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LA SFINGE ROSSA
a cura di Radu Portocala
Traduzione di Gabriella
Mezzanotte
Introduzione di Mariolina
Bongiovanni Bertini
ISBN 9788852054303
Da Scott a Michelet:
Dumas tra storia, romanzo e teatro
di Mariolina Bongiovanni Bertini
Il XIX secolo è stato definito, molto
giustamente, l’età d’oro del
romanzo. Se già nel secolo
precedente le finzioni romanzesche
avevano cessato di essere un puro
mezzo di svago, per proporsi come
luogo di riflessione su destini
individuali e rapporti sociali, è
nell’Ottocento che il romanzo
moderno comincia a essere
considerato lo strumento principe
per descrivere la società nei suoi
complessi ingranaggi e nelle sue
rapide mutazioni. Tra le molte
varianti di questo genere in ascesa,
quella del “romanzo storico” è la
prima ad affermarsi in Francia. Nel
1820 il giovane Balzac, non ancora
celebre, colloca sullo sfondo della
Calabria medioevale le avventure di
un cardinale dall’improbabile nome
di Huberdully; nel 1823, Victor
Hugo ventunenne celebra il genio di
Walter Scott con accenti ispirati:
Limitiamoci a meditare su questo
singolare Walter Scott che ha saputo
attingere dalle fonti della natura e della
verità un genere ancora ignoto, che è
nuovo perché sa farsi tanto antico quanto
vuole. Le sue composizioni uniscono alla
minuziosa esattezza delle cronache la
grandezza maestosa della storia e
l’interesse incalzante del romanzo. È un
genio possente e curioso che indovina il
passato, un pennello fedele che sa
tracciare un ritratto somigliante partendo
da un’ombra confusa, e ci costringe a
riconoscere perfino quello che non
abbiamo mai visto; una mente flessibile e
solida che sa adattarsi al cachet particolare
di ogni secolo e di ogni paese come cera
molle, e ne conserva l’impronta per la
posterità, come un bronzo indistruttibile.
DUMAS
10 ottobre 1865
CEFALO IL RE
PROCRI LA REGINA
GIOVE MONSIEUR
GIUNONE MARIA DE’ MEDICI
L’OLIMPO IL LOUVRE
L’ORACOLO IL CARDINALE
VENERE MADAME DE COMBALET
EBE MARIA GONZAGA
CHARLES IV, DUCA DI
MINOSSE
LORENA
CRETA LA LORENA
Morendo assassinato da
Montesquiou a Jarnac, l’affascinante
piccolo principe di Condé il quale,
benché un po’ gobbo, era il cocco di
tutte le donne e di cui si diceva:
Ce petit prince si gentil,
Qui toujours chante et toujours rit,
Toujours caresse sa mignonne,
Dieu gard’ de mal le petit homme, 2
«Diavolo, diavolo!»
Poi, incalzato dalla curiosità:
Lì, si è fatta aprire la porta dalla suora
portinaia; ha fatto alzare la superiora; si è
fatta condurre da lei alla cella della dama
di Coëtman. Dopo un quarto d’ora di
colloquio attraverso la finestrella di quella
cella, ha chiamato i suoi due portantini e
ha ordinato loro di praticare un’apertura
nel muro dalla quale la dama di Coëtman
potesse uscire. Mezz’ora dopo, l’ordine di
Sua Eminenza era stato eseguito.
Il re s’interruppe bruscamente.
«In fede mia, no, non la
conoscevo» disse l’Angely,
«cantami la strofa per intero, mi
divertirà.»
«Non potrei mai» disse Luigi
arrossendo. «Ci sono parole che una
bocca casta non riesce nemmeno a
ripetere.»
«Il che non t’impedisce di saperla
a memoria, ipocrita! Andiamo
avanti. Vediamo, che cosa mi dici
della principessa di Conti? È un po’
matura, ma questo non fa che
renderla più esperta.»
«Dopo quello che ne ha detto
Bassompierre, bisognerebbe essere
matti! E dopo quello che ne ha detto
lei stessa, bisognerebbe essere
stupidi!»
«Quello che ne ha detto il
maresciallo l’ho sentito, ma non so
quello che ne dice lei. Di’, parla,
figlio mio, sei così bravo a
raccontare, per lo meno gli aneddoti
sporcaccioni.»
«Be’, diceva a suo fratello, che
giocava sempre senza mai vincere:
“Smettete di giocare, fratello mio”.
Ma lui rispose: “Smetterò di giocare,
mia cara sorella, quando voi
smetterete di fare l’amore”. “Oh,
guardate che cattivo!” ribatté lei,
“non si correggerà mai!” Comunque,
parlare d’amore a una donna sposata
ripugna alla mia coscienza.»
«Questo mi spiega perché non
parlate d’amore alla regina.
Passiamo allora alle signorine.
Vediamo, che cosa dici della bella
mademoiselle de Lautrec? Ah,
questa non puoi proprio dirmi che
non è perbene.»
Luigi arrossì fino alle orecchie.
«Ah, ah» disse l’Angely, «ho per
caso toccato nel segno?»
«Non ho niente da dire contro la
virtù di mademoiselle de Lautrec,
anzi» e nella voce di Luigi XIII si
poteva cogliere senza fatica un
leggero tremito.
«Contro la sua bellezza?»
«Meno ancora.»
«Contro la sua intelligenza?»
«È incantevole, ma...»
«Ma, cosa?»
«Non so se dovrei dirtelo,
l’Angely, ma...»
«Coraggio, avanti!»
«Ma mi è parso che non avesse
grande simpatia per me.»
«Bah, figlio mio, ti fai torto e la
tua modestia ti perde.»
«E se ti do retta, che cosa dirà la
regina?»
«Se si tratta di dare una
spintarella a mademoiselle de
Lautrec, se ne incaricherà, non fosse
che per vederti allontanare da tutte
quelle squallide storie di paggi e
scudieri.»
«Ma Baradas...»
«Baradas sarà geloso come una
scimmia e cercherà di pugnalare
mademoiselle de Lautrec. Ma se la
avvertiamo, potrà mettersi una
corazza come Giovanna d’Arco. In
ogni caso, provaci!»
«E se Baradas, invece di ritornare
da me, si arrabbia del tutto?»
«Be’, ti rimarrà Saint-Simon.»
«È carino quel ragazzo, ed è
l’unico che a caccia sappia soffiare
nel corno.»
«Ebbene, vedi che sei già mezzo
consolato.»
«Che cosa devo fare, l’Angely?»
«Seguire i miei consigli e quelli di
Richelieu. Con un pazzo come me e
un ministro come lui, in sei mesi
saresti il primo sovrano d’Europa.»
«E va bene, allora. Ci proverò»
disse Luigi con un sospiro.
«Quando?» domandò l’Angely.
«Subito, stasera.»
«Coraggio, allora, sii uomo
stasera e domani sarai re.»
Se il re
Astre so la regina
Be la regina madre
L’amb Monsieur
L.M. il cardinale
T. la morte
Pif-paf la guerra
zane il duca di Lorena
gier madame de Chevreuse
Oel madame de Fargis
O incinta
«E adesso?» domandò.
