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DELLA

STESSA AUTRICE
PRESSO LE NOSTRE EDIZIONI:

Fidanzati dell’inverno. L’Attraversaspecchi – Libro 1


Gli scomparsi di Chiardiluna. L’Attraversaspecchi – Libro 2
Edizioni e/o
Via Camozzi, 1
00195 Roma
info@edizionieo.it
www.edizionieo.it

Titolo originale: La Passe-Miroir Vol.3, La Mémoire de Babel


Copyright © 2017 by Gallimard Jeunesse
Copyright © 2018 by Edizioni e/o

Grafica/Emanuele Ragnisco
www.mekkanografici.com

Grafica di copertina e illustrazioni di


Laurent Gapaillard © Gallimard Jeunesse

ISBN 9788833571676
Christelle Dabos
L’ATTRAVERSASPECCHI
LIBRO 3

LA MEMORIA DI BABEL
Traduzione dal francese
di Alberto Bracci Testasecca
L’ATTRAVERSASPECCHI
LIBRO 3

LA MEMORIA
DI BABEL
RICORDI DEL LIBRO 2
GLI SCOMPARSI DI CHIARDILUNA

In seguito a un equivoco Ofelia viene nominata vicenarratrice alla


corte di Faruk, lo spirito di famiglia del Polo, dove ha modo di
conoscere il rovescio della medaglia di Città-cielo e intravedere, sotto
le illusioni dorate, la corruzione delle anime. Inquietanti scomparse
nell’ambiente dei nobili la portano ben presto a indagare, in quanto
lettrice, su un ricattatore che sostiene di agire in nome di un non
meglio identificato Dio. Ofelia ne diventa il bersaglio quando Faruk si
affida al suo potere per penetrare il segreto del Libro, un manoscritto
cifrato di cui ogni spirito di famiglia possiede un esemplare, ultima
traccia di un’infanzia dimenticata. Dalla sua lettura dipenderà la vita
di Thorn, condannato alla pena capitale.
Quel che Ofelia scoprirà va molto oltre ciò che aveva immaginato.
Dio esiste effettivamente, è il creatore degli spiriti di famiglia, il
progenitore delle loro discendenze, il padrone dei destini familiari, il
censore delle memorie collettive!
E soprattutto può assumere l’aspetto e il potere di tutti quelli che
incontra, cosa che Ofelia e Thorn impareranno a proprie spese
quando Dio andrà a trovarli in prigione. In quell’occasione predice
loro che il peggio deve ancora venire: l’Altro è molto più temibile di
lui... ed è stata Ofelia, la prima volta che ha tentato di attraversare
uno specchio, a liberarlo inconsapevolmente.
Thorn, che grazie al matrimonio con Ofelia è diventato lui stesso
un Attraversaspecchi, si serve del nuovo potere per far perdere le sue
tracce.
Costretta a lasciare il Polo e tornare su Anima, Ofelia rimane sola
con le sue domande. Chi è l’Altro? È forse colui che ha provocato la
Lacerazione? Perché sta progettando di suscitare il crollo delle arche?
Tocca davvero a lei condurre Dio fino all’Altro?
Ma una domanda la tormenta più di tutte.
Dov’è Thorn?
I. Anima, l’arca di Artemide (signora degli oggetti)
II. Il Polo, l’arca di Faruk (signore delle menti)
III. Totem, l’arca di Venere (signora degli animali)
IV. Cyclope, l’arca di Urano (signore del magnetismo)
V. Flore, l’arca di Belisama (signora del verde)
VI. Plombor, l’arca di Mida (signore della trasmutazione)
VII. Pharos, l’arca di Horus (signore dell’incanto)
VIII. La Serenissima, l’arca di Fama (signora della divinazione)
IX. Heliopolis, l’arca di Lucifer (signore della folgore)
X. Babel, l’arca dei gemelli Helena e Polluce (signori dei sensi)
XI. Il Deserto, l’arca di Djinn (signore delle acque calde)
XII. Il Tartaro, l’arca di Gaia (signora dei fenomeni tellurici)
XIII. Zefiro, l’arca di Olimpio (signore dei venti)
XIV. Titan, l’arca di Yin (signora della massa)
XV. Corpolis, l’arca di Zeus (signore della metamorfosi)
XVI. Sidh, l’arca di Persefone (signora della temperatura)
XVII. Selene, l’arca di Morfeo (signore dell’onirismo)
XVIII. Vesperal, l’arca di Viracocha (signore della fantomizzazione)
XIX. Al-Ondaluz, l’arca di Rê (signore dell’empatia)
XX. La Stella, arca neutra (sede delle istituzioni interfamiliari)

Ci sarà una volta,


fra non molto tempo,
un mondo che vivrà finalmente in pace.

Allora
ci saranno nuovi uomini
e ci saranno nuove donne.

Sarà l’era dei miracoli.
L’ASSENTE
LA FESTA

L’orologio, un’immensa pendola montata su ruote con un


bilanciere che batteva energicamente i secondi, veniva avanti a tutta
velocità. A Ofelia non capitava tutti i giorni di vedere un mobile di
quelle dimensioni precipitarsi su di lei.
«Vogliate scusarla, cara cugina!» esclamò una ragazzina tirando il
guinzaglio con tutte le sue forze. «Di solito non è così espansiva. A
sua discolpa c’è da dire che mamma non la fa uscire quasi mai. Posso
avere una cialda?».
Ofelia dette un’occhiata prudente alla pendola, le cui rotelle
continuavano a stridere sul lastricato.
«Ci metto un po’ di sciroppo d’acero?» domandò pescando una
cialda croccante dall’espositore.
«No, grazie. Felici Rintocchi, cugina».
«Felici Rintocchi».
Ofelia aveva risposto senza convinzione guardando la ragazzina
perdersi tra la folla con la grossa pendola. Se c’era una festività che
non le andava a genio, era proprio quella. Assegnata allo stand delle
cialde nel bel mezzo del mercato artigianale di Anima, non faceva
che veder sfilare sveglie e orologi a cucù. La cacofonia ininterrotta di
tic-tac e “Felici Rintocchi!” rimbombava contro le grandi vetrate del
mercato coperto. Aveva la sensazione che tutte quelle lancette
girassero solo per ricordarle quello che non aveva voglia di ricordare.
«Due anni e sette mesi».
La zia Roseline aveva buttato là quelle parole riempiendo
l’espositore di cialde appena fatte. Anche a lei la festa dei Rintocchi
dava il malumore.
«Secondo te madama risponderà alle nostre lettere?» sbuffò
agitando la spatola. «Bah, immagino che abbia di meglio da fare».
«Siete ingiusta, zia» replicò Ofelia. «Probabilmente Berenilde ha
cercato di mettersi in contatto con noi».
La zia Roseline posò la spatola sullo stampino delle cialde e si
asciugò le mani sul grembiule da cucina.
«Certo che sono ingiusta. Dopo quel che è successo al Polo non mi
stupirebbe che le Decane intercettassero la nostra corrispondenza.
Dovrei evitare di lamentarmi con te, in questi due anni e sette mesi il
silenzio è stato più pesante per te che per me».
Ofelia non aveva voglia di parlarne. Solo a pensarci aveva
l’impressione di aver ingoiato un paio di lancette. Si affrettò a servire
un gioielliere bardato dei suoi orologi da taschino più belli.
«Allora?» si infastidì l’uomo quando i coperchi delle cipolle si
misero a sbattere freneticamente tutti insieme. «Che fine hanno fatto
le buone maniere, signorine? Volete che vi riporti in negozio?».
«Non le sgridate» disse Ofelia. «Sono io a far loro quest’effetto.
Sciroppo?».
«No, solo la cialda, grazie. Felici Rintocchi!».
Ofelia guardò il gioielliere allontanarsi e posò sul tavolo la bottiglia
dello sciroppo evitando per un pelo di rovesciarla.
«Le Decane non avrebbero dovuto affidarmi uno stand. Servo solo
a distribuire cialde che non sono in grado di preparare. Ne ho pure
fatte cadere per terra una mezza dozzina».
La goffaggine patologica di Ofelia era ben nota in famiglia.
Nessuno si sarebbe azzardato a chiederle dello sciroppo con tutti quei
delicati meccanismi in giro.
«Mi secca ammetterlo, ma per una volta do ragione alle Decane.
Hai una faccia che fa spavento, e credo che ti faccia bene tenere un
po’ le mani occupate».
La zia Roseline posò sulla nipote uno sguardo severo per
sottolinearne i lineamenti tirati, gli occhiali scoloriti e la treccia così
ingarbugliata che nessun pettine riusciva a venirne a capo.
«Sto bene».
«No, non stai bene. Non esci più, mangi chissà come e dormi
chissà quando. Non sei neanche più tornata al museo» concluse
gravemente la zia Roseline, come se quel particolare fosse il più
inquietante di tutti.
«Non è vero, ci sono andata» obiettò Ofelia.
Ci si era precipitata appena scesa dal dirigibile di ritorno dal Polo,
ancora prima di passare a casa a lasciare la valigia. Aveva voluto
vedere di persona le vetrine senza più le collezioni di armi, la rotonda
senza più gli aerei militari, le pareti senza più gli stendardi imperiali e
le nicchie senza più le armature da parata.
Ne era uscita distrutta, e non ci aveva più rimesso piede.
«Non è più un museo» mormorò tra i denti. «Raccontare il passato
rifiutandosi di raccontare la guerra significa mentire».
«Sei una lettrice» la rimproverò la zia Roseline. «Non vorrai stare a
girarti i pollici fino a che... fino a che... Insomma, devi guardare
avanti».
Ofelia evitò di ribattere che non si girava affatto i pollici e che
guardare avanti non le interessava. Aveva indagato molto negli ultimi
mesi senza muoversi dal letto, sprofondata in testi di geografia. Più
che “avanti” doveva guardare “altrove”, solo che non aveva la
possibilità di muoversi. Non finché le Decane la tenevano d’occhio.
Non finché Dio la teneva d’occhio.
«Faresti meglio a lasciare a casa il tuo orologio durante la festa dei
Rintocchi» dichiarò la zia Roseline. «Mette in agitazione gli altri».
Alcuni orologi si erano effettivamente raggruppati davanti allo
stand delle cialde. D’istinto Ofelia si posò la mano sulla tasca, poi
fece segno ai quadranti di andare a ticchettare un po’ più in là.
«È tipico di Anima. Non si può avere addosso un orologio sregolato
senza suscitare la disapprovazione di tutti gli orologi dei paraggi».
«Dovresti farlo curare da un orologiaio».
«L’ho fatto. Non è rotto, solo molto perturbato. Felici Rintocchi,
zio».
Infagottato nel vecchio cappotto invernale, con i baffi resi pesanti
dalla neve squagliata, il prozio era appena sbucato dalla folla.
«Sì sì, buona festa, tic-tac e tutto il resto» brontolò passando
direttamente dall’altra parte del bancone e prendendosi una cialda
calda. «Questa baraonda sta diventando ridicola! Festa
dell’Argenteria, festa degli Strumenti musicali, festa degli Stivali, festa
dei Cappelli... Ogni anno nel calendario appare una nuova baldoria!
Vedrete che prima o poi festeggeremo i vasi da notte. Ai miei tempi
non si viziavano gli oggetti come si fa oggi. E poi ci stupiamo se
fanno i capricci. Presto, nascondila» sussurrò poi dando una busta a
Ofelia.
«Ne avete trovata un’altra?».
Mentre infilava la busta nella tasca del grembiule Ofelia sentì il
cuore batterle più forte di tutti gli orologi della festa.
«E non delle più insignificanti, nipote mia. Scovarle non è difficile,
il difficile è farlo all’insaputa delle Decane. Mi tengono gli occhi
addosso quasi quanto li tengono a te. Tra l’altro fai attenzione»
borbottò il prozio scrollando i baffi, «ho visto la Relatrice e il suo
maledetto uccellaccio aggirarsi nei paraggi».
Sentendo quel dialogo la zia Roseline strinse i lunghi denti. Era
perfettamente al corrente delle loro piccole manovre e, benché non le
approvasse per timore che Ofelia si mettesse in ulteriori pasticci,
spesso si rendeva loro complice.
«Sta finendo l’impasto per le cialde» disse in tono secco. «Vai a
prendermene un po’, per piacere».
Ofelia sgattaiolò nel locale delle provviste senza farsi pregare. Il
luogo era gelido, ma almeno era al riparo dagli sguardi. Calmò la
sciarpa che si spazientiva sull’attaccapanni, controllò che non ci fosse
nessuno e aprì la busta del prozio.
Conteneva una cartolina.
La didascalia indicava XXII Esposizione interfamiliare, e il timbro della
posta risaliva a più di sessant’anni prima. Da bravo archivista
familiare il prozio doveva aver tirato in ballo i suoi contatti per
procurarsi la cartolina. A Ofelia interessava l’immagine. La fotografia
in bianco e nero, ravvivata qua e là da colori artificiali, mostrava i
banchi degli espositori e le curiosità esotiche lungo le corsie di un
immenso edificio. Sembrava il mercato coperto di Anima, ma cento
volte più imponente. Si aggiustò gli occhiali sul naso, avvicinò la
cartolina alla luce e finì per trovare quello che stava cercando: al di là
delle grandi vetrate, quasi invisibile nella nebbia dell’esterno, si
ergeva una statua decapitata.
Per la prima volta da parecchio tempo gli occhiali le si colorarono
dall’emozione. Il prozio le aveva appena portato la conferma di tutte
le sue ipotesi.
«Ofelia, ti vuole tua madre!» chiamò la zia Roseline.
A quelle parole nascose precipitosamente la cartolina. L’ondata di
eccitazione che l’aveva travolta defluì subito per lasciare il posto alla
frustrazione. Ma era più che frustrazione: l’attesa, l’interminabile
attesa, le scavava un buco all’interno del corpo, un vuoto che si
ingrandiva col passare dei giorni, delle settimane, dei mesi. Certe
volte si domandava se non avrebbe finito per precipitare all’interno
di se stessa.
Prese l’orologio da taschino e ne aprì il coperchio con infinite
precauzioni. Il povero meccanismo era già abbastanza malandato così
com’era, Ofelia non poteva permettersi di essere maldestra. Da
quando l’aveva recuperato tra le cose di Thorn, subito prima di essere
rimpatriata di forza su Anima, l’orologio non aveva mai segnato l’ora.
O meglio, segnava troppe ore tutte insieme. Le sue lancette andavano
un po’ in un senso e un po’ nell’altro, apparentemente senza la
minima logica: le quattro e ventidue, le sette e trentotto, l’una e
cinque... e non faceva più alcun tic-tac.
Due anni e sette mesi di silenzio.
Dopo l’evasione di Thorn, Ofelia non aveva più ricevuto sue
notizie. Non un telegramma, non una lettera. Per quanto sapesse che
non poteva correre il rischio di manifestarsi, che era un uomo
ricercato dalla giustizia e forse da Dio in persona, quel silenzio la
consumava dall’interno.
«Ofelia!».
«Eccomi».
Prese un barattolo di pastella per cialde e uscì dal locale delle
provviste. Dall’altra parte dello stand c’era la madre con un enorme
vestito a sbuffi.
«Mia figlia si è finalmente degnata di scendere dal letto! Era ora.
Ancora un po’ e ti saresti trasformata in comodino. Felici Rintocchi,
cara. Ti dispiace servire i piccoli?».
La madre indicò la lunga fila di bambini che erano con lei, tra i
quali Ofelia scorse il fratello, le sorelle, i nipoti, i cugini di secondo
grado e la pendola del salotto. Dal suo punto di vista non erano
propriamente “piccoli”. Negli ultimi mesi Hector era così cresciuto da
averla allegramente raggiunta. Certe volte, a vederli così alti, con i
capelli rosso fuoco e le lentiggini, si chiedeva se davvero anche lei
facesse parte della stessa famiglia.
«Ho parlato con Agata della tua situazione» disse la madre
protendendosi con tutto il busto al disopra del bancone. «Tua sorella
la pensa come me, devi trovarti una sistemazione. Ne ha discusso con
Charles, sono entrambi d’accordo a farti lavorare in fabbrica.
Guardati, figlia mia! Non puoi continuare così! Sei giovane, e niente
ti vincola ancora a... come dire... a lui».
Aveva articolato l’ultima parola senza pronunciarla. Nessuno citava
mai Thorn in famiglia, come se fosse stato un argomento di cui
vergognarsi. In linea generale nessuno citava mai il Polo. C’erano
giorni in cui Ofelia si domandava se tutto quello che aveva vissuto al
Polo fosse reale, se davvero avesse vestito i panni di valletto,
vicenarratrice e grande lettrice familiare.
«Ringraziate Agata e Charles da parte mia, mamma, ma no, non mi
ci vedo a lavorare con i merletti».
«Posso prenderla con me in archivio» borbottò il prozio tra i baffi.
La madre di Ofelia strinse le labbra con tale forza che il viso assunse
un aspetto da mantice.
«Voi avete sempre avuto un effetto deplorevole su di lei, caro zio.
Passato, passato, sempre il passato! Mia figlia deve pensare al suo
futuro».
«Ah certo!» ironizzò lui. «La vorresti benpensante come gli innocui
libretti della biblioteca, vero? Tanto varrebbe mandarla a vivere allo
Sprofondo di Vattelapesca!».
«Più che altro mi piacerebbe che una volta tanto fosse vista di buon
occhio dalle Decane e da Artemide».
Ofelia era così nervosa che inavvertitamente porse una cialda alla
pendola di famiglia.
Non c’era niente da fare: per quanto ripetesse loro che non
bisognava fidarsi delle Decane nessuno le dava retta. E sì che avrebbe
voluto metterli in guardia contro un sacco di altre cose! Tanto per
cominciare, Dio. Eppure non aveva parlato di lui con nessuno, né
con i genitori che la tempestavano di domande, né con la zia
Roseline che si preoccupava per il suo mutismo, né col prozio che la
aiutava nelle ricerche. Tutta la famiglia sapeva che nella cella di
Thorn era successo qualcosa, anche se i meno informati credevano
che a essere detenuta fosse Ofelia, ma nessuno era mai riuscito a
scucirle il racconto completo. Non poteva dirlo, dopo quello che
aveva scoperto sul conto di Dio.
Madre Ildegarda si era uccisa per colpa di Dio.
Il barone Melchior aveva ucciso per Dio.
Thorn aveva rischiato di essere ucciso da Dio.
L’esistenza stessa di Dio era una verità pericolosa. Ofelia l’avrebbe
tenuta segreta per tutto il tempo necessario.
«So che vi state tutti preoccupando per me» disse alla fine, «ma si
tratta della mia vita. Non devo renderne conto a nessuno, neanche
ad Artemide, e me ne infischio altamente di quel che pensano le
Decane».
«Buon per te, piccina cara!».
Vedendo la donna di mezza età avvicinarsi furtiva allo stand Ofelia
si irrigidì. Non indossava né si portava dietro alcun orologio, in
compenso aveva sulla testa un cappello inverosimile in cima al quale
girava vorticosamente una banderuola a forma di cicogna. I grossi
occhiali dalla montatura d’oro le ingrandivano ancora di più due
occhi a palla che spiavano gesti e azioni degli Animisti in genere e di
Ofelia in particolare.
Come le Decane erano complici di Dio, così la Relatrice era
complice delle Decane.
«Tua figlia è una libera pensatrice, mia cara Sophie» disse
rivolgendo un sorriso benevolo alla madre di Ofelia. «In tutte le
famiglie ce n’è una! Non vuole riprendere il suo lavoro al museo?
Rispettiamo la sua scelta. Non vuole lavorare con i merletti? Non le
forziamo la mano. Lascia che voli con le proprie ali... Mi chiedo se
non abbia bisogno di cambiare paese».
Gli occhi della Relatrice e la banderuola puntarono Ofelia girandosi
simultaneamente. Ofelia si impose di non controllare che la cartolina
del prozio non le spuntasse dal grembiule.
«Mi state spingendo a lasciare Anima?» domandò diffidente.
«Oh, non ti stiamo spingendo a un bel niente!» si affrettò a
dichiarare la Relatrice anticipando la madre di Ofelia che aveva già
aperto la bocca per dire la sua. «Sei grande, ormai. Sei libera di
muoverti come meglio credi».
Decisamente quella donna non aveva il dono della sottigliezza,
motivo per cui non sarebbe mai diventata Decana a sua volta. Ofelia
sapeva perfettamente che nell’istante stesso in cui avesse messo piede
su un dirigibile l’avrebbero seguita senza perderla d’occhio. Voleva
ritrovare Thorn, certo, ma non aveva la minima intenzione di
condurre Dio da lui. In quei momenti rimpiangeva più che mai di
non potersi servire degli specchi per lasciare Anima: purtroppo il suo
potere aveva dei limiti.
«Vi ringrazio» rispose dopo aver finito di distribuire cialde ai
bambini, «ma credo di preferire camera mia. Felici Rintocchi,
signora».
Il sorriso della Relatrice si contrasse.
«Le nostre care madri ti fanno un onore immenso a preoccuparsi
della tua personcina. Immenso, capisci? Smettila di fare la misteriosa
e confidati con loro. Potrebbero aiutarti, sai, molto più di quel che
pensi».
«Felici Rintocchi» ripeté Ofelia in tono secco.
La Relatrice indietreggiò bruscamente, come se fosse stata
attraversata da una scarica elettrica. Guardò Ofelia stupefatta, poi
indignata, poi girò i tacchi e raggiunse un corteo di vecchie dame al
centro della processione degli orologi. Le Decane. Ascoltando il
rapporto della Relatrice si limitarono ad annuire, ma lo sguardo che
rivolsero da lontano a Ofelia era di ghiaccio.
«L’hai fatto!» si infuriò la madre. «Ti sei servita di quell’orribile
potere! E sulla Relatrice in persona!».
«Non l’ho fatto apposta. Se le Decane non mi avessero costretto ad
andarmene dal Polo, Berenilde mi avrebbe insegnato a controllare i
miei artigli».
Ofelia l’aveva mormorato infastidita passando uno strofinaccio sul
bancone. Non riusciva ad abituarsi al suo nuovo potere. Fino a quel
momento non aveva ferito nessuno, non aveva mozzato nasi né dita,
ma se qualcuno le stava davvero antipatico accadeva sempre lo stesso
fenomeno: qualcosa dentro di lei si attivava per respingerlo. Non era
certo il modo migliore di sistemare una controversia.
«Non te la caverai così» sibilò la madre puntandole contro
un’unghia rossa. «Ne ho abbastanza di vederti ciondolare a letto e
sfidare le nostre care madri. Domattina andrai alla fabbrica di tua
sorella, punto e basta!».
Ofelia aspettò che la madre si fosse allontanata con i bambini per
appoggiarsi con entrambe le mani al bancone delle cialde e fare un
profondo respiro. La voragine che aveva l’impressione di sentire
dentro di sé si era appena ingrandita un altro po’.
«Che tua madre sbraiti quanto vuole» borbottò il prozio, «puoi
sempre venire a lavorare con me in archivio».
«O con me alla bottega di restauro» disse la zia Roseline in tono
incoraggiante. «Niente è tanto gratificante quanto depurare la carta
da vermi e muffa».
Ofelia non rispose. Non aveva voglia di andare alla fabbrica di
merletti né all’archivio di famiglia né alla bottega di restauro. L’unica
cosa che desiderava con tutte le sue forze era sfuggire alla vigilanza
delle Decane e recarsi nel luogo raffigurato sulla cartolina.
Dove forse, in quello stesso momento, si trovava Thorn.
“Primo ammezzato”.
“Toilette degli uomini”.
“Non vi scordate la sciarpa: siete in partenza”.
Ofelia si raddrizzò di scatto rovesciando sul bancone la bottiglia di
sciroppo d’acero. Con le guance in fiamme cercò tra la folla di orologi
da cucina e pendole astronomiche chi le avesse insufflato quei tre
pensieri nella testa, ma non individuò nessuno.
«Che ti prende?» si stupì la zia Roseline notando che la nipote si
infilava precipitosamente il cappotto sopra il grembiule.
«Devo andare in bagno».
«Ti senti male?».
«Mai stata così bene» disse Ofelia con un gran sorriso. «Archibald è
venuto a prendermi».
LA SCORCIATOIA

In realtà, mentre senza farsi notare saliva le scale in compagnia del


prozio, della zia Roseline e della sciarpa, Ofelia non aveva la minima
idea di come avesse fatto Archibald a spuntare nel bel mezzo della
festa animista né perché le avesse dato appuntamento alle toilette.
“Siete in partenza” aveva detto, ma se aveva in mente di farle lasciare
Anima non sarebbe stato meglio darle appuntamento all’esterno, il
più lontano possibile dalla folla e dalle Decane?
«Sareste dovuta rimanere allo stand» mormorò. «Appena vedranno
che alle cialde non c’è più nessuno si metteranno a cercarci».
L’aveva detto alla zia Roseline, che nella precipitazione della
partenza si portava sottobraccio tutto quello che era riuscita a
prendere.
«Stai scherzando» si indignò la zia. «Se c’è una minima possibilità
di tornare al Polo vengo anch’io!».
«E il lavoro alla bottega di restauro? Tutto quello che avete detto
sui vermi e la muffa?».
«Serpenti e depravati: ecco le persone che Berenilde si trova ad
affrontare da sola da quando siamo andate via. E ai miei occhi
Berenilde ha molto più valore di un foglio di carta».
Vedendo Archibald dall’altra parte del piano ammezzato Ofelia
sentì il cuore balzarle nel petto. La stava aspettando in tutta
tranquillità davanti alla porta dei gabinetti avvolto in una vecchia
mantellina rattoppata, con il cilindro di traverso sulla testa. Non
cercava neppure di nascondersi, precauzione che non sarebbe affatto
stata superflua: anche vestito come un vagabondo era il tipo d’uomo
che attirava gli sguardi, soprattutto quelli delle signore.
«Non sarà una trappola?» mugugnò il prozio trattenendo la nipote
per la spalla. «È un tipo affidabile?».
Su quel punto Ofelia preferì non pronunciarsi. In una certa misura
si fidava di Archibald, ma non era certo l’uomo più virtuoso che
conoscesse. Camminò sulla passerella dell’ammezzato tenendosi il
più lontano possibile dalla balaustra. Da dove si trovava vedeva solo
un mare agitato di cappelli e orologi: ci si scambiava l’ora, si
regolavano gli orologi, ci si augurava “Felici Rintocchi!”.
«Ve l’avevo detto, moglie di Thorn!» esclamò Archibald a mo’ di
saluto. «Se non venite al Polo, sarà il Polo a venire da voi».
Aprì la porta dei bagni come fosse stata la porta di una carrozza, e
con un ampio gesto invitò tutti a entrare.
«Che succede qui? Chi è quell’individuo?».
Agitatissima, ansimante per aver fatto le scale di corsa, con la
banderuola puntata su di loro, la Relatrice era appena apparsa
sull’ammezzato.
«Presto, entrate» disse Archibald spingendo dentro Ofelia.
La zia Roseline e il prozio le andarono dietro slittando sul
pavimento di mattonelle e cercando un’uscita d’emergenza, ma
intorno a loro c’erano solo orinatoi. Ofelia avrebbe voluto chiedere
ad Archibald da dove avesse intenzione di farli uscire, ma costui era
troppo occupato a impedire alla Relatrice di entrare a sua volta.
Quest’ultima era stata così rapida da riuscire a bloccare la porta con
uno dei suoi stivaletti.
«Madri carissime!» chiamò con voce più che acuta. «Sta scappando!
Fate qualcosa!».
Le sue parole scatenarono l’apocalisse all’interno delle toilette.
Orinatoi, gabinetti e lavandini si misero a versare acqua con
abominevoli gorgoglii. L’animismo delle Decane era già all’opera.
Tutti gli stabilimenti pubblici ubbidivano alla loro volontà, e il
mercato coperto non faceva eccezione.
«Non possiamo rimanere qua dentro all’infinito» gridò Ofelia
sovrastando il rumore delle acque. «Che pensate di fare?».
«Chiudere questa porta».
Archibald l’aveva detto senza smettere di sorridere, come se quel
bailamme fosse solo un lieve contrattempo.
«E poi?» insisté lei.
«Poi sarete libera».
Ofelia non capiva. Fissò la mano della Relatrice che si era infilata
nello spiraglio della porta. Conosceva abbastanza Archibald da sapere
che non avrebbe mai rotto le dita a una signora.
«Scostati, brav’uomo!» grugnì il prozio. «Me la vedo io con questa
scocciatrice, aiuta la bambina a filarsela».
E su quelle parole uscì a tutta velocità dalle toilette trascinando nel
suo slancio la Relatrice.
Archibald sbatté la porta e calò il silenzio, un silenzio
soprannaturale, incomprensibile. I sanitari avevano smesso di
scaricare acqua, non si sentivano più gli strilli della Relatrice, i tic-tac
della festa erano cessati. Ofelia arrivò a chiedersi se Archibald non
avesse fermato il tempo. Quando anche loro uscirono non c’erano
più ammezzato, prozio, Relatrice e mercato coperto. Il loro posto era
stato preso da un negozio deserto in cui si intuivano file di scaffali
vuoti. A giudicare dal pungente odore di polvere l’esercizio doveva
essere chiuso da un bel po’.
«Attente allo scalino» avvertì Archibald.
Ofelia e la zia Roseline, caute, vennero fuori dalle toilette, che
erano un po’ sopraelevate rispetto al pavimento del negozio. Ne
capirono la ragione guardandosi indietro: erano appena sbucate da
un armadio.
«Come ci siete riuscito?».
«Ho invocato una scorciatoia» spiegò Archibald come se fosse la
cosa più naturale del mondo. «Non c’è niente di straordinario, è
effimera, guardate voi stesse».
Chiuse e riaprì la porta dell’armadio. Al posto dei bagni degli
uomini c’erano vecchie cianfrusaglie. Veniva da chiedersi come
avessero fatto tre persone a uscire da un luogo così angusto.
«Il mercato ha di nuovo le sue toilette» commentò Archibald,
contento. «Immaginate la faccia che farà la dama con la banderuola
quando non troverà nessuno!».
Ofelia strizzò la sciarpa fradicia e scostò la tenda della vetrina. Il
vetro era coperto di condensa, ma riuscì lo stesso a intravedere una
piccola via lastricata, in parte coperta di neve, piena di passanti
imbacuccati che stavano attenti a non scivolare. Più in basso, sotto
un cielo livido, una chiatta si muoveva lentamente sull’acqua mezzo
ghiacciata di un canale.
«Riconosco il luogo» disse la zia Roseline guardando a sua volta.
«Siamo dalle parti dei Grandi Laghi».
Ofelia ci rimase un po’ male. La loro fuga era stata talmente
prodigiosa che per un attimo aveva creduto di non essere più su
Anima.
«Come ci siete riuscito?» chiese di nuovo.
Archibald era un uomo pieno di risorse, capace di infilarsi nella
testa delle persone come nel cuore delle signore, ma quell’ultima
prodezza era al di là del comprensibile.
«È una lunga storia» sorrise frugandosi le tasche bucate della
mantella. «Vi dirò solo che mi sono scoperto nuove possibilità, nuove
ambizioni e nuovi amori!».
L’aveva dichiarato tirando trionfalmente fuori un mazzo di chiavi.
Ofelia lo osservò nella penombra del negozio. L’ultima volta che
l’aveva visto, all’imbarcadero di Città-cielo, era l’ombra di se stesso.
In quel momento invece nel cielo dei suoi occhi brillava il sole, un
bagliore di tutt’altra natura rispetto all’insolenza agrodolce che lo
caratterizzava prima.
Ofelia, suo malgrado, si irrigidì. Era proprio Archibald la persona
che stava seguendo? Dall’incontro nella prigione di Thorn non aveva
più avuto a che fare con Dio, ma non aveva dimenticato che Dio
poteva assumere qualunque aspetto.
«Come sapevate dove trovarmi?».
«Non lo sapevo» rispose Archibald. «Ho passato due ore su un
traghetto gelido e un’altra a chiedere la strada alla gente della vostra
piccola valle. Quando finalmente ho trovato la casa dei vostri
genitori voi non c’eravate. Non è stato per niente facile, posso
invocare scorciatoie solo tra due luoghi in cui sono già stato. Se le
signore vogliono seguirmi...» aggiunse dirigendosi verso il retro del
negozio.
Ma Ofelia non aveva più tanta voglia di precipitarsi fuori.
«Perché ci avete portato qui?».
«Berenilde è con voi?» domandò la zia Roseline.
«E Thorn?» non poté fare a meno di chiedere Ofelia.
«Piano, piano!» scoppiò a ridere Archibald. «Vi ho portato qui
perché è qui che sono arrivato. Le mie richieste di scorciatoie hanno
dei limiti. E no, la cara Berenilde non è con me. Non sa neanche che
sono qui... e mi farà a fettine se non mi affretto a tornare al Polo»
disse guardando l’orologio. «Quanto all’inafferrabile signor Thorn, da
dopo l’evasione non abbiamo più avuto sue notizie».
La speranza che si era impossessata di Ofelia vedendo Archibald si
sgonfiò come un soufflé. Per un folle momento aveva addirittura
pensato che fosse stato Thorn a organizzare il rapimento. Guardò con
aria circospetta il retrobottega in cui era entrato Archibald: sembrava
ancora più abbandonato del negozio stesso.
«Siete arrivato qui? Non capisco».
Archibald provò varie chiavi prima di provocare un sonoro scatto
della serratura.
«Dopo di voi, madame!».
Diversamente da quel che Ofelia si era immaginata il passaggio non
dava su una cantina, ma su una rotonda vasta quanto l’atrio di una
stazione. Dalle alte vetrate della cupola emanava una luce diafana,
quasi irreale. Il pavimento era un immenso mosaico raffigurante una
stella le cui otto punte erano dirette verso altrettante porte disposte
come i punti cardinali. Tanto era grandioso il salone quanto
miserando era il negozio attiguo.
Numerosi cartelli in argento placcato riportavano la stessa frase:
VI AUGURIAMO UN BUON PASSAGGIO DI PORTA.
«Una Rosa dei Venti» mormorò Ofelia.
E, a giudicare dalla sua imponenza, si trattava di una Rosa dei Venti
interfamiliare. Era la prima volta che Ofelia metteva piede in un
luogo del genere. Peccato che ciò avvenisse subito dopo essere stata
innaffiata dalle acque delle toilette: ogni suo passo produceva un
rumore spugnoso che non era proprio elegantissimo.
«Avevo sentito dire che su Anima ce n’erano, ma non ci avevo
creduto tanto».
Anche se Ofelia non parlava forte, il mosaico e le vetrate fecero
volare il suono della sua voce per tutta la rotonda.
«C’è solo questa» specificò Archibald richiudendo a chiave la porta
alle sue spalle. «E come ogni Rosa dei Venti che si rispetti la sua
dislocazione è strettamente confidenziale. Ecco, magari avrei preferito
che si trovasse un po’ più vicino a casa vostra».
Al centro della rotonda c’era un bancone su cui Ofelia, stupita, vide
una bambina stesa sulla pancia che disegnava con la massima
applicazione. Era talmente silenziosa che quasi non l’aveva notata.
«Madame, avete sotto gli occhi le mie nuove possibilità e le mie
nuove ambizioni» dichiarò Archibald con un gesto che abbracciava
l’intera sala. «Quanto ai miei nuovi amori, eccoli qua!». Sollevò la
bambina dal bancone brandendola come un trofeo. «Cara Vittoria,
permettetemi di presentarvi la vostra madrina e la madrina della
vostra madrina».
Dalla sorpresa la zia Roseline fece cadere tutti gli oggetti che si era
portata dietro: ombrello, manicotto, scialle e spatola per cialde.
«Per tutte le carrozzine! È la figlia di Berenilde! Il suo ritratto
sputato».
Commossa, e anche un po’ intimidita, Ofelia studiò la bambina
che la guardava sgranando i grandi occhi chiari. Gli stessi occhi di
Berenilde. Per il resto, in realtà, Vittoria aveva preso più dal padre. Il
viso era di un pallore elfico e i capelli, più lunghi del consueto data la
sua età, sembravano più bianchi che biondi. Aveva anche un modo
curioso di aprire la bocca senza emettere suoni che ricordava gli
interminabili silenzi di Faruk.
«Ancora non sa parlare né camminare» le avvertì Archibald
scuotendo Vittoria come se si trattasse di una bambola-fonografo
difettosa. «E neppure si è attivato il suo potere familiare. Ma non
crediate che sia stupida, capisce già più cose di tutte le mie ex sorelle
messe insieme».
Sospettosa, la zia Roseline aggrottò le sopracciglia.
«Berenilde sa che la figlia è qui? Siete sempre così irresponsabile!»
aggiunse esasperata vedendo il sorriso di Archibald allargarsi. «La
figlia di uno spirito di famiglia! State cercando l’incidente
diplomatico? Come ambasciatore non valete un fico secco».
«Non sono più ambasciatore. Adesso è la mia ex sorella Pazientina
a ricoprire l’incarico. Il clan mi ha radiato dal registro dei vivi dopo
l’episodio che sapete». Archibald fece con le dita il gesto della
sforbiciata. «Non giudicatemi con troppa severità, signora Roseline.
Vittoria viene da una madre che la vorrebbe sempre in culla e da un
padre che non ricorda mai il nome della figlia. Tocca a me, in quanto
padrino, offrirle una vita stimolante... E voi, madamigella, non date
retta alle malelingue che vi chiamano ritardata!» aggiunse Archibald
infilando il cilindro sulla testa di Vittoria. «Prevedo che farete grandi
cose».
Ofelia si sentì travolta da un’emozione brutale. Non erano
esattamente le parole che il prozio le aveva rivolto in occasione del
fidanzamento, ma ci somigliavano parecchio. Le venne in mente che
se le Decane non si fossero messe di mezzo anche lei avrebbe potuto
veder crescere Vittoria ed essere per lei un’autentica madrina. A
quell’ora forse avrebbe già ritrovato Thorn, e comunque non avrebbe
passato due anni tappata in camera mentre il resto del mondo
continuava a fare la sua strada.
«Come funziona la Rosa dei Venti? Fino a dove può portarci?
Vorrei mettere la maggior distanza possibile fra me e le De...».
Ofelia non terminò la frase. Con gesto teatrale Archibald aveva
tirato una tenda dietro il bancone, che nascondeva una grande tavola
rotonda su cui erano chini Gaela e Renard, impegnatissimi a prendere
appunti. Sotto il colbacco col paraorecchie portavano entrambi
occhiali binoculari che li rendevano irriconoscibili. Un grosso gatto
rosso che Ofelia immaginò essere Salame si strofinava contro le loro
gambe in cerca d’attenzione, ma quei due erano talmente concentrati
che niente sembrava esistere al difuori del tavolo.
Almeno così credé Ofelia fino a che Renard, tra un’annotazione e
l’altra, non le fece un occhiolino ingigantito dalla lente. Con la sua
corporatura atletica, le sopracciglia cespugliose e i folti favoriti rossi
somigliava più che mai a un caminetto.
«Buongiorno, padrona. Finiamo i calcoli e siamo da voi. Se ci
fermiamo adesso bisognerà rifare l’itinerario da capo, cosa che
metterebbe l’altra mia padrona di pessimo umore».
«Piantala con questi “padrona”» grugnì Gaela senza sollevare gli
occhiali binoculari dal tavolo. «Sei un sindacalista, parla da
sindacalista».
«Sì, padrona».
Più la giornata avanzava e più Ofelia si chiedeva se non si fosse
addormentata allo stand delle cialde e stesse sognando!
«I miei compagni di viaggio!» annunciò Archibald continuando a
tenere la piccola Vittoria in equilibrio su un braccio. «Non ci
possiamo soffrire, ma a parte questo piccolo particolare formiamo
una bella squadra. Io scovo le Rose dei Venti, loro le decodificano.
Sette delle otto porte qui presenti conducono ad altrettante arche su
cui si trovano altri accessi. Ogni Rosa dei Venti è in tutto e per tutto
simile a questa: otto porte, un bancone, una tavola degli itinerari.
Non avete idea del numero di porte che abbiamo dovuto varcare solo
per venire dal Polo ad Anima, per non parlare degli errori di
percorso».
Ofelia esaminò la tavola rotonda più da vicino e osservò le cifre, i
simboli e le linee direzionali raffigurate dalle incisioni di cui era
interamente ricoperto il marmo del piano. La mappa della rete delle
Rose dei Venti aveva l’aria di un rompicapo da incubo. Gaela e
Renard si indicavano le linee, utilizzavano strumenti di misurazione e
annotavano le indicazioni. Non si toccavano, non si guardavano,
non si parlavano, eppure dal modo in cui stavano l’uno accanto
all’altra Ofelia capì. Distolse lo sguardo, di colpo imbarazzata nel
vederli così, come se avesse ficcato il naso nella loro intimità.
Accarezzò Salame che era andato a cercare da lei quel che non aveva
ottenuto altrove, indispettita nel vedere quanto anche lui fosse
cresciuto.
Non riusciva a liberarsi della sgradevole sensazione di aver saltato
uno scalino, o forse una scala intera.
«Cos’è un sindacalista?» domandò ad Archibald.
Lui posò Vittoria sul bancone, che ricominciò subito a disegnare.
«Oh, una nuova moda del Polo: riposo compensativo, rivalutazione
dei salari, diminuzione del tempo di lavoro... È come se la vecchia
Ildegarda fosse qui, più viva che mai, a inculcare le sue idee folli nella
testa dei domestici. Le cose sono cambiate molto da quando siete
partita».
«Anche voi siete cambiato» gli fece notare Ofelia. «Volete spiegarmi
come fate a invocare scorciatoie e sbloccare Rose dei Venti? Credevo
che solo gli Arcadiani ne fossero capaci».
Archibald riprese il cilindro dalla testa di Vittoria e lo fece ruotare
su un dito.
«Credo di avervi già parlato di Augustin, il mio bisnonno, e del
breve amorazzo che aveva avuto con la vecchia Ildegarda.
Ricordate?».
Ofelia squadrò Archibald stupefatta. Era ancora accovacciata
davanti al gatto con la mano sospesa a metà carezza, senza accorgersi
che Salame si era messo a bisticciare con la sciarpa.
«Voi e la signora Ildegarda? Voi sareste suo...».
«Il suo bisnipote, esatto» ridacchiò Archibald. «Oh, si è trattato di
uno scandalo che è stato accuratamente soffocato. Io stesso non ne
avrei saputo niente se a un certo punto non avessi cominciato a fare i
giochi di prestigio. Tutto è iniziato l’anno scorso con un pomeriggio
in cui mi ero svegliato particolarmente male, all’indomani di una
festa di nozze di cui vi risparmio i particolari. Mi sono diretto in
bagno, ma invece del mio bagno mi sono ritrovato nelle terme delle
cortigiane. Così» fece schioccando le dita, «da un capo all’altro di
Città-cielo. In seguito l’esperienza si è ripetuta, finché mi sono messo
a creare passaggi sempre più spesso. Datemi una porta e uno spazio
chiuso, e io vi concepisco una scorciatoia. È in questo modo che un
giorno sono capitato in un’autentica Rosa dei Venti. Era nascosta in
una piega dello spazio e... è difficile da descrivere... ne ho come
sentito la presenza, capite? Non domandatemi come funziona, ma se
giro una chiave nella serratura di una porta in prossimità di una Rosa
dei Venti, abracadabra, mi ci ritrovo dentro! Qualsiasi chiave di
qualsiasi porta. È un potere decisamente arzigogolato che ho
ereditato dalla vecchia Ildegarda, ma lo adoro».
Mentre cercava di separare gatto e sciarpa Ofelia dovette fare grossi
sforzi di immaginazione per sovrapporre il ricordo che aveva di
Madre Ildegarda all’uomo che le stava di fronte.
«Com’è possibile che prima non vi siate mai reso conto di una cosa
così evidente?» domandò la zia Roseline con il suo consueto
pragmatismo.
Archibald si tamburellò il tatuaggio a forma di lacrima che aveva
tra le sopracciglia.
«È stata la rottura del legame con la Rete a sbloccare l’altro mio
potere familiare. Era dormiente dentro di me e aspettava paziente il
suo momento. E voi, moglie di Thorn? Che avete fatto di bello in
questi ultimi due anni?».
Ofelia aprì e richiuse la bocca. Mentre Archibald aveva imparato a
servirsi di un nuovo potere e Renard era diventato sindacalista, lei
aveva impiegato il suo tempo restando prigioniera di
un’interminabile parentesi. Anzi no, ancora peggio, aveva fatto un
passo indietro indossando di nuovo i panni dell’adolescente solitaria.
Per giunta era pure un po’ ingrassata.
«Oh, ho letto molto» finì per rispondere.
«Bene, la vogliamo smettere con queste baggianate prive di
interesse?» li interruppe Gaela in tono brusco. «C’è una domanda più
urgente a cui dare risposta».
Sollevò la faccia dalla tavola degli itinerari e spostò i capelli scuri
che le disturbavano la vista. I suoi occhi eterocromi, uno nero come
la notte e l’altro azzurro come il cielo di giorno, erano
smisuratamente ingranditi dagli occhiali binoculari. Per quanto
diversi, nel momento in cui fissarono gli occhiali di Ofelia
esprimevano la stessa rabbia fredda.
«Dio esiste?».
LA DESTINAZIONE

All’interno della Rosa dei Venti sembrava che il tempo trattenesse il


respiro. Ofelia, che stava ancora tirando la sciarpa per strapparla dalle
grinfie di Salame, guardò uno dopo l’altro Gaela, Renard, Archibald e
la zia Roseline, che di colpo avevano l’aria di aspettarsi da lei la
risposta a tutte le loro domande esistenziali.
«Prima di procedere oltre» disse Archibald sedendosi
disinvoltamente sulla tavola degli itinerari, «è necessario che sappiate
cosa ci ha riuniti qui. Stiamo indagando sulla morte della vecchia
Ildegarda. Oltre a Thorn, voi siete l’unica persona ancora viva ad aver
assistito ai suoi ultimi istanti. Siete anche l’unica a sapere cosa si
nascondesse realmente dietro il caso delle lettere di Dio in cui era
coinvolta».
La parola “Dio” riecheggiò per tutta la Rosa dei Venti con una
risonanza da antica cattedrale. Evocare il suo nome fece tornare in
mente a Ofelia il barone Melchior e il suo ricatto mortale, Madre
Ildegarda risucchiata dal fondo della propria tasca, i cadaveri
dell’Immaginatoio, le dita del barone mozzate da Thorn.
Sì, sapeva esattamente di che si trattava. Aveva ancora gli incubi.
«Poi c’è stata la crisi di Faruk» continuò Archibald in tono ilare,
come se stesse raccontando un aneddoto divertente. «Tutta la corte è
stata testimone del suo inspiegabile comportamento e del modo in
cui voi lo avete ricondotto alla ragione. Da sola. Con poche parole».
“Il Libro è solo l’inizio della tua storia, Odino. Tocca soltanto a te
scriverne la fine”. Anche di quello Ofelia si ricordava perfettamente,
solo che non erano parole sue, erano parole pronunciate da Dio
molto tempo prima.
«Da allora Faruk non è più stato lo stesso» proseguì Archibald. «È
sempre pigro e con la testa fra le nuvole, d’accordo, ma quando si
tratta della sorte della sua famiglia si mostra quasi... come dire... quasi
interessato».
«Tranne che qui stiamo parlando di Madre Ildegarda» si spazientì
Gaela.
Fece il giro del tavolo e andò a incollare gli occhiali binoculari a
quelli di Ofelia. Quest’ultima notò che Gaela si era cucita sul
colbacco, peraltro in maniera piuttosto rozza, il motivo di un’arancia,
l’emblema di Madre Ildegarda.
«Ascoltami bene, piccola. Madre Ildegarda sapeva di avere il tempo
contato. Sapeva che esiste qualcos’altro, qualcosa di non troppo
bello, qualcosa di più grande degli spiriti di famiglia, qualcosa che ce
l’aveva con tutto ciò». Gaela sollevò il pollice per indicare la Rosa dei
Venti nel suo insieme. «Ha cercato di parlarmi, di prepararmi, ma
non l’ho ascoltata, volevo solo rimanere nascosta nel mio angolo,
avevo una paura matta di finire come il resto del mio clan».
Un silenzio brutale accolse le sue parole, un silenzio popolato dagli
spiriti di tutti i Nichilisti defunti. Ofelia si era chiesta perché Gaela
sembrasse avercela con lei, ma in quel momento capì che la sua
collera era rivolta verso se stessa.
«Hai rotto il mio monocolo, e per questo mi devi delle scuse.
Quanto a me, ti devo un ringraziamento. Senza monocolo non ho
più potuto nascondere agli altri la mia vera natura. È stato il calcio
nel sedere di cui avevo bisogno. Madre Ildegarda è stata una famiglia
per me, ne ho abbastanza di continuare a fare l’ingrata. Quindi ora
voglio che tu mi dica in faccia: Dio esiste? È per causa sua che Madre
è morta?».
«Sì».
La risposta di Ofelia produsse un effetto immediato. Gaela emise
una raffica di improperi, Renard si sollevò gli occhiali sulla fronte,
Archibald si mise a ridere e la zia Roseline si morse le labbra. Solo
Vittoria continuò imperturbabile a disegnare facendo stridere la
matita.
Ofelia si rimise dritti gli occhiali che Gaela aveva spostato. Prima di
sparire, Thorn si era raccomandato che non rivelasse a nessuno
quello che sapeva, ma ormai non aveva più il diritto di continuare a
tacere.
«Vi ricordate la Carovana del Carnevale?».
«Quelli del circo che siamo andati a vedere con vostro fratello?» si
stupì Renard.
«Dio viaggiava con loro facendosi passare per un Mille Facce».
Si schiarì la voce. Il ricordo di ciò che aveva visto quella notte nella
prigione di Thorn le dava sempre la sensazione di aver ingollato
sabbia.
«È molto più che un Mille Facce. Dio può riprodurre l’aspetto, la
voce e il potere familiare di tutte le persone con cui viene in contatto.
È per questo che voleva incontrare Madre Ildegarda, perché bramava
la sua padronanza dello spazio. Ed è per questo che Madre Ildegarda
si era trincerata in un non-luogo protetta da un cordone di sicurezza,
perché sapeva che a causa sua chi avesse cercato di superare quella
linea sarebbe diventato più pericoloso. Ma non è tutto» riprese dopo
essersi schiarita di nuovo la voce. «Dio è il creatore degli spiriti di
famiglia, e in quanto tale si considera progenitore di tutti. Ci impone
la sua legge a nostra insaputa con la complicità di uomini e donne
che lui chiama Tutori. Ah, un ultimo particolare» si premurò di
aggiungere con un sorrisino nervoso. «Gli artigli di Thorn non hanno
avuto alcun effetto su di lui».
Fece una pausa per misurare l’impatto delle sue parole, ma non fu
facile, perché tutti erano impietriti dallo stupore. Lo stesso Archibald,
che andava sfregandosi le mani dall’eccitazione, aveva interrotto il
movimento a metà.
«Già solo parlandovene vi ho messo tutti in pericolo» continuò.
«Ignoro quali siano esattamente i vostri progetti, ma siate molto
prudenti. I Tutori sono gli occhi e le orecchie di Dio su tutte le arche,
ed è impossibile stabilire con certezza chi sia al suo servizio e chi no.
Lo dico a voi perché siete le persone di cui mi fido di più».
La prima a spezzare l’immobilità generale fu la zia Roseline. Mosse
qualche energico passo nella sala per calmarsi un po’ facendo
risuonare fino alla cupola il rumore dei tacchi sul mosaico, poi si
massaggiò la fronte e sospirò.
«È tipico tuo! Quando si tratta di mettersi nei pasticci non conosci
mezze misure».
Ofelia contrasse le mascelle. La madrina non sapeva quanto fosse
nel giusto. Se Dio aveva detto il vero, in quella faccenda c’era
qualcuno di cui avere ancora più paura, c’era l’Altro, l’entità non
identificabile che lei stessa aveva liberato dallo specchio, l’angelo
dell’apocalisse che aveva rotto il mondo e che, sempre secondo Dio,
si accingeva a concludere l’opera.
“Presto o tardi, che tu lo voglia o no, mi condurrai a lui”.
Si era davvero creato un legame tra Ofelia e l’Altro? Il solo ricordo
che ne conservava, un ricordo lontano e confuso, era quello del
proprio riflesso nello specchio della sua camera da bambina, la notte
in cui aveva tentato il suo primo attraversamento. Da allora,
diversamente da quanto annunciato da Dio, nessuna arca era crollata.
Certo, ogni tanto dei blocchi di terra precipitavano nel vuoto, ma
poteva anche trattarsi dell’azione di un’erosione naturale. No, più ci
pensava e meno vedeva il motivo di mettere tutti in agitazione con
una storia nebulosa come quella dell’Altro.
Dal modo in cui teneva la testa piegata, come in attesa di una
risposta, si rese conto che Archibald le aveva fatto una domanda.
«Scusate. Dicevate?».
«Dicevo che è piuttosto strano. Da una parte affermate che Dio ha
creato gli spiriti di famiglia, dall’altra che vuole impossessarsi dei loro
poteri familiari. Sento puzza di imbroglio».
«C’è una quantità di cose che io stessa non capisco» ammise Ofelia.
«Perché, per esempio, c’è stato un tempo in cui Dio ha detto agli
spiriti di famiglia che erano liberi di fare le proprie scelte, se oggi
vuole farne delle marionette? Per un motivo o per l’altro ha cambiato
i suoi piani».
Archibald si limitò ad annuire. Seduto sulla tavola degli itinerari,
con le gambe accavallate e le mani intorno alle ginocchia, sembrava
che stesse parlando del tempo.
«Qual è il volto di Dio quando non assume l’aspetto di un
mortale?».
«Non lo so» rispose Ofelia. «Non so neppure se ne abbia uno. Però
so che non ha riflesso. E anche che tende a confondere le parole»
aggiunse in tono prudente, «ma non so quanto sia affidabile come
segno distintivo».
Archibald balzò giù dal tavolo e scambiò un’occhiata d’intesa con
Gaela e Renard, poi si rivolse di nuovo a Ofelia.
«Volete cercare Terra d’Arco con noi?».
«Terra d’Arco?».
«L’arca natale della vecchia Ildegarda».
«Questo lo so, ma perché Terra d’Arco?».
«Perché se Ildegarda sapeva di Dio c’è da scommettere che anche la
sua famiglia ne sia al corrente. Sapete, gli Arcadiani hanno Rose dei
Venti su ogni arca, da generazioni osservano tutto quel che succede
nel mondo, credo che siano molto ben informati. Il problema è che
hanno smesso di frequentare le Rose dei Venti, ancora non ne
abbiamo incontrato neanche uno». Con gesto eloquente aprì un
cassetto a caso e tirò fuori ogni genere di stampati, documenti,
timbri, passaporti, certificati, come se ormai fossero suoi. «Non
importa, andremo a cercarli a casa loro, se necessario!».
«E aspettavate me per farlo?».
Archibald scosse la testa scompigliandosi i biondi capelli.
«Non abbiamo affatto aspettato voi. In realtà li stiamo cercando da
un po’, ma per il momento procediamo a tentoni, sperimentiamo,
vagabondiamo. È così che a un certo punto abbiamo trovato la strada
per Anima. Ma per le spiegazioni tecniche lascio la parola a qualcun
altro».
Archibald fece una riverenza a Gaela, che lo spinse da parte senza
tanti riguardi e abbatté la mano a piatto sulla tavola degli itinerari.
«Stiamo studiando queste combinazioni da settimane! Tutto un
mucchio di maledette porte che servono venti arche maggiori,
centottanta arche minori, più la caterva di isolotti che galleggiano nel
mezzo. Ma nessuna conduce a Terra d’Arco» inveì fulminando la
tavola con gli occhi. «Ogni volta gli Arcadiani tengono segreto
l’itinerario, ed è impossibile andarci per via aerea».
Ofelia annuì. Terra d’Arco non figurava su nessuna carta geografica.
Si diceva addirittura che l’intera arca fosse nascosta in una piega dello
spazio.
«Deve per forza esserci un accesso» continuò Gaela martellando la
tavola col dito, «ma per trovarlo abbiamo bisogno di tempo e
metodo. Le Rose dei Venti sono concepite come una rete ferroviaria
su larga scala: ci sono linee dirette e centinaia di scambi. Dobbiamo
individuare la diramazione giusta».
«Ma non eravate già andata più volte su Terra d’Arco? Ricordo che
ne avevate riportato delle arance...».
«Quella scorciatoia non c’è più» rispose Archibald al posto di Gaela.
«Posso sbloccare un passaggio bloccato, ma non ricostruire ciò che è
stato distrutto».
Ofelia contemplò a lungo la tavola rotonda e il suo caotico
labirinto di cifre, linee e simboli.
«Perché?» mormorò. «Perché vi date tanto da fare?».
Il sorriso di Archibald si allargò e il bagliore nei suoi occhi si
accentuò. Mai Ofelia l’aveva visto tanto determinato.
«Ma è chiaro! Ildegarda era una vecchia testarda che mi ha
procurato un sacco di noie, ma era sotto la mia protezione. Se Dio è
responsabile della sua morte, Dio dovrà rendermene personalmente
conto».
Gaela sputò per terra in segno di approvazione e Renard, come
abituato, prese subito un fazzoletto per asciugarle la bocca.
«La vecchia arpia non mi era particolarmente simpatica» sospirò,
«ma quel che è importante per la mia padrona è importante per me».
«Ora devo riportare questa signorina dalla madre» dichiarò
Archibald accarezzando i capelli bianchi di Vittoria, che nel
frattempo si era addormentata sul bancone con la matita in mano.
«Siete in una Rosa dei Venti, moglie di Thorn, a voi scegliere una
destinazione! Volete rimanere su Anima con la vostra famiglia,
tornare al Polo con la vostra figlioccia o cercare Terra d’Arco con
noi?».
«Al Polo!» rispose la zia Roseline senza la minima esitazione.
«Torniamo da Berenilde, vero?».
Ofelia si morse un labbro. Le sarebbe stato facile rispondere di sì
alla scelta della zia Roseline o a una delle domande di Archibald.
Avrebbe potuto decidere di rimanere accanto a ciò che le era
familiare, ma questo non avrebbe fatto che scavare ancora di più il
suo vuoto interiore. Allora fu travolta da un insieme di emozioni
come quelle che prendono alla pancia quando si sale su un treno
senza sapere dove è diretto né se si potrà tornare indietro.
Ofelia accarezzò con lo sguardo la tavola di pietra su cui erano
incise la mappa delle Rose dei Venti e le varie arche di destinazione.
ANIMA, l’arca di Artemide, signora degli oggetti.
IL POLO, l’arca di Faruk, signore delle menti.
TOTEM, l’arca di Venere, signora degli animali.
CYCLOPE, l’arca di Urano, signore del magnetismo.
FLORE, l’arca di Belisama, signora del verde.
PLOMBOR, l’arca di Mida, signore della trasmutazione.
PHAROS, l’arca di Horus, signore dell’incanto.
LA SERENISSIMA, l’arca di Fama, signora della divinazione.
HELIOPOLIS, l’arca di Lucifer, signore della folgore.
BABEL, l’arca dei gemelli Helena e Polluce, signori dei sensi.
IL DESERTO, l’arca di Djinn, signore delle acque calde.
IL TARTARO, l’arca di Gaia, signora dei fenomeni tellurici.
ZEFIRO, l’arca di Olimpio, signore dei venti.
TITAN, l’arca di Yin, signora della massa.
CORPOLIS, l’arca di Zeus, signore della metamorfosi.
SIDH, l’arca di Persefone, signora della temperatura.
SELENE, l’arca di Morfeo, signore dell’onirismo.
VESPERAL, l’arca di Viracocha, signore della fantomizzazione.
AL-ONDALUZ, l’arca di Rê, signore dell’empatia.
LA STELLA, arca neutra, sede delle istituzioni interfamiliari.
E naturalmente la destinazione che non figurava sulla tavola: Terra
d’Arco, l’arca di Janus, signore dello spazio.
Ofelia le aveva studiate nella sua angusta cameretta. Ventuno arche
maggiori. Le aveva studiate, sì, ma le sembrava di non aver imparato
niente.
Tirò fuori dalla tasca la cartolina del prozio. La foto aveva un po’
sofferto durante l’episodio delle toilette, ma si vedeva ancora
distintamente il maestoso edificio della XXII Esposizione
interfamiliare.
«Ecco la mia destinazione» disse alla fine tra lo stupore generale.
«Babel. E devo andarci da sola».
LA SEPARAZIONE

Ofelia strinse a sé la sciarpa guardando la porta che aveva di fronte.


