le due regine, adducendo i timori
per la salute del re, ma in realtà per
minare l’influenza del cardinale,
erano partite per raggiungere il re a
Grenoble. Il re aveva fatto dire che
si fermassero a Lione e loro non
avevano osato disobbedire; da
Lione, facevano tutto il male di cui
erano capaci, neutralizzando Créqui,
che doveva collaborare
all’attraversamento delle montagne,
paralizzando Guise, che doveva
guidare la flotta. Nulla poté
scoraggiare il cardinale: finché
aveva dalla sua il re, il re era la sua
forza. Sperava che la presenza del
re, il pericolo personale cui si
esponeva attraversando le Alpi
d’inverno avrebbero strappato alle
province vicine gli aiuti necessari, e
così sarebbe stato senza le manovre
delle due regine.
Arrivato a Briançon, gli ordini
delle due regine erano stati così ben
eseguiti che di tutto ciò che avrebbe
dovuto essere radunato non c’era
nulla: niente viveri, niente muli,
dodici cannoni e praticamente niente
munizioni.
A tutto questo aggiungete due
milioni di lire in tutto nelle casse,
tanto ognuno aveva approfittato di
quei disgraziati milioni che il
cardinale si era fatto prestare.
E davanti, il principe più perfido e
astuto del tempo.
Tutti questi ostacoli non
fermarono un istante il cardinale.
Riunì i suoi più abili ingegneri e
studiò con loro come far passare
tutto a braccia. Carlo VIII per primo
aveva trasportato dei cannoni
attraverso le Alpi, ma durante la
buona stagione; bisognava operare
su passaggi quasi inaccessibili
d’estate e a maggior ragione
d’inverno. L’artiglieria fu fatta salire
con cavi e mulinelli attaccati con
delle corde agli affusti; degli uomini
giravano i mulinelli mentre altri
tiravano i cavi a forza di braccia. Le
palle da cannone furono portate
dentro delle gerle; le munizioni, la
polvere, i proiettili, chiusi in botti,
furono caricati su pochi muli
ottenuti a peso d’oro.
In sei giorni, tutto questo
armamentario superò il Monginevro
e scese a Oulx. Il cardinale si spinse
fino a Chaumont dove aveva fretta
di assumere informazioni e di
verificare se quelle inviate dal conte
di Moret fossero attendibili.
Lì, verificate le cartucce, venne a
sapere che ogni soldato non aveva
più di sette colpi da tirare.
«Non importa!» replicò, «purché
Susa venga presa al quinto!»
Intanto la voce di tutti quei
preparativi giunse all’orecchio di
Carlo Emanuele; ma il re e il
cardinale erano già a Briançon
quando il duca di Savoia li credeva
ancora a Lione. Mandò allora suo
figlio Vittorio Amedeo ad aspettare
re Luigi XIII a Grenoble, ma a
Grenoble gli fu detto che il re era già
andato via e che in quel momento
doveva già aver oltrepassato le
montagne.
Vittorio Amedeo si mise alla
ricerca del re e del cardinale. Arrivò
a Oulx dietro Luigi XIII, proprio
mentre gli ultimi pezzi d’artiglieria
scendevano dalla montagna, e chiese
udienza.
Il re lo ricevette, ma, non volendo
sapere nulla di quello che doveva
dirgli, lo mandò dal cardinale.
Vittorio Amedeo partì
immediatamente per Chaumont.
Lì, il principe del Piemonte,
allevato alla scuola dell’astuzia,
cercò di ricorrere con il cardinale ai
mezzi prediletti da lui e da suo
padre; ma questa volta l’astuzia si
trovava davanti al genio, il serpente
davanti al leone.
Fin dalle prime parole del
principe, il cardinale comprese che il
duca di Savoia mandandogli suo
figlio aveva un unico scopo, quello
di guadagnare tempo. Là dove forse
il re si sarebbe lasciato trarre in
inganno, il cardinale vide
chiaramente l’intento del
negoziatore.
Vittorio Amedeo intendeva
chiedere che fosse accordato a suo
padre il tempo di ritirare la parola
data al governatore di Milano di non
lasciar passare le truppe francesi
attraverso i suoi Stati.
Prima ancora che formulasse la
richiesta, il cardinale lo fermò.
«Mi perdoni, principe» gli disse.
«Sua Altezza il duca di Savoia
chiede tempo, lasciatemelo dire, per
ritirare una parola che non aveva il
diritto di dare.»
«Come?» domandò il principe.
«Nei suoi recenti trattati con la
Francia, egli si è impegnato con il
mio re a lasciargli libero un
passaggio attraverso i suoi Stati nel
caso avesse bisogno di andare a
sostenere i suoi alleati.»
«Ma» replicò esitante Vittorio
Amedeo «io non ho mai visto – e
chiedo io perdono a Vostra
Eminenza –, non ho visto da nessuna
parte una clausola di questo genere
nei trattati tra Francia e Piemonte.»
«E sapete bene perché non l’avete
vista, principe. Per deferenza verso
il duca vostro padre, ci si è
accontentati della sua parola d’onore
invece di esigere la sua firma.
Secondo lui, il re di Spagna si
sarebbe lamentato che accordasse un
tale privilegio alla Francia e non gli
avrebbe dato tregua finché non ne
avesse ottenuto uno analogo.»
«Ma» azzardò Vittorio Amedeo
«il duca mio padre non rifiuta il
passaggio al re vostro signore.»
«Allora» disse sorridendo il
cardinale, ricordando nei minimi
particolari la lettera che gli aveva
spedito il conte di Moret, «è per fare
onore al re di Francia che Sua
Altezza il duca di Savoia ha chiuso
il passo di Susa con una mezzaluna e
una trincea dove possono stare
trecento uomini, sostenuta da
barricate dietro le quali altri trecento
possono trovare rifugio, e ha
costruito sui fianchi di due
montagne, oltre al forte di
Montabon, due ridotte con delle
postazioni di difesa i cui fuochi
s’incrociano. È per rendere più
agevole la strada a lui e alle truppe
francesi che, non ritenendo
sufficienti le difficoltà presentate dal
terreno stesso della valle, vi ha fatto
rotolare dalle cime delle montagne
massi di roccia tali che nessuna
macchina potrebbe rimuoverli, ed è
per piantare alberi e fiori sul nostro
cammino che da sei settimane ha
messo zappe e vanghe in mano a
trecento operai dei quali voi e il
vostro augusto padre non disdegnate
di sorvegliare e affrettare i lavori.
No, principe, non giochiamo
d’astuzia, parliamo con franchezza,
come i sovrani hanno il dovere di
parlare. Voi chiedete tempo per dare
a don Gonzalo di Cordoba quello di
prendere Casale, la cui guarnigione
muore eroicamente di fame. Ebbene,
noi, il cui interesse e dovere
impongono di soccorrere quella
guarnigione, noi vi diciamo:
“Monsignore, il duca vostro padre ci
deve questo passaggio, il duca
vostro padre ce lo darà”. Da Oulx a
qui i nostri approvvigionamenti ci
metteranno due giorni ad arrivare.»
Il cardinale guardò l’orologio.
«Sono le undici del mattino»
disse. «Alle undici del mattino,
dopodomani, entreremo in Piemonte
e marceremo su Susa. Dopodomani
è martedì; mercoledì all’alba
attaccheremo. Tenetevelo per detto,
monsignore, e, poiché non avete
tempo da perdere per decidere se
darci il permesso di passare o
prendere le disposizioni necessarie a
impedircelo, non vi trattengo. Pace
leale, signore, o guerra aperta.»
«Temo sia guerra aperta, signor
cardinale» disse Vittorio Amedeo
alzandosi.
«Dal punto di vista cristiano e
come ministro del Signore, io odio
la guerra; ma dal punto di vista
politico e come ministro di Francia,
credo che a volte la guerra sia una
cosa non buona ma necessaria. La
Francia è nel suo buon diritto, e lo
farà rispettare. Quando due Stati
arrivano alle mani, guai a quello che
si farà campione della menzogna e
della perfidia. Dio ci vede, Dio ci
giudicherà.»
E questa volta il cardinale salutò
il principe, lasciandogli intendere
che continuare la conversazione
sarebbe stato inutile, e che la sua
decisione di marciare su Casale era
irrevocabilmente presa, per quanti
ostacoli loro avessero moltiplicato
lungo il suo cammino.

1 A Varennes, il 21 giugno 1791, durante un


tentativo di fuga per unirsi agli aristocratici
emigrati, Luigi XVI, insieme a Maria Antonietta,
era stato fermato e condotto in prigione alla
Conciergerie di Parigi. [NdT]
X
Dove il lettore ritrova un vecchio
amico
Appena uscito Vittorio Amedeo, il
cardinale si avvicinò a un tavolo e
scrisse questa lettera:
Sire,
se, come Dio mi fa sperare, Vostra
Maestà ha visto concludersi felicemente il
passaggio del nostro armamentario
attraverso i monti, la supplico molto
umilmente di ordinare che artiglieria,
casse e ogni macchina da guerra vengano
avviate immediatamente verso Chaumont
dove, dietro mia preghiera, il re avrà la
bontà di recarsi anch’egli senza indugio,
dato che il giorno fissato per l’inizio delle
ostilità è, salvo contrordini di Sua Maestà,
la mattina di mercoledì 6 marzo. A seguito
del mio colloquio con il principe Vittorio
Amedeo, ho dovuto impegnare la parola
di Sua Maestà e credo che non la si debba
ritirare, a meno che non intervengano a
imporlo gravi motivazioni.
Aspetto quindi con impazienza una
risposta da Vostra Maestà, o, meglio
ancora, Vostra Maestà in persona.
Le mando un uomo sicuro su cui Sua
Maestà può fare affidamento per
qualunque cosa, compresa quella di averlo
come compagno di viaggio nel caso in cui
Sua Maestà volesse viaggiare di notte e in
incognito.
Ho l’onore di essere di Vostra Maestà
l’umilissimo suddito e devotissimo
servitore.
Armand, cardinale di Richelieu

Scritta e sigillata questa lettera, il


cardinale chiamò:
«Étienne!»
Subito, la porta della camera si
aprì e sulla soglia comparve la
nostra vecchia conoscenza della
locanda della Barbe Peinte, Étienne
Latil, non come lo abbiamo visto
entrare nello studio del cardinale a
Chaillot, con le gambe tremanti,
costretto ad appoggiarsi alla parete
per non cadere, pallido, capace a
stento di articolare la sua offerta di
devozione, bensì a testa alta, dritto
sulle gambe, il cappello nella mano
destra e la sinistra sull’elsa della
spada, insomma un vero capitano di
Callot. 1
Quattro mesi infatti erano
trascorsi da quando, colpito dal
marchese di Pisany e da
Souscarrières insieme, era caduto
privo di conoscenza sul pavimento
dell’oste Soleil.
Ora, se non è ucciso sul colpo,
non ci vuole molto a un uomo solido
come Étienne Latil per rimettersi in
piedi, più forte e combattivo che
mai.
L’avvicinarsi delle ostilità gli
aveva anche stampato sul viso
un’espressione allegra che al
cardinale non sfuggì.
«Étienne» gli disse, «bisogna
montare immediatamente a cavallo,
a meno che tu, per tua comodità
personale, non preferisca fare la
strada a piedi, insomma arrangiati
come vuoi, ma occorre che questa
lettera della massima importanza sia
consegnata al re prima delle dieci di
questa sera.»
«Vostra Eminenza vuole dirmi
che ora è?»
Il cardinale guardò l’orologio.
«È quasi mezzogiorno.»
«E il re si trova a Oulx?»
«Sì.»
«Alle otto il re avrà la sua lettera,
a meno che io non sia rotolato nella
Dora.»
«Cerca di non rotolare nella Dora,
cosa che mi addolorerebbe, e di
consegnare al re la sua lettera, cosa
che invece mi farà piacere.»
«Spero di accontentare Vostra
Eminenza su entrambi i punti.»
Il cardinale sapeva che Latil era
uomo di parola, ritenne inopportuno
insistere e si limitò a fargli segno
che era libero.
Latil corse infatti nella scuderia a
cercare un buon cavallo, si fermò dal
maniscalco giusto il tempo di farlo
ferrare con ramponi e, compiuta
l’operazione, saltò in sella e si
slanciò verso Oulx.
Trovò la strada migliore di quanto
non si aspettasse: nell’intento di
farvi transitare i cannoni e tutto il
resto, i pionieri se n’erano occupati e
l’avevano resa più o meno
praticabile.
Alle quattro, Étienne era a Saint-
Laurent, e alle sette e mezza era a
Oulx.
Il re cenava, servito da Saint-
Simon, succeduto nel suo favore a
Baradas. Dall’altra parte del tavolo
c’era l’Angely, tutto vestito di
nuovo. Appena gli annunciarono un
messaggio proveniente dal
cardinale, il re diede ordine di far
entrare chi lo portava.
Pur conservando la forma che
esigeva l’etichetta, scienza alla quale
era stato educato quando era paggio
del duca d’Épernon, Latil non era
uomo da lasciarsi intimidire dalla
Maestà Reale.
Entrò dunque coraggiosamente
nella sala, si diresse verso il re, mise
un ginocchio a terra e gli presentò la
lettera del cardinale, posata sopra il
cappello.
Luigi XIII lo guardò con un certo
stupore: Latil aveva seguito le regole
della vecchia corte.
«Bene!» disse, prendendo il plico.
«Chi mai vi ha insegnato queste
belle maniere, amico mio?»
«Non è così, Sire, che si
presentavano le lettere al vostro
illustre padre, di gloriosa memoria?»
«Certo, sì. Ma questa moda è un
po’ superata.»
«Essendo uguale il rispetto, Sire,
mi pare che l’etichetta avrebbe
dovuto rimanere la stessa.»
«Mi sembrate piuttosto ferrato in
etichetta, per essere un soldato!»
«Sono prima stato paggio del
signor duca d’Épernon, e a quel
tempo ho avuto l’onore di presentare
più di una volta a re Enrico IV delle
lettere nella maniera in cui ne ho
adesso consegnata una a suo figlio.»
«Paggio del duca d’Épernon»
ripeté il re.
«E in quanto tale, Sire, ero sul
predellino della carrozza il 14
maggio 1610, in rue de la
Ferronnerie. Vostra Maestà non ha
sentito raccontare che è stato un
paggio ad arrestare l’assassino, di
cui non aveva voluto mollare il
mantello, malgrado le coltellate che
gli avevano crivellato le mani?»
«Sì. Sareste forse voi quel
paggio?»
Latil, sempre con un ginocchio a
terra davanti al re, si tolse i guanti di
pelle di daino e, mostrando le mani
coperte di cicatrici:
«Guardate le mie mani, Sire»
disse.
Il re, visibilmente turbato, guardò
per un attimo quell’uomo, poi:
«Queste non possono che essere
mani leali. Dammi le tue mani,
uomo coraggioso.»
E afferrando le mani di Latil le
strinse fra le sue.
«Alzati, ora.»
Latil si alzò.
«Sire, Enrico IV era un
grand’uomo.»
«Sì» rispose Luigi XIII, «e che
Dio mi conceda la grazia di
assomigliargli.»
«Se ne presenta l’occasione, Sire»
ribatté Latil, mostrando al re il plico
che gli aveva portato.
«Ci proverò» rispose il re aprendo
la lettera.
«Ah» disse dopo averla letta, «il
signor cardinale ci comunica che ha
impegnato il nostro onore e che ci
aspetta per liberarlo da questo
impegno. Non facciamolo aspettare.
Saint-Simon, avvertite monsieur de
Créqui e monsieur de Bassompierre
che devo parlare con loro
immediatamente.»
Gli alloggi dei due marescialli
erano nella casa accanto a quella del
re. In pochi minuti furono dunque
avvertiti. Schomberg era a Exilles e
Montmorency a Saint-Laurent.
Il re informò i due marescialli
della lettera di Richelieu e ordinò
loro di far partire al più presto per
Chaumont l’artiglieria e le
munizioni, specificando che tutto
doveva trovarsi lì il giorno seguente.
Quanto a loro, il re li avrebbe
aspettati per il Consiglio di guerra
previsto nella serata di martedì,
durante il quale sarebbero state
stabilite le modalità d’attacco del
giorno successivo.
Alle dieci di una notte buia, senza
luna, senza stelle, carica di neve, il
re partì a cavallo, accompagnato
solamente da Saint-Simon e
dall’Angely. Poiché avevano preso
la precauzione di non far ferrare con
ramponi i cavalli, Latil ottenne dal
re che montasse il suo, mentre lui,
che percorreva per la terza volta la
stessa strada, sarebbe andato a piedi,
sondando i luoghi.
Il re non era mai stato così bene,
mai era stato così soddisfatto di sé;
non c’era forza in lui, lo abbiamo
detto, ma il sentimento della
grandezza sì. Cambiando il suo
pennacchio nero con uno bianco,
perché Susa non avrebbe potuto fare
da pendant a Ivry?
Latil marciava davanti al cavallo
del re, tastando la strada con un
bastone ferrato. Di tanto in tanto si
fermava, cercava un passaggio
migliore, prendeva il cavallo per le
briglie e lo guidava attraverso il
passaggio difficile. A ogni
postazione, il re si faceva
riconoscere, dava ordine di avviare
le truppe verso Chaumont e,
vedendosi obbedito, godeva di una
delle prerogative più dolci del
potere.
Poco prima di arrivare a Saint-
Laurent, Latil intuì dall’asprezza
della tramontana l’avvicinarsi di
quella specie di vortice che nei paesi
di montagna viene chiamato
spazzaneve. Invitò il re a smontare
di sella e a mettersi fra Saint-Simon,
l’Angely e Latil stesso; ma il re
volle rimanere in sella, dichiarando
che, dal momento che si era fatto
soldato, da soldato doveva
comportarsi. Quindi si limitò ad
avvolgersi nel mantello e attese.
Il vortice non si fece attendere;
arrivò sibilando.
L’Angely e Saint-Simon si
strinsero al re, Latil afferrò con
entrambe le mani il morso del
cavallo e volse la schiena
all’uragano.
Che passò, terribile e ruggente.
I cavalieri sentirono i cavalli
tremare sotto le gambe: in occasione
dei grandi cataclismi naturali, gli
animali condividono lo spavento
degli uomini. La catenella di seta
che tratteneva il cappello del re si
spezzò e il feltro nero dalle piume
nere sparì nelle tenebre come un
cupo uccello notturno. Poi, in un
attimo, la strada si coprì di neve per
un’altezza di due piedi.
Arrivando a Saint-Laurent, il re
chiese dell’alloggio di
Montmorency. Era l’una del
mattino. Montmorency si era buttato
vestito sul letto.
Appena seppe della presenza del
re, il duca si precipitò giù per le
scale e si trovò ritto sulla porta ad
aspettare i suoi ordini.
Questa prontezza fece piacere a
Luigi XIII e l’accoglienza di
Montmorency – che pure, essendo
stato molto innamorato della regina,
come abbiamo detto, non provava
simpatia per lui – fu quale doveva
essere.
Il duca offrì al re di
accompagnarlo e di fornirgli una
scorta. Ma Luigi XIII rispose che in
terra di Francia – finché si fosse
trovato in terra di Francia – riteneva
di essere al sicuro, e che la scorta
che già aveva, devota com’era, gli
pareva sufficiente; solamente, invitò
monsieur de Montmorency a
trovarsi a Chaumont per il Consiglio
che si sarebbe tenuto l’indomani alle
nove di sera.
Tutto quello che acconsentì ad
accettare fu un altro cappello e,
poiché mettendoselo si accorse che
aveva tre piume bianche, lo riprese il
ricordo della battaglia d’Ivry.
«È di buon augurio» disse.
Uscendo da Saint-Laurent, la neve
era così alta che Latil invitò il re a
smontare da cavallo. Il re scese.
Latil prese il cavallo del re, che era
poi il suo, per le briglie. L’Angely
seguiva, e poi Saint-Simon. Il re si
trovava così a camminare su una
strada spianata da tre uomini e tre
cavalli.
Saint-Simon che, riconoscente,
voleva restituire al cardinale i favori
che ne aveva ricevuto, vantava al re
tutte quelle precauzioni e metteva in
valore la previdenza di colui che le
aveva fatte prendere.
«Sì, sì» rispose Luigi XIII. «Il
signor cardinale è un buon servitore.
Dubito che mio fratello, al posto
suo, avrebbe avuto per me tutte
queste attenzioni.»
Due ore dopo il re – fiero della
perdita del cappello come lo sarebbe
stato di una ferita, e della sua marcia
notturna come di una vittoria –
arrivava senza incidenti alla porta
del Genévrier d’Or, raccomandando
che il cardinale non fosse svegliato.
«Sua Eminenza non dorme» gli
rispose l’oste Germain.
«E che cosa fa a quest’ora?»
domandò il re.
«Lavoro per la grandezza di
Vostra Maestà» rispose il cardinale
comparendo, «e monsieur de Pontis
mi aiuta con tutto ciò che è in suo
potere in questo compito glorioso.»
E il cardinale fece entrare il re in
camera sua, dove, effettivamente,
trovò un gran fuoco acceso per
riscaldarlo e un’enorme mappa della
regione realizzata da monsieur de
Pontis aperta sul tavolo.

1 Jacques Callot (1592 o 1594-1635),


disegnatore e incisore di Nancy, ebbe fra i suoi
temi preferiti la guerra e i soldati; fra l’altro, nel
1629 incise Le Siège de la Rochelle. [NdT]
XI
Dove il cardinale trova
la guida di cui aveva bisogno
Uno dei grandi meriti del cardinale
fu quello non di far nascere in re
Luigi XIII qualità che non aveva,
bensì di fargli credere di averle.
Era pigro e indolente, gli fece
credere di essere un uomo d’azione;
era timido e diffidente, gli fece
credere di essere coraggioso; era
crudele e sanguinario, gli fece
credere di essere giusto.
Pur dichiarando che la sua
presenza a quell’ora della notte non
era necessaria, Richelieu elogiò
grandemente la dedizione alla gloria
sua e a quella della Francia che lo
aveva fatto accorrere al suo primo
richiamo, con un tempo simile, con
quelle strade e nel buio più
profondo. Ma pretese che il re si
coricasse immediatamente, visto che
avevano ancora a disposizione per
intero la giornata che stava iniziando
e quella successiva.
Fin dall’alba, comunque, lungo
tutto il percorso era stato dato ordine
alle truppe scaglionate a Saint-
Laurent, a Exilles e a Savoulx di
incamminarsi verso Chaumont.
Al comando di quelle truppe
c’erano il conte di Soissons, i duchi
di Longueville, della Trémouille, di
Halliun e della Valette, i conti di
Harcourt e di Sault, i marchesi di
Canaples, di Mortemar, di Tavaune,
di Valence e di Thoyras.
I quattro comandi superiori erano
in mano ai marescialli di Créqui, di
Bassompierre, di Schomberg e al
duca di Montmorency.
Su tutto planava il genio del
cardinale: lui pensava, il re dava gli
ordini.
Siccome l’episodio che ci
accingiamo a raccontare costituisce,
insieme all’assedio della Rochelle
che abbiamo già narrato nel nostro
libro dei Trois mousquetaires, il
punto più alto e glorioso del regno di
Luigi XIII, ci sarà consentito di
scendere in qualche dettaglio su
come è stato forzato il passo di Susa,
fatto di cui gli storici ufficiali hanno
tanto parlato.
Accomiatandosi da Richelieu,
Vittorio Amedeo, per assicurarsi una
via d’uscita, come si dice a teatro,
aveva annunciato che sarebbe partito
per Rivoli dove lo aspettava il duca
suo padre, 1 e che avrebbe riportato
entro ventiquattr’ore l’ultimatum di
Carlo Emanuele; quando, però,
giunse a Rivoli, il duca di Savoia,
che cercava soltanto di tirare le cose
per le lunghe, era partito per Torino.
Verso le cinque di sera, quindi, al
posto di Vittorio Amedeo, fu il
primo ministro del principe, il conte
di Verrue, a farsi annunciare al
cardinale.
All’annuncio, il cardinale si
rivolse al re.
«Sua Maestà» domandò «farà a
monsieur de Verrue l’onore di
riceverlo personalmente o delegherà
a me questo compito?»
«Se il principe Vittorio Amedeo
fosse ritornato come aveva
promesso, lo avrei ricevuto. Ma
poiché il duca di Savoia ritiene
opportuno mandarmi il suo primo
ministro, è giusto che sia il mio
primo ministro a rispondergli.»
«Il re mi lascia quindi carta
bianca?»
«Assolutamente sì.»
«In ogni caso» replicò Richelieu,
«lasciando aperta questa porta,
Vostra Maestà potrà ascoltare il
nostro colloquio e, se qualcosa nelle
mie parole le dispiacesse, potrà farsi
avanti e smentirmi.»
Luigi XIII fece un cenno di
assenso.
Richelieu, lasciando aperta la
porta, passò nella stanza dove lo
aspettava il conte di Verrue.
Questo conte di Verrue – da non
confondere con suo nipote, marito
della famosa Jeanne d’Albret de
Luynes, amante di Vittorio Amedeo
II, nota come la Signora della
Voluttà –, questo conte di Verrue, di
cui la storia si ricorda appena, era un
uomo di quarant’anni, di coscienza
retta, di notevole intelligenza, di
provato coraggio. Incaricato di una
difficile missione, la svolgeva con
tutta la franchezza di cui un
emissario di Carlo Emanuele poteva
dar prova in quei tortuosi negoziati.
Nel vedere il volto serio del
cardinale, quello sguardo profondo
capace di sondare i cuori, nel
trovarsi di fronte al genio capace di
mantenere l’equilibrio fra tutti i
sovrani europei, s’inchinò
profondamente con rispetto.
«Monsignore» disse, «vengo in
vece e luogo di Vittorio Amedeo,
costretto a trattenersi accanto a suo
padre, tanto gravemente indisposto
che ieri sera, quando suo figlio è
arrivato a Rivoli dopo aver lasciato
Vostra Eminenza, si era fatto
trasportare a Torino.»
«Quindi» disse Richelieu, «signor
conte, venite investito di pieni poteri
dal duca di Savoia?»
«Vengo ad annunciarvi il suo
prossimo arrivo, monsignore. Per
quanto ammalato, il signor duca
vuole difendere personalmente la
propria causa: si fa condurre qui in
portantina.»
«E quando pensate che arriverà,
signor conte?»
«Lo stato di debolezza in cui
versa Sua Altezza e la lentezza di
quel mezzo di trasporto mi fanno
dire che non può essere qui prima di
dopodomani.»
«Verso che ora?»
«Non oserei promettervi che sarà
prima di mezzogiorno.»
«Sono davvero desolato, signor
conte, ma ho detto al principe
Vittorio Amedeo che all’alba
avremmo attaccato la trincea di
Susa. All’alba attaccheremo.»
«Spero che Vostra Eminenza
metterà da parte tanto rigore»
replicò il conte di Verrue «quando
saprà che il duca di Savoia non nega
il passaggio.»
«Allora, se siamo d’accordo, non
c’è più bisogno che c’incontriamo.»
«È vero» aggiunse imbarazzato il
conte «che Sua Altezza pone una
condizione.»
«Ah, ah!» rispose sorridendo il
cardinale. «Quale?»
«... o piuttosto conserva una
speranza» aggiunse Verrue.
«Dite.»
«Ebbene, Sua Altezza il duca
spera che in cambio della sua
deferenza e del grande sacrificio che
compie, Sua Maestà cristianissima
gli farà cedere dal duca di Mantova
la stessa parte del Monferrato che il
re di Spagna gli avrebbe lasciato
nella spartizione, oppure, se non
vuole darla a lui, che ne faccia dono
a Madame sua sorella: a questa
condizione, domani il passaggio sarà
aperto.»
Il cardinale fissò per un attimo il
conte, che non riuscì a sostenerne lo
sguardo e abbassò gli occhi. Allora,
come se avesse aspettato solo
quello, il cardinale disse:
«Signor conte, l’Europa intera
nutre una così alta opinione della
giustizia del re, mio padrone, che
non so come il signor duca di Savoia
abbia potuto immaginare che Sua
Maestà avrebbe acconsentito a una
simile richiesta. Da parte mia, sono
convinto che non l’accetterà mai. Il
re di Spagna può anche aver
accordato una parte di ciò che non
gli appartiene per incoraggiare il
duca a favorire un’usurpazione
iniqua; ma Dio non voglia che il re,
mio padrone, capace di attraversare
le montagne per andare in soccorso
di un principe oppresso, disponga
così dei beni del suo alleato. Se il
signor duca non ricorda più la
potenza di un re di Francia,
dopodomani gli rinfrescheremo la
memoria.»
«Posso almeno sperare che queste
proposte verranno riferite da Vostra
Eminenza a Sua Maestà?»
«Inutile, signor conte» disse una
voce da dietro il cardinale. «Il re ha
sentito ogni cosa e si meraviglia che
un uomo che dovrebbe conoscerlo
gli faccia una proposta che macchia
il suo onore e compromette quello
della Francia. Confermo dunque
l’impegno preso, o piuttosto la
minaccia fatta, dal signor cardinale.
Se domani i passaggi non saranno
aperti senza condizioni, dopodomani
all’alba verranno attaccati.»
Poi, drizzandosi e spingendo
avanti la gamba con la dignità che
sapeva a volte assumere:
«Sarò là personalmente» aggiunse
«e mi si potrà riconoscere da queste
piume bianche, così come dallo
stesso segno a Ivry fu riconosciuto il
mio augusto padre. È mio auspicio
che il signor duca si distingua con
un segno analogo, in modo che il
grosso della battaglia si svolga dove
saremo entrambi. Riferitegli le mie
precise parole, signor duca, sono le
sole che io possa e debba
rispondergli.»
Salutò con un cenno il conte, che
rispose inchinandosi profondamente,
e si ritirò.
Per tutta la sera e tutta la notte,
l’armata continuò a raccogliersi
intorno a Chaumont; la sera del
giorno seguente, il re aveva ai suoi
ordini ventitremila uomini a piedi e
quattromila cavalli.
Verso le dieci di sera, l’artiglieria
e tutto il materiale dell’armata si
schieravano alle porte di Chaumont,
i cannoni con la bocca rivolta verso
il territorio nemico. Il re ordinò di
passare in rivista le casse e di fargli
rapporto sul numero dei colpi che
potevano sparare. A quel tempo,
quando la baionetta non era stata
ancora inventata, a decidere tutto
erano il cannone e il moschetto.
Oggi il fucile ha ripreso il ruolo
secondario che gli spetta nelle
manovre di un popolo
essenzialmente guerriero: è
divenuto, come aveva predetto il
maresciallo di Sassonia, il calcio
della baionetta.
A mezzanotte si riunì il Consiglio,
composto dal re, dal cardinale, dal
duca di Montmorency e dai tre
marescialli: Bassompierre,
Schomberg e Créqui.
Bassompierre, il decano fra loro,
prese la parola. Diede un’occhiata
alla mappa, studiò le posizioni del
nemico, che erano perfettamente
note grazie alle informazioni del
conte di Moret.
«Salvo pareri migliori» disse,
«ecco la mia proposta, Sire.»
E salutando il re e il cardinale,
come a indicare con chiarezza che
era a loro che si rivolgeva:
«Propongo che i reggimenti delle
guardie francesi e svizzere prendano
la testa. Il reggimento di Navarra e
quello di Estillac la sinistra. Le due
ali faranno salire ognuna duecento
moschettieri che raggiungeranno la
cima dei monti di Montmoron e di
Montabon. Una volta che si
troveranno in cima, nulla di più
facile per loro che prendere il
sopravvento sulle guardie delle
barricate. Al primo colpo di fucile
che sentiremo dall’alto, ci
muoveremo e, mentre i moschettieri
attaccheranno le barricate da dietro,
noi le attaccheremo di fronte con i
due reggimenti delle guardie.
Avvicinatevi alla mappa, signori,
osservate la posizione del nemico e,
se avete da proporre un piano
migliore del mio, esponetelo senza
timore.»
Dopo aver studiato la carta, i
marescialli di Créqui e di
Schomberg si dichiararono
d’accordo con la proposta di
Bassompierre.
Rimaneva il duca di
Montmorency, più conosciuto per
l’impetuoso coraggio che spingeva
fino alla temerarietà che come
stratega e uomo prudente e
previdente sul campo di battaglia.
Parlava inoltre con una certa
difficoltà, per via di una balbuzie
che scompariva a mano a mano che
procedeva nei discorsi.
Ciononostante prese
coraggiosamente la parola che il re
gli offriva.
«Sire» disse, «sono dello stesso
parere dei marescialli di
Bassompierre, di Schomberg e di
Créqui, che ben conoscono la mia
alta considerazione per il loro
coraggio e la loro esperienza. Ma
una volta prese le barricate e le
ridotte, e non dubito che le
prenderemo, resterà da sfondare la
parte più difficile, cioè la mezzaluna
che sbarra completamente la strada.
Non sarebbe possibile fare per
quella parte delle trincee quello che
così opportunamente monsieur de
Bassompierre ha proposto di fare per
le ridotte? Insomma, non si
potrebbero aggirare le postazioni
tramite un sentiero di montagna, per
quanto arduo e tortuoso,
ridiscendere fra la mezzaluna e
Susa, e quindi attaccare da questa
posizione arretrata il nemico che
vorremmo attaccare di fronte?
Basterebbe trovare una guida fidata
e un ufficiale intrepido, cosa che non
mi pare impossibile.»
«Avete sentito le proposte di
monsieur de Montmorency» disse il
re. «Le approvate?»
«Eccellenti!» risposero i
marescialli. «Ma non c’è tempo da
perdere per procurarci guida e
ufficiale.»
In quel momento, Étienne Latil
disse qualcosa all’orecchio del
cardinale, il cui volto s’illuminò.
«Signori» disse, «credo che la
Provvidenza ci mandi riuniti in una
sola persona una guida fidata e un
intrepido ufficiale.»
E rivolgendosi a Latil che
aspettava i suoi ordini:
«Capitano Latil» disse, «fate
entrare il conte di Moret.»
Latil s’inchinò.
Cinque minuti dopo il conte di
Moret entrava nella stanza e, sotto
l’umile abito da montanaro che lo
nascondeva, tutti poterono
riconoscere il celebre figlio di
Enrico IV dalla somiglianza con il
suo augusto padre, somiglianza che
Luigi XIII tanto invidiava. Arrivava
proprio allora da Mantova, mandato
dalla Provvidenza, come diceva il
cardinale di Richelieu.