«Applicate il codice, Sire.»
«No» disse il re, «fatelo voi, che
siete più pratico. Mi romperei la
testa in questo lavoro.»
Rossignol prese il foglio e lesse:
La regina, la regina madre e il duca
d’Orléans nella gioia. Il cardinale morto.
Il re vuole essere re. La guerra con il
principe delle Marmotte decisa, ma a capo
vi è il duca d’Orléans. Il duca d’Orléans,
innamorato della figlia del duca di Lorena,
non vuole in nessun caso sposare la
regina, che ha sette anni più di lui. Teme
solo che, con le premure di madame de
Fargis o di madame de Chevreuse, lei sia
incinta al momento della morte del re.
Gaston d’Orléans
Richelieu s’interruppe.
«Ecco, mi sono fermato qui»
disse. «Per il secondo e il terzo atto
ho buttato giù delle scene che
comunicherò a chi ne sarà
incaricato.»
«Chi si incaricherà del primo e
del secondo, monsignore?» disse
Bois-Robert. «Chi oserà mettere i
propri versi prima e dopo i vostri?»
«Guardate, signori» disse
Richelieu al colmo della gioia,
sensibile com’era, proprio come un
bambino, agli elogi in campo
letterario, lui, così severo con se
stesso nelle questioni politiche,
«guardate, se ritenete troppo gravoso
il peso dei primi due atti, potremo
tirare a sorte tutti e cinque.»
«La giovinezza non ha esitazioni,
monsignore» disse Rotrou. «Il mio
amico Corneille e io ci faremo
carico dei primi due atti.»
«Temerari!» esclamò Richelieu
ridendo.
«Vostra Eminenza avrà solo la
bontà di darci uno schema
dettagliato delle scene, in modo che
non ci discostiamo nemmeno un
attimo dalla sua volontà.»
«Allora io mi incaricherò del
terzo» disse Bois-Robert.
«E io del quarto» disse L’Estoile.
«E io del quinto» disse Colletet.
«Se vi occuperete voi del quinto,
Colletet» disse Richelieu, «vi devo
raccomandare...» e, battendogli su
una spalla, lo condusse nel vano di
una finestra, dove prese a parlargli a
bassa voce.
Intanto Rotrou si chinò verso il
suo amico Corneille e gli disse
all’orecchio:
«Pierre, a partire da questo
momento, hai la fortuna nelle tue
mani, sta a te non lasciartela
scappare.»
«Che cosa devo fare?» domandò
Corneille, ingenuo.
«Versi che non siano migliori di
quelli del cardinale» rispose Rotrou.
Nogaro 4 e Castellarez. 5
1 Il nome di questa località si trova scritto così
sulle «Nouvelles»: si tratta evidentemente di un
errore, ma non si è potuto identificare il nome
corretto. [NdC]
2 Si veda la nota precedente. In questo caso
potrebbe trattarsi di Sondrio. [NdC]
3 Si veda la nota precedente. [NdC]
4 Si veda la nota precedente. In questo caso
potrebbe trattarsi di Novara. [NdC]
5 Si veda la nota precedente. [NdC]
VIII
Il giuramento
Né una lettera né un corriere né un
qualsivoglia messaggio aveva
annunciato al barone di Lautrec
l’arrivo di sua figlia. Così che, pur
essendo egli ritenuto un padre non
particolarmente tenero, i primi
istanti del ritorno furono dedicati per
intero alle effusioni dell’affetto
paterno e di quello filiale.
Solo dopo un po’ Lautrec riuscì a
occuparsi dei compagni di viaggio di
sua figlia e a leggere la lettera che
gli inviava il cardinale di Richelieu.
Questa lettera lo informava del
nome illustre del giovane cui sua
figlia era stata affidata e
dell’interesse con cui il cardinale si
occupava di Isabelle, ragioni, queste,
che lo spinsero ad avvertire
immediatamente il nuovo duca di
Mantova, Carlo Gonzaga, dell’arrivo
della figlia e dell’illustre ospite
giunto insieme a lei nella sua casa.
Fu dunque spedito un servitore al
castello del Tè, dove risiedeva il
duca, per dargli questa notizia, che
rivestiva per lui notevole importanza
dato che il conte di Moret, cioè il
fratello naturale di Luigi XIII,
avrebbe potuto informarlo
dettagliatamente sulle intenzioni del
cardinale e del re.
Alla richiesta di udienza che gli
era stata fatta, il duca di Mantova
rispose quindi saltando a cavallo e
recandosi personalmente da colui
che a ragione riteneva uno dei suoi
sudditi più fedeli.
Vi trovò il conte di Moret che
trattò da figlio di Enrico IV,
rifiutando di coprirsi il capo e di
sedersi in sua presenza.
Del resto il duca aveva avuto
direttamente dall’ambasciatore
notizie da Parigi il 4 gennaio 1629,
cioè qualche giorno dopo la partenza
del conte di Moret e di Isabelle.
Forte della promessa che gli aveva
fatto il re di appoggiarlo, il cardinale
lo aveva letteralmente rapito, senza
permettere a nessuno di
accompagnarlo; non un cortigiano
che lo tormentasse, non un
consigliere che lo facesse deviare
dalla strada che il cardinale gli
aveva fatto imboccare.
Si sapeva che giovedì 15 gennaio
il re aveva pranzato a Moulins e
dormito a Varenne. Poi più nulla, ed
era il 5 febbraio.
Si sapeva però che la peste, che si
era manifestata in Italia, aveva
oltrepassato le montagne e dilagava
fino a Lione. Avrebbe avuto il re il
coraggio, malgrado il mortale
flagello, malgrado il freddo terribile,
di proseguire il suo cammino, di
sfidare la peste a Lione e il freddo
delle montagne?
Per chi conosceva il vero e
volubile carattere del re, c’era da
temere. Ma per chi conosceva il
carattere inflessibile del cardinale,
c’era da sperare.
Il conte di Moret poté solamente
ripetere al duca di Mantova quanto
gli aveva detto il cardinale: per
cominciare, avrebbero fatto togliere
l’assedio a Casale e si sarebbero
immediatamente preoccupati di far
arrivare dei soccorsi a Mantova.
Non c’era tempo da perdere.
Charles, duca di Nevers, aveva
saputo da fonte certa che Monsieur,
nel primo impeto di collera, si era
messo in contatto con Wallenstein.
Senza vergogna né rimorsi, attirava
verso l’Italia quelle novelle orde di
Attila, pur non sapendo se ci sarebbe
stato a Châlons un Ezio per
annientarle. 1 Due capitani barbari,
Aldringen 2 e Gallas, 3 esperti
nell’arte terribile della distruzione e
del saccheggio, da due o tre mesi
proseguivano lentamente la loro
avanzata e avevano occupato
Worms, Francoforte, la Svevia. Il
povero duca di Mantova li vedeva
già affacciarsi in cima alle Alpi, più
terribili di quelle bande selvagge di
Cimbri e di Teutoni che si
lasciavano scivolare sulle nevi e
attraversavano i fiumi sui loro scudi.