Dopo che Archibald, con un ultimo occhiolino, l’aveva chiusa, lo
scintillio luminoso che filtrava dagli interstizi si era spento. Girò il
pomello e spinse prudentemente il battente: la grande rotonda della
Rosa dei Venti era stata sostituita da uno sgabuzzino buio. Il
passaggio era saldamente chiuso.
“Sono sola” pensò sgranando gli occhi nell’oscurità del ripostiglio.
Sola in territorio sconosciuto a migliaia di chilometri da casa con una
cartolina vecchia di sessant’anni come unico punto di riferimento.
Da anni sognava quel momento, e l’idea di trovarcisi le dava le
vertigini.
Chiuse lo sgabuzzino con gesto determinato. Aveva paura, sì, ma
non rimpiangeva niente.
Studiò il luogo in cui la Rosa dei Venti l’aveva depositata. Una luce
pallida filtrava dal vetro opaco di una porta d’ingresso delineando
contorni di pale, rastrelli, vanghe e vasi. Con tutta probabilità, un
capanno da giardino. Ofelia non sapeva a chi appartenesse, ma
avrebbe fatto meglio a non imbattersi nel proprietario. Anche su
Anima, in cui tutto veniva condiviso, non stava bene spuntare a casa
d’altri senza preavviso.
Imboccò la porta d’ingresso con la massima discrezione, ma subito
si bloccò sulla soglia: fuori non c’era niente. Soltanto bianco, un
improbabile e implacabile condensato di bianco. Era come se
un’enorme gomma da cancellare avesse fatto sparire il mondo
esterno lasciando solo il foglio di carta bianca.
Si guardò intorno con preoccupazione crescente. Il capanno non
era attiguo a nessun edificio, stava piantato in mezzo al nulla come
una casetta abbandonata. L’aria era talmente calda e umida che
Ofelia soffocava sotto il cappotto e aveva gli occhiali appannati. E se
Gaela e Renard avessero sbagliato i calcoli? E se Archibald, troppo
fiducioso nel suo nuovo potere, avesse fatto cilecca?
«Dove mi avete portato?» mormorò.
«ORTO BOTANICO DI POLLUCE».
Ofelia si voltò di soprassalto. La voce, una voce disincarnata diversa
da tutto ciò che aveva mai sentito, era sorta alle sue spalle,
dall’interno del capanno.
«Chiedo scusa» balbettò cercando con gli occhi l’interlocutore. «Mi
sono smarrita, non...».
«SI RACCOMANDA AI VISITATORI DI FREQUENTARE I GIARDINI DURANTE LA BASSA
MAREA» la interruppe la voce. «DOPO LA PIOGGIA IL BEL TEMPO».
Ofelia scoprì da dove proveniva. Un manichino articolato era in
piedi contro la parete, così rigido, sottile e immobile da fondersi con
le sagome di pale e rastrelli. Più esattamente la voce gli proveniva
dalla pancia, dotata di forellini, mentre la testa era priva di occhi,
naso e bocca. Come unico abbigliamento indossava una specie di
berretto da capostazione con la scritta “visita guidata” ricamata sopra.
Una sola volta le era capitato di vedere un automa simile a quello:
il maggiordomo meccanico di Lazarus, il celebre esploratore.
«Bassa marea?» fece.
Il manichino non rispose. Ofelia dette un’altra occhiata al candore
dell’esterno e capì che si trattava di una nebbia incredibilmente
densa. Se si trovava nell’orto botanico di Polluce era nel posto giusto.
Helena e Polluce erano gli spiriti di famiglia gemelli che governavano
Babel.
Riformulò la domanda.
«Quando sarà bassa marea?».
«L’ORTO BOTANICO DI POLLUCE È APERTO IN ESTATE TUTTI I GIORNI DALL’ALBA
AL TRAMONTO» rispose il manichino sempre sull’attenti contro il muro.
«TUTTO ARRIVA AL MOMENTO GIUSTO A CHI SA ATTENDERE».
Era ancora estate su Babel? Ofelia pensò che avrebbe dovuto
studiare meglio i suoi manuali di geografia. Prese la cartolina del
prozio e la rivolse verso il manichino senza sapere bene come
mostrargliela, visto che non aveva nulla di somigliante a un paio
d’occhi.
«Lasciamo perdere la marea. Devo andare nel luogo in cui si è
svolta la XXII Esposizione interfamiliare. La foto è un po’ vecchia, ma
credo che l’edificio esista ancora. Sapreste indicarmi...».
«ORTO BOTANICO DI POLLUCE» rispose pronto il manichino.
Ofelia si mise seduta su un vaso di pietra. Quella guida meccanica
le ricordava il maggiordomo di Lazarus che aveva incontrato in
passato: come lui, reagiva solo a istruzioni basiche. Si rassegnò ad
aspettare che la nebbia si alzasse. Le sarebbe almeno piaciuto sapere
che ore erano. Era partita da Anima a fine pomeriggio, ma doveva
esserci qualche differenza di fuso orario con Babel. Il caldo le stava
facendo venire sete.
Incrociò lo sguardo del suo riflesso su uno specchio rotto fissato
direttamente al muro. Per un attimo si osservò gli occhiali colorati, la
lunga treccia piena di nodi, la sciarpa che si dimenava, e l’evidenza la
colpì.
«Sembro troppo me stessa».
Aveva penato per convincere la zia Roseline a non accompagnarla,
spiegandole più e più volte che in due avrebbero attirato troppo
l’attenzione. Ma se nonostante tutto qualcuno l’avesse riconosciuta?
Cominciò a mordicchiarsi le cuciture dei guanti da lettrice. Da un
punto di vista teorico era poco probabile che Dio avesse previsto il
suo arrivo su Babel. Era una pista che Ofelia aveva risalito a partire da
microscopici indizi: le mimose dorate, il soldato senza testa e la
vecchia scuola. Erano state quelle tre visioni provocate dalla lettura
del Libro di Faruk ad averla condotta fin lì.
Tre visioni di cui aveva parlato soltanto a Thorn.
Stando alle ricerche che aveva fatto, e salvo errori da parte sua,
tutto era cominciato su Babel: gli spiriti di famiglia, i Libri, Dio e la
Lacerazione. Misteri che forse avrebbe potuto penetrare seguendo
Archibald nella sua ricerca, ma di sicuro non avrebbe trovato Thorn
su Terra d’Arco. No, se anche lui era arrivato alle stesse conclusioni ed
era riuscito a lasciare il Polo, entrambe cose di cui Ofelia lo riteneva
perfettamente capace, doveva per forza essersi recato su Babel.
Le venne in mente che aveva solo un paio di guanti, così smise
subito di mordicchiarli.
«Resta il fatto che sembro troppo me stessa» ripeté scuotendo gli
occhiali per far andare via la colorazione.
Dio sarebbe venuto a sapere presto che le Decane se l’erano lasciata
scappare e, se aveva Tutori su Babel, cosa più che certa, questi
avrebbero di sicuro ricevuto un avviso di ricerca con precise
segnalazioni. Ofelia avrebbe dovuto giocare d’astuzia per passare
inosservata. Non poteva smettere di essere miope né bassina, ma per
il resto...
Rovistando nel locale trovò dei forbicioni per potare le siepi. Con
gesto deciso si tagliò maldestramente la treccia, che cadde a terra con
un rumore da balla di fieno. Controllò il risultato nello specchio rotto
ed ebbe l’impressione di ritrovarsi con una colonia di punti
interrogativi dritti sulla testa. Liberati dal peso, i capelli le si erano
arricciati in tutte le direzioni. Curiosamente, nonostante se li fosse
fatti crescere fin dall’infanzia, quando buttò quella parte di se stessa
in un sacco per le erbacce non provò emozioni particolari, niente se
non un’improvvisa sensazione di leggerezza, quasi che non si fosse
tagliata i capelli, ma il cordone ombelicale che la legava alla sua
vecchia vita.
Poi nascose il cappotto sotto una pila di grembiuli: se su Babel era
davvero estate non ne avrebbe avuto bisogno. La sciarpa oppose una
feroce resistenza quando Ofelia provò a scioglierla.
«Sei troppo riconoscibile. Non fare la stupida, non ti abbandono
qui. Verrai con me dentro la borsa».
Aprì le fibbie della bisaccia che le aveva dato Renard. Conteneva
biscotti, un sifone d’acqua gassata e varie cose infilate dalla zia
Roseline. Ficcando la sciarpa nella borsa fece cadere i documenti falsi
che Archibald aveva fatto per lei alla Rosa dei Venti: in quel luogo
c’era di che falsificare davvero tutto.
«Mi chiamo Eulalia» mormorò leggendoli. «Sono Animista di
ottavo grado e non ho mai messo piede sulla mia arca d’origine».
Poteva andar bene finché fosse riuscita a non scendere nei dettagli.
Sapeva dal prozio di avere alcuni lontani cugini disseminati su altre
arche.
Si sentì in colpa nei confronti della famiglia. Se n’era andata senza
una parola di spiegazione per nessuno. Si augurò che almeno non
fossero troppo preoccupati.
«Mi chiamo Eulalia» ripeté pensierosa.
Perché Eulalia? Quando Archibald le aveva detto di scegliersi un
nome, Eulalia le era venuto spontaneamente alle labbra, ma più ci
pensava e più le appariva una scelta malaccorta. Il suono era troppo
simile a quello del nome vero.
Cercò di mettersi comoda tra due sacchi di granaglie. “E Thorn?”
pensò abbassando le palpebre. Era riuscito a crearsi una nuova
identità dopo l’evasione? Viveva in condizioni decenti? Mangiava a
sazietà, lui che aveva così poco appetito?
Trasalì quando un raggio di luce la colpì in piena faccia. Si era
addormentata senza accorgersene. Riparandosi gli occhi con la mano
vide tra un dito e l’altro la guida meccanica uscire dal capanno. Il sole
si riversava in pompa magna dalla porta. Ofelia prese la bisaccia e si
avventurò nella luce. Appena messo piede fuori il caldo le mozzò il
respiro. Dissipandosi, la nebbia aveva portato allo scoperto una
giungla di colori, un miscuglio inestricabile di verzura, fontane,
humus, frutti, uccelli e insetti.
Malgrado la spettacolare bellezza dell’orto botanico, Ofelia non se
lo godé a lungo: assalita da odori insoliti proruppe in un attacco di
starnuti che non accennava a smettere mentre seguiva la guida
meccanica in mezzo alle felci. Moriva di caldo anche senza cappotto.
L’aria umida le si incollava alla pelle, il vestito era intriso di sudore.
Com’era lontano il grigiore invernale di Anima!
Attraverso le piante scorse strane sagome di marsupiali che aveva
visto soltanto sui libri. I versi delle scimmie tra le fronde non
somigliavano a niente di conosciuto.
«Dov’è l’uscita?» domandò alla guida meccanica.
«LA VISITA ALL’ORTO BOTANICO DI POLLUCE COMINCIA DALL’ARBORETUM»
rispose il manichino camminando dritto davanti a sé. «SI PREGA DI
RIMANERE IN GRUPPO».
Ofelia decise di mollarlo. Mentre cercava l’uscita incrociò altri
automi che potavano le siepi o grattavano il muschio dal selciato dei
vialetti, fermandosi solo per lubrificarsi le articolazioni. Ogni volta
che domandava loro qualcosa rispondevano «CHI VA PIANO VA SANO E VA
LONTANO» oppure «TUTTE LE STRADE PORTANO A BABEL», frasi che non le
erano di nessun aiuto. Dovevano pur esserci Babeliani che non
fossero automi, no?
Salì una scala di pietra su cui si riversavano fiotti di buganvillea.
Più in alto andava e più si rendeva conto della vastità del parco
distribuito su più piani, ognuno dei quali era una vera e propria
sinfonia di piante, alberi, fiori e frutti. Nei terrazzamenti inferiori
brandelli di nebbia si attaccavano ancora alle palme.
Le sembrava pazzesco pensare che solo il giorno prima si trascinava
in camicia da notte in camera sua. Era rimasta talmente tanto tempo
immobile, uscendo soltanto per andare dal fornaio del quartiere a
comprare i cornetti per la colazione della famiglia, che già si sentiva
tirare i muscoli.
La cosa che la preoccupava di più era l’assenza di mimose. In un
modo o nell’altro il passato di Dio era legato a quell’albero. Ofelia
non ne aveva mai vista una in vita sua, ma da quando aveva avuto la
visione si era documentata. Le mimose si riconoscevano dai grappoli
di fiori dorati e crescevano su pochissime arche. Se il libro di
geografia non aveva raccontato sciocchezze, Babel avrebbe dovuto
essere una di esse.
Alla fine trovò i cancelli dell’orto botanico, maestosi come quelli di
un palazzo orientale. Varcandoli ebbe l’impressione di passare da un
mondo a un altro. Un ponte largo quanto un viale collegava i
giardini a un mercato pubblico dove una folla immensa serpeggiava
come un fiume tra le tende dei mercanti. Elefanti e giraffe
dominavano quello sciame di uomini, donne e automi come se fosse
la più naturale delle coabitazioni.
La festa dei Rintocchi le apparve di colpo molto insipida!
Appena sul ponte, gli effluvi delle spezie le fecero girare la testa. Si
guardò intorno abbagliata da un sole già alto nel cielo. Istintivamente
strinse la mano sulla tracolla della bisaccia: il ponte sul quale stava
camminando scavalcava il vuoto. Aveva letto sui libri che Babel era
suddivisa in varie arche minori, ma non era preparata allo spettacolo
che le si apriva davanti agli occhi. Una moltitudine di isolotti
galleggianti era immersa in un mare di nuvole bianchissime, alcuni
abbastanza grandi da accogliere una città, altri con appena lo spazio
per costruirvi una casa. Su tutti l’architettura si mischiava alla
vegetazione, come se piante e pietre fossero intrecciate le une alle
altre. Le arche minori più vicine erano collegate da una rete di ponti
e acquedotti, le più lontane fruivano di un servizio di macchine
volanti che Ofelia stentava a identificare, ma che somigliavano a
treni con le ali.
Ofelia si immerse nella folla e fu subito assalita dai richiami dei
mercanti. Passò davanti a banchi di stoffe, gioielli, lenticchie, fave,
uova, peperoncini, meloni, cocomeri, manghi, banane e tantissimi
altri prodotti di cui ignorava il nome. Lo stomaco le suggerì che
presto avrebbe dovuto procurarsi qualcosa da mangiare.
«Sapete dov’è questo posto, per piacere?» chiedeva mostrando la
cartolina a tutti quelli che incontrava.
Dato che la sua vocina spariva nel frastuono generale pose la
domanda sempre più forte, ma senza mai ottenere risposta. Si chiese
se la ignorassero apposta. La gente continuava a guardare dritto
davanti a sé senza mai abbassare gli occhi su di lei.
Disorientata, si avvicinò a una fontana in cui alcuni fenicotteri
immergevano i propri trampoli. Bagnò un fazzoletto per rinfrescarsi il
viso e bevve un sorso d’acqua gassata. Seduta sul bordo, con la mano
che accarezzava la sciarpa nella borsa, si concesse una pausa per
osservare attentamente il mercato. I diversi colori di pelle, la varietà
di lineamenti e gli accenti erano quelli di una popolazione
cosmopolita: lì non c’era una sola famiglia, ma molte. Eppure
sembravano formare un unico popolo in cui Ofelia faceva la parte
dell’intrusa.
Decise di non trattenersi oltre sulla piazza. Una pattuglia di uomini
e donne stava fendendo la folla. Indossavano la corazza sopra la
tunica, e gli elmi a punta dotati di paranuca conferivano loro un
aspetto militare. Lanciavano intorno a sé sguardi che, pur non
volendo essere minacciosi, mettevano decisamente a disagio.
Avevano le pupille brillanti come oro, bagliore soprannaturale che
tradiva il loro potere familiare, una vista penetrante a cui non sarebbe
potuta sfuggire una mosca.
Ofelia preferiva non averci a che fare. Tutto ciò che era vicino
all’autorità rischiava di essere vicino a Dio. Attraversò il mercato in
direzione opposta e vide un tram ad aria compressa sul punto di
partire. Il veicolo era tappezzato di annunci pubblicitari raffiguranti
un sole e la scritta LUX a lettere maiuscole. La gente saliva a bordo e
infilava il biglietto nella macchinetta validatrice. Verificò che non ci
fossero controllori in giro e si affrettò a salire a sua volta, ma non
ebbe neanche il tempo di riprendere fiato, perché un passeggero si
alzò e la respinse delicatamente sul marciapiede.
«Niente di personale, miss» si scusò educatamente, «ma non avete
validato il biglietto, non rispettate le regole, sto solo facendo il mio
dovere di cittadino».
«Ascoltate, devo assolutamente andare qui» gli spiegò mostrandogli
la cartolina. «Potete almeno dirmi...».
La porta si chiuse automaticamente mettendo fine alla
conversazione. La sua stizza si mutò in angoscia quando sentì se
stessa partire insieme al tram: la tracolla della bisaccia si era incastrata
nella porta! Tirò la borsa con tutte le sue forze, cadde in avanti e fu
trascinata lungo il marciapiede finché non poté fare altro che mollare
la presa.
«No!» sbuffò vedendo il tram allontanarsi sulle rotaie sballottando
la bisaccia.
La sciarpa era rimasta dentro.
IL TAC-SI

Ofelia aveva corso lungo le rotaie a più non posso. Era madida di
sudore, coperta di graffi, le bruciavano i polmoni e le faceva male la
milza. Dopo un ponte e alcune vie i binari presentavano una
biforcazione. Che direzione aveva preso il tram? Da che parte era
andato? Si guardò intorno alla ricerca di un’indicazione, ma c’era
solo una bolgia assordante di cittadini, omnibus, risciò, biciclette,
animali e automi. Aggiustandosi gli occhiali sul naso le vennero le
vertigini. L’intero quartiere era concepito come una colossale
scalinata di cui ogni gradino era una via piena di gente e vegetazione.
Nonostante l’effervescenza, si sentiva sola come non mai. Come
avrebbe fatto a ritrovare la sciarpa? Come avrebbe rintracciato Thorn?
Come aveva potuto pensare anche solo per un attimo a lanciarsi da
sola in una spedizione del genere? La zia Roseline, Archibald, Gaela e
Renard le avevano raccomandato di aspettare un po’ prima di
precipitarsi, ma lei aveva dato ascolto solo alla propria impazienza.
«Per piacere» chiese a un risciò di passaggio, «sto cercando il tram
che viene dal mercato».
Si era rivolta al guidatore, ma quando quest’ultimo piegò verso di
lei una testa senza volto si accorse che era un manichino. La
passeggera, che stava sonnecchiando sotto la tettoia del veicolo,
rispose al suo posto con voce insonnolita.
«Dovreste fare le vostre domande a una guida, cara ragazza».
«Una guida?».
La passeggera sollevò una palpebra, e il suo naso bombato su cui
brillava un anello aspirò l’aria come se volesse fiutare Ofelia a
distanza.
«Una guida segnaletica pubblica. Ce n’è una a ogni incrocio. E visto
che palesemente non siete di queste parti mi permetto di darvi un
consiglio: vestitevi in maniera decente».
Ofelia guardò il risciò allontanarsi. D’accordo, il suo vestitino grigio
non era proprio freschissimo, ma non stava mica andando in giro
nuda. Vide in mezzo all’incrocio una grande statua-automa le cui
otto braccia puntavano in tutte le direzioni: doveva trattarsi di una
guida segnaletica pubblica.
«Ehm... il deposito dei tram?» gli domandò Ofelia.
Non ottenendo risposta notò, incorporata nella base della statua,
una chiave per la ricarica simile a quelle dei carillon. La liberò dalle
piante che l’avevano ricoperta e la girò più volte.
«FATE UNA DOMANDA» dichiarò la statua.
«Il capolinea del tram del mercato?».
«LA FORTUNA ARRIDE AGLI AUDACI».
«L’ufficio oggetti smarriti?».
«UNA BUONA GIORNATA COMINCIA CON UNA BUONA NOTTE».
«La XXII Esposizione interfamiliare?».
«MEGLIO UN UOVO OGGI CHE UNA GALLINA DOMANI».
«Grazie lo stesso».
Scoraggiata, Ofelia si appoggiò al piedistallo. I suoi averi si
riducevano ormai all’orologio di Thorn e alla vecchia cartolina. Non
aveva più documenti né vestiti di ricambio, e la sua povera sciarpa
era abbandonata a se stessa in quella città incomprensibile.
Si sfregò furiosamente le palpebre. E se qualcuno trovava la borsa?
Se la consegnava alla guardia familiare di Polluce? Se Dio veniva a
sapere che su Babel era stata localizzata una sciarpa animata?
Era appena arrivata e aveva l’impressione di aver già compromesso
tutte le sue possibilità.
«A guardarvi si direbbe che non sia andata proprio come volevate».
Si aggiustò gli occhiali stupita di sentirsi rivolgere la parola da una
voce umana. Un adolescente era seduto di fronte a lei in una
poltroncina di legno scolpito riparata da un ombrellone. Il candore
dei suoi abiti faceva risaltare la pelle abbronzata. Emanava da lui
qualcosa di strano che Ofelia non seppe definire. In realtà sarebbe
stato più al suo posto in una sala da tè che non in mezzo alla
pubblica via. Osservava Ofelia con la massima curiosità senza fare
caso alla circostante fiumana di concittadini.
«Mi riferisco alla guida segnaletica pubblica» spiegò indicando la
statua-automa. «Dovete fornirgli l’indirizzo preciso della vostra
destinazione, altrimenti non può capire. E senza volervi offendere,
miss, credo che il vostro accento sia un po’ troppo marcato per lui».
Il ragazzo si esprimeva con la cadenza tipica di Babel, un misto di
musicalità e distinzione. Tutto in lui era delicato: gli occhi da
antilope, i lunghi e setosi capelli neri, i lineamenti raffinati e perfino
la stoffa satinata dei vestiti.
Ofelia era con tutta probabilità più vecchia di lui, ma in quel
momento di fronte all’adolescente si sentiva una bambina.
«Ho perso la borsa e i documenti» disse con una voce arrochita di
cui non andò fiera. «Non so che fare. È la prima volta che vengo a
Babel».
Lui si voltò a fatica sul sedile e Ofelia fu di nuovo colpita
dall’indefinibile senso di stranezza che emanava.
«Prendete quel viale, percorretelo fino alla fine e attraversate il
ponte» disse indicando verso est. «Da là vedrete un edificio molto
grande che somiglia a un faro: una volta individuato quello non
potete più perdervi».
«E che edificio è?».
Il ragazzo accennò un sorriso.
«Il Memoriale di Babel, dove si è svolta la XXII Esposizione
interfamiliare. Stavate chiedendo questo alla guida, no? Sorry, miss,
non ho potuto fare a meno di ascoltarvi. Mio padre dice che la
curiosità è un “grazioso difetto”, ma io ho sempre la tendenza a
ficcare il naso in affari che non mi riguardano. E anche a parlare
troppo» aggiunse in tono di scusa, «ma questo l’ho preso da lui.
Quanto alla vostra borsa, sono sicuro che la ritroverete presto.
L’onestà è un dovere civico su Babel».
Ofelia fu travolta da un’ondata di gratitudine. Quel giovane le
aveva restituito tutto il suo coraggio.
«Grazie, signore».
«Ambroise. E senza il signore, miss».
«Io mi chiamo O... Eulalia. Grazie, Ambroise».
«Buona fortuna, miss».
Esitò un attimo, come se volesse aggiungere qualcosa, poi ci
ripensò. Ofelia attraversò l’incrocio contromano, e malgrado le
esclamazioni offese di ciclisti e risciò a un certo punto non poté fare a
meno di voltarsi. Aveva la sensazione di aver sfiorato un particolare
importante. Capì cos’era vedendo Ambroise manovrare con difficoltà
la sua poltroncina.
Era su una sedia a rotelle. Che si era incastrata tra le pietre del
selciato.
Ofelia fece immediatamente dietrofront suscitando una nuova
ondata di rimostranze e fece leva con tutto il suo peso sulla sedia per
liberare la ruota. Ambroise, che la credeva già lontana, sollevò su di
lei uno sguardo stupito.
«È ridicolo» disse con un risolino imbarazzato, «ogni volta mi
incastro. Non riuscirò mai a essere un buon tac-si».
«Un tac-si?».
«Un trabiccolo a cui si fischia, miss. Tutto ciò che è in grado di
muoversi e prendere a bordo un passeggero. Non ne avete a casa
vostra?».
Dato che Ofelia si limitava ad annuire evasivamente, Ambroise la
squadrò con un rigurgito di curiosità.
«Io vi ho aiutato. Voi mi avete aiutato. Ora siamo amici».
La dichiarazione fu così spontanea che Ofelia gli strinse di slancio
la mano, e in quell’istante capì in cosa consistesse la stranezza
dell’adolescente: aveva il braccio sinistro al posto del destro e il destro
al posto del sinistro, e a giudicare dalla curva divergente delle sue
babbucce anche le gambe dovevano essere invertite. Era l’handicap
più insolito che avesse mai visto, quasi che anche Ambroise fosse
rimasto vittima di un incidente di specchio.
«Se mi volete come autista, miss Eulalia, salite!».
Girò una manovella fissata alla sedia producendo un prolungato
rumore di ingranaggi. Ofelia si appollaiò goffamente sul predellino
posteriore e quasi cadde quando Ambroise abbassò il freno a mano
proiettando il trabiccolo in avanti. Sentiva sfilare sotto di sé ogni
singola pietra del selciato. Più volte dovette scendere per liberare le
ruote dalle malformazioni della strada mentre Ambroise ne
approfittava per ricaricare le molle a colpi di manovella.
L’ombrellone mal fissato allo schienale strideva rumorosamente
secondo i capricci del vento coprendo la voce di Ambroise, che faceva
conversazione. Fu un viaggio piuttosto scomodo, ma Ofelia smise di
pensarci nell’istante in cui la sedia a rotelle imboccò un ponte fra due
arche e Ambroise puntò la sua mano invertita verso il lontano.
Tra il cielo infinito e il mare di nuvole un’immensa torre a spirale
culminante in una cupola di vetro svettava su un isolotto a stento
abbastanza grande da ospitarlo. Un intero versante dell’edificio
sconfinava sul vuoto, ma l’equilibrio architettonico era talmente
perfetto che l’insieme si teneva in piedi contro tutto e tutti.
«Il Memoriale di Babel» disse Ambroise. «È il nostro monumento
più antico, di cui una metà risale al vecchio mondo. Si dice che vi sia
conservata tutta la memoria dell’umanità».
“La memoria dell’umanità” ripeté dentro di sé Ofelia. Al pensiero
che forse Thorn c’era stato sentì il cuore batterle come un tamburo.
Sporse la testa oltre lo schienale per farsi sentire da Ambroise, di cui
vedeva soltanto il movimento dei capelli neri.
«Solo una metà?».
«Una parte della torre è crollata con la Lacerazione, ma è stata
ricostruita da LUX secoli fa. Mi piace andare al Memoriale, ci sono
migliaia di libri! Vado pazzo per i libri, voi no? Potrei passare le mie
giornate a leggere di qualsiasi argomento. Una volta ho cercato di
scriverne uno, ma come autore sono ancora più scadente che come
tac-si, mi perdo sempre in digressioni. Non crediate che il Memoriale
sia una vecchia biblioteca polverosa, miss Eulalia. È il massimo della
modernità, con tanto di familioteche, transcendium e
fantopneumatici! Il tutto grazie a LUX».
Ofelia non aveva la più pallida idea di cosa fossero le familioteche,
i transcendium e i fantopneumatici, ma la parola LUX le ricordava
qualcosa. Ricordò allora che era il nome stampato sui manifesti
pubblicitari dei tram.
«E un soldato senza testa?» domandò. «Ce n’è uno?».
Ambroise frenò così bruscamente che Ofelia sbatté la fronte contro
la sua nuca.
«Non dovete dire parole del genere in pubblico, miss» mormorò
dandole un’occhiata stupita. «Non so come funziona da voi, ma qui
abbiamo un Index».
«Un Index?».
«L’Index vocabulum prohibitorum, l’elenco di tutte le parole che è
vietato pronunciare ad alta voce. Tutto ciò che ha un rapporto con...
sapete...». Ambroise fece segno a Ofelia di avvicinare la testa per
poterle sussurrare all’orecchio. «...Con la guerra».
Ofelia si irrigidì. E così i tabù fissati da Dio vigevano anche a Babel.
«Suppongo che intendiate la vecchia statua all’entrata del
Memoriale» riprese Ambroise in tono più leggero facendo ripartire il
trabiccolo. «È antica quanto il luogo».
«Come ci si va?».
«In trenuccello, miss». E prima che Ofelia potesse chiedergli cosa
fosse un trenuccello continuò: «Ma se volete visitare il Memoriale o
recuperare la borsa sarà bene che vi cambiate d’abito. Così come siete
non vi lasceranno entrare da nessuna parte».
«Non capisco» disse Ofelia aggrottando le sopracciglia. «Cos’ha di
sconveniente il mio vestito?».
Ambroise scoppiò a ridere.
«Vi porto a casa mia, miss! Sarà bene che vi spieghi un paio di
cose».
Casa di Ambroise non corrispondeva affatto all’idea che si era fatta
Ofelia della casa di un conducente di tac-si. La sedia a rotelle percorse
un porticato tra le cui colonne scintillavano vasche di ninfee. Più si
addentravano nella proprietà e più i rumori e gli odori della strada si
facevano lontani. Un esercito di manichini in livrea andò loro
incontro e aprì le alte porte della dimora. La frescura che regnava
all’interno strappò a Ofelia un sospiro di benessere. Liberata dal
nuovo taglio di capelli, la sua nuca era bollente.
Scese dal predellino e guardò sconcertata l’atrio. Statue e automi,
tavoli di marmo e apparecchi di telefonia, piante rampicanti e
lampade elettriche stavano fianco a fianco in un singolare
assortimento di raffinatezza antica e tecnologia moderna. Il luogo
sintetizzava l’atmosfera anacronistica di tutta la città.
«Vivete qui?».
«Con mio padre. In realtà ci sto soprattutto io. Mio padre è
raramente a casa».
Così dicendo Ambroise le indicò un ritratto a figura intera che
troneggiava sulla parete principale. Raffigurava un uomo con lunghi
capelli bianchi e occhialini rosa dietro i quali guizzava uno sguardo
pieno di malizia. Ofelia lo riconobbe.
«È Lazarus, il famoso arca-trotter! È vostro padre? L’ho conosciuto
una volta».
«Non mi stupisce. Tutti lo conoscono e lui conosce tutti».
Nel sorriso che Ambroise rivolse al quadro c’era più malinconia che
fierezza, notò Ofelia. Non doveva essere facile trovare il proprio posto
in una vita piena come quella di un padre del genere.
«Non avete altri parenti?».
«Né parenti né amici. Almeno, nessuno che non sia un automa».
Ofelia osservò i maggiordomi meccanici che in maniera piuttosto
maldestra stavano smontando l’ombrellone della sedia a rotelle.
Cercò di immaginare cosa volesse dire crescere in mezzo a quei corpi
senza volto dalle cui pance usciva ogni tanto un LA CALMA È LA VIRTÙ DEI
FORTI o un LA FETTA DI PANE CADE SEMPRE DALLA PARTE IMBURRATA.
«Ho detto a mio padre che i proverbi non facevano una gran
riuscita» sospirò Ambroise, «ma è cocciuto come un dromedario».
«È stato lui a inventare gli automi?» si stupì Ofelia. «Sapevo che li
commercializzava, ma non che li avesse ideati».
«Mio padre è un senza-poteri, ma è un genio. Deve il suo status di
cittadino esclusivamente ai propri meriti».
«La vostra famiglia dev’essere molto importante».
Ambroise aggrottò le sopracciglia, come se avesse difficoltà a capire
Ofelia.
«Mio padre è importante, anche se non certo come i Lord di LUX. Io
perché mai dovrei esserlo? Non sono riuscito a trovare un modo di
rendermi utile alla città, sono un mantenuto».
L’aveva detto con un’aria di vergogna da cui si capiva chiaramente
quanto la cosa fosse disonorevole. Lanciò la sedia a rotelle tra le
colonne interne continuando a parlare con brio forzato, senza
riprendere fiato, come se intendesse riempire con la voce i grandi
spazi vuoti della dimora.
«Prima di fare il tac-si ho tentato ogni genere di lavoretti, e ogni
volta ho fallito. Il fatto è che non sono un tipo manuale, anche
battere i tasti di una macchina da scrivere è di una complessità atroce
per me. Penso spesso che se fossi stato un figlio di Polluce avrei avuto
a disposizione almeno un senso ipersviluppato. Se in questo
momento un genietto buono mi chiedesse cosa vorrei essere
risponderei senza dubbio un Visionario! Dev’essere fantastico vedere i
microbi a occhio nudo, non trovate? O un Acustico: è straordinario
quante cose si possono imparare del mondo che ci circonda solo
captando gli ultrasuoni. Non mi sarebbe dispiaciuto neanche essere
un Olfattivo, un Tattile o un Gustativo, invece niente, mi ritrovo con
le mani al contrario. Mio padre dice sempre che la mia sola esistenza
fa di me qualcuno di molto importante per la città, ma è l’unico a
pensarlo».
Mentre seguiva Ambroise, un po’ frastornata dalle sue chiacchiere,
Ofelia capiva sempre meno quella società in cui espellere una
straniera dal tram era ben visto, provvedere ai bisogni del proprio
figlio era mal visto, e il fatto che una ragazza si recasse da sola a casa
di un ragazzo non importava a nessuno. Le sembrava che né il Polo
né Anima né i libri l’avessero davvero preparata a Babel. Le norme
che regolavano quel mondo erano diverse da tutte quelle che aveva
conosciuto in precedenza.
L’impressione divenne certezza quando Ambroise la condusse in un
elegante guardaroba e aprì le ante scolpite degli armadi adattate
all’altezza della sedia a rotelle. Tutti i vestiti, impeccabilmente
piegati, erano bianchi come quello che indossava.
«Dovete capire, miss Eulalia, che qui le persone sono esattamente
ciò che appaiono. Così come abbiamo un codice civile e un codice
penale, abbiamo un codice d’abbigliamento molto rigido. Io e mio
padre, per esempio, dobbiamo per legge vestirci di bianco, che è il
non colore dei senza-poteri. Siete una senza-poteri?».
«Ehm... sono Animista. Di ottavo grado» aggiunse pensando ai
documenti falsi che aveva perso.
«Ottavo grado? Con un potere familiare così diluito potete
indossare anche voi il bianco. Siete piccola, ma neanch’io sono molto
alto. I miei vestiti saranno più o meno della vostra taglia».
«Non darò nell’occhio indossando vestiti da uomo?».
Ambroise, che stava dispiegando una lunga tunica bianca, la
guardò interdetto sorridendo in tralice.
«Scusate, non sono come mio padre che conosce gli usi e costumi
delle altre arche. Qui non facciamo differenza tra i sessi. Devo
dedurne che da voi gli uomini non portino vestiti come i vostri?».
Ofelia fece uno sforzo su se stessa per non immaginare Thorn in
abitino grigio.
«No, infatti».
«Interessante. Ciò detto, miss Eulalia, il problema principale del
vostro vestito è che il modello non figura nel nostro codice
d’abbigliamento, e non rispettare il codice in pubblico è considerata
una provocazione, cosa evidentemente molto mal vista».
Ofelia sollevò le sopracciglia. Non avrebbe mai immaginato che
quell’anticaglia abbottonata dal mento alle caviglie un giorno
l’avrebbe fatta passare per una poco di buono.
«La foggia dei vestiti varia a seconda dell’età, della professione e
dello stato civile» continuò Ambroise rovistando negli armadi. «Per
esempio i cittadini portano colori diversi dai non cittadini».
«I non cittadini» ripeté Ofelia ricordando di aver letto qualcosa a
riguardo su un libro di geografia. «Sono quelli che vivono a Babel ma
non discendono da Polluce?».
«Non è più esattamente così» spiegò Ambroise con un sorriso
indulgente. «I Figli di Polluce sono cittadini d’ufficio, è vero, possono
votare, eleggere ed essere eletti, ma è anche possibile diventare
cittadini per particolari meriti, come mio padre. Questo da quando
Babel ha stretto accordi commerciali con le altre arche. Dovreste
averlo notato per strada, è pieno di famiglie diverse che vivono qui:
ci sono Floriani, Totemisti, Cyclopiani, Alchimisti ed Heliopoliti! E i
senza-poteri» aggiunse in un sussurro. «Noi siamo i “Figliocci di
Helena”. Non avendo mai avuto discendenza, lady Helena è
diventata la madrina ufficiale di tutti quelli che non sono Figli di
Polluce. Sarà anche la vostra finché rimarrete a Babel».
Ofelia sperava proprio di no. L’ultima volta che era stata pupilla di
uno spirito di famiglia per poco non ci aveva rimesso la pelle.
«Per tornare ai vestiti» disse Ambroise rituffando il naso
nell’armadio, «dovete capire che ogni ornamento, ogni gioiello, ogni
accessorio aggiunge strati di significati ben precisi. È un intero
linguaggio a parte! Se intendete trattenervi a Babel vi consiglio di
imparare a padroneggiarlo alla perfezione onde evitare malintesi.
State attenta, la polizia effettua regolari controlli sull’abbigliamento».
Ofelia, abituata a mettersi la prima cosa che le capitava sottomano,
avrebbe dovuto impegnarsi a fondo se voleva fondersi con l’ambiente
di Babel.
«Che succede se uno si veste in modo non conforme a quanto
previsto dal codice?».
«Si paga una multa alla città. Più l’infrazione è grave e più la multa
è salata».
Fece cadere la pila di vestiti che Ambroise le aveva messo sulle
braccia. Era sconfortante constatare che, sebbene non avesse le mani
invertite, rimaneva la più goffa dei due.
«Rimanete qui per la notte» le offrì l’autista di tac-si vedendo dalle
finestre la luce che declinava. «Ci metteremo alla ricerca della vostra
borsa come prima cosa domattina».
«E il Memoriale? Non potremmo andarci oggi?».
«Il tempo di arrivarci e lo troveremmo chiuso. Quel posto ha l’aria
di starvi molto a cuore. Cosa state cercando esattamente?».
«È una faccenda personale».
Vedendo sparire il sorriso dalla faccia di Ambroise rimpianse quella
risposta impulsiva.
«Perdonate l’indiscrezione, miss. E vogliate seguirmi, immagino che
desideriate darvi una rinfrescata e riposarvi. Avete fame? Vi va di
cenare con me?».
Ofelia raccolse i vestiti sparsi a terra e sollevò gli occhiali verso la
sedia a rotelle che con un ronzio meccanico stava già avviandosi alla
porta.
«Ambroise?».
«Miss?».
«Perché mi aiutate?».
Le ruote della sedia si bloccarono di colpo stridendo sul marmo a
scacchi, tuttavia Ambroise non si voltò. Da dove si trovava, Ofelia
vide le sue mani invertite contrarsi sui braccioli.
«Perché non siete un automa».
LA MEMORIA

Ofelia non dormiva. Apriva e chiudeva l’orologio di Thorn senza


guardarlo, solo per sentire lo scatto familiare del coperchio.
Tac tac. Tac tac. Tac tac.
Aveva scostato le lenzuola e, rannicchiata, sgranava gli occhi miopi
sulle chiazze di luce che filtravano dalla zanzariera, incapace di
stabilire dove finissero i lampioni e cominciassero le stelle. La brezza
si infilava dalla finestra diffondendo nella camera il profumo fresco
degli eucalipti. Il frinire dei grilli cullava la notte.
Tac tac. Tac tac. Tac tac.
Ofelia tremava. Il sole le aveva scottato la pelle del viso, eppure si
sentiva gelare. Il vuoto che aveva dentro acquistava quella notte
dimensioni vertiginose, come se dalla sua vita non fosse sparito
soltanto Thorn, ma un intero pezzo di se stessa. Sentiva l’aria
notturna sulla nuca, nello stesso punto prima toccato dai lunghi
capelli ribelli, dalla vecchia sciarpa pigra e talvolta, in rare occasioni,
dalla carezza un po’ rude della zia Roseline.
Tac tac. Tac tac. Tac tac.
E se avesse sbagliato arca? Se non ci fosse alcun rapporto tra la
statua decapitata del Memoriale e il soldato senza testa della visione?
Se l’unica pista che aveva si fosse rivelata un vicolo cieco?
Tac tac. Tac tac. Tac tac.
Era ancora sveglia quando l’alba rese pallido il cielo e riempì di
ronzii la vegetazione, ma la luce del giorno le restituì la
determinazione.
«Voglio recuperare la sciarpa, fare ricerche al Memoriale e trovarmi
un lavoro» dichiarò allo specchio della camera.
Si passò le dita tra i capelli che durante la notte erano raddoppiati
di volume formandole un’aureola selvaggia intorno al viso. Il sole di
Babel le aveva fatto venire le guance scarlatte.
Nonostante l’assistenza di un domestico meccanico indossare i
nuovi vestiti richiese molta perseveranza. Dovette piegare e arrotolare
una lunga toga sopra la tunica in modo da far passare un lembo tra le
gambe e lasciare scoperta una spalla. Una fibula, un corsetto e una
cintura consentivano al tutto di tenersi insieme, ma Ofelia aveva la
sensazione che al primo movimento sbagliato l’equilibrio si sarebbe
rotto e la stoffa le sarebbe caduta ai piedi.
Si sentì più goffa del solito quando raggiunse Ambroise sotto il
porticato dell’ingresso. Abbandonato contro lo schienale della sedia a
rotelle, il ragazzo teneva le palpebre chiuse come per meglio
assaporare l’aria mattutina che saliva dalle vasche di ninfee. Il vento
gli faceva svolazzare il velo del turbante. Il suo profilo abbronzato,
dalle lunghe ciglia, era di una delicatezza tale da far dimenticare la
strana difformità del corpo. Non aprì subito gli occhi quando Ofelia
si avvicinò, ma le sue labbra si incresparono in un sorriso.
«Mi piace sentire i vostri passi in casa, miss Eulalia».
Bastò questo a far vergognare Ofelia per essersi sentita sola accanto
a una persona che lo era molto più di lei, per aver continuato a fargli
domande senza mai rispondere alle sue, per non avergli detto il suo
vero nome e raccontato la sua vera storia. E per non avere
l’intenzione di rimediare.
Ambroise la squadrò nella penombra del portico e annuì con aria di
approvazione.
«Congratulazioni, eccovi diventata un’autentica Babeliana. Ho una
sorpresa per voi. Jasper!».
Un maggiordomo meccanico si staccò dalla fila di manichini
allineati davanti alla porta d’ingresso. Appena vide ciò che gli
pendeva dal braccio Ofelia si precipitò su di lui.
«La mia borsa! Come avete fatto?».
«Ieri sera ho mandato un dispaccio pneumatico alla Compagnia
tranviaria della città segnalando la perdita della vostra borsa» spiegò
Ambroise. «E stamattina presto un corriere l’ha portata qui. Ve
l’avevo detto che da noi l’onestà è un dovere civico. Che succede?».
Ofelia si era bloccata sulla bisaccia spalancata. Gli occhiali le erano
diventati blu.
«Non c’è la sciarpa» mormorò. «Non ve l’hanno riportata? È a tre
colori, piuttosto lunga, un po’ fifona».
Ambroise apparve sconcertato dalla reazione di Ofelia, dalla quale
si aspettava semmai un’esplosione di gioia.
«Well no, non c’era altro. Sono spariti anche i documenti?».
«No, quelli ci sono».
Aveva un tale nodo alla gola che la voce le uscì strozzata. Qualcuno
doveva aver aperto la bisaccia e la sciarpa era scappata. O peggio, era
stata rubata. “Devo andare subito a cercarla” fu il suo primo pensiero.
“Attaccare avvisi ovunque, chiedere alla gente, frugare dappertutto”.
No, non poteva. L’aveva nascosta giustappunto per non attirare
l’attenzione. Per quanto crudele fosse la decisione, doveva attenersi al
programma.
«Mi dispiace» balbettò Ambroise. «A quanto pare era un oggetto
importante per voi».
Ofelia evitò di guardarlo in faccia mentre si metteva la bisaccia a
tracolla. Come poteva fargli capire che la sciarpa era molto più di un
oggetto? Come poteva spiegargli che le aveva dato vita e che in
cambio gliela doveva?
«Grazie» disse con voce sorda. «Mi siete stato di grande aiuto. Ora
devo andare al Memoriale».
Seguì un silenzio imbarazzato, poi Ambroise girò la manovella della
sedia a rotelle.
«Vi ci porto io, miss. Salite».
Il sole si alzava su Babel perforando a grandi sciabolate le ultime
nebbie mattutine e proiettando sul selciato l’ombra dei portici. La
sedia a rotelle passò da piccoli vicoli oscuri a vaste piazze luminose
evitando la giungla dei giardini e la polvere dei cantieri. Appollaiata
sul predellino posteriore Ofelia osservava cupa la folla intorno a loro.
Dov’era la sua sciarpa fra tutte quelle toghe, tuniche, caffetani, scialli,
pantaloni larghi, cinture, babbucce, turbanti e ombrelli?
Le meraviglie che le mostrava Ambroise non riuscivano a dissipare
la sua tristezza: né le grandi cascate della Piramide, né le statue
monumentali di Helena e Polluce, né l’agorà col suo imponente
anfiteatro, né le talentofatture del centro in cui si riunivano ogni
giorno i migliori ingegneri di tutte le arche.
L’attenzione di Ofelia si soffermò soltanto sull’emblema di LUX a
forma di sole inciso sul marmo di ogni edificio e fissato alle colonne
di ogni foro. Ce l’aveva addirittura ricamato a lettere d’oro sul
rovescio della toga che indossava.
«Chi è... LUX?» domandò senza fiato.
Stava spingendo la sedia a rotelle per aiutare Ambroise a salire una
rampa interminabile: compito non facile data la pioggia di aghi di
pino che il vento caldo rovesciava sul selciato facendola scivolare.
«Un’istituzione antichissima, miss. Si tratta di un gruppo di
mecenati che mettono i propri mezzi al servizio di tutte le produzioni
giudicate di pubblica utilità. Veri e propri filantropi!».
Ofelia sfregò contro una pietra la suola del sandalo a cui si era
attaccato un grumo di resina. Filantropi che però lasciavano la
propria firma su tutti i muri della città, pensò.
«Ne deduco che siano piuttosto influenti».
«Oh sì. Presiedono la zecca, il Familisterio e la corte di giustizia. I
Lord di LUX non sono soltanto al servizio della città, miss: loro sono la
città. Gli stessi sir Polluce e lady Helena non prendono alcuna
decisione importante senza consultarli. Sono anche quelli che hanno
istituito l’Index. Ve ne ho parlato, ricordate? Il divieto di citare tutto
ciò che abbia rapporto con... well, con la guerra» concluse con un filo
di voce.
Ofelia non aveva bisogno di saperne di più per capire che i Lord di
LUX erano a Babel ciò che le Decane erano su Anima: Tutori al servizio
di Dio. Se il loro dominio sull’arca era assoluto quanto le spiegazioni
di Ambroise facevano supporre, doveva essere doppiamente vigile per
sfuggire alla loro attenzione.
Immersa in quei pensieri sussultò quando una penna enorme andò
a sbatterle in pieno sugli occhiali. La rampa che avevano salito
sbucava su un’enorme terrazza affacciata sul vuoto: al di là della
massiccia balaustra di pietra il cielo si estendeva all’infinito. Il
prolungamento della terrazza era un ponte ferroviario su cui era
fermo un treno che sembrava avere le nuvole come destinazione. Gli
ultimi viaggiatori stavano salendo in tutta fretta sui vagoni.
«Siamo puntualissimi» sorrise Ambroise guardando l’orologio della
banchina. «Sbrighiamoci a salire anche noi».
Ofelia ebbe qualche esitazione a ubbidirgli. Non riusciva a staccare
gli occhi dai giganteschi volatili appollaiati sul tetto del treno. Un
Totemista, riconoscibile dalla pelle nera come la notte e dai capelli
d’oro, si aggirava tra loro per controllare che fossero ben attaccati al
veicolo.
«Sono Bestie?».
Per risponderle, Ambroise aspettò di essere riuscito a far entrare la
sedia a rotelle nel vagone più vicino.
«Sono chimere» disse infilando le due tessere di viaggio nella
validatrice di bordo. «Hanno la potenza del condor e la docilità del
canarino».
Il capostazione fischiò, e da dentro i vagoni si sentì lo stridio
prodotto dagli artigli dei volatili sul metallo del tetto. Dato che tutti i
sedili erano occupati Ofelia si aggrappò istintivamente alla sedia di
Ambroise.
«Ma un treno non è un po’ pesante per loro?».
«Altroché» fu la poco tranquillizzante risposta di Ambroise. «Infatti
non lo portano mica, lo spingono. I trenuccelli sono posti in assenza
di gravità. Il peggio che possa capitarci, se gli uccelli smettono di
volare, è di ritrovarci sospesi in mezzo al cielo. Ma non succederà»
dichiarò indicando una donna col cranio rasato che circolava tra i
sedili. «A bordo ci sono sempre dei Cyclopiani addetti al controllo dei
campi gravitazionali. Siete più tranquilla, adesso?».
«Insomma...».
Ofelia si appoggiò a un finestrino mentre il treno scivolava sull’aria
con un cigolio metallico. Vide in alto il battito potente di un’ala e in
basso i lenti vortici di nuvole. L’esperienza le ricordò le slitte aeree di
Città-cielo, anche se quelle erano meno impressionanti.
Alla fine, dato che il trenuccello non precipitava nel vuoto, si
rilassò e osservò i viaggiatori che con indifferenza da pendolari erano
molto più interessati ai libri che avevano in mano che non al
paesaggio. Li trovò tutti sorprendentemente giovani e seri, così
concentrati che nessuno parlava con nessuno.
«Studenti» le sussurrò Ambroise. «Questo trenuccello ferma alle
cinque accademie e al conservatorio dei virtuosi prima di arrivare al
Memoriale. Quindi abbiamo un po’ di tempo. Sapete che sono state
tentate numerose esplorazioni del vuoto tra le arche?» disse poi a
bruciapelo. «Pare che nessun essere vivente vi si possa trattenere per
più di qualche ora. Più ci si addentra e peggio è. Neppure gli uccelli si
arrischiano. C’è ossigeno a sufficienza, ma è comunque una
dimensione insopportabile per il fisico. Mio padre ci ha provato con
uno scafandro di sua invenzione. Voleva scattare una fotografia al
nocciolo del mondo, sapete, dove ci sono le tempeste perpetue. Ha
resistito sei ore e trentanove minuti, e mi ha confessato che sono
state le sei ore e trentanove minuti più spaventose della sua vita. Era
come se al disotto ci fosse stata una forza che non voleva saperne di
lui. Non lo trova straordinario, miss Eulalia? L’intero pianeta sembra
volerci ricordare che tutto quel vuoto prima era pieno. Mio padre
dice che è un peccato, perché si viaggerebbe molto più rapidamente
da un’arca all’altra attraversando lo spazio in linea retta invece di
dover rispettare la curvatura del vecchio mondo».
«Oh» fece educatamente Ofelia.
In realtà era troppo presa dall’imminente incontro col soldato
senza testa per ascoltarlo. Affascinato come un bambino, Ambroise
contemplava il cielo attraverso il finestrino stringendo le mani
invertite sui braccioli della sua sedia.
«Tra l’altro, sapevate che le arche non rispettano le leggi
gravitazionali? Tutti i corpi celesti si muovono gli uni rispetto agli
altri in funzione della propria forza d’attrazione. Tutti meno le arche.
Le arche mantengono tra loro una posizione assoluta e girano tutte
insieme esattamente allo stesso ritmo, come se continuassero a
formare un unico corpo celeste. È ciò che gli scienziati chiamano
memoria planetaria».
Ofelia si domandò cosa avrebbero pensato gli scienziati se avessero
saputo che l’esplosione del mondo era dovuta a una creatura
apocalittica rinchiusa in uno specchio.
Ambroise continuò a fare conversazione per due. Smise solo una
volta arrivati a destinazione. Ofelia riparò gli occhiali dal sole quando
dovette piegare la testa all’indietro per abbracciare con lo sguardo la
torre del Memoriale. Aveva un’altezza così schiacciante e una cupola
di vetro così abbagliante che sembrava un faro destinato a illuminare
il mondo. In confronto alla sua mole, la piccola arca su cui poggiava
era di una dimensione ridicola. Sembrava una follia aver ricostruito
sul vuoto la metà della torre crollata in passato. Centinaia di scimmie
spiccavano balzi sulle liane attorcigliate intorno alle pietre scolpite
per poi sparire nelle nuvole circostanti.
Ofelia avanzò sul piazzale fino a essere inghiottita dall’ombra del
Memoriale. Esattamente nello stesso punto della cartolina, proprio
davanti alle grandi vetrate dell’ingresso, c’era la statua decapitata.
«È quella che stavate cercando?».
Non rispose subito. Vedendola da vicino, l’evidenza le saltava agli
occhi. Non somigliava affatto al soldato senza testa della visione.
Non somigliava a un soldato e basta. Sembrava a stento un essere
umano, era ormai una sagoma informe mangiata dall’erosione e
sepolta dalle liane. Dalla vegetazione spuntava la punta in ferro
battuto dello stivale, più lucida e chiara del resto del corpo.
«È un monumento pubblico, vero?».
«Sì, miss».
Ambroise sembrò stupito dalla domanda di Ofelia, e lo fu ancora di
più quando lei gli dette la bisaccia e si tolse i guanti. Dopo aver
controllato che non ci fosse nessun altro nei paraggi si sfregò i palmi
uno contro l’altro per asciugare l’umidità. Mentre si avvicinava alla
statua un brivido febbrile le percorse la spina dorsale, come ogni
volta che si accingeva a risalire il tempo. Respirò profondamente, e
respiro dopo respiro dimenticò poco a poco se stessa, dimenticò
l’apprensione, il caldo, perfino il motivo della sua presenza lì, e
quando si sentì svuotata posò le mani sullo stivale della statua.
L’ombra del Memoriale defluì come una marea, il sole fece marcia
indietro nel cielo. Il giorno lasciò il posto alla notte, l’oggi divenne
ieri e il tempo esplose sotto le dita di Ofelia. Non erano più le sue
dita, erano centinaia, migliaia di altre dita che giorno dopo giorno,
anno dopo anno e secolo dopo secolo avevano accarezzato lo stivale.
Per invocare la fortuna.
Per ottenere il successo.
Per guarire.
Per ridere.
Per crescere.
Per sopravvivere.
E a un certo punto, mentre Ofelia si dissolveva in quella folla di
mani anonime, ritrovò le proprie mani. O meglio, mani che erano le
sue senza essere le sue. E fu attraverso occhi che erano i suoi senza
essere i suoi che osservò la statua. Il soldato di lucido metallo
brandiva fiero il fucile sotto le mimose in fiore, senza la testa portata
via dalla bomba che aveva distrutto l’atrio della scuola alle sue spalle.
“Ci sarà una volta, fra non molto tempo, un mondo che vivrà
finalmente in pace”.
«Miss?» si preoccupò Ambroise avvicinandosi con la sedia a rotelle.
Ofelia si guardò le mani scosse da tremiti, stavolta davvero le sue.
L’aveva fatto di nuovo. Aveva penetrato il passato di Dio come se
fosse stato il proprio. Sollevò lo sguardo sulla torre del Memoriale che
sorgeva al posto della scuola distrutta dalla guerra. Le mimose erano
ancora lì, su entrambi i lati del viale centrale. Non le aveva
riconosciute semplicemente perché non era ancora la stagione della
fioritura.
Il soldato senza testa. Le mimose dorate. La vecchia scuola.
«È qui» mormorò.
Lì avrebbe seguito le orme di Dio. Lì avrebbe seguito le orme di
Thorn.
I VIRTUOSI

Ofelia era abituata a non essere alta, ma quando entrò nel


Memoriale si sentì più minuscola che mai. L’interno della torre era
un atrio monumentale intorno al quale i piani si avvolgevano come
anelli paralleli. Il sole attraversava gli innumerevoli vetri della cupola
facendo luccicare le rilegature dei libri, gli occhiali dei lettori e il
metallo degli automi. Il silenzio era talmente assoluto che una pagina
voltata faceva l’effetto di un tuono. Le vennero le vertigini quando si
accorse che non c’erano scale né ascensori: i visitatori accedevano ai
piani superiori tramite grandi corridoi verticali. C’erano sale di
consultazione fin sui soffitti. Vedere tutta quella gente e quelle
collezioni sottosopra era ancora più pazzesco che viaggiare servendosi
delle toilette.
Per un attimo sentì se stessa vibrare all’unisono con le migliaia di
oggetti antichi che la circondavano, poi la realtà la riportò coi piedi
per terra. Da dove cominciare le ricerche?
«Avete un lato preferito, miss?» domandò Ambroise il più sottovoce
possibile.
«Lato?».
«Metà del Memoriale è dedicata al patrimonio culturale di Babel e
metà al patrimonio culturale delle altre arche. Da noi tutti gli edifici
pubblici sono gemelli».
Ambroise indicò la canalina di rame che tracciava una linea
divisoria lungo il diametro della torre. La riga sottolineava la
differenza temporale tra la parte originaria dell’edificio, tutta in
pietra, e quella che era stata ricostruita dopo il crollo seguito alla
Lacerazione.
«Mi interessa il passato di Babel» disse Ofelia voltandosi verso la
metà antica.
Mentre si dirigevano verso uno dei corridoi verticali Ofelia alzò gli
occhi verso una statua-automa che, imbullonata al piedistallo, non
faceva che piegare e raddrizzare il busto per accogliere i visitatori.
Un’iscrizione lo ricordava come il primo mecenate di LUX che aveva
contribuito a finanziare il Memoriale. Che la conoscenza sia al servizio
della pace sentenziava la targa commemorativa.
Alzando ancora di più lo sguardo vide un gigantesco globo del
vecchio mondo galleggiare in assenza di gravità sotto la cupola di
vetro. Un mondo intatto. Un mondo dimenticato. Un mondo al
quale Ofelia era fermamente intenzionata a strappare i suoi segreti.
Si irrigidì quando vide la sedia a rotelle di Ambroise avviarsi su una
rampa curva che consentiva di passare con scioltezza
dall’orizzontalità dell’atrio alla verticalità del corridoio a muro. Pochi
secondi dopo avanzava sulla parete come se fosse la cosa più naturale
del mondo, senza neanche perdere il turbante per strada.
«Miss?» sussurrò quando si accorse che Ofelia non lo stava
seguendo.
«È che... non l’ho mai fatto».
«Non avete mai preso un transcendium? È semplicissimo.
Camminate dritta davanti a voi senza farvi domande».
Ofelia si aspettava di sentire le proteste del suo stomaco nonché del
suo centro di gravità, invece non ebbe mai la sensazione di sottrarsi
alla forza d’attrazione terrestre. Salire e scendere un transcendium era
facile quanto percorrere un normale corridoio. Ebbe tuttavia una
strana sensazione quando, dopo qualche passo, lo sguardo le cadde
sull’atrio rimasto in basso. Era come se l’intera torre avesse ruotato su
se stessa.
«I transcendium e le suspensale sono opera di Cyclopiani assunti
per il Memoriale» disse Ambroise dalla sedia che avanzava sul marmo
con un ticchettio di ingranaggi. «Così vanno le cose su Babel: appena
un’invenzione straniera ci piace la adottiamo e adattiamo alle nostre
esigenze».
Ofelia sussultò. Da qualche parte tra le pieghe della toga l’orologio
di Thorn si era aperto e chiuso da solo con un tac-tac esclamativo. Si
chiese se a forza di maneggiarlo non l’avesse animato.
Distratta, urtò uno spazzino che stava in mezzo al transcendium.
Era così alto, magro e barbuto che somigliava alla sua scopa.
«Ogni volta che lo vedo mi sento male» confessò Ambroise.
«Lo spazzino? E perché?» si stupì Ofelia controllando che l’orologio
si fosse calmato.
«Mio padre ha sempre combattuto contro l’asservimento dell’uomo
all’uomo. I memorialisti dovrebbero mettere un automa al posto di
quel vecchio, così come hanno fatto per il resto del personale addetto
alla manutenzione».
Ofelia si rese conto che, in effetti, ovunque volgesse gli occhiali
c’erano manichini di Lazarus, discreti e onnipresenti, che lucidavano
le vetrine e spolveravano i libri.
Uscire dal transcendium fu facile quanto entrarci: bastava seguire la
curva del pavimento che si immetteva nel piano. Ambroise la guidò
attraverso il labirinto di libri e collezioni. I visitatori intorno a loro
stavano nel più perfetto silenzio, ognuno concentratissimo nelle
proprie ricerche.
Ofelia li invidiava. Da parte sua non aveva la minima idea di quello
che stava cercando.
Aveva sperato che la misteriosa memoria che condivideva con Dio
da quando aveva letto il Libro di Faruk si sarebbe sbloccata da sé
entrando nel Memoriale. Invece no. A parte le antiche pietre,
l’edificio non doveva avere conservato granché della scuola in cui un
tempo avevano vissuto gli spiriti di famiglia. Ormai era come una
conchiglia in cui la forma di vita che l’aveva abitata fosse da un pezzo
stata sostituita da un’altra.
Tra una corsia e l’altra Ofelia si fermò di fronte a un avviso.

La Buona Famiglia cerca virtuosi.
Sei memorialista nell’anima?
Hai talento per scovare informazioni?
La storia e il futuro ti appassionano?
Diventa PRECORRITORE al servizio della città!

«È per i gruppi di lettura di sir Henry» bisbigliò Ambroise.
«Reclutano tutto l’anno».
Sollevò la mano sinistra (che si trovava a destra) e Ofelia puntò gli
occhiali verso il soffitto del piano superiore. Decine di studenti in
divisa erano seduti a testa in giù all’interno di box di lettura, intenti a
prendere appunti.
«Sono virtuosi?».
«Aspiranti virtuosi» la corresse Ambroise. «Ne esistono varie
corporazioni. Quelli sono precorritori, specialisti dell’informazione. È
più di un anno che li vedo lavorare lassù al nuovo catalogo del
Memoriale. Passano ore e ore a leggere. Non so a che punto siano, ma
spero che finiscano presto, perché per il momento non si possono
prendere libri in prestito, solo consultarli sul posto».
«Shhh!».
Uno studente aveva smesso di leggere per guardare in basso, o in
alto secondo i punti di vista, verso Ofelia e Ambroise. Aggrottò le
sopracciglia appena vide che indossavano toghe bianche.
«Non avete niente da fare qui, impotenti».
«Il Memoriale è aperto a tutti» rispose Ambroise con calma. «Siamo
Figliocci di Helena».
«Un impotente non dovrebbe avere nemmeno il diritto di
pronunciare il nome di lady Helena» replicò lo studente.
Ofelia aveva già notato che i Babeliani aspiravano molto l’acca, ma
quello aveva detto “Helena” come se volesse riempirsi di quel nome,
come se gli appartenesse personalmente.
Ambroise girò la manovella della sedia a rotelle e si allontanò con
un ronzio meccanico riprendendo la visita guidata come se non fosse
successo niente di importante. Più che ascoltarlo, Ofelia lo guardò.
Era dunque una cosa così consueta per lui farsi dare dell’impotente in
pubblico? Il padre era l’inventore di tutti gli automi dei dintorni:
avrebbe potuto servirsi del suo nome per mettere a tacere lo studente.
«Siete una bella persona».
Ambroise fu talmente colto di sorpresa dalla spontaneità di Ofelia
che per poco non perse il controllo del suo trabiccolo.
«Diciamo che detesto i conflitti» balbettò con un sorriso
imbarazzato. «Mi rendo conto che vi sto ancora imponendo la mia
presenza, miss. Visitate il Memoriale come meglio vi aggrada. Io vado
all’ultimo piano a vedere i brevetti delle invenzioni, hanno sempre
avuto il dono di farmi sognare. Ci vediamo nell’atrio a
mezzogiorno?».
«D’accordo».
Trovandosi a camminare da sola tra scaffali e vetrine Ofelia si rese
conto di quanto fosse nervosa. Non faceva altro che infilare la mano
nella toga per stringere l’orologio di Thorn. Appena incrociava un
uomo un po’ più alto del normale non poteva fare a meno di voltarsi
col cuore che le batteva all’impazzata. Era assurdo. Anche ammesso
che Thorn fosse andato al Memoriale a fare ricerche era improbabile
che fosse lì in quello stesso istante.
E forse era meglio così, pensò adocchiando le guardie per la terza
volta. Il Memoriale era sottoposto a stretta sorveglianza, non era certo
il luogo ideale per un incontro tra due persone in fuga.
Vagabondò a lungo di sala in sala senza una meta precisa. Esaminò
da vicino le collezioni di pittura, scultura, ceramica e oreficeria, ma
sembrava che nessuna fosse appartenuta alla vecchia scuola. Non
c’erano neppure archivi militari, come se perfino lì, nel luogo in cui
si supponeva fosse conservata la memoria dell’umanità, non
rimanesse niente delle guerre di un tempo.
“Sto ragionando in maniera ottusa” si rimproverò. Se un tempo
quel posto era stato una scuola, solo al reparto infanzia avrebbe avuto
la possibilità di trovare qualcosa. Consultò la mappa del Memoriale,
poi prese due transcendium. Era ogni volta un’esperienza bizzarra
camminare un po’ dritta e un po’ di traverso.
Raggiunta la galleria dell’infanzia lesse le targhette sugli scaffali:
“alfabeti e abbecedari”, “dotti princìpi”, “educazione civica”,
“allegorie del tempo andato” eccetera. Incontrò una classe di scolari
incredibilmente calmi per la loro età. Quanto a lei, non era affatto
calma. Più percorreva le corsie e più sentiva salirle l’angoscia. E se,
semplicemente, non ci fosse stato niente da trovare? Se Dio avesse
avuto cura di non lasciare la minima traccia del suo passato lì? Se
Thorn fosse arrivato allo stesso vicolo cieco e avesse lasciato Babel da
un pezzo? Sempre che ci avesse messo piede...
Mentre i dubbi le facevano girare la testa andò a sbattere in pieno
contro un carrello. I libri impilati dentro caddero a terra in un diluvio
di carta e, per aggiungere confusione alla confusione, le cadde anche
la borsa riversando il suo contenuto sul pavimento.
L’uomo che stava spingendo il carrello non si arrabbiò, si limitò a
sospirare e cominciò a raccogliere i volumi con gesto fatalista.
«Mi dispiace» mormorò Ofelia, impacciata dalla toga,
inginocchiandosi accanto a lui.
«Non è il caso, miss. È tutta colpa mia».
L’uomo, che aveva parlato con voce rassegnata, teneva la schiena
curva come se portasse sulle spalle il peso dei peccati del mondo.
Sulla divisa era spillata la targhetta “commesso”. Ofelia recuperò i
propri effetti personali, talmente mischiati ai libri per bambini che
trovò la falsa carta d’identità tra le pagine di uno di essi.
«E certo! Ancora voi!».
Una donna si era avvicinata con discrezione felina. La targhetta
indicava che era impiegata al Memoriale in quanto “mastro censore”.
Le sue orecchie, affusolate e triangolari come quelle di un gatto,
erano dritte dallo sdegno. Un’Acustica.
«Gettare libri per terra, libri che vi avevo affidato! È un’offesa sia
per il mio udito che per il mio lavoro».
La memorialista si esprimeva in tono bassissimo, come se non
sopportasse il suono della propria voce.
«Chiedo perdono, miss Silence» rispose il commesso continuando a
sistemare i libri nel carrello.
Ofelia voleva intervenire, spiegare che era colpa sua, ma la
memorialista la anticipò.
«Siete e resterete per sempre un subalterno. Non avete la minima
ambizione. Ma io sì, quindi di grazia cercate di non infangarmi con la
vostra incompetenza. Portate il carrello nel mio ufficio senza far
cadere niente».
«Sì, miss Silence».
Il commesso caricò gli ultimi libri e si avviò lungo il corridoio con
la testa talmente incassata nelle spalle che sembrava sul punto di
sparirgli dentro il corpo.
Poi le orecchie della memorialista si rivolsero verso Ofelia
precedendo di poco il movimento degli occhi.
«Quanto a voi, aprite la borsa».
Ofelia strinse la tracolla. Quella donna le ispirava una tale antipatia
che per prudenza fece un passo indietro: non era proprio il momento
che le si manifestassero gli artigli.
«Perché?».
«Perché ve lo ordino».
«Nella mia borsa non c’è niente che vi riguardi».
La memorialista fece un’espressione sospettosa e un po’ nauseata, e
Ofelia si rese conto in quel momento delle condizioni della bisaccia.
A forza di trascinarsela dietro e perderla aveva trasformato quel
rispettabile bagaglio in uno straccio ripugnante.
«Questo, giovane senza-poteri, sarò io a stabilirlo. Da quando non
prestiamo più i libri è una sfilata continua di ladruncoli. Aprite la
borsa».
Ofelia sentì una goccia di sudore scenderle lungo il collo. Ubbidire
avrebbe significato tirare fuori i documenti falsi, ed era l’ultima cosa
che aveva voglia di mostrare a una documentalista di professione, per
giunta sospettosa.
«O preferite che chiami la sicurezza?».
La memorialista aveva sussurrato la domanda tirando la catenella
della divisa, all’estremità della quale era attaccato un fischietto.
Mentre Ofelia si chiedeva come uscire da quella situazione risuonò lo
scoppio di un petardo. La donna lasciò il fischietto e si tappò le
orecchie. Appena si fu spento l’eco della deflagrazione si udì per tutti
i corridoi una voce tonante amplificata da un megafono.
«Svegliatevi, cittadini! Il Memoriale è solo un grosso inganno! Ci
hanno rubato il passato! Ci hanno rubato la nostra lingua! Abbasso
l’Index! Morte ai censori!».
«Ancora lui» sibilò la memorialista con aria cupa.
Ofelia approfittò della sua distrazione per tagliare la corda. I lettori
avevano sollevato gli occhi dai libri con espressione scioccata mentre
la voce continuava a scandire nel megafono: «Morte ai censori! Morte
ai censori!». Poi subentrò un silenzio brutale, segno che l’agitatore era
stato arrestato oppure era scappato.
Ofelia raggiunse senza fiato l’atrio in cui già la aspettava Ambroise,
che dal canto suo, disinvoltamente seduto sulla sedia a rotelle con un
sorrisino all’angolo della bocca, non sembrava affatto colpito
dall’incidente.
«È il Senza Paura E Quasi Senza Rimprovero» le spiegò. «Deve
sempre venire a perturbare la tranquillità dei luoghi. Abbaia molto,
ma non morde. Non vi sarete spaventata, mi auguro».
Ofelia si limitò a scuotere la testa. Se in quel momento avesse
parlato, la voce avrebbe tradito il suo sgomento. Quella visita al
Memoriale si stava rivelando disastrosa. La bisaccia le pesava come se
a tracolla portasse il proprio umore.
Ambroise la osservò con i suoi dolci occhi da antilope.
«Sapete, miss, il Memoriale non è un posto che si visita in mezza
giornata. Io ci vengo regolarmente da anni e c’è ancora un mucchio
di cose che non conosco».
Sollevò gli occhi con aria eloquente. Ofelia ne seguì lo sguardo. Il
gigantesco globo terrestre che gravitava sopra di loro li immergeva
interamente nell’ombra.
«Il globo non è semplicemente decorativo» continuò Ambroise con
un mormorio sognante. «È il Secretarium. Ci sono tutte le collezioni
non accessibili al pubblico, le più rare e le più antiche. Si dice che ci
sia una camera blindata, e che dentro la camera blindata si trovi la
“verità finale”. Certo, è una leggenda per far fantasticare i
marmocchi, ma credo che la camera blindata esista davvero».
Il cuore di Ofelia, che fino a un attimo prima le pesava nel petto, si
mise a tambureggiare come un pazzo.
«La verità finale?» ripeté.
Ambroise scrutò sbalordito gli occhiali che si erano colorati
dall’emozione.
«Ve l’ho detto, è solo una leggenda che si racconta ai bambini, non
bisogna prenderla sul serio».
Ma Ofelia la prendeva molto sul serio.
«Come si entra nel Secretarium?».
«È impossibile, miss» rispose Ambroise sempre più sconcertato.
«Non è aperto al pubblico. Solo i precorritori vi possono accedere, e
solo i più virtuosi fra loro».
Ofelia contemplò il globo che in quel momento si sovrapponeva
con tale precisione al sole di mezzogiorno da creare un effetto eclissi.
Non era collegato a nessun piano del Memoriale, non si vedevano
passerelle e niente lasciava supporre che al suo interno vi fossero sale
segrete. Le vennero in mente gli studenti nei box di lettura e l’avviso
di reclutamento.
«In questo caso diventerò una virtuosa» dichiarò lasciando
Ambroise di stucco.
LA CANDIDATURA

Il trenuccello decollò. Ofelia dette un’ultima occhiata alla statua


del soldato senza testa che faceva la guardia al Memoriale in mezzo
alle mimose e gli fece una promessa: la prossima volta che sarebbe
venuta a trovarlo sarebbe stata pronta.
«I virtuosi sono una vera e propria élite» le spiegò Ambroise
salendo a bordo con lei. «La Buona Famiglia è il conservatorio in cui
tutti a Babel sognano di essere ammessi. Credetemi, miss, prendono
solo candidati che dispongano di un talento unico, sono
estremamente selettivi».
«Reclutano precorritori durante tutto l’anno, no?».
«I precorritori sono i più grandi specialisti dell’informazione, e
voi... well, non siete certo la persona più informata che conosca».
Ofelia lo ascoltava distrattamente. Tutta la sua attenzione era
calamitata dall’arca doppia inghiottita parzialmente dai filamenti di
nuvole dall’altra parte del finestrino. La Buona Famiglia era un
conservatorio così vasto che occupava due isole galleggianti collegate
da un ponte. Quando il trenuccello accostò al marciapiede di sbarco
controllò di avere con sé i documenti falsi.
«Vi affido la mia borsa» disse ad Ambroise. «Al Memoriale mi ha
fatto passare per una stracciona, non vorrei ripetere l’esperienza».
«Contate su di me, miss».
Ofelia esitò. Avrebbe voluto prendere le mani inverse del ragazzo
nelle sue, dirgli quanto gli era grata della gentilezza che le aveva
manifestato fin dal primo istante, ma non ci riuscì. Le succedeva
sempre così, ogni minima emozione la bloccava.
«Voi... siete un ottimo guidatore di tac-si».
La dichiarazione gli strappò un sorriso, breve lampo di luce bianca
sulla pelle abbronzata.
«E voi una cliente inaspettata. Buona fortuna, miss. Io e la borsa vi
aspetteremo a casa di mio padre».
Ofelia sbarcò e fece un ultimo saluto ad Ambroise che le rivolgeva
gesti d’incoraggiamento dal finestrino mentre i potenti battiti d’ali
delle chimere lo portavano lontano.
L’ingresso della Buona Famiglia era situato all’estremità opposta
della banchina che faceva da tramite fra cielo e terra, e aveva sui lati
due statue così colossali che Ofelia dovette proteggersi gli occhi dal
sole accecante quando alzò lo sguardo per vederne le facce. Un uomo
e una donna, presumibilmente Helena e Polluce.
Risalì l’interminabile strada lastricata che conduceva dritta
all’edificio principale. La facciata di pietra scolpita, gli archi rampanti
e la vetrata del rosone lo facevano somigliare a una cattedrale del
vecchio mondo. Tutto in quel luogo era maestosamente regale: la
cupola bianca dell’osservatorio, le ampie scalinate di marmo, gli
edifici grandi come templi antichi, perfino la mole degli alberi
centenari che immergevano il viale nell’ombra. Un esercito di automi
si dava da fare a pulire i vetri e curare il giardino. Il conservatorio era
una vera e propria città a parte. Gli studenti che al passaggio di Ofelia
sollevavano un sopracciglio indossavano tutti eleganti uniformi blu
notte con ricami in argento.
Ambroise aveva ragione, quel luogo non era alla portata del primo
venuto.
Salendo gli scalini dell’edificio principale lesse il motto sul
frontone:
PRESTIGIO ED ECCELLENZA
Ebbe appena il tempo di posare il piede sul marmo dell’atrio che un
uomo le fece educatamente segno di tornare indietro.
«Perdonate, giovine dama, ma non potete entrare».
«Sono venuta per le candidature».
L’uomo sembrò sbalordito. Dette un’occhiata circospetta alla toga
bianca e alla pelle arrossata di Ofelia, la riaccompagnò alla soglia e le
indicò, all’altro capo della proprietà, l’immenso ponte che scavalcava
il vuoto.
«Avete sbagliato arca, giovine dama. Questa è per i virtuosi di
Polluce, dovete andare dal lato dei virtuosi di Helena».
Ofelia se la cavò con un’altra camminata. I sandali le facevano
male ai piedi e il sole le arrostiva di nuovo la nuca. Nessuna illusione
esotica della corte del Polo le aveva mai fatto venire tanto caldo.
Attraversò il ponte, lungo e largo come un viale, e raggiunse l’arca
gemella. Sembrava che i costruttori avessero duplicato lì gli stessi
edifici dell’altra parte spogliandoli però di ogni caratteristica
grandiosa. Il marmo aveva lasciato il posto alla pietra grezza, le
vetrate al vetro smerigliato, e non c’erano fregi ad abbellire l’insieme.
Non c’erano neanche automi.
Se quei luoghi riflettevano gli spiriti di famiglia di Babel, Polluce
doveva essere il re degli esteti ed Helena la regina degli asceti.
Anche il clima era meno luminoso, e Ofelia si ritrovò ben presto
inghiottita da una marea ascendente di nuvole sorta dal nulla.
Disturbata dal vapore caldo che le si appiccicava agli occhiali ebbe
qualche difficoltà a trovare la scala degli uffici amministrativi.
Sul frontone, il motto dei virtuosi di Helena era diverso da quello
dei virtuosi di Polluce.
FAR SAPERE E SAPER FARE
Stavolta non fu rispedita indietro. Un’addetta all’accoglienza
esaminò i suoi documenti senza dire una parola, poi la condusse in
una sala di studio dove altri due candidati, un uomo e una ragazza,
erano entrambi chini su un leggìo.
L’impiegata dette a Ofelia il necessario per scrivere.
«Ricopiate le varie definizioni della parola “definizione”. Trovate
un sinonimo per ciascuna di esse e ricopiatene la definizione. È un
semplice esercizio per verificare la vostra conoscenza dell’alfabeto».
Ofelia guardò il vocabolario che le venne consegnato. Avrebbe
preferito un bicchiere d’acqua fresca.
Appena l’impiegata chiuse la porta della sala di studio l’uomo
avvicinò il proprio leggìo a quello della ragazza.
«Allora, mi stavi dicendo?».
«Mi ha obbligato mia madre a venire qui» sibilò la giovane
sfogliando rabbiosamente il suo dizionario. «Io non ho chiesto
niente, non chiedo mai niente, sono sempre quella che fa docilmente
ciò che ci si aspetta da lei. E... e...».
«E?» la spronò l’uomo.
«E mia madre è diventata cittadina grazie ai propri meriti, e ora
vorrebbe che seguissi le sue orme. Anzi, che facessi meglio di lei.
Continua a ripetermi che devo diventare virtuosa, e
contemporaneamente mi dà dell’incapace. E... e...».
«E?».
Sbalordita, Ofelia sollevò gli occhi dal vocabolario. L’uomo
continuava ad avvicinare il proprio leggìo a quello della giovane
vicina. La divorava con lo sguardo, pendeva dalle sue labbra, come se
niente al mondo fosse più appassionante di ciò che doveva dirgli.
«E pare che ti rendano la vita dura, qui» riprese l’adolescente, «che
si debba studiare giorno e notte e non è mai abbastanza, che più ti
applichi e più ti umiliano. Ne ho abbastanza di essere umiliata. No»
concluse con voce mutata, come colpita da una rivelazione. «Ne ho
abbastanza di mia madre. Non ho niente da fare qua».
Su quelle parole la ragazza appallottolò il foglio di carta e uscì dalla
sala di studio sbattendo la porta. L’uomo riportò il leggìo al suo posto
con aria vittoriosa e, sentendo su di sé lo sguardo stupefatto di Ofelia,
le lanciò un bacio con la punta delle dita.
«Non giudicarmi con troppa severità, miss. La nostra prova
comincia da adesso, no? È la dura legge della concorrenza».
«L’avete influenzata» realizzò Ofelia sollevando le sopracciglia.
«Sono un Pharaon, il mio potere familiare è incantare. Ispiro agli
altri la voglia irresistibile di confidarsi con me. Non vorrei
scoraggiarti, miss, ma sono il più grande estorsore di informazioni di
tutta Babel. Il precorritore ideale!».
Ofelia sentì con sollievo l’impiegata chiamare l’uomo per il
colloquio. Non aveva potuto fare a meno di trovarlo simpatico,
dimostrazione di quanto temibile fosse il suo potere. Se riusciva a
sedurre gli esaminatori con la stessa facilità, a lei restavano ben poche
chance.
Cercò di dedicarsi al vocabolario, ma l’esercizio le sembrò difficile.
Aveva perso la concentrazione. Lì per lì la via per accedere al
Secretarium del Memoriale le era apparsa spianata, ma i dubbi che le
avevano instillato Ambroise e il Pharaon cominciavano a fare effetto.
Chi era lei per pretendere di essere ammessa nell’élite di Babel?
Cercò invano di allisciarsi i ricci impazziti. Forse avrebbe potuto
fare a meno di tagliarsi i capelli con cesoie da giardinaggio.
Poi venne chiamata dall’impiegata che ritirò il foglio con l’esercizio
e la fece entrare in un’altra sala. Due esaminatori erano seduti a un
imponente tavolo di marmo nella luce zebrata di una persiana.
L’uomo aveva occhi a mandorla che tradivano una forte intensità,
mentre la donna era di un pallore cadaverico tendente all’azzurro:
pur non essendo Figli di Polluce, tutto nel loro aspetto faceva capire
che erano cittadini di Babel a tutti gli effetti.
«Accomodatevi».
Il sedile che le indicarono, di fronte al tavolo, era uno sgabello a
gambe intrecciate che Ofelia rovesciò cercando di sedersi. Come
prima impressione era un successone.
«Nome?».
«Eulalia» rispose raddrizzando lo sgabello.
«Avete referenze? Lettere di raccomandazione? Esperienze
professionali?».
«No».
Non poteva certo citare il lavoro al museo di Anima o gli incarichi
alla corte del Polo. Se voleva sfuggire alla vigilanza di Dio, lì doveva
essere Eulalia, soltanto Eulalia. Sennonché Eulalia non aveva passato.
«Giovine dama» disse allora la donna, «dovete capire che la Buona
Famiglia è un istituto specializzato nel perfezionamento dei poteri
familiari. Accettiamo persone di ogni età e di ogni orizzonte, ma è
raro, molto raro che vengano ammessi i senza-poteri. Dovrete essere
molto persuasiva».
«Non è una senza-poteri».
L’uomo, che aveva parlato al posto di Ofelia cogliendola di
sorpresa, giunse le mani sul tavolo e posò su di lei occhi a mandorla
neri e brillanti come inchiostro.
«Percepisco in lei vari poteri familiari amalgamati e non ben
ripartiti. Non siate così ansiosa» aggiunse in un tono più dolce.
Un Empatico di Al-Ondaluz. Era una famiglia di cui Ofelia sapeva
poco, le sarebbe stato difficile perfino situarne l’arca su una mappa,
ma di una cosa era certa: il potere che avevano permetteva loro di
entrare in risonanza con quello degli altri. Rigida sullo sgabello, si
augurò di non essere troppo trasparente per quell’uomo.
«Dunque siete una sangue misto» dedusse la donna con un certo
sollievo. «È raro che i poteri ereditati da lignaggi diversi si accordino
bene fra loro, ma forse nel vostro caso non è così. Vi ascoltiamo,
giovine dama. Perché vi ritenete una buona precorritrice? Quali sono
le vostre competenze?».
Ofelia non ebbe difficoltà a capire che agli occhi della giuria stava
partendo decisamente svantaggiata.
«Il mio potere familiare dominante è l’animismo».
«Gli Animisti sono poco diffusi a Babel. Vi è possibile animare
qualunque oggetto?».
«Soprattutto gli oggetti che conosco bene».
«Potete riparare danni materiali?».
«Sono in grado di curare i miei occhiali in pochi giorni».
«Siete capace di creare un moto perpetuo?».
«Moto sì, perpetuo no».
L’uomo e la donna si scambiarono uno sguardo. Ofelia se
l’aspettava. Se voleva avere una minima possibilità di diventare una
virtuosa doveva giocare la carta del talento, quindi correre il rischio
di farsi riconoscere. «I precorritori sono i più grandi specialisti
dell’informazione» aveva detto Ambroise.
«Sono una lettrice».
«Una lettrice» ripeté l’esaminatrice. «Sì, abbiamo sentito parlare di
questa particolare facoltà dell’animismo. Percepite “certe cose”
toccando gli oggetti, è così?».
Dal tono della sua voce Ofelia capì che la donna non prendeva
quel potere molto sul serio. Se il ruolo dell’uomo era quello di entrare
in empatia con i candidati, quello della donna doveva essere di
mostrarsi insensibile. Il colore azzurrognolo della sua pelle era
caratteristico dei Seleniti, un popolo che padroneggiava le forze
consce e inconsce presenti in ogni essere umano. Era perfettamente
inutile cercare di adulare, blandire o incantare un Selenita. Bisognava
convincerlo, punto e basta.
Ofelia si aggiustò gli occhiali sul naso e rivolse uno sguardo
circolare alla stanza, al mobilio austero, alle piante verdi, ai tubi
pneumatici, alle file di schede perforate, finché i suoi occhi si
fermarono su una vetrina dentro la quale luccicavano alcuni trofei di
cui certi avevano l’aria particolarmente antica.
«Appartengono alla Buona Famiglia? Se mi autorizzate, mi
piacerebbe periziarne uno».
«Avete il nostro permesso» disse l’uomo.
«Lo sceglieremo noi» precisò la donna.
Ne presero uno il cui oro era notevolmente invecchiato. Non aveva
targhe né iscrizioni. Era impossibile capire chi l’avesse ottenuto e a
quale titolo.
Era una scelta perfetta.
Ofelia si tolse i guanti e lo prese in mano. Fu subito attraversata da
uno scetticismo che non le apparteneva: era lo stato d’animo della
donna al momento di togliere il trofeo dalla vetrina. Durò una
frazione di secondo, poi il flusso del tempo la portò sempre più
indietro. Si sentì passare di mano in mano. Il trofeo veniva portato a
esempio. Veniva nascosto per far arrabbiare la direzione. Veniva
lucidato col massimo rispetto. Veniva vandalizzato con gesto
rabbioso. Poi ci fu uno scroscio di applausi e schiamazzi, una
contentezza mista a imbarazzo e, sussurrato all’orecchio, inaudibile al
resto della folla, un bisbiglio astioso: “Tutti ti dimenticheranno
presto, impotente”.
Ofelia posò il trofeo sul tavolo e guardò i due esaminatori negli
occhi.
«Si tratta di un primo premio d’eccellenza assegnato a un virtuoso,
ma non a un virtuoso qualsiasi: a un senza-poteri. Oggi viene portato
a modello, ma all’epoca il premio è stato molto controverso. In
origine c’era una targa» aggiunse indicando col dito la base del
trofeo. «È stata strappata dal rivale in un accesso di gelosia. Sopra
c’era scritto A testimonianza dei grandi meriti delle vostre ricerche teoriche
e sperimentali sulla macchina analitica».
Gli esaminatori si scambiarono un altro sguardo, ma non fecero
commenti. Erano talmente impassibili che Ofelia non riuscì a capire
se li avesse impressionati o no. Quanto a lei, non sapeva neanche
cosa fosse una macchina analitica.
La donna rimise a posto il trofeo e le porse una penna stilografica.
«Chiediamo a tutti i postulanti di firmare il registro. Ma prima di
firmare vorrei che leggesse questa penna».
Ofelia strinse i guanti che stava per rimettersi.
«Vi aspettate da me informazioni sugli altri candidati?».
«Sarà il vostro ultimo test».
«Non posso leggere un oggetto senza il consenso del proprietario».
«La Buona Famiglia è proprietaria di questa stilografica quanto di
quei trofei» disse la donna indicando la vetrina. «Non c’è alcuna
differenza».
Ofelia contemplò a lungo l’oggetto. Un raggio di sole filtrato dalla
persiana si rifletté sull’oro della penna. L’ultimo test.
Si rimise i guanti.
«Mi dispiace, signora, c’è una differenza. I trofei appartengono al
passato, il futuro dei loro proprietari non dipende da quello che
potrei divulgare su di loro».
La donna si morse un labbro e a Ofelia sembrò che il reticolo delle
vene si facesse più visibile che mai sotto il pallore azzurrognolo della
sua pelle. Coperto da una nuvola, il raggio di sole sulla penna si
spense come una fiammella.
«Firmate e uscite, giovine dama».
«Lascio un indirizzo dove contattarmi? Attualmente abito dal figlio
del signor Laz...».
«Non sarà necessario» la interruppe la donna.
Ofelia aveva un nodo alla gola mentre scarabocchiava Eulalia sul
registro delle candidature. Gli esaminatori scrissero ciascuno una
breve nota su uno stesso foglio che infilarono in una cartuccia e
spedirono per posta pneumatica a un altro ufficio.
Appena uscita, Ofelia si infilò nelle toilette più vicine e si sciacquò
la faccia.
Non aveva potuto farne a meno. La sua deontologia professionale
aveva ancora una volta preso il sopravvento. Si era appena fatta
sfuggire l’unica possibilità di accedere al Secretarium del Memoriale,
di indagare sulla “verità finale”, di smascherare Dio, di ritrovare
Thorn, e tutto per riguardo a chi? A dei candidati che non esitavano a
servirsi dei propri poteri per sbarazzarsi della concorrenza.
«Miss Eulalia?».
La ragazza si era diretta verso di lei quando era uscita dal bagno.
Una studentessa, a giudicare dalla divisa.
«Sì?».
«Vogliate seguirmi, per piacere. Lady Helena desidera vedervi».