1 Non si tratta qui della Rivoli resa celebre


dalla vittoria di Bonaparte, ma di una Rivoli che
si trova a tre o quattro chilometri da Torino.
[NdA]
XII
Il passo di Susa
Grazie alla strada che gli abbiamo
visto seguire per attraversare senza
problemi il Piemonte e che aveva
studiato con attenzione
particolarissima, il conte di Moret
poteva essere allo stesso tempo una
guida fidata e un intrepido ufficiale.
Infatti, non appena gli fu esposta
la questione, presa una matita, egli
tracciò sulla mappa preparata da
monsieur de Pontis il sentiero che da
Chaumont portava alla locanda dei
contrabbandieri e da lì al ponte di
Giacon; si interruppe per raccontare
quale circostanza lo aveva costretto
a cambiare strada per sfuggire ai
banditi spagnoli e come quel cambio
di percorso lo aveva condotto a quel
tratto di sentiero dal quale ci si
poteva lasciar scivolare sui bastioni
di Susa addossati alla montagna.
Fu autorizzato a prendere con sé
cinquecento uomini; con una truppa
più numerosa sarebbe stato troppo
difficile muoversi su quei sentieri.
Il cardinale voleva che il giovane
principe prendesse qualche ora di
riposo, ma lui rifiutò; se voleva
arrivare in tempo per mettere in atto
quella diversione al momento
dell’attacco, non aveva un minuto da
perdere. Pregò il cardinale di dargli
come vice Étienne Latil, del cui
coraggio e della cui devozione non
aveva motivo di dubitare.
Significava soddisfare tutti i
desideri di Étienne.
Alle tre la truppa si mise in
cammino senza fare rumore. Ogni
uomo portava cibi per una giornata.
Nessuno dei cinquecento soldati
che avrebbero marciato agli ordini
del conte di Moret conosceva quel
giovane capitano; ma quando
seppero che avevano come capo il
figlio di Enrico IV, gli si strinsero
attorno con esclamazioni di giubilo
e, alla luce delle torce, egli dovette
mostrare il proprio volto, la cui
somiglianza con quello del Bearnese
moltiplicò l’entusiasmo.
Subito dopo che i cinquecento
uomini del conte di Moret se ne
furono andati, protetti da una notte
tanto buia che non si vedeva a dieci
passi, anche il resto dell’esercito si
mise in moto. Il tempo era orribile,
la terra coperta da due piedi di neve.
Si fermarono cinquecento passi
prima della roccia di Gélasse.
Sei cannoni con palle da sei libbre
furono portati alla roccia per
sfondare la barricata.
Cinquanta uomini restavano a
sorvegliare le scorte di artiglieria. Le
truppe che dovevano attaccare erano
sette compagnie delle guardie, sei
degli svizzeri, diciannove di
Navarra, quattordici d’Estissac e
quindici di Sault. E poi i
moschettieri a cavallo del re.
Ogni corpo doveva mandare
avanti cinquanta enfants-perdus 1
spalleggiati da cento uomini, a loro
volta supportati da altri cinquecento.
Verso le sei del mattino le truppe
furono schierate. Il re, che
presiedeva ai preparativi, comandò a
un certo numero dei suoi
moschettieri di unirsi agli enfants-
perdus e diede ordine al sire di
Comminges di varcare la frontiera,
facendosi precedere da un
trombettiere, e di domandare al duca
di Savoia il consenso al passaggio
dell’esercito e della persona del re.
Monsieur de Comminges partì,
ma fu fermato a cento passi dalla
prima barricata.
Il conte di Verrue uscì e gli andò
incontro.
«Che cosa volete, signore?»
chiese al portavoce.
«Vogliamo passare, signore!»
rispose quello.
«Ma come volete passare?»
replicò il conte di Verrue. «Da amici
o da nemici?»
«Da amici, se ci aprite il
passaggio; da nemici, se ce lo
chiudete – visto che sono incaricato
dal re mio padrone di andare a Susa
e preparargli un alloggio, avendo
egli intenzione di dormire lì
domani.»
«Signore» ribatté il conte di
Verrue, «il duca mio padrone
riterrebbe certo un grande onore
alloggiare Sua Maestà; ma viene
accompagnata da tanto seguito che
prima di decidere devo chiedere
ordini a Sua Altezza.»
«Bene, avreste per caso
intenzione di contrastarci il
passaggio?»
«Come ho avuto l’onore di dirvi,
signore» ribatté freddo il conte di
Verrue, «devo prima conoscere le
intenzioni di Sua Altezza
sull’argomento.»
«Vi avverto, signore, che farò
rapporto al re.»
«Potete fare quello che credete,
signore, ne avete piena potestà.»
E a questo punto si salutarono, il
conte per tornare verso le barricate e
Comminges dal re.
«Ebbene, signore?» gli chiese il
re.
Comminges raccontò il suo
colloquio con il conte di Verrue, che
Luigi XIII ascoltò senza perderne
una parola, per poi commentare alla
fine:
«Il conte di Verrue ha agito non
solo da servitore fedele ma anche da
uomo intelligente, che conosce il
proprio mestiere.»
Il re si trovava allora sull’ultima
frontiera della Francia, tra gli
enfants-perdus pronti a mettersi in
marcia e i cinquecento uomini che
dovevano supportarli.
Bassompierre gli si avvicinò,
sorridente e con il cappello in mano.
«Sire» disse, «l’assemblea è
pronta, i violini accordati, le
maschere alla porta. Quando Vostra
Maestà vuole, possiamo dare inizio
al balletto.»
Il re lo guardò con la fronte
aggrottata.
«Ma lo sapete, signor maresciallo,
che il rapporto che ho appena
ricevuto riferisce che nelle scorte
dell’artiglieria non abbiamo che
cinquecento libbre di piombo?»
«Be’, Sire, non mi pare proprio il
momento di preoccuparsene. Per una
maschera che non è pronta volete
che il corpo di ballo salti lo
spettacolo? Lasciate fare a noi, e
andrà tutto bene.»
«Me ne rispondete?» chiese il re
guardandolo fisso.
«Sarebbe temerario da parte mia,
Sire, garantire una cosa incerta come
una vittoria; ma posso garantire che
torneremo con onore oppure io sarò
ucciso o fatto prigioniero.»
«Badate! Se siamo sconfitti me la
prenderò con voi, monsieur de
Bassompierre!»
«Pazienza! Cosa può succedermi
di peggio che essere chiamato
marchese d’Uxelles 2 da Vostra
Maestà? Ma state tranquillo, Sire,
cercherò di non meritare una simile
ingiuria. Lasciateci fare, e basta.»
«Sire» intervenne il cardinale, a
cavallo accanto al re, «la faccia del
maresciallo mi induce a ben
sperare.»
Poi, rivolto a Bassompierre:
«Andate, andate, signor
maresciallo, e fate del vostro
meglio» disse.
Bassompierre portò la risposta a
monsieur de Créqui che l’aspettava e
smontò per caricare verso le trincee.
Rimase a cavallo soltanto monsieur
de Schomberg, per via della gotta al
ginocchio.
Si misero dunque in marcia verso
la roccia di Gélasse, sotto la quale
bisognava passare; ma il nemico,
non si sa perché, aveva abbandonato
quella posizione, per quanto salda,
forse nel timore che quelli che la
difendevano venissero isolati e
costretti ad arrendersi.
Ma non appena le nostre truppe
superarono la roccia, si trovarono
allo scoperto e si fece fuoco
contemporaneamente dalla
montagna e dalla grande barricata.
A quella prima scarica,
Schomberg fu ferito alle reni da un
colpo di mitraglia; Bassompierre
proseguì lungo la valle con Créqui al
fianco e si diresse verso la
mezzaluna che chiudeva il passo di
Susa.
Montmorency, come un semplice
tiratore, si slanciò verso la montagna
sulla sinistra, cioè il Crêt de
Montmoron.
Schomberg si fece legare al
cavallo che fu condotto per le briglie
per via del sentiero difficoltoso e,
giunto sulla montagna, marciò in
mezzo agli enfants-perdus.
Aggirarono le barricate e, secondo
il piano di Bassompierre, spararono
da dietro ai loro difensori, mentre li
attaccavano di fronte.
I vallesani e i piemontesi si
difesero valorosamente. Vittorio
Amedeo e suo padre si trovavano
nella ridotta del Crêt de Montabon.
Impetuoso come sempre,
Montmorency aveva attaccato e
travolto la barricata di sinistra e,
poiché l’armatura lo impacciava
nella marcia a piedi, ne aveva
seminato tutti i pezzi lungo la strada
e attaccò la ridotta in giubbetto di
pelle di bufalo e braghe di velluto.
Da parte sua Bassompierre
seguiva il fondovalle attirando su di
sé il fuoco di tutta la mezzaluna.
Venivano poi il re con il suo
pennacchio bianco e il cardinale in
abito di velluto colore foglia morta
ricamato in oro.
Tre volte attaccarono le ridotte e
tre volte furono respinti. I proiettili
saltavano rimbalzando sulle rocce
del fondovalle e uccisero uno
scudiero di Créqui ai piedi del
cavallo del re. Bassompierre e
Créqui decisero allora che, con
cinquecento uomini, il primo
avrebbe scalato la montagna a
sinistra per riunirsi a Montmorency
e l’altro quella a destra per aiutare
Schomberg.
Duemilacinquecento uomini
sarebbero rimasti sul fondovalle per
marciare sulla mezzaluna.
Bassompierre, piuttosto robusto e
già sulla cinquantina, per salire il
ripido pendio si appoggiava a una
guardia. Improvvisamente sentì
venirgli meno l’appoggio: una palla
aveva colpito la guardia in pieno
petto.
Arrivò in cima alla montagna nel
momento in cui Montmorency era
appena saltato, dopo altri due, nella
ridotta; lui vi scese come quarto.
Montmorency fu leggermente
ferito a un braccio, gli abiti di
Bassompierre furono crivellati di
proiettili.
La ridotta di sinistra fu presa.
Vallesani e piemontesi si rifugiarono
nella mezzaluna.
I due comandanti si voltarono
allora a guardare la ridotta di destra,
dove si combatteva non meno
accanitamente.
Si videro infine due cavalieri che
ne uscivano e si dirigevano a gran
galoppo verso un sentiero che era
probabilmente stato preparato per la
loro ritirata verso la mezzaluna di
Susa.
Erano il duca di Savoia Carlo
Emanuele e suo figlio Vittorio
Amedeo.
Furono seguiti da una massa di
gente in fuga: la ridotta di destra era
stata presa.
Rimaneva il compito più duro, la
mezzaluna.
Luigi XIII inviò le sue
felicitazioni per il successo ai
marescialli e a Montmorency, ma
ordinando loro di non esporsi
troppo. Bassompierre gli fece
rispondere anche a nome degli altri:
Sire, siamo grati a Vostra Maestà per
l’interesse che porta alle nostre persone.
Ma ci sono momenti in cui il sangue di un
principe o di un maresciallo di Francia
non è più prezioso di quello dell’ultimo
soldato. Chiediamo dieci minuti di riposo
per i nostri uomini, dopo di che il ballo
riprenderà.

Dopo dieci minuti, infatti, le


trombe ripresero a squillare, i
tamburi a battere. E le due ali, a
ranghi serrati, marciarono sulla
mezzaluna.

1 Soldati che accettavano di aprire la marcia


delle truppe, esposti ai massimi rischi, ma certi,
in caso di sopravvivenza, di ottenere una
promozione nell’esercito. [NdC]
2 Si ricorderà che fu il marchese d’Uxelles a
compiere la disgraziata spedizione fallita grazie
alle premure di Maria de’ Medici. [NdA]
XIII
Dove si dimostra che un uomo
non può essere sicuro di finire
impiccato
nemmeno se ha la corda al collo
Gli avamposti erano in mano ai
francesi, ma rimaneva l’ultima
trincea, circondata di soldati, irta di
cannoni, difesa dal forte di
Montabon, costruito in cima a una
roccia inaccessibile: l’unica via
d’accesso al forte era una scala priva
di ringhiera, i cui gradini si potevano
salire soltanto uno per volta.
Già da un pezzo avevano lasciato
indietro i cannoni per l’impossibilità
di trascinarli sia sul fondovalle sia in
alta quota.
Si doveva quindi attaccare la
mezzaluna senza altro ausilio che
quella furia francese 1 che gli
italiani di quel tempo già
conoscevano.
Da una piccola altura esposta
all’artiglieria nemica, il re e il
cardinale guardavano i capi e il fiore
della nobiltà marciare alla testa dei
soldati, fieri di morire sotto gli occhi
del sovrano, affidando alla spada la
loro reputazione.
I soldati seguivano a testa bassa,
senza chiedersi se li stavano
portando al macello: i capi
marciavano davanti a loro e questo
bastava.
Dall’altura dove si trovavano a
cavallo, il re e il cardinale potevano
vedere i vuoti che si venivano a
creare nelle file. Il re batteva le mani
plaudendo al coraggio, ma nello
stesso tempo i suoi istinti più crudeli
si risvegliavano in lui, come quelli
della tigre alla vista del sangue:
quando aveva fatto uccidere il
maresciallo d’Ancre, essendo troppo
piccolo per guardare fuori dalla
finestra del Louvre, si era fatto
sollevare fra le braccia dei servitori
per poter vedere bene il cadavere
insanguinato.
Si abbordò la parete. Qualcuno
aveva portato delle scale, e
cominciarono ad arrampicarsi.
Montmorency afferrò una
bandiera e scalò per primo la parete;
Bassompierre, troppo vecchio e un
po’ pesante per seguirlo, si piazzò a
un tiro di schioppo dalle barricate,
esortando i soldati a comportarsi
valorosamente.
Alcune delle scale si spezzarono
sotto il peso degli assalitori, tanto
erano tutti ansiosi di mettere piede
per primi sulle barricate. Gli altri
però resistettero e in quel
combattimento quasi aereo diedero
ai compagni il tempo di rialzarsi, di
rizzare altre scale e di ripartire
all’attacco.
Gli assediati si servivano di
qualsiasi cosa come arma: alcuni
sparavano quasi a bruciapelo sugli
assalitori, altri dardeggiavano frecce
in tutta quella ferraglia e ogni tanto
il sangue schizzava fino a loro o
vedevano un uomo aprire le braccia
e cadere all’indietro. Altri ancora
lanciavano pietre o facevano
rotolare giù delle travi che
ripulivano due o tre scale.
A un tratto si creò un certo
scompiglio fra gli assediati, poi si
udì in lontananza un colpo di fucile
e delle grida.
«Coraggio, amici» gridò
Montmorency tornando per la terza
volta all’assalto. «È il conte di
Moret che ci viene in aiuto.
Montmorency! Alla riscossa!»
E di nuovo, tutto pesto e
insanguinato com’era, si lanciò in
avanti, trascinando in uno sforzo
supremo tutti coloro che potevano
vederlo e sentirlo.
Il duca non si sbagliava, era
proprio Moret che metteva in atto la
sua strategia diversiva.
Il conte era partito alle tre del
mattino, come abbiamo visto, con
Latil come capitano e Galaor come
aiuto di campo. Erano arrivati sulle
rive del torrente dove Guillaume
Coutet aveva rischiato di annegare,
ma nel frattempo era sopraggiunto il
gelo, il livello dell’acqua si era
abbassato e questa volta poterono
attraversare saltando di masso in
masso.
Arrivati dall’altra parte del
torrente, il conte di Moret e i suoi
uomini superarono rapidamente la
distanza che li separava dalla
montagna. Lui ritrovò il sentiero, vi
si slanciò per primo. I suoi uomini lo
seguirono.
La notte era buia, ma la neve
appena caduta e tanto abbondante
illuminava il cammino.
Conoscendo le difficoltà, il conte
si era attrezzato con lunghe corde,
ognuna tenuta da ventiquattro
uomini, che camminavano sull’orlo
del declivio. Se uno scivolava, era
trattenuto dagli altri ventitré, bastava
che chi scivolava non lasciasse la
corda.
Altri ventiquattro camminavano
parallelamente ai primi, che in un
certo senso facevano loro da
parapetto.
Avvicinandosi alla locanda dei
contrabbandieri, il conte di Moret
raccomandò il silenzio.
Senza sapere di che cosa si
trattasse, tutti tacquero.
Il conte richiamò a sé una dozzina
di uomini, spiegò loro che genere di
gente frequentasse la locanda che
avevano davanti e ordinò che
avvertissero sottovoce i loro
compagni di circondarla. Un solo
uomo sfuggito da quel covo di
banditi avrebbe potuto dare
l’allarme e compromettere il
successo dell’operazione.
Galaor, che conosceva i luoghi,
prese una ventina di uomini per
circondare il cortile; Latil con una
ventina d’altri sorvegliò la porta e
con circa altrettanti il conte di Moret
si piazzò davanti all’unica finestra
aperta della casa, per impedire a
chiunque di scappare. Si vedeva
all’interno un fuoco acceso, segno
che c’erano ospiti.
Il resto della compagnia doveva
scaglionarsi lungo la strada così da
non lasciare via di scampo a nessun
bandito.
La porta del cortile era chiusa.
Galaor, agile e svelto come una
scimmia, vi si arrampicò, saltò nel
cortile e la aprì. In un attimo il
cortile fu pieno di soldati in attesa
con il moschetto pronto.
Latil schierò i suoi uomini in due
file di fronte alla porta e ordinò loro
di fare fuoco su chiunque avesse
cercato di fuggire.
Il conte si era avvicinato piano e
senza far rumore alla finestra per
vedere che cosa succedeva
all’interno, ma il calore aveva
appannato i vetri tanto da impedire
la vista.
Uno dei vetri, rotto in qualche
rissa, era stato sostituito da un pezzo
di carta incollato all’infisso. Il conte
di Moret salì sul davanzale, bucò la
carta con la punta del pugnale e poté
così osservare la strana scena che si
stava svolgendo.
Il contrabbandiere che era andato
ad avvertire Guillaume Coutet che i
banditi spagnoli si erano messi alla
sua ricerca era legato e garrotato su
un tavolo mentre, elettisi a tribunale,
i banditi che aveva tradito lo
giudicavano e, poiché il giudizio era
senza appello, si trattava solo di
decidere se sarebbe stato impiccato
o fucilato.
I pareri erano divisi, ma, come si
sa, gli spagnoli sono economi. Uno
di loro fece osservare che per
fucilare un uomo ci volevano da otto
a dieci colpi di moschetto: erano
otto o dieci cariche di piombo e
polvere perdute; mentre per
impiccare un uomo, non solo
occorreva una corda e basta, ma
quella corda, divenuta, in virtù
dell’esecuzione stessa, una corda da
impiccato, sarebbe raddoppiata,
quadruplicata, decuplicata di valore.
Questo parere così saggio e
vantaggioso ebbe il sopravvento.
Quel povero diavolo del
contrabbandiere aveva così ben
compreso quale sorte si era stabilita
per lui che alla scelta della corda e
alle grida di entusiasmo che la
accompagnarono replicò solamente
con la preghiera degli agonizzanti:
«Signore, fra le tue mani rimetto la
mia anima!».
Una corda la si trova sempre in
fretta, soprattutto in una locanda di
mulattieri. In capo a cinque minuti
uno di loro, per nulla disturbato
all’idea di assistere, senza nemmeno
spostarsi, allo spettacolo di
un’impiccagione, fornì la corda
richiesta.
Una lanterna appesa a un gancio
rappresentava, fra le sette o otto
candele sistemate sui tavoli, l’astro
intorno a cui ruotava un nuovo
sistema planetario.
La lanterna fu staccata e posata
sul camino; uno spagnolo, quello
che aveva avuto l’idea di
economizzare usando la corda, la
passò nel gancio, vi fece un nodo
scorsoio e mise un capo in mano a
quattro o cinque compagni, fece
scendere dal tavolo il condannato, lo
condusse sotto il gancio e senza che
il disgraziato opponesse alcun tipo
di resistenza, tanto si dava ormai per
perduto, gli passò il nodo scorsoio
attorno al collo.
Poi, nel silenzio solenne che
precede quell’atto importante di
strappare violentemente un’anima
dal corpo, ordinò:
«Togliete!»
Ma appena la parola fu
pronunciata, si udì provenire dalla
finestra un rumore simile a quello di
una carta o di una stoffa lacerata, si
vide sporgere all’interno del locale
un braccio armato di pistola, la
pistola far fuoco e cadere morto
l’uomo che stava sistemando il nodo
scorsoio al collo del condannato.
Contemporaneamente, un calcio
vigoroso mandò in pezzi l’infisso
della finestra, che si spalancò e
liberò il passaggio al conte di Moret:
saltò nella stanza seguito dai suoi
uomini, mentre al colpo di pistola,
come a un segnale, la porta della
strada e quella del cortile si aprivano
mostrando tutte le vie di fuga
presidiate dalle armi e dai soldati.
In un attimo il condannato fu
slegato e passò dalle angosce
dell’agonia alla gioia inebriante di
un uomo che abbia già sceso il
primo gradino della tomba e balzi
fuori dalla fossa dove già la terra
stava per ricoprirlo.
«Che nessuno cerchi di uscire»
intimò il conte di Moret, con quel
gesto di assoluta autorità che era in
lui ereditario. «Chi tenterà la fuga è
un uomo morto.»
Nessuno si mosse.
«Sono» proseguì rivolgendosi al
contrabbandiere cui aveva appena
salvato la vita «il viaggiatore che tu
con tanta generosità hai avvertito,
due mesi fa, del pericolo che
correva, e a causa del quale stavi per
morire. È giusto che i ruoli siano
scambiati e che questa volta la
tragedia vada fino in fondo.
Indicami i miserabili che ci hanno
inseguiti, il loro processo non durerà
molto.»
Il contrabbandiere non se lo fece
ripetere due volte. Indicò otto
spagnoli, il nono era morto.
Gli otto banditi, vedendosi
condannati e comprendendo che non
avrebbero trovato misericordia, si
scambiarono un’occhiata e con la
forza della disperazione, il pugnale
in mano, si lanciarono contro i
soldati che sorvegliavano la porta.
Ma avevano a che fare con gente
più forte di loro. Come si ricorderà,
c’era Latil a sorvegliare la porta e
quando l’aveva aperta si era piazzato
sulla soglia con una pistola in
ognuna delle mani.
Con quei due colpi uccise due
uomini; gli altri sei si dibatterono
per un attimo fra gli uomini del
conte di Moret e i suoi.
Per qualche istante si udirono il
rumore del ferro, grida, bestemmie,
altri due colpi di pistola, il tonfo di
due o tre corpi sul pavimento. Tutto
era detto.
Sei erano morti, stesi nel loro
sangue, e gli altri tre, ancora vivi,
erano nelle mani dei soldati, polsi e
piedi legati.
«Hanno trovato questa corda per
impiccare un onest’uomo» disse il
conte di Moret. «Trovatene altre due
per impiccare dei furfanti.»
I mulattieri, che cominciavano a
capire che loro non c’entravano in
quella storia e che invece di vedere
impiccare un uomo ne avrebbero
visti impiccare tre, spettacolo quindi
tre volte più divertente, offrirono
immediatamente le corde richieste.
«Latil» disse il conte di Moret,
«do a voi l’incarico di impiccare
questi tre signori. So che siete un
tipo sbrigativo, non fateli languire.
Quanto al resto dell’onorevole
compagnia, lascerete qui dieci
uomini per sorvegliarla. I
prigionieri, cui non verrà fatto alcun
male, saranno liberi solamente
domani a mezzogiorno.»
«Dove vi potrò raggiungere?»
«Vi guiderà questo brav’uomo»
rispose il conte di Moret, indicando
il contrabbandiere così
miracolosamente salvato dalla
corda. «Ma dovrete affrettare il
passo per raggiungerci.»
Poi, rivolgendosi direttamente al
contrabbandiere:
«La stessa strada dell’altra volta.
Voi ve la ricordate, brav’uomo. Una
volta arrivato a Susa, ci sono venti
pistole per voi. Latil, avete dieci
minuti.»
Latil s’inchinò.
«In marcia, signori» proseguì il
conte. «Abbiamo perso mezz’ora,
ma abbiamo fatto un buon lavoro.»
Dieci minuti dopo, Latil, guidato
dal contrabbandiere, lo raggiungeva.
Il lavoro, che il conte aveva fatto per
tre quarti, era stato portato a
termine.
Latil e i suoi uomini avevano
raggiunto il conte di Moret proprio
sul ponte di Giacon. Il
contrabbandiere, che non aveva
avuto il tempo di ringraziarlo, gli si
gettò ai piedi e gli baciò le mani.
«Basta così, amico mio» disse il
conte. «Adesso in un’ora dobbiamo
arrivare a Susa.»
E la truppa si rimise in marcia.