Tutto contribuiva a impedire al
conte di Moret una lunga
permanenza a Mantova. Aveva
promesso al cardinale di tornare per
partecipare alla campagna, e per di
più il duca lo spingeva a ripartire per
esporre al re la sua situazione: e si
trattava di una situazione così grave
che il barone di Lautrec quasi si
rammaricava gli avessero rimandato
a casa sua figlia.
Fin dal giorno dopo il suo arrivo,
Isabelle, chiamata da suo padre,
aveva avuto con lui una spiegazione,
durante la quale il padre le aveva
detto quali impegni aveva preso nei
confronti del visconte di Pontis. Ma
Isabelle aveva opposto con
chiarezza gli impegni che aveva
preso lei nei confronti del conte di
Moret. Per quanto nobile di nascita
fosse monsieur de Pontis, su quel
punto Antoine de Bourbon aveva la
meglio non soltanto su di lui, ma su
qualunque gentiluomo non fosse
diretto discendente di re. Il barone si
limitò dunque a chiamare il conte di
Moret nel suo studio e a interrogarlo
sulle sue intenzioni, che lui espresse
con l’abituale franchezza,
assicurandolo che, se ce ne fosse
stato bisogno, per aiutarlo a ritirare
onorevolmente la sua parola sarebbe
intervenuto di persona il cardinale.
Il barone di Lautrec tenne però a
dichiarare al conte che, se fosse stato
ucciso o avesse preso altri impegni,
lui avrebbe ripreso la sua autorità
paterna sulla figlia – autorità cui
abdicava solo di fronte alla
protezione accordata dal cardinale al
giovane conte –, e che allora non
avrebbe ammesso da parte di
Isabelle nessuna resistenza.
La sera stessa di quel doppio
chiarimento, passeggiando in riva al
fiume di Virgilio, i due giovani si
raccontarono la conversazione che
ognuno aveva avuto con il barone;
era meglio di quanto sperasse
Isabelle e, poiché il suo innamorato
le promise solennemente che non si
sarebbe fatto uccidere e che non
avrebbe mai avuto altra sposa se
non lei, la cosa le sembrò
sufficiente.
Ricorriamo al termine un po’
pretenzioso di sposa, e per di più lo
sottolineiamo, perché ci pare che
nella promessa di Antoine de
Bourbon, per quanto figlio di Enrico
IV, ci fosse una di quelle piccole
restrizioni mentali di cui i gesuiti
facevano un tanto abile uso.
Nell’impegno di non farsi uccidere
non c’era di certo nessun secondo
fine, ma non oseremmo dire la stessa
cosa per quello di non avere mai
altra sposa se non Isabelle de
Lautrec. Pesando ogni parola di
quell’impegno, si vedrà che non si
estendeva alle amanti; e nei
momenti in cui il diavolo lo tentava
– e gli innamorati più fedeli
attraversano tali momenti, anche
quelli che non sono figli dell’eretico
Enrico IV –, in quei momenti
dobbiamo dire che il giovane basco
Jacquelino vedeva passare in una
nube di fuoco la sua bella cugina
Marina, che, tranquilla in mezzo alle
fiamme come una salamandra, gli
lanciava sguardi il cui doppio raggio
andava da una parte verso il suo
cuore ardente e dall’altra verso la
sua mente, ottundendola.
D’altronde, una sera,
nell’anticamera di Maria Gonzaga,
nell’attimo in cui lei saliva sulla
portantina, non aveva preso con
quella terribile incendiaria di cuori
uno di quegli appuntamenti come se
ne prendono con Satana, e da cui
Satana vi libera soltanto dopo che
avete tenuto fede alla parola data,
andandolo a trovare nel profondo
dell’inferno?
Non oseremmo dire che nel
momento in cui Antoine de Bourbon
fece a Isabelle de Lautrec il suo
casto giuramento, privo di qualsiasi
analogia con l’impegno preso con
madame de Fargis, il ricordo di
quella Venere Astartea gli abbia
sussurrato all’orecchio qualcuna di
quelle parole profane con cui
infiammava il cuore dei suoi
innamorati; quello che sappiamo,
però, è che il conte di Moret volle un
altro testimone dell’impegno che
prendeva, oltre a quel fiume pagano
chiamato Mincio; altre lampade,
oltre a tutte quelle costellazioni
mitologiche chiamate Venere,
Giove, Saturno, Cassiopea, e chiese
a Isabelle di rinnovare
quell’impegno in un tempio
cristiano, in presenza di Dio: un
anello, con la data del giorno e della
promessa che quel giorno aveva
visto fare, avrebbe rafforzato ancora
la solennità del giuramento.
Isabelle promise tutto ciò che
volle il suo innamorato, come la sua
compatriota Giulietta, di cui poteva
toccare la tomba solo allungando la
mano. E gli avrebbe di certo
accordato tutto quello che le avesse
chiesto, ripetendogli le parole del
poeta inglese:
Ne crains pas d’épuiser mon amour, s’il
t’est cher!
Mon amour est profond et grand comme
la mer! 4
E firmò.
Latil lo precedette.
Quando l’esercito entrò a Rivoli,
tre quarti d’ora più tardi, i soldati
videro, con una soddisfazione
inizialmente muta ma ben presto
rumorosamente manifestata, una
botte di vino aperta ogni dieci porte
e un’armata di bicchieri attorno a
ogni botte. Alla vista del vino, i
mormorii provocati dall’acqua si
trasformarono in acclamazioni e le
grida di «Viva il cardinale!» si
levarono da tutte le file.
In mezzo a quel clamore, Latil si
avvicinò al cardinale.
«Allora, monsignore?»
«Allora, Latil, credo che tu
conosca i soldati meglio di me.»
«Perdio! A ognuno il suo
mestiere! Io conosco meglio i soldati
perché con i soldati ho vissuto.
Vostra Eminenza conosce meglio gli
ecclesiastici perché con gli
ecclesiastici ha vissuto.»
«Latil» disse il cardinale posando
una mano sulla spalla del
condottiero, «c’è una cosa che
imparerai quando li avrai frequentati
tanto quanto i soldati: ed è che, più
vivi con gli uomini di Chiesa, meno
li conosci.»
Poi, radunando attorno a sé i capi
principali, visto che erano giunti al
castello di Rivoli:
«Signori» disse, «credo che il
castello sia abbastanza grande
perché ognuno di voi vi trovi posto:
del resto, ci sono qui monsieur de
Montmorency e monsieur de Moret
che ci sono venuti quando era
abitato dal duca di Savoia e che ci
faranno da marescialli degli
alloggi.»
Poi aggiunse:
«Fra un’ora il Consiglio si riunirà
da me. Fate in modo di esserci, si
tratta di una deliberazione
importante.»
I marescialli e gli alti ufficiali,
bagnati fino alle ossa e desiderosi di
riscaldarsi non meno dei soldati,
salutarono il cardinale e promisero
di essere puntuali all’appuntamento.