Ofelia non era un’esperta di spiriti di famiglia. Dei ventuno che ne
esistevano, fino a quel momento ne aveva conosciuti soltanto due, e
ognuno di quegli incontri le aveva lasciato un’impressione indelebile.
Entrando nello studio di lady Helena capì subito che anche stavolta
non ci sarebbe stata eccezione alla regola.
La poltrona su cui sedeva lo spirito di famiglia era collegata a un
meccanismo tentacolare. Decine di bracci articolati si muovevano
ronzando, chi per aprire il cassetto di uno schedario, chi per sollevare
il coperchio di un montacarichi, chi per svuotare il contenuto di un
tubo pneumatico. Alcuni accumulavano sulla sinistra la posta in
attesa, altri recuperavano a destra la posta evasa, il tutto senza tempi
morti.
La prima cosa che le balzò agli occhi, una volta passato l’effetto
sorpresa di quel balletto meccanico, fu che Helena non somigliava
affatto alle magnifiche statue di lei che si vedevano in città alla destra
di Polluce. Aveva naso e orecchi elefantiaci, come se il gigantismo da
cui era affetta si fosse accanito su quelle parti del corpo. In linea
generale niente in quello spirito di famiglia sembrava possedere una
proporzione normale: la testa era troppo grossa rispetto al corpo, le
dita troppo lunghe rispetto alle mani, il seno troppo ampio rispetto al
busto. Sembrava un’immensa caricatura dotata di vita.
Ofelia sentì brontolarle lo stomaco quando Helena timbrò un
foglio, lo mise sulla pila della posta evasa e sollevò lentamente lo
sguardo su di lei: gli occhi erano completamente nascosti da un
sistema ottico di una complessità folle. Le sue dita affusolate, simili a
zampe di ragno, tolsero due lenti rimovibili tra le decine di altre
sovrapposte sull’immenso naso, come se quello le permettesse di
vedere meglio la piccola visitatrice che stava dall’altra parte della
scrivania.
La studentessa che aveva accompagnato Ofelia chiuse la porta e
girò più volte la maniglia a forma di volante, come se chiudesse una
cassaforte dall’interno. I mille piccoli rumori che animavano il
conservatorio, passi, voci, porte sbattute, svanirono immediatamente
sotto una triplice coltre di silenzio. Guardando meglio alla luce dei
globi luminosi Ofelia notò che non c’erano finestre, solo uno strano
periscopio che scendeva dal soffitto.
«Howard Harper».
La voce di Helena era risuonata su tutti i marmi e i metalli della
stanza. Era una voce così stridente, lenta e sepolcrale che per un
attimo Ofelia si chiese se stesse cercando di invocare uno spirito.
«Era un’epoca in cui i senza-poteri avevano ancora i cognomi»
continuò lo spirito di famiglia articolando metodicamente ogni
sillaba. «Oggi sono tutti caduti nell’oblio. Tutti tranne uno, Harper.
Perfino io, che ho una pessima memoria, conosco questo nome. E
voi, giovine dama, lo conoscete?».
«No, madama» rispose Ofelia perplessa.
Dove voleva andare a parare con quella conversazione? Era la
procedura abituale cui era sottoposto ogni candidato?
«Howard Harper è l’uomo che ha contribuito a costruire l’edificio
in cui vi trovate adesso» disse Helena appoggiandosi pesantemente
allo schienale della poltrona. «Prima di lui questa piccola arca era una
giungla coperta di nuvole ed esisteva un solo conservatorio dei
virtuosi, quello di mio fratello e della sua cara progenie. Io non ho
mai potuto avere figli. Di tutti gli spiriti di famiglia sono la sola
sterile... e non è certo l’unica tara da cui sono colpita» aggiunse con
un’ironia che rese la sua voce ancora più stridente. «Howard Harper è
stato la persona che mi ha mostrato un’altra via. Il mio primissimo
figlioccio».
«Il trofeo» mormorò Ofelia.
Helena la studiò attraverso le varie lenti sovrapposte. Dall’altra
parte a Ofelia parve di vedere il luccichio di uno sguardo dorato,
tanto piccolo da sembrare una stella lontana.
«Già, il trofeo. Con un’istruzione appena un po’ migliore avreste
subito identificato il proprietario. Ho ascoltato da qui la vostra
cosiddetta perizia e l’ho trovata di un’incompletezza desolante. Scarsa
conoscenza della storia, assenza di date, episodi non pertinenti: il
vostro potere familiare è interessante, giovine dama, ma voi siete
un’ignorante. Se foste caduta nella trappola degli esaminatori
leggendo la stilografica non vi trovereste neanche qui da me».
Ofelia si strinse con forza le mani che teneva incrociate dietro la
schiena. In vita sua aveva ricevuto ogni genere di insulti, anche più
crudeli, ma quello la colpiva dritto al cuore. Leggere era l’unico campo
in cui avesse un talento. Essere criticata sulle proprie competenze
risvegliò in lei una suscettibilità di cui non sospettava l’esistenza.
«Non sono del posto, madama. Non potevo sapere...».
Helena ebbe un moto di fastidio. Le sue dita erano così lunghe che
lo spostamento d’aria fece volare tutti i fogli del tavolo.
«Invece avreste dovuto sapere. È tutta qui la differenza tra un
dilettante e un professionista. L’ignoranza, quando si possiede un
potere come il vostro, è un difetto inaccettabile. Toccherà a me porvi
rimedio».
Ofelia, che contraeva le mani sempre di più, allentò di colpo la
stretta.
«Mi accettate come virtuosa?».
Un braccio meccanico aprì un cassetto, prese un foglio e lo porse a
Ofelia. Era un certificato ufficiale di iscrizione al conservatorio. Le
labbra di Helena si aprirono in un sorriso da orchessa che rivelò una
quantità spaventosa di denti.
«Non vi do il benvenuto alla Buona Famiglia, giovine dama. Lo
farò fra tre settimane se sarete ancora con noi. Avete molto,
moltissimo ritardo da recuperare prima di poter diventare una
precorritrice come si deve».
LA TRADIZIONE

Ofelia aveva una tale fretta di annunciare la buona notizia ad


Ambroise che scivolò sull’ingresso degli uffici amministrativi. La
marea di nuvole si era trasformata in acquazzone e i gradini della
scala in cascata. L’odore della vegetazione, già penetrante al sole,
sotto la pioggia era diventato inebriante.
«Dove vai, apprendista?».
Sollevò gli occhiali imbrattati d’acqua sulla sagoma che si stagliava
in cima agli scalini della soglia sotto il vetro della tettoia. Era la
studentessa che l’aveva accompagnata allo studio di Helena. Le falde
della sua redingote erano agitate dal vento come stendardi ricamati
in argento. Indicò le arcate della galleria adiacente all’edificio
dell’amministrazione.
«Andiamo di là. Tutte le sezioni del conservatorio sono collegate da
camminamenti. Saremo al riparo».
«È che devo tornare in città» disse Ofelia mentre la toga le si
inzuppava ogni secondo di più. «Non vorrei perdere l’ultimo
trenuccello».
«Tu ora vieni con me. Verrai sottoposta a una prima valutazione. È
la tradizione».
La pioggia raddoppiò di intensità coprendo la voce e la figura della
studentessa. Ofelia dovette decidersi a risalire le scale controcorrente
rispetto alla cascatella.
«Ora? Ma sono appena stata accettata».
«Hai cominciato il periodo di prova. Per le prossime tre settimane
non puoi lasciare la cinta del conservatorio, salvo permessi speciali di
lady Helena. In caso contrario deciderà che hai rinunciato e non ti
offrirà una seconda possibilità. Ciò detto» concluse la studentessa
girando i tacchi, «se vuoi tornare a casa nessuno te lo impedirà».
Ofelia la seguì nella galleria. Neanche il tempo di rallegrarsi che già
arrivava la prima tegola! Sarebbe dovuta restare tre intere settimane
su quella piccola arca? Non avrebbe dunque potuto svolgere alcuna
ricerca al Secretarium del Memoriale prima di quella scadenza?
“E Ambroise?” pensò strizzandosi i lembi della toga. Non si sarebbe
preoccupato non vedendola tornare?
«Un po’ carcerario come trattamento».
«Mmm?». La studentessa si voltò a metà, come sorpresa di
trovarsela dietro. «Hai firmato un accordo, apprendista. Lady Helena
ti offre vitto, alloggio e un futuro. La tradizione vuole che in cambio
tu ti rimetta alle sue direttive senza fare domande».
Ofelia si disse che avrebbe dovuto leggere con più attenzione i
termini dell’accordo prima di firmarlo. Si asciugò gli occhiali e
osservò il profilo della studentessa che affiorava dai lunghi capelli
fulvi. Colorito cereo, palpebre semichiuse, sopracciglia dritte, naso
scialbo, bocca senza rilievi: la sua faccia era come la sua voce, priva di
espressività. Ma quell’aria impassibile faceva a pugni con il fuoco
d’artificio delle sue lentiggini. Era piuttosto alta e magra, e la
redingote attillata sottolineava un’assenza di forme. L’esatto
contrario di Ofelia.
«Anche voi siete apprendista? Non mi avete detto come vi
chiamate».
«Mmm?» fece la studentessa emergendo dai propri pensieri. «Mi
chiamo Elizabeth. A partire da oggi siamo rivali, cioè nemiche
giurate».
Nel silenzio che seguì quelle parole Ofelia ebbe modo di sentire la
pioggia che si abbatteva sui vetri della galleria.
«Sto scherzando» disse Elizabeth dopo qualche passo. «Sono
aspirante virtuosa, il che mi pone gerarchicamente al disopra degli
apprendisti. Non saremo rivali né nemiche. Sono responsabile della
seconda divisione dei precorritori. Se hai domande devi rivolgerti a
me. A proposito, congratulazioni».
Parlava con voce distante, senza l’ombra di un sorriso. Anche il
melodioso accento babeliano suonava piatto nella sua bocca.
«Qual è il vostro potere familiare, Elizabeth, se non sono
indiscreta?».
«Mmm? Non ne ho».
Ofelia inarcò le sopracciglia.
«Mi hanno detto che i senza-poteri erano molto rari qui».
«Al momento sono l’unica al conservatorio. Ma ho avuto due
predecessori: Howard Harper e Lazarus».
«Lazarus? Quello degli automi? Non sapevo che fosse stato
virtuoso».
O meglio, si corresse dentro di sé, Ambroise non gliel’aveva detto.
Il che sollevava un’altra domanda: perché aveva cercato di
scoraggiarla dall’entrare a far parte della Buona Famiglia se ci era
passato anche suo padre?
«Tutti dovrebbero saperlo, in particolare una precorritrice.
Sbrighiamoci, apprendista».
Ofelia non chiedeva di meglio, ma delle due quella che camminava
più piano era Elizabeth. L’aspirante virtuosa rallentava
continuamente per prendere un taccuino dalla tasca della redingote e
scrivere appunti che poi cancellava borbottando tra i denti. Quella
ragazza era decisamente un tipo strano.
Ofelia non tardò ad accorgersi che Elizabeth non era un caso
isolato. Una schiera di Cyclopiani dal cranio rasato correva sul
soffitto delle gallerie declamando formule di fisica a squarciagola.
Una giovane Totemista camminava dritta davanti a sé leggendo un
libro circondata da uno sciame di zanzare che le ronzavano intorno
senza mai attaccarla. C’era perfino un vecchio che produceva archi
elettrici tra le dita ridacchiando con aria un po’ senile.
Ognuna di quelle persone indossava la stessa uniforme blu notte e
argento. Erano quindi tutti aspiranti virtuosi?
Elizabeth salì una serie di scale che conducevano a una residenza
particolarmente imponente. Costruita tutta in verticale, combaciava
con il bordo dell’arca, e i suoi bastioni, distesi come ali di pietra,
servivano da confine fra terra e cielo. Le gigantesche teste d’elefante
scolpite sulla facciata avevano un’espressione severa che non ispirava
affatto il sorriso.
«Ecco il Foyer» disse Elizabeth scrivendo un altro appunto sul
taccuino. «Qui dormirai, ti laverai, mangerai e farai i tuoi turni di
corvée. Non aspettarti di trovare automi che puliscano al posto tuo.
Ce ne sono una quantità dai Figli di Polluce, ma lady Helena vuole
che qui facciamo tutto da soli».
Ofelia sollevò la testa fino quasi a farsi venire il torcicollo. Il Foyer
era concepito come il Memoriale, ma in proporzioni minori:
consisteva in un ampio atrio intorno al quale si sviluppavano i piani
come anelli di un pianeta. Pavimenti, muri e soffitti erano tutti
arredati a sale di studio. Gli apprendisti in alto discutevano di
questioni di retorica agitando la testa al contrario, quelli in basso
chiedevano silenzio per potersi concentrare sui propri compiti, alcuni
spingevano carrelli da lavanderia lungo corridoi verticali, altri
conducevano esperimenti incomprensibili in box riservati ai lavori
pratici. Il tutto ronzava come un alveare in cui risuonassero accenti
dei quattro angoli del mondo.
Ebbe una stretta al cuore. Anche lì, anche in quel momento, non
poteva fare a meno di cercare il più alto e più taciturno di tutti. E se
Thorn avesse compiuto il suo stesso percorso? Se anche lui si fosse
servito della Buona Famiglia per penetrare nel dietro le quinte del
Memoriale?
«Il conservatorio ha molti virtuosi?» domandò a Elizabeth.
«Mmm? Sì, abbastanza. C’è la compagnia dei precorritori, quella
dei tabellioni, quella degli scribi, quella dei guardiani e molte altre.
Ogni compagnia è composta da due divisioni: i Figliocci di Helena
qui e i Figli di Polluce lì».
Per illustrare le sue parole Elizabeth aveva indicato un grande
balcone dal quale, attraverso gli strati di pioggia, si vedeva lo
strapiombo dell’arca vicina.
«Perché siamo separati se seguiamo gli stessi insegnamenti?».
«Perché è la tradizione».
Ofelia si domandò se gli allievi del conservatorio ricevessero un
premio ogni volta che citavano quello slogan. Elizabeth
mordicchiava la gomma della matita con aria sognante e gli occhi
fissi sul taccuino degli appunti. I suoi lunghi capelli seguivano le
oscillazioni della camminata. Nei box di sperimentazione di una
suspensala ci fu un’esplosione seguita da fumo ed esclamazioni alle
quali non prestò la minima attenzione. Non sembrava
particolarmente incline a fare conversazione.
Ofelia invece sì.
«A portarmi qui è stato un avviso che ho letto al Memoriale. Ho
letto che cercavano precorritori per i gruppi di lettura. Vorrei fare
domanda, sono sicura che è nelle mie corde».
Elizabeth le rivolse uno sguardo in tralice senza smettere di
camminare né di rosicchiare la matita. Da vaghi, i suoi occhi erano
diventati penetranti come frecce.
«Abbandona le tue sicurezze». Anche la voce le era cambiata, di
colpo si era fatta vibrante e interessata. «Chi ti credi di essere a
parlare della nostra causa con tanta leggerezza? Il tuo talento è solo
una sbarra storta che va raddrizzata. I gruppi di lettura di sir Henry
presuppongono una competenza che le tue mani non possiedono
ancora e che probabilmente non possiederanno mai».
Ofelia strinse così tanto i pugni da far stridere i guanti. Era la
seconda volta quel giorno che sminuivano il suo orgoglio
professionale, e sì che ne aveva un bel po’. Elizabeth continuava a
scrutarla senza ostilità né amicizia in mezzo al brusio universitario,
come se si aspettasse una reazione ribelle da parte sua.
La giovane Animista espirò e rilassò i pugni. Aveva capito. Un
bravo cittadino, e a maggior ragione un virtuoso, non si attaccava a
ciò che faceva di lui un individuo. L’interesse della collettività aveva
la precedenza rispetto all’orgoglio personale.
«È vero. Più scopro il mondo intorno a me e più mi rendo conto di
quanto lo conosco male».
Le palpebre socchiuse di Elizabeth si abbassarono ancora di più e a
Ofelia sembrò di cogliere nella fessura delle ciglia un bagliore di
soddisfazione.
«Confidenza per confidenza, anch’io ho il mio orgoglio. Amo la
città, amo il Memoriale e amo la Buona Famiglia, e ho la tendenza ad
aspettarmi che gli altri diano prova della stessa devozione e rispettino
il mio lavoro».
«Lavorate per i gruppi di lettura?».
Elizabeth mise il taccuino sotto gli occhi di Ofelia. Era pieno di
numeri e lettere senza capo né coda.
«Algoritmi, funzioni, strutture iterative, strutture condizionali»
elencò. «Sono i gruppi di lettura a lavorare per me. Sono incaricata
del nuovo catalogo. I lettori codificano la banca dati che ho
concepito per sir Henry. La maggior parte dei documenti antichi del
Memoriale non è datata né autenticata, quindi abbiamo bisogno di
perizie irreprensibili. In questo momento sto studiando un sistema di
schede perforate che permetta a sir Henry di elaborare in maniera
efficace le migliaia di informazioni».
Ofelia abbassò lo sguardo suo malgrado. Le lezioni di umiltà
acquistavano di colpo senso. Elizabeth doveva avere più o meno la
sua età, ma su di lei aveva una pista di vantaggio non quantificabile
in anni.
«Lady Septima ha tre settimane per prepararti» continuò Elizabeth.
«Se fai esattamente quel che ti dice, se le ubbidisci per filo e per
segno, forse hai una possibilità di unirti ai nostri ranghi».
«Lady Septima» ripeté Ofelia cercando di memorizzare il nome.
«Credevo che il responsabile dei gruppi di lettura fosse sir Henry».
La bocca di Elizabeth si allargò in un sorriso che fece fatica a
trovare posto sulla sua faccia inespressiva.
«Non sarebbe in grado. Sir Henry è un automa. Non esce mai dal
Secretarium».
Ofelia avrebbe fatto bene ad abituarsi all’idea: su Babel gli automi
erano membri della società a tutti gli effetti, e alcuni di loro potevano
addirittura essere chiamati “sir”. Stava per fare domande sul
Secretarium, soprattutto sul modo di entrarci, ma ci ripensò. Mostrare
troppa curiosità avrebbe finito per sollevare sospetti, e per quel
giorno aveva già dimostrato abbastanza poca sottigliezza.
«Grazie» disse invece.
Elizabeth fece spallucce e si diresse verso una bacheca posizionata
al centro dell’atrio. Un braccio meccanico stava scrivendo col
gessetto:
L’apprendista Eulalia è attesa nell’anfiteatro interfamiliare.
«Non ci siamo sbrigate abbastanza» constatò Elizabeth. «Dovresti
essere già in divisa. Presto, muoviamoci» aggiunse senza affrettarsi
affatto.
Condusse Ofelia al guardaroba del Foyer per trovare una divisa
della sua taglia e aprì un paravento meccanico. Camicia, redingote,
pantaloni e stivali avevano talmente tanti ganci che Ofelia dubitò di
farcela. Le andò via il respiro al momento di abbottonarsi la
redingote, un abito che decisamente non lasciava molto spazio alle
rotondità.
Elizabeth le mostrò l’ornamento d’argento presente sulla manica
blu notte della propria uniforme.
«Fai molta attenzione ai galloni. Un apprendista virtuoso ha una
sola fascia. Un aspirante virtuoso di primo grado, come me, ne ha
due. Un aspirante virtuoso di secondo grado ne ha tre. Una striscia
per ogni anno di conservatorio».
Ofelia evitò di commentare che non aveva intenzione di trattenersi
a lungo. Appena avesse avuto accesso al Secretarium del Memoriale o
avesse trovato le tracce di Thorn, possibilmente entrambe le cose,
avrebbe detto tanti saluti a tutti.
Gli interminabili lacci degli stivali le dettero filo da torcere. Quelli
di Elizabeth erano fissati da due alette d’argento all’altezza delle
caviglie.
«Sono l’emblema dei precorritori. Anche tu avrai le alette se porti a
termine le tre settimane di prova».
Aveva detto “se”, non “quando”, notò Ofelia mettendo in una
tasca della redingote l’orologio di Thorn.
«In che consiste la valutazione che devo superare?».
«Mmm? Oh, sarai sottoposta a tutta una serie di test. È una cosa
piuttosto dolorosa, molti candidati non resistono. Alcuni ci
muoiono, anche se succede di rado». Elizabeth sollevò leggermente le
palpebre vedendo gli occhiali di Ofelia diventare gialli, poi aggiunse
in tono piatto: «Sto scherzando, non ci sono mai stati morti né feriti.
Prendilo come un gioco».
Se prima aveva avuto dubbi, ormai Ofelia ne era convinta: il suo
ritmo cardiaco non apprezzava affatto l’umorismo di Elizabeth.
Si allacciò la fibbia della cintura e finalmente fu pronta, ma aveva
un nodo alla gola.
Durante tutta la giornata aveva cercato di non pensarci, di
rimanere concentrata sulle novità che avrebbe dovuto assimilare, ma
da quando aveva addosso quel vestito estraneo non ci riusciva più.
Fece un profondo respiro cercando di ricacciare indietro l’emozione
brutale che le saliva dall’interno, ma non poteva fare a meno di
rivedere a ciclo continuo la scena del tram che se ne andava
portandosi via la borsa e la sciarpa. Perché il destino le aveva fatto
ritrovare l’una e non l’altra?
«Mi segui, apprendista?» la chiamò Elizabeth ripiegando il
paravento meccanico. «Ti porto alla valutazione».
«Eccomi».
Ofelia tossicchiò per schiarirsi la voce. Lasciarsi andare era un lusso
che non poteva permettersi. Avrebbe dovuto essere concentrata al
massimo per superare le prove.
Elizabeth la lasciò davanti alla porta dell’anfiteatro interfamiliare,
un emiciclo i cui gradoni potevano accogliere un centinaio
abbondante di persone: molti posti per una sola apprendista. Un
uomo in toga la condusse alla prima fila, dove era già pronto il
necessario per scrivere.
«È la tradizione» si limitò a dire.
Già al primo esercizio Ofelia non sapeva che scrivere: Elencate i
metodi di datazione relativi e assoluti di vostra conoscenza. Le altre
domande erano dello stesso tenore, tutte su nozioni e metodologie
storiche sempre più precise, e ce n’erano pagine intere. “Prendilo
come un gioco”. Di certo non aveva niente a che vedere con una
partita a carte. Cominciava a sentire gli effetti della notte in bianco, e
lo stomaco vuoto non tardò a riempire l’anfiteatro di brontolii
piuttosto imbarazzanti.
Quando finalmente consegnò il compito, inghiottita dagli abissi
della propria ignoranza, l’uomo in toga le disse di seguirla. Ofelia fu
accompagnata in un elegante laboratorio dove un’anziana signora le
disse di togliersi la divisa, dopo tutti gli sforzi che aveva fatto per
indossarla, e la visitò dalla testa ai piedi, lingua inclusa. Poi le fece
fare tutta una serie di movimenti, sia con la mano destra che con la
sinistra, che Ofelia non capì.
«È la tradizione» disse la vecchia.
Le consegnò allora nuovi abiti, più sobri e più larghi della divisa, e
la invitò a recarsi fuori, nello stadio, non appena pronta.
Era scesa la sera. Cominciava a fare buio, e c’era parecchia umidità
quando Ofelia arrivò sul posto. Non credette alle sue orecchie quando
un istruttore le ordinò di fare quindici giri di pista di corsa.
«È la tradizione».
Su Anima le uniche discipline sportive praticate erano il nuoto, la
danza e l’alpinismo, e Ofelia non si era mai cimentata in nessuna
delle tre. Alla fine del primo giro aveva la sensazione che le
scoppiassero i polmoni. Tunica e capelli le si appiccicavano addosso
come se si fosse immersa vestita in una vasca da bagno. Aveva smesso
di piovere, e lo stadio era diventato un gigantesco pantano popolato
da ranocchie. Terminò la corsa zoppicando un po’, con un dolore
acuto alla milza, sotto gli occhi critici dell’istruttore, che tuttavia non
fece commenti. Le restituì la divisa e disse che la valutazione era
terminata.
Ofelia si avviò sotto le lanterne sospese agli archi dei
camminamenti senza fare caso alle farfalle notturne che andavano a
sbatterle sugli occhiali. Aveva decisamente bisogno di un bagno e di
un pasto, ma arrivata al Foyer trovò l’atrio immerso in una calma
assordante. Tutti erano andati a dormire da un pezzo.
Imboccando un transcendium passò dalla posizione verticale a
quella orizzontale. La stanchezza le dette davvero l’impressione di
lottare contro le forze dell’attrazione terrestre, come se da un
momento all’altro potesse staccarsi dalla parete e schiantarsi a terra.
Dopo aver vagabondato per le suspensale chiedendosi dove si
supponeva che andasse, si recò all’ultimo piano subito sotto le stelle
della cupola, in cui un unico corridoio circolare dava accesso a varie
porte. Ogni porta era sovrastata da una targa in ferro battuto con il
nome della compagnia.
Ofelia aprì quella dei precorritori.
Vi regnava una tale oscurità che urtò parecchi letti suscitando una
reazione a catena di grugniti insonnoliti prima di trovarne uno
vuoto. Posò la divisa su quella che immaginò essere una sedia e si
slacciò gli stivali nel buio. C’era solo da sperare che i brontolii del suo
stomaco non svegliassero tutto il Foyer.
Appena si stese colse nell’oscurità risatine soffocate: sul suo letto
non c’era materasso.
“Certo, è la tradizione” pensò stringendosi al petto l’orologio di
Thorn.
VOCI

Ofelia balzava da una nuvola all’altra al disopra di una versione


intatta del vecchio mondo. Non prestava la minima attenzione alle
città, alle foreste e agli oceani di un tempo che le sfilavano sotto i
piedi, cercava solo di raggiungere il trenuccello che volava nel cielo.
Vedeva la sua sciarpa incastrata nella porta e una figura familiare
dietro un finestrino: Thorn. Stava per arrivare al trenuccello quando
di colpo le nuvole si erano messe a cigolare.
Aprì un occhio sotto gli occhiali storti che aveva dimenticato di
togliersi per dormire. Non erano le nuvole a cigolare, ma la rete del
letto. Dovette sbattere più volte le palpebre per ricordarsi dov’era e
perché. Faceva un caldo soffocante. La finestra, illuminata dal
mattino, riversava nella camerata una luce limpida. Era una stanza
austera con travi a vista, un forte odore di pietra calda, mobili in ferro
battuto e un unico paravento a garanzia di intimità, paravento di cui
Ofelia non avrebbe avuto bisogno, visto che non c’era nessuno a
parte lei. I letti contro i quali aveva sbattuto la notte erano stati
sostituiti da leggii.
Se era suonata una campanella, lei non l’aveva sentita. In realtà
l’unica campanella che sentiva in quel momento era quella che
risuonava all’interno della sua scatola cranica. Avrebbe avuto bisogno
di una pentola di caffè per farla smettere.
Ofelia si alzò dalla rete tra le vibrate proteste delle sue vertebre. Si
sentiva come un automa che fosse stato smontato pezzo a pezzo e poi
rimontato alla bell’e meglio.
Non si stupì più di tanto di non trovare la divisa sulla sedia.
Probabilmente l’avevano fatta sparire gli stessi burloni che la sera
prima avevano trovato molto divertente toglierle il materasso.
“Sono stata il valletto di Berenilde, il giocattolo di Faruk e la preda
del barone Melchior” pensò con uno sbadiglio, “non sarà certo uno
scherzo di cattivo gusto a intimidirmi”.
Si rimise in tenuta da stadio, ancora incrostata di fango, e tirò un
cordone che pendeva dalla parete. Con un ronzio di ingranaggi il
letto meccanico si sollevò fino a entrare perfettamente nella nicchia
del muro, mentre al suo posto si allungava un leggìo con un
ingegnoso procedimento telescopico. Era come quei libri in cui le
immagini in tre dimensioni si sviluppano e si richiudono voltando le
pagine. Ofelia avrebbe sinceramente apprezzato il meccanismo se
quel letto non fosse stato un calvario.
Il resto del Foyer si rivelò deserto quanto il dormitorio dei
precorritori. Ofelia non incontrò nessuno alla mensa, dove si
accontentò di un avanzo di cereali, né al guardaroba, dove andò a
cercarsi una nuova divisa, né alle docce collettive, dove si insaponò
selvaggiamente. Andò a consultare la bacheca, ma il braccio
meccanico non aveva scritto istruzioni a gessetto. Era abbastanza
sicura che avrebbe dovuto trovarsi altrove, solo che non sapeva dove.
Cominciava bene, per essere una specialista dell’informazione.
Mentre errava per i camminamenti alla ricerca di qualcuno che le
desse un’informazione non poté fare a meno di pensare ad Ambroise.
Se lo immaginò da solo in mezzo agli automi del padre in attesa di
sue notizie. Probabilmente la stava vedendo come la regina degli
ingrati, una profittatrice pronta a lasciare un benefattore per un altro
che le offriva di più. Avrebbe volentieri improvvisato un passaggio di
specchio per fargli una visita lampo, anche se probabilmente la
distanza era troppa, ma non ne aveva ancora visto uno alla Buona
Famiglia. Helena sembrava molto attenta a scoraggiare la vanità tra i
suoi allievi.
In fondo era meglio così. Per quanto la tentazione fosse forte non
le conveniva rivelare di essere un’attraversaspecchi. Stava correndo
già abbastanza rischi per aver palesato il suo talento di lettrice.
Alla fine trovò altri apprendisti virtuosi nell’anfiteatro in cui il
giorno prima era stata sottoposta alla valutazione. Vi regnava un tale
silenzio che aprendo la porta aveva creduto fosse vuoto. Non c’erano
professori in cattedra, ma tutti gli studenti stavano stenografando.
Ognuno aveva le cuffie sulle orecchie, e nessuno sollevò gli occhi dai
propri appunti mentre Ofelia si cercò un posto sui gradoni più alti il
meno goffamente possibile.
Una volta seduta capì che all’interno di ogni postazione era
incorporata una radio. Indossò le cuffie, non sentì niente, girò
qualche bottone, continuò a non sentire niente, chiese ai vicini come
funzionasse l’apparecchio, ma le fecero segno di stare zitta. A forza di
perseverare trovò il modulatore di frequenza e riuscì a captare alcune
trasmissioni. Decine di trasmissioni, ognuna su una frequenza
diversa. Solo conferenze universitarie registrate in diretta nelle
accademie della città. Come fare a sapere quale avrebbe dovuto
seguire lei?
Abbassò il volume e non insisté. Era venuta a Babel per indagare,
non per studiare.
Si asciugò il rivolo di sudore che già le scendeva lungo il collo
combattendo contro la voglia di liberarsi di quella redingote troppo
stretta. Osservò uno per uno gli apprendisti seduti davanti a lei.
Thorn non c’era, ma la cosa in sé non aveva niente di sorprendente.
Se era in anticipo su di lei, come probabilmente era, l’avrebbe trovato
semmai tra gli aspiranti virtuosi, e stando ai galloni delle divise non
ce n’era nessuno nell’anfiteatro.
Sulle prime Ofelia aveva creduto che il silenzio fosse completo, ma
non era così. Dietro il rumore delle stilografiche sulla carta, dietro il
ronzio delle voci nelle cuffie, dietro il frinire delle cicale all’esterno
percepì dei bisbigli una fila sotto la sua. Alcuni apprendisti si
parlavano all’orecchio mostrando a tratti profili nervosi. Ofelia non
ci avrebbe fatto troppo caso se non le fosse arrivata la parola
“Memoriale”. Azzerò il volume della radio e, senza togliersi le cuffie,
si chinò impercettibilmente sul tavolo.
Si esprimevano tutti con lo stesso accento, molto diverso da quello
di Babel, anche se altrettanto musicale.
«Ve l’avevo detto, ieri, che avevo un brutto presentimento».
«Sta’ zitto. Avevamo tutti un brutto presentimento. Il problema è
che avremmo dovuto capire cosa, dove e chi, ma non ci siamo
riusciti».
«Non è poi così grave, no? Sono solo voci. Le voci sono sempre
esagerate».
«Ah sì? Allora perché le letture di oggi sono state tutte annullate?».
«A me non dispiace. Se vedo un altro libro mi viene la nausea».
«Ti stai scordando l’automa». Ofelia, sempre più piegata sul tavolo,
capì che alludevano a sir Henry. «Ci assegnerà il doppio delle ore per
recuperare il ritardo».
«Comunque la coincidenza è significativa: arriva la nuova e c’è
l’incidente al Memoriale!».
«Ça suffit, ci sta guardando».
Tutti si rimisero le cuffie e ripresero in mano la stilografica. Tutti
tranne una graziosa ragazza con i capelli alla maschietta che,
indiscreta e per niente imbarazzata, si voltò a squadrare Ofelia con
genuina curiosità. Riflessi luminosi brillavano sulla sua faccia come
decorazioni di una maschera di carnevale.
In quel momento una voce bronzea percorse l’anfiteatro con la
potenza di un rombo di tuono.
«Apprendista Mediana, guardate davanti a voi».
La ragazza si rimise svogliatamente al lavoro. Ofelia finse di
imitarla, ma prima scoccò un’occhiata verso la tromba da fonografo
fissata al soffitto. Non l’aveva notata, così come non aveva notato il
periscopio che ruotava il suo occhio da ciclope a destra e a sinistra.
Aveva interpretato l’assenza di professori come un segnale di fiducia,
la dimostrazione che il conservatorio trattava i suoi alunni da giovani
responsabili. Errore grossolano. Erano tutti sorvegliati.
Molto più tardi, quando la voce annunciò dalla tromba che la
lezione radiofonica era finita, Ofelia si affrettò a cercare sulla scala
esterna gli studenti che bisbigliavano. Vedendoli in piedi notò che
avevano le alette agli stivali. Come aveva intuito ascoltandoli, erano
tutti precorritori.
«Io sono la “nuova”» si presentò in tono ironico. «Scusate se mi
sono intromessa nel vostro conciliabolo, ma se non sbaglio parlavate
di m...».
«Mi dispiace per gli occhiali» la interruppe brutalmente uno di
loro.
«Eh?».
L’osservazione la colse talmente di sorpresa che mancò un gradino
e terminò la scala di marmo sul sedere. I precorritori la scavalcarono
uno dopo l’altro senza degnarla di uno sguardo. Li vedeva a metà,
perché nella caduta aveva perso una lente. Mentre tastava gli scalini
umiliata e dolente una mano luminosa le porse quel che stava
cercando.
«Sono Mediana, della seconda divisione della compagnia dei
precorritori» si presentò ufficialmente la maschietta. «Ma lo sapevi
già, vero? Le predizioni dei miei cugini provocano quasi altrettanti
incidenti di quelli che prevengono. Stai accorta, mademoiselle, se ne
approfittano un po’».
Aveva un accento che le faceva pronunciare ogni parola con un
ronzio voluttuoso. Ofelia recuperò prudentemente la lente.
«I precorritori sono tutti della vostra famiglia?».
«In gran parte. Noi Indovini della Serenissima abbiamo
l’informazione nel sangue».
«Oh. E vedete anche il futuro?».
«No, più che altro il passato. Un po’ come te, piccola lettrice, ma la
nostra arte è diversa».
D’accordissimo, pensò Ofelia dentro di sé. Da precorritrice degna di
questo nome, Mediana aveva già individuato il suo potere familiare.
«Di che stavate parlando con i vostri cugini? Che è successo al
Memoriale?».
Con gesto molto confidenziale Mediana posò un dito sulla bocca di
Ofelia invitandola ad avere pazienza. Gli apprendisti continuavano
ad aggirarle indifferenti, come avrebbe fatto l’acqua di un fiume
intorno a una roccia. Quando sulle scale non ci fu più nessuno a
parte loro si fece talmente vicina che, nonostante la lente mancante,
Ofelia vide ogni luminescenza del suo volto. Mediana era di una
bellezza rara in cui linee curve e forme angolari si mischiavano
sottilmente conferendole un fascino capace di ammaliare uomini e
donne.
«Cercherò di farti guadagnare tempo prezioso, piccola lettrice. Lady
Helena non avrebbe mai dovuto accettare la tua candidatura. Il mio
potere vale dieci volte il tuo, inoltre padroneggio le lingue antiche
alla perfezione. Sei condannata a essere prigioniera della mia ombra,
come lo sono tutti gli altri precorritori. Non credere che i miei cugini
mi apprezzino più di te. L’amicizia non esiste alla Buona Famiglia,
perché solo i migliori restano».
«Io...».
«Non dire niente» sussurrò Mediana premendo l’indice sulle labbra
di Ofelia. «Ascolta e basta, mademoiselle. La violenza, anche nelle sue
forme più insignificanti, è severamente punita su Babel. Non verrai
mai maltrattata fisicamente fra noi, ma credimi» aggiunse in un
soffio caldo, «esistono tanti tipi di tormento. Torna a casa, dimentica
i virtuosi e il Memoriale. È il mio destino, non il tuo».
Più che dalle parole, Ofelia fu colpita dal tono in cui le aveva dette.
Un tono sinceramente e profondamente dispiaciuto. Con i suoi
occhiali a metà guardò Mediana scendere le scale in un misto di
potenza e grazia facendo scintillare al sole le luminescenze della sua
pelle.
“Sono stata il valletto di Berenilde, il giocattolo di Faruk e la preda
del barone Melchior” si ripeté cercando di incastrare la lente nella
montatura. “Non sarà certo una minaccia in più a intimidirmi”.
Col fondoschiena dolorante Ofelia andò dietro ai precorritori
tenendosi a debita distanza. Che lo volessero o no, facevano ormai
parte della stessa compagnia: avrebbe imposto loro la propria
presenza fino a che avrebbe avuto bisogno di fare parte del gruppo.
Oltrepassarono insieme il ponte monumentale che collegava l’arca
dei virtuosi di Helena a quella dei virtuosi di Polluce e si recarono in
una dépendance del conservatorio. Due piani dopo, Ofelia si ritrovò
in un laboratorio tutto soffitti alti, ottoni e velluti che era la
quintessenza della bellezza. La sala era immersa nella luce arcobaleno
di un rosone e nella piacevole brezza di ventilatori a soffitto. Sui
tavoli di legno pregiato era allineato quanto di più moderno esisteva
in fatto di apparecchi da sperimentazione.
Prendendo posto un po’ indecisa davanti al banco da lavoro si rese
conto che il numero dei precorritori intorno a lei era raddoppiato. La
divisione dei Figliocci di Helena si era unita a quella dei Figli di
Polluce in un turbine di divise e accenti diversi che si interruppe di
colpo appena una donna chiuse la porta del laboratorio.
«La conoscenza è al servizio della pace» disse.
«La conoscenza è al servizio della pace» ripeterono in coro gli
apprendisti sbattendo i tacchi alati degli stivali e portandosi il pugno
sul petto.
La donna annuì senza sorridere. A giudicare dalla pelle bronzea, dai
capelli neri e dagli occhi sfavillanti era una Babeliana di pura razza.
Le dorature della sua uniforme scintillavano quanto lo sguardo che
posò su Ofelia.
«Apprendista Eulalia, sono lady Septima e sarò la vostra prospera,
ovvero la vostra professoressa di specializzazione. Mi sono stati
comunicati i risultati della vostra valutazione. Non sono eccellenti,
tuttavia preferisco stabilire da me se siete degna o no di diventare una
precorritrice. Esserne degni non vuol dire riuscirci». Stavolta lo
sguardo di lady Septima abbracciò tutto il laboratorio investendo col
proprio fuoco la faccia di ogni apprendista. «Oggi siete qui in molti,
ma alla fine solo due di voi potranno accedere al grado di aspiranti
virtuosi: un Figlio di Polluce e un Figlioccio di Helena».
Gli occhi di lady Septima, forse per un riflesso inconsapevole, si
erano soffermati su un apprendista che le somigliava troppo per non
essere della sua famiglia. Ofelia, da parte sua, stava capendo meglio
certe cose. «Solo i migliori restano». Quel conservatorio aveva fatto
della rivalità la propria spina dorsale.
«Il mio lavoro» continuò lady Septima rivolgendosi di nuovo a
Ofelia, «consiste nel trasformare il minerale grezzo che è il vostro
potere familiare nel più puro dei diamanti. E non è tutto. Alla
corporazione dei precorritori, di cui sono la massima responsabile, è
stato affidato l’onore di rimettere mano al catalogo del Memoriale.
Quelli che sono degni di entrare a far parte dei gruppi di lettura, e
solo loro, hanno il proprio posto al conservatorio. Apprendista
Eulalia, avete tre settimane per convincermi che con voi non sto
perdendo tempo. Domande?».
Ofelia strinse i denti con forza per trattenere tutte le domande che
le venivano in mente. Come ottenere il diritto di entrare nel
Secretarium? È vero che c’è una camera blindata? Custodisce vestigia
della vecchia scuola? Qual è la verità finale che il vostro glorioso
Memoriale non vuole divulgare al pubblico?
Ma esporre in quel modo il vero obiettivo della sua presenza lì
sarebbe stato imprudente, per non dire pericoloso. Si limitò a una
sola domanda.
«Perché i gruppi di lettura di oggi sono stati annullati?».
Era una curiosità legittima, o almeno così credette Ofelia prima di
realizzare che tutti intorno a lei si erano bloccati, come se i ventilatori
a soffitto si fossero improvvisamente messi a produrre aria gelida.
Solo Mediana si mordicchiava il labbro per non scoppiare a ridere.
Quanto a lady Septima, rimase imperturbabile. Si limitò ad
attenuare con un lieve movimento di palpebre le fiamme del suo
sguardo, sguardo che non era rivolto a Ofelia in particolare, ma a
ciascuno degli apprendisti.
«Non ho alcun commento da fare sulla faccenda che tutti avete in
mente. Non date retta alle voci che girano. Domani il Giornale
ufficiale vi dirà tutto quello che avete bisogno di sapere. Ricordate che
per voi precorritori dev’essere l’unica fonte da cui attingere
informazioni. Ora esaminate il campione che avete davanti
applicando la procedura regolamentare» aggiunse in un tono che non
ammetteva repliche. «Entro la fine della lezione dovete aver
identificato l’oggetto di cui faceva parte e redatto un rapporto
completo. Apprendista Eulalia, per oggi non toccate niente, limitatevi
a osservare i vostri compagni per vedere come fanno».
Se l’intento di lady Septima era ottenere da Ofelia la massima
concentrazione, fallì miseramente. Mentre gli apprendisti
maneggiavano religiosamente i propri campioni con gli strumenti da
laboratorio lei aveva la testa da un’altra parte.
Pensava solo alle voci che giravano. Cos’era successo al Memoriale?
C’era una possibilità anche minima che l’accaduto avesse a che fare
con Thorn? Si trovava nei guai mentre lei era lì con le mani in mano?
Si riscosse dai suoi pensieri sentendo su di sé uno sguardo
bruciante. Da principio pensò che Mediana la stesse ancora
squadrando con sfrontatezza, ma l’Indovina era molto concentrata
sul proprio compito. No, si trattava di un altro apprendista, quello su
cui gli occhi di lady Septima si erano attardati durante il discorso.
Posizionato all’altro capo del banco da lavoro, aveva già finito di
battere a macchina il rapporto e puntava su di lei i suoi occhi da
Visionario dandole l’impressione di essere sotto il cono di luce di due
lampade a incandescenza, come se fosse lei stessa un campione da
esaminare. Una catenella d’oro gli collegava l’arcata sopraccigliare
alla narice. Ofelia non aveva ancora imparato tutte le sottigliezze del
codice d’abbigliamento di Babel, ma Ambroise le aveva parlato di
quel tipo di ornamento: il giovane apparteneva a una famiglia di alto
lignaggio della discendenza di Polluce. Non aveva più dubbi, si
trattava proprio del figlio di lady Septima.
Ofelia reagì al suo sguardo con la stessa curiosità. Farselo amico
sarebbe stato strategicamente utile ai suoi progetti, ma appena il
pensiero la sfiorò rinunciò all’idea. La fissità implacabile con cui il
giovane la scrutava non era solo un segno d’interesse, esprimeva
diffidenza.
«Posate gli strumenti, lasciate il campione sul tavolo e consegnate i
rapporti prima di uscire dal laboratorio» disse lady Septima alla fine
della lezione. «Figli di Polluce, voi andate in palestra per
l’allenamento sensoriale. Figliocci di Helena, voi tornate alla vostra
arca e rimanete tranquilli. Basta pettegolezzi per oggi, intesi? Voi
restate qui, apprendista Eulalia» aggiunse trattenendo Ofelia per la
spalla. «Vorrei scambiare due parole».
Quando nel laboratorio non ci fu più nessuno lady Septima chiuse
la porta e si rivolse all’Animista con rigidità minerale.
«Vi annoiate con noi, apprendista Eulalia?».
Ofelia si irrigidì. Quella donna la metteva a disagio. Eppure era
calmissima e alta più o meno quanto lei.
«Non capisco».
Lady Septima la guardò. Cioè, “guardare” non era il termine giusto
per occhi del genere. La vivisezionò. Si infilò attraverso la lente
malferma dei suoi occhiali, calcolò il grado di dilatazione della sua
pupilla, penetrò all’interno delle sue vene, misurò la portata del
flusso sanguigno, si immerse nella chimica più riposta dei suoi
organi, esaminò una per una ogni molecola del suo corpo.
«Siete rimasta inoperosa per tutta la durata della lezione».
«Mi avete detto voi di non toccare niente».
Ofelia sentì i palmi delle mani inumidirsi dentro i guanti. Quando
lady Septima si era avvicinata aveva notato l’emblema che portava
sulla fibula della cappa, un sole con la parola LUX incisa all’interno.
La donna da cui Ofelia ormai dipendeva era una sentinella di Dio.
Lady Septima indossò un guanto dorato quanto l’uniforme e prese
delicatamente tra pollice e indice il minuscolo campione rimasto sul
banco da lavoro di Ofelia. I suoi occhi rossi lo esaminarono alla luce.
«Vediamo... Il metallo è composto per più di tre quarti da stagno,
meno di un quarto di piombo e una minima parte di rame»
mormorò. «La lega è stata fusa... well... tre secoli fa, forse quattro. Una
varietà di bronzo, ma con un dosaggio molto particolare, quello
riservato alla fabbricazione delle canne d’organo».
Ofelia provò suo malgrado un’ammirazione che di rado aveva
provato. I Figli e le Figlie di Polluce erano famosi per i loro sensi
ipersviluppati, ma lady Septima avrebbe fatto impallidire il miglior
microscopio di Anima. Ecco dunque di cos’erano realmente capaci i
Visionari.
«Secondo voi perché l’avevo lasciato alla vostra portata?» domandò
la professoressa rimettendo il frammento sul supporto di velluto.
Era un test, realizzò Ofelia. E lei l’aveva fallito.
«Avreste potuto cercare di impressionarmi, mostrarmi di cosa sono
capaci le vostre mani da lettrice» insisté lady Septima in tono
misurato. «Invece non avete fatto niente. O mancate di audacia, o
mancate di curiosità. Qual è secondo voi la principale qualità di un
precorritore?».
Ofelia fu sul punto di risponderle che non mancava né di curiosità
né di audacia, a modo suo, ma all’ultimo momento evitò. Diventa
PRECORRITORE al servizio della città! Recitava l’avviso di reclutamento. Il
vero test si giocava in quel momento.
«L’ubbidienza».
Lady Septima fece un breve sorriso e annuì. Com’era possibile che
una donna dallo sguardo così ardente potesse provocare un tale
freddo alla schiena?
«È la risposta giusta, in effetti, ma vorrei assicurarmi che sia anche
sincera. Mettetevi lì» disse avvicinando uno sgabello alla vetrata.
Ma quando Ofelia si accinse a sedersi la fermò con un gesto.
«Non così, apprendista. In piedi».
Con movimenti più che rigidi Ofelia si issò goffamente sullo
sgabello.
«Perfetto» dichiarò soddisfatta lady Septima. «Resterete così finché
non riceverete l’autorizzazione ad andarvene».
«E la mia formazione?».
«Durante il periodo di prova è composta da quattro parti: teoria,
pratica, allenamento e corvée. Per oggi teoria e pratica sono
terminate. Considerate l’esercizio come un allenamento».
Su quelle parole lady Septima tirò i cordoncini dei ventilatori per
spegnerli e si chiuse la porta alle spalle. Ofelia si ritrovò da sola in
mezzo a provette e bilancini nella luce abbagliante del rosone. Senza
ventilatori il laboratorio si trasformava poco a poco in un forno.
Avendo fatto il domestico, Ofelia sapeva per esperienza quanto fosse
difficile restare immobili a lungo, ma era la prima volta che ne faceva
l’esperienza inerpicata su uno sgabello: le era impossibile sgranchirsi
le gambe, cambiare posizione, spostare il peso del corpo da una parte
all’altra. I muscoli si sforzavano di mantenerla in equilibrio, ma erano
doloranti per via della notte senza materasso e della caduta dalle
scale. L’intorpidimento, come una lenta pietrificazione, si propagò
dai polpacci alle anche, dal fondoschiena alle spalle. Ofelia si
concentrò sui colori della vetrata che scivolavano sui legni pregiati
del laboratorio man mano che il sole si spostava nel cielo. Rivoli di
sudore le scorrevano sotto i pantaloni, per di più provava il bisogno
sempre più impellente di andare in bagno.
Cadde riversa sul parquet. Lo sgabello, raggiunto dall’esasperazione
del suo animismo, si era bruscamente lanciato in un numero di tip
tap.
Mentre cercava la lente degli occhiali, che aveva vigliaccamente
approfittato dell’occasione per tagliare di nuovo la corda, sentì la
rabbia esploderle in pancia. Una mocciosa! Perfino lontano da casa
sua, perfino dopo tutti quegli anni, la trattavano ancora e sempre da
mocciosa.
Guardò lo sgabello galoppare per il laboratorio e le tornò in mente
il periscopio nell’anfiteatro, le parole che non si potevano
pronunciare, la memoria collettiva chiusa a doppia mandata nel
Secretarium. La mocciosa non era lei, ma l’umanità intera. Erano
tutti, assolutamente tutti, mantenuti in uno stato di infantilismo da
Dio e dai suoi Tutori.
“Sono stata il valletto di Berenilde, il giocattolo di Faruk e la preda
del barone Melchior” si ripeté dopo aver bloccato lo sgabello ed
esservi risalita sopra. “Non fornirò a lady Septima nessun pretesto per
allontanarmi dal mio obiettivo”.
Il sole stava tramontando quando la porta del laboratorio
finalmente si riaprì. Ofelia sbatté le palpebre per far cadere le gocce di
sudore che le imperlavano le ciglia. Davanti a lei stava Elizabeth,
inespressiva sotto la costellazione di lentiggini.
«Allora, com’è andato il primo giorno? Sempre decisa a restare con
noi, apprendista Eulalia?».
«Sempre».
Ofelia aveva la voce inaridita dalla sete.
«Nella mia qualità di responsabile della seconda divisione della
compagnia dei precorritori ti libero dallo sgabello».
La formula era così ampollosa da far pensare a Ofelia che la
prendesse in giro, così si stupì quando la vide porgerle una mano per
aiutarla a scendere e offrirle un sifone d’acqua portato apposta per lei.
«Questa era la buona notizia» disse Elizabeth guardandola bere e
tossire nello stesso tempo. «La cattiva è che hai ricevuto una nota di
biasimo per aver perso un materasso e una divisa. Per rimborsare il
debito sarai quindi sottoposta al doppio di corvée degli altri».
«Non li ho persi io».
Elizabeth si limitò a sbattere lentamente gli occhi.
«È la tradizione. In futuro cerca di stare più attenta. A proposito, ho
un telegramma per te».
Ofelia sussultò e aprì con impazienza il piccolo plico azzurro che
Elizabeth le aveva consegnato.
Congratulazioni. Ambroise.
Lo voltò. Non c’era altro. Il loquace, inesauribile Ambroise non
aveva altri messaggi da trasmetterle. Sentì qualcosa attorcigliarsi nello
stomaco. Aveva forse perso l’unico amico che si era fatta a Babel?
«Sembra che non ne stia imbroccando una».
La confidenza le era uscita quasi suo malgrado mentre rimetteva a
posto lo sgabello. Per un attimo ebbe paura di aver scatenato una
raffica di domande indiscrete, ma Elizabeth non ne fece alcuna.
Aveva già tirato fuori il taccuino per scrivere qualcosa in codice.
«L’unico vero sbaglio è quello che non correggiamo».
Ofelia scrutò a lungo il volto cereo di Elizabeth, concentratissima
sul taccuino. Era una personalità difficile da definire, ma la frase che
le aveva detto era la cosa più confortante che avesse sentito in tutto il
giorno.
«Elizabeth?».
«Mmm?».
«Che è successo al Memoriale?».
«Ah, quella storia?» fece Elizabeth cancellando un riquadro di
codici. «È morta miss Silence».
Ofelia inarcò le sopracciglia. Miss Silence. Il nome le diceva
qualcosa... Non era la memorialista dalle orecchie delicate, quella
donna tirannica che voleva perquisirle la borsa?
«Hanno trovato il cadavere stamattina al Memoriale» continuò
Elizabeth. «Quando sono arrivata come ogni mattina per lavorare
sulla banca dati mi hanno subito ordinato di tornare al
conservatorio. Hanno detto che si è trattato di uno sfortunato
incidente, che la povera miss Silence è caduta da una scala della
biblioteca».
«Caduta da una scala?» ripeté Ofelia, che si era aspettata qualcosa
di più spettacolare. «Che sfortuna».
Elizabeth annuì con aria distratta mordicchiando la matita.
«Sì, probabilmente è ciò che ha pensato miss Silence subito prima
di morire. Ho avuto appena il tempo di vedere il corpo. Soprattutto la
faccia. Non pensavo che una caduta potesse lasciarti un’espressione
simile».
«Che espressione?» mormorò Ofelia.
Elizabeth sollevò le palpebre rivelando uno sguardo indecifrabile
quanto i codici del suo taccuino.
«Di terrore assoluto».
Finora Ofelia aveva sempre pensato che niente di quello che si
accingeva a vivere lì le avrebbe ricordato il Polo. In quel momento
realizzò con chiarezza di aver sottovalutato Babel.
VIAGGIO