1 In italiano nel testo. [NdT]


XIV
La piuma bianca
Conosciamo la strada che il conte di
Moret doveva seguire: era la stessa
che già aveva percorso con Isabelle
de Lautrec e la dama di Coëtman.
Aveva raccomandato il più
rigoroso silenzio e non si udiva altro
rumore che quello della neve
schiacciata dai piedi dei soldati.
Dopo una curva della montagna,
giunsero in vista della città di Susa,
il cui profilo cominciava a stagliarsi
nelle prime luci del mattino.
La parte dei bastioni addossata
alla montagna era deserta. Il
sentiero, se si poteva chiamare
sentiero quell’increspatura del
terreno su cui non c’era spazio per
due persone affiancate, correva a
circa dieci piedi al di sopra dei
merli. Da lì, ci si poteva infilare nei
bastioni.
La mezzaluna che l’esercito
francese avrebbe dovuto attaccare
una volta prese le trincee e
conquistate le barricate, era più o
meno a tre miglia da Susa e, poiché
non si poteva immaginare un attacco
dalla parte della montagna, quel
punto non era per nulla sorvegliato.
Tuttavia le sentinelle di guardia
alla porta di Francia videro alla luce
dell’alba la piccola truppa sfilare
contro il versante della montagna e
diedero l’allarme.
Il conte di Moret udì le loro grida,
vide la loro agitazione e comprese
che non c’era tempo da perdere. Da
vero uomo di montagna, saltò di
roccia in roccia e si infilò per primo
nei bastioni.
Voltandosi, vide Latil al suo
fianco.
Alle grida delle sentinelle, i
piemontesi e i vallesani erano
accorsi dai vicini posti di guardia:
era una truppa di un centinaio di
uomini, e non bisognava lasciarle il
tempo di crescere di numero.
Non appena il conte si vide
accanto venti uomini, con quei venti
uomini si slanciò verso la porta di
Francia.
I soldati di Carlo Emanuele, che
nella luce del crepuscolo vedevano
una lunga fila nera aggirare la
montagna ma non riuscivano a
valutare il numero dei nemici che
parevano piovere dal cielo, opposero
una blanda resistenza, ma, ritenendo
che il duca e suo figlio, intenti a
combattere al passo di Susa,
dovessero essere avvertiti, spedirono
un uomo a cavallo per riferire che
cosa stava succedendo.
Moret vide quell’uomo staccarsi
dalla muraglia e dirigersi verso il
luogo dei combattimenti. Capì
perfettamente la ragione che lo
spingeva ad allontanarsi a un rapido
galoppo, ma non poteva fare niente
per fermarlo.
Era un motivo in più per
impadronirsi di quella porta di Susa
dalla quale Luigi XIII avrebbe
dovuto fare il suo ingresso, dopo che
le barricate fossero state forzate.
Come abbiamo detto, si precipitò
dunque, con i pochi uomini che
aveva con sé, contro coloro che la
difendevano.
La lotta fu breve. Sorpresi quando
meno se lo aspettavano, senza
sapere il numero dei nemici e
supponendo un tradimento,
piemontesi e vallesani, per quanto
ottimi soldati, si diedero alla fuga
lanciando l’allarme, chi verso la
campagna, chi verso la città.
Il conte di Moret s’impadronì
della porta, vi dispose le sue truppe,
fece puntare quattro cannoni verso la
città, lasciò a guardia della porta e ai
cannoni un centinaio di uomini, nel
caso si fosse reso necessario fare
fuoco, e, con i cinquanta uomini che
gli rimanevano, avanzò per attaccare
le trincee da dietro, come convenuto.
Si cominciava a sentire il cannone
e si vedevano nuvole di fumo
addensarsi intorno al Crêt de
Montabon, segno che la battaglia era
in corso.
Moret spronò i suoi uomini, ma a
circa un miglio dalle trincee vide un
corpo d’armata, numeroso più o
meno quanto il suo, staccarsi
dall’esercito e dirigersi verso di lui:
in testa, e a cavallo, il colonnello che
lo comandava.
Latil si avvicinò al conte.
«Riconosco» gli disse «l’ufficiale
che comanda la truppa. È un ottimo
soldato, il colonnello Belon.»
«E allora?» domandò il conte.
«Vorrei che monsignore mi
permettesse di farlo prigioniero.»
«Che vi permettessi... Ventre
saint-gris!, non chiedo di meglio.
Ma come farete?»
«Semplicissimo, monsignore. Voi,
però, appena lo vedrete cadere con il
suo cavallo, caricate con forza. I
suoi uomini, credendolo morto,
saranno allo sbando. Fate in fretta e
impadronitevi della bandiera. Io
prenderò il colonnello. Se invece
preferite prendere il colonnello, io
prenderò la bandiera. Ma il
colonnello pagherà un riscatto di tre
o quattromila pistole, mentre la
bandiera è gloria e basta.»
«A me dunque la bandiera, e a voi
il colonnello» replicò Moret.
«Avanti, allora. Rullino i tamburi
e squillino le trombe!»
Il conte di Moret alzò la spada, i
tamburi rullarono, le trombe
squillarono la carica.
Latil prese con sé quattro uomini,
ognuno con un moschetto in mano e
pronto a passargli un’arma nuova
quando la prima, la seconda e anche
la terza fossero state scariche.
Al suono dei tamburi e delle
trombe francesi, la truppa savoiarda
era parsa animarsi. Il colonnello
Belon aveva pronunciato qualche
parola cui la truppa aveva risposto
con il grido «Viva Carlo Emanuele»
prima di muoversi all’attacco.
Le due truppe erano a cinquanta
passi l’una dall’altra; i savoiardi si
fermarono per aprire il fuoco.
«Adesso!» disse Latil. «Attento,
monsignore! Lasciamo che facciano
fuoco, poi voi rispondete e caricate
sulla bandiera.»
Latil non aveva ancora finito di
parlare che una grandinata di
proiettili passò come un uragano, ma
in gran parte sopra le teste dei nostri
soldati, che non si mossero.
«Tirate basso!» gridò Latil.
E dando l’esempio, mirando al
cavallo del colonnello, lasciò partire
il colpo proprio mentre il colonnello
mollava le redini per attaccare.
Il cavallo ricevette il proiettile alla
giuntura della spalla e, trascinato
dallo slancio che lo spingeva, rotolò
a venti passi dalle file francesi.
«A me il colonnello, a voi la
bandiera, monsignore!»
E si lanciò sul colonnello con la
spada alzata. I nostri soldati avevano
fatto fuoco e mirato basso, secondo
la raccomandazione di Latil: e tutti i
colpi erano andati a segno.
Il conte approfittò dello
scompiglio e si lanciò in mezzo ai
piemontesi.
Latil in pochi salti si era trovato
accanto al colonnello Belon,
imprigionato sotto il suo cavallo e
stordito dalla caduta. Gli mise la
spada alla gola.
«Vi arrendete?» gli domandò.
Il colonnello tentò di mettere
mano alla pistola.
«Un solo movimento, colonnello
Belon, e siete morto.»
«Mi arrendo» disse il colonnello,
tendendo la spada a Latil.
«Senza condizioni?»
«Senza condizioni.»
«Allora tenete la vostra spada,
colonnello. Non si disarma un
ufficiale coraggioso come voi. Ci
rivedremo dopo la battaglia. Se sarò
ucciso, voi sarete libero.»
Così dicendo, aiutò il colonnello a
togliersi da sotto il cavallo e, quando
lo vide rimesso in piedi, si lanciò fra
le file dei piemontesi.
Quanto Latil aveva previsto si
avverò: vedendo cadere il loro
colonnello e non sapendo se era
stato ucciso lui o il suo cavallo, i
soldati di Carlo Emanuele si erano
lasciati intimidire. Inoltre il conte
aveva attaccato con tale violenza che
le file gli si erano aperte davanti e
lui aveva facilmente raggiunto la
bandiera intorno alla quale pochi
coraggiosi savoiardi, piemontesi e
vallesani avevano ingaggiato un
accanito combattimento.
Latil si gettò dove la mischia era
più fitta gridando con voce tonante:
«Moret! Moret! Alla riscossa! Un
bel colpo di spada per il figlio di
Enrico IV!».
Fu il colpo di grazia per i nemici.
Il conte di Moret aveva afferrato la
bandiera con la mano sinistra e
abbatté con un colpo di spada chi la
portava. La levò alta sopra tutte le
teste gridando: «Vittoria alla
Francia! Viva re Luigi XIII!».
Nel fuggi fuggi generale, il grido
fu ripetuto dai pochi francesi rimasti
in piedi. La piccola truppa spedita
contro Moret si ritirava a gambe
levate, diminuita di un terzo.
«Non perdiamo neanche un
minuto, monsignore» disse Latil al
conte. «Inseguiamoli sparando,
dovessimo anche non ucciderne
nemmeno uno. È importante che
dalle trincee si senta che spariamo.»
E in effetti, come abbiamo visto,
era stato il rumore degli spari, udito
dalle trincee, a portare lo scompiglio
nelle loro difese.
Attaccati di fronte da
Montmorency, Bassompierre e
Créqui, da dietro dal conte di Moret
e da Latil, il duca di Savoia e suo
figlio temevano di essere circondati
e fatti prigionieri. Scesero alle
scuderie e, pur ordinando al conte di
Verrue una difesa all’ultimo sangue,
saltarono in sella e si lanciarono
fuori dalle trincee, ritrovandosi così
in mezzo ai soldati del colonnello
Belon che fuggivano
disordinatamente mentre i francesi
alle loro calcagna continuavano a
sparare.
Quei due cavalieri che cercavano
di raggiungere la montagna
attirarono l’attenzione di Latil che,
riconoscendo in loro personaggi di
rilievo, si lanciò in avanti per tagliar
loro la strada. Ma nel momento in
cui stava per afferrare il cavallo del
duca per le redini, fu come
abbagliato da un lampo e un dolore
gli trafisse la spalla sinistra.
Un ufficiale spagnolo al servizio
del duca di Savoia, vedendo che il
suo padrone stava per essere fatto
prigioniero, si era lanciato in avanti
e aveva trapassato la spalla di Latil
con la sua lunga spada.
Latil gettò un grido più di collera
che di dolore vedendo sfuggirgli la
sua preda e, spada alla mano, si
lanciò contro lo spagnolo.
Benché la sua spada fosse di sei
pollici più corta di quella
dell’avversario, non appena questa
lo toccò, Latil comprese che la sua
superiorità nelle armi metteva in suo
potere il nemico, che in capo a dieci
secondi cadde con due ferite in
corpo, gridando: «Mettetevi in
salvo, principe!».
A queste parole, Latil saltò al di là
del ferito e si lanciò
all’inseguimento dei due cavalieri,
che però, grazie ai loro piccoli
cavalli di montagna, avevano già
percorso abbastanza strada da
trovarsi fuori dalla sua portata.
Latil tornò indietro, furioso di
aver mancato una così bella preda.
Gli restava comunque lo spagnolo,
che, nell’impossibilità di difendersi,
si arrese senza condizioni.
Intanto nelle trincee regnava il
disordine. Il duca di Montmorency,
arrivato per primo sui bastioni, si era
fermato lì, e squartava a colpi
d’ascia chiunque cercasse di
avvicinarsi, aprendo il passaggio ai
soldati che lo seguivano.
Piemontesi, vallesani e savoiardi
si erano allora rovesciati come un
torrente fuori dalle posterle che si
aprivano sulla strada di Susa. Ma là
si erano imbattuti nel conte di
Moret, di cui avevano udito le
fucilate e le grida di «Viva re Luigi
XIII!». Ignorando le sue forze, non
cercarono nemmeno di combatterle
e fuggirono deviando davanti a ogni
gruppo di francesi come devia
l’acqua saltellante di un torrente
davanti a una roccia.
Il conte di Moret entrò nella
ridotta dalla parte opposta a quella
dove era entrato Montmorency. Si
incontrarono e, riconosciutisi, si
abbracciarono in mezzo ai nemici.
Poi, sempre abbracciati, si
avvicinarono ai merli agitando in
segno di vittoria l’uno la bandiera
francese che aveva piantato per
primo sulla parete della mezzaluna e
l’altro la bandiera savoiarda che
aveva conquistato. Salutando Luigi
XIII e abbassando davanti a lui i due
stendardi, gridarono insieme: «Viva
il re!».
Con quello stesso grido sulle
labbra, due anni più tardi, sarebbero
entrambi caduti. 1
«Che più nessuno entri nella
ridotta prima del re» ordinò il
cardinale.
Proprio mentre queste parole
venivano pronunciate, e come se le
avesse sentite, Latil varcava la
soglia.
Furono piazzate sentinelle a ogni
entrata. Montmorency e Moret
andarono personalmente ad aprire la
posterla di Gélasse al re e al
cardinale.
Entrarono entrambi a cavallo, con
il moschetto sulle ginocchia, a
significare che entravano da
conquistatori e che gli sconfitti,
presi d’assalto, dovevano attenersi
alle loro volontà.
Il re si rivolse dapprima al duca di
Montmorency.
«Conosco, signor duca» gli disse,
«l’oggetto della vostra ambizione e a
campagna conclusa provvederemo a
cambiare la vostra spada con una
che, se non sarà migliore quanto alla
tempra, essendo però decorata di
fiori di giglio d’oro vi darà la
precedenza anche sui marescialli di
Francia.»
Montmorency s’inchinò. La
promessa era formale e, lo abbiamo
visto, la spada di connestabile era la
sua sola ambizione.
«Sire» disse il conte di Moret
presentando al re la bandiera che
aveva tolto al reggimento di Belon,
«permettetemi di deporre ai piedi di
Vostra Maestà questo stendardo che
ho conquistato.»
«Lo accetto» disse Luigi XIII, «e
spero che in cambio vorrete portare
al vostro cappello questa piuma
bianca, in memoria di vostro fratello
che ve ne fa dono e di nostro padre
che a Ivry ne portava tre uguali.»
Il conte di Moret fece per baciare
la mano di Luigi XIII, ma il re gli
tese le braccia e lo strinse
cordialmente a sé.
Tolse poi dal cappello, che era
quello prestatogli da Montmorency,
una delle tre piume bianche del
pennacchio e la diede al conte di
Moret insieme alla fibbia di
diamanti che le tratteneva.
Lo stesso giorno, verso le cinque
di sera, re Luigi XIII fece il suo
ingresso a Susa, dopo aver ricevuto
dalle autorità le chiavi della città su
un piatto d’argento.

1 Dumas distorce la realtà storica. Unitisi


entrambi alla rivolta di Gaston d’Orléans contro
il cardinale di Richelieu, il conte di Moret, dopo
essere stato accusato di lesa maestà, morì
durante la battaglia di Castelnaudary il 1°
settembre 1632, mentre il duca Henri II de
Montmorency, catturato, venne decapitato il 30
ottobre dello stesso anno. Inoltre l’autore si
contraddice, avendo lui stesso affermato, nella
lettera al direttore delle «Nouvelles» (riportata
qui prima del testo del romanzo), che nessuno
sapeva che cosa fosse accaduto al conte di Moret
dopo la battaglia di Castelnaudary. [NdC]
XV
Che cosa pensa l’Angely
dei complimenti del duca di Savoia
Re Luigi XIII era pazzo di gioia. Per
la seconda volta in meno di un anno
si guadagnava il titolo di Vittorioso
e faceva un ingresso trionfale in una
città conquistata dalla forza delle sue
armi.
Tutto quello che il cardinale gli
aveva promesso si era dunque
avverato, l’ultima cosa
puntualmente quanto le altre, dato
che gli aveva promesso che il 7
marzo avrebbe dormito a Susa e ci
dormiva. Ma il cardinale, che
penetrava il segreto di ogni cosa e
che vedeva più in là del re, era meno
tranquillo di lui.
Sapeva – cosa che anche Luigi
XIII sapeva, ma che il successo della
giornata gli aveva fatto dimenticare
– che la battaglia aveva esaurito
quasi tutte le munizioni dell’armata.
Sapeva – cosa che il re non
sapeva – che l’esercito mancava di
viveri, e che il cattivo tempo e le
strade impervie non permettevano ai
commissari di farne arrivare.
Sapeva che gli spagnoli
premevano su Casale; che se il duca
di Savoia avesse proseguito nelle
ostilità e, cosa facile con la nostra
penuria di munizioni, ci avesse
trattenuto anche solo otto o dieci
giorni sulla via per Casale – ridotta
agli stremi malgrado l’eroismo di
Gurron che vi esercitava il comando
e la dedizione degli abitanti che si
erano uniti alla guarnigione per
difendere la città –, questa sarebbe
stata probabilmente costretta ad
aprire le porte agli spagnoli. Stando
alle ultime notizie da Casale, infatti,
dopo aver mangiato i cavalli, i cani e
i gatti, ci si era ridotti a dare la
caccia a quegli immondi animali che
si mangiano solo durante le peggiori
carestie.
Così, durante il ricevimento che
Luigi XIII aveva offerto a tutti i suoi
marescialli, generali e ufficiali di
alto grado, Richelieu si avvicinò al
re per domandargli se, concluso il
ricevimento, non sarebbe stato
troppo stanco per concedergli un
breve colloquio.
Il re, che sembrava allegro quasi
come il giorno in cui fece uccidere il
maresciallo d’Ancre, rispose:
«Poiché ogni volta che Vostra
Eminenza parla con me si tratta del
bene dello Stato e della gloria della
mia corona, sono e sarò sempre
pronto a darle l’udienza che mi
chiederà.»
Concluso il ricevimento, infatti, il
re, sazio di lodi, si recò dal
cardinale.
«E adesso a noi due, Mia
Eminenza!» disse sedendosi e
indicando al cardinale di imitarlo.
Il cardinale sedette, su ordine del
re e dopo il re.
«Parlate, vi ascolto» disse Luigi
XIII.
«Sire» disse il cardinale, «conto
che oggi Vostra Maestà abbia
ricevuto soddisfazione dell’ingiuria
che le era stata fatta e che il
desiderio di un’inutile gloria non la
spingerà a proseguire una guerra cui
una pace gloriosa può mettere
termine senza indugio.»
«In verità, mio caro cardinale, non
vi riconosco più: avete voluto la
guerra, contro tutti, e adesso che
abbiamo appena iniziato la
campagna proponete la pace.»
«Che cosa importa, Sire, che la
pace venga presto o tardi, se ci porta
tutti i vantaggi che volevamo?»
«Ma che cosa dirà l’Europa di
noi? Aver fatto tanto rumore e tante
minacce per fermarci dopo una sola
battaglia...»
«L’Europa dirà, Sire, e sarà la
verità, che quella battaglia è stata
tanto gloriosa e decisiva da bastare a
decidere da sola dell’esito di tutta la
campagna.»
«Comunque, per accordare la
pace, bisognerebbe che ce la
chiedessero.»
«È magnanimo che sia il vincitore
a proporla.»
«Come, signor cardinale, non
volete nemmeno aspettare che ce la
chiedano?»
«Sire, avete un ottimo pretesto per
fare il primo passo.»
«Quale?»
«Dite che lo fate in
considerazione della principessa
Christine, vostra sorella.»
«To’, è vero. Dimentico sempre
che ho una famiglia. È vero anche»
aggiunse il re con amarezza «che la
mia famiglia si premura di
ricordarmelo. Quindi voi
pensate?...»
«Penso, Sire, che la guerra sia una
crudele necessità e che, facendo
parte di una Chiesa che aborrisce il
sangue, sia mio dovere lasciarne
spargere il meno possibile. Ora,
Sire, dopo una giornata tanto
gloriosa, tutto vi è permesso, e il Dio
degli eserciti è anche il Dio della
misericordia e della clemenza.»
«Come pensate di presentare la
cosa a Sua Maestà il re delle
Marmotte?» domandò il re
ricorrendo al titolo di cui si era
servito Enrico IV dopo la conquista
della Bresse, del Bugey, del
Valromey e della contea di Gex.
«Semplicissimo, Sire, scriverò in
nome di Vostra Maestà al duca di
Savoia che gli concedete ancora di
scegliere fra la pace e la guerra; che,
se preferisce la guerra, continueremo
a sconfiggerlo come abbiamo fatto
oggi e come il vostro augusto padre
ha fatto in passato; se invece sceglie
la pace, tratteremo con lui sulle
stesse basi di prima della vittoria. Il
che significa che lui consentirà alle
truppe francesi di passare e
contribuirà con ogni suo potere a
soccorrere Casale offrendo viveri e
munizioni che il re pagherà al
prezzo delle ultime tre trattative; che
il duca di Savoia s’impegna per il
futuro a lasciar passare, in
qualunque zona del suo paese questo
possa accadere, le truppe e il
materiale bellico ritenuti necessari
alla difesa del Monferrato, nel caso
in cui il Monferrato fosse attaccato o
ci fossero valide ragioni per temere
un attacco; per essere sicuri che
questi ultimi due articoli siano
rispettati, il duca di Savoia rimetterà
la cittadella di Susa e il castello di
Gélasse nelle mani di Sua Maestà, e
vi sarà lasciata una guarnigione di
guardie svizzere al comando di un
ufficiale nominato da voi, Sire.»
«Ma lui, il savoiardo, ovviamente
chiederà qualcosa in cambio di tutto
questo.»
«Se volete, Sire, precederemo le
sue richieste. Offriremo di fargli
cedere dal duca di Mantova, come
risarcimento dei diritti della casa di
Savoia sul Monferrato, il possesso
della città di Trino con quindicimila
scudi d’oro di rendita.»
«Gliel’abbiamo già offerta, e ha
rifiutato.»
«Non eravamo a Susa, Sire, e
adesso ci siamo...»
«Grazie a voi, cosa che non
dimenticherò mai.»
«Quello che non si deve mai
dimenticare, Sire, non è la mia
indefettibile devozione a Vostra
Maestà, ma il coraggio dei bravi
soldati che si sono battuti sotto i
nostri occhi, il valore dei capi che li
hanno guidati nel combattimento.»
«Se mai avessi la disgrazia di
dimenticarlo, Vostra Eminenza me
lo farà ricordare.»
«Allora la mia proposta è
accettata?»
«E chi manderemo?»
«Non pare a Vostra Maestà che il
maresciallo di Bassompierre sia il
miglior ambasciatore che si possa
scegliere per una trattativa di questo
genere?»
«Certamente!»
«Ebbene, Sire, domani partirà per
mettere sotto gli occhi del duca
l’insieme del trattato. Quanto agli
articoli segreti...»
«Perché? ci saranno articoli
segreti?»
«Non esiste trattato che non abbia
articoli segreti. Saranno discussi
direttamente tra me e il duca o suo
figlio.»
«Allora tutto è deciso!»
«Sì, Sire, e tenete per certo che
entro tre giorni riceverete la visita
del principe vostro cognato o del
duca vostro zio.»
«È vero» disse il re, «anche loro
fanno parte della mia famiglia. Ma
hanno un grande merito rispetto agli
altri miei parenti: loro la guerra me
la fanno pubblicamente. Buona
notte, signor cardinale. Dovete
essere stanco e avete bisogno di un
buon sonno.»
Tre giorni dopo, come aveva
predetto il cardinale, Vittorio
Amedeo era a Susa e negoziava con
il cardinale di Richelieu, che ottenne
tutte le condizioni che aveva
sottoposto al re.
Quanto agli articoli segreti,
furono accettati al pari degli altri: il
duca di Savoia s’impegnava a far
entrare a Casale entro quattro giorni
mille carichi di granaglie, di
frumento e cinquecento di vino. Si
conveniva d’altra parte che, a
condizione che questi obblighi
fossero stati assolti, le truppe del re
di Francia non sarebbero avanzate
oltre Bussoleno, piccola piazza tra
Susa e Torino, cosa che Sua Maestà
concedeva dietro preghiera del
principe del Piemonte per dare agli
spagnoli il tempo di togliere
spontaneamente l’assedio da Casale.
Infine, in cambio della città di Trino,
Carlo Emanuele avrebbe restituito al
duca di Mantova Alba e Moncalvo,
di cui si era impadronito.
Una settimana dopo la
conclusione del trattato, don
Gonzalo di Cordoba toglieva
spontaneamente l’assedio da Casale
e l’onore castigliano era salvo.
Il 31 marzo e il 1° aprile il trattato
fu ratificato dal duca di Savoia e da
re Luigi XIII.
È vero che quel trattato avrebbe
fatto la stessa fine di quelli del duca
di Lorena.
Un giorno Guglielmo III
raccontava che, parlando con
Charles IV duca di Lorena della
buonafede che ognuno dei contraenti
doveva impegnare nell’esecuzione
di un trattato, quel principe gli aveva
risposto ridendo:
«Vi fidate di un trattato, voi?»
«Ma sì» rispose ingenuamente
Sua Maestà britannica.
«Ebbene» replicò il duca Charles,
«quando ne avrete voglia, aprirò per
voi uno scrigno pieno di trattati che
ho sottoscritto senza che nemmeno a
uno sia mai stato dato seguito!»
Ora, nel suo scrigno Carlo
Emanuele ne aveva quasi altrettanti
e questo era solamente uno in più da
aggiungervi, con la ferma intenzione
di non farne nulla, come per gli altri.
Questo non impedì che manifestasse
il più vivo desiderio di abbracciare
suo nipote Luigi XIII, cosicché si
stabilì che un incontro avrebbe avuto
luogo tra il duca e il re.
Inizialmente, subito dopo il
trattato, furono il principe del
Piemonte e il duca 1 di Savoia a
recarsi dal re: Vittorio Amedeo
portava con sé la moglie, la
principessa Christine, sorella del re.
Luigi XIII rese alla sua cara sorella
tutti gli onori possibili e ogni
possibile manifestazione d’affetto,
evidentemente felice di mostrare che
preferiva la principessa di Piemonte,
che gli aveva appena mosso guerra
aperta, alla regina d’Inghilterra e a
quella di Spagna che, per il
momento, si accontentavano di
cospirare nascostamente contro di
lui.
Il duca di Savoia comparve per
ultimo e fu ricevuto a braccia aperte
da suo nipote Luigi XIII che quello
stesso giorno decise di fargli una
sorpresa restituendogli la visita,
come si fa tra privati cittadini; ma
Carlo Emanuele, avvertito in tempo,
scese in tutta fretta le scale e lo
aspettò sulla soglia.
«Caro zio» disse Luigi XIII
abbracciandolo, «avrei voluto
arrivare fino in camera vostra senza
che lo sapeste!»
«Avete dimenticato, caro nipote»
rispose il duca, «che non ci si
nasconde tanto facilmente quando si
è re di Francia.»
Il re salì le scale accanto a lui. Ma
per arrivare alle sue stanze, dovette
passare, insieme ai cortigiani e agli
ufficiali di alto grado, attraverso una
galleria pericolante.
«Affrettiamoci, zio» disse il re.
«Non so se siamo al sicuro, qui.»
«Ahimè, Sire» rispose il duca,
«mi accorgo di quanto tutto tremi
davanti a Vostra Maestà, così come
tutto le si sottomette.»
«Allora, buffone» disse il re,
raggiante, rivolgendosi all’Angely,
«che cosa pensi dei complimenti di
mio zio?»
«Non è a me che dovete
domandarlo» rispose l’Angely.
«E a chi, allora?»
«Ai due o tremila imbecilli che si
sono fatti uccidere perché lui ce li
facesse!»

1 Correggiamo qui la lezione «cardinal»


dell’edizione francese, chiaramente erronea.
[NdT]
XVI
Un capitolo di storia
Nella sua risposta al re, l’Angely
aveva ammirevolmente riassunto la
situazione.
Dopo ogni guerra, per quanto
lunga sia, persino dopo la guerra dei
Trent’anni, si firma una pace e, una
volta firmata la pace, i re si
abbracciano senza che si faccia
minimamente cenno alle migliaia di
uomini che, sacrificati a momentanei
diverbi, marciscono sui campi di
battaglia, alle migliaia di vedove in
lacrime, alle migliaia di madri che si
torcono le mani, alle migliaia di figli
che portano il lutto.
È vero che, grazie alla
“buonafede” di Carlo Emanuele, si
poteva essere certi che quella nuova
pace si sarebbe interrotta alla prima
occasione trovata dal duca di Savoia
per interromperla con qualche
vantaggio.
Un paio di mesi trascorsero in
festeggiamenti durante i quali il
duca mandò i suoi emissari a Vienna
e a Madrid.
A Vienna il suo ambasciatore era
incaricato di riferire che la violenza
fatta a lui a Susa da Luigi XIII era
meno vergognosa e meno
pregiudizievole di quella fatta a
Ferdinando, visto che lui, il duca di
Savoia, aveva disputato il passaggio
al re di Francia soltanto per
sostenere i diritti dell’Impero in
Italia; che il soccorso portato dalla
Francia agli abitanti di Casale era un
attentato manifesto all’autorità
dell’imperatore – essendo la piazza
assediata dagli spagnoli al solo
scopo di obbligare il duca di Nevers,
insediato malgrado l’imperatore in
un feudo dell’Impero, a rendere
l’obbedienza legittimamente dovuta
a Sua Maestà Imperiale.
A Madrid il suo ambasciatore era
incaricato di far comprendere a re
Filippo IV e al conte duca suo primo
ministro che l’affronto fatto alle
armi spagnole davanti a Casale, se
fosse rimasto impunito, avrebbe
ridicolizzato in Italia l’autorità di
Sua Maestà Cattolica; che il re di
Francia, spinto da Richelieu,
meditava di cacciare gli spagnoli da
Milano; e che il governo di Madrid,
una volta cacciato da Milano,
doveva aspettarsi che gli spagnoli
non sarebbero rimasti a lungo
nemmeno a Napoli.
Da parte loro, Filippo IV e
Ferdinando si scambiavano emissari.
Ed ecco che cosa venivano
decidendo tra loro.
L’imperatore avrebbe chiesto ai
cantoni svizzeri un passaggio per le
sue truppe. Se i Grigioni si fossero
rifiutati, li avrebbero colti di
sorpresa e avrebbero marciato
direttamente su Mantova.
Il re di Spagna richiamava don
Gonzalo di Cordoba e metteva al
suo posto, a capo delle armate
spagnole in Italia, il famoso
Ambrogio Spinola con l’ordine di
assediare e riprendere Casale,
mentre l’esercito imperiale avrebbe
assediato e ripreso Mantova.
L’effetto morale di quella
campagna francese conclusa in
pochi giorni era stato enorme: colse
l’Europa di sorpresa e fece grande
onore a re Luigi XIII, l’unico di tutti
i sovrani, insieme a Gustavo Adolfo,
che uscisse dal suo palazzo con la
spada al fianco e dal suo regno con
la spada in mano.
Ferdinando II e Filippo IV
portavano la guerra ovunque,
sempre e con ferocia – ma lo
facevano rimanendo sul loro
inginocchiatoio.
Se il re e la sua armata fossero
potuti rimanere in Piemonte, tutto
sarebbe andato bene; ma il cardinale
si era impegnato a rimettere al loro
posto i protestanti prima dell’estate e
quindicimila protestanti avevano
approfittato dell’assenza del re e del
cardinale per riunirsi sotto il
comando del duca di Rohan, in
Languedoc.
Il re si accomiatò dal “suo caro
zio” il duca di Savoia, ancora
all’oscuro di tutti gli intrighi che
questo aveva tramato proprio
durante il suo soggiorno in
Piemonte. Il 22 aprile rientrava in
Francia, passando da Briançon, Gap,
Châtillon, e marciava su Privas.
Evitò Lione, da cui le due regine
erano ben presto fuggite per via
della peste. Quanto a Monsieur, ci
pare di avere già detto come, nel suo
scontento, avesse lasciato non solo
Parigi, ma la Francia, accettando
l’ospitalità offerta dal duca Charles
IV di Lorena nella città di Nancy.
Lasciando la Francia, aveva
abbandonato le sue pretese sulla
principessa Maria e si era
nuovamente rivolto verso
Marguerite, sorella del duca.
Braccato da quarantamila uomini
guidati da tre marescialli di Francia
e da Montmorency, di cui Richelieu
disponeva come voleva facendogli
balenare davanti la spada di
connestabile, Rohan finì con il fare,
lui, capo protestante, lo stesso errore
che avevano commesso il secolo
precedente i capi cattolici.
Strinse con la Spagna, sua
personale nemica mortale e nemica
mortale della Francia, un patto di
denaro che la Spagna non mantenne.
Privas, sua ultima piazzaforte, finì
con l’essere presa, un terzo degli
abitanti fu impiccato; e non solo gli
impiccati, ma tutti i ribelli furono
spogliati dei loro beni.
Infine, il 24 giugno 1629, in vista
di una nuova campagna in Italia,
dove le cose cominciavano a
complicarsi, si firmò una pace la cui
condizione principale fu che si
smantellassero tutte le città
protestanti.
Davanti a Privas avevano avuto
notizia che Ferdinando voleva far
scendere delle truppe in Italia; si
diceva che Wallenstein stesso
contasse di attraversare le Alpi
grigionesi con cinquantamila
uomini.
Si seppe infine che il 5 giugno
Ferdinando aveva dichiarato che le
sue truppe avrebbero marciato
sull’Italia non per portarvi la guerra,
ma per mantenervi la pace,
salvaguardando la legittima autorità
dell’imperatore e difendendo i feudi
imperiali di cui gli stranieri
pretendevano di disporre in spregio
ai suoi diritti.
In quella stessa dichiarazione
Ferdinando faceva amichevole
istanza al serenissimo re di Spagna,
in quanto possessore del feudo
imperiale più importante in territorio
italiano, perché provvedesse le
truppe imperiali dei viveri e delle
munizioni necessari.
Così in Italia era tutto da rifare.
Disgraziatamente, Luigi non era e
non sarebbe stato pronto per una
guerra oltre i confini prima di cinque
o sei mesi.
Per mancanza di denaro, dopo
Privas Richelieu era stato costretto a
sciogliere trenta reggimenti.
Monsieur de Sabran fu mandato
alla corte di Vienna per chiedere
all’imperatore quale fosse il suo
ultimatum.
Dall’altra parte, monsieur de
Créqui fu inviato a Torino per
invitare i Savoia a spiegarsi con
franchezza e a dichiarare quale
bandiera avrebbero inalberato in
caso di guerra.
L’imperatore rispose:
Il re di Francia è sceso in Italia con un
potente esercito senza alcuna
dichiarazione di guerra né alla Spagna né
all’Impero e, con le armi e le trattative, si
è impadronito di alcune località
sottomesse alla giurisdizione imperiale.
Che il re di Francia ritiri dall’Italia le sue
truppe, e l’imperatore concederà che la
vicenda sia giudicata sulla base del diritto
comune.
Il duca di Savoia rispose:
Il movimento degli imperiali attraverso
i Grigioni non ha nulla a che vedere con
quanto si è stabilito nel trattato di Susa.
Ma il re di Spagna auspica che i francesi
escano dall’Italia e che Susa venga
prontamente restituita.
Se re Luigi acconsente a dare
soddisfazione in questo senso a suo
cognato Filippo IV, il duca di Savoia
otterrà dall’imperatore Ferdinando il ritiro
delle sue truppe dai Grigioni.