Un’ora dopo, i sette capi ammessi
al Consiglio, e cioè il duca di
Montmorency, i marescialli di
Créqui, di Schomberg, della Force,
di Thoyras, il conte di Moret e
monsieur d’Auriac, erano seduti
nello studio che il duca di Savoia
aveva lasciato il giorno prima e dove
il cardinale di Richelieu li aveva
convocati.
Il cardinale si alzò, impose
silenzio con un gesto e, appoggiando
le mani sul tavolo:
«Signori» disse, «abbiamo un
passaggio aperto sul Piemonte, il
passo di Susa, che alcuni fra voi
hanno conquistato a prezzo del loro
sangue. Ma con un uomo in
malafede come il duca di Savoia un
passaggio non basta; ce ne
occorrono due. Ecco dunque il mio
piano d’attacco: prima di spingere
oltre la nostra aggressione all’Italia,
vorrei assicurarci in caso di bisogno,
sia per la nostra ritirata sia invece
per far passare nuove truppe, un
passaggio dal Piemonte al Delfinato,
impadronendoci della fortezza di
Pinerolo. Come sapete, signori,
Enrico III, troppo debole, lo alienò
in favore del duca di Savoia.
Gonzaga, duca di Nevers, padre di
questo stesso Charles duca di
Mantova a causa del quale
attraversiamo le Alpi, governatore di
Pinerolo e generale delle armate
francesi in Italia, fece invano uso di
tutta la sua intelligenza ed eloquenza
per distogliere Enrico III da una
decisione così pregiudizievole alla
corona. Si direbbe quasi che il
coraggioso e prudente duca di
Nevers avesse previsto che suo
figlio, divenuto duca di Mantova, si
sarebbe trovato a rischio di essere
spogliato dei suoi Stati per la
mancanza di un passaggio aperto
alle truppe francesi. Vedendo che re
Enrico III persisteva nella sua
risoluzione, Gonzaga chiese che la
carica di governatore di Pinerolo gli
venisse tolta prima della sua
alienazione, perché non voleva che i
posteri potessero sospettarlo di aver
acconsentito o partecipato a una
cosa tanto contraria al bene dello
Stato.
Ebbene, signori, a noi è riservato
l’onore di restituire la fortezza di
Pinerolo alla corona di Francia. Ma
sarà con la forza o con l’astuzia che
riprenderemo Pinerolo? Con la
forza, dovremo sacrificare molto
tempo e molti uomini.
Ecco perché preferirei l’astuzia.
Filippo il Macedone diceva che
non esistevano luoghi imprendibili
se solo ci si poteva far entrare un
mulo carico d’oro. Io il mulo e l’oro
ce li ho, ma mi manca l’uomo, o
meglio il sistema per farli entrare.
Aiutatemi, darò un milione in
cambio della fortezza.»
Come sempre, per rispondere la
parola fu accordata a ognuno dei
presenti in ordine di età.
Tutti chiesero ventiquattr’ore per
riflettere.
Il conte di Moret era il più
giovane, e quindi a lui toccava
parlare per ultimo. Bisogna pur
dirlo, nessuno faceva assegnamento
su di lui, quando con grande stupore
di tutti lui si alzò e disse,
inchinandosi al cardinale:
«Vostra Eminenza tenga pronti il
mulo e il milione. Mi impegno a
farli entrare entro tre giorni.»
XXII
Il fratello di latte
L’indomani del giorno in cui al
castello di Rivoli si era riunito il
Consiglio, un giovane contadino fra
i ventiquattro e i venticinque anni,
vestito come i montanari della valle
d’Aosta, biascicando il dialetto
piemontese si presentava verso le
otto di sera alla porta della fortezza
di Pinerolo sotto il nome di Gaetano.
Dichiarava di essere il fratello
della cameriera della contessa
d’Espalomba, e chiedeva della
signora 1 Giacinta.
La signora Giacinta, avvertita da
un soldato della guarnigione, ebbe
un gridolino di sorpresa, che a rigore
si sarebbe anche potuto scambiare
per un grido di piacere, ma, come se
prima di obbedire alla voce del
sangue che la chiamava alla porta
della fortezza avesse avuto bisogno
del permesso della sua padrona, si
precipitò in camera della contessa,
da dove uscì cinque minuti dopo per
la stessa porta mentre la contessa si
slanciava fuori dalla porta di fronte e
scendeva veloce le scale che
portavano a un incantevole
giardinetto riservato a lei sola e sul
quale si affacciavano le finestre
della camera di Giacinta.
Arrivata in giardino, si infilò
nell’angolo più riparato, una zona
tutta piantumata a limoni, aranci e
melograni.
Giacinta intanto attraversava il
cortile, sorella felice e ansiosa di
riabbracciare il fratello, gridando
con voce intenerita:
«Gaetano! Caro Gaetano!»
Il giovane le si gettò fra le braccia
e il conte Urbano, che tornava
proprio allora da un giro di guardia e
dall’aver organizzato le postazioni
delle sentinelle, poté assistere allo
slancio gioioso dei due fratelli che,
dissero, non si vedevano da circa
due anni, da quando, cioè, Giacinta
aveva lasciato la casa materna per
seguire la sua padrona.
Giacinta andò a fare una bella
riverenza al conte e a chiedergli di
tenere con sé il fratello che – a
quanto pareva, visto che ancora non
aveva avuto il tempo di spiegarsi
con lui – doveva parlarle di cose
importantissime.
Il conte chiese di vedere Gaetano,
scambiò qualche parola con lui e,
soddisfatto del tono franco del
ragazzo, lo autorizzò a rimanere
nella fortezza. Il soggiorno del resto
non sarebbe durato a lungo, dato che
Gaetano dichiarava di avere a
disposizione non più di
quarantott’ore. Ben presto, ritenendo
inutile perdere tempo con gente di
così poco conto, Espalomba li
congedò e risalì nelle sue stanze.
Gaetano si era subito accorto che
il conte era di cattivo umore e, dato
che la cosa pareva interessargli più
di quanto non sarebbe parso normale
da parte di un contadino che non ha
niente a che fare con le vicende dei
grandi signori, Giacinta gli raccontò
i due motivi che aveva il conte per
lamentarsi del suo sovrano. Il primo
era la corte assidua e insolente che il
duca di Savoia aveva fatto alla
moglie in presenza del marito; e
l’altro l’ordine inatteso ricevuto tre
giorni prima di chiudersi nella
cittadella e di difenderla finché non
ne fosse rimasta pietra su pietra. Il
conte Urbano, del resto, aveva
esplicitamente dichiarato davanti
alla moglie e davanti a Giacinta che,
se avesse trovato da servire Spagna,
Austria o Francia con le stesse
prerogative che aveva in Piemonte,
non si sarebbe fatto scrupolo di
accettare.
Gaetano era sembrato così felice
di quella notizia che, visto che in
quel momento voltavano un angolo
buio del corridoio, preso da una
recrudescenza di affetto per sua
sorella, aveva abbracciato Giacinta e
le aveva stampato un bel bacio sulle
due guance.
La camera di Giacinta si apriva
sul corridoio; fece entrare suo
fratello, entrò dopo di lui e richiuse
la porta.
Gaetano lanciò un grido di gioia.