Mamma l’aveva messa a letto ancora prima del solito. Come ogni
sera le aveva misurato due volte la temperatura, l’aveva fatta bere
dopo aver assaggiato la sua acqua, le aveva pettinato i lunghi capelli
bianchi e le aveva rincalzato le coperte chiedendole se aveva freddo.
Come ogni sera, esitante e sorridente l’aveva guardata a lungo dalla
soglia della camera prima di decidersi ad accostare la porta e
allontanarsi in un fruscio di tessuti.
Vittoria contemplava il soffitto.
Mamma non aveva chiuso la porta. Non la chiudeva mai, perché di
quando in quando dava un’occhiata in camera per assicurarsi che
andasse tutto bene. Dal salotto giungevano voci lontane. La casa era
spesso piena di silenzio, talvolta di musica, quasi mai di voci.
Vittoria non aveva voglia di dormire, voleva stare con le voci. Le
lenzuola erano rincalzate talmente strette che poteva a stento
muovere le dita dei piedi. Se fosse stata una bambina come tutte le
altre si sarebbe dimenata con rabbia, avrebbe chiamato la madre
urlando e piangendo, ma Vittoria non era come tutte le altre.
Vittoria non parlava mai.
Vittoria non camminava mai.
Almeno l’Altra Vittoria. La vera Vittoria scese dal letto, mise i piedi
a terra e andò fino allo spiraglio della porta.
Esitò e, come Mamma poco prima, guardò verso il letto. Vi era
coricata una bambina con gli occhi spalancati sul soffitto. Viso,
labbra e capelli erano bianchi come la federa del cuscino. Vittoria
sapeva di essere lei sia nel letto che fuori, cosa che non la stupiva né
le faceva paura. Si sentiva semmai un po’ in colpa, come quando
voleva scendere da sola dalla sedia e Mamma si precipitava a
prenderla con aria spaventata.
Vittoria non esitava mai a lungo, il richiamo del viaggio finiva
sempre per avere la meglio.
Sgattaiolò in corridoio. Si sentiva leggera, molto più leggera
dell’Altra Vittoria! Leggera come quando si trovava nell’acqua tiepida
della vasca da bagno. E, come quando metteva la testa sott’acqua
strappando a Mamma grida di panico, vedeva le cose in maniera
diversa. I colori erano fluttuanti, le forme degli oggetti si erano fatte
incerte, Vittoria non poteva prenderli né spostarli. Osservò un grande
specchio a muro che non le restituì il riflesso. La sua superficie
sembrava un mulinello, come quando Mamma toglieva il tappo per
svuotare la vasca.
Attratta dalle voci del salotto rimbalzò come una bolla di sapone
sui gradini dell’ampia scala. Al momento di attraversare l’anticamera
sentì qualcun altro dietro la porta d’ingresso rimasta aperta.
Dette un’occhiata fuori.
Da principio vide solo gli alberi agitati dal vento d’autunno.
Pioveva. Pioveva quasi tutti i giorni e, sebbene quella pioggia non
bagnasse, Vittoria preferiva comunque il sole. Seguì con gli occhi il
volo di un uccello nel cielo, ma sapeva che non era vero. Niente era
veramente vero all’esterno dalla casa, gliel’aveva detto Mamma.
Vittoria si chiedeva come fosse una pioggia vera, come fossero fatti
alberi e uccelli veri. Padrino non l’aveva mai portata a vederli, e lei
non aveva mai osato allontanarsi da casa durante i suoi viaggi.
A un certo punto vide un buco, un enorme buco in mezzo al
paesaggio. In quel punto non c’era erba né alberi né pioggia, solo un
vecchio parquet polveroso.
Proprio di fronte, sulla soglia, era seduta una coppia: la Signora
dagli Occhi Strani e l’Omone Tutto Rosso.
Gli amici di Padrino.
Né l’uno né l’altra notarono Vittoria quando si avvicinò. Stavano
parlando, ma per quanto si facesse il più vicina possibile le loro voci
continuavano a giungerle distorte e lontane.
«Ce ne mette di tempo, quello straccione!» protestò la Signora dagli
Occhi Strani. «Terra d’Arco non si trova da sola, e questa villa mi è
insopportabile. Pullula di illusioni, non so più dove guardare».
Lanciò uno sputo in direzione del grosso buco.
Vittoria indietreggiò. Una volta, durante un viaggio, era passata
davanti alla Signora dagli Occhi Strani, e questo l’aveva subito
rispedita a letto al posto dell’Altra Vittoria. La Signora dagli Occhi
Strani era molto particolare, ma forse non poteva vederla.
L’Omone Tutto Rosso si appoggiò con i gomiti sullo scalino dietro
di sé. Vittoria notò che aveva un sorriso curiosamente goloso, come
se di colpo gli fosse venuta voglia di mangiare la Signora dagli Occhi
Strani.
«Io so benissimo dove guardare».
La Signora dagli Occhi Strani si calò il berretto sugli occhi facendo
sparire il viso nonché il buco del giardino.
«Sto parlando seriamente, René. Da quando Madre Ildegarda è
morta non mi sento più a mio agio qui, né a Città-cielo né nel resto
del Polo. Posso abituarmi all’idea che i nobilastri mi detestino, è
reciproco, ma mi dà la nausea vedere i nostri vecchi compagni
appiattirsi come tappetini davanti a me. Dei codardi! Parlano di
sciopero, di contestazione, di rivendicazioni... e se la fanno sotto
davanti al primo aristocratico che passa. Come possiamo mai
sconfiggere Dio se non siamo capaci di ribellarci a qualche marchese?
Che ne dici, signor sindacalista? Sei consapevole che il solo farti
vedere con me ti fa passare per traditore?».
L’Omone Tutto Rosso posò la mano sulla testa della Signora dagli
Occhi Strani e la tirò a sé.
«Il primo che dice una parola contro la mia padrona, una sola, gli
faccio saltare tutti i denti. Anch’io sto parlando seriamente, Gaela».
La Signora dagli Occhi Strani non disse altro, ma Vittoria colse un
sorriso sotto la visiera del berretto. Non aveva mai visto Padre e
Mamma comportarsi in quel modo, e il pensiero le suscitò un dolore
nell’altro corpo, quello che era rimasto a letto.
Distolse lo sguardo e vide Salame sulle scale che la fissava con i suoi
grandi occhi gialli. Non aveva mai accarezzato Salame, Mamma
trovava che i gatti fossero troppo pericolosi per lei, ma ne aveva
sempre avuto voglia. Quando allungò una mano timida verso di lui,
Salame soffiò e corse via così rapidamente che l’Omone Tutto Rosso e
la Signora dagli Occhi Strani sobbalzarono.
Vittoria corse dentro casa sicura di aver commesso una sciocchezza
imperdonabile. Per un attimo fu tentata di tornare a essere l’Altra
Vittoria nel letto e dormire come le aveva detto Mamma, ma appena
sentì il suono dell’arpa dimenticò lo spavento.
Il richiamo del viaggio ebbe di nuovo la meglio.
Entrò nel grande salotto. Rallentò vedendo Grande Madrina presso
una finestra con le braccia conserte, le sopracciglia aggrottate e gli
occhi puntati sulle nuvole. Ancora Vittoria non la conosceva bene.
L’aria severa e la pelle giallastra la intimidivano un po’.
Per fortuna c’era Mamma. Era seduta all’arpa, e le sue belle mani
tatuate volavano da una corda all’altra come i finti uccelli del parco.
Vittoria si avvicinò per farsi coccolare, ma Mamma non la vide. La
sua musica era evanescente come il proprio corpo.
Con vivo piacere vide che c’era anche Padrino, steso di traverso su
una poltrona. Sfogliava buste come se fossero state un mazzo di carte
da gioco.
«Ancora proposte di matrimonio! Non ha nemmeno tre anni ed è
già considerata il miglior partito del Polo. Le rifiuteremo tutte,
vero?».
Anche la sua voce era distorta, e Vittoria dovette impegnarsi con
tutte le sue forze per sentirlo. Mamma continuò a suonare l’arpa
senza rispondere.
«Non suonate mai tanto bene come quando siete infuriata con me»
continuò Padrino con un sorriso largo come lo spacco del suo
cappello. «Ve l’ho riportata sana e salva, no? È rimasta all’interno
della Rosa dei Venti. So che Città-cielo non vi ispira niente di buono,
ma non potete tenere vostra figlia chiusa in questa villa per l’eternità.
Credetemi, ho fatto così con le mie ex sorelle, e in due anni sono
diventate più scandalose di quanto non lo sia stato io in tutta la mia
vita».
Vittoria non capiva di che parlasse, troppe parole complicate tutte
insieme, ma non le importava. Padrino aveva i capelli più che
spettinati, le guance coperte da una peluria dorata e stava sulla
poltrona in maniera decisamente scomposta. Lo amava alla follia.
«Suvvia, Berenilde» insisté sventolando le buste come fossero state
un ventaglio. «Presto mi rimetterò in viaggio, non salutiamoci
litigati».
Mamma scoppiò in una risata musicale come l’arpa.
«Viaggio? Vagabondare da una Rosa dei Venti all’altra alla ricerca
di un’arca che sapete fuori dalla vostra portata? Più che viaggio lo
definirei una fuga».
Il sorriso di Padrino si allargò. Vittoria si arrampicò sulla poltrona
per toccargli la guancia non rasata e pungersi le dita, ma non sentì
niente e ci rimase male.
«Oh, comincio a capire. Non mi state rimproverando per la
scappatella con vostra figlia, vero? Quello che non riuscite a mandare
giù è che non sia tornato con la mogliettina di Thorn».
Le mani di Mamma volavano sempre più veloci sulle corde, ma
Vittoria capì che qualcosa non andava. Una volta, rincalzandole il
letto, Mamma le aveva detto di possedere grandi unghie nascoste di
cui non avrebbe esitato a servirsi se qualcuno avesse cercato di far
loro del male. Certe volte, quando Mamma era molto contrariata,
Vittoria le aveva quasi sentite.
In quel momento le vedeva.
Un’ombra si stava formando tutto intorno a Mamma, un’ombra
irta di artigli ancora più minacciosi di quelli della pelliccia d’orso
appesa all’attaccapanni della biblioteca. Tanto era spaventosa l’ombra
quanto era bella Mamma.
«Dov’è?» domandò calmissima. «Dov’è Ofelia?».
Grande Madrina si staccò dalla finestra e guardò Padrino, che le
strizzò l’occhio.
«Potete chiedermelo quanto volete» ribatté lui. «La risposta sarà
sempre la stessa. Ofelia ci ha fatto promettere di non dirlo a nessuno,
neanche a voi. La specialità della Rete non è forse quella di
proteggere i segreti?».
«Il vostro clan vi ha rinnegato, Archi».
Mamma l’aveva detto con voce carica di tenerezza, ma Vittoria vide
l’ombra irta d’artigli ingrandirsi ancora di più. Padrino scoppiò a
ridere. Non la vedeva, lui, l’ombra terribile di Mamma?
«Touché!» disse lanciando il pacchetto di buste su un tavolino
basso. «Eppure, che vi piaccia o no, manterrò il segreto, cara amica.
Ofelia mi ha incaricato di trasmettervi un unico messaggio. Una
promessa. Ritroverà Thorn».
L’ombra intorno a Mamma scomparve come una nuvola di fumo.
Posò le mani sulle corde dell’arpa per farla tacere. Il silenzio fu quasi
più forte di un grido. Eppure Mamma era calma come al solito.
«C’è stato un tempo in cui padroneggiavo a meraviglia le regole del
gioco, anche se la lezione per impararle è stata spesso crudele. Oggi le
regole non sono più le stesse. I nuovi clan ci impongono le loro
riforme e i domestici tramano alle spalle dei padroni. Evito la corte
come una decaduta, ho congedato tutta la servitù. Quanto al nostro
sire... lui ci prova, capite? Ci prova realmente, e tutti si approfittano
di lui. I ministri gli danno l’assillo continuo. Non lo vedo da
settimane, eppure sto qui e gli scrivo ogni giorno. Volete sapere
perché, Archi? Perché ne ha bisogno. Ha bisogno di me e forse ancora
più di sua figlia. La verità è che sono terrorizzata» aggiunse Mamma
con voce più dolce. «Sono terrorizzata perché il mondo che credevo
di conoscere è solo un ingranaggio tra migliaia d’altri ingranaggi
all’interno di un meccanismo che va oltre la mia capacità di
comprendere. Quel meccanismo mi ha rubato Thorn, e non voglio
che se la prenda con mia figlia. Il mondo fuori da queste mura è
diventato troppo pericoloso per noi. Rimanete con me e mia figlia, vi
prego. Non lasciateci sole».
Vittoria sentì nel suo altro corpo, al piano disopra, un singhiozzo
risalirle lungo la gola. Non capiva niente di quella conversazione, ma
una parte di lei sentiva confusamente che Mamma soffriva e che in
qualche modo era colpa di Padre.
Padre faceva paura. Molto più di Salame. Molto più dell’ombra di
Mamma. Le poche volte che Vittoria l’aveva visto non le aveva detto
una parola, non aveva fatto un gesto, non l’aveva neanche guardata.
Padre non le voleva bene.
Con due piroette Padrino scese dalla poltrona e svuotò il fondo di
una caraffa in un bicchiere.
«Recidendo il filo la Rete mi ha condannato alla solitudine eterna.
Voi sarete pure abituata, ma in tutta franchezza non capisco come
possiate sopportare di rimanere qui giorno dopo giorno. Per me
l’immobilità è diventata insopportabile!».
Si mise a ridere come se avesse detto qualcosa di buffissimo, e
Vittoria pensò che sarebbe stato il miglior papà del mondo.
Padrino bevve metà bicchiere e porse l’altra metà a Mamma.
«Ho molti vizi, ma non l’ingratitudine. Ho perso la mia famiglia,
ma in cambio ne ho trovata un’altra. Avreste potuto legittimamente
scegliere un altro tutore per vostra figlia, invece avete tenuto me
nonostante tutto. Che ci crediate o no, quello che sto facendo oggi lo
faccio anche per voi, per Vittoria, per Ofelia e, anche se dirlo mi
brucia la lingua, per Thorn. Pure per voi, signora Roseline».
Padrino fece un altro occhiolino a Grande Madrina che strabuzzò
gli occhi, anche se di colpo Vittoria la trovò molto meno gialla e
molto più rosa. Poi si tolse l’alto cilindro sfondato, mormorò
«Madame!» e lasciò il salotto accennando un passo di danza.
Vittoria ebbe voglia di mollare l’altro corpo in camera e seguire
Padrino fuori dalla casa, andare con lui a vedere gli alberi veri e gli
uccelli veri.
«Non ha completamente torto» disse bruscamente Grande Madrina
col suo strano accento. «Non siete sola, Berenilde. Ho appena
attraversato la metà delle arche per venire a trovarvi, e sono
fermamente intenzionata a imporvi la mia compagnia. E poi,
guardate il tempo che suscitate!» si innervosì battendo la mano sulla
finestra. «Casa vostra è più deprimente di un barattolo di cetriolini.
Dovrò tirarvi su, e tanto per cominciare dare una bella pulita. Che
direbbe Thorn se vedesse casa vostra coperta di polvere?».
Mamma si lasciò sfuggire una risatina di cui sembrò la prima a
stupirsi.
«Si rifiuterebbe di entrare».
Vittoria tornò a essere l’Altra Vittoria nel letto. Sbadigliò e chiuse
gli occhi, intorpidita da quel corpo troppo pesante. Fuori aveva
smesso di piovere. Se Grande Madrina era capace di riportare il sole
valeva la pena di rimanere ancora un po’ a casa.
I GUANTI

Una violenta ventata scosse la scala. Ofelia lasciò cadere la


lampadina consumata che aveva appena svitato dalla cima del
lampione e si aggrappò ai montanti aspettando che la raffica si
esaurisse per prenderne una nuova dal tascapane. Le lampadine di
Heliopolis racchiudevano luce allo stato puro. Non necessitavano di
combustione di gas né di alimentazione elettrica, e non scottavano le
dita quando venivano toccate. Le avvitavano solo per evitare che si
rompessero al primo colpo di vento. La città le aveva adottate con lo
stesso entusiasmo manifestato per i transcendium di Cyclope. Con le
palpebre abbassate per non farsi accecare, Ofelia le maneggiava
stando attenta a non romperle tutte: non aveva infatti nessuna voglia
di indebitarsi oltre con la Buona Famiglia. Le ore che perdeva in
corvée supplementari erano ore sottratte all’apprendimento, e il suo
tempo era contato.
«Apprendista Eulalia, accelerate il ritmo».
Ofelia guardò l’altoparlante a tromba in cima alla torre di
osservazione, dove tutta una squadra di sorveglianti teneva d’occhio
ogni angolo del conservatorio tramite un reticolo di periscopi. Erano
spietati.
Con la scala sottobraccio costeggiò il muro esterno fino al
lampione successivo recitando ad alta voce l’ultima lezione
radiofonica. Fenomenologia, epistemologia, biblioteconomia,
sincronia, diacronia: ogni volta che andava all’anfiteatro e si metteva
le cuffie aveva la sensazione di ficcarsi nelle orecchie un imbuto che
le riversava dentro un fiume di parole impronunciabili. Anziché
sentirsi più sapiente le sembrava di essere sempre più ignorante. Il
museo di Anima non l’aveva preparata a quella prova.
Eppure erano lezioni abbordabili, se paragonate a quelle impartite
da lady Septima. In laboratorio Ofelia non faceva che leggere per
affinare le proprie perizie, leggeva per ore, fino ad averne la nausea,
ma la professoressa non era mai soddisfatta. «Le vostre mani
mancano di precisione».
Avvitò energicamente la lampadina abbagliante sul lampione. Le
restavano tre giorni per dimostrare a tutti che era idonea a far parte
dei gruppi di sir Henry. Avrebbe studiato di notte, se necessario, ma
avrebbe raggiunto l’obiettivo!
Il vento portò il suono lontano del gong. Finalmente l’alba.
«Apprendista Eulalia, la corvée è terminata!» annunciò la voce.
«Tornate alla vostra divisione».
Ofelia scese dalla scala ben contenta di aver finito. Dette tuttavia
un ultimo sguardo al mare di nuvole che orlava le mura. L’alta torre
del Memoriale, inerpicata sulla piccola arca, era appena visibile nella
trasparenza cristallina del mattino.
Già diciotto giorni. Erano trascorsi diciotto giorni da quando miss
Silence vi aveva trovato la morte, e più nessuno ne parlava. Il Giornale
ufficiale della città aveva archiviato il caso come incidente, le voci
erano cessate e i gruppi di lettura erano ripresi. La faccenda era stata
considerata chiusa.
Ma non per Ofelia.
Una donna era morta in circostanze poco chiare poco dopo che lei
era arrivata a Babel, nel luogo nodale delle sue ricerche: non poteva
essere una coincidenza. Ofelia sarebbe già andata sul posto se non
fosse stata trattenuta al conservatorio dal regolamento interno.
Doveva pazientare ancora. Alla fine avrebbe avuto accesso al
Secretarium del Memoriale e, nella stessa occasione, alle risposte che
andava cercando.
Si avviò sotto gli archi dei camminamenti, in cui brandelli di
nebbia si attardavano tra le colonne, poi passò sotto il portico del
Foyer. Sulle pareti e sui soffitti dell’atrio gli apprendisti erano già
impegnati in discussioni. In quel luogo regnavano dissapori continui,
tutti sospettavano sempre tutti di furto di idee. Appena gli spiriti si
scaldavano l’altoparlante a tromba del Foyer intimava la calma e
ognuno si rimetteva docilmente a lavorare. Certe volte a Ofelia
sembrava che il conservatorio dei virtuosi si dedicasse più ad
ammaestrare che a educare.
In guardaroba, dov’era andata a riconsegnare la tuta da lavoro e
indossare la divisa, si ritrovò faccia a faccia con un gruppo di
Totemisti che si stavano spogliando. Una volta la sorella Agata, che
era abbonata alla Gazzetta della moda attraverso le arche, tra una
risatina maliziosa e l’altra le aveva detto che le donne e gli uomini di
Totem aveva i corpi più belli del mondo. Pur non essendo una
specialista della materia, Ofelia non poté che essere d’accordo. I
Totemisti la salutarono con un sorriso tanto luminoso quanto scura
era la loro pelle, e lei fece del suo meglio per ricambiare senza
apparire imbarazzata. La Buona Famiglia era un istituto misto fin nei
minimi dettagli della vita quotidiana. O si metteva da parte il pudore
o si lasciava il posto a qualcun altro.
Aprì l’armadietto col suo nome, dispiegò il paravento e si tolse la
tuta. Non vedeva l’ora di rimettersi i guanti! Ne aveva un solo paio, e
per risparmiarli non li indossava durante i lavori di fatica. Ogni
contatto con gli oggetti, per quanto effimero, affollava di visioni la
sua percezione. Anche quando si trattava dei suoi effetti personali
ripiombava inevitabilmente nel proprio passato, nelle vecchie
emozioni, nei pensieri obsoleti.
Infilandosi la divisa tornò nel presente e constatò che abbottonarsi
era diventato sempre più facile. Quella stessa redingote che appena
arrivata le comprimeva la pancia ormai le permetteva di respirare
agevolmente. Era dimagrita, e non solo per i giri di pista
regolamentari o per la cucina vegetariana della mensa. Nel
conservatorio, sull’intera arca, c’era qualcos’altro che la scavava
dall’interno mettendola in uno stato di tensione permanente.
Dette un’occhiata in giro per controllare che non ci fosse più
nessuno oltre lei. I Totemisti se n’erano andati. Svuotò l’armadietto
di tutti i quaderni, vero e proprio groviglio di appunti, e rimosse il
doppio fondo che celava il nascondiglio. A forza di veder sparire le
sue cose aveva preso contromisure radicali.
I guanti non c’erano più.
Frugò meglio, sbatté la testa chinandosi. C’erano i documenti falsi
e l’orologio rotto di Thorn, ma i guanti, che era assolutamente certa
di aver messo lì, si erano volatilizzati.
“Esistono tanti tipi di tormento” l’aveva avvertita Mediana.
Richiuse l’armadietto. Stavolta era troppo.

«Non ci riguarda».
Gli Indovini l’avevano esclamato in coro nello stesso istante in cui
Ofelia era entrata nel dormitorio, senza darle il tempo di fare la
domanda. Anticipavano sempre le sue reazioni, e non era neanche la
più antipatica delle loro piccole manie. Stavano preparandosi con
ancora più cura del solito, cospargendosi le barbette di brillantina e
lucidandosi le alette degli stivali. Sulla civetteria, Ofelia aveva
imparato più cose in quelle due settimane con i ragazzi che in anni
circondata da donne.
«Dove sono i miei guanti?» domandò ugualmente.
«Percepisco forse un rimprovero nella tua voce, mademoiselle?».
Ofelia alzò gli occhi verso il soffitto su cui Mediana stava facendo
esercizi ginnici.
«Materasso, divisa, stivali e quaderni li metto sul conto di un
umorismo di dubbio gusto. I guanti è furto. Se vi fa paura la
concorrenza battetevi lealmente».
«Parla più piano» disse Mediana compiendo col suo lungo corpo
flessuoso un esercizio di scioglimento. «Stai deconcentrando Zen».
E indicò una donna delicata come una bambola orientale china sul
leggìo. Le sue belle mani di porcellana esercitavano una pressione su
un carillon che si miniaturizzava a vista d’occhio emettendo una
melodia sempre più acuta. Smise solo quando il carillon si ridusse alla
grandezza di un ditale e al ronzio di un insetto. Poi invertì il
movimento, allargò le mani come se tirasse un elastico invisibile e il
carillon cominciò a crescere come un fungo.
Oltre a Ofelia, Zen era l’unica precorritrice della divisione a non
fare parte della famiglia di Mediana. Era una Colossa di Titan, e in
quanto tale poteva modificare massa e dimensioni degli oggetti. Era
specializzata nella fabbricazione di microdocumenti, una capacità
molto utile per lo stoccaggio di informazioni, e si allenava senza sosta
a miniaturizzare oggetti sempre più complessi. Zen sarebbe stata la
migliore nel suo campo se non avesse avuto un carattere
particolarmente ansioso: ogni minima contrarietà le faceva perdere la
testa.
«Ho bisogno dei miei guanti» ripeté Ofelia con durezza. «Sono fatti
di una pelle speciale e molto rara, l’unica in grado di filtrare il mio
potere».
Mediana si allungò come una molla per strapparsi alla gravità del
soffitto e atterrare davanti a Ofelia con un grazioso quanto pericoloso
saltello. Con le mille luminescenze che le solcavano la pelle sembrava
un’acrobata pronta per lo spettacolo.
«Forse li hai persi. Vuoi che guardi nel tuo passato?».
Ofelia si tirò indietro quando Mediana provò a posarle la mano
sulla nuca. I cugini potevano sapere in anticipo ciò di cui stavano per
essere testimoni, ma il potere di Mediana era ancora più indiscreto.
Mediana entrava in risonanza con la memoria cosciente o rimossa di
tutte le persone a cui toccava la spina dorsale. Era la precorritrice per
eccellenza, quella a cui nessun segreto può resistere.
«Non li ho persi» ribadì Ofelia, categorica.
«Su Babel la disonestà è severamente punita dalla legge,
apprendista Eulalia. Faresti bene a pensarci due volte prima di
accusare qualcuno».
Ofelia contrasse le mascelle. Cosa stava cercando di dirle Mediana,
in verità? Che aveva scoperto la sua falsa identità? La maschietta era
più alta e muscolosa di lei, tuttavia nel suo tono di voce non c’era
alcuna minaccia. Aveva l’astuzia e la capacità di rivestire ogni
avvertimento di una patina amichevole.
«Voglio solo recuperare i miei guanti» insisté Ofelia. «Se ci mettete
buona volontà ce la metterò anch’io».
Mediana fece un’alzata di spalle voltandosi da un’altra parte, e
tutta la camerata si disinteressò definitivamente della questione.
Ofelia sentì che le tremavano le mani. Già una volta le era capitato
di dover rimanere un’intera giornata senza guanti in attesa che il
guantaio di Anima gliene confezionasse di nuovi, e aveva rischiato di
impazzire. Indossare guanti normali aveva peggiorato le cose
costringendola a leggere i propri stati d’animo via via che il tessuto se
ne impregnava.
Se non trovava al più presto una soluzione non poteva restare a
Babel.
Sussultò sentendo gli altoparlanti del Foyer:
«Esame di coscienza! Tutte le compagnie si rechino in palestra.
Esame di coscienza!».
Zen si nascose il viso da bambola orientale nelle mani, gemendo. Il
carillon che aveva riportato alle dimensioni originarie emetteva una
melodia completamente stonata.
«Ecco, ho sbagliato la decompressione» si lamentò.
Gli Indovini della camerata finirono in tutta tranquillità di
aggiustarsi le uniformi. Erano più eleganti che mai. Naturalmente
avevano previsto in anticipo quella convocazione a sorpresa.
Ofelia era così sgomenta dalla perdita dei guanti che seguì gli
apprendisti in giardino senza chiedersi in che consistesse l’esame di
coscienza. Tutto intorno ognuno controllava che la propria redingote
fosse abbottonata nella maniera giusta, che il colletto fosse a posto e
che l’emblema della compagnia fosse ben visibile. Era stata più volte
sull’arca gemella in occasione di lezioni in comune con l’altra
divisione di precorritori, ma era la prima volta che metteva piede
nella palestra. Era un gigantesco palazzo di vetro e acciaio che non
poteva essere neppure paragonato allo stadio fangoso in cui faceva i
suoi quotidiani giri di pista.
Le compagnie si allinearono a ranghi serrati, virtuosi di Polluce a
destra e virtuosi di Helena a sinistra, in una simmetria quasi perfetta.
Solo Ofelia spezzava l’armonia visiva cercando di raccapezzarsi in
mezzo al labirinto di divise.
«Per di qua, apprendista. Il posto dietro di me».
Era stata Elizabeth a indicarle un posto nella fila dei precorritori.
Ofelia si posizionò evitando di toccarsi i pantaloni con le mani per
non ripiombare in un’altra lettura incontrollabile.
«Devo urgentemente parlarvi, Elizabeth. Mi hanno preso i guanti
da lettrice. Senza i guanti non sono più in condizione di lavorare...».
«Ti avevo detto di stare attenta, apprendista».
Il suo tono non ammetteva repliche. Ofelia contemplò in silenzio i
capelli fulvi che avvolgevano la figura filiforme di Elizabeth. Sebbene
fosse la responsabile dei precorritori di Helena, quell’aspirante
virtuosa non si immischiava mai nelle loro dispute.
Né Ofelia avrebbe trovato in lei un’alleata.
Mentre rifletteva a tutta velocità cercando disperatamente una
soluzione al problema e ansimando per l’umidità della palestra colse
nell’angolo degli occhiali uno sguardo rosseggiante. Proveniva dalle
file dei precorritori di Polluce alla sua destra. Non aveva bisogno di
voltarsi per sapere chi fosse: era ancora e sempre Octavio, il figlio di
lady Septima. Nonostante le molte ore passate insieme in laboratorio
non le aveva mai rivolto la parola, ma non perdeva occasione per
guardarla dall’alto in basso, azione non facile visto che anche lui non
era molto alto. Octavio possedeva un senso dell’osservazione
superiore a quello della madre, il che non era poco. Era in grado di
datare qualsiasi campione sottoposto ai raggi dei suoi occhi, e si
diceva che fino a quel giorno non avesse mai sbagliato una perizia.
Ofelia avrebbe fatto volentieri a meno di quella ripetuta attenzione,
tanto più che non aveva niente di lusinghiero. Octavio non la
guardava come un ragazzo può guardare una ragazza, la teneva
d’occhio. Se il suo status di Figlio di Polluce non l’avesse costretto a
stare nel proprio dormitorio, Ofelia era sicura che avrebbe trascorso le
notti seduto accanto al suo letto.
Certe volte aveva la sgradevole impressione che fosse Dio stesso a
spiarla attraverso quegli occhi.
Schivando con cura lo sguardo insistente di Octavio dette
un’occhiata intorno a sé. Per avere una visuale d’insieme era costretta
a issarsi sulle punte degli stivali. La Buona Famiglia era lì riunita al
gran completo: apprendisti di tutte le compagnie, aspiranti di primo
grado, aspiranti di secondo grado, professori di specializzazione,
personale amministrativo. C’erano anche i Lord di LUX, veri e propri
astri solari viventi col loro sfoggio di dorature che brillavano alla luce
proveniente dalle finestre. Fra loro si trovava anche lady Septima,
bassina, silenziosa, calma. Inspiegabilmente imponente.
In mezzo a tutte quelle facce Ofelia vedeva solo il volto mancante.
Alla fine se n’era fatta una ragione, anche se la constatazione l’aveva
amareggiata più di quanto non volesse ammettere: Thorn non si
trovava alla Buona Famiglia.
Si sentì sola in quella folla di uniformi. In passato, benché avesse
attraversato dure prove, aveva sempre potuto contare su appoggi
solidi. In quel momento al suo fianco non c’erano né la zia Roseline
né il prozio, Berenilde, Renard, Gaela, Archibald, la sciarpa. Gli
apprendisti avevano diritto a ricevere una visita, ma chi avrebbe
potuto invitare? Aveva bombardato Ambroise di telegrammi, ma la
sua unica risposta era stata:
La vostra borsa è ancora da me. Volete che ve la rimandi?
A un certo punto tutti gli apprendisti si misero sull’attenti
portandosi il pugno al petto. Lo schiocco dei tacchi produsse
un’esplosione sonora che si ripercosse sui vetri.
Stavolta Ofelia non ebbe bisogno di mettersi sulle punte per vedere
chi era salito sul palco. La figura elefantiaca di Helena dominava
l’assemblea dall’alto, mentre il suo apparecchio ottico passava in
rassegna ogni faccia. I suoi arti erano di proporzioni così inverosimili
gli uni rispetto agli altri che veniva da chiedersi come facesse a
mantenersi in equilibrio. Lo capì sentendo acuti cigolii sul parquet
della palestra: l’enorme vestito di Helena era teso intorno a una
crinolina su ruote.
C’era anche l’altro spirito di famiglia, Polluce in persona. I tratti del
suo corpo e del suo viso erano armoniosi quanto quelli della sorella
erano caotici. Non aveva bisogno di apparecchi per correggere la
portata della sua vista e gli occhi gli ardevano come fari sulla pelle
scura. Ma la cosa che la colpì di più fu il suo sorriso, un sorriso pieno
di benevolenza che non aveva mai visto in Helena né in Artemide né
in Faruk.
«Miei cari figli, grazie di essere tutti qui riuniti».
La voce di Polluce era bassa, calda, musicale, simile alla vibrazione
profonda di un violoncello. Una voce da padre. Il suo sguardo
abbracciava l’intera assemblea degli apprendisti, come se fossero tutti
della sua discendenza, senza distinzioni di pelle o di poteri.
“Ventuno spiriti di famiglia” pensò Ofelia, “ma ognuno è unico”.
«Voi siete la pupilla dei nostri occhi, miei e di mia sorella»
continuò Polluce. «Non siete tutti destinati a diventare virtuosi, ma
lo stesso, ognuno a suo modo, rappresentate il futuro della città,
indipendentemente dal posto che occuperete una volta usciti dal
conservatorio».
Ofelia aggrottò le sopracciglia. Lady Septima stava in disparte sul
palco tra i Lord di LUX e muoveva le labbra insieme a quelle di
Polluce. Lo spiava con la coda dell’occhio, come avrebbe fatto un
professore con un alunno da cui si aspetti una recitazione perfetta.
La giovane Animista osservò le espressioni degli apprendisti
intorno a sé. Dal fervore con cui si bevevano il discorso era evidente
che per ognuno di loro il solo posto al mondo che valesse la pena di
essere occupato era quello di virtuoso. Peraltro, solo uno per
divisione avrebbe avuto quell’onore.
Sul palco il sorriso di Polluce si allargò.
«Sento i battiti del vostro cuore che rallegrano il mio. Grazie ai
vostri genitori e ai genitori dei vostri genitori viviamo in un’èra di
pace e prosperità quale il vecchio mondo non ha mai conosciuto,
una pace e una prosperità di cui anche voi vi state accingendo a
essere i garanti».
Polluce lasciò che scendesse un lungo silenzio come raramente
Ofelia aveva sentito in una sala piena, uno di quei silenzi che le
davano sempre una voglia irresistibile di tossire, ma lottava contro
una voglia ancora più grande, quella di alzare la mano e chiedere che
per l’appunto raccontassero loro qualcosa in più del vecchio mondo.
Facevano imparare a memoria la storia delle tecnologie, le formazioni
geologiche, le evoluzioni linguistiche e le infinite microscopiche
ramificazioni dell’albero genealogico interfamiliare, ma non si
parlava mai di cosa fosse l’umanità prima della Lacerazione.
«Ora, cari figli, vorrei parlarvi... vorrei parlarvi...».
Polluce si interruppe. Aveva dimenticato il seguito del discorso. In
una frazione di secondo il carismatico padre di famiglia sembrò perso
come un bambino. Si voltò verso Helena, che con l’enorme bocca
risolutamente chiusa e gli occhiali telescopici puntati altrove si
guardò bene dal venirgli in aiuto.
Ofelia notò lady Septima muovere di nuovo le labbra sul fondo del
palco e Polluce girarsi istintivamente verso di lei. Quello spirito di
famiglia era un burattino, un gigantesco e magnifico burattino.
«Ah sì» fece Polluce restituendo al proprio sorriso tutta la sua
ampiezza. «Io e mia sorella vogliamo ringraziare personalmente i
mecenati di LUX che finanziano il conservatorio e si impegnano a
instillare in ognuno di voi l’essenza stessa della cittadinanza, una
cittadinanza che reprime da sé gli istinti meno nobili e più sovversivi.
Miei cari figli, a voi la parola: confessatevi!».
Ofelia fu colta alla sprovvista. Chi doveva confessare cosa?
All’estremità della prima fila un apprendista fece spontaneamente
un passo avanti e dichiarò con voce stentorea:
«Giuro solennemente di non aver mentito né imbrogliato né
rubato né contravvenuto in alcun modo alla legge della città».
«Bene» rispose Polluce con infinita dolcezza. «Se qualcuno ha
obiezioni da fare, che si esprima adesso».
Nessuno fece obiezioni. L’apprendista riprese il proprio posto,
mentre il vicino fece un passo avanti per rilasciare un’identica
dichiarazione. Lo stesso fece ogni membro di ogni divisione di ogni
compagnia. Ogni tanto l’uno o l’altro confessava pubblicamente uno
sbaglio, come l’allievo che aveva sprecato cibo non terminando il
piatto o l’allieva che aveva copiato di nascosto gli appunti di una
compagna perché era stata distratta a lezione. In quei casi il
responsabile della compagnia proponeva una sanzione e Polluce
annuiva per approvazione.
Ofelia era esterrefatta.
Capì la ragione che spingeva i colpevoli ad autodenunciarsi
quando assisté alla prima contestazione. Un apprendista tabellione
aveva giurato di aver rispettato la legge, e subito nel pubblico si era
alzata una mano.
«Obiezione! L’ho sentito pronunciare una parola vietata
dall’Index».
Un mormorio si propagò per tutta la palestra e il sorriso benevolo
di Polluce vacillò, come se la cosa l’avesse colpito personalmente.
«Apprendista, cos’avete da rispondere all’obiezione?».
Era stata Helena a mettere fine ai mormorii con voce sepolcrale,
prendendo la parola per la prima volta da quando era cominciata la
riunione. Spostò le lenti rimovibili del suo apparecchio ottico per
vedere bene l’accusato. Si trattava di uno dei suoi figliocci.
«Protesto» disse l’apprendista tabellione. «Non era proprio...».
«O era o non era» lo interruppe Helena. «Altri testimoni hanno
sentito pronunciare la parola vietata?».
Molte mani si alzarono. Ofelia vide le orecchie dell’apprendista
tabellione, due file davanti a lei, diventare paonazze. Lei stessa non se
la passava tanto bene. Quell’esame di coscienza sembrava più che
altro un processo pubblico.
«Le mie più sincere scuse» balbettò l’apprendista tabellione. «Ho
solo detto una volta, nel corso di un dibattito retorico, che era inutile
combattere, ma era chiaramente da intendersi in senso figu...».
«Vi siete reso tre volte colpevole» intervenne lady Septima. «Per
aver commesso un peccato, per non averlo confessato e per averlo
commesso di nuovo ora. La scelta della punizione tocca a voi, lady
Helena, ma non posso che suggerirvi la quarantena».
«Così sia» approvò Helena senza la minima emozione.
«Apprendista, siete posto in stato di quarantena a partire da adesso.
Per quaranta giorni non potrete parlare con nessuno e nessuno avrà
l’autorizzazione a parlarvi. Siete temporaneamente bandito da tutte le
attività collettive e privato dei vostri privilegi. Niente permessi,
niente visite, niente corrispondenza. Seguirete le lezioni in silenzio e
avrete diritto a prendere la parola solo se un superiore vi rivolgerà
direttamente una domanda».
Ofelia vide le orecchie dell’apprendista tabellione passare dallo
scarlatto al più estremo pallore. Quanto alle sue, ronzavano come
alveari. Si era sentita sola, poco prima, ma non osava neanche
immaginare cosa sarebbe stata la solitudine del collega. Una
punizione tanto severa per aver usato il verbo “combattere”? Lavorare
per la pace voleva dunque dire quello? Per quanto si voltasse in tutte
le direzioni nessuno tra le file pareva minimamente scandalizzato. Si
sforzò di contenere l’emozione appena incrociò lo sguardo di Octavio
che la osservava da dietro la lunga frangetta nera.
L’esame di coscienza ricominciò e Polluce, dimenticato l’incidente,
riprese tutta la sua benevola aria paterna.
Quando toccò a Ofelia il cuore le batteva così forte da farle sperare
che né Helena né Polluce lo sentissero dal palco. I compagni di
camerata avevano parlato prima di lei, e nessuno di loro aveva
confessato di averle rubato i guanti. Che sarebbe successo se avesse
esposto il caso in pubblico? Non si sentiva in grado di sollevare uno
scandalo, non con dei documenti falsi nell’armadietto.
«Giuro solennemente di non aver mentito né imbrogliato né
rubato né contravvenuto in alcun modo alla legge della città».
La vocina di Ofelia faceva poca strada, così provò un autentico
sollievo quando Polluce le sorrise senza chiederle di ripetere.
«Bene. Se qualcuno ha obiezioni da fare, che si esprima adesso».
Ofelia vide una mano alzarsi sulla destra. Sentì il sangue bruciarle
nelle vene. Era Octavio. Puntava gli occhi rossi davanti a sé. Per
effetto del movimento la catenella d’oro gli dondolava lungo la
guancia.
Octavio sapeva.
Sapeva e stava per denunciarla.
«Questa non è un’obiezione, ma una richiesta» disse invece il
giovane in tono misurato. «L’apprendista Eulalia ha bisogno di un
nuovo paio di guanti. Sono strumenti di lavoro, le sono
indispensabili per proseguire nell’apprendimento. Dato che è ancora
in periodo di prova chiedo per lei un permesso straordinario perché
possa andare in città».
Dal palco lady Septima squadrò il figlio con uno sguardo più
incandescente del solito, sconcertata. Ofelia, dal canto suo, era più
che sbalordita.
«Permesso accordato» si limitò a dichiarare Helena. «Prossima
confessione».
Ofelia si mordicchiò le labbra aspettando con ansia la fine
dell’esame di coscienza. Appena gli apprendisti furono autorizzati a
rompere le righe si diresse verso Octavio con la determinazione di
una palla di cannone.
«Grazie».
Suo malgrado, la parola le era uscita con un’inflessione di sfida.
L’aveva aiutata, e ora lei voleva sapere in cambio di cosa.
Octavio inarcò sopracciglia nere e così ben delineate da sembrare
accenti circonflessi. Era la replica esatta della madre: le sfumature
delle più microscopiche espressioni prendevano in lui una piega
imponente. Non aveva bisogno di un’alta statura o di un’imponente
muscolatura, il suo carisma era più che sufficiente.
«Ho difeso l’interesse del conservatorio, non il tuo. Se non riesci a
diventare una virtuosa dev’essere per mancanza di competenza, non
di materiale». E senza dare a Ofelia il tempo di reagire aggiunse con
voce neutra: «Quando sei in città vai dal professor Wolf, lui dovrebbe
essere in grado di aiutarti».
«Il professor Wolf?» ripeté Ofelia sempre più stupita. «È un
guantaio?».
«No, un Animista. Non di razza pura, ma è lettore come te. Non ti
sarà difficile trovarlo, quando non fa ricerche al Memoriale sta
tappato in casa sua».
Dopo di che Ofelia non sentì più niente. Il frastuono nel suo petto
sovrastava quello del resto del mondo.
IL LETTORE

Ofelia non sentiva i dardi infuocati del sole su di sé né il ronzio


delle mosche intorno, e neppure vedeva il mare di nuvole solcato
dalla gondola a vela in cui stava seduta. Era focalizzata su un unico
ordine di pensieri: stava per incontrare un altro lettore, un lettore che
non era nato su Anima, un lettore che effettuava ricerche al
Memoriale.
“Non può essere Thorn” ragionava tra sé. “Il mio animismo l’ha
reso un attraversaspecchi, non un lettore”.
Eppure non poteva fare a meno di pensarci. Del resto anche in lei
gli artigli si erano manifestati a scoppio ritardato, varie settimane
dopo il matrimonio.
Con gesto professionale lo Zefiriano che guidava la gondola deviò
di poco il soffio del vento per accostare delicatamente
all’imbarcadero e abbassò la passerella meccanica. Ofelia scese con gli
altri passeggeri senza dover pagare la traversata. La Buona Famiglia le
aveva rilasciato per la giornata una scheda perforata che doveva solo
introdurre nella validatrice di qualunque mezzo pubblico. Era una
libertà illusoria, perché la validazione permetteva al conservatorio di
controllare che gli allievi non circolassero al difuori degli orari
autorizzati. A Ofelia erano state concesse tre ore per fare quel che
doveva fare, né più né meno.
Si aggiustò gli occhiali sul naso. L’isola su cui era appena sbarcata si
trovava ai margini dell’arcipelago di Babel, le cui sagome di
acquedotti e torri deformate dall’aria calda del pomeriggio si
stagliavano in lontananza. La magnificenza del centro città non era
arrivata fin lì. Le case erano addossate l’una all’altra come un unico
blocco di granito, senza giardini o fontane per abbellire l’insieme. Le
strade non erano lastricate, e il vento sollevava una polvere rossa che
crepitava come brace. In compenso c’era tutta una popolazione di
dodo che camminavano con un’andatura dondolante da piccioni
obesi.
Fino a quel momento Ofelia aveva chiesto indicazioni alle guide
segnaletiche pubbliche, ma in quel luogo non c’erano statue-automi
né niente di simile.
«Casa del professor Wolf, per piacere?».
Si era rivolta a un passante che, dopo aver squadrato la sua divisa
dall’alto in basso, le indicò la direzione col dito senza rivolgerle la
parola. Si rese ben presto conto che al suo passaggio gli abitanti del
quartiere la guardavano con aria ostile. Indossavano tutti toghe e
turbanti che sarebbero stati bianchi se la polvere presente
nell’ambiente non li avesse fatti diventare rossi. Senza-poteri. Fu
colpita nel vedere fra loro tanti giovani sfaccendati col muso lungo
che giocavano a dadi sulle soglie, in netto contrasto con l’iperattività
degli automi del centro città.
Dopo aver di nuovo chiesto la strada arrivò finalmente a un
vecchio edificio mezzo sepolto dalle liane. Vedendola avvicinarsi, un
tucano appollaiato sulla ringhiera degli scalini d’ingresso emise versi
acuti, finché una vecchia insonnolita venne ad aprire. La divisa di
Ofelia ebbe su di lei l’effetto di una secchiata d’acqua.
«Miss?» fece sgranando gli occhi.
«Sto cercando il professor Wolf».
Suo malgrado, la voce aveva tradito l’emozione che si sforzava di
tenere a freno da quando aveva parlato con Octavio. Era una
speranza che non poteva assolutamente concedersi.
«Sono la padrona di casa» rispose la donna, stavolta in tono
infastidito. «Ha un suo ingresso indipendente sul retro, ma vi
avverto, non è un tipo facile, quell’inquilino».
Ofelia fece del suo meglio per ignorare il crampo che le
attorcigliava lo stomaco.
«È in casa?».
«Oh, per esserci c’è, miss. C’è pure troppo. Non esce più da quando
ha avuto l’incidente. Che peccato, un uomo così intelligente!».
Altro crampo allo stomaco per Ofelia.
«Che incidente?».
«Non sta a me dirvelo. Dovete solo fare mezzo giro della casa e
bussare alla sua porta. Forse vi aprirà. Forse no».
Ofelia andò sul retro, dove le liane erano ancora più abbondanti
che sulla facciata principale, tanto da aver interamente coperto le
persiane chiuse del pianterreno. Una vera e propria prigione vegetale.
O meglio, un nascondiglio, non poté fare a meno di correggersi
Ofelia deglutendo la poca saliva che le restava. Nessuna targa o
cassetta delle lettere indicava l’identità dell’occupante dei luoghi.
Sobbalzò. Appena si era avvicinata il battente aveva cominciato a
percuotere la porta per annunciare il suo arrivo. Si era animato da
solo.
Un rumore infinitesimale dall’altra parte indicò che qualcuno
aveva sollevato il coperchio dello spioncino. Ofelia si alzò sulla punta
dei piedi per farsi vedere. Dopo un lungo silenzio la porta, trattenuta
da una catenella, si dischiuse. L’uomo non si mostrò. Non disse
niente. Solo dal respiro teso e profondo si capiva che era lì.
In attesa.
Con un nodo alla gola, incapace lei stessa di pronunciare parola,
Ofelia infilò l’attestazione della Buona Famiglia nello spiraglio. Vide
lunghe dita inguantate impadronirsene e sparire nella penombra.
Fruscio di carta. Nuovo interminabile silenzio.
L’uomo sbatté la porta, tolse la catenella e aprì.
Appena Ofelia mise piede in anticamera la porta si richiuse da sola
alle sue spalle e le numerose serrature scattarono da sé con una serie
di sonori clic. Ancora abbagliati dal sole, lei e gli occhiali ci misero un
po’ ad abituarsi all’atmosfera notturna che regnava all’interno. Per il
momento l’uomo era solo un’anonima ombra alta e rigida come un
attaccapanni. Il suo passo circospetto faceva scricchiolare il tavolato
del pavimento. I suoi occhi, simili a piccole scintille nervose in un
forno, continuavano a rimbalzare dal documento alla divisa della
visitatrice.
«Guanti, eh? Richiesta insolita».
Ofelia annuì sforzandosi di sorridere educatamente. Poco a poco il
professor Wolf rivelava i suoi tratti. Capelli, sopracciglia e barbetta
erano neri quanto la sua pelle era pallida. Aveva la fronte e i contorni
della bocca solcati da rughe che gli conferivano l’aspetto di un
quarantenne prematuramente invecchiato.
Non era Thorn.
Perché Ofelia ebbe improvvisamente voglia di andarsene sbattendo
la porta, visto che era stata tutto il giorno a vietarsi di sperare?
«Siete anche muta, oltre al resto?».
Il professor Wolf non aveva né l’accento di un Babeliano né quello
di un Animista, ma una curiosa miscela dei due. Inoltre, forse perché
non usciva più di casa, non rispettava il codice d’abbigliamento della
città: vestito e guanti neri sembravano gli abiti che indossavano gli
scienziati del grande osservatorio di Anima.
«No» mormorò Ofelia.
Ignorava cosa intendesse con “oltre al resto” e non le importava.
Quell’uomo non era Thorn, se ne infischiava di cosa potesse pensare
di lei.
«Stando a questo documento siete anche voi una lettrice» disse il
professor Wolf arricciando le labbra sull’ultima parola. «Una lettrice
che per giunta va in giro a mani nude. Che è successo ai vostri
guanti?».
Ofelia pensò che non erano affari suoi, ma aveva troppo bisogno di
quell’uomo per mostrarsi antipatica.
«Purtroppo sono andati smarriti. Sono qui perché mi aiutiate a
procurarmene un paio. La Buona Famiglia si farà carico di tutte le
spese».
Evitò di specificare che le sarebbe toccato rimborsare il debito a
forza di corvée supplementari.
Il professor Wolf dette un’occhiata scettica alle mani di Ofelia. La
sua rigidità era accentuata da un collare ortopedico di legno che gli
cingeva il collo e che, abbinato al mento a punta, dava alla sua testa
la forma di un piccone. Era forse la conseguenza dell’incidente di cui
aveva parlato la padrona di casa?
«Seguitemi» disse controvoglia.
Il professore fece passare Ofelia dall’anticamera al soggiorno,
immerso nello stesso crepuscolo. La luce del giorno brillava
debolmente attraverso le fessure delle persiane. L’aria era irrespirabile.
Il ventilatore non riusciva né a smuovere il caldo da fornace né a
dissipare l’odore di chiuso. Sulle file di scaffali si intuivano, dietro
vetrine polverose, ossa e fossili che le dettero l’impressione di essere
penetrata in un morboso museo di stranezze. Fu sconcertata nel
vedere sedie, tavoli e cassettoni farsi indietro al suo passaggio come
animali selvatici. Il professor Wolf doveva avere un carattere proprio
diffidente per aver impregnato in quel modo il mobilio col suo
animismo.
La sua sorpresa crebbe quando in mezzo ai trofei archeologici vide
un’impressionante collezione di armi.
«Fate ricerche sulle guerre del vecchio mondo?».
Realizzò troppo tardi che le era sfuggita una parola proibita. Il
professor Wolf, che stava frugando in un cassetto, le scoccò
un’occhiataccia.
«E poi? Andrete a denunciarmi? La legge proibisce di detenere
armi, non manufatti storici». Esasperato dal collare che gli impediva
di piegarsi bene, il professore estrasse il cassetto dal mobile e ne
rovesciò il contenuto su un tavolo. «La guerra» continuò abbassando
il tono di voce, «è generalmente associata alla nozione di frontiera. La
Lacerazione ha fatto saltare le frontiere, ma credete voi che le guerre
siano finite? Per vostra norma e regola, giovine dama, la pace è solo
una raffigurazione mentale. Conflitti ce ne sono e ce ne saranno
sempre, qualunque sia il volto che assumono. Non avete che da
uscire là fuori con la vostra divisa provocatoria per constatarlo di
persona».
Ofelia ripensò ai senza-poteri che l’avevano guardata con un misto
di disprezzo e bramosia. Per la prima volta da parecchio tempo a
quella parte aveva la sensazione di trovarsi di fronte a un
interlocutore dotato di buonsenso. La delusione provata all’inizio si
dissolse.
«Sono d’accordo con voi».
Estraendo un metro a nastro dal mucchio di roba sul tavolo il
professor Wolf aggrottò le folte sopracciglia nere abbozzando un
sorriso sarcastico.
«Questa poi. Un membro lontano della mia famiglia, per giunta
una lettrice, si presenta a casa mia e condivide la mia visione del
mondo. Dev’essere il mio giorno fortunato!».
«Non mi credete, vero?» ribatté Ofelia. «Da quando ho messo piede
in casa vostra non mi avete creduto neanche per un attimo. Perché?».
Il professore srotolò il metro con un gesto vivace, come fosse stata
una frusta.
«Ve l’ho detto, giovine dama, là fuori c’è la guerra. Figlio di padre
animista e madre senza-poteri, non sono mai stato accettato da
nessuna comunità. La mia esistenza è intessuta di conflitti, quindi
considero per principio ogni essere umano un avversario potenziale.
Portate la mano all’altezza dei miei occhi» ordinò secco.
Ofelia sollevò il braccio per permettergli di prendere le misure, ma
non fu un’operazione semplice: il metro, anche lui contaminato dalla
diffidenza del proprietario, si contorceva per non toccare una perfetta
sconosciuta.
«Così siete incuriosita dal vecchio mondo?» fece il professor Wolf
senza abbandonare il tono sarcastico. «Vi piacerebbe leggere qualcuno
dei miei fossili?».
Ofelia si morse la lingua. Il metro la stringeva così forte da farle
male alla mano.
«I fossili non sono leggibili» replicò, «come non lo sono le materie
prime e gli organismi viventi. Sono davvero quel che sostengo di
essere. Se volete mettermi alla prova tendetemi una trappola meno
grossolana».
Il professore increspò le labbra in un sorriso di scherno, poi segnò
le misure su carta da telegramma, ma anche il semplice scrivere era
una faticaccia col collare che gli impediva di inclinare la testa. Ofelia
ebbe la sensazione, forse ingannevole, di aver segnato un punto.
«Sto cercando di entrare a far parte dei gruppi di lettura di sir
Henry al Memoriale. Mi hanno detto che anche voi fate ricerche al
Memoriale».
La matita del professore raschiò la carta. Ofelia notò stupita che gli
tremava la mano.
«Facevo» la corresse tra i denti.
«Perché avete smesso?».
«Per un motivo che non vi riguarda».
«Conoscerete bene il posto, però».
«Abbastanza da non rimetterci piede».
Il professor Wolf si accigliò, come se avesse parlato troppo. Infilò il
telegramma in un cilindro e il cilindro in un tubo, poi azionò una
leva e il dispaccio pneumatico venne subito aspirato.
«Ecco fatto, ho ordinato i guanti per voi al mio fornitore personale.
Si metterà direttamente in contatto con la Buona Famiglia per farveli
recapitare tra qualche giorno. Contenta?».
Ofelia esitò. Le domande, in particolare sul Secretarium, le
bruciavano sulle labbra, ma insistere avrebbe voluto dire renderlo più
sospettoso di quanto già non fosse.
«Potete prestarmi un vecchio paio di guanti che non usate più? È
da stamattina che leggo tutto quel che tocco, non reggerò a lungo in
queste condizioni».
Il professore strinse la bocca come per emettere un netto rifiuto,
poi cambiò idea con un sospiro esasperato.
«Datemi un minuto. E non toccate niente».
Salì una scala scricchiolante quanto lui lasciandola sola in mezzo
alle collezioni. Ofelia camminò lungo le armi militari esposte
soffermandosi davanti alla brezza tiepida del ventilatore. Ebbe un
piccolo shock passando di fronte a uno specchio polveroso fissato al
muro. Da quando era entrata al conservatorio non si era più vista in
uno specchio. Impiegò qualche secondo per familiarizzare con quella
donna bassina in divisa con le guance come pesche e i ricci a punto
interrogativo. Senza i lunghi capelli che la avvolgevano, senza il
colletto rialzato e senza la sciarpa – quell’ultimo pensiero le dette una
stretta al cuore – si riconosceva appena. Mostrarsi al mondo a viso
scoperto era il suo miglior travestimento, ancora più efficace della
livrea di Mime sotto la quale si era a lungo camuffata al Polo.
Dirigendosi verso una vecchia fotografia che mostrava uno scavo
archeologico spaventò un cestino che balzò di lato per evitarla.
Doveva essere un bel po’ che non veniva svuotato, traboccava di fogli
appallottolati di cui una parte cadde per terra.
Ofelia si affrettò a rimettere tutto a posto, ma il contatto con una
di quelle cartacce le provocò un’emozione così violenta da farle
mancare il respiro.
Paura. Paura allo stato puro. La paura del professor Wolf.
Guardò la lettera appallottolata che aveva lasciato cadere sul
pavimento come fosse stata un carbone ardente. Se il professore
l’aveva contaminata con la sua paura voleva dire che non indossava i
guanti al momento di leggerla, e nessun lettore esperto maneggia una
lettera a mani nude, a meno che non voglia sincerarsi dell’onestà di
chi l’ha spedita.
In altre circostanze non si sarebbe permessa di spingersi oltre, ma
quella volta la curiosità ebbe la meglio sulla deontologia
professionale. Ancora prima di realizzare ciò che stava facendo aveva
spianato il foglio alla debole luce che filtrava dalle persiane.
Caro collega,
mi è dispiaciuto sapere del vostro incidente. Cadendo da quelle scale
avreste potuto rompervi l’osso del collo! È una fortuna, per voi come per
tutti noi, che ne siate uscito indenne. Spero di avere il piacere di rivedervi
presto al Memoriale e alle riunioni accademiche: le vostre ricerche non sono
forse apprezzate all’unanimità, nondimeno presentano un interesse
fondamentale per la nostra disciplina.
A questo proposito, ho studiato il frammento che mi avete mandato. La
sua composizione è affascinante! La datazione mi ha dato filo da torcere,
ma alla fine sono arrivato alle stesse vostre conclusioni. Posso chiedervi da
quale documento l’avete tratto?
Vi prego di gradire l’espressione della mia più sincera benevolenza.
Il vostro devoto amico e collega.
Le dita di Ofelia tremavano per il terrore provato dal professor Wolf
leggendo quella lettera. Non ne capiva la ragione, ma non ebbe il
tempo di approfondire perché già i passi dell’uomo risuonavano sulle
scale.
Appallottolò di nuovo la lettera e la tirò nel cestino, ma imbranata
com’era sbagliò completamente bersaglio.
«Ecco» disse il professor Wolf porgendole un paio di guanti neri.
«Non c’è bisogno che me li riportiate, non li uso più».
Ofelia se li infilò senza guardarlo in faccia. Era così scossa dalla
lettura e si sentiva così in colpa per la propria mancanza di
deontologia che la voce le tremò quando disse:
«G-grazie».
Il professor Wolf protese la mascella allungando ancora di più il
mento mentre i suoi occhi, tornati diffidenti, scrutavano i quattro
angoli della stanza. Ofelia aveva sperato che il collare gli impedisse di
vedere la pallina di carta sul pavimento, invece alla fine la individuò.
La sua faccia assunse un’espressione mista di stupore, terrore e furore.
«Mi dispiace» disse istintivamente Ofelia. «La lettera era caduta,
volevo solo raccoglierla. Non avrei dovuto...».
Non riuscì a terminare la frase. Il professor Wolf le afferrò il braccio
e la scagliò contro lo specchio a muro che andò in mille pezzi.
«Lurida piccola spia!».
«No!» si difese lei rialzandosi dolorante, mezza tramortita. «Non vi
sono nemica, voglio sinceramente capire cosa vi è successo!».
Fuori di sé, il professore la prese per il colletto della redingote e la
sollevò fino a farle staccare i piedi da terra. Per uno che aveva il collo
fuori uso non mancava certo di vigore.
«L’umanità intera mi è nemica» sibilò tra i denti. «Entrate pure a
far parte dei gruppi di lettura di sir Henry, piccola ficcanaso. Vi
auguro buon divertimento. Ora fuori da casa mia!» le ordinò
lasciandola di colpo.
Ofelia si precipitò in anticamera. La porta si aprì da sola per farla
passare, poi si richiuse subito alle sue spalle proiettandola fuori con la
forza di una catapulta. Cadde in ginocchio nel cortile dell’edificio col
cuore che le percuoteva le costole. Quando si rimise sul naso gli
occhiali ancora blu di spavento incrociò lo sguardo della padrona di
casa che stava spazzando col tucano appollaiato sulla spalla.
«Ve l’avevo detto, miss. Quell’inquilino non è affatto un tipo
facile».
LO IETTATORE

Ofelia toccò una per una le punte dei guanti del professor Wolf,
troppo lunghi per le sue dita. Era andata da quell’uomo in cerca di
risposte e ne tornava con ancora più domande, oltre che con una
bella collezione di graffi. Cosa poteva essere stato a dissuaderlo dal
continuare le ricerche al Memoriale? Cos’era il campione che aveva
fatto esaminare? Perché la risposta del collega l’aveva tanto
terrorizzato? La sua paura aveva un qualche rapporto con quella
provata da miss Silence al momento di morire?
Un fitto acquazzone si abbatté sui finestrini del trenuccello. Ofelia
chiuse gli occhi cercando di respingere l’emozione che la assaliva.
Giorno dopo giorno era ossessionata dalla visione della sciarpa che
errava per le strade di Babel come un cane abbandonato.
No, non doveva pensarci, doveva guardare avanti.
Riaprì gli occhi sentendo il trenuccello manovrare per accostarsi a
un belvedere. Era la quinta accademia a cui si fermava, presto sarebbe
arrivato al conservatorio. Alcuni studenti uscirono sotto la pioggia
sollevandosi il cappuccio, altri salirono a bordo scrollandosi
l’impermeabile. Come a ogni stazione, Ofelia guardò se fra loro non
vi fosse un ragazzo in sedia a rotelle. Ambroise le mancava, le
mancavano la sua amicizia, la sua gentilezza, la sua loquacità. Non
capiva perché a un certo punto avesse preso le distanze, rispondesse
laconico ai suoi telegrammi, non andasse mai a trovarla, e ne era
preoccupata.
No, non doveva pensare neanche a quello.
Attraverso il cammino sinuoso delle gocce sul vetro osservò il
Memoriale in lontananza. Da qualche parte fra quelle mura c’era il
Secretarium. E nel Secretarium una camera blindata. E nella camera
blindata la “verità finale”. Era quella la verità a cui si erano avvicinati
troppo miss Silence e il professor Wolf? E se lo stesso Thorn si fosse
messo in pericolo per scoprirla? Era frustrante sapere che sarebbe
dovuta scendere alla prossima fermata senza poter proseguire fino al
Memoriale. Le sue tre ore di permesso stavano volgendo al termine.
La lentezza delle gondole le aveva fatto perdere tempo prezioso, del
resto era riuscita a prendere il trenuccello per un pelo. Farsi espellere
dalla Buona Famiglia per aver perso una coincidenza a due giorni
dalla fine del periodo di prova sarebbe stato il colmo.
Si rimise a palpeggiare il tessuto dei guanti che le sopravanzava
sulle dita. Un sospiro le salì dal profondo, ma fu il suo vicino di sedile
a emetterlo al posto suo. Ofelia lo guardò con aria interrogativa.
Anche lui stava guardando il vetro schizzato di pioggia, ma con
un’espressione colpevole, come se fosse direttamente responsabile del
brutto tempo. Il suo profilo, irsuti capelli grigi e naso a punta, faceva
pensare al muso di un riccio. A Ofelia ispirava una sensazione di
familiarità di cui capì l’origine vedendo la targhetta “commesso”
spillata alla divisa.
«L’uomo del carrello...» mormorò.
Dopo un attimo di incertezza il commesso staccò lo sguardo dal
finestrino.
«Sorry, miss? Dite a me?».
Ofelia si produsse in un sorriso educato. Col professor Wolf non le
era riuscito, ma si augurava che il commesso non l’avrebbe buttata
fuori da un trenuccello in volo. O no?
«Ci siamo già incontrati nella sezione libri per l’infanzia del
Memoriale. Ho rovesciato i libri del vostro carrello, e voi... be’, voi
siete stato rimproverato per colpa mia».
«Ah, quei libri!» farfugliò l’uomo. «Mi sembrano così lontani».
Fu preso da un improvviso interesse per le proprie mani che teneva
giunte sulle ginocchia, incassò la testa fra le spalle e non disse niente.
Sembrava disperatamente solo. Solo quanto Ambroise in mezzo agli
automi del padre. Solo come il professor Wolf chiuso a tripla
mandata nel suo appartamento.
“Solo quanto me” non poté fare a meno di pensare Ofelia.
«Mi chiamo Eulalia» si presentò.
«What?» si stupì il commesso. «Oh, ehm... io Blasius». Si grattò la
nuca a disagio, come se non fosse abituato ai convenevoli. «Ehm... la
vostra divisa... Siete un’apprendista virtuosa?».
La bocca di Ofelia si allargò in un sorriso, stavolta un sorriso vero.
Non capitava tutti i giorni di imbattersi in qualcuno più goffo di lei.
«Precorritrice».
«Sono colpito».
Sembrava sincero. Aveva sgranato gli occhi, pupille nere e umide
da riccio, come se gli avessero detto che era seduto accanto a un Lord
di LUX.
Fuori, spinta da un vento dell’ovest, la pioggia raddoppiò di
intensità. Un fulmine lacerò il silenzio proiettando una luce vivida
sui volti degli studenti, ma non uno di loro sollevò il naso dal libro
che stava leggendo. Sui trasporti pubblici di Babel regnava sempre
una calma esagerata, ma c’era un motivo: al minimo accenno di
chiasso il capotreno infliggeva una multa salata.
Ofelia non poté evitare di guardare preoccupata verso il soffitto con
un pensiero alle chimere che trainavano i vagoni sotto il temporale.
«In prova» si sentì in dovere di specificare. «Mi piacerebbe molto
lavorare al Memoriale come voi».
«Come me? Non ve lo auguro» rispose Blasius indicandosi la
targhetta di commesso. «Sono anni che metto a posto quel che mi
viene ordinato di mettere a posto, non c’è niente di prestigioso».
«Le collezioni del Memoriale sono imponenti, dev’essere una mole
di lavoro notevole, no? Soprattutto se includiamo il Secretarium»
aggiunse con l’aria più innocente del mondo.
«Non ci ho mai messo piede» sospirò Blasius con grande delusione
di Ofelia. «È un reparto troppo importante e troppo segreto per uno
come me».
«Non partecipate neanche ai gruppi di lettura?».
Blasius si lasciò sfuggire una risatina incredula che soffocò con la
mano vedendo lo sguardo accigliato del capotreno.
«I gruppi dell’automa... sorry, di sir Henry?» rispose sottovoce.
«Dovrebbero essere pazzi per accettarmi».
Ofelia non capì il perché di quel commento, ma preferì non
ostinarsi. Aveva finalmente trovato un interlocutore conciliante,
doveva approfittare di ogni minuto di tragitto.
«Ho saputo di miss Silence» sussurrò studiando la reazione di
Blasius con la coda dell’occhio. «Dev’essere stato un brutto colpo».
Nello stesso istante fu brutalmente scossa sul sedile. Una raffica di
vento più violenta delle altre aveva investito l’intero vagone
suscitando stavolta esclamazioni di sorpresa da tutti i passeggeri.
«Non perdete la calma, cittadini!» esclamò il capotreno. «È solo
una leggera turbolenza. Il nostro Totemista ha il perfetto controllo
del mezzo».
Ofelia si riaggiustò gli occhiali che lo scossone aveva spinto sulla
punta del naso e vide vari studenti intorno a sé raccogliere i libri che
erano caduti. Non era affatto tranquilla. Istintivamente si era
aggrappata al braccio di Blasius, che le contemplava la mano con aria
sbigottita, come se fosse la prima volta che ne vedeva una in un
punto così improbabile. Alla fine le tamburellò sopra con la punta
delle dita, goffamente, con un sorrisino di scusa all’angolo delle
labbra.
«Cose di questo genere succedono spesso con me. I guanti che
indossate» continuò prima che Ofelia potesse domandarsi cosa
significassero le sue parole, «sono di Wolf, vero?».
«Come sapete... Conoscete il professor Wolf?» balbettò, sempre più
sorpresa.
Blasius si sfregò il naso con gesto imbarazzato.
«Ho riconosciuto il suo odore su di voi. Sapete, sono un Olfattivo.
Wolf frequenta regolarmente il Memoriale. Almeno, lo frequentava»
aggiunse con la gola stretta dall’emozione. «Prima dell’incidente».
Ofelia notò che diceva Wolf omettendo il titolo. Era certamente
qualcosa di più di una semplice conoscenza. Mentre lei ci ragionava
sopra Blasius dette un’occhiata nervosa in giro per controllare che il
capotreno non facesse caso a loro.
«Posso confessarle una cosa, miss?».
«Ehm... prego».
Blasius le si accostò timidamente e, coperto dal frastuono della
pioggia, le sussurrò:
«Sono stato io a uccidere miss Silence».
Ofelia ebbe un conato di vomito, e non a causa del dondolio dei
vagoni. «Perché?» articolò senza riuscire a emettere un suono. Blasius
riprese le distanze e si sprofondò sul sedile tuffandosi le dita tra i
capelli già spettinati, con i lineamenti del viso tesi dal senso di colpa.
«Non è questa la domanda da fare, miss. Chiedetevi semmai come».
Rivolse a Ofelia uno sguardo preoccupato, come se temesse di vederla
spaccare il vetro e saltare nel vuoto per sfuggirgli. «Io... porto
sfortuna».
«Ah».
Fu l’unica cosa che le venne da rispondere. Era una delle
dichiarazioni più inaspettate che le avessero mai fatto.
«Dico sul serio» continuò Blasius sgranando grandi occhi
tormentati. «Il carrello dei libri, l’incidente di Wolf, la caduta di miss
Silence, questo diluvio: sono io a provocarli, capite? È così da quando
sono nato. Sfido tutte le statistiche. Il mio caso è stato studiato da
persone very competenti».
Le parole di Blasius la raggiunsero al cuore. Facevano eco a quelle
che aveva detto Thorn due anni e mezzo prima: “Penso che abbiate
una predisposizione naturale alla catastrofe”.
Aprì la bocca, ma un ruggito le tolse la parola.
«Vergognatevi, pecore!».
Ofelia e Blasius si voltarono. Intorno a loro gli studenti si
scambiarono occhiate interdette. Quanto al capotreno, aveva già
impugnato il blocchetto delle multe e stava cercando, sedile per
sedile, chi avesse osato infrangere il regolamento. Non lo trovò.
La voce risuonò di nuovo, da nessuna parte e dappertutto, più
potente dei tuoni esterni.
«Proprio così, pecorelle! Ma guardatevi con le vostre belle uniformi!
Guardatevi con i vostri virtuosi libri! Guardatevi col vostro modo di
parlare come si deve! E voi osate pretendere di essere la gioventù di
Babel?».
Ofelia si tappò le orecchie per non diventare sorda. Aveva già
sentito quella voce da tenore il giorno che era andata al Memoriale,
era la voce del Senza Paura E Quasi Senza Rimprovero.
«Ve lo dico io cosa siete» continuò la voce. «Complici! Cospiratori
del silenzio! Dittatori del benpensantismo! Se vi resta uno straccio di
amor proprio, cittadini, ripetete con me: abbasso l’Index e a morte i
censori! Abbasso l’Index e a morte i censori! Abbasso l’Index e a m...».
La voce si dissolse in uno sfrigolio acutissimo che sfondò i timpani
di Ofelia. Alla fine il capotreno aveva trovato sotto un sedile una
radiotrasmittente messa a tutto volume e l’aveva sfondata a colpi di
tacco. Tornò un silenzio carico di pioggia, vento e temporale.
«L’incidente è chiuso, cittadini» dichiarò il capotreno con un tono
che non ammetteva repliche. «Prossima fermata, la Buona Famiglia!».
Ofelia, con le orecchie che ancora le fischiavano, guardò Blasius
che si era alzato per farla passare.
«Ve l’avevo detto, miss Eulalia» fece con un’alzata di spalle piena di
fatalismo. «Porto sfortuna».
Ofelia si alzò a sua volta cercando di mantenere l’equilibrio
nonostante il rollio. Guardò i resti della radio che il capotreno stava
raccattando all’altro capo del vagone. La voce le risuonava ancora in
testa: “Morte ai censori!”.
«Miss Silence era mastro censore, vero?».
Blasius sollevò le sopracciglia grigie e irsute come i capelli.
«Eh? Sì, ma... well... non penserete mica che...».
«Non so ancora quel che penso» sussurrò Ofelia il più sottovoce e il
più velocemente possibile. «La sola cosa di cui sono abbastanza
sicura, signor Blasius, è che voi non siete responsabile di quel che è
successo al professor Wolf e a miss Silence. Credo anche che avervi
incontrato su questo trenuccello sia per me una vera fortuna».
Blasius spalancò gli occhi. Ebbe un fremito all’angolo della bocca,
come la fiamma tremolante di una candela.
«È la prima volta in vita mia che qualcuno mi dice una cosa del
genere».
«La Buona Famiglia!» annunciò il capotreno.
Nonostante gli scomodi guanti troppo lunghi Ofelia strinse la
mano che Blasius le porgeva timidamente.
«Sono fermamente intenzionata a far parte dei gruppi di lettura»
dichiarò. «Ci rivedremo presto al Memoriale. Fino ad allora siate
prudente, e chiedetevi cos’abbia davvero ucciso miss Silence».
Scesa sulla banchina di sbarco Ofelia seguì con gli occhi la sagoma
del treno alato che continuava la sua corsa attraverso il cielo. La
pioggia era cessata nell’istante stesso in cui si era allontanato
dall’arca.
“Non devo” pensò con tutte le sue forze. “Diventare amica di un
memorialista sarebbe irragionevole. Anche pericoloso”.
Ma, rendendosi conto che di colpo si sentiva meno sola, fu
costretta a riconoscere che era ormai troppo tardi.
IL BENVENUTO