Monsieur de Créqui trasmise tale


risposta al re che la passò al
cardinale incaricandolo di
rispondere. Il cardinale rispose:
Dite al duca di Savoia che si tratta di
sapere non che cosa desiderino
l’imperatore e il re di Spagna, bensì,
puramente e semplicemente, se Sua
Altezza intenda mantenere la parola data
di unire le sue truppe a quelle del re per
far fede al trattato di Susa.

Il re rientrò a Parigi furioso contro


Monsieur suo fratello, di cui
intendeva confiscare le proprietà.
Ma la regina madre tanto fece che
rappacificò i due fratelli e Monsieur,
che come sempre aveva fatto atto di
umile sottomissione al re, pose
condizioni al proprio ritorno e,
invece di perderci con la sua fuga,
guadagnò il ducato di Valois, un
aumento annuo della sua pensione di
centomila lire, il governo di Orléans,
di Blois, di Vendôme, di Chartres, il
castello di Amboise, il comando
dell’armata in Champagne e la
carica di luogotenente generale, in
caso di assenza del re, a Parigi e
nelle province vicine.
Inoltre faceva questa curiosa
riserva:
Rappacificandosi con il re, Monsieur
non s’impegna a dimenticare gli oltraggi
del cardinale di Richelieu, oltraggi di cui
prima o poi lo punirà.

Il cardinale venne a conoscenza di


questo accordo quando era troppo
tardi per impedirlo. Si recò dal re e
gli mise il trattato sotto gli occhi.
Luigi abbassò il capo, ben
comprendendo tutta l’ingratitudine
di cui dava prova con la debolezza
di cedere alle istanze del fratello.
«Se Vostra Maestà fa questo per i
suoi nemici» osservò il cardinale,
«che cosa farà per l’uomo che gli ha
dimostrato di essere il suo migliore
amico?»
«Tutto quanto quell’uomo gli
chiederà, se siete voi quell’uomo.»
E in effetti lo nominò seduta
stante vicario generale in Italia e
generalissimo di tutte le sue armate.
Appena venuta a conoscenza di
queste concessioni fatte al suo
nemico, Maria de’ Medici accorse e,
sapute le cariche affidate al
cardinale:
«E a noi, Sire» domandò al figlio
con un sorriso beffardo, «quali diritti
riservate?»
«Quello di guarire gli scrofolosi»
rispose l’Angely, che era presente
alla discussione.
Mettendo in opera sforzi inauditi
con ammirevole energia, il cardinale
improvvisò una nuova campagna.
Ma c’era un nemico a sbarrare la
via per il Piemonte e a opporre
all’armata un baratro nel quale metà
di essa sarebbe precipitata.
Quell’ostacolo era la peste –
quella peste che aveva costretto le
due regine a tornare a Parigi e il re a
passare da Briançon.
Era passata da Milano – è la
stessa descritta da Manzoni nei
Promessi sposi – a Lione, dove
infuriava orribilmente. Si diceva che
fosse arrivata da Oltralpe al seguito
dei soldati; scoppiò alle porte di
Lione, nel villaggio di Vaux, intorno
al quale si stabilì un cordone
sanitario. Ma, come tutti i flagelli, la
peste ha per alleati le peggiori
passioni umane. Quello della peste
fu la cupidigia. Degli stracci di
appestati, fatti entrare di frodo in
città e venduti presso la chiesa di
Saint-Nizier, portarono il contagio
nel cuore di Lione.
Erano gli ultimi giorni di
settembre. A veder cadere come
colpiti dal fulmine gli operai nei
popolosi quartieri di Saint-Nizier, di
Saint-Jean e di Saint-Georges, si
sarebbe creduto a una beffa della
natura. Il tempo era magnifico; mai
sole più splendente aveva illuminato
un cielo più sereno; mai l’aria era
stata tanto dolce e pura; mai
vegetazione più lussureggiante
aveva ricoperto i meravigliosi
paesaggi del territorio di Lione.
Nessuno sbalzo improvviso di
temperatura, nessun calore
eccessivo, niente temporali, nessuna
di quelle intemperie atmosferiche
cui si attribuisce tanta influenza
sulla comparsa di malattie
contagiose. Radiosa e sorridente, la
natura guardava la corruzione e la
morte bussare alla porta delle case.
Del resto c’era davvero da
perderci la testa, tanto il flagello era
bizzarro e capriccioso: risparmiava
un lato di una via e infuriava
nell’altro. Un isolato rimaneva illeso
e le case che lo circondavano
venivano tutte visitate e listate a
lutto dalla sinistra ospite. Passava
oltre i quartieri infetti e
sovrappopolati della città vecchia e
attaccava place de Bellecour e place
des Terreaux, i quais, i quartieri più
belli, quelli più aperti all’aria e alla
luce. Tutta la zona più bassa della
città fu devastata.
Si fermò non si sa perché verso
rue Neyret, all’altezza di una casetta
sulla cui facciata rimase a lungo una
piccola statua con l’iscrizione latina

Eius praesidio non ultra pestis 1628. 1

Alla Croix-Rousse non ci fu un


solo appestato.
Poi, come se la peste non
bastasse, colpendo la terra essa ne
fece uscire il crimine. Come a
Marsiglia nel 1720, come a Parigi
nel 1832, il popolo, sempre
diffidente e credulone, gridò
all’avvelenamento. Non si trattava,
come a Parigi, di malfattori che
insudiciavano l’acqua delle fontane;
non, come a Marsiglia, di forzati che
inquinavano l’acqua del porto. No, a
Lione erano gli untori che
sfregavano con un unguento mortale
i picchiotti delle porte. Erano stati i
medici, si diceva, a creare questa
pestilenziale pomata.
Padre Grillot, un gesuita, ha visto
gli untori e il loro unguento.
«Hanno cominciato» disse «verso
la metà di settembre a ungere le
porte. Il sagrestano della chiesa dei
gesuiti trovò dietro un banco una
palla di questo unguento; lo ha fatto
bruciare, ma il fumo era talmente
fetido che si è sotterrato in fretta e
furia il veleno avanzato.»
Il bel libro di Montfalcon, da cui
traiamo questi particolari, non dice
se padre Grillot poté dare
l’assoluzione a coloro che queste
poche righe fecero assassinare; ma il
giorno dopo un poveretto che
portava una candela accesa il cui
sego gli colava sui vestiti fu lapidato
dalla popolazione; un medico che
voleva far assumere una pozione
calmante a un suo paziente della
Guillotière, sospettato di
somministrargli un veleno, dovette
bere la pozione per scampare alla
morte.
Qualunque passante sconosciuto
che accostasse per sbaglio la mano
al picchiotto di una porta veniva
aggredito dalle urla: «Nel Rodano
l’avvelenatore!».
Quando scoppiò la peste di
Marsiglia, Chirac, medico del
reggente, consultato dagli scabini
della città, rispose: «Cercate di stare
allegri!».
Non era facile stare allegri,
soprattutto a Lione, dove per prima
cosa preti e monaci, perché fosse
ben chiaro che non c’era speranza,
dichiararono che il flagello era
semplicemente il segno della collera
divina. A partire da quel momento,
per la gente semplice la peste non fu
più un’epidemia da cui si poteva
guarire, ma l’angelo sterminatore
dalla spada fiammeggiante al quale
nessuno aveva la possibilità di
sfuggire.
E del resto lo sanno tutti; i nostri
medici, di ritorno dall’Egitto, lo
hanno constatato: la peste ha le sue
preferenze, sceglie i deboli,
predilige quelli che hanno paura.
Temere la peste è come averla già. E
come non temerla, quando si
vedevano due frati minori incaricati
dell’espiazione generale portare a
Notre-Dame-de-Lorette una
lampada d’argento con incisi i nomi
degli scabini? Come non aver paura
quando ovunque si sentivano i
monaci annunciare nelle loro
prediche la fine del mondo, quando
nelle vie, in mezzo alle piazze, agli
angoli delle strade, si innalzavano,
facendoli più alti possibile, altari
improvvisati dall’alto dei quali si
vedevano e udivano i preti benedire
la città agonizzante? Quando un
prete o un monaco passava per
strada, i popolani s’inginocchiavano
al suo passaggio e chiedevano
l’assoluzione; molti cadevano prima
di averla ricevuta. La città era invasa
da penitenti coperti da un sacco
sporco di cenere, con una corda
attorno alle reni e una torcia accesa
in mano. E quando li incontravano,
senza nemmeno sapere se fossero o
no consacrati, senza preoccuparsi se
avessero il potere di assolvere,
moribondi appoggiati ai muri per
sostenersi in piedi, o coricati a terra,
sollevati sui gomiti, gridavano la
loro confessione, preferendo salvarsi
l’anima che l’onore.
Si comprese allora quanto
facilmente si spezzano i legami
naturali stretti tra le mani del terrore.
Niente più amicizia, niente più
amore. I parenti più stretti si
evitavano, la moglie abbandonava il
marito, i padri e le madri i loro figli,
le donne più caste perdevano ogni
pudore e si offrivano a chiunque le
volesse prendere. Una raccontava,
con un riso folle, di aver cucito nel
sudario i suoi quattro figli, suo
padre, sua madre e suo marito.
Un’altra aveva cambiato sposo sei
volte e in sei mesi sei volte era
rimasta vedova. La maggior parte
degli abitanti restava chiusa in casa,
le orecchie tese, gli occhi spalancati
dalla paura, a guardare i passanti da
dietro i vetri delle finestre, dove
apparivano come pallidi spettri, o
attraverso le fessure delle persiane e
delle porte dei negozi. Per le vie, rari
passanti; chi era costretto a uscire,
andava di corsa, scambiando poche
parole senza fermarsi con quelli che
incontrava; coloro che dai dintorni
di Lione dovevano per forza entrare
in città ci andavano a cavallo e
passavano al galoppo, avvolti in
mantelli che lasciavano scoperti solo
gli occhi. I più funerei e spaventosi
erano i medici, nella strana uniforme
che si erano inventati: stretti in una
tela cerata, issati su dei pattini, con
la bocca e il naso coperti da un
fazzoletto imbevuto d’aceto, in
tempi normali avrebbero suscitato il
riso; in quei tempi di morte
incutevano spavento.
In capo a una settimana, del resto,
la città era spopolata più dalle fughe
che dalla morte. Spariti i ricchi, e
dunque sparito il denaro; spariti i
giudici, e dunque spariti i tribunali.
Le donne partorivano da sole: le
levatrici erano scappate, e i medici
erano tutti alle prese con la peste.
Nei laboratori vuoti non si udivano
più rumori, più canti di operai al
lavoro, più grida nelle vie. Ovunque
l’immobilità, il silenzio della morte,
interrotto e reso più funereo dal
rumore del campanello attaccato alle
lunghe file di carrette che
trasportavano i cadaveri e dal suono
della grande campana di Saint-Jean
che suonava a ogni mezzogiorno.
Quei due lugubri suoni esercitavano
un’influenza funesta soprattutto sui
nervi delle donne: alcune, l’aria
cupa, le reni spezzate, con un rosario
in mano, facevano risuonare l’aria
delle loro grida; altre caddero,
morte, come colpite dal fulmine, al
rumore di quel campanello attaccato
alle carrette. Altre ancora al rintocco
della torre campanaria furono prese
da un tale spavento che, rientrate a
casa, si ammalarono e morirono.
Una donna in preda alla frenesia si
gettò dentro un pozzo, una ragazza,
cacciata di casa, si buttò nel Rodano.
C’erano tre misure da prendere, e
furono prese: mettere in isolamento
in casa loro gli ammalati ricchi,
trasportare quelli poveri negli
ospedali, portare via i cadaveri.
Ce ne fu una quarta, che si
dovette prendere prima ancora di
avere il tempo di mettere in atto le
altre tre: si doveva fare giustizia dei
miserabili che, con il pretesto di
curare i moribondi o di portare via i
cadaveri, si introducevano nelle
case, svaligiavano i mobili,
spezzavano le serrature degli scrigni,
strappavano gioielli e anelli ai
morenti.
Furono eretti patiboli in ogni
punto della città: i ladri colti in
flagranza di reato vi venivano portati
e impiccati immediatamente.
Per mettere in isolamento gli
ammalati, si muravano le porte, e
cibo e medicine venivano passati
dalla finestra.
Gli ospedali non bastavano; se ne
improvvisò uno per la quarantena
sulla riva destra della Saône.
Purtroppo non conteneva che
duecento letti; vi furono ammassati
quattromila ammalati. C’erano
appestati ovunque, non solamente
nelle sale, ma nei corridoi, nelle
cantine, nei solai. Si scostavano due
morti per avere lo spazio di coricare
un moribondo. I medici e gli
inservienti dovevano stare attenti a
dove mettevano i piedi. Fra i
cadaveri irrigiditi, immobili, che si
putrefacevano rapidamente, si
vedevano agitarsi i moribondi
divorati da una sete bruciante, che
chiedevano acqua a gran voce; altri
in un ultimo sussulto di agonia si
alzavano dal loro materasso, dalla
paglia o dal nudo pavimento su cui
erano distesi, il volto terreo, le orbite
incavate, gli occhi spenti e iniettati
di sangue, sbattevano le braccia
rantolando, emettevano un gemito
profondo e cadevano morti. Altri,
ancor più esasperati, si slanciavano
in avanti come per sfuggire a una
visione e inciampavano sui loro
vicini, trascinando dietro di sé il
lenzuolo che sarebbe stato il loro
sudario.
Eppure quell’ospizio spaventoso
era invidiato dai disgraziati che
morivano all’angolo delle vie e sul
bordo dei fossi.
Tutti i miserabili e la gente senza
scrupoli furono arruolati come
becchini. Si davano loro tre lire al
giorno, e si guardava altrove quando
frugavano nelle tasche dei cadaveri.
Avevano uncini di ferro con i quali
prendevano i morti per
ammucchiarli sulle carrette. Dal
primo piano e da quelli superiori, li
buttavano dalle finestre. Venivano
tutti sepolti in grandi fosse, che però
ben presto furono stracolme,
cominciarono a fermentare e a
vomitare marciume umano, come
vulcani che eruttano fuoco.
Un vecchio, un certo padre
Raynard, aveva visto morire tutta la
sua famiglia ed era rimasto solo.
Sentendosi preda del contagio,
spaventato dalle fosse comuni,
sapendo di non avere nessuno che lo
curasse, lo aiutasse a morire e gli
desse una sepoltura cristiana, prese
una vanga e una zappetta, deciso a
usare le sue ultime forze per scavarsi
una tomba. Terminato il lavoro,
piantò a un’estremità della fossa la
vanga, vi attaccò la zappetta a
formare una croce e si coricò sul
bordo, contando che un’ultima
convulsione lo facesse rotolare nello
scavo e che la pietà di un passante lo
ricoprisse di terra.
La cosa terribile nell’agonia di
tutta una popolazione era l’ilarità, la
gioia, l’allegria degli uomini
incaricati di raccogliere i morti,
battezzati con il nome significativo
di corvi. Erano i compagnoni della
morte, i cugini della peste. Le
facevano festa, la invitavano a
colpire le case risparmiate e a
rimanere a lungo ospite della città.
Si concedevano orribili piaceri del
genere di quelli che vanta il
marchese di Sade e che si prese il
carnefice di Maria Stuarda; e li si
vedeva, quando la moribonda era
bella, celebrare l’infame
accoppiamento della vita e della
morte.
Portata a Lione, come abbiamo
detto, nel mese di settembre, per
trentacinque giorni aumentò di
violenza, poi per due mesi restò
stabile. La si credette finita e si
festeggiò la sua partenza con grida e
fuochi di gioia.
La peste se ne risentì e approfittò
di uno sbalzo di temperatura per
tornare; cadde una gran pioggia che
riportò la peste e spense i fuochi.
Imperversò nuovamente con tutta
la sua forza in gennaio e febbraio,
poi in primavera diminuì, riapparve
in agosto e in dicembre sparì.
Era durata poco più di un anno e
aveva ucciso seimila persone. 2
L’arcivescovo Charles Miron era
morto fra i primi, il 6 agosto 1628, e
gli era succeduto l’arcivescovo di
Aix, Alphonse de Richelieu, fratello
del cardinale.
Il cardinale si rivolse quindi a suo
fratello per sapere se fosse possibile
tentare una seconda campagna
contro il Piemonte e fare attraversare
senza pericolo Lione e il suo
territorio da trentamila uomini.
L’arcivescovo rispose che le
condizioni sanitarie erano eccellenti
e che non sarebbero mancate case
vuote per alloggiare la corte se la
corte avesse voluto, come la prima
volta, seguire l’esercito.
Il giorno stesso in cui ricevette
questa risposta, il cardinale spedì
Pontis a Mantova per avvertire il
duca del soccorso che si
accingevano a portargli.
Pontis avrebbe dovuto mettersi a
disposizione del duca Charles de
Nevers per eseguire i lavori di difesa
della piazza.
1 La peste del 1628 si è fermata a questo
sbarramento. [NdT]
2 In realtà, secondo documenti dell’epoca, la
peste di Lione causò fra i quindici e i ventimila
morti. [NdC]
XVII
Un anno dopo
Circa un anno era dunque trascorso
da quando Richelieu aveva lasciato
il Piemonte, fidandosi del trattato di
Susa o fingendo di fidarsene, perché
era costretto ad andare a combattere
i protestanti del Languedoc. Come
aveva promesso a Luigi XIII, in
quell’anno aveva annientato le
speranze dei protestanti, già
crudelmente colpite alla Rochelle;
aveva riorganizzato un esercito, fatto
rientrare del denaro nelle casse dello
Stato, firmato il suo famoso trattato
con Gustavo Adolfo, sconfiggendo i
protestanti in Francia con i cattolici
e preparandosi a sconfiggere i
cattolici in Germania con i
protestanti; aveva inviato alla Dieta
di Soleure il maresciallo di
Bassompierre, colonnello generale
delle guardie svizzere, per
lamentarsi del passaggio dei
tedeschi attraverso i Grigioni,
opporvisi se era possibile e trovare
altri cinque o seimila ausiliari
svizzeri.
Infine, nell’impossibilità di
sostenere efficacemente Mantova, le
aveva però mandato dalla Francia il
suo miglior ingegnere, Pontis, e da
Venezia il maresciallo d’Estrées.
Poi, finita la peste di Lione, si era
rimesso in marcia con il suo
esercito; come abbiamo detto, un
anno dopo aver forzato il passo di
Susa e imposto la pace a Carlo
Emanuele, si ritrovava esattamente
allo stesso punto, ma, con il passo di
Susa conquistato e la cittadella di
Gélasse in mano ai francesi, il
Piemonte era aperto per lui e poteva
più facilmente andare in soccorso
del marchese di Thoyras assediato
dentro Casale da Spinola, che era
succeduto a don Gonzalo di Cordoba
al comando delle truppe spagnole.
Questa volta il cardinale, più o
meno sicuro del re, grazie alle prove
di tradimento che aveva
faticosamente raccolto contro Maria
de’ Medici, Anna d’Austria e
Monsieur, non aveva ritenuto
opportuno portare con sé Luigi XIII;
del resto, il suo amor proprio si
lusingava prima di tutto di iniziare la
campagna, che non dubitava si
dovesse nuovamente intraprendere;
poi di mettere a segno in assenza del
re qualche colpo particolarmente
difficile la cui gloria ricadesse per
intero su di lui. Tutti gli uomini di
genio hanno una debolezza;
Richelieu ne aveva due: voleva
essere non solo un grande ministro –
cosa che nessuno gli contestava –
ma anche un grande generale – cosa
che gli contestavano Créqui,
Bassompierre, Montmorency,
Schomberg, il duca di Guise,
insomma tutti gli uomini d’arme – e
un grande poeta – cosa che, a più
giusto titolo, gli contestarono i
posteri.
Il cardinale era quindi a Susa
verso l’inizio di marzo 1630, intento
a negoziare a colpi di ambasciatori e
inviati straordinari con
l’inafferrabile proteo che era Carlo
Emanuele, serpente incoronato che
da cinquant’anni scivolava con pari
destrezza fra le mani dei re di
Francia e di Spagna nonché degli
imperatori.
Il cardinale aveva già speso più di
un mese in negoziati inconcludenti,
portando pazienza per non rischiare
che il duca di Savoia gli impedisse
di rifornire di viveri e munizioni
Casale, che cominciava a
scarseggiarne. Il duca di Savoia non
era abbastanza forte da resistere alla
Francia senza l’appoggio della
Spagna o dell’Austria. Ma la Spagna
già lo appoggiava nel Milanese; e
l’Austria lo avrebbe appoggiato con
le truppe di Wallenstein che stava
facendo passare dai Grigioni. E
forse poteva ostacolare il passaggio
attraverso il Monferrato con
maggior fortuna di quanta ne avesse
avuta disputando a Luigi XIII e al
cardinale il passo di Susa.
Spazientito da tutti quegli indugi,
Richelieu chiamò il duca di
Montmorency e, rivolgendoglisi con
franchezza:
«Signor duca» gli disse, «sapete
quanto è stato convenuto fra noi:
finita la campagna d’Italia, la spada
di connestabile è vostra. Ma vedete
anche voi che la campagna d’Italia
finirà solamente quando si sarà
conclusa una pace solida, che metta
al sicuro Mantova e il duca di
Nevers. Ora, la guerra dell’anno
passato non è stata che una
scaramuccia in confronto a questa,
soprattutto se non convinciamo il
duca Charles a mettersi dalla nostra
parte. E non ne verremo a capo
trattando per intermediari o
corrispondenti. Andate a Torino, la
situazione fra noi e il duca di Savoia
non si è ancora tanto deteriorata che
voi non vi possiate fare un viaggio
di piacere. Le dame della corte del
duca di Savoia sono belle; voi siete
galante, signor duca, e non credo di
agire da tiranno nei vostri confronti,
imponendovi questo viaggio di
piacere. Lasciatemi inoltre affrontare
la parte delicata della questione con
la franchezza che è d’obbligo fra
due uomini come noi. Per via di
vostra moglie, voi siete imparentato
con la regina Maria. Come molti,
siete stato devoto alla regina Anna, e
lo siete stato in modo da non rendere
diffidente il re, ma abbastanza
perché i suoi nemici debbano avere
una certa fiducia in voi: approfittate
della posizione eccellente che vi
hanno procurato tanto il vostro
rango quanto le circostanze della
vita e, in mezzo alle feste e ai
piaceri, organizzate un incontro
personale fra il duca di Savoia e me,
o per lo meno fra suo figlio e me.
Nel frattempo io, che non sarò
distratto dalla bellezza delle dame e
dalla musica, mi darò da fare per
indagare ogni punto dell’orizzonte e
al vostro ritorno, mio caro duca, a
seconda della vostra risposta,
prenderemo una decisione;
solamente, quando tornate, cercate
di riportare fra le pieghe del vostro
mantello la pace o la guerra.»
Era una di quelle missioni che il
fastoso, elegante e bel duca di
Montmorency prediligeva. Aveva
sposato la figlia del duca di
Bracciano, cioè di quel Vittorio
Orsini che era stato l’amante di
Maria de’ Medici prima del suo
matrimonio, e forse anche dopo,
cosicché, se le voci che circolavano
intorno alla nascita di Luigi XIII
erano vere, Montmorency si
ritrovava a essere cognato del re. Era
stato, è vero, devoto alla regina
Anna, ma Buckingham si era
frapposto a quell’amore nascente; ed
è risaputo che il fortunato
ambasciatore di Carlo I, lasciando
tutte le sue perle sui pavimenti del
Louvre, aveva trovato nei giardini di
Amiens la perla più preziosa: un
cuore innamorato. Un uomo come il
duca di Montmorency non avrebbe
insomma dovuto ispirare alcuna
diffidenza alla corte del duca di
Savoia, se non nei mariti delle belle
piemontesi.
Il duca accettò dunque
l’ambasciata mezzo politica mezzo
galante che gli veniva affidata e
partì per Torino, lasciando il
cardinale a studiare, come diceva
lui, ogni punto dell’orizzonte,
oscurato, bisogna pur dirlo, da un
imminente temporale.
In Germania, cioè al Nord,
Wallenstein non smetteva di
crescere; ormai aveva un tale potere
che non poteva più fermarsi.
Nominato duca di Friedland
dall’imperatore, ricco degli immensi
territori che Ferdinando gli aveva
concesso in Boemia, terreni
confiscati a coloro che chiamavano
ribelli, aveva riunito a sue spese un
esercito di cinquantamila uomini,
respinto i danesi, sconfitto Mansfeld
al ponte di Dessau, nonché i suoi
alleati e Bethlen Gábor, ripreso il
Brandeburgo, conquistato
l’Holstein, lo Schleswig, la
Pomerania, il Meclemburgo e, come
ricordo di questa conquista, aveva
aggiunto il titolo di duca di
Meclemburgo a quello di duca di
Friedland.
Ma lì, almeno per il momento, la
sua fase crescente aveva subito una
battuta d’arresto: Ferdinando dava
ascolto alle lamentele che da ogni
parte si levavano contro quel capo di
banditi, cercava un modo di tenerlo
il più possibile lontano dall’Austria,
dalla Danimarca, dall’Ungheria, da
ogni luogo della Germania. A lui
giungevano folle di reclute, aveva
spedito un corpo in Italia e ne stava
spedendo un altro in Polonia; una
massa enorme, quarantamila uomini,
rimaneva sul Baltico divorando un
paese già divorato. Doveva
conquistare o morire; soprattutto,
doveva piombare nuovamente sulle
ricche città imperiali, su Worms,
Francoforte, la Svevia, i dintorni di
Strasburgo, ed è ciò che aveva fatto.
La sua avanguardia aveva occupato
un forte nel vescovado di Metz, e
Richelieu non ignorava che
Monsieur, durante il suo soggiorno
in Lorena, aveva preso contatti con
Wallenstein e che aveva seriamente
considerato la possibilità di
chiamare in Francia i barbari,
ufficialmente contro Richelieu, in
realtà contro Luigi XIII. Un generale
italiano e due capibanda, Gallas e
Aldringen, avevano il comando delle
truppe distaccate verso l’Italia per
assediare Mantova e portare
soccorso a Carlo Emanuele.
A Est, erano Venezia e Roma ad
attirare l’attenzione del cardinale.
Venezia aveva promesso di fare una
manovra diversiva attaccando i
milanesi, ma a Venezia non era più il
tempo degli audaci colpi di mano
che le avevano procacciato una parte
di Costantinopoli, Cipro e la Morea.
Del resto, i veneziani fecero quanto
avevano promesso: procurarono
grano a Mantova, vi fecero entrare
rinforzi e munizioni, fornirono
denaro al duca e tagliarono i viveri
agli assedianti.
Senza grano né generi di conforto,
senza foraggi, con il cannone come
unica arma per assalire Mantova,
presi di mira dalle malattie che
accompagnano la penuria di
nutrimento, i tedeschi stavano per
levare l’assedio, quando ricevettero
soccorso proprio dove meno si
aspettavano di trovarlo. Il papa
permise loro di approvvigionarsi
nello Stato della Chiesa, purché
fosse uno dei suoi nipoti
(evidentemente quello che non era
ancora riuscito a sistemare) a fare da
mercante di pane, vino e paglia.
Così, come sempre, a tradire l’Italia
era un papa, e un papa italiano. Per
di più era un Barberini, e i suoi
nipoti erano quei famosi Barberini
che portarono via persino le placche
di bronzo dal Pantheon di Agrippa.
Più vicino al cardinale, ma non
dalla stessa parte, era Spinola, il
condottiero genovese al servizio
della Spagna che entrava nel
Monferrato mentre gli imperiali
entravano nel ducato di Mantova e
che, senza mettere Casale
propriamente sotto assedio, si
accontentava di bloccare la città.
Aveva seimila uomini a piedi e
tremila a cavallo. Con quei novemila
uomini contava di contrastare i
francesi, se avessero cercato di
andare in soccorso di Mantova. Fino
a che Mantova non fosse stata presa,
i venticinque o trentamila imperiali
che la assediavano gli sarebbero
andati in aiuto per impadronirsi di
Casale e cacciare i francesi
dall’Italia.
A Ovest l’orizzonte era ancora più
scuro. Collalto e Spinola erano
nemici visibili, facevano la guerra
alla luce del giorno, schierati in
campo, a viso scoperto. Ma dalla
parte della Francia le cose andavano
diversamente: gli avversari del
cardinale erano cupi minatori che
scavavano sotto terra per far crollare
la sua fortuna e comparivano alla
luce del sole solamente con una
maschera sul volto. Luigi,
rendendosi conto che la propria vita
e la propria fama erano legate a
quelle del suo ministro, estenuato da
quella lotta incessante, era più
malinconico che mai; stanco di tutto,
persino della caccia, viveva, lui, in
un’ansia perenne. Tutti coloro che lo
circondavano, madre, moglie,
fratello, vivevano, loro, con una sola
speranza: la caduta del cardinale.
Ogni loro parola, ogni loro azione
era uno scrollone dato alla
convinzione sordamente radicata
nella corte di Luigi: che senza il
cardinale non ci fossero né regalità
né grandezza né potere.
Il re cominciava inoltre a capire
che il primo ministro rappresentava
solamente un avamposto da
conquistare con l’astuzia o con la
forza per arrivare a battere in breccia
lui, Luigi, ed era quindi disposto a
difendere il cardinale con ogni suo
potere, convinto che questo
significasse difendere se stesso.
Dopo la fuga del duca d’Orléans a
Nancy, fuga prevista dalla lettera in
codice decrittata da Rossignol,
soprattutto dopo le empie
negoziazioni avviate tra il principe e
Wallenstein, il re comprendeva che
sarebbe giunto il momento in cui
Gaston, sostenuto all’esterno da
Austria, Spagna e Savoia, all’interno
dalla regina Maria de’ Medici, dalla
regina Anna e dagli scontenti di ogni
partito, avrebbe inalberato lo
stendardo della rivolta.
E gli scontenti erano numerosi.
Il duca di Guise era scontento di
non aver ottenuto il comando che si
aspettava nell’esercito e con
madame de Conti e la duchessa
d’Elbeuf congiurava senza tregua
contro Richelieu.
I giudici dello Châtelet di Parigi,
indignati da certe tasse imposte
quell’anno agli ufficiali giudiziari,
erano scontenti e nel loro scontento
smettevano di esercitare la giustizia.
Infine il Parlamento stesso era
talmente scontento da offrire al duca
d’Orléans di votare per lui se si
fosse impegnato ad abolire per
decreto delle tasse che gli erano
state imposte.
Siamo entrati troppo nel dettaglio
della composizione della polizia di
Richelieu perché occorra dire che il
cardinale era al corrente di tutte
queste mene e seguiva con lo
sguardo ogni scontento.
Viveva però nella rassicurante
certezza che il re avrebbe mantenuto
la promessa di raggiungerlo,
certezza fondata su due ragioni: la
prima è che era sicuro che la sua
inguaribile malinconia, il tedio di
ogni cosa, avrebbe spinto il re verso
l’esercito, non fosse che perché si
ripetessero le voci gloriose nate
l’anno precedente intorno al suo
nome; la seconda è che, alla
partenza del re, Gaston sarebbe stato
nominato luogotenente generale a
Parigi e comandante dell’armata in
Champagne: per percepire gli
emolumenti delle due cariche,
quindi, Gaston, aiutato dalla madre e
dalla regina, avrebbe spinto Luigi
XIII fuori da Parigi e anche fuori
dalla Francia.
Certo, c’era la possibilità che
Gaston approfittasse dell’assenza del
re per ordire qualche complotto
contro il cardinale e contro lo stesso
re; ma con Luigi XIII accanto,
Richelieu non temeva nulla, e
conosceva abbastanza Gaston per
essere sicuro che, alla vista di un
esercito capitanato dal cardinale e
dal re in persona, non solo avrebbe
abbandonato complici e alleati, ma li
avrebbe anche consegnati, chiunque
essi fossero e come aveva sempre
fatto, in cambio del perdono regale e
di un aumento delle proprie rendite.
Compiuta questa perlustrazione
dell’Europa, il cardinale si rese
conto che tutti i pericoli reali erano
di là da venire e, più tranquillo, si
rivolse dalla parte di Torino e cercò
di vedere, malgrado la distanza, se
Montmorency stesse seguendo
scrupolosamente le sue istruzioni.
Cosa che noi giudicheremo
personalmente.
XVIII
Due vecchi amanti
Il duca di Montmorency, senza
confidargli il vero scopo del proprio
viaggio, aveva proposto al suo
amico conte di Moret di
accompagnarlo a Torino e lui si era
premurato di accettare, sperando in
qualche svago.
L’importanza degli eventi che
raccontiamo e che rappresentano
grandi fatti storici ci impedisce a
volte di seguire fino in fondo al
cuore dei nostri personaggi l’eco
triste o gioiosa che lo svolgersi di
quegli eventi comporta. Così
abbiamo narrato l’attacco degli
imperiali alla città di Mantova senza
avere il tempo di preoccuparci
dell’inquietudine che quell’attacco
suscitava nel cuore del figlio di
Enrico IV.
Isabelle, infatti, al fianco del
padre, avrebbe subito tutte le funeste
conseguenze – miseria, carestia,
rischi – dei diversi momenti di un
assedio condotto da banditi come
quelli che costituivano le orde
imperiali.
In particolare, venuto a
conoscenza che monsieur de Pontis
era stato inviato lì da Richelieu
come ingegnere, aveva chiesto di
poterci andare anche lui, come
volontario, se non altro per
combattere presso monsieur de
Lautrec, più che presso Isabelle,
l’influenza dell’uomo che sapeva
suo rivale.
Ma il cardinale non aveva attorno
a sé sufficienti menti affidabili e
cuori leali su cui contare con
certezza per privarsi di un uomo che,
prima di tutto per il suo rango,
doveva essere là dove si trovavano il
re e il cardinale; e che, dopo avergli
reso grazie al suo coraggio e alla sua
abilità importanti servigi, poteva
rendergliene altri nelle difficili
circostanze in cui sarebbero venuti a
trovarsi. Per tranquillizzare il suo
giovane protetto, gli aveva
comunque assicurato di aver scritto
a monsieur de Lautrec per invitarlo a
mantenere la promessa fatta ai due
giovani e proibirgli di forzare
l’inclinazione della figlia, almeno
finché il conte fosse stato in vita.
Non vogliamo dipingere il nostro
eroe migliore di quanto non fosse, e
abbiamo già riflettuto su quanto
dovesse al sangue di Enrico IV, a
proposito non dell’infedeltà ma
dell’incostanza. Sbaglieremmo
dunque a non dire che, pur
mantenendo religiosamente il
giuramento fatto a Isabelle di non
avere altra sposa se non lei, via via
che si avvicinava a Parigi con il
cardinale e suo fratello aveva visto
riapparire, attraverso una nuvola che
andava sempre più diradandosi, un
viso bruno, con un basco rosso sui
capelli, la cui bocca gli aveva dato
alla locanda della Barbe Peinte due
baci tali che a pensarci le labbra
ancora gli bruciavano. Non era tutto:
si ricorderà anche che una sera,
uscendo dalla principessa Maria
Gonzaga, quella provocante creatura
che si era improvvisata sua cugina
aveva scambiato con lui una certa
promessa di appuntamento che non
aveva avuto luogo per via delle
circostanze ma che lui era ben
deciso a ricordare alla persona che
l’aveva fatta, con ingiunzione di
mantenerla. Anche quella volta,
però, il caso aveva costretto a
rinviare a un altro momento
l’attuazione di quell’affascinante
progetto. All’arrivo del conte di
Moret a Parigi, madame de Fargis –
presumiamo che i nostri lettori
abbiano indovinato che si trattava di
lei – aveva lasciato la città, mandata
dalla regina Anna in missione
segreta presso il marito e forse
anche presso un personaggio di più
alto grado, e, poiché alla partenza
del conte la bella ambasciatrice non
era ancora rientrata nella capitale,
Jacquelino, non senza rimpianti, non
aveva potuto rifare conoscenza con
la sua bella cugina Marina.
Tuttavia all’elegante corte del
duca di Savoia, dove era rimasto un
mese prima che lo vedessimo
tornare dall’Italia incaricato di un
triplice messaggio per le due regine
e per Monsieur, aveva lasciato
qualche ricordo galante che si
riprometteva di riscaldare se non si
fosse presentata occasione di
coltivare e cogliere nuovi amori.
C’erano poche corti,
effettivamente, galanti e dedite ai
piaceri quanto quella del duca di
Savoia. Estremamente dissoluto,
Carlo Emanuele, a forza di eleganza,
sapeva imprimere alla débauche
quel fascino disinvolto che la fa
perdonare. Se, dopo quanto abbiamo
detto di lui, dovessimo ancora
cercare di tratteggiare il suo
carattere, aggiungeremmo che era
coraggioso, ostinato, ambizioso e
prodigo. Ma tutto questo assumeva
in lui una tale apparenza di
grandezza e si mascherava dietro
un’ipocrisia tanto abile che la sua
prodigalità era scambiata per
liberalità, la sua ambizione per
desiderio di gloria, la sua
ostinazione per costanza. Infedele
nelle alleanze, avido dei beni altrui,
prodigo dei suoi, povero sempre
senza mai mancare di nulla, si
scontrò successivamente con
l’Austria, la Spagna e la Francia –
sempre alleato di chi gli offriva di
più e disposto a combattere, con il
denaro che gli era stato dato, la
potenza che gliene aveva offerto di
meno. Tormentato dalla passione di
ingrandirsi, muoveva guerra contro i
suoi vicini non appena se ne
presentava l’occasione. Quasi
sempre costretto a concordare una
pace, inserire nei trattati che firmava
clausole ambigue che gli sarebbero
servite a romperli era per lui un
bisogno. Falso temporeggiatore, era
il Fabio 1 della diplomazia: aveva
sposato Caterina, figlia di re Filippo,
e aveva fatto sposare a suo figlio
Christine, figlia di Enrico IV; ma
quelle due parentele non bastarono a
proteggerlo, a causa della sua
irriducibile inaffidabilità. Questa
volta aveva incontrato il suo più
temibile avversario, Richelieu, ed
era destinato a spezzarsi contro di
lui.
Il duca di Savoia ricevette con
grande sfarzo i suoi due visitatori:
Montmorency, preceduto dalla fama
sconfinata del suo coraggio, della
sua eleganza e liberalità; il conte di
Moret, seguito dai ricordi di
galanteria che aveva lasciato diciotto
mesi prima. Madame Christine in
particolar modo fece ottima
accoglienza al giovane principe che,
riconosciuto da Enrico IV, godeva
presso di lei dei privilegi di un
fratello.
Conoscendo le tendenze galanti di
Montmorency, Carlo Emanuele riunì
a corte tutte le belle donne di Torino
e dintorni, nella speranza di legarlo a
sé, staccandolo dai francesi. Ma fra
tutte quelle belle donne, Antoine de
Bourbon cercò invano quella per la
quale era andato lì, la contessa
moglie del conte Urbano
d’Espalomba.
Quella della bella contessa era
una lunga storia e, siccome si era
svolta prima che si aprisse la prima
pagina di questo libro e non ne
interessava l’azione se non come
dettaglio della vita del nostro
principe, non abbiamo ritenuto
opportuno intrattenerne i lettori.
Carlo Emanuele aveva visto
apparire all’improvviso alla corte di
Torino una stella sconosciuta e
splendente, divenuta satellite di un
astro piuttosto pallido, come tutti gli
astri che non brillano di luce propria.
Pur appartenendo alla più alta
aristocrazia del regno, il conte
Urbano d’Espalomba aveva appena
sposato Matilde di Cisterna, uno dei
più bei fiori della valle d’Aosta,
come direbbe Shakespeare.
Come abbiamo già detto,
malgrado i suoi sessantasette anni
Carlo Emanuele aveva conservato le
abitudini galanti che durante il suo
lungo regno gli avevano fatto
considerare la sua corte alla stregua
di un harem nel quale doveva solo
gettare il suo ducale fazzoletto.
Abbagliato dalla bellezza della
contessa d’Espalomba, le fece capire
che bastava dicesse una parola per
diventare la vera duchessa di Savoia;
ma quella parola la contessa non la
disse. I suoi occhi e il suo cuore
erano rivolti non verso il faro
dell’ambizione bensì verso il sole
ardente dell’amore.
Aveva visto il conte di Moret, i
suoi diciotto anni erano stati attratti
dai ventidue del giovane principe,
aprile e maggio erano volati l’uno
verso l’altro e le due primavere si
erano confuse in un unico bacio.
Tutti i sospetti del conte
d’Espalomba erano concentrati sul
duca; con gli occhi fissi su Carlo
Emanuele, non vide niente, non
sospettò niente e, all’ombra della
gelosia del vecchio marito, i due
amanti furono felici.
Ma lo sguardo del sovrano fu più
penetrante di quello del marito.
Senza indovinare ciò che succedeva,
temette ciò che sarebbe potuto
succedere e, poiché il conte Urbano,
piuttosto spiantato e avaro, si era
avvicinato alla corte per sollecitare i
favori del duca, lo nominò
governatore della cittadella di
Pinerolo con l’ordine di recarvisi
all’istante.
Lì, teneva la contessa come un
ricco gioiello in uno scrigno di cui
aveva la chiave e dove era sempre
sicuro di trovarla.
Lasciandosi, i due amanti avevano
versato molte lacrime e si erano
promessi una fedeltà a tutta prova;
sappiamo come il conte di Moret
avesse tenuto fede al giuramento.
Fu giocoforza che la bella Matilde
tenesse fede al proprio; a Pinerolo le
occasioni di amare, soprattutto dopo
aver amato un figlio di re, giovane e
bello, erano rare. Matilde aveva
saputo della partenza del conte poco
dopo che era partita lei. Era stata
grata all’amante di non aver voluto
rimanere in una corte dove lei non
c’era più e da diciotto mesi sognava
il suo ritorno.
Apprese dunque con infinita gioia
che il marito era invitato a lasciare
Pinerolo e a trascorrere qualche
giorno nella capitale in occasione
delle feste che la corte di Torino
contava di organizzare in onore dei
due principi.
I due amanti si rividero. Nella
gioia di ritrovarsi mettevano una
dose uguale d’amore? Non
sapremmo dirlo, ma vi mettevano
una dose uguale di giovinezza, che è
quanto più somiglia all’amore.
Ma anche quella volta la loro
felicità era destinata a un effimero
bagliore. I principi dovevano passare
solamente qualche giorno a Torino,
ma poiché la campagna poteva
durare mesi e anche anni e potevano
ripresentarsi occasioni per rivedersi
sia in pubblico sia in privato, i due
giovani presero delle precauzioni e,
grazie alle informazioni della sua
bella amica, il conte di Moret poté
tracciare una piantina dettagliata
degli alloggi del governatore di
Pinerolo e, nel farlo, si rese conto
con grande gioia che la contessa
aveva un appartamento
completamente separato da quello
del marito e che anzi le loro due
camere da letto erano ai poli opposti
del palazzo.
I due amanti si erano anche
procurati delle complicità nella
cittadella. Nel lasciare la sua bella
valle d’Aosta, la giovane aveva
portato con sé la sua sorella di latte,
Giacinta, di pochi mesi più vecchia
di lei, precauzione che per ogni
evenienza dovrebbe prendere ogni
giovane donna sposando un uomo
anziano, dato che le sorelle di latte
sono le nemiche naturali dei
matrimoni di convenienza e delle
unioni male assortite. Fu convenuto
che, avendo Giacinta lasciato a
Selimo 2 un fratello di due o tre anni
più vecchio di lei, qualora se ne
fosse presentata l’occasione, il conte
sarebbe andato a trovare sua sorella
sotto il nome di Gaetano.
Niente di più naturale per un
fratello che vada a trovare la sorella
rimanere a dormire dove abita lei,
soprattutto quando questa sorella
condivide con dieci o dodici persone
un palazzo che potrebbe ospitarne
cinquanta.
Una volta sotto lo stesso tetto, gli
amanti sarebbero stati ben maldestri
se non fossero riusciti a vedersi
almeno tre o quattro volte al giorno
e a dirsi che si amavano almeno una
volta per notte.
Tutto questo era stato combinato
fin dal primo giorno in cui i nostri
innamorati si erano incontrati, tanto
erano previdenti e tanto, a un’età che
si dice così poco preoccupata
dell’avvenire, loro invece se ne
preoccupavano seriamente.
Aggiungiamo che questi piccoli
espedienti erano stati escogitati
mentre il conte Urbano, che
diffidava solo del duca di Savoia,
non perdeva un suo gesto, mentre
costui – o perché aveva perso le
speranze di farsi amare da lei, o
perché aveva rinunciato, volubile
com’era, ai suoi desideri nei
confronti della contessa – questa
volta diede al conte come unico
motivo di dispiacere il rifiuto di
aumentargli lo stipendio, con il
semplice pretesto che, essendo le
sue finanze orribilmente oberate, era
giunta l’ora per lui di appellarsi alla
devozione dei suoi sudditi!...
Da parte sua, il duca di
Montmorency era l’uomo più felice
della terra. Bello, giovane, ricco, con
il più bel nome di Francia dopo
quello regale, gradito alle donne,
adulato dal sovrano di una delle
corti più raffinate e aristocratiche
d’Europa, la sua vanità non aveva
niente da desiderare, soprattutto
dopo che il duca di Savoia gli aveva
detto ad alta voce alzandosi da
tavola per entrare nella sala da ballo:
«Da quando siete arrivato, signor
duca, le nostre signore non hanno
altro pensiero che quello di farsi
belle per voi, cosa che potete
constatare di persona osservando la
preoccupazione e la malinconia dei
mariti.»
La settimana che i due
ambasciatori trascorsero fra Torino e
il castello di Rivoli passò in cene,
balli, cavalcate e feste di ogni
genere, e il risultato fu che il
cardinale e il principe Vittorio
Amedeo si sarebbero incontrati al
castello di Rivoli o, se il cardinale
avesse preferito, nel villaggio di
Bussoleno.
Il cardinale scelse Bussoleno, che
si trovava a una sola ora da Susa:
così sarebbe stato il principe del
Piemonte ad andare da lui e non lui
ad andare dal principe del Piemonte.