«Ah» esclamò, «eccomi,
finalmente. E adesso, cara Giacinta,
dov’è la tua padrona?»
«To’! E io che credevo foste
venuto per me» replicò la ragazza
ridendo.
«Per te e per lei» disse il conte,
«ma prima di tutto per lei. Ho delle
faccende politiche da sistemare con
la tua padrona, come sai tu, che sei
la cameriera della moglie di un
uomo di Stato: gli affari prima di
tutto.»
«E dove starete per sistemare
quelle faccende?»
«In camera tua, se non ti disturba
troppo.»
«Davanti a me?»
«Oh, no! Per quanta fiducia
nutriamo nei tuoi confronti,
Giacinta, le nostre faccende sono
troppo gravi per farvi partecipare
una terza persona.»
«E allora io che cosa dovrò fare?»
«Allora tu, Giacinta, seduta in una
poltrona accanto al letto della tua
padrona, le cui cortine saranno
ermeticamente chiuse, visto il grave
malessere che la affligge, veglierai a
che suo marito non entri in camera
sua a svegliarla.»
«Ah, signor conte» sospirò
Giacinta, «non sapevo foste un così
abile diplomatico.»
«Be’, ti sbagliavi. E siccome per
un diplomatico la cosa più preziosa
è il tempo, dimmi in fretta: dov’è la
tua padrona?»
Giacinta fece un gran sospiro, aprì
la finestra e disse soltanto:
«Cercate!»
Il conte allora si ricordò che
Matilde gli aveva parlato mille volte
di quel giardino solitario in cui tanto
spesso aveva sognato di lui. Si
ricordava di aver anche sentito
parlare di un bosco di melograni,
aranci e limoni, che lo rendevano
buio anche in pieno giorno, a
maggior ragione la notte. Quindi,
appena la finestra fu aperta saltò sul
davanzale e da lì in giardino; poi,
mentre Giacinta si asciugava una
lacrima che aveva invano cercato di
trattenere, il conte di Moret s’infilò
nel folto del bosco chiamando
sottovoce:
«Matilde! Matilde! Matilde!»
Fin dalla prima volta in cui sentì
pronunciare il suo nome, Matilde
aveva riconosciuto la voce e si
lanciava in direzione di quella voce,
chiamando a sua volta:
«Antonio!»
Poi, i due innamorati si erano
visti, si erano gettati l’uno nelle
braccia dell’altra e si tenevano
stretti, appoggiati al tronco di un
arancio che, ondeggiando ai loro
movimenti, faceva scendere una
pioggia di fiori sulle loro teste.
Rimasero così per qualche attimo,
se non muti, parlandosi e
rispondendosi soltanto con quel
vago mormorio che, sfuggendo dalle
labbra degli innamorati, dice tante
cose senza che venga pronunciata
una sola parola.
Infine, tutti e due, come tornando
da quell’incantevole mondo ideale
che non si vede che in sogno,
mormorarono contemporaneamente:
«Sei proprio tu!»
E tutti e due risposero in un solo
bacio:
«Sì!»
Poi, recuperando per prima la
ragione:
«E mio marito?» domandò la
contessa.
«Tutto è andato come speravamo,
mi ha scambiato per il fratello di
Giacinta e mi ha permesso di
rimanere al castello.»
Allora si sedettero uno accanto
all’altra, la mano nella mano.
Le spiegazioni fra gli innamorati
sono lunghe. Cominciate in
giardino, continuarono nella camera
di Giacinta, che, come era stato
convenuto, passò la notte, lei, al
capezzale della sua padrona.
Verso le otto del mattino,
bussarono piano alla porta dello
studio del conte; era alzato e vestito,
essendo stato svegliato alle sei da un
messaggero che veniva da Torino
per annunciargli che i francesi erano
a Rivoli e sembravano avere
intenzione di mettere sotto assedio
Pinerolo.
Il conte era pensieroso, come si
indovinò facilmente dal modo in cui
pronunciò la parola Avanti.
La porta si aprì e con grande
stupore lui vide comparire la
contessa.
«Siete voi, Matilde?» esclamò
alzandosi in piedi. «Avete saputo le
ultime notizie? Devo a loro
l’inatteso piacere di questa visita
mattutina?»
«Quale notizia, signore?»
«Con ogni probabilità verremo
assediati!»
«Sì, proprio di questo volevo
discutere con voi.»
«Ma come e da chi avete avuto la
notizia?»
«Ve lo dirò dopo; e comunque, mi
ha impedito di chiudere occhio tutta
la notte.»
«Ve lo si legge in viso, signora:
siete pallida e avete l’aria stanca.»
«Aspettavo con ansia il giorno per
venire a parlarvi.»
«Non potevate farmi svegliare,
signora? La notizia era abbastanza
importante da riferirmela.»
«Quella notizia, signore,
risvegliava in me una quantità di
ricordi e di dubbi tali che, prima di
parlarvene, volevo che ne foste a
conoscenza anche voi e aveste già
riflettuto sulle sue conseguenze.»
«Non vi capisco, signora, e
confesso che, non avendovi mai
udito parlare di affari di Stato o di
guerra...»
«Oh, è vero che si considera
troppo debole la nostra intelligenza
per parlarci di quelle cose.»
«E voi ritenete che sia un errore»
replicò il conte sorridendo.
«Probabilmente sì, perché a volte
potremmo dare qualche buon
consiglio.»
«E se vi domandassi il vostro
parere nella situazione in cui ci
troviamo, che consiglio mi dareste?»
«Prima di tutto, signore» rispose
la contessa, «comincerei con il
ricordarvi quanto il duca di Savoia si
è mostrato ingrato nei vostri
confronti.»
«Sarebbe inutile, signora;
quell’ingratitudine è ben scolpita
nella mia memoria.»
«Vi direi: ricordatevi delle feste di
Torino, durante le quali mi sono
state fatte proprio dal sovrano che
aveva combinato il nostro
matrimonio le proposte più
offensive per il vostro onore nonché
per il mio.»
«Me le ricordo quelle proposte,
signora.»
«Vi direi: non dimenticate le
maniere dure e brutali con cui vi ha
ordinato di lasciare Rivoli e di
venire a Pinerolo ad aspettare i
francesi!»
«Non le ho dimenticate e aspetto
solo il momento di dimostrarlo!»
«Bene, questo momento è
arrivato, e voi vi trovate, signore, in
una di quelle situazioni cruciali in
cui l’uomo, divenuto arbitro del
proprio destino, può scegliersi un
avvenire o un altro: quello di servire
un padrone duro e altero, oppure la
libertà con una eccellente posizione
e un’immensa fortuna.»
Il conte guardò sbalordito la
moglie.
«Confesso, signora» le disse, «che
mi chiedo invano dove vogliate
arrivare.»
«Allora affronterò apertamente la
questione.»
Lo sbalordimento del conte
aumentò.
«Il fratello di Giacinta è al
servizio del conte di Moret.»
«Il figlio naturale di Enrico IV?»
«Sì, signore.»
«E allora, signora?»