I bracci articolati si muovevano come tentacoli intorno alla


poltrona dirigenziale. Suddividevano in continuazione le scartoffie
della Buona Famiglia, e quel movimento perpetuo faceva risaltare
ancora di più l’immobilità di Helena dietro l’imponente scrivania di
marmo. La gigantessa fissava il dossier che teneva tra le lunghe dita
da ragno.
Ofelia aveva la sensazione di aspettare il verdetto da un’eternità.
Riportò la propria attenzione sulla lampada del tavolo che emetteva
una luce incerta. Durante la corvée antelucana aveva svitato e
avvitato talmente tante lampadine che dovette combattere contro la
tentazione istintiva di cambiare anche quella.
La voce cavernosa di Helena la fece trasalire:
«Stando alla relazione di lady Septima siete stata disposta a
compiere qualche sforzo durante le tre settimane di prova».
Ofelia trattenne le parole che le affioravano alle labbra. Lei non
avrebbe definito “qualche sforzo” duecento ore di lezioni
radiofoniche e letture applicate, per non parlare delle corvée, ma
pazienza.
«Ho fatto del mio meglio, madama».
Helena sollevò il naso elefantiaco dal dossier. Al centro del balletto
meccanico della poltrona, sembrava una di quelle antiche dee a
molte braccia, mezzo donna e mezzo mostro, di cui si trovavano
ancora sculture sui muri più antichi di Babel.
«Fare del vostro meglio è sufficiente? Neanche lady Septima è
particolarmente colpita dalle vostre perizie. Vi smarrite nella
soggettività di cui sono impregnati gli oggetti, ma la storia è una
scienza che esige rigore. Qui non pratichiamo la vaghezza dell’arte, ci
serve il contesto. Avete mostrato segni di progresso, lo leggo nella
relazione, tuttavia non basta che un virtuoso sia bravo nel suo
campo: deve eccellere». La bocca di Helena si allargò in una smorfia
larga e irta di denti come quella di un pesce degli abissi. «Calmatevi,
giovine dama, i battiti del vostro cuore mi disturbano le orecchie».
«Diventerò eccellente» promise Ofelia, del tutto incapace di
calmarsi.
«Ho due domande per voi, apprendista. La prima è: cosa avete
imparato durante queste tre settimane di prova?».
Ofelia dovette riconoscere che si era aspettata qualcosa di più
concreto. Si mise a comporre mentalmente una serie di belle frasette
alla ricerca di quella che avrebbe fatto la migliore impressione, ma
Helena la interruppe brutalmente.
«Non pensateci. Rispondetemi d’istinto, in tutta sincerità, con
poche parole. Che avete imparato?».
«Che non so niente».
La risposta era praticamente sgorgata dai polmoni di Ofelia. Non
era esattamente quella che aveva in mente, ma Helena non le lasciò il
tempo di sviluppare il pensiero e passò alla seconda domanda.
«Perché volete diventare precorritrice?».
«Ecco... ho pensato...».
«Perché?».
La voce di Helena si era fatta più che mai sepolcrale.
«Per mettere le mie mani al servizio della verità».
«Al servizio della verità» ripeté Helena. «Non sarebbe stato più
appropriato dire “al servizio della città”?».
Ofelia ci pensò un attimo, rendendosi conto che le veniva offerta la
possibilità di correggersi, poi decise di seguire l’istinto. Helena non
era Polluce. Helena non era la marionetta di lady Septima e dei Lord
di LUX. Helena pensava con la propria testa e prendeva le proprie
decisioni.
«Mi avete chiesto una risposta sincera».
Helena diresse allora l’apparecchio ottico su Elizabeth, sull’attenti
accanto alla porta, così silenziosa che Ofelia ne aveva dimenticato la
presenza.
«Ricordatemi chi siete».
«La... la responsabile della prima divisione dei precorritori, milady.
Coordino i gruppi di lettura».
Ofelia non poté fare a meno di guardarla con un certo stupore. Da
tre settimane che la conosceva, era la prima volta che coglieva un
tremito nella sua voce. Eppure in apparenza aveva sempre la stessa
faccia inespressiva, morbosamente pallida sotto le lentiggini, con
palpebre pesanti da sonnambula.
«Questo lo so già, altrimenti perché sareste presente a
quest’incontro?» le fece notare Helena. «Quello che voglio sapere è
come vi chiamate».
«Elizabeth».
La rigidità con cui pronunciò quelle quattro sillabe consolidò
l’impressione di Ofelia. Era quasi una richiesta di soccorso.
Helena batté sui pistoni di una tastiera, e subito un braccio
meccanico telescopico si allungò per andare ad aprire la ribaltina di
un secrétaire in fondo alla stanza. Ofelia ebbe la sorpresa di vedere al
suo interno un libro gigantesco, con pagine spesse come pelle.
No, non un libro. Un Libro, con la maiuscola. Il Libro di Helena.
Il braccio meccanico se ne disinteressò. Aprì invece uno dei
numerosi cassetti e tirò fuori un registro che posò sulla scrivania.
«Pessima memoria, ma buona organizzazione» commentò Helena
non senza ironia sfogliando il registro. «Elizabeth, Elizabeth,
Elizabeth... Ah sì, siete la senza-poteri. La vostra virtuosità sono le
banche dati. Toh, vedo che devo a voi il mio sistema di consultazione
personale. Sì, mi sembra di ricordare» disse chiudendo il registro.
«Credo di potermi fidare del vostro giudizio. Ritenete che
l’apprendista qui presente sia degna d’interesse per i gruppi di
lettura?».
Il silenzio che seguì mise Ofelia a disagio. Le cose si mettevano
male, se la sua accettazione alla Buona Famiglia dipendeva
dall’opinione di Elizabeth. La responsabile della divisione non alzava
molto spesso gli occhi dai suoi algoritmi per conoscere gli apprendisti
che aveva in carico. La sua devozione alla città e al Memoriale la
rendeva cieca al resto del mondo.
Almeno, quello era il modo in cui Ofelia la percepiva. Così fu
parecchio sorpresa di sentirla rispondere:
«La ritengo degna d’interesse in assoluto, milady».
Helena tamburellò pensosamente con l’unghia sul piano di marmo.
Per una volta a Ofelia sarebbe piaciuto guardarla in faccia, ma sapeva
che era impossibile: senza l’apparecchio correttivo lo spirito di
famiglia vedeva una galassia di atomi invece dell’interlocutore, non
diversamente da come la porta a chiusura ermetica della stanza le
impediva di sentire mormorii, starnuti e brontolii degli allievi del
conservatorio.
Con un sonoro scricchiolio di cuoio Helena si chinò in avanti sulla
poltrona portandosi dietro l’enorme seno. Dita dalla lunghezza
sproporzionata posarono davanti a Ofelia un astuccio.
«Benvenuta alla Buona Famiglia. Uscendo chiudete la porta, voi
due. I battiti del vostro cuore sono assordanti».
L’attimo dopo Ofelia, con l’astuccio stretto al petto, scendeva le
scale degli uffici amministrativi accanto a Elizabeth. Era combattuta
tra il sollievo e l’incredulità.
«Pensate davvero quello che avete detto a lady Helena?».
Elizabeth si fermò in mezzo alle scale con la mano mollemente
appoggiata sulla ringhiera.
«Naturalmente no. Ma ora hai un debito con me, e conto di
avvalermene con profitto».
Nell’imbarazzante silenzio che seguì si sentivano solo le
dattilografe degli uffici, rapide e rumorose come macchine da cucire.
Elizabeth vi mise fine sollevando su Ofelia gli occhi semichiusi.
«Sto scherzando. Certo che lo penso. Nessuno te lo dirà mai, ma sei
piuttosto dotata con le mani. Almeno in quanto lettrice».
Difatti Ofelia aveva goffamente fatto cadere l’astuccio, che rotolò
lungo gli scalini di marmo. Elizabeth lo raccolse, lo aprì e tirò fuori le
due alette d’argento, poi, senza una parola, si chinò per fissarle agli
stivaletti di Ofelia. Continuava ad avere un’espressione impassibile,
ma i suoi gesti si erano fatti attenti, quasi materni.
«Ora sei dei nostri, apprendista Eulalia».
Quelle parole commossero Ofelia più di quanto si aspettasse.
«Elizabeth... lady Helena non voleva ferirvi. La sua memoria...».
Si trattenne dal terminare la frase dicendo “La sua memoria le è
stata strappata da Dio insieme a una pagina del Libro”. Non era
ragionevole rivelare un’informazione del genere a una precorritrice,
sarebbe stato pericoloso per l’una e per l’altra.
«Non ha dimenticato il vostro nome apposta» disse invece.
«Lo so».
Elizabeth l’aveva sospirato. Seduta su uno scalino, si abbracciò le
ginocchia. Il volto non lasciava trasparire emozioni, ma il corpo
accasciato, la cui assenza di rilievi era messa in risalto dalla luce delle
vetrate, tradiva la malinconia di cui era piena.
«Lo so» ripeté sottovoce, come per se stessa. «Gli spiriti di famiglia
sono così. La verità è che prima di arrivare qui ero completamente
persa, una ragazzina senza poteri e senza obiettivi. Lady Helena mi ha
dato un tetto, una famiglia, un futuro. Per me significa tutto, mentre
io non significo niente per lei... Non è colpa sua, è condannata a
dimenticare sempre tutto. Per questo il Memoriale è così
importante».
Suonò il gong della sera e, come mosse da molle a orologeria, le
gambe di Elizabeth scattarono per rimetterla in piedi.
«Devo andare di corsa al Secretarium del Memoriale. Sir Henry mi
sta aspettando, e lui non transige sulla puntualità».
«Lo conoscerò presto? In quanto nuovo elemento dei gruppi di
lettura vorrei presentarmi a lui nelle dovute forme».
In realtà Ofelia voleva più che altro una scusa per entrare nel
Secretarium, ma Elizabeth scosse lentamente la testa.
«Presentarti all’automa? Credimi, non ha niente dell’attrazione
turistica e se ne infischia altamente di sapere chi lavora per lui. Fermo
restando il rispetto che gli devo, è solo un assemblaggio di calcoli,
analisi e acciaio. Bisogna però riconoscere che ha rivoluzionato il
catalogo del Memoriale. Viviamo nel migliore dei mondi» dichiarò
poi mettendosi solennemente sull’attenti. «Facciamo in modo di
renderlo ancora migliore, apprendista Eulalia».
Dopo una breve stretta di mano Elizabeth se ne andò senza darle il
tempo di reagire. Bene così, in fondo. Probabilmente non avrebbe
apprezzato molto l’opinione di Ofelia.
Soltanto quando si ritrovò da sola sulle scale si rese conto di esserci
riuscita, di essere diventata apprendista virtuosa.
Lasciò l’edificio dell’amministrazione e si avviò tra le colonne del
camminamento spinta in avanti dal vento bollente della sera.
Procedeva a un’andatura così determinata che le scimmie tagliavano
la corda al suo passaggio. Le alette d’argento fissate agli stivali
producevano una sonorità metallica che ritmava le sue falcate. Ogni
passo avanti era un passo verso Dio. Un passo verso Thorn.
«Brava».
La voce altera spinse Ofelia a rallentare, poi a fare un passo
indietro. Era passata davanti a Octavio senza notarlo. Appoggiato a
una colonna tra le liane si mimetizzava con le ombre che il sole al
tramonto creava nella galleria. Solo gli occhi rosseggianti ne
indicavano la presenza.
«Grazie» disse prudentemente Ofelia.
Era raro incontrarlo da solo. Nella sua scia c’era sempre uno sciame
di apprendisti pronti ad applaudire ogni sua performance, come se le
rivalità fra studenti non riguardassero lui: era chiaramente lady
Septima quella che adulavano attraverso lui. Perfino gli altoparlanti a
tromba della galleria tacevano in sua presenza. Se fosse stato un altro,
la voce di un sorvegliante l’avrebbe invitato a riguadagnare in fretta
gli spazi dei Figli di Polluce.
«Ti vanno bene, i guanti?» domandò.
Ofelia aprì e richiuse più volte le mani per ammorbidire la pelle
nuova che le avvolgeva.
«Mi sono stati consegnati oggi. Potrò proseguire l’apprendimento
in condizioni ottimali. Ti sono debitrice».
Aveva deliberatamente calcato sul “ti”. Era finito il tempo di dare
del voi. Si considerava ormai alla pari degli altri apprendisti della
compagnia: che quello fosse il figlio di lady Septima non faceva
differenza per lei.
Octavio uscì dall’ombra della colonna. I raggi obliqui del sole ne
illuminarono il bronzo della pelle, l’argento della divisa e l’oro della
catenella sopraccigliare, eppure era una luce pallida rispetto
all’incandescenza del suo sguardo.
«Più di quanto tu creda, apprendista Eulalia. La visita dal professor
Wolf è stata edificante?».
La domanda le fece l’effetto di una freccia avvelenata. Quant’era
stata ingenua! Non era solo per i guanti che Octavio aveva provocato
l’incontro.
«Bella mossa» mormorò. «Avevo davvero creduto che tu mi avessi
aiutato per scrupolo di equità».
«Oh, ma l’ho fatto. Quel che è accaduto al professore potrebbe
accadere ad altri. Ho ritenuto giusto che ne fossi informata».
Ofelia si irrigidì ulteriormente. Fin dall’inizio c’era stata fra loro
una diffidenza reciproca, amorfa e silenziosa come una nebbia. In
quel momento più che mai si domandò se Octavio non fosse
complice di Dio ancora più di quanto lo era la madre.
«Quel che gli è accaduto?» finse di stupirsi. «Vuoi dire
l’incidente?».
Sapeva che la causa del trauma del professor Wolf non aveva niente
di accidentale, ma ammetterlo avrebbe voluto dire che aveva ficcato
il naso nella sua vita privata, ed era precisamente la trappola in cui
non doveva cadere.
Octavio la scrutò con attenzione costante e allo stesso tempo
distante, come se stesse sottoponendo al proprio sguardo i campioni
del laboratorio.
«Dilatazione delle pupille, durata dei contatti visivi, frequenza dei
battiti di ciglia» sussurrò. «I nostri occhi raccontano di noi più di
qualunque discorso. E i tuoi, apprendista Eulalia, mi dicono che stai
mentendo. Menti sempre e a tutti. Anche questo gesto» continuò
Octavio vedendo Ofelia raddrizzarsi nervosamente gli occhiali, «mi
dà molte informazioni sul tuo conto. Mia madre vede in te solo una
matricola un po’ goffa che prima o poi finirà per gettare la spugna,
ma io so che nulla ti fermerà, perché sei qui per una ragione precisa,
una ragione personale che non ha niente a che fare con l’interesse
della città».
Durante il lungo silenzio che seguì, la galleria fu invasa dal clamore
degli uccelli al crepuscolo. Ofelia sentì un insetto posarsi sulla sua
guancia, ma temendo di tradirsi ulteriormente non accennò un gesto
per scacciarlo.
«Perché mi hai permesso di rimanere alla Buona Famiglia, allora, se
mi ritenevi indegna?».
La pelle di Octavio si increspò all’angolo delle labbra.
«Per meglio tenerti d’occhio».
Il ragazzo girò i tacchi, e le sue alette da precorritore catturarono
l’ultimo raggio di sole nel momento in cui spariva dietro la giungla. Il
buio, fitto e umidiccio, calò di colpo.
“Non sa niente” si ripeté Ofelia vedendo l’ombra del ragazzo
perdersi nell’oscurità del camminamento. “Non sa come mi chiamo
né le mie vere motivazioni. Hai dei sospetti, ma non sa niente”.
«Apprendista Eulalia, vogliate riguadagnare la vostra divisione!»
ordinarono gli altoparlanti della galleria.
Guardò verso una delle torri di guardia di cui erano disseminati i
giardini e vide brillare le lenti di un binocolo, simili a occhi di gatto
nel buio. Andato via Octavio, il sorvegliante di turno aveva
miracolosamente recuperato voce e vista.
Ofelia ricominciò a camminare con passo deciso. Non avrebbe
permesso a nessuno di guastarle la vittoria.
Giunta al Foyer trovò la camerata vuota. I compagni non erano
ancora rientrati. Durante la giornata i gruppi di lettura dei Figli di
Polluce si alternavano a quelli dei Figliocci di Helena. Gli orari delle
sedute potevano variare dalle sei del mattino alle undici di sera, i
precorritori avevano un proprio dirigibile.
Ofelia aprì il letto meccanico e vi si lasciò cadere sopra tutta vestita.
“Domani” pensò guardando il Memoriale che brillava come un faro
dietro la zanzariera della finestra, “domani sarò là”.
Probabilmente si era addormentata senza accorgersene, perché
quando riaprì gli occhi i compagni di divisione erano tutti intorno al
suo letto. Non avevano acceso le luci e stavano al suo capezzale in
silenzioso raccoglimento, come se assistessero a una veglia funebre.
Fece per alzarsi, ma decine di mani la bloccarono sul materasso e le
tapparono la bocca. Nessuno le fece male. I loro gesti erano metodici
quanto implacabili.
«I miei cugini hanno un indovinello per te, mademoiselle»
mormorò la voce soave di Mediana dal buio. «Che succede qui a tutti
quelli che ricevono le alette?».
Con gli occhiali di traverso, Ofelia ne intuiva la faccia, più che
vederla. Impossibilitata a muoversi e a parlare, era troppo stupita per
avere paura.
«Giurerai fedeltà a Mediana» predissero le altre voci in un unico
mormorio.
«Voglio farti vedere una cosa, mademoiselle».
Mediana accese una torcia elettrica che illuminò le pietre preziose
incastonate nella sua pelle. Fece un cenno a Zen che fino a quel
momento era rimasta in disparte. Il suo viso da bambola orientale era
alterato dall’ansia, eppure ubbidì al silenzioso comando senza esitare.
Aprì il cassetto del comodino fino a estrarlo del tutto.
«Guarda, piccola lettrice» le ordinò dolcemente.
Subito e senza alcuna violenza le mani degli Indovini
raddrizzarono Ofelia sul letto in modo da farle piegare la testa di lato.
Aveva la sensazione di essere una marionetta. Da principio vide
soltanto il fondo di un cassetto di cui non si era mai servita.
Poi notò le ombre minuscole illuminate dalla lampada.
«Materasso, divisa e guanti» elencò Mediana con un sorriso un po’
dispiaciuto. «Vedi che non si trattava di furto? Sono sempre stati lì,
nel tuo cassetto».
Ofelia alzò gli occhi su Zen, che vergognandosi distolse lo sguardo.
«Sì» disse Mediana, «li ha miniaturizzati lei. Oh, non l’ha fatto con
piacere, credimi, non più di quanto piacere provino i miei cugini a
posare le mani su di te in questo momento. Sai perché lo fanno
nonostante tutto? Perché gliel’ho detto io. Tutte le persone qui
presenti mi odiano, e guarda come mi ubbidiscono!». Il fascio della
torcia illuminò i lineamenti un po’ femminili e un po’ maschili della
sua faccia che facevano di lei sia una regina che un re. «Ricordi cosa ti
ho detto la prima volta che ci siamo incontrate? Ci sono mille modi
per tormentare qualcuno senza infliggergli la minima sofferenza
fisica. Hai fatto la scelta di restare con noi, mademoiselle, e ora ti
spiego esattamente quello che sta per succedere».
Il tono musicale di Mediana si era fatto ipnotico. Ofelia doveva
riconoscere che era riuscita a ottenere la sua attenzione più totale. I
dormitori erano fra i rari luoghi al riparo dai periscopi di
sorveglianza, ed Elizabeth dormiva in una camera singola all’altro
capo del Foyer, quindi non poteva contare su nessun aiuto.
«Un solo apprendista di questa camerata diventerà aspirante
virtuoso, e sarò io» riprese Mediana in un sussurro. «Sogno di essere
una precorritrice da quando ho l’età di pronunciare la parola. Morirò
con le ali ai piedi. A partire da stasera metterai le tue manine a riposo.
Divieto assoluto di metterti in luce con lady Septima. Terrai un basso
profilo, resterai nel tuo angolo e cercherai di piacere a un unico
padrone: io. Se mi lasci il primo posto non sarò ingrata» disse
calcando sensualmente ogni erre. «Al momento opportuno, quando
avrò il mio posto al sole, farò di te la mia assistente».
«Ma... credevo che toccasse a me...» balbettò Zen rimettendo a
posto il cassetto.
Mediana sorrise senza neanche guardarla, interamente concentrata
su Ofelia.
«I favoritismi non sono ben visti a Babel. Ho già promesso un posto
a ognuno dei miei cugini, non posso mica assumere due assistenti».
Uno degli Indovini liberò la bocca di Ofelia perché potesse
rispondere.
Lei non si fece pregare.
«Tieni pure Zen come assistente, io non sono interessata».
Mediana le puntò la torcia direttamente sugli occhiali. Ofelia era
troppo abbagliata per vederne l’espressione, ma dal fruscio della
divisa capì che si stava muovendo. Uno stivale alato le bloccò la
mano sul bordo del letto. Era una pressione minima, assolutamente
indolore, alla quale però Ofelia, costretta all’immobilità, non poteva
sottrarsi. Un gesto di dominazione allo stato puro.
«Non hai sentito i miei cugini, mademoiselle? Mi giurerai fedeltà.
Ripeti con me: “Farò tutto quello che mi chiederai”».
Ofelia tacque. A quanto pareva l’Indovina la riteneva capace di
farle ombra nel raggiungimento dell’obiettivo. In un certo senso si
sentiva lusingata. Tuttavia quando la torcia smise di accecarla e vide
lo sguardo di Mediana brillare di cupidigia cominciò a sentirsi
decisamente preoccupata.
«Giratela».
Agendo come un sol uomo, gli Indovini la voltarono sulla pancia
facendole affondare di forza la faccia nel cuscino. L’avevano fatto
senza brutalità, senza insulti, senza oscenità, eppure raramente Ofelia
aveva subìto qualcosa di altrettanto violento. Per quanto si dibattesse,
non riusciva a opporre la minima resistenza a quelle braccia che
facevano di lei ciò che volevano. Perché i suoi artigli non si stavano
attivando per respingerli?
«Calma» sussurrò un filo di voce al suo orecchio. «Non ci metterò
molto».
Nella pancia di Ofelia la preoccupazione si trasformò in panico.
Mediana l’aveva spesso punzecchiata col suo potere familiare, ma
fino a quel momento erano rimaste parole al vento. Così come i
lettori non potevano toccare gli oggetti senza l’autorizzazione del
proprietario, gli Indovini non potevano penetrare il futuro e il
passato di qualcuno senza il suo consenso. Era più di una regola
deontologica, era un tabù familiare di quelli che non si
trasgrediscono alla leggera.
Con un’esasperante sensazione di impotenza Ofelia sentì una
mano scivolarle sul collo e accarezzarle la nuca. Un’impressione di
gelo le si diffuse sulla schiena lungo le ramificazioni del midollo
spinale. Una volta, in passato, una Storiografa l’aveva sottoposta alla
perquisizione della memoria, e lei si era sentita come un libro noioso
di cui si sfogliano rapidamente le pagine.
Quello che le fece provare Mediana fu senza paragoni. Ofelia fu
invasa dall’interno da una presenza intrusa divorata dalla curiosità,
bramosa di assorbire ciò che possedeva di più intimo. La sua vita
cominciò a sfilare all’indietro sotto forma di immagini
caleidoscopiche, come se nella sua testa si fosse attivato un proiettore
di diapositive. Gli occhi rossi di Octavio, Elizabeth che le spillava le
alette agli stivali, la sedia a rotelle di Ambroise incastrata nel selciato,
i capelli tagliati in un angolo di giardino, Archibald che le
consegnava documenti d’identità falsi, la fuga spettacolare attraverso
i bagni pubblici...
Non erano soltanto immagini, erano tutti i pensieri che aveva
pensato, tutte le emozioni che aveva provato. Ofelia morse il cuscino
sforzandosi di respingere l’invasione della sua memoria, ma non poté
evitare l’inevitabile: tra un ricordo e l’altro, nitido come se fosse
successo il giorno prima, apparve Thorn nella cella della prigione,
stretto in una camicia troppo corta, che stentava a reggersi in piedi a
causa della gamba spezzata.
Di fronte a Dio.
Ofelia tornò nel presente appena Mediana le lasciò la nuca. Con la
faccia contro il cuscino cercò faticosamente di riprendere fiato. Gli
occhiali le erano entrati nella carne. La camicia era madida di sudore.
«Très bien! Sapevo che nascondevi qualcosa, ma questo non me
l’aspettavo di certo!». La voce di Mediana si era fatta più debole,
come se il viaggio nel tempo l’avesse fisicamente stremata, però
esultante. «Non ti preoccupare, mademoiselle. Il tuo segreto... i tuoi
segreti rimarranno dentro di me finché farai la brava bambina
ubbidiente. Nessuno saprà chi sei davvero né cosa ti ha portato a
Babel, neanche i miei cugini. Devi solo pronunciare qualche
parolina».
Ofelia deglutì. Aveva la nausea. Avrebbe voluto passare il resto dei
suoi giorni sprofondata in quel cuscino, ma allo schiocco di dita di
Mediana gli Indovini la rivoltarono.
«Ti ascolto».
Ofelia sentì se stessa parlare con una vocina lontana, come se fosse
quella di un’altra persona.
«Farò tutto quello che mi chiederai».
Mediana sorrise e le depositò un bacio sulla fronte.
«Grazie. Benvenuta alla Buona Famiglia».
SORPRESA

«Eppure infornare una torta non è poi così difficile!».


«Guardate attentamente le mie mani, cara. Vi sembrano mani
plebee?».
«Datevi poche arie. Vivo con voi da abbastanza tempo per sapere
che siete fatta come i comuni mortali. Sopra, sotto, davanti e dietro».
«Vorrei pregarvi di non essere volgare davanti a mia figlia».
«Vostra figlia ha fame».
«Ho ricevuto un’educazione da dama di corte. Servo uno dei
migliori tè di Città-cielo».
«Be’, se pensate di sopperire alle sue necessità col tè la bambina
non sarà mai in grado di reggersi in piedi. Per tutte le pepiere,
Berenilde, sono vostra amica, non la vostra donna di servizio! Non
tocca a me portare questa dimora sulle spalle!».
Compressa nel seggiolone diventato troppo stretto per la sua età,
Vittoria seguiva con gli occhi Mamma e Grande Madrina che
correvano da una finestra all’altra per far uscire il fumo. Sul tavolo
della sala da pranzo un vassoio contenente una crosta nera emanava
un odore sgradevolissimo.
La casa era cambiata dall’arrivo di Grande Madrina.
Quest’ultima, con aria severa, tagliò la crosta per vedere che c’era
sotto.
«Bruciato. E la dispensa si sta svuotando. Dovreste scrivere al sire
Faruk».
Vittoria, disturbata dal fumo, tossì. Mamma si precipitò subito da
lei per sventolarle il ventaglio davanti al viso.
«Gli scrivo ogni giorno, signora Roseline, ma lo faccio per dargli
sostegno, non per chiedergli aiuto. Non mi abbasserò mai a
elemosinare il cibo».
«Chi parla di elemosinare?».
Grande Madrina si mise i pugni sui fianchi. Sembrava sempre in
collera, ma non si arrabbiava mai davvero. Vittoria non si sentiva
affatto intimidita da lei. Invece aveva paura di Padre e, anche se non
capiva bene di cosa stessero parlando, sperava che non si trattasse di
farlo venire a casa.
Padre non le voleva bene.
«Vi sto parlando di meritarcelo» riprese Grande Madrina. «Usciamo
da qui, proponiamo i nostri servizi, facciamo vedere cosa abbiamo
sotto il corpetto!».
Tra una sventagliata e l’altra Vittoria vide una fossetta scavarsi sulla
pelle di porcellana di Mamma, proprio all’angolo delle labbra. Era un
sorriso diverso da quelli di prima, un sorriso che era comparso
dall’oggi al domani con l’arrivo di Grande Madrina, un sorriso che
faceva venire voglia a Vittoria di sorridere a sua volta.
Non era stata la casa a cambiare, era stata Mamma.
«Questa sì che è un’idea brillante, signora Roseline! Sono sicura che
tutti i nobili saranno pronti a coprirvi di diamanti per farsi riparare le
loro amate carte».
Grande Madrina aggrottò le sopracciglia, ma appena aprì la bocca
per parlare un colpo di campana risuonò nella casa.
«Aspettate qualcuno?».
«No. Andiamo a vedere chi è».
A Vittoria non dispiacque di vedere Mamma toglierla dal
seggiolone stretto e prenderla in braccio. Aveva sempre la fossetta
all’angolo delle labbra, ma tremolava come le perle del suo
orecchino.
Andarono nel padiglione della musica e Grande Madrina si diresse
verso un armadio che Vittoria sapeva essere la porta d’ingresso. Ce
n’era un’altra in fondo al parco, ma nessuno la usava mai a parte
Padrino.
«È madama Cunegonda» disse Grande Madrina dopo aver guardato
dallo spioncino dell’armadio. «Accidenti com’è invecchiata!».
«È sola?» domandò Mamma.
«Per quanto riesco a vedere, sì».
Mamma, che abbracciava Vittoria talmente forte da toglierle il
respiro, allentò la stretta con sollievo. Anche se non ne parlava
spesso, tutto quello che succedeva all’esterno della casa la
preoccupava. Vittoria invece avrebbe avuto una tale voglia di uscire!
La sua avventura con Padrino risaliva a tanto tempo fa, ormai. Le
giornate le sembravano lunghe e i suoi piccoli viaggi le davano
sempre meno soddisfazione. In quella casa aveva esplorato tutto
l’esplorabile.
«Potete farla entrare» decise Mamma alla fine.
«Davvero?» si stupì Grande Madrina. «La sorella del barone
Melchior? Vi ho visto respingere tutti i visitatori e rifiutare ogni
pacco, non vi pare imprudente aprire la porta a una Miraggio il cui
fratello è stato ucciso da vostro nipote?».
«Io e lei siamo sempre state solidali. I tempi si sono fatti difficili per
i Miraggi. Le illusioni non sono più ben viste, l’epoca delle frivolezze
è finita. Da quando è fallita, madama Cunegonda vive sola non so
dove, ma non fatene parola davanti a lei, salvare le apparenze è
l’unica cosa che le è rimasta. Aprite, signora Roseline».
Grande Madrina girò la chiave dell’armadio. Il padiglione della
musica fu subito invaso da un tintinnio di gioielli e da un odore di
profumo molto più forte di quello della torta bruciata.
«Buongiorno, madame».
Vittoria sentì il cuore batterle per l’eccitazione. La Dama d’Oro!
Ogni volta che veniva a casa era una festa. Chiamava Vittoria
“colombella” e le portava sempre sorprese: piogge di ciliegie filanti,
orsetti acrobatici, bambole ballerine e tante altre illusioni.
Così ci rimase male quando la Dama d’Oro non la degnò di uno
sguardo. Aveva occhi solo per Grande Madrina.
«Eccovi qua!» disse con un largo sorriso delle labbra rosse. «Le voci
erano vere, dunque».
«Che voci?» borbottò Grande Madrina.
«Quelle che annunciavano la partenza, cioè il ritorno, della nostra
piccola lettrice!».
La Dama d’Oro si voltò in tutte le direzioni facendo tintinnare i
pendenti d’oro del suo velo, come se stesse cercando qualcuno.
Convinta che stesse cercando lei, Vittoria sperò che l’avrebbe
finalmente notata in braccio a Mamma e le avrebbe soffiato
coriandoli tra i capelli.
«Inutile che cerchiate Ofelia, cara amica» sospirò Mamma. «Le voci
sbagliano, neanch’io so dove sia».
«Che peccato!».
La Dama d’Oro sorrideva, ma a Vittoria sembrò di vedere contrarsi
le sue lunghe unghie rosse.
«Posso offrirvi un tè?» propose Mamma col suo tono più cordiale.
«In cambio mi prenderò tutte le notizie della corte che avrete la
compiacenza di darmi».
«Non rimango» rispose la Dama d’Oro. «In realtà speravo di trovare
il nostro ex ambasciatore a casa mia. Cioè, a casa vostra».
Vittoria, sentendo le braccia di Mamma allentarsi, sollevò la testa.
Anche lei sembrava delusa.
«Purtroppo neanche Archibald è qui».
«Perché lo state cercando?» domandò Grande Madrina.
«Il gatto è... il fatto è che mi ha ordinato un’illusione e non è mai
venuto a ritirarla. Se poteste almeno indicarmi dove raggiungerlo,
quell’uomo è talmente inafferrabile!».
La Dama d’Oro era sempre stata un po’ strana, ma quel giorno lo
era ancora di più, e la cosa incuriosiva Vittoria. Forse per via della
bocca. Esitava su ogni frase, come se avesse abusato di quelle che
Mamma chiamava “illusioni per grandi”.
«Sono desolata, cara Cunegonda, ma ne so quanto voi» disse
Mamma. «Archibald starà ancora bighellonando in chissà quale Rosa
dei Venti! Ma tornerà. Torna sempre».
La Dama d’Oro aveva ascoltato Mamma con la massima
attenzione, sollevando le spesse palpebre tatuate e allargando la
bocca in un sorriso.
«In questo caso, tornerò anch’io».
La Dama d’Oro se ne andò per dove era venuta, dall’armadio.
Vittoria la seguì senza pensarci. Visto che la sorpresa tanto attesa
non era arrivata, sarebbe stata lei ad andare dalla sorpresa. Lasciò il
corpo pesante e stupido tra le braccia di Mamma e uscì fuori con la
leggerezza di un pensiero.
Saltellò dietro alla Dama d’Oro che si storceva le caviglie sul
selciato della strada senza neanche sospettare che qualcuno le stesse
facendo compagnia. A Vittoria era già capitato di andare per strada,
ma mai viaggiando. Era una cosa completamente diversa. I suoni
prodotti dai tacchi e dai pendenti della Dama d’Oro si erano fatti
indistinti, i pali dei lampioni ondeggiavano come se fossero diventati
di gomma e la luce che diffondevano era una grossa macchia bianca
nel buio. Vittoria vide passare una carrozza e la rivide passare qualche
secondo dopo, ma non si stupì: talvolta, quando viaggiava, le capitava
di sentire o vedere le cose in forma doppia.
Non c’era un vero cielo, come non c’era a casa. Mamma le aveva
detto che per vederlo bisognava percorrere molte vie e salire molte
scale, ma che era un cielo così freddo che le avrebbe immediatamente
trasformato le dita in ghiaccioli.
Quando viaggiava Vittoria non provava un vero e proprio freddo né
un vero e proprio caldo, tuttavia sarebbe andata un altro giorno a
vedere il cielo vero. La Dama d’Oro si era infilata in un ascensore alla
fine della strada, e Vittoria dovette sbrigarsi per salire a sua volta.
Acquattata in un angolo della cabina la guardava con curiosità
crescente. La Dama d’Oro non sorrideva più, però il suo
atteggiamento era comico: certe volte piegava la testa di lato in modo
esagerato, o si grattava il fianco facendo passare il braccio dietro la
schiena.
A un certo punto, abbassando lo sguardo, Vittoria vide la sua
ombra. O meglio, le sue ombre. La Dama d’Oro sembrava essere piena
di ombre che brulicavano ai suoi piedi come creature viventi. Era una
delle sue illusioni a sorpresa? Prima, con gli occhi dell’altro corpo,
Vittoria non le aveva notate.
Seguì la Dama d’Oro fuori dall’ascensore e le andò dietro ancora
per un po’ – per fortuna in viaggio non si stancava – fino a entrare
con lei in una minuscola casetta che somigliava al piccolo laboratorio
in cui Mamma si ritirava due ore al giorno per ricamare. C’erano
busti di manichini, una grande lavagna piena di appunti scritti a
gessetto e un bancone alto il doppio di Vittoria.
Ma da nessuna parte c’erano illusioni.
La Dama d’Oro si chiuse la porta alle spalle e sollevò la cornetta del
telefono sul bancone. Vittoria si augurò che stesse per succedere
qualcosa di più interessante, perché si stava annoiando.
«Cambio di programma» disse la Dama d’Oro al telefono. «La
nostra fuggiasca non è neanche qui, ma mi rapprendo ancora un po’.
Mi trattengo. No no, figlio mio, preferisco essere discreta. Questa
madama Cunegonda non è tolto comica, molto comoda, ma forse mi
aprirà più porte del previsto. Di’ a tutti i miei cari figli di restare vigili.
Ogni giorno è importante».
Vittoria non capiva niente di quel che stava dicendo, le sue parole
le giungevano come attraverso l’acqua, tuttavia stava cominciando a
provare un leggero malessere. La Dama d’Oro parlava senza più
esitazioni. Vittoria l’aveva seguita fin lì perché le era sembrata
un’avventura follemente divertente, ma in realtà non si stava
divertendo mica tanto. Sentiva nell’orecchio dell’Altra Vittoria la
vocina preoccupata di Mamma – «La piccola si perde sempre più
spesso in fantasticherie!» – e ne percepiva, come un lieve
sfioramento, la mano tiepida che le accarezzava i capelli.
Stava per tornare al tepore della pelle di Mamma quando la Dama
d’Oro aprì una tenda dietro il bancone per recarsi in un retrobottega.
Vittoria non resisté alla curiosità e la seguì. Ancora una volta il
richiamo del viaggio aveva la meglio.
Si bloccò vedendo la Dama d’Oro chinarsi su un’Altra Dama d’Oro.
Non era una visione raddoppiata come la carrozza per strada, l’Altra
Dama d’Oro era stesa su un grande tappeto bianco con gli occhi
sgranati, un sorriso estatico sulle labbra e il velo a pendenti disposto
intorno a lei come una bella pozzanghera dorata.
Un’acqua rossa le usciva dal naso e dalle orecchie.
Guardava, senza avere l’aria di vederli, corpi trasparenti come
volute di narghilè, per metà donne e per metà uomini, interamente
nudi, che le mormoravano a fior di labbra parole che lei sola poteva
sentire.
Vittoria non capiva niente di ciò che stava succedendo davanti ai
suoi occhi.
La Prima Dama d’Oro dissolse con un gesto i corpi nudi che
fluttuavano intorno all’Altra Dama d’Oro.
«Forse era un’illusione un po’ troppo forte per te» le disse. «Siete
creature talmente fragili, poveri figli miei!». La sua mano dalle
immense unghie rosse abbassò le palpebre tatuate dell’Altra Dama
d’Oro. «Riposa in pace, figlia mia, la tua morte non è stata vana.
Grazie al tuo volto riuscirò forse a saltare il tondo. A salvare il
mondo».
Su quelle parole la Prima Dama d’Oro sollevò lentamente la testa
verso Vittoria. Sembrava che non la vedesse, ma strizzava gli occhi e
fissava l’angolo della stanza in cui si trovava, come se ne percepisse la
presenza. Tutte le ombre si misero subito a contorcersi e strisciare
sotto i suoi piedi come se volessero lanciarsi su Vittoria.
«E tu, bambina mia? Vuoi aiutarmi anche tu a salvare il mondo?».
L’attimo dopo tutto era scomparso: le due Dame d’Oro, il tappeto
bianco, il retrobottega. Vittoria aveva ripreso il posto dell’Altra
Vittoria in casa. Era di nuovo incastrata nel seggiolone troppo stretto.
Mamma, sorridente, le stava dando un cucchiaino di marmellata.
Vittoria aprì la bocca per urlare, ma non uscì alcun suono.
LA SCHIAVA

Ofelia si tolse gli occhiali e si sfregò a lungo gli occhi. Le


bruciavano. A forza di fissare testi aveva le parole stampate fin sotto
le palpebre. Si stiracchiò sulla sedia e sollevò la testa verso il soffitto.
O meglio, verso il pavimento. Alcuni visitatori, camminando
capovolti, si aggiravano tra le corsie della biblioteca. Le faceva sempre
uno strano effetto pensare che era lei a trovarsi in alto e loro in basso.
Chiuse il libro e controllò un’ultima volta il rapporto catalografico
che aveva scritto. Nessuna data di pubblicazione, nessuna indicazione
sulla casa editrice e per autore un illustre sconosciuto: periziare quella
monografia era stato un vero rompicapo che l’aveva costretta ad
alternare in continuazione la lettura oculare alla lettura manuale. Aprì
l’alloggiamento della posta fantopneumatica e constatò con sollievo
che non c’erano nuovi arrivi. Non avrebbe sopportato un altro libro.
Dette un’occhiata furtiva oltre le pareti a traliccio che dividevano il
suo box di lettura da quelli vicini. Gli Indovini erano chini sulle loro
opere nell’alone delle lampade da tavolo. Di Zen, nascosta dietro pile
di schedari ministeriali, si vedeva solo la fronte di porcellana
imperlata di sudore.
Solo Mediana stava nel proprio box a braccia conserte osservandola
con aria divertita.
«Hai finito i compiti, mademoiselle? Anch’io. Andiamo a fare i
buchi insieme».
Ofelia radunò i suoi rapporti. Come se avesse avuto scelta...
Lasciarono i libri catalogati al bancone dei Fantasmi, che in realtà,
con la pelle color mattone e la pancetta, avevano ben poco degli
ectoplasmi. Dovevano il nome al potere familiare che consentiva loro
di far passare qualsiasi oggetto dallo stato solido a quello gassoso e
viceversa. Una volta fantomizzati, anche i documenti più voluminosi
potevano circolare nei tubi pneumatici: in questo modo era possibile
inviare collezioni enciclopediche da una parte all’altra del Memoriale
in un batter d’occhio.
Ofelia passò dal soffitto alla parete e dalla parete al pavimento
prima di infilarsi in uno degli otto transcendium che portavano
all’atrio. Non controllò se Mediana la stesse seguendo, le bastava
sentire i tacchi degli stivali alle sue spalle. Era una sonorità ironica
che la accompagnava sempre ovunque andasse, inseguendola fin
dentro gli incubi.
Da quando l’Indovina aveva posato la mano su di lei aveva smesso
di appartenere a se stessa.
Il sole che entrava dalla rotonda si spense quando Ofelia passò
sotto l’ombra del Secretarium. Il gigantesco globo del vecchio mondo
galleggiava in assenza di peso nell’atrio, vicino e inaccessibile quanto
lo era nei suoi sogni.
Per quanto lo scrutasse, non presentava punti deboli. C’era un
unico accesso possibile: una passerella che andava dal transcendium
settentrionale a una porta talmente ben mimetizzata nel disegno del
mappamondo da risultare invisibile dal basso. La passerella era
sorvegliata da una sentinella a cui veniva dato il cambio ogni tre ore,
e si attivava con una chiave speciale di cui pochissime persone al
Memoriale avevano una copia. Lady Septima dava la sua soltanto al
figlio o, raramente, a Mediana e a Elizabeth quando sir Henry
richiedeva i loro servigi.
A Ofelia sarebbe piaciuto molto sapere cosa bisognava fare per
entrare nelle grazie di quell’automa che dirigeva i gruppi di lettura
senza mai uscire dal Secretarium. Ancora non l’aveva incontrato, ma
le era capitato un paio di volte di sorprendere l’eco del suo passo
meccanico ai piani inferiori del globo, quando si guastava la banca
dati le cui schede perforate venivano stoccate nel Secretarium. Sir
Henry si ingozzava di riferimenti bibliografici come un ingordo si
abbuffa di dolci. Il ritmo di lavoro che imponeva agli aspiranti
virtuosi era insostenibile, e i rapporti mai abbastanza accurati per i
suoi gusti. Innumerevoli volte Ofelia aveva dovuto ricominciare un
rapporto da zero dopo che le era stato rimandato col timbro
“incompleto” a grossi caratteri rossi.
Lazarus aveva creato gli automi per mettere fine all’asservimento
dell’uomo all’uomo. Ofelia avrebbe avuto due paroline da dirgli.
Strizzò gli occhi. Una nuvola a forma di serpente volò nell’aria,
descrisse una lunga spirale e penetrò nel mappamondo dall’alto. I
tubi di vetro della posta fantopneumatica erano visibili solo alla luce
del sole e consentivano di spedire documenti fin dentro il
Secretarium. Per un solo, folle attimo Ofelia si domandò se non fosse
quello il modo migliore per introdursi nel globo. Il regolamento
interno vietava categoricamente la fantomizzazione di esseri umani –
solo i Fantasmi più esperti erano in grado di trasformarsi in vapore
senza rischiare di lasciarci la pelle – ma era disperata.
«Finché campo non andrai mai lassù» le sussurrò Mediana
pizzicandole il mento per farla smettere di guardare il globo.
«Facciamo una deviazione, la mia vescica non regge un secondo di
più».
Ofelia la seguì sotto il peristilio e la aspettò davanti alle toilette
come un docile cagnolino. Mai si era sentita tanto umiliata. La rabbia
che provava per Mediana non era tuttavia paragonabile a quella che
provava per se stessa. Si scambiò uno sguardo severo con quello del
suo riflesso nello specchio che intravedeva dallo spiraglio della porta.
Aveva compromesso Thorn, né più né meno.
«Ve lo dirò in tre parole: non siete redditizio».
Sentendo la voce di lady Septima risuonare sotto gli archi Ofelia si
mise sull’attenti. Nella fretta fece cadere a terra tutti i suoi rapporti.
Non salutare un professore, tanto più un Lord di LUX, faceva scattare
una sanzione immediata, era una lezione che aveva imparato a forza
di corvée e di castighi.
Tuttavia lady Septima non si era rivolta a lei, ma al vecchio
spazzino del Memoriale che scopava metodicamente ogni piastrella
del pavimento.
«A mantenere l’edificio sono le sovvenzioni generosamente
concesse da LUX. I nostri memorialisti hanno investito tutto in
ordinazioni di automi. Fatevene una ragione, il loro rendimento è
cento volte superiore al vostro».
Ofelia sollevò le sopracciglia raccogliendo i rapporti che aveva fatto
cadere. Lady Septima brandiva un portamoduli sotto il naso dello
spazzino, alto e magro quanto lei era bassa e muscolosa.
«Vi siamo grati per il vostro fedele e leale servizio, vecchio, ma è
arrivato il momento di lasciare il posto al futuro. Firmate qui».
Con gli occhi e le dorature che la facevano brillare come un sole
lady Septima era l’incarnazione dell’autorità, eppure lo spazzino
scosse la testa.
A Ofelia fu subito irresistibilmente simpatico. Dentro la tasca della
divisa l’orologio di Thorn aprì e richiuse il coperchio con un sonoro
tac-tac.
Il rumore impertinente fece voltare lady Septima di scatto.
«Apprendista Eulalia! Non avete del lavoro da fare?».
Se Ofelia non avesse avuto le mani occupate a raccogliere i rapporti
avrebbe stretto forte l’orologio per impedirgli di rifarlo. Si animava
sempre più spesso, sbattendo il coperchio nei momenti più
impensati. Rotto com’era, non gli mancava certo la risposta pronta.
«Sì, madama».
«Non sembra. Mi ero rallegrata dei vostri piccoli progressi alla fine
del periodo di prova, ma da allora vi siete deplorevolmente rilassata.
Non riposate sulle vostre alette, possono esservi tolte in qualunque
momento».
Ofelia sostenne lo sguardo penetrante di lady Septima attraverso i
rettangoli scuri degli occhiali. Se quella donna si fosse rivelata
l’osservatrice che il suo potere familiare la predisponeva a essere,
avrebbe subodorato quello che stava succedendo all’interno della
divisione dei precorritori di Helena.
Forse lo sapeva.
«Farò in modo che sir Henry aumenti le quote di lavoro del vostro
gruppo di lettura» decise lady Septima allontanandosi con passo
militaresco. «I vostri compagni vi saranno molto riconoscenti,
apprendista Eulalia».
Una sanzione collettiva: a Ofelia mancava solo quella. Tuttavia non
riuscì a evitare un sorrisino all’indirizzo dello spazzino, che rivolse
impercettibilmente la grossa barba verso di lei senza smettere il suo
meticoloso lavoro di pulizia.
«Finirò per credere che ti piace essere punita, mademoiselle».
I muscoli di Ofelia si contrassero all’unisono. Appena uscita dalle
toilette Mediana si era appoggiata di peso sulla sua schiena in modo
da mantenerla inginocchiata tra i rapporti sparsi per terra. Ofelia non
le vedeva il sorriso, ma lo indovinava dal ronzio felino della voce.
«Attenzione» le sussurrò Mediana. «Iettatore a ore dodici».
Ofelia sollevò gli occhi mortificata. Blasius aveva abbandonato il
carrello in mezzo all’atrio e si dirigeva a passo spedito verso di lei.
Mediana indietreggiò. La sfortuna che portava il commesso era
proverbiale: ovunque fosse, qualsiasi cosa facesse, c’era sempre uno
scaffale della biblioteca che crollava o una lampadina che esplodeva
al suo passaggio.
Blasius si chinò per aiutare Ofelia a raccogliere i rapporti, e nella
fretta sbatté la fronte contro la sua.
«Miss Eulalia» le sorrise esitante. «Ho tanto cercato... Non eravate
mai... Anyway, sono contento di vedervi».
Era effettivamente la prima volta che si rivolgevano la parola dopo
l’incontro sul trenuccello, e non a caso: al Memoriale, Ofelia l’aveva
scrupolosamente evitato. Si concentrava sul lavoro catalografico
quando sentiva il suo passo timido vicino ai box di lettura, cambiava
strada appena ne vedeva il carrello all’angolo di un corridoio. Tutti lo
sfuggivano, e Blasius sembrava così desideroso di fare conversazione
da farla vergognare un po’ di più a ogni fuga.
«Mi dispiace» mormorò senza avere il coraggio di guardarlo in
faccia. «Lo studio non mi lascia un attimo di libertà».
Lo implorò in silenzio di non insistere, di non dire altro. Come
poteva fargli capire che non doveva più confidarsi con lei? Le era
insopportabile percepire con la coda dell’occhio la curiosità
trionfante di Mediana.
Blasius si chinò di più. I suoi umidi occhi da riccio cercavano
ostinatamente quelli di Ofelia.
«Miss Eulalia, se poteste accordarmi un momento...».
Ofelia gli prese i rapporti dalle mani in un modo così brusco che
Blasius fu colpito come se gli avesse strappato il cuore dal petto.
«Mi dispiace» ripeté lei.
Non poteva essere più sincera.
Interdetto, l’uomo sollevò le sopracciglia irsute, poi un lampo di
comprensione gli attraversò gli occhi. Di dolorosa comprensione.
«No» disse facendo un passo indietro. «Sono io a essere
dispiaciuto».
E se ne andò con la schiena curva, non senza prima essere
sbadatamente passato col carrello sui piedi di un visitatore che si
trovava nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Ofelia avrebbe
voluto avere i capelli lunghi di un tempo. L’inconveniente, con i
capelli corti, è che non ci si può nascondere dietro.
«Oh-oh, mi è forse sfuggito un flirt tra i tuoi innumerevoli segreti?»
le sussurrò Mediana chinandosi sulla sua spalla. «Se il tuo povero
marito sapesse...».
Ofelia non riuscì più a contenere la scarica di antipatia. I suoi
artigli, che contro una decina di assalitori si erano rivelati impotenti,
respinsero Mediana senza nessuna difficoltà. La maschietta si rimise
in piedi con una piroetta e scoppiò a ridere come se fosse stato solo il
rimbrotto di un’innamorata.
«Ah già, dimenticavo che la nostra Animista è un po’ draghetta».
«Un’altra parola e metterò personalmente fine a questo ricatto»
sibilò Ofelia tra i denti.
Il sorriso di Mediana si trasformò in una smorfia sinceramente
addolorata. Era sempre così con lei: a volte maschile e sfrontata, a
volte femminile e tenera, come se indossasse a turno due maschere di
carnevale.
«È arrivato il momento che facciamo due chiacchiere, moi et toi.
Andiamo a fare i buchi».
Nel gergo dei memorialisti “fare i buchi” significava trasformare i
rapporti scritti a mano in schede perforate per la banca dati di sir
Henry. Le perforatrici erano più rumorose delle macchine da scrivere,
tanto che era stata dedicata loro una sala insonorizzata nel sottosuolo
per non disturbare i lettori.
Il luogo ideale per parlare lontano da orecchie indiscrete.
«Controlliamo prima il tuo lavoro».
Mediana l’aveva detto subito dopo aver aperto la porta a chiusura
ermetica ed essersi sincerata che nella sala delle perforatrici non ci
fosse nessun altro.
Inerpicata su uno sgabello, passò in rassegna i rapporti di Ofelia
uno per uno.
«Sei migliorata» constatò con un breve fischio di approvazione. «Le
tue contestualizzazioni sono sempre più precise, très bien!». Tolse il
tappo a una penna stilografica e si mise a cancellare tutti i rapporti
che Ofelia aveva passato ore a redigere. «Ecco, questo dovrebbe
rendere i tuoi risultati un po’ meno soddisfacenti».
«Sir Henry mi farà rifare tutto daccapo».
Gli occhi di Mediana cominciarono a brillare come le pietre
preziose della sua pelle. Più gli occhiali di Ofelia diventavano scuri,
più la faccia le si illuminava.
«È buffo, parli di lui come se temessi di farlo arrabbiare».
«Non credo che un automa possa arrabbiarsi» replicò Ofelia con
voce sorda. «Io però sì. Solo i migliori accedono al Secretarium:
impedendomi di distinguermi mi stai facendo perdere tempo. Non
sono venuta a Babel per essere schiava dei tuoi capricci».
«Sì, capisco che stai vivendo male la situazione. Allora voglio dirti
perché ci tengo tanto a diventare precorritrice».
Restituì i rapporti a Ofelia e posò i suoi sul leggìo di una
perforatrice. La tastiera d’avorio e lo sgabello regolabile conferivano
alla macchina l’aspetto di un pianoforte, ma il rumore che
producevano i tasti non era particolarmente musicale.
«Perché i precorritori sanno tutto di tutti» canticchiò Mediana
sovrastando il fracasso delle perforazioni. «E si dà il caso che io abbia
sviluppato una vera e propria dipendenza per i segreti!».
Seduta alla propria macchina, Ofelia non poté fare a meno di
ammirare la destrezza con cui le dita di Mediana danzavano sui tasti
senza la minima esitazione. Per quanto la riguardava era ancora ben
lontana dal padroneggiare le basi del codice inventato da Elizabeth, e
la sua goffaggine non la aiutava di certo, era spesso obbligata a
ricominciare da capo a causa di un errore di battitura.
«Sono pochi i campi in cui non eccelli» riconobbe Ofelia a
malincuore. «Hai già una lunghezza di vantaggio su tutti noi, a che ti
serve falsificare i nostri risultati?».
Mediana le rivolse un sorriso intenerito mentre infilava una scheda
vergine nella perforatrice.
«Credi davvero che sarei arrivata dove sono soltanto grazie al mio
talento? Il mio potere familiare non solo mi permette di assorbire i
ricordi di quelli che tocco, ma anche le loro conoscenze. Sai perché
sono riuscita a entrare nel Secretarium? Perché sir Henry e lady
Septima avevano urgentemente bisogno di un traduttore di lingue
antiche. E sai perché sono diventata di colpo bravissima in lingue
antiche? Perché ho posato le mani su molti, moltissimi specialisti. E
in cambio ho permesso loro di posare le mani su di me».
Mediana aveva pronunciato l’ultima frase in un tono così leggero,
digitando sulla tastiera con gesto così brioso che Ofelia non si fece
trarre in inganno. Ciò che la graziosa maschietta aveva sacrificato per
soddisfare la sua fame di sapere le era costato molto più caro di
quanto non lasciasse intendere.
«E valeva la pena?».
«Tutti i segreti valgono la pena. Se fosse per me passerei la vita
nelle gallerie del Secretarium per carpirne ogni mistero. Avrai sentito
parlare della “verità finale”, no? Sono fermamente intenzionata a
scoprire cos’è. Ciò detto, anche i tuoi segreti non sono niente male,
mademoiselle».
Mediana interruppe la perforazione e scoccò a Ofelia uno sguardo
estremamente serio.
«Sarò franca, alcuni tuoi ricordi sono molto difficili da interpretare.
Non ho capito niente del tipo in grado di cambiare faccia, ma so una
cosa, che tu e tuo marito avete messo Babel in una posizione
delicatissima. La città ha stretto accordi commerciali con tutte le
arche, comprese Anima e il Polo. Non è una terra d’asilo per
fuggiaschi della vostra risma. Rischi grosso se LUX viene a sapere chi
sei e cosa cerchi. E non è niente in confronto a quello che succederà a
tuo marito se lo prendono. Babel predica la non violenza, ma
credimi, non vi piacerebbe sapere cosa succede nei loro centri di
correzione».
Le dita di Ofelia scivolarono sulla tastiera. Se la cavò buttando via
la scheda in corso di perforazione e sostituendola con una vergine.
«Allora che vuoi fare? Mi denunci?» chiese.
«No, mademoiselle, vorrei solo farti capire che non sei nella
posizione di lamentarti. Il mio ricatto ti disturba? Fattene una
ragione».
«E se io leggessi i tuoi effetti personali senza il tuo permesso? Se ti
ricattassi basandomi sui tuoi segreti?».
«Ti sfido a trovarne uno più imbarazzante del tuo» disse Mediana
con un sorriso intriso di benevolenza. «Siamo serie: a chi di noi due
pensi che lady Septima accorderebbe più credito?».
Ofelia fissò i suoi rapporti cancellati sul leggìo respirando
profondamente per disperdere il grigio che le stava ricoprendo gli
occhiali come fumo, tanto da impedirle di vedere. Si sentiva in
trappola. Era quindi condannata, settimana dopo settimana, a
perforare schede incomplete? Doveva rinunciare a cercare Thorn per
proteggerlo?
Mediana riprese la perforazione con aggraziata gestualità da
concertista.
«Mi odi. Tutti mi odiate. E la cosa più desolante è che non mi
odiate per quello che ho scoperto su di voi, ma perché in fondo
sentite che sono la persona che vi capisce meglio al mondo. Mi sono
fermata ai tuoi ricordi recenti, mademoiselle, ma se fossi risalita fino
alla tua nascita ti conoscerei meglio di quanto ti conosci tu».
«Tu non mi conosci».
Dicendolo, Ofelia non aveva potuto impedire che la sua voce
assumesse il tono dell’avvertimento. L’insolenza di Mediana e la
sfacciataggine con cui aveva preso il timone della sua vita la facevano
uscire dai gangheri.
«Oh, sì che ti conosco» insisté Mediana con dolcezza. «So quanta
paura hai di non ritrovare più la persona che ti manca. E so anche»
aggiunse dopo un silenzio eloquente, «quanta paura hai di riuscirci.
Detesti essere trattata da bambina, ma di fronte a un uomo sei e
rimani una mocciosa senza esperienza».
Le dita di Ofelia cominciarono a tremare così forte che dovette
infilarle tra le ginocchia. Fu attraversata dalla visione fugace di
Mediana che faceva buchi nella propria lingua. Il resto della
codificazione si svolse nel più assoluto mutismo, con l’una e l’altra
concentrate sulle rispettive tastiere.
Mediana terminò rapidamente mentre Ofelia, completamente
ossessionata da quanto era stato detto, ancora stentava.
«Regalo».
Guardò senza capire i due biglietti per il caffè teatro che Mediana
aveva posato sul suo leggìo.
«Non sono cattiva come pensi. Ero sincera quando ho detto che un
giorno mi sarebbe piaciuto averti come assistente. Ho tutto l’interesse
a prendermi cura di te, e tu hai i nervi a fior di pelle. Domani è
domenica. Prenditi un permesso, vai in città e fai un salto in questo
posto».
L’idea di sfuggire per qualche ora alla vicinanza di Mediana era
accattivante, ma le dava decisamente fastidio la pretesa che aveva
quest’ultima di controllare anche il suo tempo libero.
«No, grazie» disse seccamente.
«Non era un consiglio. Non hai idea del numero di persone che ho
dovuto ricattare per ottenere questo indirizzo. Ci vai e basta».
«Perché?».
Mediana mise le schede perforate nel montacarichi. Sotto le
luminescenze la sua espressione si era fatta enigmatica. In quel
momento sembrava più che mai indossare una maschera da
carnevale.
«Per farla semplice, diciamo che non è un luogo rispettabile. Finora
il mio percorso è stato irreprensibile, capisci? Non ci tengo a farmi
vedere in quel posto, ma si dice che vi succedano cose. Cose
compromettenti. Vacci senza divisa e preferibilmente accompagnata,
attirerai meno l’attenzione. Portami delle informazioni e non mi
mostrerò ingrata».
«Mi libererai?».
«No, ma procederemo a uno scambio di informazioni».
«Quali informazioni potresti mai darmi?».
Ofelia si irrigidì quando Mediana si chinò lentamente e
sensualmente su di lei facendola quasi cadere dallo sgabello.
«Quell’alto energumeno che hai per marito» le bisbigliò
all’orecchio, «l’ho visto. Qui al Memoriale».
Con gesto voluttuoso prese i due biglietti dal leggìo e li batté sugli
occhiali di Ofelia, che impallidirono fino alla trasparenza.
«Vai in quel locale al posto mio, signorina, e ti dirò di più».
DIVIETI