1 Quintus Fabius Maximus Verrucosus (275-


203 a.C.), politico romano, console, dittatore,
soprannominato cunctator, temporeggiatore.
[NdC]
2 Il nome di questa località compare così nel
testo pubblicato sulle «Nouvelles»; è
chiaramente un errore, ma non si è potuto
individuare il nome corretto. [NdC]
XIX
Il cardinale apre la campagna
La discussione fu accesa. Per
entrambi grosse poste erano in
gioco.
Carlo Emanuele auspicava meno
la pace per sé che una guerra
accanita tra Francia e Austria, guerra
durante la quale lui sarebbe rimasto
neutrale finché non avesse trovato
l’occasione per ottenere grossi
vantaggi schierandosi da una parte o
dall’altra. Ma per muovere guerra
all’Austria il cardinale aveva
stabilito come data quella in cui
Gustavo Adolfo sarebbe entrato in
Germania.
Vittorio Amedeo fu dunque
invitato dal cardinale a trattare in
altra maniera, visto che la questione
era posta così:
Che cosa chiede il duca di Savoia per
abbracciare fin d’ora il partito francese,
consegnare delle piazzeforti e fornire al re
diecimila uomini?

Carlo Emanuele aveva previsto


tutte le possibilità, e quella in
particolare, quindi Vittorio Amedeo
rispose:
Il re di Francia attaccherà il ducato di
Milano e la repubblica di Genova, con cui
Carlo Emanuele è in guerra, e si
impegnerà a non acconsentire ad alcuna
proposta di pace da parte dell’Austria
prima della conquista del Milanese e della
totale disfatta di Genova.

La questione si presentava sotto


un nuovo punto di vista, legato agli
eventi accaduti dopo la pace di Susa.
Il cardinale parve sorpreso del
programma, ma rispose senza
esitare. Gli storici del tempo ci
hanno trasmesso le sue precise
parole. Eccole:
«Ma come, principe? Il re manda
un esercito per assicurare all’Italia la
libertà e per prima cosa il duca di
Savoia vuole che s’impegni a
distruggere la repubblica di Genova,
della quale Sua Maestà non ha alcun
motivo di lamentarsi! Ricorrerà
volentieri ai propri buoni uffici e
alla propria autorità affinché i
genovesi diano soddisfazione al
signor duca di Savoia a proposito
delle sue pretese nei loro confronti,
ma non si parla nemmeno di
muovere guerra adesso contro di
loro. Se gli spagnoli mettono il re in
condizione di dover attaccare il
Milanese, lo faremo certamente e
nella maniera più dura possibile, e in
quel caso il signor duca di Savoia
può stare tranquillo che Sua Maestà
non renderà mai quanto ha
conquistato. Il re gliene dà la sua
parola per bocca del suo ministro.»
La risposta non era meno precisa
di quanto fosse stata la domanda; e
Vittorio Amedeo, costretto nella sua
trincea, domandò qualche giorno per
riferire la risposta di suo padre.
Tre giorni dopo, era
effettivamente di ritorno a
Bussoleno.
«Mio padre» disse «ha seri motivi
di temere che mio cognato Luigi
trovi un accordo con il re di Spagna
non appena la guerra sarà iniziata.
La prudenza non gli consente
dunque di schierarsi a fianco della
Francia, a meno che non gli venga
formalmente promesso di non
deporre le armi prima che il
Milanese sia stato conquistato.»
Richelieu rispose a tutto
reclamando l’esecuzione del trattato
di Susa.
Vittorio Amedeo domandò di
consultare nuovamente il padre,
ripartì e ritornò dicendo: «Il duca di
Savoia è pronto a rendere esecutivo
il trattato a condizione che prima lo
si lasci, con i suoi diecimila fanti e i
seimila cavalli compresi nel trattato
di Susa, attaccare e costringere alla
resa la repubblica di Genova e
portare a termine quella faccenda
prima di imbarcarsi in un’altra».
«È la vostra ultima parola?»
domandò il cardinale.
«Sì, monsignore» rispose Vittorio
Amedeo alzandosi.
Il cardinale premette due volte il
campanello.
Latil comparve.
Il cardinale gli fece segno di
avvicinarsi a lui e poi, sottovoce:
«Il principe se ne va» gli disse.
«Scendi e dai ordine che non gli si
rendano gli onori militari.»
Latil salutò e uscì. Il cardinale
aveva chiamato lui, ben sapendo che
un ordine dato a Latil veniva sempre
eseguito puntualmente.
«Principe» disse il cardinale a
Vittorio Amedeo, «a nome del re,
mio padrone, ho usato al duca di
Savoia tutti i riguardi che un re di
Francia può riservare non soltanto a
un principe sovrano ma a uno zio;
sempre a nome del re, mio padrone,
ho avuto per Vostra Altezza tutti i
riguardi che un cognato deve al
marito di sua sorella; ma ritengo che
esitare ancora significherebbe venir
meno al mio duplice dovere di
ministro e di generalissimo e che per
la gloria di Sua Maestà sia
importante che io punisca
severamente l’insulto che gli fa il
duca di Savoia mancando così
sovente alla parola data e soprattutto
facendo sopportare all’esercito
francese disagi che potrebbero
danneggiarlo. A partire da oggi 17
marzo, sei e quarantacinque del
pomeriggio, la guerra tra Francia e
Savoia è dichiarata. State in guardia!
Noi staremo in guardia!»
E salutò il principe, che uscì.
Due sentinelle sorvegliavano la
porta del cardinale di Richelieu,
andando su e giù con l’alabarda in
spalla. Vittorio Amedeo passò fra di
loro senza che né l’una né l’altra
dessero segno di accorgersi di lui;
non smisero la loro camminata, e
lasciarono l’alabarda dov’era. Dei
soldati giocavano a dadi seduti sulla
scala; non smisero di giocare e non
si mossero.
«Oh, oh!» mormorò Vittorio
Amedeo, «sarebbe stato dunque dato
ordine di insultarmi?»
Se il principe aveva ancora dei
dubbi, gli passarono quando
oltrepassò la soglia. Tutti
continuavano a parlare degli affari
loro e le armi rimanevano basse.
Appena il principe Vittorio
Amedeo fu uscito, il cardinale
chiamò nel suo studio il conte di
Moret, il duca di Montmorency, i
marescialli di Créqui, della Force e
di Schomberg, espose loro la
situazione e chiese loro consiglio.
Tutti furono del parere che, dal
momento che il cardinale aveva
scosso la guerra dalle pieghe della
sua veste, guerra bisognava fare.
Il cardinale li congedò ordinando
loro di tenersi pronti per l’indomani,
e trattenne solamente Montmorency.
Poi, rimasto solo con lui:
«Principe» disse, «volete essere
connestabile domani?»
Gli occhi di Montmorency
lampeggiarono.
«Monsignore» replicò, «da come
Vostra Eminenza mi fa questa
proposta, temo che abbia da
domandarmi qualcosa
d’impossibile.»
«Qualcosa di semplicissimo,
invece. La guerra al duca di Savoia è
stata dichiarata. Siccome si trova nel
castello di Rivoli, lo saprà fra due
ore. Prendete cinquanta cavalli ben
equipaggiati, circondate il castello,
rapite lui e suo figlio, e portateli qui.
Una volta qui, ne faremo quel che
vorremo e saranno fortunati se si
limiteranno a passare sotto le nostre
forche caudine.»
«Monsignore» rispose
Montmorency inchinandosi, «otto
giorni fa, in quello stesso castello di
Rivoli ero ospite del duca, come
ambasciatore vostro inviato. Non
posso ritornarvi oggi a tradimento e
da nemico.»
Il cardinale fissò il duca.
«Avete ragione» gli disse, «queste
sono cose da proporre a un capitano
di ventura e non a un Montmorency.
Ho comunque sottomano l’uomo
adatto. Mi ricorderò del vostro
rifiuto, mio caro duca, per esservene
grato. Ma voi dimenticate che io ve
lo abbia proposto.»
Montmorency salutò e uscì.
«Ho sbagliato» mormorò
pensieroso il cardinale dopo aver
visto la porta chiudersi dietro il
principe. «L’abitudine di servirsi
degli uomini fa nascere un disprezzo
troppo generalizzato. Se avessi
proposto a chiunque altro la stessa
cosa, quel chiunque altro l’avrebbe
accettata; Montmorency è un cuore
grande e, benché non mi ami, sarei
propenso a fidarmi di più della sua
avversione che di certe devozioni
gridate ai quattro venti.»
Poi, premendo due volte il
campanello:
«Étienne! Étienne!» chiamò.
Latil comparve.
«Conosci il castello di Rivoli?»
domandò il cardinale.
«Quello a un’ora da Torino?»
«Sì. In questo momento vi si
trovano il duca di Savoia e suo
figlio.»
Latil sorrise.
«Bisognerebbe fare un colpo»
disse.
«Quale?»
«Rapirli tutti e due.»
«Te ne incaricheresti tu?»
«Perbacco!»
«Di quanti uomini avresti
bisogno?»
«Cinquanta, bene armati e con
buoni cavalli.»
«Scegli tu gli uomini e i cavalli.
Se riesci, ci sono cinquantamila lire
per gli uomini, venticinquemila per
te.»
«Mi basterebbe l’onore di aver
fatto il colpo, ma se proprio
monsignore vuole aggiungervi
qualcosa, mi rassegnerò.»
«Hai qualche osservazione da
fare, Latil?»
«Una soltanto, monsignore.»
«Quale?»
«Quando si tenta un colpo come
quello che sto per fare, si dice
sempre a quelli che lo eseguono:
avrete tanto se riuscite. E non si dice
mai: avrete tanto se non riuscite.
Ora, la partita meglio giocata, quella
più abilmente organizzata, può
fallire per uno di quegli incidenti
che scombinano i piani dei capitani
migliori. Non è colpa degli uomini,
e la totale mancanza di ricompensa
li scoraggia. Date di meno se
riusciamo; ma date qualcosa, per
quanto poco, se non riusciamo.»
«Hai ragione, Étienne» disse il
cardinale, «e la tua è la riflessione di
un grande politico. Mille lire per
ogni uomo e venticinquemila per te
se ce la farete; due luigi per ogni
uomo e venticinque per te se non ce
la farete.»
«Ben detto, monsignore. Sono le
sette; ci vogliono tre ore per arrivare
a Rivoli; alle dieci il castello sarà
circondato. Il resto sta alla mia
buona o cattiva sorte.»
«Vai, caro Latil, vai e sappi che
fin d’ora sono convinto che se non
ce la farai non sarà per colpa tua.»
«Che Dio ci protegga,
monsignore!»
Latil mosse tre passi verso la
porta; poi, voltandosi:
«Monsignore non ha parlato
assolutamente con nessuno del suo
progetto, prima di parlarne con
me?»
«Solamente a una persona.»
«Ventre saint-gris!, come diceva
re Enrico IV. Questo ci toglie il
cinquanta per cento delle
possibilità!»
Richelieu aggrottò le ciglia.
«Be’!» disse, «che rifiuti va bene,
ma che dia l’allarme sarebbe
troppo.»
Poi, a Latil:
«Comunque, vai, e se fallisci,
ebbene, non me la prenderò con te.»
Dieci minuti dopo, una piccola
truppa di cinquanta cavalieri guidata
da Étienne Latil passava sotto le
finestre del cardinale, che alzava la
gelosia per guardarli partire.
XX
Buco nell’acqua
Pur sapendo che da un momento
all’altro poteva dichiarargli guerra
un nemico che gli aveva insegnato
di non essere fra quelli da
sottovalutare, il duca, coerente con il
suo carattere fanfarone, dava una
grande festa al castello di Rivoli
proprio mentre suo figlio Vittorio
Amedeo trattava con Richelieu nel
villaggio di Bussoleno.
Le più belle donne di Torino, i più
eleganti gentiluomini della Savoia e
del Piemonte quella sera del 15
marzo 1 erano riuniti al castello di
Rivoli, le cui finestre
splendidamente illuminate
riversavano fiotti di luce sulle
quattro facciate.
Il duca di Savoia, agile, spiritoso
e vanitoso malgrado i suoi
sessantasette anni, ridendosela
allegramente di tutto, galante e
premuroso come un giovanotto, era
il primo a fare la corte alla nuora, in
onore della quale era data la festa.
Ma ogni tanto una nube scura,
benché passeggera e impercettibile,
gli attraversava la fronte. Pensava
che i francesi erano a non più di
otto, dieci miglia da lui, quei
francesi che in poche ore avevano
forzato il passo di Susa ritenuto
inattaccabile, e che in quel momento
le sue sorti venivano discusse tra il
cardinale di Richelieu e suo figlio
Vittorio Amedeo, circostanza
ignorata da tutti. Carlo Emanuele
aveva giustificato con un pretesto
qualunque l’assenza del figlio; ma
aveva annunciato il suo ritorno per
la serata ed effettivamente lo
aspettava da un momento all’altro.
Verso le nove, il principe infatti
comparve, riccamente vestito, il
sorriso sulle labbra, e, dopo aver
salutato la principessa Christine, poi
le signore, poi i pochi gentiluomini
savoiardi e piemontesi che onorava
della sua amicizia, si diresse verso il
duca Carlo Emanuele, gli baciò la
mano e, come se gli chiedesse
notizie della sua salute, gli disse
sottovoce, senza lasciar trasparire
sul volto la minima emozione:
«La guerra è dichiarata dalla
Francia, le ostilità avranno inizio
domani. Stiamo in guardia.»
Il duca gli rispose sullo stesso
tono:
«Dopo la quadriglia uscite e
ordinate alle truppe di concentrarsi
su Torino. Quanto a me, rispedirò
alle loro postazioni i governatori di
Viellane, di Fenestrelle e di
Pinerolo.»
Poi fece un cenno con la mano
alla musica, che si era interrotta alla
comparsa di Vittorio Amedeo, e
diede nuovamente inizio alle danze.
Vittorio Amedeo andò a prendere
per mano la principessa Christine,
sua moglie, e guidò la quadriglia
d’onore senza far parola della rottura
fra Savoia e Francia. Intanto, come
aveva detto, Carlo Emanuele si
avvicinava ai governatori delle tre
principali piazzeforti piemontesi e
ordinava loro di partire
urgentemente, all’istante, per le loro
cittadelle.
I governatori di Viellane e di
Fenestrelle erano venuti senza le
mogli, di modo che per obbedire agli
ordini del duca non avevano che da
far sellare i loro cavalli e prendere i
loro mantelli.
Diversa era la cosa per il conte
Urbano d’Espalomba. Sua moglie
non solo era con lui, ma stava
ballando la quadriglia del principe
Vittorio Amedeo.
«Monsignore» disse, «il vostro
ordine sarà difficile da eseguire.»
«E perché, signore?»
«Perché la contessa e io siamo
venuti da Torino, vestiti per il ballo,
in una carrozza a nolo che non ci
porterà a Pinerolo.»
«Il guardaroba di mio figlio e di
mia nuora vi fornirà i mantelli e
tutto ciò di cui avrete bisogno, e
prenderete una vettura nelle mie
scuderie.»
«Dubito che la contessa possa
sopportare il viaggio senza rischi per
la sua salute.»
«In questo caso, lasciatela qui e
partite da solo.»
Il conte guardò Carlo Emanuele in
modo strano.
«Già» replicò, «mi rendo conto
che questa soluzione piacerebbe a
Vostra Altezza.»
«Qualunque soluzione mi
piacerebbe, conte, purché ve ne
andiate senza perdere un minuto.»
«È una disgrazia, monsignore?»
«Come potete vedere una
disgrazia, mio caro conte» rispose il
duca, «nell’ordine dato a un
governatore di raggiungere la sua
sede? Si tratta al contrario di una
prova di fiducia.»
«Che non arriva fino a dirmi la
causa di questa partenza
precipitosa.»
«Un sovrano non ha conti da
rendere ai suoi sudditi» disse Carlo
Emanuele, «soprattutto quando
questi sudditi sono al suo servizio:
ha solamente ordini da dare. Ora, vi
do ordine di recarvi immediatamente
a Pinerolo e di difendere la città e la
piazzaforte nel caso in cui fossero
attaccate, fino a che non ne resti
pietra su pietra. Voi e vostra moglie
potete chiedere tutto quello di cui
avrete bisogno e tutto ciò che
chiederete vi sarà dato all’istante.»
«Devo andare a prendere la
contessa in piena quadriglia o
aspettare che sia finita?»
«Potete aspettare che finisca.»
«Va bene, monsignore. Finita la
quadriglia, partiremo.»
«Buon viaggio e soprattutto, se ce
ne sarà l’occasione, buona difesa!»
E il duca di Savoia si allontanò
senza ascoltare le poche frasi irritate
che mormorò in risposta il conte
Urbano.
Terminata la quadriglia, il conte,
con gran stupore della contessa, le
comunicò l’ordine che aveva
ricevuto.
Poi uscì con lei da una porta
mentre Vittorio Amedeo usciva
dall’altra.
I governatori di Viellane e di
Fenestrelle, che non partecipavano a
nessuna quadriglia, erano già partiti.
Il duca disse qualcosa sottovoce
alla nuora, che seguì il conte e la
contessa. All’uscita del salone, lei
affidò la contessa a una delle sue
cameriere e rientrò per organizzare
un’altra quadriglia, cui il principe
Vittorio Amedeo non partecipava.
Dieci minuti dopo, tornò anche lui
nella sala da ballo, sempre con il
sorriso sulle labbra, ma palesemente
più pallido di quanto fosse
uscendone, andò verso il duca Carlo
Emanuele, passò un braccio sotto il
suo e lo trascinò nel vano di una
finestra. Là gli mostrò un biglietto.
«Leggete, padre mio.»
«Che cos’è?» domandò il duca.
«Un biglietto che mi ha appena
consegnato un paggio coperto di
polvere, che montava un cavallo
coperto di schiuma. Volevo dargli
una borsa piena d’oro, e vedrete che
non sarebbe stato troppo per la
notizia che ci ha portato. Ma lui ha
rifiutato la borsa e ha risposto:
“Sono al servizio di un padrone che
non permette che altri paghino i suoi
servitori”. E senza dare al suo
cavallo più tempo per respirare di
quanto ne aveva impiegato a dirmi
queste parole, è ripartito al
galoppo.»
Intanto Carlo Emanuele leggeva il
biglietto, breve ma preciso.
Un ospite, meravigliosamente accolto
da Vostra Altezza il duca di Savoia, coglie
l’occasione di ricambiare l’ospitalità da
lui ricevuta avvertendolo che deve essere
rapito questa notte dal castello di Rivoli
insieme al principe Vittorio Amedeo. Non
c’è un minuto da perdere. A cavallo, e a
Torino!
«Niente firma?» domandò il duca.
«No. Ma è chiaro che
l’avvertimento viene dal duca di
Montmorency o dal conte di Moret.»
«Che livrea indossava il paggio?»
«Nessuna, ma mi è parso di
riconoscere quello che il duca
conduce con sé e che chiama
Galaor.»
«Sarà così. E allora?»
«Il vostro consiglio, signore?»
«Il mio consiglio, caro Vittorio, è
di seguire quello che ci viene dato,
dal momento che seguendolo non ci
può succedere nulla di male, mentre
ci può succedere una vera e propria
disgrazia se non lo seguiamo.»
«In cammino, allora, signore.»
Il duca avanzò sorridendo in
mezzo alla sala.
«Signore e signori» disse, «ricevo
una lettera di enorme importanza,
alla quale devo rispondere senza
indugi, con l’aiuto di mio figlio.
Non preoccupatevi di noi: ballate,
divertitevi. Questo palazzo è vostro.
Durante la nostra momentanea
assenza, la nostra carissima nuora, la
principessa Christine, farà gli onori
di casa.»
L’invito era un ordine. Dame e
cavalieri salutarono facendo siepe
per lasciar passare i due principi, che
uscirono sorridendo e salutando con
la mano.
Una volta fuori dalla sala, la
finzione finì. Padre e figlio
chiamarono un cameriere, si fecero
buttare un mantello sulle spalle e
scesero, così com’erano, le scale,
attraversarono il cortile, andarono
dritto alle scuderie, fecero sellare i
due cavalli da corsa migliori,
infilarono delle pistole nelle fondine,
inforcarono le loro cavalcature e si
lanciarono al gran galoppo sulla
strada per Torino, che distava non
più di una lega.
Intanto Latil e i suoi cinquanta
uomini percorrevano il più
velocemente possibile la strada da
Susa a Torino. Dove la strada si
biforca e una delle biforcazioni,
attraverso i campi, si dirige verso il
castello di Rivoli, con un bel viale
bordato di pioppi, a Latil, che
marciava alla testa della sua piccola
truppa, parve di vedere un’ombra
che avanzava rapida.
Da parte sua, il cavaliere – perché
l’ombra era quella di un cavaliere,
nonché di un cavallo – si fermò e
sembrava esaminasse la piccola
truppa con curiosità e
preoccupazione non minori di quelle
con cui questa esaminava lui.
Latil stava per gridare “Chi va
là?”, ma ebbe paura che quel grido
in francese o in un italiano mal
pronunciato lo tradisse. Decise
quindi di andare da solo in
avanscoperta e spronò il cavallo al
galoppo verso il cavaliere, fermo in
mezzo alla strada come una statua
equestre.
Ma non appena si rese conto che
l’altro puntava verso di lui, quel
cavaliere raccolse le redini del suo
cavallo, gli piantò gli speroni nel
ventre e lo spinse a saltare il fossato
della strada di Rivoli, tagliando
diagonalmente attraverso i campi
per raggiungere la strada di Susa.
Latil si lanciò all’inseguimento
gridandogli «Altolà!», ma
l’ingiunzione servì solo a
raddoppiare la velocità del cavaliere
che montava un eccellente animale.
Per un attimo, dato che le
direzioni seguite dai due
convergevano, Latil ebbe sotto tiro
lo sconosciuto cavaliere; ma rifletté
prima di tutto che forse il cavaliere
non era un nemico; e poi che il
rumore dell’arma da fuoco avrebbe
potuto dare l’allarme.
Raggiunsero entrambi la strada,
ma il cavaliere sconosciuto aveva un
vantaggio di tre lunghezze di cavallo
su Latil e la sua cavalcatura era
migliore; non solo avrebbe
certamente mantenuto quella
distanza, ma l’avrebbe aumentata.
Dopo cinque minuti Latil aveva
perso la speranza di raggiungerlo e,
abbandonando un inutile
inseguimento, tornava verso il suo
distaccamento mentre il cavaliere si
perdeva nell’oscurità e tutto, anche
il rumore degli zoccoli del suo
cavallo, svaniva nel silenzio della
notte, vero re delle tenebre.
Latil riprese il suo posto alla testa
del distaccamento scuotendo il capo.
Quell’episodio, che in qualunque
altra circostanza non sarebbe stato di
alcun rilievo, assumeva ai suoi occhi
un’estrema gravità.
La sua prima parola era stata:
«Rispondo di tutto se il duca non
è stato avvertito.»
Che cos’era venuto a fare a Rivoli
quel cavaliere con quell’ottimo
cavallo e tanto desideroso di non
essere riconosciuto? Se non veniva
da Susa, perché tornava a Susa? Ma
chi diceva che venisse da Susa? Il
respiro affannato del suo cavallo era
la dimostrazione di una lunga strada
già percorsa.
Il sospetto aumentò decisamente
quando, avvicinandosi a Rivoli,
Latil scorse sulla strada la sagoma
non più di un cavaliere, bensì di due,
che, ripetendo la manovra del primo,
si fermarono al vedere la truppa che
avanzava verso di loro. Subito dopo,
senza aspettare che il manipolo
facesse un solo passo in più, si
lanciarono al gran galoppo nella
direzione opposta a quella presa dal
primo cavaliere, cioè quella di
Torino.
Latil non provò nemmeno a
inseguirli, i cavalli freschi che
montavano erano corridori che
sembrava non toccassero nemmeno
terra. Non c’era altro da fare che
affrettare al massimo la corsa verso
il castello le cui finestre
fiammeggiavano all’orizzonte. In fin
dei conti, quei tre cavalieri
avrebbero anche potuto trovarsi per
caso sulla strada di Latil.
In dieci minuti furono alle porte
del castello. Non c’era segno che
fosse stato dato un allarme. Latil
fece fare il giro delle mura di cinta e
sorvegliare tutte le porte; poi da ogni
scala fece salire sei uomini e lui, alla
testa di un gruppo di pari numero,
salì con la spada sguainata la scala
principale e si precipitò a una delle
porte della sala da ballo, mentre gli
altri gruppi si presentavano alle altre
tre.
Alla vista di quegli uomini armati,
con l’uniforme francese, i musicisti,
stupefatti, smisero di suonare e i
ballerini spaventati si voltarono, a
seconda di dove si trovavano, verso i
quattro punti cardinali della sala,
cioè verso ognuna delle porte da cui
comparivano i soldati.
Latil, dopo aver ordinato ai suoi
uomini di sorvegliare le porte,
avanzò con il cappello in una mano
e la spada nell’altra fino al centro
della sala. Ma la principessa
Christine, risparmiandogli metà del
percorso, gli si fece incontro.
«Signore» gli disse, «presumo che
siate qui per mio suocero,
monsignore il duca di Savoia, e per
mio marito, il principe di Piemonte.
Ma devo purtroppo annunciarvi che
sono partiti entrambi da non più di
un quarto d’ora per Torino dove
spero siano arrivati senza
inconvenienti. Se voi e i vostri
uomini avete bisogno di ristoro, il
castello di Rivoli è noto per la sua
ospitalità e sarò ben lieta di farne gli
onori a un ufficiale e a dei soldati di
mio fratello Luigi XIII.»
«Signora» rispose Latil facendo
ricorso a tutti i suoi ricordi della
vecchia corte per rispondere a colei
che si era appena fatta riconoscere
come sorella del re, moglie del
principe di Piemonte e nuora del
duca di Savoia, «la nostra visita non
aveva altro scopo che di darvi
notizie delle Loro Altezze, che
abbiamo incontrato dieci minuti fa,
dirette, come mi avete fatto l’onore
di dirmi, a Torino dove avevano
gran fretta di arrivare, a giudicare da
come spronavano i cavalli. Quanto
all’ospitalità che ci avete fatto
l’onore di offrirci, ci è purtroppo
impossibile accettarla, dovendo
andare a riferire al cardinale le
notizie che abbiamo or ora
ricevuto.»
E, salutando la principessa
Christine con una cortesia che chi
non lo conosceva poteva stupirsi di
trovare in un capitano di ventura:
«Andiamo» disse raggiungendo i
suoi uomini, «come sospettavo
siamo stati preceduti e abbiamo fatto
un buco nell’acqua!»