«E allora l’altroieri il cardinale di
Richelieu ha detto davanti al conte
di Moret che avrebbe dato un
milione a chi gli consegnasse le
chiavi di Pinerolo!»
Gli occhi del conte mandarono un
lampo di avidità.
«Un milione! Vorrei proprio
vederlo...»
«Lo vedrete quando vorrete,
signore!»
Il conte serrò le mani contratte.
«Un milione» mormorò. «Avete
ragione, signora, vale la pena di
rifletterci. Ma come sapete di questa
offerta?»
«Nella maniera più semplice: il
conte di Moret ha preso in mano la
faccenda e ha mandato Gaetano con
l’ordine di sondare il terreno.»
«Ed è per questo che Gaetano è
venuto a trovare sua sorella ieri
sera?»
«Esattamente. E sua sorella mi ha
pregato di riceverlo; di modo che ha
detto tutto a me, ha fatto a me la
proposta e, se fallisce, sarò stata
compromessa soltanto io.»
«E perché dovrebbe fallire?»
«Se voi rifiutaste... Sarebbe stato
possibile.»
Il conte rimase pensieroso.
«E quali garanzie mi danno?»
«Il denaro.»
«Allora, quali garanzie chiedono
da parte mia?»
«Un ostaggio.»
«Quale ostaggio?»
«È del tutto naturale che al
momento di un assedio voi
allontaniate vostra moglie dalla
fortezza, dove siete deciso a
difendervi fino alla morte. Mi
mandate da mia madre a Selimo, e lì
aspetto che voi mi facciate sapere in
quale città francese – poiché
presumo che, concluso il patto, vi
ritirerete in Francia – dovrò
raggiungervi.»
«E il milione sarà pagato?»
«In oro.»
«Quando?»
«Quando, in cambio dell’oro che
Gaetano vi porterà, voi avrete
consegnato la capitolazione firmata
da voi e autorizzato la mia
partenza.»
«Che Gaetano torni questa sera
con il milione. E siate pronta a
partire con lui.»
Quella sera stessa alle otto, il
conte di Moret, sempre sotto il nome
di Gaetano, entrava, come aveva
promesso al cardinale di Richelieu,
con un mulo carico d’oro nella
fortezza di Pinerolo e ne usciva,
come aveva promesso a se stesso,
con la contessa.
Lei portava la capitolazione datata
due giorni dopo, per dare il tempo al
cardinale di mettere l’assedio
davanti alla fortezza. La guarnigione
avrebbe avuto salvi vita e averi.
1 Qui e subito sotto, in italiano nel testo. [NdT]
XXIII
L’aquila e la volpe
Due giorni dopo, il cardinale entrava
nella fortezza di Pinerolo proprio nel
momento in cui Carlo Emanuele
usciva da Torino per portargli
soccorso.
Ma a tre leghe da Torino, i suoi
uomini mandati in avanscoperta gli
annunciarono che un corpo di circa
ottocento uomini gli andava incontro
con le bandiere dei Savoia.
Mandò un ufficiale per capire di
che corpo si trattasse; e l’ufficiale
tornò dicendo, con suo enorme
stupore, che era la guarnigione di
Pinerolo che tornava a Torino. La
fortezza si era arresa.
La notizia produsse una tremenda
impressione in Carlo Emanuele. Si
fermò un attimo, impallidì, si passò
una mano sulla fronte e, chiamando
il comandante della sua cavalleria:
«Caricate contro questi
miserabili» disse indicando i poveri
diavoli che non ne potevano più,
poiché non era stata la guarnigione
ad arrendersi, bensì il governatore.
«E, se è possibile, che non ne
rimanga uno in piedi.»
L’ordine fu eseguito alla lettera e
tre quarti di quei poveretti furono
passati a filo di spada.
La presa di Pinerolo, di cui il duca
di Savoia ignorò sempre le cause, gli
mostrò la sua posizione da un punto
di vista oggettivo. Riconobbe che
era disastrosa. Tutte le astuzie e tutti
gli intrighi di quarantacinque anni di
regno – e quei quarantacinque anni
di regno erano stati spesi per intero
in intrighi e astuzie – avevano
ottenuto il solo risultato di mettere
un terribile nemico nel cuore dei
suoi Stati. Ora la sua unica risorsa
era di gettarsi fra le braccia degli
spagnoli e degli austriaci; di
implorare Spinola, un genovese e
quindi un nemico, oppure
Wallenstein, un boemo, e quindi uno
straniero.
Era giocoforza cedere sotto il
pugno di ferro della necessità. Il
duca convocò Spinola, comandante
in capo degli spagnoli, e Collalto, al
comando dei tedeschi discesi in
Italia, per invitarli ad aiutarlo contro
i francesi.
Spinola, però, grande
combattente, che da quando aveva
occupato il Milanese non aveva
levato gli occhi di dosso a Carlo
Emanuele, non nutriva nessuna
simpatia per quel piccolo principe
intrigante e ambizioso che tante
volte, con i voltafaccia della sua
politica, gli aveva fatto sguainare e
poi riporre nel fodero la spada.
Quanto a Collalto, la sua discesa in
Italia aveva per unico scopo quello
di nutrire e arricchire il suo esercito
e se stesso e, a coronamento della
campagna che conduceva per
proprio conto, da vero condottiero
qual era, prendere e saccheggiare
Mantova. Si intuisce quanto uomini
di quella tempra potessero lasciarsi
intenerire dalle lamentazioni del
duca di Savoia.
Spinola dichiarò quindi che non
poteva assolutamente indebolire il
suo esercito, di cui doveva invece
conservare tutta la forza per
realizzare i propri progetti nel
Monferrato.
Quanto a Collalto, era tutto un
altro discorso. Come abbiamo detto,
poteva prendere dalla Germania tutti
gli uomini che voleva. Wallenstein,
rimesso a capo di quei banditi,
comandante di più di centomila
uomini, o piuttosto comandato da
loro, in grado di spaventare
Ferdinando II con il proprio potere,
e a volte spaventandosene persino
lui, non chiedeva di meglio che
cederne a qualunque principe
volesse acquistargliene un po’. Fra
Carlo Emanuele e Collalto si dibatté
una mera questione di denaro e,
dopo diverse trattative e un profondo
salasso alle casse del duca di Savoia,
Collalto finì con il cedergli circa
diecimila uomini.
Ci voleva tutto l’odio di Carlo
Emanuele per la Francia per
concludere quel terribile accordo:
significava far entrare in Piemonte
un nemico ben altrimenti temibile di
quello che ne voleva respingere.
Nel campo dei francesi regnava
una severissima disciplina. I soldati
non prendevano nulla se non
pagandolo, mentre i tedeschi
tendevano la mano solamente per
prendere e saccheggiare.
Il duca di Savoia comprese
rapidamente che il meglio che
potesse fare era tentare un’ultima
carta per ammorbidire Richelieu.
Due giorni dopo la presa di
Pinerolo, il cardinale lavorava in
quello studio del conte Urbano
d’Espalomba dove l’indomani
dell’arrivo di Gaetano alla fortezza
la contessa era andata il mattino
molto presto a bussare; gli fu
annunciata la visita di un giovane
ufficiale inviato dal cardinale
Antonio Barberini, nipote del papa e
suo legato presso Carlo Emanuele.