L’entrata del grande bazar popolare sembrava il frontone di un


tempio in vetro e acciaio. Dal cono d’ombra di una statua di sfinge
Ofelia osservava la folla, mosaico colorato e movimentato di uomini,
animali e automi. Il contrasto di odori che ne emanava rendeva
ancora più irrespirabile l’aria bollente.
Per quanto fosse perfettamente inutile non poteva fare a meno di
cercare Thorn con gli occhi. Da mesi non faceva che elucubrare
ipotesi, ragionare a forza di “se” e “forse”, e l’idea di essere davvero
sulle sue tracce, sempre che Mediana non avesse mentito, le faceva
battere il cuore. Una pulsazione caotica, esasperata dalla speranza e
dall’impazienza, che rimbombava nel suo baratro interno.
Eppure, benché le seccasse ammetterlo, Mediana aveva visto giusto:
anche lei aveva paura. Sebbene pensasse in continuazione a ritrovare
Thorn, non aveva idea di quello che sarebbe successo dopo.
A un certo punto lo vide. Non Thorn, evidentemente, ma l’uomo
che stava aspettando.
Blasius, a stento riconoscibile senza la divisa, traballava in mezzo
alla folla. Le grosse babbucce, i pantaloni a sbuffo e le larghissime
maniche della tunica erano altrettanti ostacoli che ne impacciavano
ogni movimento. Si era coperto la faccia con la mano, probabilmente
perché gli effluvi misti del bazar erano troppo molesti per il suo
odorato da Olfattivo. Strizzava le palpebre accecato dal sole, e fu con
vero sollievo che, raggiunta l’ombra della sfinge, vide Ofelia nel
luogo convenuto.
«Biss Eulalia!» esclamò continuando a tapparsi il naso. «Debo
abbeddere ghe non gi gredevo, anghe dopo aber ricevudo il vostro
bessaggio. Non me l’asbeddavo brobrio! Io... In fact, gredevo ghe ge
l’avesse gon me».
«Prima che continuiamo devo avvertirvi» si affrettò a prevenirlo
Ofelia. «So che volevate parlarmi, ma vi prego di non raccontarmi
niente che riguardi la vostra vita privata. La mia ha smesso di
appartenermi, e non posso promettervi di poter proteggere la vostra.
E voglio che sappiate anche un’altra cosa» disse mostrandogli i
biglietti del caffè teatro. «Se venite con me, probabilmente vi
esporrete a delle noie».
Blasius fu così sbalordito da quella dichiarazione che si stappò il
naso. Poi si riaggiustò il turbante, come in preda a un dibattito
interno, e accennò un sorriso timido.
«Well, sarà qualcosa di diverso, una volta tanto. In genere sono io
che espongo gli altri a delle noie. Dove andiamo?».
Ofelia fu pervasa da una tale gratitudine che cercò le parole per
esprimerla, ma non le trovò. Ogni volta che si emozionava, le parole
la tradivano sfuggendole.
«In realtà speravo che poteste dirmelo voi. Ho chiesto a varie guide
segnaletiche pubbliche, ma nessuno conosce l’indirizzo del caffè
teatro. So solo che è da queste parti, in questo quartiere».
Ofelia porse i biglietti a Balsius, che quasi subito aggrottò le
sopracciglia.
«Siete sicura che l’indirizzo scritto qui non sia un errore?».
«Perché?».
«Perché è quello degli antichi bagni, che sono chiusi da mille anni.
I mercanti montano i loro chioschi tra i ruderi. Se... well, se volete
seguirmi vi farò vedere».
Il colore della pelle di Blasius si era fatto ancora più intenso che al
naturale, ma Ofelia era troppo preoccupata per notarlo. E se quei
biglietti per il caffè teatro fossero stati solo un brutto scherzo?
Penetrare nel bazar popolare fu come entrare in un fuoco d’artificio
di stoffe e spezie. La galleria centrale era così affollata da essere quasi
impraticabile. Blasius balbettava scuse intorno a sé ogni volta che un
vaso si rompeva, un banco crollava, un automa si guastava, una
bicicletta sbandava o uno zebù si imbizzarriva, come se fosse davvero
responsabile di tutti gli incidenti del mercato.
«Che volevate dirmi ieri?» domandò Ofelia. «Se non è troppo
personale, naturalmente».
«What? Ah sì, a proposito della morte di miss Silence» mormorò
Blasius avvicinandosi al suo orecchio. «Ho seguito il vostro consiglio
e fatto un’indagine personale per capire se... sì, se era colpa mia o
no».
«E avete scoperto qualcosa».
Blasius annuì nervosamente facendo di nuovo perdere l’equilibrio
al turbante.
«Secondo il medico legale il decesso non è stato causato dalla
caduta dalle scale, miss Silence era già morta prima di cadere. Di... di
un infarto fulminante».
Ofelia sentì il cuore martellarle contro le costole. Si ricordò il
baciamano del barone Melchior, l’illusione perfida che le aveva
insufflato nel corpo, il dolore intollerabile che le aveva lacerato il
petto.
No, il barone Melchior era morto. La morte degli scomparsi di
Chiardiluna e quella di miss Silence erano due faccende ben distinte.
«Provoco molti incidenti» riprese Blasius senza accorgersi del suo
turbamento, «ma non ho mai fatto ammalare la gente. Sto
cominciando a credere che abbiate ragione, che forse non c’entro.
Tanto più che ho scoperto un’altra cosa».
Sembrava dilaniato tra il sollievo e l’inquietudine, due emozioni
paradossali che gli distorcevano i lineamenti già tormentati della
faccia.
«Un’altra cosa?» si stupì Ofelia.
«Miss Silence era mastro censore» le ricordò Blasius. «Il mastro
censore è quello che tra tutte le opere del Memoriale decide quali
siano conformi allo spirito della città e quali non lo siano. Se
un’opera dà problemi può decidere di trasferirla in magazzino o...
well, procedere alla sua distruzione pura e semplice».
Ofelia pensò con amarezza al museo di Anima.
«E che tipo di mastro censore era miss Silence?».
«Una radicale» mormorò Blasius a voce bassissima, come se le
temibili orecchie della superiore potessero sentirlo dall’oltretomba.
«Implacabile nel braccare i documenti che riteneva nocivi. Alla prima
frase ambigua il libro finiva directly nell’inceneritore. Abbiamo
perduto edizioni uniche a causa delle sue purghe. I Lord di LUX le
hanno rivolto più di un ammonimento, il che è legittimo: finanziano
il Memoriale per sviluppare le collezioni, non per bruciarle. Tutto
inutile, miss Silence ricadeva sempre nell’eccesso. Fino al rifacimento
del catalogo, almeno».
Con gesto navigato Blasius fece spostare di lato Ofelia per evitare
una lanterna che si era inspiegabilmente staccata dalla tettoia di una
bottega proprio mentre ci passavano sotto.
«L’arrivo dei gruppi di lettura di sir Henry ha cambiato le cose»
continuò come se niente fosse. «Miss Silence ha ricevuto il divieto
categorico di distruggere altri libri. Non l’ha presa per niente bene,
credetemi, e spesso sono stato io a fare le spese del suo malumore».
«Vi credo. L’ho vista una volta sola, ma ne ho un brutto ricordo».
«Appunto, volevo proprio arrivare a quella volta» mormorò Blasius,
«al giorno in cui ho... avete... well, il giorno in cui il carrello dei libri
si è rovesciato».
«Sì?» lo incoraggiò Ofelia.
«Quei libri... miss Silence li ha distrutti malgrado il divieto. Subito
prima di morire. Quando mi ha detto di portarli via, giuro che non
sapevo la sorte che intendeva riservare loro» balbettò Blasius come se
temesse di screditarsi. «Dovevo solo trasportarli nel suo ufficio perché
li esaminasse».
A Ofelia sembrò che l’allegra calca del bazar, gli effluvi orientali e
gli stravaganti ninnoli si fossero improvvisamente fatti lontani. Seppe
con assoluta certezza che proseguire quella conversazione equivaleva
ad avventurarsi su una strada isolata e pericolosa che i bravi cittadini
non percorrevano.
«Continuate» disse tuttavia. «Perché ha distrutto quei libri? Che
avevano di tanto particolare?».
Blasius, disturbato dai fumi di un mercante di incensi davanti al
quale stavano passando, si grattò il lungo naso a punta.
«Racconti per bambini! Erano stati pubblicati dopo la Lacerazione e
raccontavano gli inizi del nuovo mondo. Edizioni molto belle, ma
honestly stavano cominciando a coprirsi di polvere. I giovani lettori
non li chiedevano mai in prestito».
«Da quanto dite non sembrano racconti molto sovversivi».
«Oh, menzionavano ogni tanto le ehm-ehm del vecchio mondo»
tossicchiò Blasius per non dire la parola “guerre”, «ma con un intento
metaforico e pacifico. Anche un po’ ingenuo, da quel poco che mi
ricordo. Davvero non capisco come le sia saltato in mente di
prendersela con quei libri nonostante gli ordini».
«Forse per l’autore?» azzardò Ofelia.
«Morto e dimenticato da un pezzo» rispose Blasius con un’alzata di
spalle. «Un certo E. D.».
«Hidì?».
«E. D.» ripeté Blasius cercando di sfumare l’accento. «Solo le
iniziali. Come dire un anonimo. Ho fatto qualche ricerca in merito,
non si conoscono altri lavori suoi oltre ai racconti. Erano stati
stampati in pochissime copie, forse quelle del Memoriale erano le
ultime. Libri così belli!» sospirò. «Persi per sempre!».
«Quindi l’ultima cosa che ha fatto miss Silence prima di morire è
stato bruciare i racconti di uno sconosciuto» ricapitolò Ofelia. «È
piuttosto strano».
«In fact, ho tenuto la cosa più strana per la fine. Il punto in cui è
stato trovato il cadavere di miss Silence... la scaletta della biblioteca
dalla quale è caduta...». Blasius si portò una mano sul naso come se a
rivoltargli lo stomaco fosse arrivato un odore del passato ancora più
forte degli effluvi del bazar. «Oh, miss Eulalia, se aveste sentito
quell’orribile puzza!... L’odore della paura assoluta. Il cadavere» disse
dopo un profondo respiro, «è stato trovato nel punto esatto in cui
erano allineati i libri del misterioso E. D. Intendo prima che venissero
trasferiti. Erano rimasti gli scaffali vuoti, ciò nonostante è andata a
ispezionarli nel bel mezzo della notte, contro ogni buonsenso!».
«Un accanimento che la dice lunga» ammise Ofelia, «ma che non
spiega il terrore da cui è stata colta al momento di morire. Secondo
voi... potrebbe esserci un qualche collegamento col Secretarium?».
«Il Secretarium?» si stupì Blasius. «Non vedo bene cosa c’entri. Miss
Silence non vi aveva accesso. So che girano voci su quel posto, ma
sono solo dicerie. Ecco gli antichi bagni, miss Eulalia!».
Era passato sotto un arco che conduceva a una via trasversale.
L’acciaio e il vetro del mercato coperto lasciarono il posto alla pietra e
all’acqua. Vestigia di colonne formavano una galleria circolare a cielo
aperto intorno a una vasca dall’aria insalubre. I venditori di frutta che
vi avevano allestito i propri banchi non facevano che scacciare vespe
a colpi di racchetta meccanica. Ofelia capiva meglio la reazione di
Blasius alla vista di quei biglietti. Il posto non aveva assolutamente
nulla del caffè teatro. L’idea che Mediana l’avesse presa in giro le fece
salire una rabbia come raramente aveva provato.
Poi la notò. Dall’altra parte della vasca, mossa dal vento,
un’insegna rotonda dondolava al disopra di un vecchio portone
arrugginito. Ofelia sbatté contro vari banchi e scivolò su molta frutta
marcia prima di raggiungerla.
«Bensate ghe sia qui, biss?» domandò Blasius che, non facendocela
più, si era ritappato il naso.
Lei non rispose. Osservava. Sole e pioggia avevano finito per
rimuovere la vernice dall’insegna, ma la forma era senza dubbio
quella di un’arancia. Certo, poteva essere una coincidenza, ma
l’istinto suggerì a Ofelia che non lo era. Dette un colpo al battente,
naturalmente schiacciandosi le dita.
Poco dopo si aprì uno spioncino.
«Che posso fare per voi?» domandò una vocina.
Ofelia mostrò i biglietti, si udì lo scatto della serratura e un
bambino aprì il portone. Aveva addosso un semplice pareo che ne
faceva risaltare la pelle color cioccolato. Posare i piedi nudi sul
selciato bollente non sembrava disturbarlo. Li invitò gentilmente a
entrare e richiuse a chiave il portone alle loro spalle. Dall’altra parte
c’era un cortiletto a cielo aperto dal lastricato dissestato che forse una
volta era stato uno spogliatoio degli antichi bagni.
Senza dire una parola il bambino scelse una lampada a gas tra
quelle che erano appese all’entrata, la accese e la dette a Blasius che la
afferrò nel panico, come se gli avessero messo in mano un candelotto
di dinamite.
«Seguite le frecce» disse il bambino indicando un ingresso dall’altra
parte del cortile. «Vi auguro buona impertinenza, ladies and
gentlemen!».
Ofelia e Blasius si incamminarono al buio su una scala che
scendeva a fondo nel sottosuolo. La temperatura tropicale del mondo
esterno cominciò a calare vorticosamente. Centotrenta scalini dopo,
quando arrivarono all’entrata di un ampio corridoio sotterraneo, era
glaciale. Ofelia rabbrividì. Indossava la toga e i sandali leggeri che le
aveva regalato Ambroise quand’era arrivata a Babel, una tenuta non
proprio adatta a girare per le cantine.
«Good lords...» mormorò Blasius.
La lampada che teneva in mano aveva illuminato, appena visibile
tra gli altri graffiti, una freccia tracciata a gessetto su un muro. Tranne
che non era un muro, erano ossa umane: decine, centinaia, migliaia
di tibie e crani sovrapposti l’uno all’altro come mattoni.
Catacombe.
«È meglio che non mi stiate vicino» la avvertì Blasius. «Potrei
provocare uno smottamento da un momento all’altro».
Mentre imboccavano il tunnel nel silenzio dell’ossario i loro passi
risuonavano come spari.
«Il potere familiare degli Animisti funziona solo con gli oggetti»
bisbigliò Ofelia. «Un principio fondamentale secondo il quale non
dovrei essere capace di leggere la materia organica. Eppure quand’ero
adolescente ho avuto tra le mani una collana preistorica costituita da
denti umani, e l’ho letta come avrei letto una qualunque collana,
signor Blasius. All’epoca non mi sono fatta tante domande».
Il timbro della sua voce era distorto dal riverbero dei luoghi,
sembrava che a parlare fosse una straniera. Si frizionò le braccia
congelate e guardò Blasius che camminava goffamente qualche passo
davanti a lei.
«In che momento?» continuò Ofelia. «In che momento smettiamo
di essere umani e diventiamo oggetti?».
Blasius continuò ad avanzare in silenzio tenendo la lampada
sollevata per proiettare la luce il più lontano possibile. Quando
finalmente rispose lo fece con una voce diversa dal solito, più bassa,
più calma, priva di balbettii.
«Certi esseri umani sono oggetti anche da vivi, miss Eulalia».
Ofelia fu colpita dall’osservazione, ma Blasius non ebbe il tempo di
spiegarsi. Dall’ossario erano sbucati in una grande sala a volta.
Piena di gente.
Uomini e donne ancheggiavano in estasi sotto lanterne a forma di
arancia. Quelli che non ballavano affollavano i banconi e i tavolini
bassi, sedevano gli uni accanto agli altri, alcuni gli uni sugli altri.
Bevevano, fumavano, gesticolavano, parlavano, si abbracciavano, si
picchiavano... senza emettere il minimo suono.
A Ofelia fece l’effetto di un raduno di mimi.
«Un’insonorizzazione del genere può essere opera solo di un
eccellente Acustico» commentò Blasius impressionato.
Spense la lampada e contemplò lo spettacolo silenzioso che si
svolgeva sotto i suoi occhi come se cercasse di analizzare un dipinto
dotato di vita. Poi si tolse il turbante e con gesti maldestri lo posò
sulla testa di Ofelia srotolandone un tratto per coprirle metà viso.
«Ignoro cosa vi abbia condotto qui, miss» sussurrò, «ma non è
luogo per un’apprendista virtuosa, questo. Se lady Helena viene a
sapere dove siete stata oggi, non avrà altra scelta che espellervi dal
conservatorio».
«Ma... e voi?» balbettò Ofelia da sotto la stoffa cercando di
riposizionarsi gli occhiali.
Blasius fece un sorriso privo di gioia indicandosi la punta aguzza
del naso.
«Mi ci vedete a portare il velo con un profilo simile? Don’t worry!
Sono solo un commesso, non ho nessuna reputazione da difendere».
Appena mossero un passo nella sala sotterranea il silenzio andò in
frantumi. Ofelia si ritrovò in mezzo a un turbine di ballerini,
musicisti, fumatori, lottatori, artisti e giocatori che non facevano
minimamente caso a lei.
Blasius la condusse a un tavolo miracolosamente libero dove
avrebbero evitato di farsi calpestare, e si profuse in scuse quando la
sedia che porse a Ofelia si sfasciò sotto il suo peso, poi le fece una
domanda che lei non sentì per colpa del rumore.
«State cercando qualcosa di preciso?» ripeté a voce più alta.
Con la testa semisommersa dal turbante Ofelia si guardò intorno. I
suoi occhi erano aggrediti dal movimento, le sue narici dall’assenzio,
le sue orecchie dal jazz. Mediana l’aveva mandata lì per raccogliere
informazioni compromettenti. Aveva solo l’imbarazzo della scelta.
Alcol, tabacco, duelli: Ofelia aveva frequentato Babel abbastanza da
sapere che le attività e le consumazioni di quel locale erano illegali.
Sarebbero bastate le freccette a far finire in prigione quelli che ci
stavano giocando. Era come se tutte le tensioni accumulate in
superficie – benpensantismo, tabù, innumerevoli regole di buona
condotta – si scaricassero nel sottosuolo. Raramente Ofelia si era
sentita tanto intrusa: era lì per spiarli, ma in fondo avrebbe voluto
essere una di loro.
E poi c’erano le arance. Erano dappertutto, sbalzate su ogni ferro
battuto, stampate su ogni paralume. Ancora una volta pensò che non
poteva essere una coincidenza.
Sobbalzò quando un uomo le si avvicinò aprendo un lembo del
soprabito. Un’impressionante quantità di libri traboccava da ogni
tasca: romanzi gialli, testi erotici illustrati, manifesti rivoluzionari,
tutta roba vietatissima. Scosse la testa il più rispettosamente possibile
per declinare la sua offerta. Comunque avrebbe avuto serie difficoltà
a pagarlo. In quanto apprendista virtuosa riceveva ogni settimana un
sussidio sotto forma di scheda perforata che però le dava accesso solo
a una determinata lista di servizi pubblici. Il mercato nero non ne
faceva certamente parte.
Il suo sguardo incrociò quello di Blasius. Seduti in mezzo a quei
divertimenti vietati erano entrambi così impacciati che scoppiarono a
ridere. Era un’eternità che Ofelia non rideva in quel modo, ma tornò
subito seria appena si accorse che Blasius la osservava con attenzione.
L’uomo aveva le mani giunte sul tavolo e si girava i pollici come se
esitasse. Senza turbante i capelli grigi gli partivano in tutte le
direzioni. I suoi occhi neri mandavano un bagliore timido un po’
inquieto.
Alla fine si decise ad articolare due sillabe che, pur coperte dalla
musica, erano facilmente leggibili sulle sue labbra.
«Grazie».
Allora Ofelia fu colta da un terribile dubbio: dando appuntamento
a uno scapolo non lo stava inducendo in errore sulle sue intenzioni?
Si era subito sentita vicina a Blasius e aveva capito che la cosa era
reciproca, ma non aveva mai preso in considerazione la possibilità
che potesse sorgere un malinteso.
«Ehm... devo dirvi una cosa».
Blasius si toccò l’orecchio con la mano per far capire a Ofelia che
non la sentiva. Lei raccolse una delle carte da gioco di cui era
disseminato il pavimento e sul bordo, dove non c’era niente di
stampato, scrisse un messaggio che le fece arrossire gli occhiali. Le
faceva rabbia scoprire quanto Mediana avesse visto giusto.
C’È UN UOMO NELLA MIA VITA.
Blasius decifrò la scrittura minuta alla luce arancione della lampada
da tavolo. Le sopracciglia cespugliose gli si sollevarono fino a
trasformargli la fronte in fisarmonica. Rimase a lungo con la carta fra
le mani senza riuscire a smettere di guardarla mentre Ofelia stava sui
carboni ardenti.
Poi scrisse la risposta sul bordo opposto.
ANCHE NELLA MIA.
Ofelia dovette rileggere più volte quelle tre parole per essere sicura
di non fraintendere. Quando sollevò gli occhiali su Blasius, il
commesso si stava massaggiando la pelle gommosa del viso e
sembrava aspettare la sua reazione con apprensione, come se ne
dipendesse la propria vita. Ofelia era poco propensa alle effusioni, ma
non poté impedire che la mano le scattasse verso quella di lui. Per la
prima volta i lineamenti tormentati di Blasius si distesero. Lo trovò
bello. Le loro dita si strinsero goffamente, ma con fermezza.
L’amicizia era suggellata.
«Che l’impertinenza sia con voi, cittadini!».
I ballerini si bloccarono, le risate si spensero e i musicisti fecero
tacere gli strumenti. Tutti si voltarono verso il palcoscenico da cui era
giunta quella voce simile al ruggito di un leone, una voce che Ofelia
aveva riconosciuto subito, la voce del Senza Paura E Quasi Senza
Rimprovero. Era la prima volta che vedeva in carne e ossa
l’inafferrabile ribelle, e non credeva ai suoi occhiali. L’individuo in
piedi dietro le luci della ribalta era così gracile, stempiato e ordinario
che avrebbe potuto incrociarlo cento volte senza mai notarlo. Si
domandò da dove gli venisse quella voce tonante.
L’uomo puntò il dito verso l’alto soffitto a volta.
«Sopra le nostre teste vivono le pecore!» esclamò. «Un grande
gregge docile che bela tutto ciò che gli ipocriti di LUX gli dicono di
belare. Un gregge la cui libertà si riduce a ogni nuova norma, a ogni
nuova regola, e che ciò nonostante bela ancora!».
Un coro anarchico di fischi e applausi si levò dalla sala
interrompendosi quando il Senza Paura E Quasi Senza Rimprovero
riprese la parola.
«Qui sotto, cittadini, torniamo esseri liberi. Diciamo quello che
pensiamo come lo pensiamo. Non siamo scolaretti modello, siamo i
ragazzacci di Babel!».
Un’esplosione di gioia accese la sala.
«Abbasso l’Index!» concluse il Senza Paura. «Morte ai censori!».
«Abbasso l’Index! Morte ai censori!» ripeté la folla.
Ofelia cercava di farsi piccola piccola sulla sedia. Il caffè teatro era il
rifugio del nemico pubblico numero uno e dei suoi accoliti. Che
avrebbero fatto se avessero saputo che in mezzo a loro c’erano due
rappresentanti dell’istituzione che odiavano di più?
«Andiamocene» disse a Blasius alzandosi con discrezione.
Lì per lì non capì perché l’altro si ostinasse a rimanere seduto e
fermo come una statua. Le servì un attimo per accorgersi che al
tavolo si era aggiunto il bambino del portone, e che teneva una
pistola puntata su di loro.
«Fateci l’onore di restare ancora, ladies and gentlemen» disse molto
educatamente. «Papà vi riceverà nel suo camerino, se avrete la
compiacenza di seguirmi».
LA BELVA

A Ofelia era già capitato di entrare nel camerino di una diva


all’Opera di famiglia del Polo, ma quello dove fu condotta di forza
insieme a Blasius non gli somigliava affatto. Mancavano velluti,
tappeti, specchi o guardaroba, in compenso c’era una quantità
impressionante di materiale radiofonico e, fissate al muro, mappe
dettagliate di ognuna delle arche minori da cui era composta Babel.
Con un movimento della pistola il bambino indicò una panca su
cui Blasius e Ofelia sedettero senza farsi pregare. Per essere un
moccioso con i piedi sporchi aveva modi decisamente persuasivi.
«Papà sarà da voi appena finito il discorso. Forse ci vorrà un po’,
una volta partito ha difficoltà a fermarsi. Vi accendo la radio per farvi
compagnia».
Il bambino girò il bottone di un apparecchio che subito diffuse la
musica pomposa di una marcia sinfonica. Fischiettò per
accompagnarla muovendo la pistola come la bacchetta di un
direttore d’orchestra.
«Sorry davvero» sussurrò Blasius guardando l’arma da fuoco come se
ne vedesse una per la prima volta. «La mia sfortuna ha colpito
ancora».
«Più che sfortunati siamo stati imprudenti, temo» disse Ofelia.
«Tocca a me scusarmi per avervi trascinato in questa storia».
Si mise a riflettere intensamente. Come uscire da quella trappola?
Si trovavano da qualche parte in un sottosuolo labirintico con un
bambino che li teneva sotto mira. Un tentativo di fuga si annunciava
complicato.
Osservò il camerino con attenzione raddoppiata. Il materiale
radiofonico e le mappe sulla parete avevano l’aria di essere stati messi
lì in fretta e furia: il luogo non era occupato da molto tempo. Notò
alcune fotografie seppia posate sulla consolle della
radiocomunicazione. Sulla più vecchia e più sbiadita di tutte si
vedevano due giovani donne abbracciarsi con il sigaro in bocca e il
bicchiere in mano. Ofelia scostò la stoffa del turbante per essere
sicura di aver visto bene. Una delle due donne indossava un vestito a
pois neri dall’inimitabile cattivo gusto.
Madre Ildegarda!
Era incredibile trovarla a Babel in versione clamorosamente
ringiovanita e imbellita, ma confermava l’intuizione che aveva avuto
Ofelia vedendo l’insegna a forma di arancia del caffè teatro.
«Ah» disse il bambino smettendo di fischiettare. «Ecco papà con la
sua guardia del corpo».
La porta si era effettivamente aperta sul Senza Paura E Quasi Senza
Rimprovero che si tamponava il viso coperto di sudore, come se
l’apparizione in scena l’avesse sfinito.
La tigre dai denti a sciabola che lo accompagnava presentava il
gigantismo tipico di una Bestia. Veniva da chiedersi per quale
miracolo un animale del genere riuscisse a passare dalle porte. Con
una guardia del corpo come quella l’uomo poteva davvero
permettersi di non avere paura di niente e di nessuno.
Il Senza Paura fece segno alla belva di sedersi e al figlio di
andarsene. Poi si chinò sull’apparecchio radio che stava ancora
trasmettendo la marcia sinfonica. Ofelia pensò che volesse spegnerlo
per poter parlare, invece l’uomo aumentò il volume e si accomodò
sulla radio come se fosse un sedile, quindi si portò l’indice alla bocca
per chiedere silenzio e intimare a tutti di concentrarsi sulla musica.
Ofelia era passata attraverso situazioni ben poco banali nel corso
della sua vita. Ormai ne avrebbe fatto parte a pieno titolo anche
ascoltare la radio nella stessa stanza di una tigre dai denti a sciabola.
Trascorse così un lungo momento piuttosto surreale, quando
all’improvviso la radio perse un colpo e ripeté due volte lo stesso
passaggio musicale. Allora, come se fosse ciò che aspettava fin
dall’inizio, il Senza Paura tolse subito il volume.
«Gli echi sono fenomeni reaaally affascinanti» disse con accento
babeliano molto pronunciato. «Gli scienziati sono in grado di
illuminare le città e spedire uomini nel cielo, ma non ce n’è uno –
non uno, capite? – che sia mai stato capace di spiegare questo
capriccio della natura. Da quando mi sono lanciato nella delicata arte
della radiopirateria mi sono imbattuto in una quantità di ritorni
d’onda come quello che avete sentito. Da principio lo trovavo
reaaally seccante, ma alla fine mi sono appassionato alla questione».
La voce del Senza Paura aveva una tale ampiezza che, sebbene
parlasse con un tono normale, sembrava che ruggisse a ogni frase.
Ofelia, non senza apprensione, si domandò dove volesse andare a
parare.
«Ho condotto una serie di esperimenti sugli echi» continuò quello
imperturbabile. «Avete mai visto le immagini sdoppiate su una
fotografia? Avete mai sentito le vostre parole tornarvi indietro nella
cornetta del telefono? Io sì. Un numero incalcolabile di volte. Eppure
non sono mai riuscito a capire cosa sia un eco e quali condizioni lo
suscitino. Tuttavia ho fatto una scoperta reaaally interessante».
Aveva assunto un tono confidenziale, ma la sua voce inadatta ai
mormorii si propagava assolutamente dappertutto.
«Da qualche anno la frequenza di questi fenomeni è aumentata in
maniera esponenziale. Ci sono sempre più echi, sempre più spesso, in
sempre più luoghi. Volete sapere a che conclusione sono giunto?».
Ofelia annuì rigida. In realtà faceva una fatica improba a seguire il
discorso del Senza Paura, perché la panca era scossa dai tremiti di
Blasius che non riusciva a distogliere lo sguardo dalla tigre dai denti a
sciabola. Se lei aveva paura, lui era terrorizzato.
«Ne ho dedotto che l’universo intero stava cercando di farci
giungere un messaggio» dichiarò il Senza Paura con enfasi. «Un
messaggio d’importanza vitale. Un messaggio urgente». Si batté
teatralmente la tempia e assunse una voce minacciosa. «“Pensa con la
tua testa, stupido piccolo uomo, invece di ripetere docilmente quello
che senti!”».
Proruppe in una risata che si ripercosse in tutte le catacombe
circostanti. Ofelia era affascinata. Come faceva un corpo così gracile a
produrre una tale esplosione sonora?
L’attimo dopo il Senza Paura era tornato serio e scrutava i due
ospiti senza la minima cordialità.
«Eulalia, Animista all’ottavo grado, recentemente ammessa al
conservatorio della Buona Famiglia in quanto apprendista
precorritrice» articolò a fior di labbra. «Blasius, Olfattivo di terza
classe, commesso al Memoriale di Babel» continuò. «Non chiedetemi
come lo so. L’unica domanda che merita di essere posta qui e ora è:
che ci fanno due pecorelle come voi nell’antro delle belve?».
Facendo seguire il gesto alla parola il Senza Paura posò una mano
sull’enorme testa della tigre. Il poderoso ron-ron che seguì fece
assumere alla faccia di Blasius la stessa colorazione grigia dei capelli.
Neanche Ofelia se la passava tanto bene. La belva era di una stazza
così poco adatta alle dimensioni del camerino da costringerla a tenere
i piedi sotto la panca per paura di schiacciarle la coda. Passò in
rassegna tutte le risposte possibili, ma nessuna le sembrò adatta.
«Anch’io ho conosciuto Madre Ildegarda».
Il Senza Paura sollevò a stento un sopracciglio.
«Reaaally? È un nome che dovrebbe dirmi qualcosa?».
Ofelia dette un’occhiata alle fotografie allineate sulla consolle
radio. Si era sbagliata? Le arance e il vestito a pois erano semplici
coincidenze?
L’attimo dopo capì dov’era l’errore.
«Forse il nome non è questo, ma così si faceva chiamare nel luogo
in cui l’ho conosciuta, Meredith Ildegarda. Il vero nome doveva avere
sonorità più arcadiane. Aveva tre chiodi fissi: l’architettura, i sigari e
le arance».
«Doña Mercedes Imelda. Una donna notevole».
Il Senza Paura aveva pronunciato il nome senza particolari stati
d’animo, ma anche senza esitazioni. Allungò la mano verso la
consolle e prese una delle cornici.
«La giovane lady accanto a doña Imelda» disse indicando l’altra
donna, «è la mia bisnonna. L’ho conosciuta troppo poco per i miei
gusti, ma ha segnato la mia infanzia. Al pari di doña Imelda era uno
spirito libero come non se ne vedono più. Bisogna riconoscere che a
quei tempi si sapeva ancora ridere! C’era sempre qualche guastafeste
che ti insegnava a parlare correttamente e a camminare con la
schiena dritta, ma non come oggi. Non come oggi». Rimise a posto la
cornice, poi puntò il suo sguardo penetrante negli occhiali di Ofelia.
«La mia bisnonna ci ha lasciato mezzo secolo fa. A un’età reaaally
avanzata. Mi permetto quindi di dubitare che tu abbia conosciuto
doña Imelda in persona, piccola pecorella mia».
Ofelia strinse i pugni.
«Ammetto di essere piccola, ma certamente non sono una pecora.
Ascoltate» insisté vedendo il sorriso ironico del Senza Paura, «Madre
Ildegarda era senz’altro vecchissima, ma aveva una salute di ferro e
una mente d’acciaio. E sarebbe ancora viva se... se non avesse...».
Non riuscì a dirlo, non riuscì a raccontare del corpo risucchiato
dalla tasca, delle membra sconquassate, dello scricchiolio delle
vertebre... Le era impossibile evocare quel ricordo senza farsi venire
un nodo alla gola. Fu la sua emozione, più che le sue parole, a
convincere il Senza Paura a rimangiarsi l’espressione scettica.
«Sai perché l’arancia è un frutto reaaally importante?».
Una domanda che Ofelia non si aspettava.
«Ehm... perché guarisce dallo scorbuto?».
«È una leggenda antichissima» disse il Senza Paura accavallando le
gambe sulla radio. «L’ho sentita dalla mia bisnonna che a sua volta
l’aveva sentita dai trisavoli. Racconta che gli angeli vivevano nei
giardini della Conoscenza mentre gli umani stavano rintanati nelle
buie grotte dell’Ignoranza. La cosa è andata avanti per millenni,
finché un giorno un uomo, o una donna a seconda delle versioni
della storia, si è introdotto per caso nei giardini della Conoscenza. Un
povero bifolco smarrito e affamato che ha visto un albero di pomi
d’oro e ne ha colto uno. Al primo morso gli si è allargata la mente, ha
di colpo preso coscienza della propria ignoranza e dell’ignoranza in
cui venivano mantenuti i suoi simili. Allora ha rubato altri pomi
d’oro, li ha distribuiti agli uomini e insieme sono usciti dalle grotte
dell’Ignoranza per andare alla scoperta del mondo. Pomi d’oro»
continuò il Senza Paura dopo aver osservato una lunga pausa
drammatica, «è come gli antichi chiamavano le arance. Ecco perché è
un frutto reaaally importante, ed ecco perché persone come me e
doña Imelda ne hanno fatto il proprio simbolo. È l’emblema di tutti
quelli che vogliono liberarsi dall’ignoranza in cui sono mantenuti
con la forza. Detto fra noi, miss, non vedo molta differenza tra gli
angeli della leggenda e i Lord di LUX».
Aveva pronunciato l’ultima parola con una tale ostilità che la tigre
arricciò le labbra ed emise un ringhio che fece cadere Blasius dalla
panca.
Ofelia si chiese quanto il Senza Paura fosse al corrente dell’esistenza
di Dio come lo era stata Madre Ildegarda. Stava per fargli la domanda
quando si ricordò del motivo per cui era lì. Non c’era niente,
assolutamente niente di quel che veniva detto nel camerino che
avrebbe potuto nascondere a Mediana se quest’ultima decideva di
frugarle nella memoria.
Con gesto deciso si srotolò il turbante che le nascondeva il viso e
guardò il Senza Paura ben in faccia.
«Volete sapere la ragione della nostra presenza nel vostro caffè
teatro? La verità è che mi hanno ordinato di portare qui i miei occhi
e le mie orecchie. Vi do la mia parola che il signor Blasius non c’entra
niente. Vi propongo quindi di smetterla con le confidenze e andare
ognuno per la propria strada. In realtà» aggiunse dopo un attimo di
riflessione, «credo che dovreste cercare un altro indirizzo per il caffè
teatro».
Seduto a cavalcioni sulla radio, il Senza Paura la guardò a lungo in
silenzio, poi rovesciò la testa all’indietro e proruppe in una risata
acuta che mandò in frantumi tutti i vetri delle cornici.
«Non hai pensato che sarebbe reaaally più semplice farvi sbranare
dalla tigre? Sono il Senza Paura E Quasi Senza Rimprovero! Da dove
viene il “quasi” secondo te?».
«Ma io credevo... Madre Ildegarda... Doña Imelda...» balbettò
Ofelia.
«Davvero ti aspettavi che ti aprissi le braccia esclamando “gli amici
dei miei amici sono miei amici”? Cresci un po’, piccola».
Il Senza Paura aveva perso ogni bonarietà. Squadrava Ofelia con un
disprezzo che non cercava di nascondere. In quel momento non era
più il grande agitatore delle folle con la voce squillante, non era
neanche l’omino stempiato dall’aspetto insignificante, era un terzo
individuo completamente diverso.
Una belva che aveva trovato nella paura il suo alleato.
Prese da una tasca interna della tunica alcuni biglietti del caffè
teatro.
«Siete venuti qui perché l’ho voluto io. A dire il vero speravo in
qualcun altro, la tua affascinante compagna Mediana, per esempio.
Eccone una incapace di farsi gli affari propri, vero? È predatrice
nell’animo! Se un giorno dovesse entrare a far parte di LUX sarebbe
un’avversaria davvero temibile».
Il Senza Paura tacque dando a Ofelia modo di sentire il suo cuore e
quello di Blasius battere all’impazzata.
«Fra un’ora sarà tutto scomparso: l’insegna, i tavoli, il palcoscenico
e il materiale del camerino. Non perché me l’hai consigliato tu,
piccola, ma perché è il mio stile di vita. Il sottosuolo di Babel offre
possibilità infinite, e sono io e soltanto io a decidere dove andare e da
chi farmi trovare».
Il Senza Paura si mise in piedi e la tigre fece altrettanto con uno
scatto dei muscoli impellicciati.
«Non vi ucciderò. Non me la prendo con le pecore, mi interessano
solo le belve. Limitatevi a trasmettere a miss Mediana il seguente
messaggio». Abbassò il tono di voce fino ad assumere la sonorità di
un temporale lontano. «Chi semina vento raccoglie tempesta».
LA BUSSOLA

«Voi... ci siete abituata?».


Furono le prime parole che riuscì a dire Blasius una volta tornati in
superficie. Si era appoggiato a una colonna dei ruderi degli antichi
bagni respirando profondamente col naso sotto lo sguardo accigliato
dei venditori di frutta. I pantaloni, appesantiti dal sudore, avevano
rinunciato a ogni velleità di sbuffo.
Ofelia andò alla fontana più vicina per prendergli un po’ d’acqua.
L’ambiente caldo del bazar, ribollente di gente e di insetti, era un
contrasto stridente con l’atmosfera delle catacombe.
«Mi dispiace» disse porgendo a Blasius una tazza. «Mi dispiace
davvero».
Era l’unica cosa che riusciva a ripetere all’infinito. Le intimidazioni
che aveva subìto al Polo – le prigioni di Chiardiluna, il cavaliere con
gli husky, i capricci di Faruk, gli innumerevoli tentativi di
assassinarla, per non parlare dell’incontro con Dio – l’avevano
temprata, ma erano tutte cose che appartenevano alla sua vita, non a
quella di Eulalia.
Blasius la guardò con gli occhi fuori dalle orbite.
«Ancora un po’ e il mio cuore avrebbe ceduto. Good lords! È stato
lui, vero? È stato lui a uccidere miss Silence?».
«Non lo so».
E non era la cosa che indispettiva di più Ofelia: il Senza Paura
avrebbe potuto dirle molto se l’avesse incontrato in altre circostanze.
«Ce la fate?».
Blasius annuì, ma quel semplice movimento della testa gli fece
vomitare l’acqua che aveva appena bevuto.
«Voi... dovete trovarmi molto emotivo, miss Eulalia» disse
asciugandosi la bocca con espressione umiliata. «La verità è che ho la
fobia dei gatti, e quello era... particolarmente grosso».
«Mi dispiace, mi dispiace davvero» mormorò Ofelia mentre
risuonavano i gong del bazar. «Il mio permesso sta scadendo. Devo
tornare alla Buona Famiglia, trasmettere il messaggio e... e...».
“Ed esigere la mia controparte” concluse fra sé. Per quanto il
desiderio di rimanere accanto a Blasius fosse forte, il bisogno di
sapere quello che Mediana aveva da dirle su Thorn era imperioso.
«Bel localino, dobbiamo tornarci» si sforzò di scherzare.
«Possibilmente senza tigre dai denti a sciabola».
Mentre lei gli restituiva il turbante srotolato come una matassa di
lana, Blasius dischiuse le labbra in una smorfia che voleva
probabilmente essere un sorriso.
«Well, magari un’altra volta».
«Mi dispiace davvero».
Ofelia avrebbe voluto aggiungere qualcosa di più intelligente, ma
ancora una volta le mancarono le parole. Attraversò il bazar di corsa
inciampando sui tappeti e travolgendo i passanti. Era sicura che
quell’appuntamento con Blasius sarebbe stato il primo e l’ultimo, ed
era anche sicura che fosse meglio così.
Allora perché l’idea non le andava giù?
A ogni falcata sentiva crescere la rabbia. Mediana l’aveva
deliberatamente messa in pericolo. Per soddisfare la propria curiosità
non aveva esitato a servirsi del suo segreto più intimo, a giocare con
la sua speranza più fragile. Ofelia aveva rispettato la propria parte di
contratto, ma aveva un brutto presentimento.
«Chi semina vento raccoglie tempesta».
“Se Mediana ha mentito” pensò stringendo le mascelle, “se su
Thorn si è inventata tutto, farò in modo di essere io stessa quella
tempesta”.
Come riflettendo il suo stato d’animo, il cielo si faceva sempre più
grigio. Cumuli di nuvole ribollivano sopra Babel, ma era un
temporale senza lampi, senza vento e senza pioggia. Ofelia riprese
faticosamente fiato risalendo la rampa bordeggiata di pini a ombrello
che conduceva al belvedere. I giri di pista quotidiani non l’avevano
ancora resa un’atleta.
Fece un sospiro di sollievo vedendo che era arrivata appena in
tempo. I vagoni del trenuccello, portati dai potenti battiti d’ali delle
chimere, stavano atterrando in quel momento sulle rotaie
dell’imbarcadero. Un fiume di passeggeri si riversò fuori. Ofelia salì a
bordo, inserì la scheda nella validatrice e si cercò un posto. Non fu
facile: gli studenti delle varie accademie trascorrevano la domenica in
città e aspettavano sempre l’ultimo trenuccello per tornare in
collegio.
Si era appena seduta quando sentì, dall’altra parte del finestrino, un
cigolio metallico che la fece scattare in piedi. Una sedia a rotelle
manovrata da un ragazzo con la pelle scura e il vestito bianco si
allontanava sulla banchina in mezzo ai passeggeri appena sbarcati.
Ofelia si precipitò alla porta più vicina e si affacciò al marciapiede.
«Ambroise!».
L’aveva sentita. Ofelia lo capì dal modo in cui le spalle di Ambroise
avevano trasalito sentendo il suo nome. L’aveva sentita ma
continuava per la sua strada senza voltarsi.
Ofelia non gridava mai, ma non poté trattenere il richiamo
accorato che le uscì dai polmoni.
«Ambroise!».
Vide le mani invertite contrarsi sulle leve della sedia a rotelle come
lottando contro il desiderio di fermarla, senza riuscire a decidersi.
Ofelia fu tentata di correre da lui, guardarlo negli occhi, chiedergli
cosa avesse fatto per offenderlo, supplicarlo di non lasciarla sola ad
affrontare quel che ancora c’era da affrontare.
Ma l’attimo di esitazione gliene fece mancare la possibilità. La
capotreno chiuse la porta del vagone, poi squadrò i sandali e la toga
di Ofelia, che nella polvere delle catacombe avevano perso ogni
candore.
«Non si dà spettacolo sulla pubblica via, senza-poteri. Fatevi notare
un’altra volta, e un verbale non ve lo leva nessuno».
Mentre il trenuccello si lanciava sui binari e riprendeva
pesantemente il volo Ofelia tornò al suo posto. Con gesto stanco si
tolse gli occhiali, appoggiò la fronte al finestrino e contemplò le
nuvole indistinte che turbinavano nel vuoto.
Si sentiva demoralizzata.
Il suo brutto presentimento era diventato una certezza. Mediana
non le avrebbe detto niente. Blasius non avrebbe voluto più avere a
che fare con lei. Le avrebbe tolto l’amicizia, come Ambroise prima di
lui. Ofelia non avrebbe mai avuto accesso al Secretarium, non
avrebbe conosciuto il passato di Dio, non avrebbe ritrovato Thorn.
Sarebbe rimasta per sempre schiava di un ricatto e avrebbe trascorso il
resto dei suoi giorni a fare buchini nelle schede.
La voce della capotreno negli altoparlanti la riscosse dal torpore.
«L’apprendista virtuosa Eulalia, della seconda compagnia dei
precorritori, è pregata di presentarsi nel vagone di testa».
Ofelia si rimise gli occhiali e si alzò guardata con curiosità dagli
altri studenti. Era sorpresa quanto loro. Percorse la fila dei vagoni
facendosi strada a gomitate e raggiunse lo scompartimento dei
controllori. La capotreno, che stava ripetendo l’annuncio, vedendola
arrivare si interruppe.
«Che volete, senza-poteri?».
«Siete stata voi a chiamarmi. Sono Eulalia».
«Voi siete un’apprendista virtuosa? Ah, voi siete un’apprendista
virtuosa» ripeté con il tono della constatazione vedendo il timbro
della Buona Famiglia sulla scheda che le mostrò Ofelia. «Vi
immaginavo più... meno... Bene, sono contenta di avervi trovato,
miss Eulalia. Sto ripetendo l’annuncio da due ore».
«Da due ore? Perché? È successo qualcosa?».
La capotreno si tolse il berretto e si passò un fazzoletto sul cranio
rosa rasato secondo l’uso dei Cyclopiani. Dentro il treno l’aria era
ancora più soffocante che all’esterno.
«Ho l’ordine di portarvi al Memoriale. Siete stata convocata
d’urgenza da lady Septima, sia gloria a LUX! Non so cosa abbiate fatto,
ma sembra una faccenda seria».
Colpita dall’evidenza come una frustata, Ofelia vacillò. Mediana
non l’aveva mandata al caffè teatro per servirsi di lei, ma per
sbarazzarsene. L’aveva né più né meno che denunciata a lady
Septima.
Rischiava l’espulsione. Peggio, la prigione.
Respinse la folata di panico e furore che le montava dentro e
ragionò. Se lady Septima voleva vederla al Memoriale e non al
conservatorio significava che voleva evitare di passare attraverso
Helena. Forse avrebbe avuto una possibilità perorando la propria
causa con la direttrice.
«Devo comunque fermarmi alla Buona Famiglia» disse con tutta la
faccia tosta di cui era capace. «Non sono in divisa, non posso
presentarmi a lady Septima senza l’uniforme regolamentare».
La capotreno sembrò pensarci su, poi afferrò il cornetto vocale.
«Attenzione, prego. In via eccezionale questo treno proseguirà fino
al Memoriale senza ulteriori fermate. Ci scusiamo per il disagio, ci
fermeremo a ogni accademia durante il viaggio di ritorno. La
compagnia dei trenuccello fornirà un’attestazione di ritardo a tutti
coloro che ne faranno richiesta. Voi, miss Eulalia, farete bene a
rimanere qui» ordinò dopo aver riagganciato la cornetta. «Se avete la
coscienza pulita come tutti gli onesti cittadini non avete niente da
temere».
Ofelia prese posto sullo strapuntino che le venne indicato. La
trappola si era chiusa. Giunse le mani sulle gambe per cercare di
dissimularne il tremito.
Si guardò intorno alla ricerca di una scappatoia, già sapendo che
non l’avrebbe trovata. Le porte del treno davano sul vuoto e a bordo
non c’erano specchi. Se anche ci fossero stati, era ancora in grado di
attraversarli? Da quando era arrivata a Babel non aveva fatto che
mentire a tutti sulla propria identità e sulle proprie intenzioni,
un’impostura molto più strutturata delle commedie interpretate in
passato: non si trattava di un travestimento, come era stato la livrea
di Mime, era proprio un’altra pelle diventata giorno dopo giorno
un’altra natura. A forza di vivere come Eulalia poteva ancora
sostenere di essere Ofelia?
Il tragitto fino al Memoriale le parve atrocemente lungo e
spaventosamente corto. I suoi timori più neri si confermarono
quando vide una pattuglia di guardie aspettarla sull’imbarcadero.
Non erano armati – la sola parola costituiva un delitto – ma non
avevano bisogno di esserlo. Erano tutti Negromanti, maestri della
temperatura, capaci di rendere una persona di ghiaccio con un
semplice sguardo. Erano anche eccellenti fabbricanti di congelatori.
La scortarono senza rivolgerle la parola. Quando passarono davanti
alla statua del soldato senza testa Ofelia si sentì una criminale
condotta alla corte marziale. Varcate le grandi porte a vetro del
Memoriale fu colpita dal silenzio che regnava all’interno, un’assenza
assoluta di rumore, una calma che non aveva niente a che vedere con
i consueti mormorii dei lettori. Le grandi gallerie circolari dei vari
piani, deserte, conferivano al luogo il carattere di un tempio
abbandonato. La cappa di nuvole che gravava sulla rotonda teneva in
ombra ogni angolo. Il globo sospeso del Secretarium, che
abitualmente scintillava al sole, faceva pensare a un pianeta morto.
I Negromanti fecero entrare Ofelia nel transcendium settentrionale.
Si irrigidì vedendo al centro dell’immenso corridoio verticale una
piccola sagoma dagli occhi rossi. Arrivata più vicina vide sorpresa che
non si trattava di lady Septima, come da principio aveva pensato, ma
del figlio Octavio. La stava osservando attraverso i lunghi ciuffi neri
della frangetta e la catenella sopraccigliare. Emanava una tale
diffidenza che Ofelia si sentì condannata prima ancora di essere
processata.
«Hai fatto aspettare tutti, apprendista Eulalia».
Non gli rispose. Sapeva che da quel momento ogni parola poteva
ritorcersi contro di lei. Non avrebbe parlato finché non avesse saputo
esattamente di cos’era accusata.
Pensò che Octavio l’avrebbe condotta nel salotto privato in cui si
riunivano lady Septima e i Lord di LUX, all’ultimo piano del
Memoriale, invece lo vide prendere una chiave dalla divisa, e non
credette ai suoi occhiali quando lui la infilò nella serratura di una
colonnina facendone uscire una passerella metallica che si allungò
fino al Secretarium.
Quella terra incognita che le era stata preclusa quando faceva
l’allieva modello le veniva dunque aperta quando non se lo meritava?
Era il colmo.
Seguì Octavio sulla rampa elicoidale che permetteva di passare
dalla posizione orizzontale del transcendium a quella verticale della
passerella. Ofelia la affrontò aggrappandosi con entrambe le mani alle
ringhiere. Per quanto non soffrisse di vertigini si trovavano a più di
trenta metri dal suolo, e l’idea di camminare su un pontile che poteva
essere richiuso con un semplice giro di chiave non contribuiva certo a
tranquillizzarla. Si voltò un attimo a guardare i Negromanti che,
rimasti sul transcendium, erano perpendicolari a loro.
Più si avvicinava al globo sospeso e più aveva la misura di quanto
fosse enorme. Il rivestimento in oro rosso della crosta terrestre si
scavava in corrispondenza degli oceani e disegnava in rilievo i
contorni dei continenti. La porta blindata che aprì Octavio in un
punto indistinto del mare australe era di dimensioni notevoli, eppure
rispetto al tutto faceva l’effetto di un buco della serratura.
Ofelia passò dall’altra parte. Tutto ciò che aveva potuto
immaginare di quel santuario inaccessibile volò in schegge. L’interno
del Secretarium era una copia conforme dell’interno del Memoriale.
Gallerie servite da transcendium si sviluppavano in piani circolari
intorno a una fonte di luce naturale. Sospeso tra l’atrio e la cupola
c’era perfino un globo terrestre che era la replica esatta di quello che
lo conteneva. Gli architetti avevano concepito l’intero sito come una
matrioska!
Nelle gallerie di destra migliaia di opere antiche brillavano dietro i
vetri delle librerie illuminate dalle lampadine fredde di Heliopolis.
Nelle gallerie di sinistra intere file di cilindri ruotavano sul proprio
asse con un ronzio permanente. Ofelia sapeva che intorno a ogni
cilindro era avvolta una striscia perforata, e che ogni striscia perforata
descriveva un documento. L’insieme formava un intrico di ruote
dentate e ingranaggi che somigliava alle viscere di un organetto di
Barberìa.
«Eh già, tu è la prima volta che vieni qui» commentò Octavio, che
teneva d’occhio ogni sua reazione. «Come il Memoriale, il
Secretarium è diviso in due parti gemelle: le collezioni rare sono
nell’emisfero orientale e le banche dati in quello occidentale».
«E lassù?» domandò Ofelia indicando il globo che galleggiava sopra
le loro teste. «C’è un altro Secretarium?».
Suo malgrado aveva rotto il mutismo che si era imposta.
«No, quello è ornamentale» rispose Octavio. «Ah, ecco la
responsabile della tua divisione».
Ofelia ebbe un sussulto di speranza vedendo Elizabeth che
attraversava l’atrio andando loro incontro. Le parve più solenne che
mai. A ogni passo i capelli fulvi le si sollevavano come un mantello, e
il suo viso era ancora più inespressivo del solito.
«Novità?».
Elizabeth si era rivolta al solo Octavio.
«Niente da segnalare. Nessuno è entrato o uscito dal Memoriale, a
parte l’apprendista Eulalia».
«Bene. Andiamo».
Ofelia li seguì lottando contro il senso di vertigine che la
opprimeva. Forse era colpa della cappa di nuvole al di là della cupola,
ma cominciava a mancarle l’aria. Il motivo della convocazione non
era la sua discesa nelle catacombe, ma qualcos’altro, e molto più
grave.
Contagiato dal suo nervosismo, l’orologio di Thorn fece scattare il
coperchio in una tasca della toga. La questione non era più sapere se
Mediana l’avesse tradita, ma quanto l’avesse tradita.
Si fermarono di fronte a una porta a chiusura ermetica.
«Non siamo autorizzati a entrare con te» spiegò Elizabeth dopo
averla aperta. «Quel che succede là dentro è strettamente
confidenziale. Buona fortuna».
«La fortuna non esiste» commentò Octavio con freddezza. «Siamo
gli unici fautori del nostro destino. Ma questo» aggiunse a mezza
voce, «l’apprendista Eulalia lo sa già».
Ofelia non sapeva un accidente, ed era proprio quello il problema.
Entrò con passo incerto in una sala austera apparentemente destinata
alla consultazione di documenti. L’unico pezzo di mobilio era un
grosso leggìo di legno pregiato sul quale era china lady Septima.
«La porta» ordinò quest’ultima.
Ofelia fece ruotare la manovella fino a far scattare la serratura.
Faceva un tale freddo che le sembrava di essere rinchiusa in una cella
frigorifera. I piedi nudi nei sandali furono percorsi da un doloroso
formicolio.
«Venite avanti».
Lady Septima l’aveva detto senza inflessioni, calma e distaccata
come al solito. Rivolse lentamente verso Ofelia due occhi che
fiammeggiarono come fari nella stanza poco illuminata.
«Vi piacciono i puzzle?».
Ofelia sbatté le palpebre. Non era l’interrogatorio che si aspettava.
Si avvicinò prudentemente al manoscritto sul leggìo che le indicava
lady Septima. A giudicare da quanto era rovinato doveva essere
antico. I caratteri sbiaditi che riempivano le pagine erano scritti, nei
rari punti leggibili, in una lingua sconosciuta.
Ma a calamitare la sua attenzione furono soprattutto i fogli dei
rapporti posati sull’altro versante del leggìo.
«È la traduzione di Mediana» realizzò. «Perché vi rivolgete a me
invece che a lei?».
Lady Septima non rispose. Allora Ofelia sentì i propri muscoli,
contratti fin da quando stava sul trenuccello, rilassarsi al punto da
farla vacillare. La rabbia che aveva accumulato contro Mediana si
dissolse in un istante.
«Che le è successo?».
Lady Septima, per scacciare dal proprio viso ogni traccia di
emozione personale, represse la contrazione che le aveva teso la
bocca.
«Una divisione composta quasi interamente da Indovini, e non
uno di loro è stato capace di vedere il futuro della cugina. Coprono di
vergogna tutti i precorritori. Bene» si riprese sollevando il mento, «sir
Henry esige che gli venga fornito un sostituto seduta stante. Sebbene
abbia forti riserve nei vostri confronti, sono costretta ad ammettere
che siete la candidata più idonea a questo lavoro. O comunque la
meno incapace. Cercate di rendervi degna dell’onore che LUX vi
concede, apprendista Eulalia. Avverto sir Henry del vostro arrivo»
aggiunse allontanandosi con passo marziale. «Potete guardare il
manoscritto ma non toccarlo, per nessun motivo. Maneggiare un
documento di tale valore è cosa che va fatta secondo un protocollo di
cui ancora non siete esperta».
Lady Septima entrò in un ascensore in fondo alla sala scatenando
un rumore di ingranaggi appena azionò la leva.
Rimasta sola, Ofelia si appoggiò con entrambe le mani al leggìo e
fissò a lungo il manoscritto senza vederlo. Ondate di emozioni
contraddittorie si agitavano in lei facendo passare gli occhiali da un
colore all’altro.
Sollievo. Incredulità. Giubilo. Sgomento.
Sgomento?
Com’era possibile che Ofelia si sentisse colpita dalla sorte di
Mediana, dopo tutto quello che le aveva fatto passare? Era diventata
precorritrice proprio per accedere lì dove si trovava in quel momento,
le sue vere ricerche potevano finalmente cominciare. Avrebbe dovuto
essere contenta, perché allora era terrorizzata?
A tirarla fuori dal flusso tumultuoso dei pensieri fu un tac-tac
imperioso nella toga. Ofelia tirò la catena dell’orologio e lo guardò. Il
coperchio non faceva che aprirsi e chiudersi, come in preda a una
crisi epilettica. Tac-tac! Tac-tac! Tac-tac!
«D’accordo, calmiamoci» mormorò sia per sé che per l’orologio.
Bloccò il coperchio col pollice, ma furono le lancette ad attivarsi
mettendosi a girare in un valzer indiavolato. A intervalli regolari si
fermavano tutte insieme per indicare sempre la stessa ora.
Le sei, trenta minuti e trenta secondi.
Sentendo di nuovo gli ingranaggi in azione, Ofelia si voltò verso
l’ascensore. Sir Henry poteva pure essere un automa, ma non gli
avrebbe fatto una buona impressione mettendosi a combattere
davanti a lui con un orologio da taschino impazzito.
Sollevò un sopracciglio. Le lancette avevano bruscamente cambiato
ora, indicando tutte ostinatamente mezzogiorno in punto.
No.
Le lancette non indicavano l’ora.
Indicavano una direzione.
L’orologio di Thorn non era e non era mai stato guasto, si era
semplicemente trasformato in bussola, una bussola i cui tre aghi, in
quell’istante, segnalavano l’arrivo dell’ascensore.
La porta della cabina si aprì su lady Septima e sir Henry.
Solo che sir Henry non era un automa.
Sir Henry era Thorn.
LO SPAVENTAPASSERI
RITROVATO

Thorn stava in un angolo dell’ascensore. Era talmente alto che la


testa toccava il soffitto della cabina. Il suo sguardo d’acciaio, solcato
dalla lunga cicatrice che gli attraversava la faccia, era assorto in un
documento che sfogliava con aria indaffarata. Non accordò la
minima attenzione a lady Septima che le indicava Ofelia ferma in
mezzo alla stanza gelida.
«La nostra ultima recluta, sir. Sarà mia premura far sì che si
dimostri all’altezza della situazione».
Il regolamento, sotto pena di severe sanzioni, imponeva a Ofelia di
mettersi sull’attenti, rivolgergli il saluto ufficiale, «La conoscenza è al
servizio della pace!», e declinare le proprie generalità.
Le fu impossibile.
Appena era apparso Thorn il suo cervello si era svuotato di ogni
pensiero. Aveva tutte e due le mani strette intorno all’orologio-
bussola: un oggetto solido, tangibile, reale.
Lady Septima strinse le labbra interpretando il suo mutismo come
un inopportuno attacco di timidezza.
«L’apprendista Eulalia si è unita alla seconda divisione della
compagnia dei precorritori cinquanta giorni fa. Nella testa non ha
granché, ma le sue mani hanno un certo potenziale».
Ofelia non la ascoltava. Lady Septima non esisteva più. C’era solo
Thorn, sempre in fondo all’ascensore con le sopracciglia aggrottate,
immerso nell’osservazione di un grafico. Aveva i capelli biondo
argento scrupolosamente pettinati all’indietro e la faccia, lunga e
spigolosa, perfettamente sbarbata. Indossava una camicia dal candore
impeccabile che su ogni avambraccio terminava in una specie di
guanto d’arme su cui erano fissati quadranti, indicatori e vari altri
strumenti di misura. Ma a catturare la sua attenzione fu l’emblema
cucito sul petto all’altezza del cuore: un sole.
Per tutto quel tempo aveva cercato un fuggiasco, invece aveva
trovato un Lord di LUX.
Passo dopo passo Ofelia era arretrata fino all’angolo meno
illuminato della stanza gelida. Anche se il frastuono delle sue
pulsazioni le impediva di riflettere, una cosa le risultava evidente:
quello che sarebbe successo quando gli occhi di Thorn avrebbero
finalmente incontrato i suoi avrebbe avuto conseguenze irreversibili.
«Siamo troppo in ritardo sul calendario previsto. I Genealogisti
finiranno per esigere spiegazioni».
Thorn aveva parlato con l’accento di Babel, come un nativo della
città, privo di ogni intonazione nordica, eppure Ofelia avrebbe
riconosciuto la sua voce tra mille. Una vibrazione da contrabbasso,
grave e imbronciata, che risuonò nella voragine che aveva dentro, le
smosse le viscere, le risalì in gola e le tolse il respiro.
La voce di Thorn dopo quasi tre anni di silenzio.
Trasalì quando lui richiuse il documento con uno scatto secco.
«Peraltro, ho bisogno che i Negromanti vengano qui con la
massima urgenza. Temperatura e tasso di umidità sono troppo alti
nell’emisfero orientale del Secretarium. Stiamo perdendo personale,
evitiamo di perdere anche collezioni».
L’attenzione di Thorn era passata direttamente dai grafici all’antico
manoscritto sul leggìo di consultazione. Un cigolio sinistro
accompagnò ogni suo passo mentre attraversava la stanza gelida. Fino
a quel momento Ofelia non l’aveva notata, eppure era ben evidente:
un’armatura di metallo, articolata come uno scheletro, ingabbiava
uno stivale dalla caviglia al ginocchio. La gamba che gli era stata
spezzata in prigione.
L’automa.
Raramente Ofelia si era sentita tanto stupida. Aveva preso in senso
letterale quello che era soltanto un nomignolo di cattivo gusto. Di
cattivo gusto e neanche molto appropriato. Thorn si chinò
rigidamente sul leggìo e con le dita metalliche del guanto voltò con
cura una pagina del manoscritto.
«La recluta conosce le lingue antiche?».
Si era rivolto a lady Septima, come se la diretta interessata non
fosse presente. Benché Ofelia odiasse quella sua villana abitudine fin
dai tempi del fidanzamento, in quel frangente le risultò più che
gradita.
«No, sir. Tuttavia penso che sia in grado di svolgere i compiti
dell’apprendista Mediana. È un’Animista, una lettrice».
“Ecco” pensò Ofelia mentre gli occhiali le diventavano sempre più
blu, “adesso si gira e mi riconosce”.
Ma Thorn non lo fece. Si limitò a esaminare la pagina che teneva
con la punta delle dita, rosicchiata dal tempo come un vecchio
merletto.
«È in grado di restaurare il testo mancante?».
«No, sir» dichiarò lady Septima con la sicurezza del professore che
conosce l’alunno meglio di quanto l’alunno conosca se stesso. «Ma
potrebbe ricostituirne la sostanza penetrando nella percezione di
quelli che l’hanno letto. Idealmente, di colui che l’ha scritto».
Ofelia fu colpita dal modo in cui i suoi occhi di fuoco fissavano il
gambale di Thorn, come se volessero far fondere il metallo. In
apparenza lady Septima lo trattava con il rispetto che un membro di
LUX deve a un suo pari, ma si capiva che non lo considerava un suo
eguale.
Constatazione che non le faceva fare alcun passo avanti.
Se lady Septima coglieva il minimo turbamento fra lei e sir Henry –
un moto di sorpresa, sia pure microscopico – avrebbe diffidato
d’istinto e le loro false identità sarebbero andate in frantumi, pensò
Ofelia.
Si sforzò di respirare lentamente per placare il fracasso del proprio
cuore, ricondurre gli occhiali alla trasparenza, rilassare i muscoli del
viso, raddrizzare le spalle. Non poteva impedire al corpo di tremare,
ma pazienza, si trovava in una stanza gelida in toga e sandali, tremare
dal freddo era una reazione fisiologica normale.
C’era solo da sperare che a Thorn non mancasse il respiro
vedendola.
«Dov’è attualmente l’apprendista Mediana?».
L’aveva domandato a fior di labbra sfogliando i rapporti di
traduzione. La lampada del leggìo gli proiettava una luce fredda sul
profilo facendo brillare la linea ripida del naso, il solco della lunga
cicatrice e, nella stretta fessura della palpebra, un occhio fisso.
«È stata trasferita, sir».
«Riprenderà servizio, prima o poi?».
«Pronunciarsi su questo punto sarebbe prematuro».
“Mediana è viva” fu l’unico pensiero coerente che Ofelia fu in
grado di formulare a quel punto del dialogo.
«E ora cosa vi ispira il caso di miss Silence?».
«Non capisco la domanda, sir».
Thorn si scostò dal leggìo.
«Un colpo apoplettico tra le nostre file è ciò che io chiamo uno
spiacevole incidente. Voi come definireste un secondo colpo?».
«Una spiacevole coincidenza, sir».
Erano entrambi impenetrabili, ma Ofelia percepì in loro una
tensione che andava aumentando. Mentre l’espressione di Thorn
rimaneva indecifrabile, quella di lady Septima tradiva disgusto. Non
si era mai degnata di guardarlo in faccia, aveva sempre continuato a
fissargli ostinatamente la gamba malata. Sapeva almeno che l’uomo
davanti a lei era dotato di una memoria fenomenale e di artigli
temibili? Era più alto di lei di due teste, ma lei lo vedeva come un
pivello che le sarebbe sempre stato inferiore, e non solo per la
differenza di età. Ofelia si rese conto che lady Septima aveva lo stesso
comportamento con il vecchio spazzino, con i precorritori di Helena
e perfino con Mediana. Per lei tutti quelli che non appartenevano alla
discendenza di Polluce erano solo strumenti necessari al buon
funzionamento di un meccanismo, che andavano sostituiti quando
smettevano di essere efficienti.
«Dovremo aumentare la cadenza dei gruppi di lettura» disse alla
fine Thorn. «I Genealogisti si spazientiscono, e né io né voi
auspichiamo una loro ispezione a sorpresa, tanto più adesso, con
questo tipo di... coincidenze».
Era la seconda volta che parlava dei Genealogisti. Pur ignorando
chi fossero, Ofelia capì che erano al vertice della gerarchia di LUX, e
che Thorn non voleva averci a che fare.
«Tutti i permessi saranno sospesi fino a nuovo ordine» disse lady
Septima battendo i tacchi. «Le letture cominceranno prima e
finiranno dopo».
«Basta che ciò non influisca sulla cura del dettaglio. I vostri allievi
commettono ancora troppe imprecisioni, e non mi riferisco agli errori
di codifica».
Lady Septima annuì, ma la sua espressione si era fatta più dura.
Evidentemente Thorn non si rendeva conto che offendere una
rappresentante di Dio in quel luogo e in quel momento era l’ultima
cosa da fare, data la loro posizione. Naturalmente lady Septima cercò
subito un bersaglio su cui scaricare la propria contrarietà.
La vittima designata fu Ofelia.
«Apprendista Eulalia, volete restare con le mani in mano
all’infinito? Piantatela di mettermi in imbarazzo e dimostrate a sir
Henry che sarete all’altezza delle sue aspettative».
Ofelia ebbe la sensazione che il sangue avesse smesso di colpo di
circolarle in corpo.
Thorn si voltò finalmente a guardarla.
Si voltò, e il suo sguardo non esprimeva niente, né sorpresa né
perplessità. Era lo sguardo neutro che uno sconosciuto rivolge a un
altro sconosciuto.
«Non vi deluderò» dichiarò Ofelia.
Provò sollievo nel sentire che la voce non le era venuta meno. Si
sorprese perfino a sostenere l’attenzione di cui era oggetto senza
tremare troppo, come se non fosse più davvero se stessa. Il fatto è che
realmente non era più davvero se stessa.
“Sono Eulalia” si ripeteva, “e l’uomo che mi sta di fronte è sir
Henry”.
Semplicissimo.
Thorn prese i rapporti di Mediana dal leggìo e allungò il braccio per
darli a Ofelia, coprendo la distanza che li separava senza muovere un
passo nella sua direzione.
L’automa.
«Avete tre giorni di tempo per mandare a memoria questa
traduzione e imparare a maneggiare documenti antichi. Dopo di che
verrete qui ogni sera dopo i gruppi di lettura. Tre giorni, siamo intesi,
apprendista?».
Le parole di Thorn le caddero addosso come grandine. Era stato
convincente, sembrava che non si fossero mai visti né conosciuti.
Talmente convincente che, tenendo in mano i fogli dei rapporti,
Ofelia fu colta da un dubbio vertiginoso.
Ma l’aveva riconosciuta, almeno?
IL SOSPETTO

«Non ho... niente... da dirti».


«Era una nostra... compagna... Ho il diritto di... sapere».
«Mi stai... facendo perdere... la concentrazione».
Ofelia correva con fatica nella polvere dello stadio. Erano le sei del
mattino, l’ora meno calda e meno umida della giornata, ma aveva già
i polmoni in fiamme. Si consolava vedendo che Elizabeth, benché
abituata ai giri di pista quotidiani, stentava a mettere un piede
davanti all’altro. L’aspirante portava sulla testa un inverosimile
cappello-radio che sputacchiava una trasmissione scientifica: in teoria
avrebbe dovuto aiutarla a tenere il ritmo, ma il suo peso la rallentava
troppo.
«Dov’è... Mediana?» insisté Ofelia. «Dove l’hanno... portata?».
«È un’informazione... confidenziale... Non posso dirlo... a
un’apprendista».
Poi Elizabeth non ce la fece più e si fermò in mezzo alla pista
ansimante, piegata in due, con una mano sul cappello-radio per
impedirgli di cadere e l’altra che si comprimeva un punto sul fianco.
Il suo colorito, di solito pallidissimo, si era imporporato talmente da
confondersi con le lentiggini. A forza di passare le giornate seduta e
concentrata sul suo codice aveva sviluppato una costituzione fisica da
anziana.
Ofelia l’aveva inseguita fin nello stadio per ottenere qualche
risposta. Erano tre giorni che sbatteva contro un muro di silenzio in
camerata, tre giorni che le scoccavano occhiate da lontano senza una
parola di spiegazione. Stava cominciando a perdere la pazienza, ed
Elizabeth era l’unica della compagnia dei precorritori a non essere
capace di distanziarla in pista.
«Potete almeno dirmi cos’è successo?».
Elizabeth allungò le membra come se fosse stata una tavola da stiro
recalcitrante. A bocca aperta, cercava di riprendere fiato con la testa
in alto, visto che non c’era riuscita con la testa in basso.
«Te l’ho detto... e te lo ripeto... L’apprendista Mediana... ci ha
lasciato... per ragioni di salute».
«Ma non ha senso. Di noi era quella che stava meglio».
«Ascolta, apprendista...».
Ofelia era tutta orecchi, ma dovette aspettare che Elizabeth fosse in
grado di parlare senza strozzarsi.
«Sono stata io a trovarla, e ti assicuro che non stava affatto bene.
Ero entrata al Memoriale dall’ingresso di servizio, come ogni
domenica. C’erano schede catalografiche da migliorare. Sono rimasta
a perforare tutta la mattina. Quando sono andata alle toilette l’ho
trovata stesa sul pavimento. Non so da quanto tempo fosse lì, ma
non era un bello spettacolo». Elizabeth si passò la manica sul mento
grondante sudore. «Muscoli paralizzati, convulsioni, occhi rivoltati»
elencò. «Ho chiamato la sicurezza. Lady Septima ti ha convocato
d’urgenza. Il seguito lo conosci meglio di me».
Ofelia guardò Elizabeth nella pallida luce dell’alba. Il quadro che le
aveva fatto era così lontano dall’indomabile e superba Mediana che la
sua impassibilità le sembrò fuori luogo. L’aspirante, come se niente
fosse, si aggiustava l’antenna sul cappello per ridurre il fischio della
trasmissione radio.
«Come fate a non avere paura?».
«Mmm? Perché dovrei avere paura? Gli ictus sono rari alla nostra
età. Statisticamente ci sono poche probabilità che possa capitare a
me... o a te. Lo sapresti anche tu se avessi letto il Giornale ufficiale. Per
noi precorritori dev’essere l’unica fonte da cui attingere
informazioni» dichiarò come se ripetesse la lezione.
«Non so molto di statistica» ammise Ofelia, «ma non dimenticate
miss Silence. Un infarto e un ictus nello stesso posto a cinquanta
giorni di distanza mi pare abbastanza improbabile».
Toccò a Elizabeth guardarla senza capire dall’ombra delle palpebre
socchiuse.
«Non so da dove vieni e cosa hai passato, ma qui a Babel le
malattie e gli incidenti sono l’unica causa di morte. Se lady Septima
dice che è stata una coincidenza, è stata una coincidenza».
Ofelia fu tentata di ribattere che quella donna da lei messa su un
piedistallo teneva in ben poco conto i senza-poteri, e che
probabilmente non diceva tutta la verità. I Lord di LUX avevano
raddoppiato gli addetti alla sicurezza del Memoriale, nessuno poteva
più entrare o uscire senza essere controllato.
Poi c’era il professor Wolf, il suo misterioso incidente, le sue
ricerche interrotte dall’oggi al domani. Anche lui era un
frequentatore abituale del Memoriale, e anche lui aveva subìto un
forte trauma.
No, non poteva essere una coincidenza. Era un delitto. Tre delitti. E
il fatto che la parola fosse disapprovata dall’Index non cambiava le
cose. Ammettendo quell’ipotesi, Ofelia non poteva non tenere conto
del messaggio che il Senza Paura aveva inviato a Mediana: chi semina
vento raccoglie tempesta. Era stato lui ad attentare alla sua vita e a
quella del professor Wolf e di miss Silence? Se sì, con quali mezzi e
soprattutto perché? Cosa avevano in comune un esperto di guerre, un
mastro censore e un’apprendista precorritrice, oltre al fatto che tutti e
tre lavoravano al Memoriale?
«Aspirante Elizabeth, apprendista Eulalia, siete pregate di
concludere i giri di pista regolamentari!».
Ofelia guardò la torretta dello stadio da cui era partito l’ordine, poi
riportò gli occhiali su Elizabeth che non aveva ancora ripreso fiato.
«Il migliore dei mondi possibili, eh?».
Ricominciarono a correre fianco a fianco. I loro corpi presentavano
un’asimmetria perfetta, tanto quello di Elizabeth era lungo e piatto
quanto quello di Ofelia era corto e formoso.
«Sai... la prima volta che ci siamo incontrate... non mi sei stata
simpatica».
Elizabeth l’aveva detto distrattamente, espirando tra una falcata e
l’altra, con la lunga treccia fulva che le sbatteva sulla schiena.
Ofelia annuì.
«Anch’io temo di non avervi apprezzato molto».
«E ora?».
Si interrogarono con lo sguardo, poi Ofelia distanziò Elizabeth sulla
pista dello stadio. La verità era che avrebbero potuto diventare
amiche se Eulalia fosse realmente esistita. In merito Ofelia non si
faceva illusioni: se l’aspirante fosse venuta a sapere che mentiva sulla
propria identità l’avrebbe denunciata a Helena e a lady Septima senza
la minima esitazione.
Finiti i giri regolamentari Ofelia andò nello spogliatoio dove urtò
Zen che ne usciva nello stesso momento profumando l’aria di olio di
camelia. Balbettarono scuse reciproche. Per quanto dormissero nella
stessa camerata e seguissero le stesse lezioni non avevano mai
scambiato due frasi di fila. Zen era la più grande della compagnia, ma
sembrava più una bambola che una donna, sempre pronta a
nascondere gli occhi a mandorla dietro la folta frangetta nera.
Tuttavia Ofelia aveva l’impressione che il suo modo di evitarla
dipendesse da qualcosa di diverso dalla timidezza.
Timore?
Rimasta sola recuperò la divisa e gli stivali che il giorno prima
aveva lasciato in lavanderia, poi si recò alle docce collettive e, dopo
aver posato su una sedia vestiti, guanti e occhiali, rimase a lungo
immobile. Aspettava che il cuore, affaticato dalla corsa, riprendesse
un battito normale. Non fu così. Il suo intero corpo sembrava
emettere una sola e unica pulsazione caotica.
Quella sera avrebbe rivisto Thorn.
Negli ultimi giorni si era imposta di non pensarci, di rimanere
concentrata su tutto ciò che non fosse lui. Non aveva praticamente
dormito né mangiato. Le sue emozioni avevano formato un nodo
impossibile da sciogliere. Avrebbe voluto essere con Thorn in quel
momento. L’aveva desiderato ogni secondo di ogni minuto di ogni
ora da quasi tre anni. E lui non aveva trovato niente di meglio che
imporle tre giorni d’attesa supplementari! Imparare a memoria la
traduzione di Mediana? Era solo un testo sconnesso, incompleto e
astruso che non l’aveva affatto illuminata su ciò che aveva in testa
Thorn. Come aveva fatto a diventare sir Henry? Perché si era unito a
LUX? Che cercava attraverso i gruppi di lettura? Cosa gli aveva
impedito per tutto quel tempo di dare segnali di vita? Ofelia aveva
ceduto alla tentazione di leggere quei rapporti non soltanto con gli
occhi – dopo tutto ne era diventata la proprietaria ufficiale – ma i
guanti metallici che Thorn indossava al momento di toccarli gli
avevano impedito di lasciare traccia sulla carta.
La lettura dei rapporti non le aveva detto niente di nuovo neppure
su Mediana, che doveva essersi servita di guanti da lavoro. L’Indovina
l’aveva presa in giro ben bene. Per tutto quel tempo aveva saputo che
l’uomo cercato da Ofelia era sir Henry. Chissà se prima o poi
gliel’avrebbe detto.
Aprì il paravento di una doccia, vi gettò sopra i vestiti da ginnastica
e tirò il cordone dell’acqua. Malgrado il getto bollente aveva gli occhi
spalancati. Appena li chiudeva, anche solo per un attimo, rivedeva
l’espressione di Thorn. O meglio, la sua mancanza di espressione,
come se davvero, al di là di ogni commedia, non rappresentasse
niente per lui.
Lavandosi i capelli si tirò i riccioli: li accorciava lei stessa con
sforbiciate incerte, senza mai potersi aiutare con uno specchio. Non
doveva essere cambiata poi molto. Si guardò la pelle scurita dal sole.
Di colpo si sentì nuda come mai si era sentita in vita sua. Per quanto
ridicola, quella brutale presa di coscienza le suscitò un’apprensione di
cui non capiva bene la natura.
“Detesti essere trattata da bambina, ma di fronte a un uomo sei e
rimani una mocciosa senza esperienza” la canzonò la voce di
Mediana dentro di sé.
Ticchettii familiari sovrastarono il rumore della doccia. Ofelia tirò il
cordone e si asciugò l’acqua che le sgocciolava sulle ciglia. Miope
com’era, vide sotto il paravento alcune ombre che mandavano riflessi
argentei.
Gli stivali con le alette dei precorritori.
«Ci ascolterai».
«Non griderai».
«Non dirai niente».
Di solito quando gli Indovini si esprimevano al futuro il seguito
degli eventi dava loro ragione. Ofelia rimase quindi in silenzio
aspettando di sentire cosa avessero da dirle.
La risposta arrivò sotto forma di un secchio che rovesciò un diluvio
di cristallo oltre il paravento. Ofelia ebbe appena il tempo di
proteggersi viso e braccia. In un istante il corpo le si ricoprì di graffi.
Passato lo stupore guardò le schegge di vetro disseminate sulla pelle
umida e, pochi secondi dopo, il sangue che vi disegnava un vasto
intreccio di ramificazioni.
«Questo, mademoiselle, è per nostra cugina».
A colpire Ofelia fu la frase, più del dolore. L’attitudine timorosa di
Zen e i sottintesi di Octavio le apparvero improvvisamente in tutta la
loro chiarezza.
Neanche i suoi compagni credevano alla teoria della coincidenza:
pensavano che fosse lei la colpevole.
Ofelia aprì la bocca, ma le voci sibilanti degli Indovini non le
lasciarono il tempo di giustificarsi.
«Prima miss Silence e ora Mediana?».
«Brucia le tappe, la nuova!».
«Non sei più la bienvenue alla Buona Famiglia».
Seguì un silenzio durante il quale Ofelia non sentì altro che lo
sgocciolio del soffione della doccia e lo scricchiolio dei vetri sotto i
piedi insanguinati. Tremava. Gli stivali con le alette erano ancora
dietro il paravento.
«Stasera, mademoiselle, andrai al Secretarium».
«Stasera, mademoiselle, rivedrai l’automa».
«Stasera, mademoiselle, gli restituirai le alette».
Non era una profezia. Il potere degli Indovini non consentiva loro
di vedere il futuro oltre le tre ore. Ofelia tuttavia prese l’avvertimento
molto sul serio. Quando gli stivali si allontanarono con un tintinnio
argenteo rimase in piedi in mezzo ai vetri e al sangue misto all’acqua
della doccia.
L’AUTOMA