1 Richelieu nel capitolo precedente aveva


invece dichiarato come data di inizio delle
ostilità il 17 marzo. [NdT]
XXI
Dove il conte di Moret s’incarica
di far entrare un mulo e un milione
nel forte di Pinerolo
Richelieu, nell’apprendere il
risultato della spedizione di Latil,
montò su tutte le furie. Come Latil,
fu subito certo che il duca di Savoia
era stato avvertito.
Ma da chi?
Con una sola persona, il duca di
Montmorency, il cardinale si era
confidato.
Era stato lui ad avvertire Carlo
Emanuele? Sarebbe stato un eccesso
tipico del suo carattere cavalleresco!
Quella cavalleria nei confronti di un
nemico, però, aveva quasi il
carattere di un tradimento nei
confronti del suo re.
Senza dire niente dei suoi sospetti
su Montmorency, perché sapeva che
Latil era affezionato al duca e al
conte di Moret, Richelieu interrogò
a lungo il capitano sul cavaliere
intravisto nell’oscurità.
Latil riferì tutto quello che aveva
visto, dichiarò di avere scorto un
ragazzo giovane, tra i diciassette e i
diciotto anni, che portava un ampio
cappello di feltro con una piuma
colorata, avvolto in un mantello blu
o nero. Il cavallo era scuro come la
notte nella quale si confondeva.
Rimasto solo, il cardinale si
informò sulle sentinelle di guardia
dalle otto alle dieci di sera; da Susa
non si poteva né uscire né entrare
senza parola d’ordine, che quella
sera era Susa e Savoia. Ora, la
parola d’ordine era conosciuta
solamente dai capi: i marescialli di
Schomberg, di Créqui e della Force,
il conte di Moret, il duca di
Montmorency eccetera.
Fece chiamare in suo cospetto le
sentinelle per interrogarle.
Una di esse, alla descrizione fatta
dal cardinale, dichiarò di aver visto
passare un ragazzo che vi
assomigliava. Ma invece di uscire
dalla porta d’Italia era uscito dalla
porta di Francia; aveva risposto
correttamente alla parola d’ordine.
In realtà, che fosse uscito dalla
porta di Francia non significava
nulla. Una volta fuori, niente gli
impediva di girare intorno alla città
e andare a imboccare la strada
d’Italia. Con la luce avrebbero
controllato.
Trovarono infatti le orme di un
cavallo. Aveva percorso la strada
immaginata, cioè una volta uscito
dalla porta di Francia aveva fatto il
giro della città e a un quarto di
miglia oltre Susa aveva raggiunto la
strada d’Italia.
Non c’era più nulla che
trattenesse a Susa il cardinale. Il
giorno prima aveva annunciato a
Vittorio Amedeo che la guerra era
dichiarata. Verso le dieci del
mattino, quindi, concluse le
investigazioni, tamburi e trombe
diedero il segnale della partenza.
Il cardinale fece sfilare davanti a
sé i quattro corpi d’armata
comandati da Schomberg, da de la
Force, da Créqui e da Montmorency.
Fra gli ufficiali che gli stavano al
fianco c’era Latil.
Come sempre, Montmorency
ostentava un gran seguito di
gentiluomini e di paggi. Fra questi,
Galaor, con un ampio cappello di
feltro con piume rosse, in sella a un
cavallo nero.
Nel veder passare il giovane,
Richelieu toccò la spalla di Latil.
«Potrebbe essere» rispose lui,
«ma non potrei giurarlo.»
Richelieu aggrottò le ciglia,
fulminò il duca con lo sguardo e,
mettendo il cavallo al galoppo, andò
a prendere la testa della colonna,
preceduto solamente dagli
esploratori, chiamati allora enfants-
perdus.
Indossava la sua abituale tenuta
da guerra, sotto la corazza portava
un giubbetto color foglia morta
arricchito da un sottile ricamo d’oro.
Una piuma ondeggiava sul cappello
di feltro. Ma poiché il nemico si
poteva incontrare da un momento
all’altro, due paggi marciavano
davanti a lui portando uno i suoi
guanti di ferro e uno il suo elmo; al
suo fianco, altri due paggi tenevano
per le briglie un cavallo da corsa di
gran valore. Cavois e Latil, cioè il
suo capitano e il suo luogotenente
delle guardie, camminavano dietro
di lui.
Dopo un’ora di marcia, arrivarono
a un fiumiciattolo che il cardinale si
era premurato di far sondare il
giorno prima; spinse quindi per
primo in acqua il proprio cavallo,
senza preoccuparsi, e per primo
arrivò senza inconvenienti sull’altra
sponda.
Mentre l’armata attraversava il
corso d’acqua, cominciò a cadere
una pioggia torrenziale; ma il
cardinale proseguì la marcia senza
badarvi. È vero che sarebbe stato
difficile mettere al riparo un intero
esercito nelle casupole isolate che
s’incontravano lungo la strada. Ma i
soldati, che delle difficoltà non si
preoccupavano, cominciarono a
mormorare e a mandare al diavolo il
cardinale. Le lamentele erano
pronunciate a voce abbastanza alta
perché il cardinale non ne perdesse
una sillaba.
«Ebbene» disse rivolgendosi a
Latil, «senti, Étienne?»
«Che cosa, monsignore?»
«Tutto quello che dicono di me
questi balordi.»
«Be’, monsignore» replicò Latil
ridendo, «tutti i soldati, quando
soffrono, mandano al diavolo il loro
capo; ma su un principe della Chiesa
il diavolo non ha presa.»
«Quando indosso la veste
cardinalizia, forse. Ma non quando
porto l’uniforme di Sua Maestà.
Passa tra le file, Latil, e raccomanda
di stare tranquilli.»
Latil obbedì e tornò al suo posto
accanto al cardinale.
«Ebbene?»
«Ebbene, monsignore, porteranno
pazienza.»
«Hai detto che ero scontento di
loro?»
«Me ne sono guardato bene,
monsignore.»
«E che cos’hai detto, allora?»
«Che Vostra Eminenza era
riconoscente della maniera in cui
sopportavano le difficoltà del
cammino e che arrivati a Rivoli
avranno doppia razione di vino.»
Il cardinale si morse i baffi.
«Forse hai fatto bene!»
E infatti i mormorii si erano
placati; è vero che il tempo si era
schiarito e alla luce di un raggio di
sole si vedevano brillare i tetti a
terrazza del castello di Rivoli e del
paese raccolto intorno al castello.
Si marciò senza sosta e si arrivò a
Rivoli verso le tre.
«Vostra Eminenza mi dà incarico
di distribuire il vino?» domandò
Latil.
«Dal momento che hai promesso
a questi balordi una doppia razione,
bisogna ben dargliela, ma che tutto
sia pagato in contanti.»
«Non chiedo di meglio,
monsignore, ma per pagare...»
«Ci vuole il denaro, no?»
Il cardinale si fermò e rimanendo
in sella scrisse su un foglietto:
Il tesoriere pagherà la somma di mille
lire a monsieur Latil, che me ne renderà
conto.