Il cardinale intuì immediatamente
di che cosa si trattava e, poiché ad
annunciarlo era Latil, ed egli aveva
grande fiducia nel coraggio ma
anche nella perspicacia del
luogotenente delle sue guardie:
«Vieni qui» gli disse.
«Eccomi, Eminenza» rispose Latil
portando la mano al cappello.
«Conosci l’inviato di monsignor
Barberini?»
«Non l’ho mai visto,
monsignore.»
«Il nome?»
«Mai sentito prima.»
«Non da te, ma forse da me sì.»
Latil scosse il capo.
«Ci sono pochi nomi noti che io
non conosco» disse.
«Come si chiama?»
«Mazarino Mazarini,
monsignore.»
«Mazarino Mazarini! Hai ragione,
Étienne, non conosco questo nome.
Diavolo! Non mi piace giocare
senza sapere qualcosa delle carte del
mio vicino. Giovane?»
«Tra i ventisei e i ventotto anni sì
e no.»
«Bello o brutto?»
«Belloccio.»
«Fortuna di donna o di prelato!
Da quale parte d’Italia?»
«Dall’accento, direi del regno di
Napoli.»
«Acume e astuzia. Elegante o
trascurato nel vestire?»
«Vanitoso.»
«Mettiamoci in guardia, Latil!
Ventotto anni, belloccio, vanitoso,
inviato dal cardinale Barberini,
nipote di Urbano VIII: dev’essere o
un imbecille, cosa che capirò alla
prima occhiata, o un uomo molto in
gamba, cosa più difficile da capire.
Fallo entrare. In ogni modo, grazie a
te, non sarò sorpreso.»
Cinque minuti dopo la porta si
riapriva e Latil annunciava:
«Il capitano Mazarino Mazarini!»
Il cardinale lanciò un’occhiata al
giovane ufficiale, che era proprio
quale lo aveva dipinto Latil.
Dal canto suo, il giovane ufficiale,
che chiameremo Mazarin – visto
che, naturalizzato nel 1639, tolse le
ultime due lettere del suo nome 1 ed
è con quello di Mazarin che la storia
ha registrato uno dei maggiori
furfanti che abbia mai amministrato
un regno –, mentre salutava il
cardinale, fece di Sua Eminenza un
inventario completo quanto può fare
con un’occhiata un uomo dotato di
mente rapida e indagatrice.
Già una volta, mettendo uno di
fronte all’altro Sully e Richelieu,
abbiamo mostrato il passato e il
presente. Il caso vuole che mettendo
uno di fronte all’altro Richelieu e
Mazarin mostriamo adesso il
presente e il futuro. Solo che questa
volta non potremo dare per titolo al
nostro capitolo Le due aquile, bensì
L’aquila e la volpe.
La volpe dunque entrò con il suo
sguardo acuto e obliquo.
L’aquila la ricevette con il suo
sguardo diritto e profondo.
«Monsignore» disse Mazarin
affettando gran turbamento,
«perdonate la mia emozione nel
trovarmi davanti il primo genio
politico del secolo, io, semplice
capitano delle armate pontificie, e
soprattutto tanto giovane.»
«In effetti, signore, dovete avere
sì e no ventisei anni.»
«Trenta, monsignore.»
Il cardinale si mise a ridere.
«Signore» replicò, «quando,
recatomi a Roma per essere ordinato
vescovo, papa Paolo V mi domandò
la mia età, come voi mi invecchiai di
due anni e gli dissi venticinque
avendone ventitré. Mi ordinò
vescovo, ma dopo l’ordinazione mi
gettai ai suoi piedi e gli chiesi
l’assoluzione. Me la diede; gli
confessai allora che avevo mentito e
mi ero invecchiato di due anni.
Volete l’assoluzione?»
«Ve la chiederò, monsignore»
rispose Mazarin ridendo, «quando
vorrò essere vescovo.»
«Ne avreste l’intenzione?»
«Se potessi avere la speranza di
essere un giorno cardinale come
Vostra Eminenza.»
«Non vi sarà difficile con le
protezioni di cui godete.»
«E chi ha detto a monsignore che
godo di protezioni?»
«La missione di cui siete
incaricato, visto che, così mi hanno
detto, venite dalla parte del cardinale
Antonio Barberini.»
«In ogni modo la mia protezione
sarebbe di seconda mano, essendo io
il protetto solamente del nipote di
Sua Santità.»
«Datemi la protezione di un
nipote di Sua Santità e io vi cedo
quella di Sua Santità stessa.»
«Eppure dovete sapere che cosa
pensa Sua Santità dei nipoti.»
«Credo che abbia detto un giorno,
in un momento di franchezza, che il
suo primo nipote, Francesco
Barberini, che ha fatto entrare nel
Sacro Collegio, era capace solo di
recitare il Pater noster; che suo
fratello Antonio, quello che vi
manda da me, aveva come unico
merito la puzza della tonaca, ragione
per cui gli aveva dato la veste da
cardinale; che il cardinale Antonio il
giovane, soprannominato
Demostene perché balbetta, è capace
tutt’al più di ubriacarsi tre volte al
giorno; e che l’ultimo di tutti,
Taddeo, che aveva nominato
generalissimo della Santa Sede, era
più bravo a reggere una conocchia
che una spada.»
«Ah, monsignore, non vi chiederò
altro. Dopo avermi detto che cosa
pensa lo zio dei nipoti, sareste
capace di riferirmi che cosa dicono i
nipoti dello zio.»
«Che i grandi favori che ricevono
da Urbano VIII sono le più che
legittime ricompense delle pene che
si sono dati per farlo eleggere. Che
al primo turno degli scrutini il futuro
pontefice non aveva nemmeno un
voto. Che, mischiatisi al popolino
romano, a furia di denaro lo hanno
convinto ad andare sotto le finestre
di Castel Sant’Angelo, dove si
svolgevano l’elezione, a gridare:
“Morte e fiamme o Barberini
papa!”. Al secondo scrutinio ebbe
cinque voti: era già qualcosa, ma ne
occorrevano tredici. A capo della
cabala che non voleva saperne di lui
c’erano due cardinali. In tre giorni
sparirono: uno, si disse, colpito da
apoplessia, e l’altro da aneurisma.
Furono sostituiti da due partigiani
del candidato supremo; e si giunse a
sette voti. Morirono altri due
cardinali fra i più accaniti a
contrastarlo. Si parlò di
un’epidemia, a tutti venne una gran
fretta di lasciare il Conclave e
Barberini ebbe quindici voti invece
dei tredici che gli occorrevano.»
«Non era un prezzo troppo alto
per le grandi riforme che Sua Santità
ha varato appena asceso al trono
pontificio.»