Ofelia avanzava rigida sulla passerella sperando che le fasciature


sotto la divisa avrebbero impedito al sangue di affiorare almeno
finché non avesse finito di fare ciò che la aspettava. Ogni movimento
le tirava le ferite. Non erano tagli profondi, ma si riaprivano alla
prima occasione.
In realtà non sentiva dolore. L’unica cosa di cui aveva coscienza in
quel momento era il globo del Secretarium davanti a sé che
continuava a ingrandirsi man mano che si avvicinava. Perfino il
vuoto che aveva sotto i piedi le sembrava astratto.
Stava per rivedere Thorn.
Quando giunse alla porta blindata del globo dette un’ultima
occhiata al transcendium all’altro capo della passerella, dove lady
Septima aveva infilato la chiave per aprirle l’accesso.
Stava per rivedere Thorn da sola.
Entrò nel Secretarium. Come la prima volta, ebbe la curiosa
sensazione di introdursi in una copia in miniatura del Memoriale:
atrio identico, cupola identica, gallerie identiche e, a mezz’aria in
assenza di gravità, un globo terrestre del tutto simile a quello che lo
conteneva. Per quanto sapesse che era ornamentale, non poteva fare
a meno di immaginare l’esistenza di un altro globo all’interno che ne
racchiudeva un altro, e così via fino all’infinitamente piccolo.
Camminò alla luce fredda delle lampadine. Dritto davanti a sé si
trovava la stanza frigorifera riservata alla consultazione dei
documenti fragili. Doveva andare direttamente lì a studiare il
manoscritto? Non sarebbe riuscita a concentrarsi su qualcosa finché
non avesse avuto una vera conversazione con Thorn.
Fece scorrere lo sguardo lungo le gallerie sovrapposte che si
avvolgevano ad anello intorno all’atrio. Tra le colonne dell’emisfero
orientale brillavano le vetrine delle collezioni antiche. Dall’emisfero
occidentale giungeva il concerto dei ticchettii emessi dalle migliaia di
cilindri della banca dati che giravano sul proprio asse passando in
rassegna le strisce perforate dei rapporti bibliografici.
Stava cercando Thorn quando sentì alle sue spalle una voce che la
fece sobbalzare.
«Sala dell’Ordinatore. Ultima galleria a sinistra».
L’istruzione era venuta da un diffusore acustico.
Ofelia risalì la parete verticale di un transcendium. A ogni passo le
alette degli stivali le tintinnavano come speroni, alette che avrebbe
dovuto dare a sir Henry insieme alle dimissioni, se non voleva subire
le rappresaglie della sua divisione, ma in quel momento era l’ultimo
dei suoi pensieri.
Si avviava a rivedere Thorn, stavolta per davvero.
Per quanto sapesse che la temperatura dei luoghi veniva
scrupolosamente mantenuta a diciotto gradi, Ofelia si sentiva come
se ce ne fossero quindici di più. Mai in vita sua aveva badato
all’aspetto, eppure si passò una mano tra i capelli per aggiustarseli. Le
rimasero fra le dita alcune schegge di vetro di cui si sbarazzò in fretta.
Arrivata all’ultimo piano passò davanti alle alte file di cilindri il cui
frastuono meccanico le feriva le orecchie. Dopo un po’ individuò una
porta con bulloni e cardini stagni che somigliava all’entrata di una
cabina di sommergibile. Invece della cabina si ritrovò in un vasto
ufficio tutto legno e ottoni. In fondo all’ufficio c’era una schiena.
La schiena di Thorn.
Era seduto su uno sgabello girevole con cuffie radio sulle orecchie
di fronte a un’immensa consolle crivellata di buchi. Era l’Ordinatore,
l’unica macchina al mondo capace di interrogare una banca dati.
Thorn era impegnatissimo a collegare e scollegare un groviglio di
cavi, abbassare un commutatore qui e alzarne uno là, come un
concertista che stesse eseguendo la più arzigogolata delle partiture.
Ofelia bussò sulla porta per annunciare la propria presenza, ma lui
non sembrò sentirla. Aveva paura di fargli perdere la concentrazione.
Aveva paura e basta, paura di quello che sarebbe successo quando
finalmente entrambi avrebbero potuto dare libero corso alle loro vere
emozioni.
Aveva paura, sì, ma non avrebbe voluto essere in nessun altro
posto.
Guardandosi intorno notò che la sala dell’Ordinatore era poco più
accogliente delle gallerie industriali del Secretarium. Non c’era dove
sedersi, a parte lo sgabello della macchina, niente di attraente da
vedere a parte gli scaffali sovraccarichi di documenti, schede
perforate e quadranti orari di vario tipo. Quella fusione perfetta di
austerità e organizzazione ricordava non poco l’Intendenza del Polo.
A un certo punto Thorn fece ruotare lo sgabello, consultò il nastro
giallo appena perforato da una macchina meccanografica e accese un
microfono.
«Il riferimento richiesto è “nota n. 8174, fondi di lavori pubblici,
1S067”. Passo».
Mentre il ronzio di una vocina gli rispondeva in cuffia si accorse
della presenza di Ofelia e le indicò con un gesto la porta stagna, che
lei si affrettò a richiudere. A ogni giro di manovella il rumore
assordante della banca dati all’esterno si faceva più lontano, fino a
che scomparve del tutto e la stanza fu immersa in un silenzio
assoluto.
«È arrivata l’apprendista virtuosa» annunciò allora Thorn. «Ho
alcune direttive da darle. Riprenderò il trattamento delle richieste
bibliografiche appena terminato con lei. Fine comunicazione».
Spense il microfono, si tolse le cuffie e fece ruotare lo sgabello
rimanendo poi immobile così a lungo che Ofelia si stava chiedendo
se si aspettasse una qualche iniziativa da lei quando si rese conto che
la stava esaminando meticolosamente dalla testa ai piedi. Gli occhi di
Thorn si attardarono un po’ di più sui gradi della divisa e sulle alette
fissate agli stivali. Il suo sguardo affilato dette a Ofelia la sensazione
che sotto le bende i tagli si riaprissero uno dopo l’altro via via che la
scrutava.
«Perché siete venuta a Babel?».
Una erre scricchiolante come ghiaccio, consonanti dure come la
pietra: Thorn aveva ripreso l’accento del Nord. Le aveva posto la
domanda articolando lentamente e con metodo.
Quando Ofelia realizzò che si stava rivolgendo a lei e non a Eulalia
perse ogni capacità di ragionare.
«Non ce la facevo più a stare dai miei genitori».
Risposta decisamente idiota.
Thorn, marmoreo sullo sgabello, era in attesa. La gola di Ofelia
pulsava talmente da farle pensare che il cuore vi si fosse trasferito. Si
sentiva un imbuto. Per quanto violente fossero le emozioni che le
facevano ribollire il corpo, appena arrivava il momento di esprimerle
le usciva soltanto un misero sgocciolio.
«Sono rimasto stupito quando ho visto che la sostituta di Mediana
eravate voi» continuò allora Thorn. «Anche più che stupito».
Ofelia stentava a crederlo, data l’impenetrabilità del suo viso.
«Siamo stupiti in due. Se avessi saputo che eravate il famoso sir
Henry avrei...».
«Potreste essere Dio» la interruppe Thorn.
L’osservazione la colse completamente alla sprovvista. Le sue mani,
diventate molli, lasciarono cadere i rapporti di Mediana che aveva
portato con sé, una valanga di carta che si sparpagliò ai suoi piedi.
«Credete che io... che sia...».
«Avreste potuto esserlo. Anch’io, del resto. Dio conosce i nostri
volti».
Era un’osservazione talmente elementare che Ofelia si vergognò di
non averci pensato prima.
«È vero. Per fortuna Dio è un pessimo imitatore. Se mi aveste
accolto con il sorriso sono sicura che avrei diffidato».
Thorn non fece commenti. Con la sua battuta Ofelia aveva sperato
di distendere l’atmosfera, ma fu un fallimento completo. Il loro
ritrovarsi era un fallimento completo. Le cose non dovevano andare
in quel modo, era imperativo che trovasse qualcosa di un po’ più
intelligente da dire, che trovasse le parole giuste. Subito.
Tac-tac!
Era l’orologio da taschino. Ofelia si fece pizzicare le dita cercando
di estrarlo dalla tasca.
«Ecco un testimone al disopra di ogni sospetto che dovrebbe
convincervi che non sono Dio».
Si vergognò della voce incerta. Da quando era entrata in quella
stanza si comportava come una bambina spaurita. All’epoca in cui
non conosceva Thorn e aveva tutte le ragioni di temerlo non aveva
provato nemmeno la metà dell’apprensione che la paralizzava in quel
momento. Quell’uomo aveva aperto in lei una breccia che la rendeva
insopportabilmente vulnerabile.
E non faceva niente per metterla a suo agio.
Thorn si alzò distendendo l’interminabile colonna vertebrale. Il
movimento osseo suscitò un cigolio metallico nella gamba. Ofelia lo
preferiva seduto. Era già abbastanza intimidita così, non aveva
proprio bisogno di sentirsi schiacciata dalla sua altezza.
Thorn prese l’orologio da lontano, con la punta delle dita, senza
muovere un passo verso di lei.
«Non fa l’ora giusta» si scusò Ofelia. «È stato tutto il tempo a
cercarvi. Non sono un’esperta in psicologia degli orologi, ma sono
sicura che si riprenderà, adesso che vi ha trovato».
L’orologio fece insistentemente sbattere il coperchio. Thorn lo
guardò scettico, come se dubitasse di aver mai avuto un legame di
appartenenza con un oggetto tanto chiassoso.
Se Ofelia aveva sperato di commuoverlo, il tentativo era fallito.
«Come sta mia zia?».
«Oh... in realtà non ho più visto Berenilde da quando le Decane mi
hanno rimpatriato su Anima. Ma ho qualche notizia. Potete contare
sul suo appoggio per qualunque cosa. Attende il vostro ritorno»
pensò bene di specificare con un sorrisino goffo.
Ofelia evitò di citare l’episodio della Rosa dei Venti. Per farlo
avrebbe dovuto menzionare Archibald, e l’ultima cosa che voleva era
mettere Thorn di malumore. Per il momento non si poteva certo dire
che traboccasse di entusiasmo.
«Il mio ritorno?» ripeté.
«Le cose sono cambiate al Polo. Faruk è cambiato. Sono sicura che
potrete presto tornare a casa a testa alta e perorare la vostra causa».
Ofelia l’aveva detto convinta, sperando che almeno quelle parole
raggiungessero il cuore di Thorn. Quanto a lui, si limitò a chiudere il
pugno intorno all’orologio per far smettere gli incessanti tac-tac.
«Siete venuta sola a Babel?».
«Ehm... sì».
In quel momento si sforzò di non pensare alla sciarpa.
«Non c’è rischio che le Decane scoprano la vostra presenza qui?».
«Non credo».
«La copertura dell’apprendista Eulalia è solida?».
«Ho dei documenti».
La sua risposta fu coperta da uno spaventoso cigolio d’acciaio.
Thorn aveva voluto cambiare posizione, ma la meccanica che
fungeva da esoscheletro alla gamba si era bloccata a metà
movimento. Si aggrappò per un pelo alla consolle dell’Ordinatore per
non perdere l’equilibrio.
«Faccio da solo» disse vedendo Ofelia accennare un gesto.
Il tono non ammetteva repliche. Si chinò per sbloccare il
meccanismo sulla parte posteriore del ginocchio, e Ofelia ne
approfittò per guardarlo con più attenzione. Colse una serie di
particolari che avrebbe notato prima se non fosse stata così
obnubilata dal proprio nervosismo. Anche Thorn era cambiato. La
piega tra le sopracciglia si era scavata ulteriormente, i capelli avevano
perso terreno rendendogli la fronte ancora più ampia di prima, aveva
un colorito talmente pallido che le cicatrici si distinguevano appena,
inoltre emanava un intenso odore di alcol farmaceutico, come se si
disinfettasse coscienziosamente ogni centimetro di pelle, tessuto e
metallo.
Eppure l’intero suo corpo sembrava elettrizzato da una potente
energia, una determinazione così intensa da essere quasi palpabile.
Thorn sbloccò il meccanismo del gambale con uno stridore
infernale, poi si raddrizzò in tutta la sua altezza.
«Tocca a voi, se avete domande da fare. Preferibilmente non sulla
mia gamba».
Ofelia si contrasse. Certo che aveva domande da fare! Ne aveva
talmente tante che non sapeva da dove cominciare. Non poté fare a
meno di guardare il simbolo del sole cucito sulla camicia di Thorn.
«Mi servo di LUX quanto LUX si serve di me» la anticipò lui. «Non
sono stato capace di misurarmi con Dio attaccandolo dall’esterno,
così ho riconsiderato tutta la mia strategia».
«Diventando voi stesso un Lord? Sono quindi tutti complici di
Dio?».
«Tanto quanto le Decane su Anima e, a suo tempo, il clan di mia
madre al Polo. Anche più che complici. LUX possiede influenza e
mezzi considerevoli. I Lord sono i Tutori per eccellenza: tengono lo
spirito di famiglia al guinzaglio e hanno fatto di Babel il modello che
Dio vorrebbe applicare a ogni arca».
Ofelia deglutì. Un mondo in cui bisognava controllare ogni parola
e ogni gesto non era certo un luogo adatto a una maldestra come lei.
«Dev’essere stata dura entrare a far parte dei loro ranghi» mormorò.
«Come tutto ciò che avrete affrontato dopo l’evasione, immagino».
Thorn dette un’occhiata all’orologio e, vedendo che tutte le
lancette puntavano su di lui, guardò le innumerevoli pendole della
stanza, come se volesse cronometrare il tempo che avevano a
disposizione per parlare.
«È una lunga storia. Vi basti sapere che sono venuto a Babel per gli
indizi che mi avete fornito in prigione, e che sono diventato sir
Henry grazie ai Genealogisti».
«I Genealogisti?» si stupì Ofelia. «Ne parlavate l’altro giorno con
lady Septima, e non sembravate particolarmente voglioso di avere a
che fare con loro».
Un fremito percorse la mascella di Thorn. Fu il primo segno
d’emozione che manifestava dall’inizio della conversazione. Era un
segno che Ofelia sapeva interpretare. In passato l’aveva visto spesso,
ogni volta che Thorn si era sforzato di proteggerla dai propri segreti, e
fu un sollievo vederlo di nuovo. Stava tornando a essere l’orso
burbero che aveva imparato a conoscere. Le avrebbe ordinato di
tornare su Anima, di non ficcare il naso nei fatti suoi e di lasciarlo
affrontare il pericolo da solo.
Quanto a lei, aveva la ferma intenzione di imporsi.
«Thorn, resterò a Babel che voi lo vogliate o no. Checché ne dica
lady Septima, qui si sta tramando qualcosa... qualcosa di grave. Non
so ancora cosa stiate combinando voi, ma prima che vi opponiate alla
mia decisione sappiate che...».
«Non mi opporrò».
La risposta era stata così immediata che a Ofelia andò la saliva di
traverso e il suo bel discorso si concluse in un attacco di tosse.
«Sono d’accordo con voi» rilanciò Thorn. «Si sta tramando
qualcosa. Io ho bisogno di uno sguardo all’esterno del Secretarium e
voi di uno sguardo all’interno. Una collaborazione farà comodo a
tutti e due. Che ne dite?».
Ofelia annuì rigida. Avrebbe dovuto essere contenta, ma il distacco
di Thorn e quel modo che aveva di escludere dalla conversazione
ogni sentimentalismo la facevano sentire sempre più vuota.
Sulla consolle dell’Ordinatore le cuffie emisero un ronzio, segno
che qualcuno stava cercando di stabilire una comunicazione. Era la
voce di lady Septima.
«Il microfono è spento» disse Thorn vedendo Ofelia indietreggiare.
«Non può sentirci».
«Sa chi siete veramente?».
«Nessuno lo sa, a parte i Genealogisti. Ignoro anche se lady Septima
sappia dell’esistenza di Dio, ma è convinta di servire una bella e
nobile causa. Solo i Genealogisti sono iniziati a tutte le verità. Sono i
Lord più potenti di LUX, talmente potenti che non tollerano più l’idea
di dover rendere conto a Dio. È il mio unico denominatore comune
con loro» aggiunse senza riuscire a nascondere un moto di disgusto,
«che però mi ha permesso di infiltrarmi nei loro ranghi. Mi hanno
creato di sana pianta una nuova identità facendo di me un
rispettabile cittadino di Babel, poi mi hanno messo a capo del
Secretarium. Naturalmente Dio non sa che sono qui. Dovremo essere
vigili e non tradire mai il nostro passato davanti agli altri, inclusi i
Genealogisti. Si sono alleati con me solo perché posso essere loro
utile. Non vedrebbero di buon occhio una vostra intrusione nei loro
affarucci».
«Ma perché vi hanno affidato il Secretarium?» insisté Ofelia. «Cosa
c’entrano la banca dati del catalogo e i gruppi di lettura con questi
loro “affarucci”?».
«C’entrano eccome. I Genealogisti mi hanno incaricato di ritrovare
un documento molto particolare».
«Il manoscritto che stava traducendo Mediana?».
«Questo dovrete essere voi a confermarmelo. Non dico altro per
non influenzarvi. Mi serve uno sguardo vergine».
Nelle cuffie la voce di lady Septima aumentò di volume, i «Pronto!
Pronto!» si fecero più insistenti. Thorn tornò allo sgabello con rigidità
meccanica, ma ancora non accese il microfono. Aprì un cassetto e
srotolò un nastro di carta perforata che si ammucchiò sul pavimento.
«Non perdiamo altro tempo» disse porgendolo a Ofelia con gesto
energico. «Qua c’è una lista di riferimenti bibliografici. Vi invito a
consultare tutti questi libri, senza eccezioni, il prima possibile. Vi
saranno utili per la perizia».
Poi, ignorando l’espressione alterata di Ofelia, rimise in ordine il
groviglio di cavi dell’Ordinatore con un senso maniacale del metodo.
Sebbene le sue gambe non sembrassero molto affidabili, le mani
erano precise come frecce.
«Dovreste andare senza indugio nella camera fredda» le
raccomandò. «Il manoscritto vi aspetta, e lady Septima troverebbe
inammissibile che non siate già al lavoro. Preparatevi ad averla alle
costole. Faremo in modo di rivederci quando la sua vigilanza si sarà
allentata. Allora e solo allora vi darò maggiori informazioni».
Thorn si era espresso con un eloquio da macchina da scrivere senza
accorgersi dell’effetto che le sue parole producevano su Ofelia. In
particolare sui suoi occhiali, che erano diventati completamente
gialli.
«Ecco... stavo pensando di lasciare la Buona Famiglia».
Thorn fece ruotare lentamente lo sgabello verso di lei. Niente in lui
esprimeva disapprovazione, eppure Ofelia si sentì gelare le ossa.
«In questo modo mi sarebbe più facile assistervi» gli spiegò
arrotolando il nastro perforato. «Il conservatorio è molto
impegnativo, mi lascia poca libertà d’azione. Era più che altro una
scusa per accedere al Secretarium, ma adesso che ci siete voi potrete
farmi entrare... di nascosto, no?».
Lo sguardo di Thorn, fisso e penetrante come quello di un’aquila,
la mandò definitivamente in confusione.
«No. Siete molto più utile all’interno della compagnia dei
precorritori, e lo sarete ancora di più quando diventerete aspirante
virtuosa».
Ofelia era sbalordita. Ne parlava come se si trattasse di una
semplice formalità! Per un attimo fu tentata di raccontargli le
minacce, i ricatti e i cocci di vetro, ma non lo fece. Non voleva
apparire debole agli occhi di Thorn. Per un motivo che ancora non
capiva, tra loro due si era scavato un fossato che era ben decisa a non
lasciar ingrandire.
«Va bene» disse infilandosi il nastro nella tasca della divisa.
«Continuerò il mio apprendistato al conservatorio e perizierò il
manoscritto».
Ci rimase male vedendo che Thorn non lasciava trasparire la
minima soddisfazione.
«Mi farete un rapporto scritto dei vostri progressi, come faceva
l’apprendista Mediana prima di voi. Non dimenticate di raccogliere
quelli prima di andarvene».
Indicò gli appunti di traduzione che erano ancora sparsi sul
parquet, poi tornò a collegare e scollegare cavi come se la
conversazione fosse finita lì.
«È tutto?» mormorò Ofelia. «Non avete altro da dirmi?».
«Sì» borbottò Thorn senza smettere di operare. «Finché non si
scopre cosa sia realmente successo a miss Silence e all’apprendista
Mediana evitate di isolarvi, rimanete sempre vicino ai vostri colleghi,
la loro compagnia sarà la protezione migliore».
Ofelia represse una risatina nervosa. Si inginocchiò facendo del suo
meglio per ignorare il dolore che ogni gesto le ravvivava sotto le
fasciature. Quando ebbe finito di raccogliere i fogli si accorse che
Thorn non si muoveva più. Curvo sullo sgabello, teneva in mano le
cuffie senza decidersi a mettersele. I guanti di metallo luccicavano
alle lampadine dell’Ordinatore.
«E voi?» domandò a sua volta. «Avete altro da dirmi?».
Ofelia avrebbe avuto migliaia di cose da dirgli, ma nessuna uscì
dalle sue labbra. Parlare alla schiena di Thorn era ancora più difficile
che parlargli guardandolo in faccia.
Dato che lei non rispondeva si mise le cuffie sulle orecchie.
«Chiudetevi la porta alle spalle».
Una volta fuori dalla sala dell’Ordinatore si bloccò in mezzo al
baccano dei cilindri e si morse il guanto con tutte le sue forze
soffocando i singhiozzi che stavano per esploderle fra le costole.
“A proposito: vi amo”.
Dov’erano finite quelle quattro parole impacciate che Thorn le
aveva sussurrato subito prima di sparire dalla sua vita? Era bastata
l’assenza a cancellarle come una scritta a gessetto?
Ofelia si asciugò gli occhi con gesto risoluto. No. La cosa più
importante era averlo ritrovato. Il resto sarebbe stato questione di
tempo, per lui come per lei.
«Al lavoro!» mormorò dirigendosi verso la camera fredda.
IL PORTIERE

Gli acquazzoni bollenti lasciarono il posto ai venti polverosi.


L’estate babeliana volgeva al termine, ma l’aria era appena meno
calda.
Ofelia non notò subito il cambiamento di stagione. Per coglierlo
avrebbe dovuto avere il tempo di alzare gli occhiali verso il cielo. Si
svegliava prima dell’alba per le corvée antelucane, faceva i giri di
pista regolamentari, correva dall’anfiteatro al laboratorio, mandava
giù una ciotola di riso rileggendo gli appunti su un angolo di tavolo e
non poteva andare a dormire prima di aver finito le corvée della sera.
Il minimo ritardo si ripercuoteva su tutta la settimana. Per giunta
lady Septima aveva quasi raddoppiato gli orari dei gruppi di lettura al
Memoriale oltre ad aver instaurato uno spietato sistema di
classificazione basato sulla produttività individuale: più l’apprendista
saliva in classifica e più alte erano le sue possibilità di ottenere il
posto di aspirante.
La cerimonia della consegna dei diplomi era imminente.
Con quei ritmi infernali ogni minuto era importante, e gli Indovini
l’avevano capito bene. Dato che Ofelia si era rifiutata di ritirarsi dalla
competizione prendevano di mira la cosa più preziosa che possedesse
al conservatorio: il tempo. Le misero un sonnifero nel bicchiere
d’acqua sul comodino, tapparono i gabinetti durante il suo turno di
corvée, le cucirono insieme le gambe dei pantaloni, le bloccarono il
meccanismo del letto: ogni espediente era buono per rallentarla.
Nei primi giorni Ofelia vide la propria posizione in classifica
scivolare verso il basso. Sostituire Mediana era un regalo avvelenato, e
non solo perché si era attirata il rancore dei compagni. Le ore
supplementari che trascorreva nella camera fredda del Secretarium si
aggiungevano a giornate già piene da scoppiare.
Inoltre, volendo dire le cose come stavano, il manoscritto che
doveva periziare per Thorn le stava dando filo da torcere.
Era uno spesso registro di portineria tenuto nel corso dell’ultimo
decennio prima della Lacerazione e scritto in un antico dialetto
regionale di Babel con un alfabeto inutilizzato da secoli: un vero
rompicapo per Ofelia. L’abbozzo di traduzione di Mediana aveva
portato alla luce solo consegne di merce, inventari di materiali, stato
dei luoghi, disposizioni di sicurezza e di igiene, apparentemente
niente che fosse degno di interesse.
Ofelia si era procurata i libri che le aveva raccomandato Thorn, ma
erano così dotti che fu incapace di servirsene.
Poteva fare affidamento solo sulle proprie mani.
Purtroppo le estremità delle pagine, quelle più toccate da dita,
erano state mangiate dal tempo. In altre parole era priva del terreno
più propizio alla lettura. Per giunta era costretta a seguire il protocollo
sperimentale imposto da lady Septima, una metodologia più esigente
di tutte quelle con cui aveva avuto a che fare nel suo piccolo museo:
passare da una pagina all’altra richiedeva una quantità enorme di
tempo. Ofelia esaminava minuziosamente ogni millimetro di carta e,
quando finalmente veniva attraversata da una visione, si precipitava
a scriverla nel rapporto.
Poco a poco mise insieme un primo profilo dell’autore. Il portiere
era di sesso maschile e soffriva di gravi turbe nervose, ciò nonostante
non mancava di sangue freddo. Malgrado la diffidenza di cui aveva
impregnato il registro, ci teneva a fare coscienziosamente il proprio
lavoro. Molto rigore, alto senso della disciplina, strascichi di traumi:
si trattava di un soldato tornato alla vita civile. Ofelia sentiva un forte
fastidio alla mascella ogni volta che capitava su un’impronta. Il
portiere era probabilmente un grande invalido di guerra.
Mettere tutto ciò per iscritto esigeva una precauzione estrema.
Poiché l’Index proibiva di utilizzare le parole “soldato” e “guerra”,
Ofelia doveva ricorrere a interminabili parafrasi come “individuo che
ha prestato servizio in una grande unità di preservazione della
nazione” o “situazione conflittuale tra più paesi che fanno ricorso a
strumenti ad alto grado di nocività”.
Aspettava e temeva il momento in cui avrebbe dovuto consegnare a
Thorn il rapporto. Come previsto non ebbero più occasione di vedersi
faccia a faccia: lady Septima faceva in modo di assistere a ogni
colloquio, così da poter valutare lei stessa le prestazioni dell’allieva.
Spesso era presente anche Elizabeth, che andava e veniva tra i box di
lettura e il Secretarium facendo il punto sulla codificazione o
apportando continue migliorie all’Ordinatore.
Ofelia quindi doveva sempre rimanere sul chi vive, chiamare Thorn
“sir” e tenere gli occhi bassi.
Era un dolore quotidiano saperlo tanto vicino e tanto inaccessibile.
Le sembrava di non averlo davvero ritrovato, e aveva una tale paura
di deludere le sue aspettative che prendeva molto a cuore la missione
affidatale, una tale paura di aumentare la distanza fra loro da
osservare scrupolosamente la discrezione che lui pretendeva da lei.
Ogni volta che osava rivolgergli un’occhiata di nascosto era colpita
dalla fredda determinazione che lo animava. Thorn si era già dato
l’obiettivo di contrastare Dio all’epoca in cui cercava di leggere il Libro
di Faruk, ma aveva accettato fin dall’inizio l’eventualità di un
insuccesso. Ofelia l’aveva visto esaurirsi a fuoco lento, curvarsi una
settimana dopo l’altra schiacciato dal peso di un fardello troppo
grosso per lui.
Ormai non era più così.
Aveva l’instancabilità dell’uomo determinato a raggiungere il suo
scopo. O meglio, dell’automa. Thorn non manifestava impazienza o
soddisfazione né aveva mai sbalzi d’umore, come se le emozioni
umane fossero altrettanti freni alla sua produttività. Per quanto
insignificante, sfruttava metodicamente ogni dettaglio che Ofelia
portava alla luce durante la sua analisi. Sera dopo sera, nella sala
dell’Ordinatore si accumulava nuova documentazione. Veniva da
chiedersi dove Thorn trovasse l’energia per leggere tutti quei fogli,
oltre a lavorare sulla banca dati. Ofelia cominciava a capire perché
non uscisse mai dal Secretarium.
Nel frattempo le settimane passavano e lei continuava a non sapere
cosa esattamente Thorn stesse cercando nel registro di portineria né
in cosa consistesse davvero la sua alleanza con i Genealogisti.
«Non li avete mai visti?» si stupì Blasius quando Ofelia gli chiese di
loro. «Sono vere e proprie celebrità a Babel. Ogni loro apparizione
pubblica è extremely notata».
Era inerpicato su una scala a pioli per mettere a posto uno scaffale
del Memoriale. Due metri più in basso Ofelia faceva finta di
consultare un dizionario. Aveva accampato la scusa di una ricerca
lessicale per ottenere l’autorizzazione a lasciare per un attimo il box
di lettura. Parlavano sottovoce senza guardarsi e quasi senza muovere
le labbra, entrambi dando l’illusione di essere concentrati sul proprio
compito.
«Ho pochissime occasioni di mettere il naso fuori» disse voltando
una pagina del dizionario. «Hanno veramente così tanto potere,
questi Genealogisti?».
«Good lords, sì. Hanno un club prestigioso che permette loro di
raccogliere informazioni personali su ogni abitante dell’arca.
Nell’interesse generale, dicono. Sanno praticamente tutto di quasi
tutti. Prima o poi vi capiterà di vederli al Memoriale. Evitate di
attirare la loro attenzione, miss» sussurrò Blasius puntando il lungo
naso in tutte le direzioni. «Non... non sono disinteressati come
sembrano».
La preoccupazione che trapelava dalla sua voce la commosse. Per
lei era stato un vero sollievo vedere che Blasius non le portava
rancore per la disavventura sotterranea. Anche se in pubblico non ne
avevano più parlato, quel segreto era diventato il nocciolo della loro
complicità. Ofelia aveva raramente il tempo di scambiare due parole
con il commesso, ma ogni sorriso che si rivolgevano incrociandosi in
corridoio le infondeva coraggio.
Quella volta però Blasius non sorrideva. Scese dalla scala con gli
occhi spalancati dalla paura.
«Posso darvi un consiglio da amico, miss? So che i precorritori
come voi hanno l’informazione nel sangue... ma forse dovreste tenere
un po’ a freno la curiosità. Dopo quello che è successo alla vostra
compagna... well... non vorrei proprio che la raggiungeste laggiù».
Ofelia si incastrò le dita nello scaffale rimettendo a posto il
dizionario.
«Laggiù? Volete dire che sapete dove hanno portato Mediana?».
Blasius si passò una mano imbarazzata nella zazzera da riccio, come
se rimpiangesse di aver detto troppo. Fu l’ultima cosa che vide Ofelia.
Il buio le piovve addosso con un formidabile scroscio. Ci mise
qualche secondo a realizzare che era coperta di inchiostro. Il liquido
nero e denso le scorreva tra i capelli, sulla faccia, lungo il collo.
«Damned!» esclamò Blasius. «Sono desolato, la mia iella ha colpito
di nuovo!».
Ofelia si tolse gli occhiali imbrattati e guardò in su. Subito sopra di
lei alcune sagome sfocate si stavano allontanando con la testa verso il
basso. Quella non era iella, era un palloncino lanciato con abbastanza
forza da vincere la gravità del soffitto e colpire in pieno il bersaglio.
«Non mi toccate» disse vedendo che il commesso le porgeva un
fazzoletto. «Rischiate di sporcarvi anche voi. Controllate che i libri
non siano macchiati, io vado a pulirmi».
Ofelia rimase a lungo nei bagni del Memoriale. Dovette sciacquarsi
più volte il viso, i capelli e gli occhiali, poi immerse la redingote nel
lavandino. Quel gruppetto di Indovini cominciava davvero a
snervarla. Chiedere una nuova divisa avrebbe comportato corvée
supplementari di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Mentre la stoffa
buttava fuori l’inchiostro si guardò allo specchio. I capelli corti le si
erano incollati alle guance in forma di spirali scure. Non essendoci
specchi, alla Buona Famiglia non aveva mai occasione di guardarsi.
Era diversa.
Lo vedeva negli occhi, negli angoli delle labbra, addirittura nei
fremiti del corpo sotto la maglia: un turbamento che prima non c’era.
«Sono Eulalia» mormorò.
“Sono Ofelia” pensò.
Ma chi era per Thorn?
Con una rapida occhiata controllò che non ci fosse nessuno, poi
fece un profondo respiro per calmarsi e appoggiò il palmo sul riflesso.
Dopo un po’ la superficie dello specchio divenne molle e la mano vi
si infilò per riemergere dallo specchio del lavandino accanto. Con un
lento movimento inverso Ofelia la tirò fuori.
Tremava.
Lo specchio aveva assunto una consistenza fangosa, come se avesse
cercato di resistere all’intrusione. La doppia vita che Ofelia
conduceva a Babel aveva dunque finito per farle perdere il potere? O
era una crisi di identità più profonda?
Si riprese sentendo cigolare la porta e risuonare dei passi.
«Mia madre ti sta cercando, apprendista Eulalia».
Ofelia riconobbe la voce di Octavio. Ne sostenne lo sguardo nello
specchio per tutto il tempo che lui osservò i rivoli neri colarle dalla
frangetta. Con l’aumento delle ore dei gruppi di lettura le sessioni
delle due divisioni si svolgevano ormai in comune, cosa che tuttavia
non cambiava la situazione: Octavio diffidava di lei quanto lei
diffidava di lui.
«Trova che la tua ricerca lessicale si stia dilungando un po’»
aggiunse con una punta di sarcasmo.
Ofelia avrebbe voluto mandarlo via, ma Octavio aveva tutto il
diritto di stare lì. A Babel i luoghi d’uso collettivo erano misti, inclusi
i bagni. Tolse il tappo al lavandino e mentre l’acqua defluiva con un
sonoro gorgoglio strizzò la divisa. Per fortuna il colore blu notte della
stoffa mascherava abbastanza bene i danni prodotti dall’inchiostro.
«Non hai paura a rimanere solo con me?» lo canzonò lei. «È qui
che Mediana è stata trovata in stato di shock».
Octavio sollevò le sopracciglia circonflesse, un leggero sussulto che
si propagò lungo la catenella d’oro tra l’arcata sopraccigliare e la
narice.
«Non ho mai sostenuto che l’avessi aggredita tu».
«No, solo che mi sono precipitata a prendere il suo posto».
«Non ti ho mai visto così aspra».
Ofelia preferì non raccogliere l’osservazione. Alle sue spalle,
impassibile come una sfinge, Octavio la studiava con una specie di
interesse scientifico.
«Cos’è successo alla divisa? E alle braccia?».
Ofelia si affrettò a indossare la divisa, benché fosse fradicia. La
maggior parte dei tagli era guarita, ma alcuni avevano lasciato segni
dai quali era facile capire che fossero recenti, tanto più per un
Visionario.
«È successo che non ho mia madre al conservatorio a proteggermi
le spalle».
Gli occhi di Octavio si ingrandirono accendendosi di colpo. Ofelia
aveva toccato un punto delicato. Il giovane non era quel vulcano
spento che voleva far credere. Forse provocarlo non era stata una
grande idea.
«Torno al box» dichiarò Ofelia. «Non voglio far attendere oltre lady
Septima».
Nel momento in cui si accingeva ad andarsene Octavio la trattenne
per il polso.
«Per tua norma e regola, non ho ricevuto alcun trattamento di
favore da parte di mia madre. Devo i miei risultati unicamente al mio
merito. Voglio solo assicurarmi che sia lo stesso per ogni aspirante
virtuoso, compresa tu».
Su quelle parole la lasciò e guardò da un’altra parte, come se
improvvisamente si fosse vergognato del suo gesto. Come ogni cosa a
Babel, anche i rapporti tra uomini e donne sottostavano a codici ben
precisi, non si potevano avere contatti ravvicinati senza l’avallo di
un’autorità superiore. Al conservatorio della Buona Famiglia erano,
né più né meno, vietati.
Per la prima volta gli occhi di Octavio evitarono i suoi.
«Sono un tipo a posto» disse a fior di labbra, «e te lo dimostrerò».
Quando Ofelia ripassò nella corsia in cui era scoppiato il palloncino
d’inchiostro Blasius non c’era più. Al suo posto un automa stava
finendo di pulire ripetendo a ciclo continuo «I REGALINI MANTENGONO
VIVA L’AMICIZIA».
Pensierosa, si domandò cosa avesse voluto dirle Octavio.
Quella sera, nella camera fredda del Secretarium, Ofelia soffrì le
pene dell’inferno a concentrarsi sul manoscritto. Aveva le palpebre in
fiamme, le giornate non le davano un attimo di tregua, e condividere
la camerata con quindici uomini ostili non contribuiva certo a farle
avere un sonno ristoratore. Per quanto facesse scorrere le dita sul
vecchio registro nei punti in cui era a stento intatto il portiere non le
parlava più. L’idea di presentarsi a mani vuote da Thorn le era
intollerabile, ma non poteva farci niente, era solo testo devastato a
perdita d’occhio e non c’era più Mediana a completare la traduzione.
Dopo essersi ostinata a lungo lasciò ricadere le braccia lungo il
corpo. Si assopì senza accorgersene, in piedi, davanti al leggìo. Durò
solo una frazione di secondo, un fuggevole istante durante il quale si
vide galleggiare in assenza di gravità al disopra del vecchio mondo,
talmente in alto che vedeva l’orizzonte assumere la forma della
curvatura del pianeta.
Un battito di ciglia dopo leggeva:
Presto arriverà la fottuta stagione delle piogge con la fottuta cupola che
fa acqua da tutte le parti e la fottuta giungla che mi invaderà le camere e i
fottuti ragazzini che ancora non tornano. A che è servito averli mandati in
quella fottuta città? Cosa vi impareranno, se non che il nostro fottuto
mondo è marcio? E se finissero per farsi linciare nonostante i loro fottuti
poteri? Maledizione, com’è vuota questa fottuta scuola senza di loro.
Sul momento Ofelia non provò alcuna sorpresa. Immersa in uno
stato alterato di coscienza le sembrò del tutto naturale capire cos’era
scritto nel registro. Si mise a voltare le pagine in un senso e nell’altro
senza più rispettare la procedura, seguendo solo l’istinto. A margine
degli inventari, accanto alle colonne dei conti, c’erano i commenti
del portiere. Il vero tenore del manoscritto era lì.
L. mi ha scocciato con le sue fottute luci in piena notte. Un coprifuoco è
un coprifuoco!
Quei fottuti ragazzini hanno litigato tutto il giorno. La guerra era pipì di
gatto in confronto al bordello che mi hanno lasciato. Scuola della pace, eh?
Auguro ai loro futuri rampolli di divertirsi.
Accidenti, J. è scomparso. Stavolta per davvero. Con quel suo fottuto
potere doveva succedere prima o poi. Accidenti.
Falso allarme, hanno trovato J. su un’altra fottuta isola. In perfetta
salute. Sono instancabili, fottuti ragazzini.
Oggi la piccola A. è venuta a fare due chiacchiere. Non ho capito una
fottuta parola di quel che mi ha detto. Mi ha fatto un disegno. Credo che
voglia un telescopio. Non so se un giorno questi ragazzini saranno i re del
mondo, ma imparare la lingua di qui sarebbe un inizio dannatamente
buono.
Accidenti, abbiamo di nuovo perso J.
Ofelia voltava le pagine senza riuscire a fermarsi. Era in trance. Le
sembrava quasi di sentire la voce del portiere borbottarle all’orecchio,
e dietro l’asprezza delle sue parole percepiva un’enorme tenerezza.
L’uomo aveva amato quei “fottuti ragazzini”, li aveva sinceramente
amati.
Il registro terminava bruscamente su un ultimo commento.
Mi spia. Quel fottuto modo che ha di guardarmi mi fa paura, come se
fossi un fottuto intruso nella loro fottuta scuola. Non è come gli altri fottuti
ragazzini, quello. Devo parlarne al capo.
Ofelia sgranò gli occhi dietro gli occhiali, stavolta completamente
sveglia. Il testo tornò subito indecifrabile. Era di nuovo una
successione di caratteri senza capo né coda in una lingua che le
risultava totalmente estranea.
«Apprendista Eulalia, la vostra seduta è terminata» dichiarò la voce
di lady Septima dall’altoparlante.
Ofelia guardò il foglio del rapporto ancora intonso su un angolo
del leggìo. Non ebbe la minima esitazione.
Doveva trovare il modo di parlare a Thorn da sola.
IL NON DETTO

Uscendo dall’ascensore della camera fredda Ofelia trovò ad


attenderla lady Septima.
«Avete perso tempo, apprendista. Sbrighiamoci».
Come ogni volta attraversarono insieme le gallerie circolari del
Secretarium. Ofelia si sforzava di non tradire l’eccitazione che le
faceva venire voglia di correre da Thorn. Guardò il globo
ornamentale che galleggiava in mezzo all’atrio. Quella sera il vecchio
mondo le aveva rivelato una minima parte dei suoi segreti.
Lady Septima entrò nella sala dell’Ordinatore e consegnò il
rapporto a Thorn senza preoccuparsi del fatto che lo stava
interrompendo nel bel mezzo dei suoi collegamenti di cavi. A cose
normali Ofelia avrebbe tenuto gli occhi bassi, ma non quella volta.
Lo fissò ostinatamente mentre strappava la busta, apriva il rapporto e
lo leggeva con impassibilità meccanica. Lo sguardo di Thorn incrociò
brevemente quello di Ofelia prima di fermarsi su lady Septima.
«Lasciateci soli».
«Why? Se l’allieva ha commesso errori devo saperlo e prendere le
misure del caso».
Allungò una mano autoritaria verso il rapporto, ma Thorn lo mise
in un cassetto dell’Ordinatore. Ben al riparo dagli sguardi, per quanto
potenti potessero essere.
«Se permettete, sir, vorrei dargli un’occhiata» insisté lady Septima.
«Mi sono impegnata a trovarvi una traduttrice, la mia
responsabilità...».
«La vostra responsabilità è fuori discussione, visto che non ci sono
errori» la interruppe Thorn. «È solo che non dovete conoscere il
tenore di questo rapporto».
«Chiedo scusa?».
Ofelia contrasse le dita dei piedi negli stivali. Era buffo vedere come
due parole potessero assumere un significato opposto a seconda del
modo in cui venivano pronunciate. Lady Septima era mortalmente
offesa. In fondo, lei e Octavio bruciavano dello stesso fuoco interiore:
dietro la loro abnegazione si consumavano d’orgoglio.
Thorn invece era un iceberg. Immobile sullo sgabello, ostentava
solo una fredda indifferenza. La punta metallica delle sue dita
smanettava sulla consolle di legno dell’Ordinatore. Ofelia ci aveva
messo un po’ a capire che quei guanti che non si toglieva mai erano
forgiati in una lega alchemica che bloccava le scariche elettriche.
Collegare e scollegare cavi per tutto il giorno non era un’occupazione
priva di rischi.
«La perizia del manoscritto è stata richiesta dai Genealogisti» disse
Thorn. «Io ho ricevuto delle istruzioni e voi pure. Il vostro compito
era trovare una traduttrice e l’avete assolto molto al di là del vostro
semplice dovere. Tutto ciò che verrà detto oggi in questa stanza
rimarrà strettamente confidenziale».
Lady Septima indicò la spallina di Ofelia.
«Quest’apprendista inesperta, di cui non sappiamo nemmeno se un
giorno diventerà precorritrice, dovrebbe dunque essere meglio
informata di me?».
Thorn si alzò in piedi. Lady Septima, abituata a guardare il
prossimo dall’alto in basso, sembrò di colpo minuscola.
«Se ci trovate qualche inconveniente vi prego di rivolgervi
direttamente ai Genealogisti».
L’argomentazione convinse lady Septima a rimangiarsi la fierezza.
Batté i tacchi, si avviò alla porta, poi si girò un’ultima volta verso
Ofelia. Era impallidita. I suoi occhi di brace, invece, erano diventati
incandescenti. Sembrava servirsi del suo potere familiare per sondare
gli atomi di quell’allieva che osava sapere una cosa da lei ignorata.
Ofelia fece del suo meglio per sostenere il suo sguardo invasivo, ma
trasse un sospiro di sollievo quando finalmente lady Septima uscì
richiudendo la porta.
Thorn girò la manovella fino a che la sala dell’Ordinatore non fu
completamente insonorizzata.
«Un foglio bianco?» disse.
Ofelia si morse l’interno della guancia. Non c’era rimprovero nella
sua voce, ma questo non significava niente. Che avesse l’accento di
Babel o del Nord, il tono di Thorn era così monocorde in ogni
circostanza da rendere impossibile capire cosa avesse in mente.
«Mi dispiace. Avevate detto di non attirare l’attenzione di lady
Septima su di noi e ho fatto esattamente il contrario».
Thorn non rispose. Rimase in piedi a una certa distanza e la guardò
aspettando spiegazioni.
Ofelia si lanciò.
«L’autore del manoscritto ha vissuto qui al Memoriale all’epoca in
cui era ancora una scuola. Ha... Sono sicura che ha conosciuto gli
spiriti di famiglia. Quand’erano bambini, intendo. E ho tutte le
ragioni di pensare» aggiunse deglutendo, «che abbia anche
conosciuto Dio».
Cercò di cogliere un cambiamento nell’espressione di Thorn, ma
lui non batté ciglio.
«Che altro avete scoperto?».
Certo, Ofelia non si era aspettata che la portasse in trionfo, ma un
lieve segno di apprezzamento non le sarebbe dispiaciuto.
Il parquet le scricchiolò sotto i piedi quando si avvicinò agli scaffali
sotto vetro su cui erano allineati fascicoli e quadranti. Non li vide
neppure. Guardava solo il riflesso incerto e lontano alle sue spalle, la
figura da spaventapasseri di Thorn.
«Che non sono più davvero me stessa. Non so quando sia
cominciato, se dipenda dall’aver letto il Libro di Faruk, dall’aver
assorbito parte del vostro potere familiare o dall’aver liberato l’Altro
in occasione del mio primo passaggio di specchio, ma certe volte ho
la sensazione che in me viva una seconda memoria».
In quel momento ricadde nella vecchia abitudine di mordicchiarsi
la cucitura dei guanti, e quello che vide nelle vetrine delle librerie
non le piacque: una piccola donna che in fondo aveva paura, una
mezza donna.
“Una bambina” le suggerì la voce ironica di Mediana.
«Ho letto il manoscritto. Non solo con le mani, anche con gli
occhi. Per un attimo ho capito quel che il portiere aveva scritto, come
se di colpo una parte di me si fosse ricordata come fare».
Allora raccontò a Thorn il frutto della sua lettura, la scuola della
pace, gli addestramenti, la partenza per la città, le luci di L., il
telescopio di A., le sparizioni di J., e soprattutto le ultime parole del
portiere: Non è come gli altri fottuti ragazzini, quello. Devo parlarne al
capo.
«Allora?» domandò poi. «Era questo che i Genealogisti vi hanno
incaricato di trovare?».
«C’è qualcos’altro nel registro che potrebbe esservi sfuggito?».
Fedele a se stesso, Thorn gliel’aveva chiesto in tono metodico.
Sembrava non accorgersi che ogni sua parola rafforzava l’impressione
sgradevole che aveva Ofelia di non aver soddisfatto le sue aspettative.
«La trance non è durata molto, ma penso di aver preso conoscenza
dell’essenziale».
«Potreste ripetere l’esperienza?».
«Non credo. Non ho alcun controllo su queste visioni, serve
qualcosa che le faccia scattare... Ma ci proverò ancora» promise
davanti allo sguardo fisso di Thorn.
Si rese conto che non erano molte le cose che gli avrebbe rifiutato
se lui gliele avesse chieste. Era ironico vedere fino a che punto i ruoli
si fossero invertiti. Le era capitato altre volte di provare quello stato
di instabilità permanente?
Ci fu un cigolio metallico quando Thorn uscì dall’immobilità.
«Non sarà necessario» disse.
Si diresse in fondo alla stanza e aprì una porta: era mimetizzata così
bene nella boiserie della parete che Ofelia non l’aveva mai notata.
Non le aveva chiesto di seguirlo, ma poiché Thorn tardava a tornare
alla fine gli andò dietro.
La porta dava su un alloggio di servizio fatto dello stesso legno e
degli stessi ottoni della sala dell’Ordinatore e altrettanto austero:
armadio, tavolo, lampada e letto. Ofelia notò due alloggiamenti di
fantopneumatico. Uno era uno scarico di rifiuti che permetteva di
evacuare gli scarti fuori dal Secretarium, l’altro conteneva un piatto
pieno di una pappa informe. Gli fantomizzavano il cibo?
Non c’era una piega sulle lenzuola né un granello di polvere sui
mobili né un calzino abbandonato sul parquet, in compenso sugli
scaffali erano allineati miriadi di flaconi farmaceutici, come nella
bottega di uno speziale.
Thorn stava piegato in due su una sedia di fronte alle ante
spalancate dell’armadio, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il
mento sulle mani giunte, concentratissimo sull’interno del mobile.
Ofelia sollevò un sopracciglio notando che aveva spostato di lato le
camicie appese alle stampelle, e sollevò anche l’altro quando vide una
quantità inverosimile di nastri perforati spillati come una collezione
di farfalle. Erano riferimenti di libri generati dall’Ordinatore. Ognuno
di essi era sbarrato da una croce nera.
«Cos’è questa bibliografia nascosta?» domandò.
Al suo avvicinarsi Thorn si alzò di scatto, così bruscamente che per
poco non gli si incastrò il meccanismo della gamba. Forse l’aveva
fatto per permetterle di guardare meglio, ma era più propensa a
credere che stesse attento a mantenere una distanza fra loro.
«I Genealogisti non sanno né titolo né autore dell’opera che mi
hanno chiesto di cercare» rispose. «Arrivato qui ho capito che mi
sarebbe stato statisticamente impossibile individuarlo basandomi sul
vecchio catalogo. Mi serviva una banca dati degna di questo nome.
Più i gruppi di lettura arricchiscono il nuovo catalogo, più le richieste
dell’Ordinatore acquistano precisione e più sono alte le possibilità
che riesca a compiere la missione. Avete sotto gli occhi la selezione
che avevo messo insieme. Come potete vedere» disse indicando un
nastro su cui l’inchiostro della croce non si era ancora asciugato, «il
registro di portineria era il mio ultimo candidato».
Ofelia si passò i nastri fra le dita. Conosceva ormai a memoria il
linguaggio delle perforazioni ed era quindi in grado di decifrare quasi
senza difficoltà i riferimenti che vi figuravano. Eccetto le date di
edizione, tutte piuttosto antiche, c’erano documenti di varia natura:
memorie, saggi, manuali, brevetti e altro.
«Ma è impossibile» sbuffò. «Non potete trovare un libro fra
centinaia di migliaia di altri libri senza la minima direttiva».
«In realtà una ce l’ho».
Per la sorpresa Ofelia strappò un nastro dal fermaglio
danneggiando la trama delle perforazioni. Si affrettò a rimetterlo a
posto, anche se Thorn, che stava aprendo una dopo l’altra le cerniere
dei guanti, non si era accorto di niente.
«Il documento che stanno cercando i Genealogisti non tratta
argomenti qualsiasi. Conterrebbe un’informazione specifica,
un’informazione» disse facendo saltare l’ultima cerniera, «che
permetterebbe a chi la conosce di diventare pari a Dio».
Ofelia lo guardò a lungo senza battere ciglio, senza dire una parola,
senza respirare.
«Inutile dire» continuò, «che non dovete parlarne con nessuno, in
particolare con lady Septima. Crede che le mie ricerche servano
unicamente a mettere insieme il catalogo, ed è bene che continui a
crederlo».
Colta da una vertigine, Ofelia si mise seduta sul letto.
«Che intendete con “diventare pari a Dio”?».
«Lo ignoro, almeno per il momento».
«E voi pensate che un’informazione del genere sia qui al
Memoriale, sotto gli occhi e alla portata di tutti, senza che nessuno lo
sappia?».
Thorn si tolse i guanti e svitò la bottiglia dell’alcol, il cui inebriante
odore farmaceutico si diffuse subito nella stanza.
«Quasi nessuno. Se i Genealogisti ne conoscono l’esistenza significa
che qualcuno gliel’ha detto».
Ofelia aggrottò le sopracciglia. Era quella la verità finale citata da
Ambroise la prima volta che le aveva fatto visitare il Memoriale? Non
aveva individuato nessuna camera blindata nel Secretarium, e non
certo perché non l’avesse cercata, così alla fine aveva deciso che
doveva effettivamente trattarsi di una leggenda.
«I Genealogisti non mi hanno detto altro» concluse Thorn. «Se
voglio saperne di più dovrò prima fare le mie prove».
«E pensavate che un segreto del genere si trovasse nel registro di
portineria?».
Ofelia cominciava a capire meglio perché non avesse fatto i salti di
gioia quando l’aveva messo a parte della sua scoperta. Alla fine gli
aveva detto cose che più o meno sapeva già.
«Ne ero convinto. Voi mi avete fatto ricredere. Dovrò informarne i
Genealogisti».
Su quelle parole Thorn si disinfettò accuratamente le mani sopra
una bacinella. Ogni volta che menzionava i Genealogisti, notò Ofelia,
o che si accingeva a farlo, le sopracciglia gli si contraevano di più
creandogli ombre in mezzo alla faccia. Non dovevano stargli per
niente simpatici.
«Chi vuole diventare pari a Dio?» domandò Ofelia. «Loro... o voi?».
«Non ho intenzione di detronizzare un dio per un altro. Da quando
sono evaso ho un solo obiettivo: trovare il punto debole di quel
codardo che nasconde al mondo il suo vero volto».
Tra le sopracciglia di Thorn le ombre si erano fatte ancora più
dense.
«Dubito che i Genealogisti condividano la vostra visione delle
cose».
Ofelia non sapeva quale prospettiva fosse più terrificante, se un
mondo governato da Dio o un mondo governato da uomini che si
sentono Dio.
«In effetti non la condividono» disse Thorn fra i denti.
Seguì un silenzio durante il quale Ofelia tenne per sé la domanda
egoista che le prudeva sulle labbra. E lei, in tutto ciò? Che posto
aveva lei nella missione che Thorn si era assegnato?
«Il collegiale di cui parla il portiere, quello che considerava diverso
dagli altri spiriti di famiglia!» azzardò Ofelia. «E se fosse lui l’Altro?
Forse era diventato troppo pericoloso, forse è per questo che Dio l’ha
rinchiuso in uno specchio. Qui non ci sono specchi» constatò dopo
essersi guardata in giro.
Thorn fece di no con la testa. Si era rimboccato le maniche della
camicia per strofinarsi gli avambracci con l’alcol, come se avesse
voluto cancellarne le cicatrici.
«Ma voi non lo siete diventato?».
«Diventato cosa?» borbottò Thorn.
«Un attraversaspecchi».
«Il vostro potere mi ha permesso di scappare di prigione, ma non
ne ho fatto un’abitudine. Del resto anche voi dovreste stare lontana
dagli specchi» aggiunse posando la bottiglia dell’alcol.
«Perché? Pensate che esista un altro Altro che potrei liberare per
sbaglio?».
«No. E crederò all’esistenza dell’Altro solo quando lo avrò
incontrato. Fino a quel momento per me sarà Dio l’unico
responsabile dello sfascio in cui versa il nostro mondo. Il problema è
che ha preso il vostro aspetto, quindi ha probabilmente assorbito il
vostro potere familiare, e non sappiamo l’uso che può farne. Per
quando mi riguarda, non mi andrebbe di vedermelo spuntare in
bagno».
Ofelia ci pensò sopra. Attraversare gli specchi esigeva una grande
onestà intellettuale, una qualità che Dio non possedeva di certo,
almeno per quanto aveva visto di lui.
Quel pensiero se ne trascinò dietro un altro.
«La notte in cui è venuto a trovarci in prigione ho notato una cosa
strana. Dio non ha riflesso. Possiede migliaia di facce diverse, ma di
fronte a uno specchio...». Ofelia cercò le parole giuste. «Non lo so, è
come se non esistesse davvero. Forse diventare pari a Dio ha un
prezzo».
Thorn fermò il braccio a mezz’aria sopra la bacinella.
«In effetti è strano».
Poi riprese a frizionarsi con energia. Per quanto Ofelia apprezzasse
il silenzio, quello che calava fra loro a ogni pausa era una vera
tortura. Non capiva. Perché si sentiva più sola in quel momento di
quanto non lo fosse stata negli ultimi tre anni? Perché il suo vuoto
interiore continuava a scavarsi in presenza di Thorn?
«E leggere gli oggetti?» domandò. «L’avete fatto? Se avete bisogno di
consigli...».
«È inutile, non ci sono mai riuscito».
«Forse è colpa della vostra memoria. Il prozio dice sempre che un
buon lettore deve dimenticare se stesso».
«Questo spiega tutto, allora» decretò Thorn. «Non dimentico mai
niente. E comunque si suppone che sir Henry non sia un Animista».
Seguì un nuovo silenzio. Ofelia dovette arrendersi all’evidenza: non
era brava a fare conversazione. Thorn condivideva con lei le
informazioni relative all’indagine, ma appena il discorso andava sul
personale si chiudeva in se stesso.
Quando lo vide prendere la bottiglia dell’alcol pensò che la
tappasse e la mettesse via, invece si disinfettò le mani un’altra volta,
come se davvero fossero infette.
Agli occhi di Ofelia non lo erano. Guardò da lontano l’intreccio
delle vene sulla pelle, le lunghe dita arcuate, le ossa sporgenti dei
polsi, e di colpo sentì come un dolore alla bocca dello stomaco. Non
aveva idea di cosa le stesse succedendo, ma guardare quelle mani le
faceva venire voglia di urlare.
Voltò la testa quando gli occhi di Thorn, fino a quel momento
occupato a disinfettarsi, incontrarono i suoi.
«Vi ho detto tutto quello che so. Ora fareste meglio a tornare alla
vostra compagnia, ogni minuto che passate qui con me è
combustibile per i pettegolezzi. Preferisco sfruttare questo tempo per
esplorare nuove piste».
C’era un che di rigido nella sua voce. Ofelia ebbe la sensazione che
la sua presenza fosse semmai un problema per lui. Alzandosi sbatté
contro il comodino rovesciando la lampada che c’era sopra.
Sbalordita, vide la lampada raddrizzarsi da sola, il comodino tornare
al proprio posto con precisione millimetrica e il lenzuolo del letto
allisciarsi fino a non presentare più la minima piega. Il fatto che sir
Henry non fosse un Animista non impediva al mobilio di riprodurre
le sue manie... Le faceva uno strano effetto constatare che nonostante
la lontananza almeno una piccola parte di sé avesse stinto su Thorn.
Ebbe un pensiero per l’orologio da taschino. Da quando gliel’aveva
reso non l’aveva mai visto usarlo. Se n’era sbarazzato perché
funzionava male? Sperava di no. Perdere la sciarpa era stato già
abbastanza doloroso.
«Che volete che faccia adesso?» domandò indicando i nastri
perforati nell’armadio. «Devo periziare altri documenti fino a trovare
quello che contiene il segreto di Dio? Non ho più molto tempo. Fra
qualche giorno o divento aspirante o restituisco le alette. So che
contate molto sul mio passaggio di grado, ma... diciamo che il futuro
è incerto».
Thorn si rimise i guanti di metallo.
«Vi farò sapere domani, devo rifletterci ancora. Nel frattempo
tenete un basso profilo con lady Septima. Quello che vi ho rivelato
oggi vi espone al pericolo. Non isolatevi, guardatevi le spalle e se
notate qualcosa di inconsueto avvertite prima di tutti me».
Per un attimo Ofelia fu tentata di raccontargli i problemi che aveva
con gli altri membri della divisione.
Poi decise di tacere.
Thorn non la trattava più come una fragile bambina che va tenuta
nascosta nell’ombra, le affidava responsabilità, le parlava da pari a
pari. Ofelia aveva perso tutto il resto, non voleva rinunciare anche a
quello.
«Va bene».
Non le andava per niente di andarsene. Sebbene stare accanto a
Thorn fosse una specie di frustrazione permanente, lasciarlo era
ancora peggio. La irritava dover inventare stratagemmi per vederlo in
privato e cronometrare ogni loro incontro.
Aveva posato la mano sulla maniglia della porta quando una parola
la trattenne.
«Ofelia».
Sentirsi chiamare col suo nome dopo aver portato per mesi quello
di un’altra era così sorprendente che sentì lo stomaco sussultarle.
Thorn stava finalmente per pronunciare le parole che lei aveva tanto
bisogno di sentire?
Thorn si appoggiò con entrambi i pugni al tavolo facendole pesare
addosso il suo sguardo.
«Siete sicura che non avete niente da dirmi?».
Presa alla sprovvista, Ofelia rimase abbarbicata alla maniglia.
Una scintilla brillò allora negli occhi di Thorn.
«Sapete dove trovarmi» disse facendole segno di uscire.
LA REMINISCENZA

Ofelia passò la notte a rigirarsi nel letto tra il russare della camerata
e il ronzio delle zanzare. Non riusciva più a capire Thorn. Che
intendeva dire con quella domanda? Pensava che gli nascondesse
informazioni? Per cercarlo era scappata da Anima, aveva cambiato
identità su un’arca in cui la menzogna era un crimine, pur di non
tradirlo aveva subìto il ricatto di Mediana, era rimasta alla Buona
Famiglia perché gliel’aveva chiesto lui, e mai una volta si era
lamentata.
Non sarebbe stato più giusto che Thorn le dicesse esattamente in
cosa l’aveva tanto deluso?
Morta di caldo, scostò le lenzuola. Avrebbe dovuto essere infuriata
con lui, invece era scontenta di sé. Tre anni prima non era riuscita ad
aiutarlo quando aveva avuto bisogno di lei, e il passato si stava
ripetendo: ancora una volta si sentiva più che mai inutile.
Forse quello che Thorn aspettava da lei erano soltanto parole di
scusa.
Alla fine si addormentò.
Sorvolava il vecchio mondo persa da qualche parte tra passato e
futuro, tra sogno e realtà. Sotto le nuvole vedeva una città in rovina
che portava le cicatrici dei bombardamenti, poi mare a perdita
d’occhio. Più che un mare: un oceano. Era strano pensare che un
giorno tutta quell’acqua sarebbe stata inghiottita dal vuoto.
Concentrandosi riusciva a distinguere le sinuosità sottomarine di una
barriera corallina, e da qualche parte al centro della laguna un
minuscolo ciuffo di vegetazione.
Un’isola al largo delle coste.
«È casa mia, dannazione».
Ofelia notava allora un uomo seduto accanto a lei sul bordo di una
nuvola. Lo riconosceva subito, era il portiere di cui aveva letto il
registro. Il velo del turbante gli nascondeva appena il volto sfigurato.
La bocca sembrava una ferita mal cicatrizzata. Eppure lo capiva
perfettamente quando la guardava da dietro gli occhialini rotondi e le
parlava in una lingua che lei non aveva mai sentito.
«Stai attenta all’altro. Non è come quei fottuti ragazzini, quello lì».
«Quale altro?» chiedeva Ofelia.
Per tutta risposta il portiere si rituffava nella contemplazione della
sua isola torcendo quel che gli restava della bocca.
«Se cerchi E. D., l’altro ti troverà».
Si svegliò di soprassalto. Non era ancora l’alba, ma non aveva più
sonno. Dal letto accanto, sepolta sotto il lenzuolo, Zen la spiava nella
penombra con sguardo preoccupato, come se stesse tenendo d’occhio
una pazza furiosa pronta a saltarle addosso.
Ofelia prese gli occhiali, si infilò divisa e stivali dietro il paravento e
scese di corsa il transcendium. Il tintinnio delle sue alette riempiva il
silenzio del Foyer. Infilò la tessera da apprendista nel tornello del
locale del telegrafo. Era un peccato sprecare punti tanto duramente
guadagnati solo per mandare un messaggio, ma non aveva la
pazienza di aspettare.
«All’attenzione del signor Blasius, Memoriale di Babel, servizio...
ehm... servizio classificazione collezioni» dettò nel cornetto acustico.
«Ho bisogno di vedervi quanto prima per... ehm... per un consiglio. A
proposito dei libri... ehm... di cui mi avete parlato al bazar. Da parte
di Eulalia... ehm... seconda divisione della compagnia dei
precorritori».
Dopo pochi secondi il braccio meccanico dello sportello ruotò su
una base e il dito d’ottone si posò sull’apparecchio telegrafico per
inviare impulsi un po’ brevi e un po’ lunghi. Ofelia si augurò che non
riproducesse tutti i suoi “ehm”.
Come aveva fatto a dimenticare i libri di E. D.? Miss Silence li aveva
distrutti senza autorizzazione subito prima di morire per arresto
cardiaco e a lei non era mai venuto in mente di parlarne a Thorn.
Doveva provvedere al più presto.
Passò il resto della giornata a contare i minuti. Alla Buona Famiglia
il clima si era fatto irrespirabile. Venti torridi facevano tremare i vetri
degli edifici e portavano sabbia fin dentro gli atri. Ogni volta che
Ofelia si avvicinava a una finestra cercava con gli occhi, attraverso il
turbinio di polvere, la piccola arca su cui sorgeva il Memoriale
sperando che quel giorno non annullassero i voli. Il pomeriggio
rimase chiusa con i compagni nel silenzio bollente del laboratorio.
Gli Indovini la tennero fuori da tutte le attività del gruppo e Zen
cambiò posto per non doverle stare accanto. Octavio, che in genere
non le staccava gli occhi di dosso, dopo l’episodio delle toilette
evitava il suo sguardo. Quanto a lady Septima, non la degnò di un
solo commento durante il lavoro pratico: valutava, consigliava e
criticava tutti tranne lei.
L’avevano messa in quarantena. Spontaneamente e all’unanimità.
A pochi giorni dalla cerimonia di consegna dei gradi.
Fu un vero sollievo vedere che col calare del sole calava anche il
vento. Il dirigibile riservato alla compagnia dei precorritori decollò al
crepuscolo in un cielo bollente e sulfureo. Ofelia cercò un sedile in
cui non attirarsi colpetti di tosse di disapprovazione. Per quanto
strano possa sembrare c’erano momenti in cui quasi le mancava
Mediana. Scomparendo, l’Indovina aveva lasciato intorno a sé un
gran vuoto che continuava ad allargarsi.
Si ritrovò in fondo al dirigibile accanto a Elizabeth, che prendeva
tranquillamente appunti sul taccuino e sembrava non accorgersi né
dell’animosità che regnava a bordo né dello sconforto della vicina.
«Come siete riuscita a diventare aspirante virtuosa?».
«Mmm? Grazie a molto caffè».
«Per piacere» sospirò Ofelia. «Ho cominciato l’apprendistato più
tardi degli altri e ho lady Septima alle costole. Mi resta poco tempo
per fare buona impressione. Un consiglio sarebbe il benvenuto».
Elizabeth continuò a far scorrere la matita sulla carta scrivendo una
serie di numeri, lettere e simboli che evidentemente per lei avevano
un senso.
«Rimani neutra» dichiarò poi in tono placido. «Osserva senza
giudicare. Ubbidisci senza discutere. Impara senza prendere
posizione. Interessati senza attaccarti. Fai il tuo dovere senza
aspettarti niente in cambio. È l’unico modo per non soffrire»
concluse cancellando un intero riquadro di annotazioni. «Meno si
soffre, più si è efficienti. Più si è efficienti e meglio si serve la città».
Ofelia osservò le mani di Elizabeth costellate di lentiggini.
Scrivevano, cancellavano e ricominciavano da capo senza
scoraggiarsi.
«Non vi sentite mai sola?».
«Siamo sempre soli».
Ofelia scese dal dirigibile al Memoriale più disincantata di quando
c’era salita.
La seduta di catalografia le parve interminabile. Doveva concludere
la sua quota di lavoro al più presto se voleva ritagliarsi un po’ di
tempo prima dell’appuntamento con Thorn al Secretarium,
sennonché aveva in testa così tante domande che le era difficile
concentrarsi. Perché miss Silence aveva distrutto di nascosto l’opera
completa di E. D.? Aveva qualcosa a che vedere con le ricerche di
Thorn? Perché un autore di vecchi libri per bambini avrebbe dovuto
essere in possesso di un’informazione che permetteva di diventare
“pari a Dio”? Anche quello che era successo a Mediana e al professor
Wolf aveva a che fare con lo stesso segreto?
“Se cerchi E. D., l’altro ti troverà”.
Certo, era solo un sogno, ma Ofelia tendeva a prendere sul serio
tutto ciò che risaliva in superficie dall’inconscio. La memoria che
condivideva con Dio sembrava saperne molto più di lei.
Chi era “l’altro” di cui il portiere aveva così paura? Era lo stesso che
Ofelia aveva liberato dallo specchio? E di nuovo, che rapporto c’era
con E. D.?
Doveva assolutamente parlarne con qualcuno.
Dette un’occhiata oltre la rete del suo box nella speranza di
scorgere Blasius, ma incontrò solo lo sguardo degli Indovini nei box
accanto. Sotto i loro baffetti imbrillantinati aleggiava un sorriso che
la mise a disagio. Quando ebbe finito di catalogare e si alzò, le loro
voci canticchiarono all’unisono:
«Meteo della sera: allarme canicola».
Ofelia li ignorò. Si affrettò a lasciare i suoi libri al bancone dei
Fantasmi e a perforare le schede nel sotterraneo. Quando guardò
l’orologio della statua meccanica dell’atrio che accoglieva i visitatori
con profondi inchini emise un sospiro di sollievo: aveva giusto il
tempo di trovare Blasius.
Fu meno facile del previsto. Di sabato il Memoriale chiudeva
sempre le porte un po’ più tardi, in genere per le mostre temporanee,
ma quella sera c’erano più visitatori del solito. Nel grande atrio alcuni
automi stavano manovrando una gru per montare un gong di
dimensioni gigantesche. Erano preparativi che venivano fatti in vista
della cerimonia di inaugurazione del nuovo catalogo che si sarebbe
svolta lo stesso giorno della consegna dei gradi. Ofelia pestò un
numero considerevole di piedi attraversando i transcendium e le
suspensale. Si voltava ogni volta che avvistava la divisa di un
memorialista, ma non era mai Blasius. Sarebbe stato troppo frustrante
aver battuto inutilmente il proprio record di velocità in catalografia.
Sbucando da una corsia si imbatté nell’ultima persona che stava
cercando, un uomo dai lunghi capelli argentei seduto su un divano di
pelle che indossava una redingote bianca e occhiali rosa.
Lazarus! L’inventore degli automi di servizio, il famoso arca-trotter,
il padre di Ambroise.
Ofelia prese il libro più grosso che era a portata di mano e fece finta
di immergersi nella lettura. Quell’uomo l’aveva conosciuta al Polo,
sapeva chi era... e anche chi non era. Per fortuna Lazarus non l’aveva
vista. Stava conversando animatamente con il vecchio spazzino del
Memoriale che spolverava col piumino gli scaffali dei libri un
centimetro dopo l’altro.
«...Questo è il motivo per cui dobbiamo preparare il futuro, old
friend!» esclamò Lazarus con entusiasmo. «Dovreste abbandonare la
scopa, indegna di voi, e godervi una meritata pensione! Potreste fare
un viaggio. Il mondo al di là di queste mura è absolutely fabulous e,
credetemi, so di cosa parlo!».
Walter, l’inseparabile maggiordomo meccanico, era chino sul
divano per pettinare i lunghi capelli del padrone, e sottolineava ogni
parola annuendo con la testa senza faccia.
L’anziano spazzino rispose con un’alzata di spalle e ricominciò a
spolverare. Ofelia non riusciva a vederne l’espressione sotto il triplo
strato di barba, ma si sentiva esasperata per lui. Non potevano
lasciarlo lavorare lì in santa pace, se gli faceva piacere? Guardò
Lazarus sul divano con le gambe indolentemente accavallate che
agitava il cilindro come un prestigiatore facendo l’elogio del futuro e
della modernità con grandi frasi enfatiche. La prima volta che l’aveva
incontrato l’aveva trovato simpaticissimo. Si rese conto che in quel
momento diffidava di lui, e non solo perché poteva smascherarla. Si
era trovato al Polo quasi contemporaneamente a Dio, e come Dio
aveva manifestato un insistente interesse per il potere familiare di
Madre Ildegarda.
«Psss, miss Eulalia! Di qua!».
Era Blasius, che col suo scarso tempismo era apparso tra gli scaffali
all’altro capo della galleria e le faceva segnali che probabilmente
credeva discreti. Ofelia non poté fare altro che raggiungerlo con la
faccia sempre sprofondata nel libro, sentendo su di sé lo sguardo
incuriosito del vecchio esploratore.
«Non era mister Lazarus quello lì?» le sussurrò Blasius. «Sono mesi
che è tornato a Babel, ma non l’avevo ancora incontrato».
Ofelia aggrottò le sopracciglia. Mesi? Vuoi vedere che Ambroise
aveva cominciato a evitarla da quando era tornato il padre?
«Non sembrate molto felice di vederlo qui» commentò mentre si
allontanavano.
Blasius si era messo a spingere il carrello dei libri col passo pesante
e la schiena curva, come se di colpo stesse spingendo una bara.
«Oh, non mi fraintendete» sospirò. «Ammiro molto mister Lazarus.
E gli sono grato. Un tempo insegnava alla scuola che frequentavo io,
e aveva per me più benevolenza di qualsiasi altro adulto. La mia
goffaggine, la mia iella, le mie... well... le mie inclinazioni, niente di
tutto questo sembrava disturbarlo. Mi trovava interessante. Avevo
quasi l’impressione di essere speciale quando parlavo con lui»
mormorò torcendo le labbra in un debole sorriso. «Detto fra noi,
quelli che non sopporto sono gli automi. Hanno sostituito la quasi
totalità degli addetti alla manutenzione. E se mister Lazarus è qui è
probabile che abbia nuovi modelli da proporre al Memoriale, automi
capaci non soltanto di pulire, ma anche di... mettere a posto i libri e
dare informazioni ai visitatori».
Blasius si sfregò la targhetta di commesso spillata alla divisa con
una tale ansia che Ofelia contrasse le mascelle. No, decisamente
Lazarus non le ispirava più nessuna simpatia.
«Avete ricevuto il mio telegramma?» domandò Ofelia sottovoce.
Blasius sbatté più volte i grandi occhi umidi.
«What? Ah, sì sì, l’ho ricevuto. Vi mentirei se dicessi che la vostra
richiesta non mi ha sorpreso. E anche preoccupato, dopo quello che è
successo a miss Silence... Be’, spero che non stiate andando a ficcarvi
in altri guai. Che volevate sapere?».
Ofelia si guardò in giro per essere sicura che non ci fossero orecchie
indiscrete. A parte le maestose statue che fungevano da colonne alle
scaffalature non c’era nessun altro nella galleria, né a terra né sul
soffitto.
«Potete farmi vedere il punto esatto in cui si trovavano i libri di E.
D. prima che venissero rimossi?».
«Of course! Seguitemi».
Strada facendo il carrello perse una ruota, e quando Blasius si
accovacciò per rimetterla a posto gli si strappò la cucitura dei
pantaloni. Ofelia doveva riconoscere che era proprio sfortunato.
Nella sezione dell’infanzia riconobbe il posto in cui si erano
incontrati per la prima volta, si rivide mentre raccoglieva i libri di E.
D. che lei stessa aveva fatto cadere. E dire che li aveva avuti fra le
mani appena poche ore prima che venissero distrutti...
«Miss Silence mi aveva praticamente accusato di furto» ricordò a
mezza voce. «Voleva perfino perquisirmi la borsa».
Tirandosi giù le falde della giacca per nascondere lo strappo Blasius
indicò col mento l’ultimo scaffale su cui erano allineate rilegature di
tutti i colori.
«La collezione completa di E. D. era lassù. Ed è da lassù che miss
Silence è caduta» aggiunse storcendo il naso con espressione
nauseata. «Mi sembra di sentire ancora l’odore della sua paura».
Ofelia notò un’elegante scala scorrevole. Un cartello indicava I
bambini non possono prendere da soli i libri che si trovano in alto.
«È la scala che ha usato miss Silence?».
«No, questa è nuova» rispose Blasius. «Abbiamo buttato la vecchia
dopo l’incidente. Non presentava anomalie, ma nel dubbio...».
Ofelia ci rimase male. Leggere un oggetto associato a una morte
violenta era una dura prova, ma poteva darsi che fosse l’unico
testimone della scena.
«Avete detto che miss Silence è tornata qui dopo aver distrutto i
libri».
Perplesso, Blasius si grattò i capelli ispidi.
«Indeed, in piena notte. Continuo a non spiegarmi perché. La
mattina, quando l’abbiamo trovata, non c’era niente di particolare».
Ofelia fece scorrere la scala sul binario e salì i pioli per raggiungere
gli scaffali più alti. C’erano solo edizioni recenti di abbecedari.
«Non c’era più niente» lo corresse. «Forse quel che miss Silence era
venuta a cercare era stato già preso da qualcun altro». In quel
momento fu attraversata da un’intuizione. «Il Memoriale conserva
traccia scritta dei libri distrutti dai mastri censori?».
Blasius allungò una mano verso Ofelia per aiutarla a scendere, ma
inciampò contro una sporgenza del parquet e per poco non la fece
cadere.
«Oh sorry! Per rispondere alla vostra domanda: sì, nell’archivio
dell’ufficio censura. Miss Silence deve aver registrato tutto presso di
loro. Peccava forse per eccesso di iniziativa, ma ha sempre rispettato
la procedura».
«Potete portarmici?».
Blasius guardò l’orologio della galleria.
«Posso aprirvi, ma non trattenermi. Ho finito il turno, e i miei
genitori mi hanno eccezionalmente invitato a cena. Non devo farli
aspettare» disse nascondendosi lo strappo sul sedere. «Si vergognano
talmente di me che aspettano solo un pretesto per rinnegarmi».
TRADIMENTO