E firmò.
Latil lo precedette.
Quando l’esercito entrò a Rivoli,
tre quarti d’ora più tardi, i soldati
videro, con una soddisfazione
inizialmente muta ma ben presto
rumorosamente manifestata, una
botte di vino aperta ogni dieci porte
e un’armata di bicchieri attorno a
ogni botte. Alla vista del vino, i
mormorii provocati dall’acqua si
trasformarono in acclamazioni e le
grida di «Viva il cardinale!» si
levarono da tutte le file.
In mezzo a quel clamore, Latil si
avvicinò al cardinale.
«Allora, monsignore?»
«Allora, Latil, credo che tu
conosca i soldati meglio di me.»
«Perdio! A ognuno il suo
mestiere! Io conosco meglio i soldati
perché con i soldati ho vissuto.
Vostra Eminenza conosce meglio gli
ecclesiastici perché con gli
ecclesiastici ha vissuto.»
«Latil» disse il cardinale posando
una mano sulla spalla del
condottiero, «c’è una cosa che
imparerai quando li avrai frequentati
tanto quanto i soldati: ed è che, più
vivi con gli uomini di Chiesa, meno
li conosci.»
Poi, radunando attorno a sé i capi
principali, visto che erano giunti al
castello di Rivoli:
«Signori» disse, «credo che il
castello sia abbastanza grande
perché ognuno di voi vi trovi posto:
del resto, ci sono qui monsieur de
Montmorency e monsieur de Moret
che ci sono venuti quando era
abitato dal duca di Savoia e che ci
faranno da marescialli degli
alloggi.»
Poi aggiunse:
«Fra un’ora il Consiglio si riunirà
da me. Fate in modo di esserci, si
tratta di una deliberazione
importante.»
I marescialli e gli alti ufficiali,
bagnati fino alle ossa e desiderosi di
riscaldarsi non meno dei soldati,
salutarono il cardinale e promisero
di essere puntuali all’appuntamento.
Un’ora dopo, i sette capi ammessi
al Consiglio, e cioè il duca di
Montmorency, i marescialli di
Créqui, di Schomberg, della Force,
di Thoyras, il conte di Moret e
monsieur d’Auriac, erano seduti
nello studio che il duca di Savoia
aveva lasciato il giorno prima e dove
il cardinale di Richelieu li aveva
convocati.
Il cardinale si alzò, impose
silenzio con un gesto e, appoggiando
le mani sul tavolo:
«Signori» disse, «abbiamo un
passaggio aperto sul Piemonte, il
passo di Susa, che alcuni fra voi
hanno conquistato a prezzo del loro
sangue. Ma con un uomo in
malafede come il duca di Savoia un
passaggio non basta; ce ne
occorrono due. Ecco dunque il mio
piano d’attacco: prima di spingere
oltre la nostra aggressione all’Italia,
vorrei assicurarci in caso di bisogno,
sia per la nostra ritirata sia invece
per far passare nuove truppe, un
passaggio dal Piemonte al Delfinato,
impadronendoci della fortezza di
Pinerolo. Come sapete, signori,
Enrico III, troppo debole, lo alienò
in favore del duca di Savoia.
Gonzaga, duca di Nevers, padre di
questo stesso Charles duca di
Mantova a causa del quale
attraversiamo le Alpi, governatore di
Pinerolo e generale delle armate
francesi in Italia, fece invano uso di
tutta la sua intelligenza ed eloquenza
per distogliere Enrico III da una
decisione così pregiudizievole alla
corona. Si direbbe quasi che il
coraggioso e prudente duca di
Nevers avesse previsto che suo
figlio, divenuto duca di Mantova, si
sarebbe trovato a rischio di essere
spogliato dei suoi Stati per la
mancanza di un passaggio aperto
alle truppe francesi. Vedendo che re
Enrico III persisteva nella sua
risoluzione, Gonzaga chiese che la
carica di governatore di Pinerolo gli
venisse tolta prima della sua
alienazione, perché non voleva che i
posteri potessero sospettarlo di aver
acconsentito o partecipato a una
cosa tanto contraria al bene dello
Stato.
Ebbene, signori, a noi è riservato
l’onore di restituire la fortezza di
Pinerolo alla corona di Francia. Ma
sarà con la forza o con l’astuzia che
riprenderemo Pinerolo? Con la
forza, dovremo sacrificare molto
tempo e molti uomini.
Ecco perché preferirei l’astuzia.
Filippo il Macedone diceva che
non esistevano luoghi imprendibili
se solo ci si poteva far entrare un
mulo carico d’oro. Io il mulo e l’oro
ce li ho, ma mi manca l’uomo, o
meglio il sistema per farli entrare.
Aiutatemi, darò un milione in
cambio della fortezza.»
Come sempre, per rispondere la
parola fu accordata a ognuno dei
presenti in ordine di età.
Tutti chiesero ventiquattr’ore per
riflettere.
Il conte di Moret era il più
giovane, e quindi a lui toccava
parlare per ultimo. Bisogna pur
dirlo, nessuno faceva assegnamento
su di lui, quando con grande stupore
di tutti lui si alzò e disse,
inchinandosi al cardinale:
«Vostra Eminenza tenga pronti il
mulo e il milione. Mi impegno a
farli entrare entro tre giorni.»
XXII
Il fratello di latte
L’indomani del giorno in cui al
castello di Rivoli si era riunito il
Consiglio, un giovane contadino fra
i ventiquattro e i venticinque anni,
vestito come i montanari della valle
d’Aosta, biascicando il dialetto
piemontese si presentava verso le
otto di sera alla porta della fortezza
di Pinerolo sotto il nome di Gaetano.
Dichiarava di essere il fratello
della cameriera della contessa
d’Espalomba, e chiedeva della
signora 1 Giacinta.
La signora Giacinta, avvertita da
un soldato della guarnigione, ebbe
un gridolino di sorpresa, che a rigore
si sarebbe anche potuto scambiare
per un grido di piacere, ma, come se
prima di obbedire alla voce del
sangue che la chiamava alla porta
della fortezza avesse avuto bisogno
del permesso della sua padrona, si
precipitò in camera della contessa,
da dove uscì cinque minuti dopo per
la stessa porta mentre la contessa si
slanciava fuori dalla porta di fronte e
scendeva veloce le scale che
portavano a un incantevole
giardinetto riservato a lei sola e sul
quale si affacciavano le finestre
della camera di Giacinta.
Arrivata in giardino, si infilò
nell’angolo più riparato, una zona
tutta piantumata a limoni, aranci e
melograni.
Giacinta intanto attraversava il
cortile, sorella felice e ansiosa di
riabbracciare il fratello, gridando
con voce intenerita:
«Gaetano! Caro Gaetano!»
Il giovane le si gettò fra le braccia
e il conte Urbano, che tornava
proprio allora da un giro di guardia e
dall’aver organizzato le postazioni
delle sentinelle, poté assistere allo
slancio gioioso dei due fratelli che,
dissero, non si vedevano da circa
due anni, da quando, cioè, Giacinta
aveva lasciato la casa materna per
seguire la sua padrona.
Giacinta andò a fare una bella
riverenza al conte e a chiedergli di
tenere con sé il fratello che – a
quanto pareva, visto che ancora non
aveva avuto il tempo di spiegarsi
con lui – doveva parlarle di cose
importantissime.
Il conte chiese di vedere Gaetano,
scambiò qualche parola con lui e,
soddisfatto del tono franco del
ragazzo, lo autorizzò a rimanere
nella fortezza. Il soggiorno del resto
non sarebbe durato a lungo, dato che
Gaetano dichiarava di avere a
disposizione non più di
quarantott’ore. Ben presto, ritenendo
inutile perdere tempo con gente di
così poco conto, Espalomba li
congedò e risalì nelle sue stanze.
Gaetano si era subito accorto che
il conte era di cattivo umore e, dato
che la cosa pareva interessargli più
di quanto non sarebbe parso normale
da parte di un contadino che non ha
niente a che fare con le vicende dei
grandi signori, Giacinta gli raccontò
i due motivi che aveva il conte per
lamentarsi del suo sovrano. Il primo
era la corte assidua e insolente che il
duca di Savoia aveva fatto alla
moglie in presenza del marito; e
l’altro l’ordine inatteso ricevuto tre
giorni prima di chiudersi nella
cittadella e di difenderla finché non
ne fosse rimasta pietra su pietra. Il
conte Urbano, del resto, aveva
esplicitamente dichiarato davanti
alla moglie e davanti a Giacinta che,
se avesse trovato da servire Spagna,
Austria o Francia con le stesse
prerogative che aveva in Piemonte,
non si sarebbe fatto scrupolo di
accettare.
Gaetano era sembrato così felice
di quella notizia che, visto che in
quel momento voltavano un angolo
buio del corridoio, preso da una
recrudescenza di affetto per sua
sorella, aveva abbracciato Giacinta e
le aveva stampato un bel bacio sulle
due guance.
La camera di Giacinta si apriva
sul corridoio; fece entrare suo
fratello, entrò dopo di lui e richiuse
la porta.
Gaetano lanciò un grido di gioia.
«Ah» esclamò, «eccomi,
finalmente. E adesso, cara Giacinta,
dov’è la tua padrona?»
«To’! E io che credevo foste
venuto per me» replicò la ragazza
ridendo.
«Per te e per lei» disse il conte,
«ma prima di tutto per lei. Ho delle
faccende politiche da sistemare con
la tua padrona, come sai tu, che sei
la cameriera della moglie di un
uomo di Stato: gli affari prima di
tutto.»
«E dove starete per sistemare
quelle faccende?»
«In camera tua, se non ti disturba
troppo.»
«Davanti a me?»
«Oh, no! Per quanta fiducia
nutriamo nei tuoi confronti,
Giacinta, le nostre faccende sono
troppo gravi per farvi partecipare
una terza persona.»
«E allora io che cosa dovrò fare?»
«Allora tu, Giacinta, seduta in una
poltrona accanto al letto della tua
padrona, le cui cortine saranno
ermeticamente chiuse, visto il grave
malessere che la affligge, veglierai a
che suo marito non entri in camera
sua a svegliarla.»
«Ah, signor conte» sospirò
Giacinta, «non sapevo foste un così
abile diplomatico.»
«Be’, ti sbagliavi. E siccome per
un diplomatico la cosa più preziosa
è il tempo, dimmi in fretta: dov’è la
tua padrona?»
Giacinta fece un gran sospiro, aprì
la finestra e disse soltanto:
«Cercate!»
Il conte allora si ricordò che
Matilde gli aveva parlato mille volte
di quel giardino solitario in cui tanto
spesso aveva sognato di lui. Si
ricordava di aver anche sentito
parlare di un bosco di melograni,
aranci e limoni, che lo rendevano
buio anche in pieno giorno, a
maggior ragione la notte. Quindi,
appena la finestra fu aperta saltò sul
davanzale e da lì in giardino; poi,
mentre Giacinta si asciugava una
lacrima che aveva invano cercato di
trattenere, il conte di Moret s’infilò
nel folto del bosco chiamando
sottovoce:
«Matilde! Matilde! Matilde!»
Fin dalla prima volta in cui sentì
pronunciare il suo nome, Matilde
aveva riconosciuto la voce e si
lanciava in direzione di quella voce,
chiamando a sua volta:
«Antonio!»
Poi, i due innamorati si erano
visti, si erano gettati l’uno nelle
braccia dell’altra e si tenevano
stretti, appoggiati al tronco di un
arancio che, ondeggiando ai loro
movimenti, faceva scendere una
pioggia di fiori sulle loro teste.
Rimasero così per qualche attimo,
se non muti, parlandosi e
rispondendosi soltanto con quel
vago mormorio che, sfuggendo dalle
labbra degli innamorati, dice tante
cose senza che venga pronunciata
una sola parola.
Infine, tutti e due, come tornando
da quell’incantevole mondo ideale
che non si vede che in sogno,
mormorarono contemporaneamente:
«Sei proprio tu!»
E tutti e due risposero in un solo
bacio:
«Sì!»
Poi, recuperando per prima la
ragione:
«E mio marito?» domandò la
contessa.
«Tutto è andato come speravamo,
mi ha scambiato per il fratello di
Giacinta e mi ha permesso di
rimanere al castello.»
Allora si sedettero uno accanto
all’altra, la mano nella mano.
Le spiegazioni fra gli innamorati
sono lunghe. Cominciate in
giardino, continuarono nella camera
di Giacinta, che, come era stato
convenuto, passò la notte, lei, al
capezzale della sua padrona.
Verso le otto del mattino,
bussarono piano alla porta dello
studio del conte; era alzato e vestito,
essendo stato svegliato alle sei da un
messaggero che veniva da Torino
per annunciargli che i francesi erano
a Rivoli e sembravano avere
intenzione di mettere sotto assedio
Pinerolo.
Il conte era pensieroso, come si
indovinò facilmente dal modo in cui
pronunciò la parola Avanti.
La porta si aprì e con grande
stupore lui vide comparire la
contessa.
«Siete voi, Matilde?» esclamò
alzandosi in piedi. «Avete saputo le
ultime notizie? Devo a loro
l’inatteso piacere di questa visita
mattutina?»
«Quale notizia, signore?»
«Con ogni probabilità verremo
assediati!»
«Sì, proprio di questo volevo
discutere con voi.»
«Ma come e da chi avete avuto la
notizia?»
«Ve lo dirò dopo; e comunque, mi
ha impedito di chiudere occhio tutta
la notte.»
«Ve lo si legge in viso, signora:
siete pallida e avete l’aria stanca.»
«Aspettavo con ansia il giorno per
venire a parlarvi.»
«Non potevate farmi svegliare,
signora? La notizia era abbastanza
importante da riferirmela.»
«Quella notizia, signore,
risvegliava in me una quantità di
ricordi e di dubbi tali che, prima di
parlarvene, volevo che ne foste a
conoscenza anche voi e aveste già
riflettuto sulle sue conseguenze.»
«Non vi capisco, signora, e
confesso che, non avendovi mai
udito parlare di affari di Stato o di
guerra...»
«Oh, è vero che si considera
troppo debole la nostra intelligenza
per parlarci di quelle cose.»
«E voi ritenete che sia un errore»
replicò il conte sorridendo.
«Probabilmente sì, perché a volte
potremmo dare qualche buon
consiglio.»
«E se vi domandassi il vostro
parere nella situazione in cui ci
troviamo, che consiglio mi dareste?»
«Prima di tutto, signore» rispose
la contessa, «comincerei con il
ricordarvi quanto il duca di Savoia si
è mostrato ingrato nei vostri
confronti.»
«Sarebbe inutile, signora;
quell’ingratitudine è ben scolpita
nella mia memoria.»
«Vi direi: ricordatevi delle feste di
Torino, durante le quali mi sono
state fatte proprio dal sovrano che
aveva combinato il nostro
matrimonio le proposte più
offensive per il vostro onore nonché
per il mio.»
«Me le ricordo quelle proposte,
signora.»
«Vi direi: non dimenticate le
maniere dure e brutali con cui vi ha
ordinato di lasciare Rivoli e di
venire a Pinerolo ad aspettare i
francesi!»
«Non le ho dimenticate e aspetto
solo il momento di dimostrarlo!»
«Bene, questo momento è
arrivato, e voi vi trovate, signore, in
una di quelle situazioni cruciali in
cui l’uomo, divenuto arbitro del
proprio destino, può scegliersi un
avvenire o un altro: quello di servire
un padrone duro e altero, oppure la
libertà con una eccellente posizione
e un’immensa fortuna.»
Il conte guardò sbalordito la
moglie.
«Confesso, signora» le disse, «che
mi chiedo invano dove vogliate
arrivare.»
«Allora affronterò apertamente la
questione.»
Lo sbalordimento del conte
aumentò.
«Il fratello di Giacinta è al
servizio del conte di Moret.»
«Il figlio naturale di Enrico IV?»
«Sì, signore.»
«E allora, signora?»
«E allora l’altroieri il cardinale di
Richelieu ha detto davanti al conte
di Moret che avrebbe dato un
milione a chi gli consegnasse le
chiavi di Pinerolo!»
Gli occhi del conte mandarono un
lampo di avidità.
«Un milione! Vorrei proprio
vederlo...»
«Lo vedrete quando vorrete,
signore!»
Il conte serrò le mani contratte.
«Un milione» mormorò. «Avete
ragione, signora, vale la pena di
rifletterci. Ma come sapete di questa
offerta?»
«Nella maniera più semplice: il
conte di Moret ha preso in mano la
faccenda e ha mandato Gaetano con
l’ordine di sondare il terreno.»
«Ed è per questo che Gaetano è
venuto a trovare sua sorella ieri
sera?»
«Esattamente. E sua sorella mi ha
pregato di riceverlo; di modo che ha
detto tutto a me, ha fatto a me la
proposta e, se fallisce, sarò stata
compromessa soltanto io.»
«E perché dovrebbe fallire?»
«Se voi rifiutaste... Sarebbe stato
possibile.»
Il conte rimase pensieroso.
«E quali garanzie mi danno?»
«Il denaro.»
«Allora, quali garanzie chiedono
da parte mia?»
«Un ostaggio.»
«Quale ostaggio?»
«È del tutto naturale che al
momento di un assedio voi
allontaniate vostra moglie dalla
fortezza, dove siete deciso a
difendervi fino alla morte. Mi
mandate da mia madre a Selimo, e lì
aspetto che voi mi facciate sapere in
quale città francese – poiché
presumo che, concluso il patto, vi
ritirerete in Francia – dovrò
raggiungervi.»
«E il milione sarà pagato?»
«In oro.»
«Quando?»
«Quando, in cambio dell’oro che
Gaetano vi porterà, voi avrete
consegnato la capitolazione firmata
da voi e autorizzato la mia
partenza.»
«Che Gaetano torni questa sera
con il milione. E siate pronta a
partire con lui.»
Quella sera stessa alle otto, il
conte di Moret, sempre sotto il nome
di Gaetano, entrava, come aveva
promesso al cardinale di Richelieu,
con un mulo carico d’oro nella
fortezza di Pinerolo e ne usciva,
come aveva promesso a se stesso,
con la contessa.
Lei portava la capitolazione datata
due giorni dopo, per dare il tempo al
cardinale di mettere l’assedio
davanti alla fortezza. La guarnigione
avrebbe avuto salvi vita e averi.
1 Qui e subito sotto, in italiano nel testo. [NdT]
XXIII
L’aquila e la volpe
Due giorni dopo, il cardinale entrava
nella fortezza di Pinerolo proprio nel
momento in cui Carlo Emanuele
usciva da Torino per portargli
soccorso.
Ma a tre leghe da Torino, i suoi
uomini mandati in avanscoperta gli
annunciarono che un corpo di circa
ottocento uomini gli andava incontro
con le bandiere dei Savoia.
Mandò un ufficiale per capire di
che corpo si trattasse; e l’ufficiale
tornò dicendo, con suo enorme
stupore, che era la guarnigione di
Pinerolo che tornava a Torino. La
fortezza si era arresa.
La notizia produsse una tremenda
impressione in Carlo Emanuele. Si
fermò un attimo, impallidì, si passò
una mano sulla fronte e, chiamando
il comandante della sua cavalleria:
«Caricate contro questi
miserabili» disse indicando i poveri
diavoli che non ne potevano più,
poiché non era stata la guarnigione
ad arrendersi, bensì il governatore.
«E, se è possibile, che non ne
rimanga uno in piedi.»
L’ordine fu eseguito alla lettera e
tre quarti di quei poveretti furono
passati a filo di spada.
La presa di Pinerolo, di cui il duca
di Savoia ignorò sempre le cause, gli
mostrò la sua posizione da un punto
di vista oggettivo. Riconobbe che
era disastrosa. Tutte le astuzie e tutti
gli intrighi di quarantacinque anni di
regno – e quei quarantacinque anni
di regno erano stati spesi per intero
in intrighi e astuzie – avevano
ottenuto il solo risultato di mettere
un terribile nemico nel cuore dei
suoi Stati. Ora la sua unica risorsa
era di gettarsi fra le braccia degli
spagnoli e degli austriaci; di
implorare Spinola, un genovese e
quindi un nemico, oppure
Wallenstein, un boemo, e quindi uno
straniero.
Era giocoforza cedere sotto il
pugno di ferro della necessità. Il
duca convocò Spinola, comandante
in capo degli spagnoli, e Collalto, al
comando dei tedeschi discesi in
Italia, per invitarli ad aiutarlo contro
i francesi.
Spinola, però, grande
combattente, che da quando aveva
occupato il Milanese non aveva
levato gli occhi di dosso a Carlo
Emanuele, non nutriva nessuna
simpatia per quel piccolo principe
intrigante e ambizioso che tante
volte, con i voltafaccia della sua
politica, gli aveva fatto sguainare e
poi riporre nel fodero la spada.
Quanto a Collalto, la sua discesa in
Italia aveva per unico scopo quello
di nutrire e arricchire il suo esercito
e se stesso e, a coronamento della
campagna che conduceva per
proprio conto, da vero condottiero
qual era, prendere e saccheggiare
Mantova. Si intuisce quanto uomini
di quella tempra potessero lasciarsi
intenerire dalle lamentazioni del
duca di Savoia.
Spinola dichiarò quindi che non
poteva assolutamente indebolire il
suo esercito, di cui doveva invece
conservare tutta la forza per
realizzare i propri progetti nel
Monferrato.
Quanto a Collalto, era tutto un
altro discorso. Come abbiamo detto,
poteva prendere dalla Germania tutti
gli uomini che voleva. Wallenstein,
rimesso a capo di quei banditi,
comandante di più di centomila
uomini, o piuttosto comandato da
loro, in grado di spaventare
Ferdinando II con il proprio potere,
e a volte spaventandosene persino
lui, non chiedeva di meglio che
cederne a qualunque principe
volesse acquistargliene un po’. Fra
Carlo Emanuele e Collalto si dibatté
una mera questione di denaro e,
dopo diverse trattative e un profondo
salasso alle casse del duca di Savoia,
Collalto finì con il cedergli circa
diecimila uomini.
Ci voleva tutto l’odio di Carlo
Emanuele per la Francia per
concludere quel terribile accordo:
significava far entrare in Piemonte
un nemico ben altrimenti temibile di
quello che ne voleva respingere.
Nel campo dei francesi regnava
una severissima disciplina. I soldati
non prendevano nulla se non
pagandolo, mentre i tedeschi
tendevano la mano solamente per
prendere e saccheggiare.
Il duca di Savoia comprese
rapidamente che il meglio che
potesse fare era tentare un’ultima
carta per ammorbidire Richelieu.
Due giorni dopo la presa di
Pinerolo, il cardinale lavorava in
quello studio del conte Urbano
d’Espalomba dove l’indomani
dell’arrivo di Gaetano alla fortezza
la contessa era andata il mattino
molto presto a bussare; gli fu
annunciata la visita di un giovane
ufficiale inviato dal cardinale
Antonio Barberini, nipote del papa e
suo legato presso Carlo Emanuele.
Il cardinale intuì immediatamente
di che cosa si trattava e, poiché ad
annunciarlo era Latil, ed egli aveva
grande fiducia nel coraggio ma
anche nella perspicacia del
luogotenente delle sue guardie:
«Vieni qui» gli disse.
«Eccomi, Eminenza» rispose Latil
portando la mano al cappello.
«Conosci l’inviato di monsignor
Barberini?»
«Non l’ho mai visto,
monsignore.»
«Il nome?»
«Mai sentito prima.»
«Non da te, ma forse da me sì.»
Latil scosse il capo.
«Ci sono pochi nomi noti che io
non conosco» disse.
«Come si chiama?»
«Mazarino Mazarini,
monsignore.»
«Mazarino Mazarini! Hai ragione,
Étienne, non conosco questo nome.
Diavolo! Non mi piace giocare
senza sapere qualcosa delle carte del
mio vicino. Giovane?»
«Tra i ventisei e i ventotto anni sì
e no.»
«Bello o brutto?»
«Belloccio.»
«Fortuna di donna o di prelato!
Da quale parte d’Italia?»
«Dall’accento, direi del regno di
Napoli.»
«Acume e astuzia. Elegante o
trascurato nel vestire?»
«Vanitoso.»
«Mettiamoci in guardia, Latil!
Ventotto anni, belloccio, vanitoso,
inviato dal cardinale Barberini,
nipote di Urbano VIII: dev’essere o
un imbecille, cosa che capirò alla
prima occhiata, o un uomo molto in
gamba, cosa più difficile da capire.
Fallo entrare. In ogni modo, grazie a
te, non sarò sorpreso.»
Cinque minuti dopo la porta si
riapriva e Latil annunciava:
«Il capitano Mazarino Mazarini!»
Il cardinale lanciò un’occhiata al
giovane ufficiale, che era proprio
quale lo aveva dipinto Latil.
Dal canto suo, il giovane ufficiale,
che chiameremo Mazarin – visto
che, naturalizzato nel 1639, tolse le
ultime due lettere del suo nome 1 ed
è con quello di Mazarin che la storia
ha registrato uno dei maggiori
furfanti che abbia mai amministrato
un regno –, mentre salutava il
cardinale, fece di Sua Eminenza un
inventario completo quanto può fare
con un’occhiata un uomo dotato di
mente rapida e indagatrice.
Già una volta, mettendo uno di
fronte all’altro Sully e Richelieu,
abbiamo mostrato il passato e il
presente. Il caso vuole che mettendo
uno di fronte all’altro Richelieu e
Mazarin mostriamo adesso il
presente e il futuro. Solo che questa
volta non potremo dare per titolo al
nostro capitolo Le due aquile, bensì
L’aquila e la volpe.
La volpe dunque entrò con il suo
sguardo acuto e obliquo.
L’aquila la ricevette con il suo
sguardo diritto e profondo.
«Monsignore» disse Mazarin
affettando gran turbamento,
«perdonate la mia emozione nel
trovarmi davanti il primo genio
politico del secolo, io, semplice
capitano delle armate pontificie, e
soprattutto tanto giovane.»
«In effetti, signore, dovete avere
sì e no ventisei anni.»
«Trenta, monsignore.»
Il cardinale si mise a ridere.
«Signore» replicò, «quando,
recatomi a Roma per essere ordinato
vescovo, papa Paolo V mi domandò
la mia età, come voi mi invecchiai di
due anni e gli dissi venticinque
avendone ventitré. Mi ordinò
vescovo, ma dopo l’ordinazione mi
gettai ai suoi piedi e gli chiesi
l’assoluzione. Me la diede; gli
confessai allora che avevo mentito e
mi ero invecchiato di due anni.
Volete l’assoluzione?»
«Ve la chiederò, monsignore»
rispose Mazarin ridendo, «quando
vorrò essere vescovo.»
«Ne avreste l’intenzione?»
«Se potessi avere la speranza di
essere un giorno cardinale come
Vostra Eminenza.»
«Non vi sarà difficile con le
protezioni di cui godete.»
«E chi ha detto a monsignore che
godo di protezioni?»
«La missione di cui siete
incaricato, visto che, così mi hanno
detto, venite dalla parte del cardinale
Antonio Barberini.»
«In ogni modo la mia protezione
sarebbe di seconda mano, essendo io
il protetto solamente del nipote di
Sua Santità.»
«Datemi la protezione di un
nipote di Sua Santità e io vi cedo
quella di Sua Santità stessa.»
«Eppure dovete sapere che cosa
pensa Sua Santità dei nipoti.»
«Credo che abbia detto un giorno,
in un momento di franchezza, che il
suo primo nipote, Francesco
Barberini, che ha fatto entrare nel
Sacro Collegio, era capace solo di
recitare il Pater noster; che suo
fratello Antonio, quello che vi
manda da me, aveva come unico
merito la puzza della tonaca, ragione
per cui gli aveva dato la veste da
cardinale; che il cardinale Antonio il
giovane, soprannominato
Demostene perché balbetta, è capace
tutt’al più di ubriacarsi tre volte al
giorno; e che l’ultimo di tutti,
Taddeo, che aveva nominato
generalissimo della Santa Sede, era
più bravo a reggere una conocchia
che una spada.»
«Ah, monsignore, non vi chiederò
altro. Dopo avermi detto che cosa
pensa lo zio dei nipoti, sareste
capace di riferirmi che cosa dicono i
nipoti dello zio.»
«Che i grandi favori che ricevono
da Urbano VIII sono le più che
legittime ricompense delle pene che
si sono dati per farlo eleggere. Che
al primo turno degli scrutini il futuro
pontefice non aveva nemmeno un
voto. Che, mischiatisi al popolino
romano, a furia di denaro lo hanno
convinto ad andare sotto le finestre
di Castel Sant’Angelo, dove si
svolgevano l’elezione, a gridare:
“Morte e fiamme o Barberini
papa!”. Al secondo scrutinio ebbe
cinque voti: era già qualcosa, ma ne
occorrevano tredici. A capo della
cabala che non voleva saperne di lui
c’erano due cardinali. In tre giorni
sparirono: uno, si disse, colpito da
apoplessia, e l’altro da aneurisma.
Furono sostituiti da due partigiani
del candidato supremo; e si giunse a
sette voti. Morirono altri due
cardinali fra i più accaniti a
contrastarlo. Si parlò di
un’epidemia, a tutti venne una gran
fretta di lasciare il Conclave e
Barberini ebbe quindici voti invece
dei tredici che gli occorrevano.»
«Non era un prezzo troppo alto
per le grandi riforme che Sua Santità
ha varato appena asceso al trono
pontificio.»
«Effettivamente» riconobbe
Richelieu. «Ha proibito ai recolletti
di portare i sandali e il cappuccio a
punta come i cappuccini; ha proibito
ai vecchi carmelitani di chiamarsi
carmelitani riformati; ha costretto i
premostratensi di Spagna a
riprendere la vecchia tonaca e il
nome di fratres che avevano
abbandonato per orgoglio. Ha
beatificato due fanatici teatini,
Andrea Avellino e Gaetano da
Thiene; un carmelitano scalzo,
Felice da Cantalice; un illuminato, il
carmelitano fiorentino Corsini; due
mistiche in estasi, Maria Maddalena
de’ Pazzi ed Elisabetta, regina del
Portogallo; e per finire il beato san
Rocco e il suo cane.»
«Basta, basta» intervenne
Mazarin, «vedo che Vostra
Eminenza è ben informata su Sua
Santità, i suoi nipoti e la curia
romana.»
«Ma voi» disse Richelieu, «che
mi sembrate un uomo intelligente,
come mai siete al soldo di simili
nullità?»
«Si comincia da dove si può,
monsignore» disse Mazarin con il
suo sorrisetto.
«Giusto» disse Richelieu. «E
adesso che abbiamo parlato
abbastanza di loro, parliamo di noi.
Perché venite da me?»
«Per chiedervi una cosa che non
mi accorderete.»
«Perché?»
«Perché è assurda.»
«Perché avete accettato l’incarico,
allora?»
«Per incontrare l’uomo che stimo
di più al mondo.»
«E qual è quella cosa?»
Mazarin alzò le spalle.
«Sono incaricato di dire a Vostra
Eminenza che, dopo la presa della
fortezza di Pinerolo, il signor duca
di Savoia è diventato docile come un
agnello e insinuante come una serpe.
Ha dunque pregato Sua Eminenza
monsignore il legato di farvi
domandare se, come segno di
considerazione per la principessa di
Piemonte, sorella del vostro re, voi
avreste la generosità di restituirgli la
fortezza di Pinerolo, concessione
che farebbe fare grandi passi avanti
alla pace.»
«Sapete, caro capitano, che avete
fatto davvero bene a iniziare come
avete fatto, altrimenti mi sarei
domandato se foste uno stupido ad
assumere un’ambasciata simile
oppure se prendevate per uno
stupido me. No, no di certo!
L’alienazione della fortezza di
Pinerolo fu una vergogna del regno
di Enrico III; sarà una gloria del
regno di Luigi XIII.»
«Devo riportare la vostra risposta
nei termini in cui me l’avete data?»
«No, non esattamente.»
«Allora ditemi, monsignore.»
«Sua Maestà ancora non sa della
presa di Pinerolo; non posso fare
niente, se prima non mi dichiara se
vuole conservare la piazza o farne
grazioso dono a Madame sua
sorella. Mi scrivono che il re ha
lasciato Parigi e si dirige verso
l’Italia; aspettiamo che arrivi a
Lione o a Grenoble. In quel
momento potremo iniziare
seriamente i negoziati e dare risposte
più precise.»
«Potete stare tranquillo,
monsignore, riporterò la vostra
risposta parola per parola. Ma, se me
lo permettete, lascerò loro la
speranza.»
«Che cosa se ne faranno?»
«Niente. Ma io forse me ne farò
qualcosa.»
«Contate di rimanere in Italia?»
«No, ma prima di lasciarla voglio
ricavarne tutto quello che ancora
può darmi.»
«Credete che l’Italia non possa
offrirvi un avvenire sufficiente alla
vostra ambizione?»
«L’Italia è un paese condannato
per parecchi secoli, monsignore.
Ogni italiano che incontri un
compatriota deve dirgli: Memento
mori. L’ultimo secolo, lo sapete
meglio di me, monsignore, è stato
un secolo di crolli; ha sbriciolato
tutto quanto restava dei tempi
feudali. I due grandi poteri del
medioevo, Impero e Chiesa, si sono
come sciolti. Il papa e l’imperatore
erano le due metà di Dio; dopo
Rodolfo d’Asburgo, l’Impero è
diventato una dinastia; dopo Lutero,
il papa è solamente il rappresentante
di una setta.»
Mazarin parve volersi
interrompere.
«Avanti, andate avanti, vi
ascolto.»
«Mi ascoltate, monsignore! Fino a
oggi dubitavo di me, ma se voi mi
ascoltate non dubito più. Ci sono
ancora italiani, ma non c’è più
l’Italia, monsignore. La Spagna ha
in suo potere Napoli, Milano,
Firenze e Palermo, quattro capitali.
La Francia ha la Savoia e Mantova.
Venezia perde ogni giorno di più la
sua influenza; Genova vive alla
giornata. Un aggrottamento di ciglia
di Filippo IV o di Ferdinando II fa
tremare il successore di Gregorio
VII. L’autorità ha sconfitto ovunque
la libertà; ma l’autorità manca di
forza, i nobili hanno annullato il
popolo, ma si sono ridotti allo stato
di cortigiani. Il potere monarchico
ha trionfato ovunque e ovunque è
circondato di nemici terribili e
invisibili, che lo costringono a
circondarsi a sua volta di eserciti
permanenti, di sbirri, di bravi, a
munirsi di contravveleni, a indossare
cotte di maglia di ferro, e, quel che è
peggio, a dare la mano al Concilio di
Trento, all’Inquisizione, all’Indice.
La febbre della lotta sulle piazze
pubbliche e sui campi di battaglia è
scomparsa, e con essa la vita.
L’ordine regna ovunque, e l’ordine è
la morte dei popoli.»
«E dove andrete, se lascerete
l’Italia?»
«Dove ci saranno rivoluzioni,
monsignore; forse in Inghilterra,
probabilmente in Francia.»
«E se venite in Francia, sarete
disposto a dovermi qualcosa?»
«Sarò felice e fiero di dovervi
tutto, monsignore.»
«Spero che ci rivedremo,
monsieur Mazarin.»
«È il mio solo desiderio,
monsignore.»
E il compiacente napoletano
s’inchinò fino a terra e indietreggiò
fino alla porta.
«Avevo sentito dire» mormorò il
cardinale «che i topi abbandonano la
nave che sta per affondare; ma non
sapevo che fosse per salire su quella
che si prepara ad affrontare la
tempesta.»
Poi aggiunse pianissimo:
«Quel giovane capitano andrà
lontano, soprattutto se cambia
l’uniforme con una tonaca.»
Infine, alzandosi, il cardinale
raggiunse e attraversò l’anticamera,
tanto immerso nei suoi pensieri da
non vedere un corriere che arrivava
dalla Francia.
Latil glielo fece notare.
Il cardinale fece segno al corriere
di avvicinarsi e lui gli consegnò una
lettera proveniente dalla Francia.
«Ah, ah» disse Richelieu vedendo
che il messaggero era coperto di
polvere, «sembra che la lettera che
porti sia urgente.»
«Molto urgente, monsignore.»
Il cardinale prese la lettera e
l’aprì: non conteneva che poche
parole, ma, come vedremo, era di
una certa importanza.
Fontainebleau, 17 marzo 1630
Il re, partito per Lione, non è andato
oltre Troyes. Tornato a Fontainebleau.
Innamorato! In guardia.
P.S. Cinquanta pistole al corriere, se
arriva prima del 25 prossimo.

Il cardinale rilesse la lettera due o


tre volte; le due iniziali gli dicevano
che era di Saint-Simon, e lui non
aveva l’abitudine di dargli notizie
false. Ma quella era talmente
inverosimile che ebbe dei dubbi.
«Comunque» disse a Latil, «vai a
chiamarmi il conte di Moret; è il suo
momento.»
«Monsignore non sa» replicò
Latil ridendo «che il signor conte di
Moret è andato ad accompagnare il
suo bell’ostaggio a Briançon?»
«Vai a cercarlo ovunque si trovi e
digli, per convincerlo a venire senza
indugio, che incarico lui di portare a
Fontainebleau la notizia della presa
di Pinerolo!»
Latil s’inchinò e uscì.