«Effettivamente» riconobbe
Richelieu. «Ha proibito ai recolletti
di portare i sandali e il cappuccio a
punta come i cappuccini; ha proibito
ai vecchi carmelitani di chiamarsi
carmelitani riformati; ha costretto i
premostratensi di Spagna a
riprendere la vecchia tonaca e il
nome di fratres che avevano
abbandonato per orgoglio. Ha
beatificato due fanatici teatini,
Andrea Avellino e Gaetano da
Thiene; un carmelitano scalzo,
Felice da Cantalice; un illuminato, il
carmelitano fiorentino Corsini; due
mistiche in estasi, Maria Maddalena
de’ Pazzi ed Elisabetta, regina del
Portogallo; e per finire il beato san
Rocco e il suo cane.»
«Basta, basta» intervenne
Mazarin, «vedo che Vostra
Eminenza è ben informata su Sua
Santità, i suoi nipoti e la curia
romana.»
«Ma voi» disse Richelieu, «che
mi sembrate un uomo intelligente,
come mai siete al soldo di simili
nullità?»
«Si comincia da dove si può,
monsignore» disse Mazarin con il
suo sorrisetto.
«Giusto» disse Richelieu. «E
adesso che abbiamo parlato
abbastanza di loro, parliamo di noi.
Perché venite da me?»
«Per chiedervi una cosa che non
mi accorderete.»
«Perché?»
«Perché è assurda.»
«Perché avete accettato l’incarico,
allora?»
«Per incontrare l’uomo che stimo
di più al mondo.»
«E qual è quella cosa?»
Mazarin alzò le spalle.
«Sono incaricato di dire a Vostra
Eminenza che, dopo la presa della
fortezza di Pinerolo, il signor duca
di Savoia è diventato docile come un
agnello e insinuante come una serpe.
Ha dunque pregato Sua Eminenza
monsignore il legato di farvi
domandare se, come segno di
considerazione per la principessa di
Piemonte, sorella del vostro re, voi
avreste la generosità di restituirgli la
fortezza di Pinerolo, concessione
che farebbe fare grandi passi avanti
alla pace.»
«Sapete, caro capitano, che avete
fatto davvero bene a iniziare come
avete fatto, altrimenti mi sarei
domandato se foste uno stupido ad
assumere un’ambasciata simile
oppure se prendevate per uno
stupido me. No, no di certo!
L’alienazione della fortezza di
Pinerolo fu una vergogna del regno
di Enrico III; sarà una gloria del
regno di Luigi XIII.»
«Devo riportare la vostra risposta
nei termini in cui me l’avete data?»
«No, non esattamente.»
«Allora ditemi, monsignore.»
«Sua Maestà ancora non sa della
presa di Pinerolo; non posso fare
niente, se prima non mi dichiara se
vuole conservare la piazza o farne
grazioso dono a Madame sua
sorella. Mi scrivono che il re ha
lasciato Parigi e si dirige verso
l’Italia; aspettiamo che arrivi a
Lione o a Grenoble. In quel
momento potremo iniziare
seriamente i negoziati e dare risposte
più precise.»
«Potete stare tranquillo,
monsignore, riporterò la vostra
risposta parola per parola. Ma, se me
lo permettete, lascerò loro la
speranza.»
«Che cosa se ne faranno?»
«Niente. Ma io forse me ne farò
qualcosa.»
«Contate di rimanere in Italia?»
«No, ma prima di lasciarla voglio
ricavarne tutto quello che ancora
può darmi.»
«Credete che l’Italia non possa
offrirvi un avvenire sufficiente alla
vostra ambizione?»
«L’Italia è un paese condannato
per parecchi secoli, monsignore.
Ogni italiano che incontri un
compatriota deve dirgli: Memento
mori. L’ultimo secolo, lo sapete
meglio di me, monsignore, è stato
un secolo di crolli; ha sbriciolato
tutto quanto restava dei tempi
feudali. I due grandi poteri del
medioevo, Impero e Chiesa, si sono
come sciolti. Il papa e l’imperatore
erano le due metà di Dio; dopo
Rodolfo d’Asburgo, l’Impero è
diventato una dinastia; dopo Lutero,
il papa è solamente il rappresentante
di una setta.»
Mazarin parve volersi
interrompere.
«Avanti, andate avanti, vi
ascolto.»
«Mi ascoltate, monsignore! Fino a
oggi dubitavo di me, ma se voi mi
ascoltate non dubito più. Ci sono
ancora italiani, ma non c’è più
l’Italia, monsignore. La Spagna ha
in suo potere Napoli, Milano,
Firenze e Palermo, quattro capitali.
La Francia ha la Savoia e Mantova.
Venezia perde ogni giorno di più la
sua influenza; Genova vive alla
giornata. Un aggrottamento di ciglia
di Filippo IV o di Ferdinando II fa
tremare il successore di Gregorio
VII. L’autorità ha sconfitto ovunque
la libertà; ma l’autorità manca di
forza, i nobili hanno annullato il
popolo, ma si sono ridotti allo stato
di cortigiani. Il potere monarchico
ha trionfato ovunque e ovunque è
circondato di nemici terribili e
invisibili, che lo costringono a
circondarsi a sua volta di eserciti
permanenti, di sbirri, di bravi, a
munirsi di contravveleni, a indossare
cotte di maglia di ferro, e, quel che è
peggio, a dare la mano al Concilio di
Trento, all’Inquisizione, all’Indice.
La febbre della lotta sulle piazze
pubbliche e sui campi di battaglia è
scomparsa, e con essa la vita.
L’ordine regna ovunque, e l’ordine è
la morte dei popoli.»
«E dove andrete, se lascerete
l’Italia?»
«Dove ci saranno rivoluzioni,
monsignore; forse in Inghilterra,
probabilmente in Francia.»
«E se venite in Francia, sarete
disposto a dovermi qualcosa?»
«Sarò felice e fiero di dovervi
tutto, monsignore.»
«Spero che ci rivedremo,
monsieur Mazarin.»
«È il mio solo desiderio,
monsignore.»
E il compiacente napoletano
s’inchinò fino a terra e indietreggiò
fino alla porta.
«Avevo sentito dire» mormorò il
cardinale «che i topi abbandonano la
nave che sta per affondare; ma non
sapevo che fosse per salire su quella
che si prepara ad affrontare la
tempesta.»
Poi aggiunse pianissimo:
«Quel giovane capitano andrà
lontano, soprattutto se cambia
l’uniforme con una tonaca.»
Infine, alzandosi, il cardinale
raggiunse e attraversò l’anticamera,
tanto immerso nei suoi pensieri da
non vedere un corriere che arrivava
dalla Francia.
Latil glielo fece notare.
Il cardinale fece segno al corriere
di avvicinarsi e lui gli consegnò una
lettera proveniente dalla Francia.
«Ah, ah» disse Richelieu vedendo
che il messaggero era coperto di
polvere, «sembra che la lettera che
porti sia urgente.»
«Molto urgente, monsignore.»
Il cardinale prese la lettera e
l’aprì: non conteneva che poche
parole, ma, come vedremo, era di
una certa importanza.
Fontainebleau, 17 marzo 1630
Il re, partito per Lione, non è andato
oltre Troyes. Tornato a Fontainebleau.
Innamorato! In guardia.
P.S. Cinquanta pistole al corriere, se
arriva prima del 25 prossimo.