1 In realtà gli è bastato togliere una lettera sola,


tanto più che il suo vero nome era Giulio
Mazarino, francesizzato in Jules Mazarin. [NdT]
XXIV
L’aurora
Come abbiamo detto in uno dei
capitoli precedenti, tormentato dalle
insistenze della madre, spaventato di
aver reso troppo potente suo fratello
con gli ultimi favori che gli aveva
concesso, consapevole che la regina
Anna, malgrado glielo avesse
proibito, continuava a vedere
l’ambasciatore spagnolo e a
cospirare con lui, re Luigi XIII,
lontano dal cardinale, lontano cioè
dalla sua anima politica, era caduto
in una malinconia che nulla poteva
scacciare. E in quella lotta senza
tregua ciò che più lo lasciava
stremato era comprendere, grazie a
quel raggio d’intelligenza morale
che Dio gli aveva concesso, che
Richelieu era più necessario di lui al
bene dello Stato. Eppure tutti coloro
che lo circondavano, con l’eccezione
dell’Angely, il suo buffone, e di
Saint-Simon, di cui aveva fatto il
suo primo scudiero, o si erano
apertamente dichiarati avversi
all’uomo che lui riteneva
indispensabile, o cospiravano
nascostamente contro di lui.
Sempre e in ogni epoca esiste una
società, cosiddetta degli uomini
perbene, che si solleva contro le idee
nuove o generose e che difende il
passato, cioè la routine, contro
l’avvenire, cioè il progresso. Quella
società dello status quo, che difende
l’immobilità contro il movimento, la
morte contro la vita, vedeva in
Richelieu uno di quei rivoluzionari
che epurano il paese, è vero, ma che
per epurarlo lo sconvolgono. Ora,
Richelieu era chiaramente nemico
non solo di quella gente perbene, ma
anche della società cattolica. Senza
di lui, la pace avrebbe regnato in
Europa: Piemonte, Spagna, Austria e
Roma, seduti allo stesso tavolo, si
sarebbero tranquillamente messi a
mangiare, foglia dopo foglia, quel
carciofo che ha nome Italia.
L’Austria avrebbe preso Mantova e
Venezia; il Piemonte il Monferrato e
Genova; la Spagna il Milanese,
Napoli e la Sicilia; Roma, cioè
Urbano, la Toscana e i piccoli
ducati; e la Francia, tranquilla e
spensierata, avrebbe assistito dal di
là delle Alpi a quel banchetto da
leoni cui non era invitata. Chi si
opponeva alla pace? Richelieu,
solamente Richelieu. Questo
insinuava il papa, questo
proclamavano Filippo IV e
l’imperatore, questo ripetevano in
coro la regina Maria de’ Medici, la
regina Anna d’Austria e la regina
Henriette d’Inghilterra.
Dopo le grandi voci, a gridare
l’anatema contro il ministro
venivano quelle meno importanti:
quella del duca di Guise, che, dopo
aver sperato di partecipare alla
guerra, non vi aveva partecipato e si
era rifugiato nel suo governatorato
in Provenza; quella di Créqui,
governatore del Delfinato, che
riteneva suo diritto ereditare la spada
di connestabile del suocero; quelle
di Lesdiguières e Montmorency, cui
quella spada era stata promessa e
che temeva di vedersela sfuggire
dalle mani dopo aver rifiutato di
rapire il duca di Savoia; infine,
quelle di tutti i grandi signori: i
Soissons, i Condé, i Conti, gli
Elbeuf, spaventati di vedere la
sistematica ostinazione del cardinale
ad abbassare e spogliare tutte le
grandi case del regno.
Malgrado tutto questo, e forse
anzi proprio per via di tutto questo,
Luigi aveva deciso di lasciare Parigi
e di mantenere la promessa fatta al
cardinale di raggiungerlo in Italia.
Inutile dire che tale decisione, che
rimetteva il re sotto la diretta tutela
del cardinale, aveva fatto lanciare
alte grida alle due regine, le quali
avevano dichiarato che se il re fosse
andato in Italia lo avrebbero seguito.
Il timore per la salute del re forniva
loro un ammirevole pretesto.
Malgrado tutti questi contrasti, il
re aveva fatto avvertire il cardinale
della propria partenza e il 21
febbraio era infatti partito per Lione.
Avrebbe seguito la strada della
Champagne e della Borgogna; le due
regine e il Consiglio lo avrebbero
raggiunto a Lione.
Ma le cose non si svolsero così
tranquillamente. L’indomani del
giorno in cui il re aveva lasciato
Parigi, suo fratello Gaston, che fino
a quel momento non aveva osato
lasciare la sua città di Orléans,
oltrepassava in carrozza di posta e
con gran clamore la porta della
capitale e verso le nove di sera si
presentava dalla regina madre, che
riuniva la sua cerchia.
Maria de’ Medici si alzò tutta
stupita e, fingendosi in collera,
congedò le dame e andò a chiudersi
con Gaston nel suo studio, dove la
regina Anna entrò pochi minuti dopo
da una porta secondaria.
Lì si ristabilì il patto, eternamente
proposto dalla regina Maria, di un
matrimonio fra Monsieur e la regina
Anna in caso di morte del re. Quel
matrimonio avrebbe significato per
Maria de’ Medici una reggenza
prolungata e lei avrebbe volentieri
perdonato a Dio di toglierle il suo
primogenito se le avesse concesso
quella compensazione: era un patto
in cui la regina Maria, accecata dal
proprio interesse e proprio perché
agiva nel proprio interesse, era la
sola ad agire con franchezza.
Il duca d’Orléans si era impegnato
con il duca di Lorena, della cui
sorella era innamorato, e non aveva
nessuna intenzione di sposare la
vedova di suo fratello, che aveva
sette anni più di lui e il deplorevole
precedente di Buckingham. Dal
canto suo, la regina Anna detestava
il cognato e, detestandolo più ancora
di quanto non lo disprezzasse, non si
fidava della sua parola.
Cionondimeno, si scambiarono ogni
genere di promesse e perché non si
sospettasse che cosa era successo
nello studio, in cui peraltro nessuno
sapeva ci fosse anche la regina
Anna, il giorno dopo si sparse la
voce che il duca d’Orléans si era
recato a Parigi solamente per
ribadire a sua madre il proprio
persistente amore per la principessa
Maria Gonzaga e la propria risoluta
volontà di approfittare dell’assenza
del fratello per sposarla.
Tale voce fu confermata dal fatto
che, l’indomani dell’arrivo del duca,
Maria de’ Medici aveva chiamato
presso di sé la giovane principessa e
l’aveva trattenuta al Louvre, dove
era più o meno prigioniera.
Da parte sua, Gaston protestava
così rumorosamente per
quell’opposizione ai suoi più vivi
desideri che tutti gli scontenti
presero ad avvicinarsi a lui e a fargli
intendere che, se avesse voluto, in
assenza del re, dichiararsi
apertamente contro il cardinale,
avrebbe presto trovato un partito
numeroso e potente a sostenerlo non
solo contro Richelieu, ma contro
Luigi XIII, la cui caduta poteva ben
seguire quella del suo ministro. Un
evento di grande rilievo fece per un
momento credere che Gaston avesse
accettato le proposte che gli erano
state fatte. Essendosi il cardinale
della Valette, figlio del duca
d’Épernon, e il cardinale di Lione,
fratello del duca di Richelieu, quello
che si era tanto valorosamente
comportato durante la peste, recati
insieme a far visita al duca
d’Orléans, egli fece una gran festa al
cardinale della Valette e lasciò a fare
anticamera il cardinale di Lione,
senza rivolgergli né uno sguardo né
una parola.
Il giorno dopo l’arrivo di Gaston a
Parigi, la regina madre aveva scritto
a Luigi XIII per informarlo di quel
ritorno, inaspettato per tutti ma
probabilmente non per lei;
naturalmente non fece parola del
colloquio e degli accordi fra la nuora
e il figlio, ma insistette lungamente
sull’amore di Gaston per Maria
Gonzaga.
Luigi, che era già a Troyes,
appena ricevette la lettera della
madre, annunciò che tornava a
Parigi; ma a Fontainebleau un
corriere lo informò che alla notizia
del suo ritorno Gaston era
immediatamente partito per la sua
casa di Limours.
Tre giorni dopo si seppe che il re,
invece di proseguire il suo viaggio,
avrebbe festeggiato la Pasqua a
Fontainebleau.
Che cosa aveva potuto spingerlo a
quella nuova decisione? Lo diremo
subito.
La sera della riunione fra la regina
madre, Gaston e la regina Anna al
Luxembourg, quest’ultima trovò
nelle sue stanze madame de Fargis,
giunta dalla Spagna dove era andata,
come abbiamo detto, a sostenere il
morale politico del marito, che si
temeva gli venisse meno.
Decisa la guerra tra Francia e
Piemonte, a Madrid non c’era più
bisogno di quel sostegno e madame
de Fargis, con gran piacere di Anna
d’Austria, fu richiamata a Parigi.
La regina lanciò dunque un grido
di gioia vedendola e, poiché
l’ambasciatrice metteva un
ginocchio a terra per baciarle la
mano, la rialzò e l’abbracciò
stringendosela al cuore.
«Vedo» disse sorridendo madame
de Fargis «che la mia lunga assenza
non mi ha fatto perdere il favore di
Vostra Maestà.»
«Al contrario, mia cara amica»
replicò la regina, «la tua assenza mi
ha fatto apprezzare la tua fedeltà e
mai ho avuto bisogno di te come
stasera.»
«Arrivo a proposito, allora, e
spero di provare alla mia sovrana
che, vicina o lontana, non smetto di
occuparmi di lei. Ma allora, che cosa
succede che renda così necessaria la
presenza della vostra umile serva?»
La regina le raccontò della
partenza del re, dell’arrivo di Gaston
e della sorta di patto che ne era
seguito.
«E Vostra Maestà si fida di suo
cognato?» domandò madame de
Fargis.
«Neanche per sogno; la promessa
che mi ha fatto ha l’unico scopo di
farmi aspettare, quietando i miei
timori.»
«Il re sta sempre male?»
«Moralmente sì; fisicamente no.»
«In un re il morale è tutto, lo
sapete, signora.»
«Che fare?» domandò la regina.
Poi, più piano:
«Sai, cara, che gli astrologi
dichiarano che il re non supererà il
segno del Gambero?»
«Perdiana!» disse madame de
Fargis, «ho già proposto un sistema
a Vostra Maestà.»
La regina arrossì.
«Sai bene che non posso
accettare» replicò.
«Peccato, sarebbe la cosa
migliore, tanto che il re di Spagna
Filippo IV la pensa come me.»
«Mio Dio!»
«Preferite fidarvi della parola di
un uomo che non ha mantenuto la
sua parola mai una volta in vita
sua?»
La regina rimase un attimo in
silenzio.
«Ma insomma» disse
nascondendo il viso sul petto della
sua confidente, «anche supponendo,
mia cara Fargis, che, con il
permesso del mio confessore, io
accettassi – oh, mi vergogno solo a
pensarci – il mezzo che mi proponi,
sarebbe un’extrema ratio: prima non
ci sarebbero altre vie da tentare?»
«Mi permettete, mia cara
padrona» rispose madame de Fargis,
approfittando dell’abbandono della
regina per passarle un braccio
attorno al collo fissando su di lei due
occhi splendenti come diamanti, «mi
permettete di raccontarvi una
leggenda della corte di Enrico II, che
riguarda la regina Caterina de’
Medici?»
«Parla, carissima» disse la regina,
lasciandosi andare con un sospiro
contro la spalla della sirena di cui
ascoltava incautamente la voce.
«Bene, dice la leggenda che la
regina Caterina de’ Medici, arrivata
in Francia a quattordici anni e fatta
subito sposare al giovane re Enrico
II, rimase, come Vostra Maestà,
undici anni senza avere figli.»
«Sono sposata da quattordici anni,
io!» replicò la regina.
«Voglio dire» spiegò ridendo
madame de Fargis «che le nozze di
Vostra Maestà risalgono al 1616, ma
il suo matrimonio vero e proprio
solamente al 1619.»
«È vero» riconobbe la regina. «E
a che cosa era dovuta la sterilità di
Caterina? Non mi pare proprio che
re Enrico II nutrisse la stessa
avversione di re Luigi XIII, e
madame Diane de Poitiers ne fa
fede.»
«Non nutriva avversione per le
donne, no, ma per sua moglie sì.»
«Credi che il re nutra avversione
per la mia persona in particolare,
Fargis?»
«Per Vostra Maestà, ventre saint-
gris! – come diceva il re suo padre e
come dice il mio bel conte di Moret,
cui Vostra Maestà non bada
abbastanza –, sarebbe difficile!»
Poi, rivolgendo uno sguardo che
avrebbe potuto essere di Saffo alla
regina che, punta da quel dubbio, si
era raddrizzata:
«E dove potrebbe trovare»
proseguì «occhi come i vostri, una
simile bocca, capelli così e»
passando la mano sul collo flessuoso
della regina «una pelle come questa?
No, no, mia regina, voi possedete
tutte le bellezze. Ma Caterina de’
Medici, per sua disgrazia, non aveva
nulla di tutto questo. Anzi. Nata da
un padre e da una madre morti della
brutta malattia allora tanto diffusa,
aveva la pelle fredda e viscida di una
serpe.»
«Che cosa mi racconti, cara?»
«La verità. E così, quando il
giovane re, abituato alla pelle bianca
e setosa di madame de Brézé, sentì
scivolargli accanto quel cadavere
vivente, esclamò che gli avevano
mandato non un fiore di palazzo
Pitti, bensì un verme della tomba dei
Medici.»
«Smettila, Fargis, mi dai i
brividi.»
«Ebbene, mia bella regina,
quell’avversione di Enrico II per sua
moglie, chi la vinse? Quella che
aveva interesse a farla smettere:
quella stessa Diane de Poitiers che,
se il re fosse morto senza figli,
sarebbe caduta in mano a un altro
duca d’Orléans, che non era molto
meglio del vostro.»
«Dove vuoi arrivare?»
«A questo: se il re s’innamorasse
di una donna di cui noi fossimo
sicure, quella donna, facendo leva
sui sentimenti religiosi del re, lo
farebbe riavvicinare a Vostra Maestà
e allora...»
«E allora?»
«E allora toccherebbe al duca
d’Orléans dipendere da noi, invece
che a noi dipendere da lui.»
«Ah, mia povera Fargis» disse la
regina scuotendo la testa, «re Enrico
II era un uomo.»
«Ma perché, re Luigi XIII non
è...»
La regina rispose con un sospiro.
«E poi, dove troverai una donna
tanto fidata?»
«Ce l’ho.»
«E più bella di...»
La regina s’interruppe, trascinata
da un moto di dubbio e di
irritazione. “Più bella di me” stava
per dire.
Fargis capì.
«Più bella di voi, mia regina, è
impossibile; ma bella di un’altra
bellezza. Voi siete una rosa nel pieno
della sua splendida fioritura; lei ne è
il bocciolo, tanto che nella sua
famiglia e ovunque la chiamano
Aurora.»
«E questa meraviglia appartiene
almeno a una buona casata?»
«Eccellente, signora: è la nipote
di madame de la Flotte, governante
delle damigelle d’onore della regina
madre, e figlia di monsieur de
Hautefort.»
«E dici che mi sarebbe devota?»
«Darebbe la vita per Vostra
Maestà, e» aggiunse sorridendo
«forse qualcosa di più.»
«E sa della parte che si vuole farle
sostenere?»
«Sì.»
«E si rassegna ad accettarlo?»
«Non si rassegna, ne è entusiasta.
L’interesse della Chiesa, signora.
Abbiamo dalla nostra il suo
confessore, che la paragonerà a
Giuditta che salva Betulia, 1 e il
medico del re...»
«Che cosa c’entra Bouvard in
questa faccenda?»
«Convincerà il re vostro sposo
che la sua malattia è la castità.»
«Un uomo che purga o salassa
duecento volte all’anno; mi pare
difficile!»
«Se ne assume il compito.»
«Ma allora è già combinato?»
«Manca solo il vostro consenso.»
«Dovrei almeno vederla,
conoscerla, farle delle domande, a
questa meravigliosa Aurora!»
«Nulla di più semplice, signora, è
qui.»
«Come, qui?»
«Nello stanzino dove stava
mademoiselle de Lautrec, che
monsieur de Richelieu ci ha portato
via proprio quando il re cominciava
a interessarsi a lei. Ma lui non è più
qui.»
«E lei c’è?»
«Sì, signora.»
Nello sguardo che la regina lanciò
alla Fargis si poteva notare una
sfumatura d’irritazione.
«Sei arrivata questa sera e hai
fatto tutte queste cose?» le
domandò. «In verità, non hai perso
tempo, amica mia.»
«Sono arrivata tre giorni fa,
signora, ma ho voluto incontrare
Vostra Maestà solamente quando
tutto fosse stato pronto.»
«Già, e allora è tutto pronto?»
«Sì, signora. Ma se Vostra Maestà
preferisce ricorrere al primo dei
sistemi che le ho proposto, questo
possiamo abbandonarlo.»
«No, no» disse in fretta la regina.
«Fai entrare la tua giovane amica.»
«Dite piuttosto la vostra fedele
serva, signora.»
«Falla entrare!»
Madame de Fargis andò verso la
porta in fondo e l’aprì.
«Venite, Henriette» 2 disse, «la
nostra amata regina acconsente a
ricevere i vostri omaggi.»
La giovane si lasciò sfuggire un
grido di gioia e si slanciò nella
camera.
Vedendola, la regina lanciò da
parte sua un grido di ammirazione e
di meraviglia.
«La ritenete bella abbastanza,
signora?»
«Troppo, forse!» rispose la regina.

1 Nell’Antico Testamento (Giuditta 13, 1-10),


Giuditta salva la sua città, Betulia, decapitando
Oloferne, generale dell’esercito di
Nabucodonosor. [NdC]
2 Si tratta in realtà di Marie de Hautefort.
[NdC]
XXV
Il biglietto e le pinzette
In effetti mademoiselle Henriette de
Hautefort era meravigliosamente
bella. Era una bionda del Sud che
per la sua carnagione rosata e i
capelli rosso acceso tutti, come
aveva detto madame de Fargis,
chiamavano Aurora.
L’aveva scoperta Vautier durante
un viaggio in Périgord e, avendone
intravisto la possibilità in quelle pur
effimere premure che il re aveva
dedicato a mademoiselle de Lautrec,
aveva avuto l’idea di fare seriamente
innamorare quel malato salassato,
quel re fantasma. Aveva predisposto
ogni cosa, si era assicurato che non
ci fossero parenti, amanti, amici a
opporsi al sacrificio della ragazza;
ma, dietro consiglio della regina
Maria, aveva aspettato il ritorno di
madame de Fargis, pensando che
solamente lei avrebbe potuto
presentare alla regina quella tazza di
assenzio strofinandola di miele.
Abbiamo visto come la regina
l’aveva inghiottita.
Ma quando ebbe visto quella bella
ragazza gettarsi ai suoi piedi con le
braccia tese, gridando: «Per voi, mia
regina, qualunque cosa!», si rese
conto che quella fresca bellezza,
quella voce dolce non potevano
mentire, e la fece rialzare
benevolmente. Tutto fu deciso
quella stessa sera. Mademoiselle de
Hautefort avrebbe cercato di farsi
amare dal re e, una volta amata,
avrebbe usato tutta l’influenza che
quell’amore le avrebbe conferito per
ricondurlo alla regina e fargli
mandare via il cardinale di
Richelieu.
Si trattava soltanto di far
comparire la bella devota in
condizioni di messa in scena tali da
incantare Luigi XIII.
Le regine annunciarono che, visto
che il re era a Fontainebleau,
sarebbero andate a festeggiare la
Pasqua con lui. E infatti arrivarono
la vigilia della domenica delle
Palme.
Il giorno dopo il re assistette alla
messa nella cappella del castello,
dove tutti erano chiamati ad
assistervi insieme a Sua Maestà.
A qualche passo da lui, illuminata
da un raggio di sole filtrato dalle
vetrate dipinte che le creavano
attorno un’aureola di porpora e
d’oro, c’era una ragazza
inginocchiata sul nudo pavimento.
Lui, il re, aveva le ginocchia
appoggiate su un morbido cuscino a
ghiande dorate. Il suo istinto
cavalleresco si risvegliò. Provò
vergogna di avere un cuscino sotto
le ginocchia mentre quella bella
giovinetta non ne aveva. Chiamò un
paggio e le fece portare il suo.
Mademoiselle de Hautefort
arrossì; ma non ritenendosi degna di
posare le ginocchia sul cuscino dove
il re aveva appoggiato le sue, si alzò,
salutò Sua Maestà e depose
rispettosamente il cuscino su una
sedia. Il tutto con grande nobiltà e
quella dignità virginale e audace
tipica delle donne del Mezzogiorno.
Tanta grazia commosse il re. Già
una volta nella sua vita era stato
colto alla sprovvista, ma con meno
motivi di esserlo, il che spiega
meglio l’impressione prodotta da
mademoiselle de Hautefort su
quell’uomo inspiegabile. Durante
non so quale viaggio, in una piccola
città, aveva accettato di recarsi a un
ballo. Verso la fine della serata, una
delle ballerine, una certa Catin Gau,
salì su una sedia per prendere da un
candelabro di legno non un pezzo di
bugia bensì un pezzo di candela di
sego. Quando lo prendevano in giro
per il suo disinteresse verso le
donne, il re raccontava sempre
quella storia, dicendo che la sua
eroina aveva messo in quel gesto
tanta grazia che lui se ne era
innamorato e, quando era partito
dalla città, le aveva fatto dare
trentamila lire per la sua virtù.
Non diceva però se quella virtù
lui l’aveva attaccata e se si era difesa
in maniera da guadagnarsi le
trentamila lire.
Il re s’invaghì dunque della bella
Henriette non meno
improvvisamente di quanto era
accaduto con la virtuosa Catin Gau!
Appena tornato al castello, si
informò di chi fosse l’incantevole
persona vista in chiesa e seppe che si
trattava della nipote di madame de la
Flotte, entrata il giorno prima dalla
regina Maria de’ Medici come
governante delle sue figlie.
E fin da quel giorno, con gran
stupore di tutti e grande
soddisfazione degli interessati, le
maniere del re cambiarono
completamente. Invece di stare
chiuso nella camera più buia, come
faceva al Louvre da più di un mese e
a Fontainebleau da più di una
settimana, era uscito in carrozza,
aveva passeggiato nelle zone più
frequentate del parco, come se
cercasse qualcuno, e, la sera, si era
recato dalle regine – cosa che non
aveva più fatto dopo la partenza di
mademoiselle de Lautrec –, aveva
trascorso la serata chiacchierando
con la bella Henriette, si era
informato se l’indomani ci sarebbe
stata.
Alla sua risposta affermativa,
l’indomani aveva mandato un
corriere a Bois-Robert perché lo
raggiungesse a Fontainebleau in
tutta fretta.
Bois-Robert accorse, molto
meravigliato da quel segno di
favore, che si sarebbe certamente
aspettato da Richelieu, ma non dal
re. La sua meraviglia crebbe quando,
conducendolo nel vano di una
finestra, gli indicò mademoiselle de
Hautefort che passeggiava sulla
terrazza e gli disse che gli
occorrevano dei versi per quella
bella creatura.
Per quanto meravigliato, Bois-
Robert non se lo fece ripetere due
volte. Lodò grandemente la bellezza
di mademoiselle de Hautefort e,
venendo a sapere che l’avevano
soprannominata Aurora, dichiarò
che per quanto potesse sforzarsi non
avrebbe potuto trovare un nome che
si addicesse di più a quella bellezza
in sboccio. Il nome poi gli fornì
materia per i suoi versi.
Luigi XIII, sotto il nome di
Apollo – Apollo era il dio della lira
e sappiamo che Luigi XIII suonava e
componeva musica –, supplicava
l’Aurora di non alzarsi così presto e
di non svanire così in fretta.
Dall’inizio del mondo, innamorato
di lei, la inseguiva su un carro con
quattro cavalli senza mai riuscire a
raggiungerla, vedendola sempre
sparire nell’attimo in cui tendeva la
mano per afferrarla. Il re prese i
versi, li lesse e li approvò, all’infuori
di un punto.
«Vanno bene, Le Bois» disse, «ma
bisognerebbe eliminare la parola
desideri.»
«E perché, Maestà?»
«Perché io non desidero nulla.»
Non c’era niente da replicare.
Bois-Robert eliminò i desideri e
tutto fu detto.
Quanto al re, compose una musica
sulle parole di Bois-Robert, e
musica e parole furono eseguite e
cantate dai suoi due musici
accreditati, Molinier e Justin, che
quella volta, vista la solennità, erano
vestiti per intero.
Le due regine, soprattutto Anna
d’Austria, applaudirono molto la
poesia di Bois-Robert e la musica
del re.
Luigi XIII festeggiò la Pasqua. Il
suo confessore Suffren, messo al
corrente della situazione, precedette
gli scrupoli di Sua Maestà, citandole
gli esempi dei patriarchi, che erano
stati infedeli alle mogli senza attirare
la collera del Signore; ma il re
rispose che non c’era nulla da
temere e che amava mademoiselle
de Hautefort senza cattive
intenzioni.
Non era quello che voleva la
cabala di Fargis e compagnia, che
anzi proprio sulle cattive intenzioni
contavano. Ma con una fantasia
sbrigliata come quella della Fargis,
non ogni speranza di ispirargliene
era perduta.
Infatti, passata la Pasqua,
momento che si aspettava con una
certa inquietudine, Luigi XIII non
parlò di proseguire il suo viaggio;
anzi, ordinò cacce e feste, ma alle
cacce come alle feste, pur
occupandosi esclusivamente di
mademoiselle de Hautefort,
mantenne nei suoi confronti un
atteggiamento più che rispettoso.
Rimaneva una sola speranza:
quella di far ingelosire il re.
Esisteva da qualche parte un certo
monsieur d’Ecquevilly Vassé, la cui
famiglia discendeva dal presidente
Hennequin. Fra lui e mademoiselle
de Hautefort si era parlato di
matrimonio, senza alcun impegno da
parte di nessuno dei due. Era andato
a Fontainebleau e si era fatto
invitare tanto più facilmente in
quanto madame de Fargis aveva
messo gli occhi su di lui per farne
uno strumento di gelosia. E in
effetti, monsieur d’Ecquevilly aveva
cercato di riprendere la sua vecchia
posizione di pretendente, malgrado
lo strano corteggiamento del re alla
sua pretesa.
Ma Luigi XIII aveva fatto gli
occhiacci, aveva interrogato
mademoiselle de Hautefort ed era
venuto a conoscenza dei vaghi
propositi scambiati fra le due
famiglie.
Luigi XIII era geloso, e geloso di
una donna!
Le due regine e madame de Fargis
si riunirono. Bisognava trovare il
modo di mettere a frutto quella
gelosia. Fu madame de Fargis a
indicarlo. La sera, la nana Gretchen,
che il re non poteva vedere, avrebbe
consegnato, sigillato, un bigliettino
dolce a mademoiselle de Hautefort.
Il re avrebbe domandato di chi
fosse il biglietto. Il resto riguardava
la regina e mademoiselle de
Hautefort.
La sera c’era circolo ristretto dalla
regina Anna. Il re, seduto accanto a
mademoiselle de Hautefort,
componeva paesaggi con dei ritagli
di carta.
Mademoiselle de Hautefort
indossava un abito da ricevimento;
la regina aveva voluto vestirla
personalmente. Portava una toilette
di raso bianco molto scollata. Le
braccia, bianche più del vestito, le
spalle abbaglianti attiravano le
labbra più di quanto una calamita
attiri il ferro.
Ogni tanto il re guardava quelle
braccia e quelle spalle, ed era tutto.
Fargis le divorava.
«Ah, Sire» mormorò all’orecchio
del re, «se fossi un uomo...»
Luigi XIII aggrottò le ciglia.
Anna d’Austria, giocherellando
con gli ornamenti dell’abito,
contribuiva a scoprire di più la bella
statua di marmo rosato.
In quel momento la piccola
Gretchen scivolò a quattro zampe fra
le gambe del re. Luigi pensò si
trattasse di Grisette, la sua cagnetta
preferita, e la scostò con un piede.
La nana lanciò un grido come se il
re le avesse pestato una mano.
Sua Maestà si alzò e Gretchen
approfittò di quell’attimo per far
scivolare, maldestramente come le
era stato raccomandato, il biglietto
in mano a mademoiselle de
Hautefort.
Al re non sfuggì nulla di quella
manovra.
L’idea della commedia che stava
recitando fece arrossire la ragazza,
cosa che fece ottimo gioco alle
intenzioni delle cospiratrici. Il re
vide passare il biglietto dalle mani
della nana alla mano di Henriette, e
dalla mano di Henriette alla sua
tasca.
«La nana vi ha dato un biglietto?»
chiese.
«Davvero, Sire?»
«Ne sono certo.»
Ci fu un attimo di silenzio.
«Di chi?» chiese il re.
«Non lo so» rispose mademoiselle
de Hautefort.
«Leggetelo, così lo saprete.»
«Più tardi, Sire.»
«Perché più tardi?»
«Perché non ho fretta.»
«Ma io sì.»
«In ogni caso» replicò
mademoiselle de Hautefort, «mi
sembra, Sire, di essere libera di
ricevere tutti i biglietti che voglio.»
«No!»
«Come, no?»
«Considerato che...»
«Considerato che cosa?
«Considerato che... considerato
che... che vi amo!»
«Ah, mi amate!» disse
mademoiselle de Hautefort ridendo.
«Sì.»
«E Sua Maestà la regina che cosa
ne dirà?»
«Sua Maestà la regina sostiene
che io non amo nessuno: avrà la
prova che amo qualcuno.»
«Bravo, Sire!» disse la regina.
«Al vostro posto io vorrei sapere chi
scrive a questa ragazzina e che cosa
le scrive.»
«Ne sono addoloratissima, ma il
re non lo saprà affatto» replicò
mademoiselle de Hautefort.
E si alzò.
«È quello che vedremo» ribatté il
re alzandosi anche lui.
Mademoiselle de Hautefort si
scostò con un balzo. Il re fece un
gesto per afferrarla. La porta del
salottino della regina era dietro di
lei, ci si infilò. Luigi XIII la seguì.
La regina seguì il re incitandolo.
«Attenta alle tasche, Hautefort»
disse la regina.
Il re stava infatti tendendo le
braccia con l’evidente intenzione di
perquisire la ragazza.
Ma lei, conoscendo la castità del
re, trasse di tasca il biglietto e se lo
mise nel seno.
«Venite a prenderlo qui, Sire!»
disse.
E con l’impudicità
dell’innocenza, protese il seno
seminudo verso il re. Il re esitò;
lasciò cadere le braccia.
«Coraggio, Sire, prendetelo,
coraggio» gridò la regina ridendo
forte dell’imbarazzo del marito.
E per impedire ogni difesa alla
ragazza, le prese le mani e gliele
mise dietro la schiena, ripetendo:
«Coraggio, Sire, prendetelo,
coraggio!»
Luigi si guardò intorno, vide in
una zuccheriera delle pinzette
d’argento, le prese e castamente
tolse la lettera dal suo delicato
rifugio, senza toccarlo.
La regina, che non si aspettava
questa conclusione, lasciò libere le
mani di mademoiselle de Hautefort,
mormorando:
«Decisamente, credo che non
abbiamo altra risorsa che quella
proposta da Fargis.»
La lettera era della madre di
mademoiselle de Hautefort. Il re la
lesse e, pieno di vergogna, gliela
restituì. Poi rientrarono tutti e tre,
ma con ben diversi sentimenti, nel
salone.
Madame de Fargis stava parlando
con un ufficiale che arrivava
dall’armata e che portava al re,
diceva, importantissime notizie.
«Il conte di Moret!» mormorò la
regina riconoscendo il giovane che
aveva visto solamente due o tre
volte ma di cui madame de Fargis le
aveva tanto parlato. «Effettivamente
è molto bello.»
Poi, ancora più piano:
«Assomiglia al duca di
Buckingham» aggiunse.
Se ne accorgeva solo allora, o si
compiaceva di trovare una
somiglianza fra il messaggero di
Richelieu e l’ex ambasciatore del re
d’Inghilterra?
Table of Contents
Copertina
L’immagine
Il libro
La Sfinge Rossa
Da Scott a Michelet: Dumas tra
storia, romanzo e teatro di
Mariolina Bongiovanni Bertini
Prefazione di Radu Portocala
Nota all’edizione
LA SFINGE ROSSA
Lettera di Alexandre Dumas a Jules
Noriac
Parte prima
I. La locanda della Barbe
Peinte
II. Che cosa ne fu della
proposta fatta dallo sconosciuto
a Étienne Latil
III. Dove il nobile gobbo si
accorge di aver sbagliato a
voler far uccidere il conte di
Moret
IV. L’hôtel de Rambouillet
V. Gli habitués dell’hôtel de
Rambouillet
VI. Che cosa accadeva all’hôtel
de Rambouillet mentre
Souscarrières si sbarazzava del
suo terzo gobbo
VII. Marina e Jacquelino
VIII. Scale e corridoi
IX. Sua Maestà re Luigi XIII
X. Che cosa accadde nella
camera da letto della regina
Anna d’Austria dopo che ne
uscì re Luigi XIII
XI. Le lettere che si leggono
davanti a testimoni e quelle che
si leggono da soli
XII. La Sfinge Rossa
XIII. L’Eminenza Grigia
XIV. Dove madame Cavois
diventa socia di monsieur
Michel
XV. Dove il cardinale comincia
a veder chiaro sul suo
scacchiere
Parte seconda
I. Condizioni dell’Europa nel
1628
II. Maria Gonzaga
III. La commedia ha inizio
IV. Isabelle e Marina
V. Dove monsignor Gaston,
come re Carlo IX, recita la sua
commediola
VI. Eva e il serpente
VII. Dove il cardinale usa a suo
vantaggio il brevetto che ha
concesso a Souscarrières
VIII. L’in pace
IX. Il racconto
X. Maximilien de Béthune,
duca di Sully, barone di Rosny
XI. Le due aquile
XII. Il cardinale in veste da
camera
XIII. La damigella di Gournay
XIV. La relazione di
Souscarrières
Parte terza
I. I larditoi di re Luigi XIII
II. Intanto che il re lardella
III. Il negozio di Ildefonso
Lopez
IV. I consigli dell’Angely
V. La confessione
VI. Dove il cardinale di
Richelieu inscena una
commedia senza l’aiuto dei
suoi collaboratori
VII. Il Consiglio
VIII. Il modo di Vautier
IX. L’invisibile fuscello di
paglia, l’impercettibile granello
di sabbia
X. La decisione di Richelieu
XI. Uccelli rapaci
XII. Il re regna
XIII. Gli ambasciatori
XIV. Gli intervalli del potere
reale
XV. Tu quoque, Baradas!
XVI. Come, uscendo ognuno
per la prima volta, Étienne Latil
e il marchese di Pisany ebbero
la fortuna di incontrarsi
XVII. Il cardinale a Chaillot
XVIII. Mirame
XIX. Le novità della corte
XX. Perché re Luigi XIII
vestiva sempre di nero
XXI. Dove il cardinale sistema
i conti del re
Parte quarta
I. La valanga
II. Guillaume Coutet
III. Marie Coutet
IV. Perché il conte di Moret era
andato a lavorare alle
fortificazioni del passo di Susa
V. Una sosta in montagna
VI. Le anime e le stelle
VII. Il ponte di Giacon
VIII. Il giuramento
IX. Il diario di monsieur de
Bassompierre
X. Dove il lettore ritrova un
vecchio amico
XI. Dove il cardinale trova la
guida di cui aveva bisogno
XII. Il passo di Susa
XIII. Dove si dimostra che un
uomo non può essere sicuro di
finire impiccato nemmeno se
ha la corda al collo
XIV. La piuma bianca
XV. Che cosa pensa l’Angely
dei complimenti del duca di
Savoia
XVI. Un capitolo di storia
XVII. Un anno dopo
XVIII. Due vecchi amanti
XIX. Il cardinale apre la
campagna
XX. Buco nell’acqua
XXI. Dove il conte di Moret
s’incarica di far entrare un
mulo e un milione nel forte di
Pinerolo
XXII. Il fratello di latte
XXIII. L’aquila e la volpe
XXIV. L’aurora
XXV. Il biglietto e le pinzette

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