Ofelia non era ancora mai stata all’ufficio censura. Era situato
nell’altro emisfero del Memoriale, quello interamente ricostruito
dopo la Lacerazione: impossibile camminare in quel luogo senza
pensare al vuoto che si estendeva sotto le tonnellate di pietra. Il posto
era deserto, e sembrava più un locale industriale che un ufficio
amministrativo. Lampadine senza paralume diffondevano una luce
cruda sulle pile di scatole di cartone accatastate fino al soffitto.
All’interno regnava un caldo soffocante.
«È l’inceneritore» spiegò Blasius indicando l’oblò affumicato di una
porta pressurizzata. «Io... ho il divieto categorico di avvicinarmici».
«Sta funzionando in questo momento?» si stupì Ofelia. «Credevo
che nessun documento dovesse essere distrutto finché non è pronto
il nuovo catalogo».
«I libri sì, ma non i rifiuti. Il Memoriale accoglie ogni giorno
centinaia di visitatori, senza contare il personale. Sareste stupita di
vedere la quantità di immondizia che infiliamo là dentro ogni sera,
miss! L’archivio è da questa parte».
Blasius aprì un’altra porta la cui maniglia gli rimase in mano.
L’archivio non era diverso dal resto degli uffici: scatole di cartone
dappertutto. Se il vecchio catalogo rispecchiava quell’organizzazione
Ofelia capiva meglio perché Thorn l’avesse rifatto da zero.
«Vi lascio» disse Blasius. «Non voglio perdere il trenuccello. Posso
stare tranquillo che spegniate le luci e chiudiate la porta quando
avrete finito?».
«Contate su di me».
Anche Ofelia era in ritardo, non aveva tempo da perdere. Si
rimboccò le maniche della redingote, passò in rassegna le etichette
delle scatole e a un certo punto si accorse che Blasius era ancora sulla
porta con un’espressione tormentata sulla faccia.
«Avete considerato l’ipotesi che dietro a tutto ciò ci sia... il Senza
Paura?».
«L’ho considerata, sì».
Il Senza Paura odiava i censori, e miss Silence era morta nel pieno
esercizio delle sue funzioni. Il Senza Paura aveva visto in Mediana
una nemica, e Mediana aveva smesso di essere una precorritrice
dall’oggi al domani. Era un uomo meno inoffensivo di quanto
sembrasse, molto ben informato e terribilmente ambizioso. Ofelia
non si sarebbe stupita che anche lui fosse alla ricerca del libro che
permetteva di diventare pari a Dio.
«Siate prudente, mi raccomando. Cercate di non finire come la
vostra compagna. Please».
La voce di Blasius si era fatta così implorante che Ofelia si
commosse e non seppe che dire. Non sapeva mai che dire in quei
momenti.
«L’osservatorio delle Deviazioni» disse allora Blasius con la
massima serietà. «È lì che l’hanno trasferita. Goodbye, miss».
«Io... Grazie».
Le parole le erano uscite troppo tardi, Blasius se n’era andato.
Ofelia si costrinse a riprendersi. Una cosa per volta: prima le
scatole. Ne trovò una la cui data corrispondeva al decesso di miss
Silence e sfogliò le rubriche che conteneva.
«Eccolo qua» mormorò.
Su una di esse, alla voce “autore” c’era un’intera colonna di E. D.
Scorse i titoli: Viaggio intorno al nuovo mondo, Le avventure dei piccoli
prodigi, Una bella e meravigliosa famiglia e così via. Quei libri
puzzavano di benpensantismo a un miglio di distanza, il che rendeva
ancora più incomprensibile la loro distruzione.
Alla voce “motivo della censura” miss Silence aveva scritto
Vocabolario disapprovato dall’Index e mancanza di pedagogia.
I libri di E. D. non avevano data di pubblicazione, il che era
piuttosto frequente nelle vecchie edizioni, ma stando alla rubrica la
data stimata risaliva al primo secolo dopo la Lacerazione. Era
un’epoca in cui l’umanità era in piena ricostruzione e nel bel mezzo
di un rinnovamento, quando la letteratura cosiddetta ottimista era
molto diffusa.
Interdetta, Ofelia si aggiustò gli occhiali sul naso. Fino a quel
momento non c’era davvero niente di sconvolgente. In fin dei conti
poteva pure essere che la collezione di E. D. fosse una falsa pista. E se
il libro che stava cercando fosse stato in realtà un Libro con la elle
maiuscola? Se Dio fosse stato creato come lui stesso aveva creato gli
spiriti di famiglia? Se fosse esistito un Libro che dava il potere di
riprodurre tutti i poteri?
Ofelia avrebbe potuto saperlo leggendo la rubrica con le mani e
penetrando lo stato mentale di miss Silence, ma per farlo le serviva il
consenso dell’ufficio censura. L’ultima volta che si era servita del
proprio potere senza permesso aveva violato la vita privata del
professor Wolf, una deviazione dalle regole che ancora le pesava sulla
coscienza.
A un certo punto si accorse di un’anomalia. Tutti i libri che
figuravano nella lista delle opere di E. D. erano contrassegnati dal
timbro “distrutto”.
Tutti tranne uno, L’era dei miracoli.
Un esemplare era dunque sfuggito all’incenerimento? Ecco allora
cos’era venuta a cercare miss Silence a notte fonda! Ma al suo posto
aveva trovato la morte. E il libro che fine aveva fatto?
«Ci sarà una volta, fra non molto tempo, un mondo che vivrà
finalmente in pace».
Aveva appena pronunciato la frase che si domandò perché l’avesse
detta. Erano le stesse parole che le erano venute in mente quando
aveva letto la statua del soldato senza testa. Aveva l’impressione di
averle già viste da qualche parte, di averle imparate a memoria e poi
dimenticate.
Di colpo sollevò lo sguardo dalla rubrica.
Intorno a sé vide soltanto scatole di cartone, eppure per un attimo
aveva percepito un movimento con l’angolo dell’occhio, come
un’ombra che le si chinasse sulla spalla. Allora si rese conto di essere
madida di sudore, e non solo per il caldo dell’ambiente. Il cuore le
batteva a tutta velocità. Gli occhiali le erano diventati blu.
Aveva la sensazione di essersi svegliata da un incubo che neanche
ricordava.
Vedendo l’orologio della stanza scattò in piedi. Era molto più tardi
di quel che credeva! Probabilmente tutti si stavano domandando
dove fosse finita, a cominciare da Thorn. Rimise a posto la scatola in
tutta fretta e spense la luce, ma al momento di chiudere il locale ebbe
uno sguardo incerto per la porta dell’inceneritore. L’oblò era rosso
come la piastra di un fornello. Là miss Silence aveva distrutto i libri di
E. D. tranne uno. E se L’era dei miracoli fosse accidentalmente rimasto
all’interno?
Una potente onda di calore assalì Ofelia appena dischiuse la porta
pressurizzata. Quasi tutta la stanza era occupata da un forno.
Emanava una tale temperatura che il solo fatto di stargli nei pressi le
dava l’impressione di carbonizzarsi. Avrebbe dovuto indossare una
tuta di protezione prima di entrare lì dentro, ma non aveva più il
tempo di cercarne una. Dette una rapida occhiata a ogni angolo della
stanza, sotto i cassoni dei rifiuti, dietro il deposito di carbone, in tutti
i posti in cui un libro avrebbe potuto scivolare e passare inosservato.
Niente.
L’unica cosa che trovò, quando decise che faceva troppo caldo per
trattenersi un secondo di più, fu la porta chiusa. Dall’altra parte
dell’oblò gli Indovini si stavano allontanando di corsa.
Ofelia si accanì sulla maniglia, così bollente che le scottò le dita
nonostante i guanti. Inutilmente. Avevano tirato il chiavistello di
sicurezza.
“Meteo della sera: allarme canicola”.
Gli Indovini sapevano! Avevano previsto quel momento fin
dall’inizio, e come sempre si erano fatti attori delle proprie profezie.
Per quanto colpisse la porta e chiamasse aiuto non arrivò nessuno, e
naturalmente non poteva contare sul suo animismo per aprire il
catenaccio.
Il calore del forno era insopportabile. Cercò invano un’altra uscita.
Era in trappola. Rivoli di sudore le colavano sul mento. I piedi le
bollivano negli stivali. Incollò la faccia alla griglia murale di
ventilazione. Non poteva scappare da lì, ci passava a stento un
braccio, ma era il punto meno surriscaldato della stanza. Il tempo
scorreva, e con lui tutta l’acqua che Ofelia aveva in corpo.
Non riusciva a crederci. Gli Indovini si rendevano conto di averla
messa in serio pericolo? Oltre a loro, solo Blasius sapeva dove si
trovava, e il suo trenuccello era decollato da un pezzo.
Ofelia si tirò il colletto. Il panico, più ancora del caldo, le faceva
mancare l’aria.
Si asciugò il sudore che le bruciava gli occhi: un’ombra si era
avvicinata all’oblò della porta. Uno scatto. La maniglia girò e l’aria si
infilò nella stanza.
Ofelia si precipitò fuori e tossì tanto da sentire male ai polmoni. La
testa le girava talmente che dovette appoggiarsi al muro. Avrebbe
pianto di sollievo se le fosse rimasta dentro abbastanza acqua per
farlo.
Chi le aveva aperto? Gli Indovini? Ovunque Ofelia guardasse
rimaneva l’unica persona presente nell’ufficio censura.
Barcollò fino alle toilette più vicine. Si fece forza per non bere
l’acqua del rubinetto, che non era potabile, ma si passò un fazzoletto
bagnato sulla pelle del viso e del collo. Era rossa come se avesse preso
un colpo di sole.
Doveva vedere Thorn al più presto. Era indispensabile che fosse
informato della sparizione dell’unico libro di E. D. a non essere stato
distrutto da miss Silence. C’era la possibilità che gli stesse sfuggendo
l’oggetto principale delle sue ricerche.
Era appena uscita dai bagni che vi ritornò a svuotarvi il contenuto
del suo stomaco. China sul gabinetto, scossa dai brividi, pensò
seriamente di denunciare gli Indovini. L’avrebbe fatto senza
esitazioni se dopo non fosse stata costretta a spiegare cosa stava
facendo all’ufficio censura. Doveva evitare di attirare l’attenzione di
lady Septima e dei Lord di LUX sulle indagini che stava conducendo.
Non incontrò più nessuno nelle gallerie, a parte qualche automa
che lavava le vetrine. Il Memoriale aveva chiuso le porte, i visitatori e
la maggior parte del personale se n’erano andati. Si recò al box di
lettura per cercare lady Septima, sperando che quest’ultima
acconsentisse ad aprirle l’accesso al Secretarium nonostante il ritardo.
Gli Indovini erano seduti al loro tavolo diligentemente chini sui
libri, come se fossero sempre rimasti lì. Accennarono un sorriso
ironico vedendo il suo sguardo furioso. Ce n’era tuttavia uno che
ebbe la decenza di incassare la testa nelle spalle, visibilmente a
disagio. Ofelia si domandò se non fosse stato lui, colto dai rimorsi, ad
aprirle la porta.
Si stupì notando che nel box di Octavio il tavolo dei Figli di Polluce
era vuoto.
«Well well well!» fece lady Septima vedendola. «Ecco la nostra
scomparsa. È un’ora che vi stiamo cercando, apprendista, e nessuno
dei vostri compagni è stato in grado di dirci dove foste finita. Come
vi giustificate?».
«Mi sono sentita male».
Il che non era una bugia. La voce rauca, le guance paonazze e i
capelli bagnati di sudore testimoniavano a suo favore.
«Ma guarda. E non avete ritenuto opportuno informarci? Sir Henry
aveva bisogno delle vostre mani per una nuova perizia. Avete fatto
fare tardi a tutti».
Lady Septima parlava in tono di disappunto, ma il suo era uno
scontento di facciata. Gli occhi le brillavano dalla soddisfazione di
poter restituire all’allieva l’umiliazione da lei subita il giorno prima in
quanto docente. Ofelia fu subito sicura che sapesse benissimo quel
che le avevano fatto passare gli Indovini. Forse ne era addirittura la
mandante.
«Recupererò» promise. «Potete aprirmi l’accesso al Secretarium?».
«È inutile, apprendista. Sir Henry ha trovato un sostituto».
L’effetto che quelle parole produssero su Ofelia fu più brutale del
calore dell’inceneritore. Ecco perché il box di Octavio era vuoto!
«Se davvero volete recuperare seguite l’esempio dei vostri
compagni» le raccomandò lady Septima indicando il tavolo dei
Figliocci di Helena. «Le ore supplementari che farete in catalografia
attenueranno forse la pessima impressione di ciò che non avete fatto
altrove. Che peccato, a così pochi giorni dalla consegna dei gradi...».
Ofelia andò a sedersi nel box, ma non prese niente da leggere né
materiale per scrivere. Si limitò a fissare con durezza il globo del
Secretarium la cui crosta terrestre in oro rosso rifletteva le lampade
delle gallerie che gli si avvolgevano intorno come anelli planetari.
Dato che i box si trovavano sul soffitto Ofelia lo vedeva al contrario,
in compenso aveva una vista perfetta sulla porta blindata.
Thorn l’aveva sostituita.
«Mademoiselle sta per piangere?» sussurrò un Indovino al di là della
rete. «Mademoiselle vuole un fazzoletto?».
Ofelia lo fece tacere con un’occhiata. Ribolliva di collera.
Thorn l’aveva sostituita per colpa loro.
Lasciò il box appena la passerella si allungò verso la porta del
Secretarium. Lady Septima si era piazzata al bancone della posta
pneumatica: se la sorprendeva ad abbandonare il proprio posto senza
permesso l’espulsione era assicurata.
«Chiedo l’autorizzazione di andare in bagno».
«Ancora?».
Lady Septima non aveva nemmeno sollevato gli occhi dal taccuino
su cui stava prendendo appunti.
«Sto davvero male. Non vorrei vomitare sul materiale del
Memoriale».
Non aveva bisogno di fingere, aveva davvero la nausea.
«Vi do cinque minuti» decretò lady Septima senza smettere di
scrivere. «E la cosa sarà riportata nel vostro dossier. Un virtuoso deve
avere la completa padronanza del proprio organismo».
Ofelia era già lontana. Si diresse verso le toilette, ma appena fuori
di vista cambiò strada, percorse un’infilata di corridoi e arrivò al
transcendium settentrionale proprio nel momento in cui Octavio si
accingeva a richiamare la passerella girando la chiave nella
colonnina.
«Devo andare al Secretarium» disse senza fiato. «Solo un minuto,
per piacere».
Octavio aggrottò le folte sopracciglia nere. In quel momento la
somiglianza con la madre fu più forte che mai.
«Perché?».
Ofelia era travolta dall’impazienza.
«Devo vedere sir Henry. Una cosa confidenziale».
«Non lo trovi più al Secretarium. È uscito adesso. Va in città, un
dirigibile lo sta aspettando».
Ofelia pensò che decisamente non era la sua serata. Niente andava
come previsto. Scese il transcendium il più velocemente possibile.
Thorn stava varcando le porte dell’atrio a grandi falcate. Per essere un
invalido aveva un bel passo. La differenza di temperatura tra la
frescura del Memoriale e la notte fuori fece a Ofelia l’effetto di entrare
nell’acqua calda.
Riuscì a raggiungere Thorn nel momento in cui passava davanti
alla statua del soldato senza testa. La sagoma di un dirigibile stava
manovrando per avvicinarsi all’imbarcadero, lo scafo luccicava alla
luna.
«Aspettate...».
Sentendo Ofelia, Thorn si voltò. Era la prima volta che lo vedeva
con l’uniforme ufficiale dei Lord di LUX. Nell’alone dei lampioni le
dorature assumevano riflessi argentati.
«Vado di fretta. Sono stato convocato dai Genealogisti».
«Sarò breve: perché mi avete fatto una cosa del genere?».
«Non dimenticate con chi state parlando».
L’avvertimento non poteva essere più chiaro. In quel momento
Thorn era sir Henry e, anche se intorno a loro c’erano solo mimose, si
trovavano in un luogo pubblico. Ofelia non se ne curava. Non
riusciva più a contenere il ribollire di emozioni che la consumava
dall’interno.
«Perché?» insisté. «Volete punirmi?».
«Voi non eravate disponibile. Aspettarvi avrebbe rallentato le mie
ricerche».
Thorn si era raddrizzato in tutta la sua altezza e guardava dritto
davanti a sé. Il distacco con cui esponeva le sue ragioni decuplicò la
rabbia di Ofelia.
«Rallentato? Tanto perché lo sappiate, stavo facendo anch’io delle
ricerche. Vi interesserà sapere...».
«Appunto, qui sta il problema» la interruppe lui. «Vi avevo
raccomandato di non lasciare mai la divisione e avvertirmi se c’erano
novità. Non è cambiato niente, state continuando a prendere
decisioni da sola».
«Volevo aiutarvi» sibilò Ofelia tra i denti.
Thorn alzò la testa verso il dirigibile, ormai così vicino all’arca che
le eliche facevano fremere le mimose circostanti.
«Non so che farmene dei vostri buoni sentimenti. Ho bisogno di
efficienza. E ora, se permettete, ho un volo da prendere».
Il sangue di Ofelia prese fuoco nelle vene.
«Siete un egoista».
Voleva far arrabbiare Thorn, e dal modo in cui lui si impietrì sul
posto capì di esserci riuscita. Tutte le ombre della notte sembravano
improvvisamente essersi radunate sulla sua faccia. Dardeggiò su
Ofelia uno sguardo di durezza tale da farla vacillare.
«Sarò esigente, guastafeste, maniaco, asociale e storpio» elencò con
voce terribile. «Potete attribuirmi tutti i difetti del mondo, ma non vi
autorizzo a darmi dell’egoista. Se preferite fare le cose a modo vostro,
fatele» concluse fendendo l’aria con il taglio della mano, «ma senza
farmi sprecare tempo».
Le voltò le spalle per andare al dirigibile.
«La nostra collaborazione finisce qui».
Ofelia sapeva che un’iniziativa da parte sua avrebbe solo aggravato
la sua posizione, tuttavia non riuscì a impedire alla mano di slanciarsi
verso Thorn per trattenerlo, obbligarlo a fare dietrofront, impedirgli
di allontanarsi di più.
Non lo raggiunse mai.
Un dolore folgorante le attraversò il braccio come una scarica
elettrica. Col respiro mozzo, dovette appoggiarsi alla statua del
soldato per non cadere. Sgranò gli occhi dietro gli occhiali scomposti
mentre Thorn si faceva inghiottire dalla notte con un sinistro cigolio
d’acciaio senza voltarsi indietro.
Aveva usato gli artigli contro di lei.
OMBRE

La matita volava sul foglio bianco disegnando grandi mulinelli


scuri, poi schizzava all’altro capo del foglio, certe volte bucandolo
con la mina, e ricominciava a fare mulinelli. Vittoria, la faccia
incorniciata dai lunghi capelli chiarissimi, fermò la matita per
osservare il risultato.
C’era sempre più nero e sempre meno bianco nei suoi disegni.
«Non vuoi usare i colori, cara?».
Vittoria alzò la testa. Mamma aveva sollevato la tovaglia di pizzo
per guardarla disegnare sotto il tavolo del salotto. Con un sorriso le
porse tutte le matite che da settimane snobbava.
Vittoria prese un altro foglio, lo posò sul parquet e, come gli altri, si
mise a ricoprirlo di grandi mulinelli neri.
Mamma non la sgridò. Non la sgridava mai. Si limitò a posare le
matite colorate accanto a lei, sul pavimento. Con gesto delicato le
sfiorò una guancia per riportarle indietro i capelli, poi rimise a posto
la tovaglia di pizzo.
L’unica cosa che Vittoria vedeva di Mamma erano gli stivaletti di
raso verde. Avrebbe voluto mettere nei suoi disegni il verde degli
stivaletti di Mamma, avrebbe voluto metterci anche l’azzurro degli
occhi, il rosa della pelle e il biondo dei capelli.
Ma non poteva. Le ombre della Dama d’Oro erano più forti di tutti
i colori di Mamma.
Da quando Vittoria aveva visto quello che aveva visto, e anche se
non capiva esattamente cosa avesse visto, niente era più come prima.
Dormiva solo per svegliarsi di soprassalto. Aveva perso l’appetito. Le
venivano febbri che la inchiodavano al letto per giorni, e quando
stava meglio preferiva giocare sotto i mobili anziché sui cuscini.
E non viaggiava più.
Appena cominciava a sentirsi al sicuro rispuntava a casa la Dama
d’Oro. Mamma le apriva la porta, le offriva il tè, chiacchieravano e
ridevano. La Dama d’Oro non si tratteneva mai molto e non si
interessava più a Vittoria, ma ogni sua visita era sufficiente a far
aumentare le ombre nei disegni.
Gli stivaletti di Mamma risuonarono sul parquet dall’altra parte
della tovaglia. Si allontanarono, tornarono verso il tavolo, esitarono
un attimo prima di allontanarsi di nuovo.
«Per tutti i tacchi, calmatevi!» fece la voce esasperata di Grande
Madrina all’altro capo del salotto.
Gli stivaletti di Mamma si fermarono davanti al camino in cui
ardeva un fuoco di legna.
«Sono una pessima madre».
A causa del crepitio delle fiamme Vittoria aveva a stento sentito il
mormorio di Mamma. La punta nera della matita divorava la carta
centimetro dopo centimetro.
«Siete solo una madre troppo preoccupata».
«Esatto, signora Roseline. Tutto mi spaventa sempre, i gradini delle
scale, gli spigoli dei tavoli, gli aghi da cucito, i colletti troppo stretti, i
bocconi di cibo: vedo il pericolo dappertutto. Se le succedesse
qualcosa... Ho così paura di perdere anche lei!».
La debole voce di Mamma si strozzò sulle ultime parole. Vittoria
sollevò un attimo gli occhi per vedere le scarpe lucide di Grande
Madrina camminare sul parquet fino agli stivaletti di raso verde.
«La bambina sta bene, Berenilde».
«No, non sta bene. Non sorride più, mangia appena, è tormentata
dai brutti sogni. È colpa mia, capite? So bene quello che dicono lassù
a corte. Ne parlano come di una ritardata». La voce di Mamma si era
fatta ancora più flebile. «In verità è il contrario, è estremamente
sensibile, prova quel che provo io, quindi la contagio con le mie
angosce. Sono una pessima madre, Roseline».
«Guardatemi».
Seguì un lungo silenzio in salotto, poi gli stivaletti di Mamma si
voltarono uno dopo l’altro verso le scarpe di Grande Madrina.
«Per dedicarvi a vostra figlia avete rinunciato a tutte le birichinate
della vostra vecchia vita. Siete una brava madre, ma da sola non
potete costituire una famiglia. Anche lui deve fare la sua parte».
«Ho sempre pensato che in fondo anche lui... Insomma, speravo
che per sua figlia...».
«Verrà. Verrà perché gliel’avete chiesto e perché oggi il suo posto è
qui con voi, e non con tutti quei ministri. E se non viene, affé mia,
andrò a prenderlo io stessa!».
Vittoria strinse con forza la matita nel pugno. Verrà? Stavano
parlando di Padrino? Se c’era una persona al mondo capace di far
scappare tutte le ombre era lui!
La campana della casa risuonò, e con essa il cuore di Vittoria.
«Ecco, vedete?» disse Grande Madrina.
Da sotto la tovaglia di pizzo Vittoria vide le due paia di scarpe
lasciare precipitosamente il salotto. Qualche secondo dopo le
giunsero frammenti di conversazione dal padiglione della musica.
«L’agenda del nostro signore è sovraccarica... indetta una riunione
plenaria al quarantasettesimo piano... che è, ve lo ricordo, ancora in
attesa di ratifica...».
La voce che copriva quella sommessa di Mamma non era la voce di
Padrino.
Per il tempo di un tic-tac dell’orologio del salotto Vittoria fu
tentata di viaggiare per andare a vedere di persona che succedeva, ma
rinunciò subito: viaggiare voleva dire vedere cose che non bisognava
vedere.
Nel padiglione della musica la conversazione si interruppe di colpo.
Vittoria, con la matita nera bloccata in mezzo al disegno, tese
l’orecchio. A un certo punto la tavola di parquet su cui era seduta si
mosse come un’onda. Ci fu un potente scricchiolio del legno subito
seguito da un altro.
Qualcuno stava camminando nella stanza.
Vittoria capì chi fosse anche prima di vedere, al di là della tovaglia
di pizzo, i due grandi stivali bianchi che attraversavano il salotto
lentamente, molto lentamente.
Era Padre.
Vittoria sperò con tutte le sue forze che non l’avrebbe notata sotto
il tavolo, ma Mamma la tirò fuori dal nascondiglio, la mise su una
poltroncina accanto alla porta, la pettinò, le allisciò il vestito, le
rivolse un sorriso commosso e tornò in corridoio dove un uomo stava
ripetendo: «L’agenda del nostro signore è sovraccarica!». Se Vittoria
avesse potuto parlare avrebbe urlato che non la lasciassero sola con
Padre.
Lui si diresse lentamente, molto lentamente, verso l’altro capo del
salotto, il più lontano possibile dalla poltroncina di Vittoria. Era così
alto che sbatté sul lampadario di cristallo, ma la scena non aveva
niente di buffo. Quando si avvicinò a una finestra il debole chiarore
rese il suo profilo inespressivo, e treccia e pelliccia ancora più bianche
di quanto non fossero già.
Padre somigliava alle belle statue del parco che stava guardando,
aveva gli stessi occhi vuoti, occhi che davano a Vittoria l’impressione
di non esistere.
«Quanti anni avete, adesso?».
La bocca di Padre produceva un suono ancora più basso dei primi
tasti del clavicembalo di casa, che una volta Vittoria aveva colpito
con entrambe le mani.
«Quanti anni avete?» ripeté.
Vittoria capiva la domanda, ma rispondere era un’altra faccenda.
Padre non le voleva bene, e avrebbe finito per volergliene ancora
meno. Mamma era rimasta in corridoio per dire al signor Agenda di
avere pazienza.
Allora Padre prese un taccuino dalla grossa pelliccia bianca e ne
sfogliò le pagine una per una.
«Ah già, non parlate» dichiarò dopo un silenzio interminabile.
E si immerse nella lettura del taccuino per molti tic-tac d’orologio.
Forse si era completamente dimenticato di lei.
«Vostra madre mi ha scritto qui» disse posando il dito su una
pagina, «che la vostra salute la preoccupa. A me non sembrate così
malandata».
Il corpo maestoso di Padre non si mosse, rimase di fronte alla
finestra, ma la testa girò come una vite, come se il collo fosse in grado
di ruotare interamente su se stesso.
Nel momento in cui posò i suoi occhi inespressivi su di lei, Vittoria
sentì un grande mal di testa.
«A parte, naturalmente, che non sapete parlare né camminare».
Più Padre la guardava e più Vittoria stava male. La puniva, e se la
puniva significava che aveva fatto qualcosa di sbagliato. Aveva paura,
paura che non le avrebbe mai voluto bene.
Sentì una lacrima scenderle sulla guancia, ma non osò asciugarsela.
Padre sgranò gli occhi prima di riportarli sulla finestra. Il dolore
cessò subito.
«Non l’ho fatto apposta. Il mio potere... Forse non siete ancora
pronta a sostenerlo. Quest’incontro è prematuro».
Vittoria non capiva cosa Padre stesse cercando di spiegarle. Non
capiva nemmeno se si stesse rivolgendo a lei. Usava sempre parole
troppo complicate.
«Non vi imporrò oltre la mia presenza».
Nello stesso istante la campana della casa suonò di nuovo. Si
sentirono rumore di passi e mormorii soffocati. Prigioniera della
poltroncina, Vittoria rimase in attesa con Padre. Sudava talmente che
il vestito le si era incollato al corpo.
Si bloccò quando un profumo penetrante le fece pizzicare il naso.
«Mio signore! Stavo facendo una piccola visita di cortesia alle mie
care amiche, non immaginavo di trovarvi qui. Ma ci tengo a porgervi
i miei rispetti».
Vittoria fu scossa da tremiti. La Dama d’Oro era proprio dietro di
lei. I pendenti del suo velo tintinnavano sempre più forte man mano
che veniva avanti in salotto.
«Voi siete?».
Padre aveva fatto la domanda senza neanche guardarla. Sembrava
molto più interessato dalla confettiera posata sul davanzale della
finestra.
«Madama Cunegonda, mio signore, una delle vostre migliori
illusioniste».
L’arrivo di Mamma in salotto non riuscì a calmare Vittoria. Era
terrorizzata. La Dama d’Oro aveva posato una mano sulla
poltroncina. Le sue unghie si infilavano nel velluto come lunghi
coltelli rossi.
«Scusatevi... Cioè, sono io che mi scuso. Non volevo disturbare la
vostra riunione familiare».
La Dama d’Oro accarezzò i capelli bianchi di Vittoria. Era la stessa
mano con cui aveva chiuso le palpebre dell’Altra Dama d’Oro. Le
stava così vicino che Vittoria era interamente immersa nella sua
ombra.
Nelle sue ombre.
Vittoria corse a nascondersi sotto il tavolo. Presa dal panico, aveva
viaggiato abbandonando sulla poltroncina l’Altra Vittoria e il vestitino
intriso di sudore. Da sotto la tovaglia continuava a vedere il velo
brillante della Dama d’Oro accanto agli stivaletti di raso verde di
Mamma e alle scarpe di vernice di Grande Madrina. I battiti del cuore
dell’Altra Vittoria si erano fatti lontani quanto le conversazioni dei
grandi, ma la paura continuava a urlare dentro di lei con tutta la
forza del silenzio.
Un nuovo paio di scarpe entrò in salotto. Anche se distorta
dall’effetto del viaggio, Vittoria riconobbe la voce del signor Agenda.
«Mi profondo in scuse per la premura che vi sto mettendo, sire, ma
siete atteso alla riunione. La verità è che l’agenda del nostro signore è
sovraccarica!».
Vittoria sentì il parquet crepitare come un ciocco. I grandi stivali
bianchi di Padre si diressero lentamente, molto lentamente, verso il
tavolo. Spaventatissima, Vittoria sentì il parquet scricchiolare ancora
di più quando Padre si chinò in avanti.
Con la punta delle dita, dita immense, sollevò la tovaglia di pizzo.
«Oh, sono solo disegni» disse Mamma. «La piccola si mette spesso a
giocare lì sotto. Vero, cara?».
Gli occhi di Padre, pallidi come porcellana, non stavano
osservando né l’Altra Vittoria sulla poltroncina né i disegni sul
pavimento, ma solo la vera Vittoria che si era nascosta sotto il tavolo.
Padre la vedeva?
«Sire» mormorò il signor Agenda tossicchiando impaziente. «La
vostra riunione...».
«Andatevene».
Padre aveva appena mosso le labbra. Era sempre chino in avanti e
reggeva la tovaglia con due dita. La lunga treccia gli arrivava al
pavimento come una colata di latte.
«Subito».
«Qualcosa vi ha contrariato, mio signore?» si preoccupò Mamma.
Acquattata sotto il tavolo, Vittoria osservò Padre stupefatta. Aveva
sempre pensato che non le volesse bene, però non l’aveva mai
guardata nel modo in cui in quel momento stava guardando la Dama
d’Oro.
Grazie agli occhi del viaggio Vittoria poteva vedere l’ombra di
Padre, un’ombra ancora più grande e irta di artigli di quella di
Mamma quand’era arrabbiata, un’ombra che sfoderava tutte le sue
punte in direzione della Dama d’Oro.
«Non so chi siate» disse Padre articolando ogni parola, «ma non
mettete mai più piede in questa casa».
Dato che stava ancora tenendo la tovaglia sollevata, Vittoria poté
vedere le facce stupite di Mamma, Grande Madrina e del signor
Agenda voltarsi verso la Dama d’Oro. Quest’ultima, pur con le labbra
rosse allargate in un sorriso, aveva smesso di accarezzare i capelli
dell’Altra Vittoria. Le ombre le brulicavano sotto i piedi come una
pazza folla furiosa. Erano così tante! Avrebbero attaccato Padre?
«Come desideriamo. Anzi, come desiderate».
In un concerto di gioielli la Dama d’Oro uscì dal salotto e le ombre
se ne andarono con lei.
Vittoria non ascoltò le esclamazioni che fioccarono nella stanza
dopo che la Dama d’Oro se ne fu andata. Aveva ripreso il posto
dell’Altra Vittoria sulla poltroncina, e non aveva occhi che per Padre.
Con gesti lenti, molto lenti, lui raccolse disegni e matite sotto il
tavolo e li ridette a lei senza curarsi delle domande che gli facevano
Mamma, Grande Madrina e il signor Agenda.
Vittoria guardò le ombre che aveva scarabocchiato poco prima.
Voltò il foglio. Dall’altra parte era tutto bianco.
Bianco come Padre.
LA POLVERE

In vita sua a Ofelia era capitato di passare per varie sale d’attesa, ma
mai ne aveva vista una come quella. In mezzo al tappeto cresceva un
eucalipto, e sugli schienali delle panche cinguettavano pappagallini.
L’osservatorio delle Deviazioni era un luogo decisamente
sorprendente.
Quando Blasius gliel’aveva menzionato, Ofelia si era immaginata
un ospedale lugubre, invece si ritrovava in un istituto brioso in cui la
giungla era parte integrante dell’architettura. Pagode, ponti, serre e
terrazze formavano un insieme così tentacolare che l’osservatorio
occupava da solo un’intera arca minore. Quali che fossero le
“deviazioni” sotto osservazione, i responsabili di quel luogo
disponevano di larghi mezzi.
Non dovette attendere molto. Si era appena seduta quando
un’adolescente le andò incontro. Indossava un sari di seta gialla,
occhialini pince-nez scuri e lunghi guanti di pelle, e aveva una
scimmia meccanica sulla spalla. Ofelia non l’avrebbe mai considerata
un membro del personale se non le avesse fatto cenno di seguirla.
«Benvenuta nel nostro istituto, miss Eulalia! La paziente è stata
condotta nella veranda dei visitatori, permettetemi di
accompagnarvi. Siete la prima persona che viene a trovare la povera
miss Mediana» mormorò l’adolescente lasciando la sala d’attesa.
«Ho approfittato della domenica».
«Purtroppo non possiamo concedervi più di cinque minuti con lei.
Sono sicura che le farà bene vedere il volto di un’amica».
Ofelia evitò di contraddirla.
«Ve l’ha affidata lady Septima?».
«Sì, facendosi carico di tutte le spese. Una santa donna, lady
Septima! Sia sempre lode ai Lord di LUX!».
La giovane babeliana si esprimeva con autentico fervore religioso.
Ogni sorriso era un raggio di luce sul nero della sua pelle.
Mentre la seguiva in un corridoio Ofelia pensò che la invidiava.
Quanto a se stessa, aveva la sensazione che non avrebbe più sorriso.
“La nostra collaborazione finisce qui”.
Scacciò le parole di Thorn. Non doveva pensare. Solo agire.
«Di cosa soffre esattamente Mediana? Mi hanno parlato di un ictus,
ma non ho capito bene».
Il sorriso dell’adolescente si allargò e gli occhi le luccicarono dietro
le lenti scure del pince-nez.
«Sorry, miss, non sono autorizzata a rispondere alla domanda».
«Ma il vostro osservatorio è specializzato in casi come il suo?».
«Sorry, miss, neanche a questa domanda sono autorizzata a
rispondere».
La scimmia meccanica sulla sua spalla si attivò per porgerle un
taccuino.
«Toh, vedo che abbiamo già un fascicolo a vostro nome».
«A mio nome? Dev’esserci un errore» si stupì Ofelia.
L’adolescente si mise a ridere senza smettere di sfogliare il taccuino.
«Noi non facciamo mai errori, miss Eulalia, siamo molto ben
informati. All’osservatorio abbiamo i nostri precorritori» disse con
un’occhiata d’intesa alle alette degli stivali di Ofelia. «Quanto al
vostro fascicolo, entrando al conservatorio della Buona Famiglia vi
siete sottoposta a una vista medica, i risultati dei test ci sono stati
comunicati e, a quanto leggo, hanno aspetti... interessanti. Avete
cinque minuti» le ricordò l’adolescente aprendole una porta a vetri.
«Io rimango in corridoio, nel caso abbiate bisogno di me».
Ofelia rimase basita. Test medici il giorno dell’ammissione? L’unica
cosa che ricordava era di aver fatto movimenti senza capo né coda e
quindici giri di pista dopo i quali per poco non era stramazzata. Non
capiva davvero che interesse potessero avere per qualcuno.
Smise di pensarci entrando nella veranda dei visitatori. Immense
vetrate trasformavano la luce del sole in arcobaleno. I colori
rimbalzavano sul pavimento, si mischiavano al fogliame delle palme
e attraversavano l’acqua delle vasche dei pesci. La serenità dei luoghi
portava quasi a dimenticare il vento esterno che faceva tremare i vetri
nei telai.
Mediana era seduta su una panchina. Stava rannicchiata con le
gambe ripiegate contro il corpo e gli occhi spalancati. Non ebbe
reazioni al suono familiare delle alette da precorritore quando Ofelia
si avvicinò e si mise seduta accanto a lei.
«Ciao».
Mediana non rispose. In un primo momento Ofelia pensò che
osservasse la vetrata di fronte alla panchina, poi notò che gli occhi
erano fermi nelle orbite. Ciò che Mediana stava guardando si trovava
all’interno di se stessa. Era irriconoscibile col pigiama troppo largo
che indossava. I muscoli si erano dissolti, lasciandola pelle e ossa.
Dov’era finita la sua potenza? Dov’erano finite la sua grazia e la sua
superbia? La luce della vetrata le faceva scintillare le pietre preziose
incastonate nel viso. Tanti colori su quel corpo senz’anima erano
quasi sconvenienti.
Ofelia, a disagio, cercò le parole giuste.
«Ti starai chiedendo perché sono qui. La tua partenza dalla Buona
Famiglia è stata così precipitosa... Ti sei lasciata alle spalle molte
domande».
Mediana seguitava a non rispondere. Con le braccia strette intorno
alle gambe continuava a fissare il nulla come un doccione di pietra.
«Sai chi mi sta creando ancora problemi? I tuoi cugini» mormorò
Ofelia. «Mi rendono la vita dura. Dicevi che ti odiavano, ma credimi,
mi stanno facendo pagare a caro prezzo l’aver preso il tuo posto».
Di nuovo nessuna risposta.
Ofelia si voltò. A parte loro non c’era nessun altro nella veranda,
eppure aveva continuamente l’impressione che qualcuno la
guardasse.
«Che è successo nei bagni del Memoriale?» domandò più che
sottovoce. «Chi ti ha ridotto in questo stato?».
Ancora silenzio.
«Devo assolutamente saperlo» insisté. «Hai scoperto qualcosa a
proposito di un libro? Magari un libro di E. D.?» suggerì di fronte
all’inespressività di Mediana. «L’era dei miracoli?».
Niente. Ofelia fece un profondo respiro. Le restava un’ultima carta
da giocare.
«“Chi semina vento raccoglie tempesta”. Mi ha incaricato il Senza
Paura di trasmetterti questo messaggio. È stato lui a ridurti così?».
Aspettò a lungo una reazione sperando che il nome sortisse
qualche effetto, ma Mediana non batté ciglio. Una mosca le si posò
sul labbro inferiore come fosse un cadavere. Dopo il ricatto e la
manipolazione Ofelia si era ripromessa di non avere mai pietà di lei,
tuttavia vederla in quello stato le fece male.
«Allora è così?» la rimproverò sottovoce. «Vuoi passare il resto dei
tuoi giorni in pigiama su una panchina? Sognavi di diventare
precorritrice, volevi sapere tutto. La Mediana che ho conosciuto
sarebbe già alla ricerca di un nuovo segreto».
«Miss Eulalia?».
All’altro capo della veranda l’adolescente aveva riaperto la porta e
le faceva segno di andarsene con un ampio sorriso.
«Sorry, miss, i cinque minuti sono passati».
Ofelia si alzò dalla panchina a malincuore. O quanto meno provò
ad alzarsi, visto che la mano di Mediana le aveva afferrato la
redingote per trattenerla. Il suo stato non era cambiato, aveva gli
stessi occhi sgranati nel vuoto e lo stesso corpo paralizzato, ma le sue
labbra articolarono due parole:
«Un altro».
«Eh?».
Ofelia si chinò su Mediana per guardarla finalmente negli occhi,
ma l’unica cosa che vi lesse fu uno spavento così intenso da farle
torcere le budella.
«Un altro... ce n’è un altro».
«Un altro che?».
Per tutta risposta Mediana lasciò la presa e ripiombò nel mutismo.
«Miss Eulalia!» chiamò allegramente l’adolescente. «La visita è
finita!».
Ofelia era andata all’osservatorio delle Deviazioni per ottenere
risposte. Ne tornava con un’ulteriore domanda: chi era questo nuovo
“altro”? Una cosa almeno le apparve evidente mentre scendeva lo
scalone di marmo che portava alla fermata del trenuccello: Mediana,
miss Silence e il professor Wolf avevano un punto in comune, il
terrore.
Data la vicinanza del vuoto, il vento era particolarmente irruento,
sollevava sulla banchina mulinelli di polvere talmente fitti che
praticamente non si sentiva e non si vedeva niente. L’osservatorio
delle Deviazioni non era una destinazione molto servita dai convogli,
bisognava armarsi di pazienza fra un trenuccello e l’altro. Ofelia però
ne era priva. Appena smetteva di agire, i pensieri tornavano alla
carica.
“La nostra collaborazione finisce qui”.
Thorn l’aveva respinta. Con le parole e con gli artigli. Ofelia si
sentiva più disseccata della polvere che le bruciava gli occhi. Le
mancava. Non aveva mai smesso di mancarle, anche quando era
vicina a lui. Non era riuscita a ricoprire il ruolo di collaboratrice, non
aveva capito niente di quel che lui si aspettava da lei. Aveva sperato
che le desse ciò che non poteva più darle. Anche in quel momento,
mentre si aggrappava alle indagini e frugava negli angoli più riposti
di Babel, in fondo stava continuando a cercare Thorn.
Si irrigidì. Attraverso il turbine di polvere che le sbatteva sugli
occhiali aveva visto una figura sulla banchina. Forse era solo un altro
viaggiatore, però sembrava osservarla con insistenza. Di colpo la
figura si precipitò su di lei. Ofelia si rese bruscamente conto della
vicinanza del vuoto, e fu attraversata come un lampo dal pensiero
della sciagura che aveva colpito tutti quelli di cui voleva penetrare i
misteri. La paura di Mediana, di miss Silence e del professor Wolf
divennero la sua paura.
«Che ci fai qui?».
Nonostante il frastuono del vento riconobbe la voce intrisa di
diffidenza. La persona che le stava di fronte era Octavio. Si era messo
la giacca sulla testa per ripararsi, cosa che lo faceva apparire più alto
di quanto fosse. Il suo potere di Visionario gli aveva permesso di
riconoscere Ofelia nonostante la pessima visibilità del belvedere.
«Mi hai seguito?» insisté lui. «Che vuoi?».
«Ehi, calma. Sono venuta a trovare Mediana. E tu?».
Seguì un lungo momento carico di tensione.
«Non dire a mia madre che mi hai visto qui».
Avrebbe potuto essere un ordine, ma la voce di Octavio era passata
dall’ostilità alla preoccupazione.
«Proprio tu mi chiedi di mentire? Credevo che l’onestà fosse un
dovere civico a Babel».
Più che parlare, Ofelia tossiva. A ogni respiro ingollava polvere.
Sobbalzò sentendo stridere le ruote del trenuccello che si posava sulle
rotaie dell’imbarcadero. Appollaiati sui tetti dei vagoni, i volatili
giganti si mantenevano stoicamente tranquilli nonostante la
tempesta.
Ofelia e Octavio salirono a bordo. Infilarono ognuno la propria
tessera, andarono a sedersi e passarono vari minuti a spolverarsi i
vestiti senza scambiarsi una parola o uno sguardo. C’era solo un altro
passeggero nel vagone, così profondamente addormentato che il
turbante gli era caduto a terra.
«Mentire è un peccato» dichiarò Octavio dopo il decollo del
trenuccello. «Ti chiederò allora di comportarti come ho chiesto di
comportarsi al personale dell’osservatorio: se mia madre ti interroga,
dille la verità. Ma nel caso, ti sarei molto grato se mostrassi una certa
discrezione».
Ofelia lo sbirciò. La lunga frangetta nera dietro la quale si
nascondeva di solito era tutta scompigliata. La faccia aveva perso la
consueta calma imperiale. Perfino gli occhi, puntati ostinatamente
verso il finestrino, mandavano riflessi meno orgogliosi. Octavio
strinse i pugni sulle gambe, come se improvvisamente si sentisse in
posizione di inferiorità, umiliato.
Ofelia l’aveva sempre visto come la copia esatta di lady Septima.
Sapere che era capace di disubbidire alla madre, per giunta Lord di
LUX, glielo rendeva meno antipatico, anche se non per questo era
pronta a dargli fiducia.
«Se devo aiutarti a nascondere qualcosa vorrei almeno sapere di che
si tratta. Che ci facevi all’osservatorio delle Deviazioni mentre c’ero
anch’io?».
«Casomai eri tu che ci stavi mentre c’ero io» le fece notare Octavio
in tono altero. «Io ci vado ogni domenica». Si morse il labbro, come
incerto se dirle di più. «A trovare mia sorella».
Ofelia si era preparata a molte rivelazioni, ma non certo a quella.
«Hai una sorella?».
«Si chiama Seconda. È... diversa. Lo è sempre stata».
Octavio si voltò di scatto e la dardeggiò con lo sguardo sfidandola a
prenderlo in giro.
Ma Ofelia non ne aveva nessuna voglia.
«Anch’io ho una sorellina diversa. Quasi non parla, ma sa
ugualmente farsi capire bene. Non c’è niente di vergognoso».
Si rese conto, facendogli quella confidenza, che aveva parlato come
Ofelia e non come Eulalia. La sua sincerità ebbe almeno il merito di
rilassare Octavio, che smise di tenere i pugni stretti.
«E tuo padre?» gli domandò prudentemente. «Anche lui non vuole
che tu vada a trovare tua sorella?».
«In fact, non lo vedo da anni. Ha lasciato mia madre poco dopo che
era nata Seconda. Dal punto di vista dei miei dare alla luce un figlio
imperfetto è un disonore per tutta la discendenza di Polluce. Alla fine
mia madre ha ritenuto che il posto migliore per Seconda fosse
l’osservatorio, dove possono studiare il suo caso. Così, a modo suo,
anche mia sorella serve la città».
«E tu non sei d’accordo».
Ofelia aveva fatto una semplice constatazione, ma per Octavio fu
come uno schiaffo. La guardò con un rigurgito di diffidenza facendo
fremere la catenella del sopracciglio.
«Non sono tenuto a essere d’accordo né in disaccordo. Mia madre
si è sempre messa al servizio dell’interesse familiare».
Ofelia si pulì gli occhiali sulla manica della divisa altrettanto
polverosa. Quanto sapeva Octavio delle forze che in verità si
nascondevano dietro quell’interesse “familiare”? Era dotato di uno
spirito di osservazione fuori dal comune, ma appena si trattava di
lady Septima diventava cieco.
«Comunque non ho chiesto la tua opinione» aggiunse
raddrizzandosi rigidamente sul sedile. «Il fatto è che mia madre pensa
sia meglio che io e Seconda viviamo vite separate. L’unica cosa che ti
chiedo è di non raccontarle delle mie visite, a meno che non te lo
domandi directly».
«Non le dirò niente» promise Ofelia. «Neanche se mi farà
domande».
Seguì un silenzio imbarazzato durante il quale si sentirono solo i
battiti d’ali degli uccelli, il crepitio della polvere contro i vetri e il
ronfare del terzo passeggero. Ofelia non riusciva a liberarsi dalla
sgradevole sensazione di sentire una presenza alle sue spalle, ma per
quanto si voltasse non c’era nessuno sui sedili dietro di lei.
«Tutti gli allievi del conservatorio sfruttano l’ultimo giorno di
vacanza per ripassare freneticamente, e tu vai a trovare Mediana»
riprese Octavio dopo un po’. «Non mi sembrava che foste così tanto
amiche».
Ofelia fece un’alzata di spalle.
«Non vedo motivo di ripassare, visto che non c’è un esame per
diventare aspirante. Lady Helena e sir Polluce ci giudicano
sull’insieme del nostro percorso».
«Mi hanno detto che Mediana non è più in grado di comunicare.
Che volevi da lei?».
Ofelia sentì su di sé lo sguardo insistente di Octavio. Non se ne
sarebbe liberata facilmente.
«Sto cercando di capire chi l’abbia ridotta in quello stato e perché.
Immagino che, come tua madre, mi dirai che non c’è niente da
capire».
«Immagini male. Penso invece che siamo tutti in pericolo,
compresa mia madre».
Ofelia smise di strofinare gli occhiali per rimetterseli sul naso più
polverosi che mai. Le sopracciglia di Octavio erano passate
dall’accento circonflesso all’accento grave. Aveva un’espressione
molto seria.
A Ofelia venne in mente una cosa.
«Tu sapevi che il professor Wolf era stato minacciato» disse. «Mi
avevi avvertito che sarebbe potuto succedere anche a me».
«Non lo sapevo, lo supponevo. Quanto è successo a miss Silence e a
Mediana non ha fatto che confermare i miei sospetti. C’è qualcuno
che si diverte come un matto a fare del male a chi frequenta il
Memoriale troppo da vicino».
«Il Senza Paura E Quasi Senza Rimprovero?».
«Of course, chi altro? Quell’agitatore si fa beffe delle nostre leggi più
sacre con le sue provocazioni. Instilla nella mente della gente ciò che
i Lord di LUX si sforzano di emendare da decenni: idee malsane,
aggressive e degradanti. Lui sì che dovrebbe trovarsi all’osservatorio
delle Deviazioni».
Octavio si era espresso con calma sovrana, ma Ofelia non si fece
trarre in inganno. I suoi occhi fiammeggiavano come se attraverso le
pareti dei vagoni e i chilometri di nuvole stesse braccando il Senza
Paura in persona. Era consumato dall’interno da una brace che
chiedeva solo di accendersi.
Ofelia si chiese quanto se ne rendesse conto, ma la domanda che le
affiorò alle labbra fu un’altra.
«Hai mai letto libri di E. D.?».
Rimpianse subito la propria imprudenza. La curiosità la portava
troppo spesso a fare le domande giuste alle persone sbagliate.
«I vecchi racconti per bambini?» si sorprese Octavio. «Li ho
vagamente sfogliati quand’ero piccolo. Trovi la collezione completa
al Memoriale».
O era un ottimo attore, o ignorava la sorte che miss Silence aveva
riservato a quei libri.
«E che ne pensi dell’Era dei miracoli?».
«Non è il migliore. È un racconto che descrive gli inizi del nuovo
mondo. Questo E. D. non era un autore molto originale. Perché ti
interessano i suoi libri? Non credo che sia stato sir Henry a chiederti
di periziarli!».
L’evocazione di Thorn le suscitò una brusca fitta tra le costole. Si
concentrò sui brontolii metallici del trenuccello per far passare il
dolore.
«E se andassimo a trovare il professor Wolf?» propose Ofelia.
«Chiediamo a lui se il Senza Paura gli ha fatto subire intimidazioni o
no».
«Insieme?».
Octavio sembrò preso completamente alla sprovvista. Ofelia lo era
altrettanto. Non aveva previsto di fare società con il figlio di un Lord
di LUX, ma a pensarci bene non era poi un’idea così peregrina.
Octavio era più influente di lei, forse avrebbe aperto porte che per lei
sarebbero rimaste chiuse. A cominciare da quella del professor Wolf.
«Insieme, sì».
IL ROSSO

Scesero alla stazione successiva per prendere una gondola pubblica.


Lo Zefiriano che la guidava aveva abbastanza esperienza da
canalizzare il vento e far loro attraversare il mare di nuvole senza
turbolenze, ma Ofelia fu comunque contenta quando raggiunsero la
terraferma. Il quartiere del professor Wolf non era lastricato. Vento e
sabbia si mischiavano talmente l’uno all’altra da formare fumarole
bollenti. Il sole nel cielo sembrava una luna pallida. Il clima era così
soffocante che per strada non c’erano passanti né dodo.
Ofelia attraversò il cortile dell’edificio tenendosi una manica sul
naso per non respirare la polvere. Gli occhiali sembravano ricoperti di
fuliggine vulcanica. Distingueva appena la facciata invasa dalla
vegetazione davanti a sé. Al suo avvicinarsi il battente del pianterreno
non si scatenò come la prima volta. Non se lo aspettava da una porta
tanto paranoica.
Dopo aver fatto cenno a Octavio di mettersi davanti allo spioncino
dette tre colpetti prudenti.
«Professor Wolf?».
Non era fiera di presentarsi di nuovo in quella casa. Per quanto
scorbutico, l’Animista le aveva procurato guanti da lettrice, e lei
l’aveva ringraziato andando a rovistare nel cestino della carta straccia.
Così non si stupì vedendo la porta rimanere chiusa.
«Professor Wolf?» insisté. «Dobbiamo parlarvi, è importante».
Ofelia incollò l’orecchio al legno, ma non sentì alcun rumore
all’interno dell’appartamento.
«La padrona di casa mi ha assicurato che non esce mai» disse.
«Provaci tu, magari a te apre».
Octavio non lo fece. Capelli rossi di polvere e falde della redingote
sollevate dal vento, si allontanò di qualche passo. Osservava la
facciata con estrema concentrazione. Il bagliore rosso dei suoi occhi si
faceva sempre più intenso.
«Inutile» dichiarò alla fine. «Non è in casa».
«Vedi attraverso i muri?».
«Se adatto lo sguardo riesco a individuare le radiazioni emesse dagli
organismi a sangue caldo. Non c’è niente del genere là dentro».
«Eccoci con un pugno di mosche» sospirò Ofelia.
Octavio aggrottò le sopracciglia ruotando lentamente su se stesso e
scrutando stavolta la nuvola di polvere.
«E circondati» mormorò.
Ofelia ci mise un po’ a scorgere anche lei le figure vestite di bianco
che affluivano dai quattro angoli del cortile. Ognuna era armata di
fucile.
«Oggetti proibiti» commentò Octavio con disprezzo. «I senza-poteri
sono caduti parecchio in basso».
La sua dichiarazione fu accolta da uno scoppio di risa che
riecheggiò sui muri del vecchio edificio, come se provenisse da
ovunque contemporaneamente. Ofelia si irrigidì. Per quanto ne
sapeva, un solo uomo era dotato di corde vocali tanto potenti. La
sagoma del Senza Paura si staccò dalla bufera rossa e avanzò
tranquillamente verso di loro. Non era armato, non ne aveva
bisogno, la gigantesca tigre dai denti a sciabola gli faceva da scorta.
«Da che si riconosce il figlio di un Lord?» esclamò rivolgendosi a
tutti e a nessuno. «Reaaally semplice! Dal fatto che va in giro
dappertutto come se fosse terreno conquistato, fa tintinnare forte e
chiaro i begli stivali e ha pure il coraggio di fare il condiscendente!».
Aveva una voce talmente forte da sovrastare la tempesta, ma
quando arrivò davanti a Octavio quest’ultimo non si mostrò per
niente intimorito. Lo guardò senza battere ciglio, con la schiena
dritta e il mento proteso, come se non avesse una quantità di fucili
puntati contro.
«Così siete voi l’uomo che si fa chiamare Senza Paura E Quasi Senza
Rimprovero? Che delusione! Ho sentito spesso le vostre fanfaronate
alla radio, vi immaginavo meno ordinario».
Un sorriso feroce mise brevemente in mostra i denti del Senza
Paura. L’aspetto era forse quello di un uomo mingherlino e
stempiato, ma c’era una belva annidata in lui, non meno temibile
della Bestia che ringhiava al suo fianco.
Lo sguardo di Ofelia rimbalzò in tutte le direzioni. Il cortile non
aveva uscite, erano intrappolati. Le folate di polvere lasciavano
intravedere qua e là le sagome degli uomini armati. Ofelia li contò:
quattro, sei, otto... almeno dieci. Più una tigre gigante. Sollevò gli
occhiali verso le altre facciate. Le rare persiane che riusciva a
distinguere erano chiuse. Dietro c’era probabilmente gente che li
stava osservando, ma nessuno sembrava disposto a intervenire,
neanche la padrona di casa.
Ofelia stava cominciando a rimpiangere di aver trascinato Octavio
in quel luogo. Thorn aveva ragione: aveva una predisposizione
naturale alle catastrofi.
«Che volete?».
Il Senza Paura la guardò appena, come se non fosse fatta di materia
solida. Solo Octavio gli interessava.
«Sono io che ve lo chiedo. Sembravate reaaally vogliosi di parlarmi.
Naturalmente» aggiunse con aria beffarda, «sempre che non abbiate
paura di essere contaminati dalle mie idee “malsane, aggressive e
degradanti”».
Gli occhi di Octavio si accesero ancora di più.
«Sono le mie parole esatte. Ci avete spiato?».
«Ti dirò una cosa, boy. Da vecchio pirata delle onde quale sono, ho
la mania di seminare microfoni qua e là. Mi fate ridere, voi
precorritori! Sostenete di sapere tutto, ma non sapete niente. I censori
vi svuotano il cervello!».
Vicinissimo a Octavio, il Senza Paura gli sputò sulla faccia l’ultima
parola, divertito dalla ripugnanza che gli ispirava.
«Siete stato voi ad attentare alle vite del professor Wolf, di miss
Silence e dell’apprendista Mediana?».
Ofelia guardò Octavio con un misto di ammirazione ed
esasperazione. Aveva fatto la domanda senza mezzi termini, con un
tono pieno di sufficienza, come se fosse lui a dettare le regole, e non
era indietreggiato quando il dito del Senza Paura aveva titillato la
catenella d’oro che attestava la sua discendenza da lady Septima.
«Ti vedi già Lord, ma non sei neanche un uomo. E non lo sarai mai
finché non avrai dato un pugno in faccia a qualcuno. Questo non te
l’ha insegnato mammina? O per voi è troppo malsano, aggressivo e
degradante? Confessa che in questo momento ti prudono reaaally le
mani!».
La voce del Senza Paura produceva vibrazioni così intense che
Ofelia le sentiva fino in pancia. Doveva davvero non aver paura di
nessuno per insultare in quel modo un Figlio di Polluce sulla
pubblica piazza.
Octavio prese un fazzoletto dalla tasca per asciugarsi gli schizzi di
saliva.
«Non mi abbasserò a rispondere alle vostre provocazioni. Ordino a
voi e a questi signori di consegnarvi alla giustizia e comportarvi in
futuro da onesti cittadini».
Il Senza Paura proruppe in una risata che faceva pensare allo
scoppio di una polveriera. L’attimo dopo tornò serio. Fece segno ai
suoi uomini di abbassare le armi, poi, con gesto secco, strappò la
catenella dal viso di Octavio. Ofelia ebbe un conato di vomito
vedendo sgorgare il sangue.
«Hai una bella faccia tosta, reaaally» grugnì disgustato il Senza
Paura. «Hai una vaga idea dell’offesa che arrechi a questa gente
pavoneggiandoti qui con la tua bella divisa? Il tuo futuro è
interamente tracciato. Loro non ne hanno alcuno, e sai perché?
Perché quelli che finiscono per governare la città sono i figli di papà
marci e viziati come voi, individui che preferiscono assumere
macchine anziché dare un lavoro agli “onesti cittadini”».
Octavio respinse la mano che Ofelia si era precipitata a tendergli. Si
raddrizzò con orgoglio, stringendo i denti per non strillare dal dolore.
All’arcata sopraccigliare mancava un pezzetto di carne, e la narice era
spaccata in due. Il sangue si mischiava alla polvere del suolo, ma non
era niente in confronto al rosso che luccicava nei suoi occhi.
«La percepisco» lo prese in giro il Senza Paura rigirandosi la
catenella fra le dita. «Questa violenza che tu disprezzi tanto tuona
dentro di te. Puoi ricoprirla di buone maniere quanto ti pare, ci sarà
sempre. In fondo sei come me, una belva».
Octavio si pulì il viso insanguinato nello stesso modo in cui si era
pulito gli sputacchi poco prima: con una gestualità intrisa di
superiorità.
«Non paragonatemi a voi».
«Ora basta» gli disse Ofelia. «Andiamocene».
Il Senza Paura la squadrò senza aprire bocca. Durante il breve
silenzio che seguì si sentirono solo l’ululato del vento, il crepitio della
polvere e i brontolii della tigre.
«Va bene» decise. «Vi lascio andare, ma a una condizione».
La sua mano partì come una freccia. Afferrò Ofelia per i capelli e la
costrinse a mettersi in ginocchio. Lei ebbe la sensazione che le stesse
strappando la cute del cranio.
«Togliti la divisa, pecorella».
Ofelia ci vedeva malissimo. Gli occhiali le pendevano di traverso
sulla faccia. Provò a rimettersi in piedi, ma il Senza Paura la obbligò a
rimanere inginocchiata. Le teneva i capelli con una stretta
stupefacente per un individuo così magrolino.
«Togliti la divisa» ripeté. «Redingote, camicia, pantaloni, stivali,
everything! Se fai la brava ti lascerò i guanti da lettrice».
Ofelia non era particolarmente pudica, era abituata a svestirsi e
rivestirsi ogni giorno nello spogliatoio della Buona Famiglia, ma
l’idea di essere costretta a farlo in quella posizione e davanti a quegli
uomini le ripugnava. Anche Octavio non sapeva più che dire.
«Togliti la divisa» ruggì il Senza Paura scuotendola, «o dico ai miei
amici che provvedano loro».
Ofelia vedeva in maniera confusa, e non solo a causa della miopia.
Perché i suoi artigli non respingevano la mano che la brutalizzava?
Perché ogni volta che ne aveva bisogno non si attivavano? La risposta
fu come un cazzotto in pancia: perché aveva paura. Gli artigli erano
collegati al suo sistema nervoso. La rabbia li scatenava, la paura li
bloccava.
Il Senza Paura aveva visto giusto: era solo una pecora. Invece di
renderla più forte, le dure prove che aveva attraversato al Polo
l’avevano resa più fragile.
Si rimise gli occhiali sul naso con la poca dignità che le restava e si
sbottonò la redingote, semplice gesto quotidiano che, maldestra
com’era, richiedeva sempre una grande perseveranza da parte sua.
Tremare non le fu d’aiuto. Mentre combatteva con ogni singolo
bottone sperò che il Senza Paura non se ne accorgesse: non le andava
di dargli quella soddisfazione.
Il vento le graffiò le braccia nude quando si levò la camicia
rimanendo solo con una maglietta leggera.
«I pantaloni».
Ofelia lottò contro il disgusto sentendo l’ordine del Senza Paura
vibrarle lungo la spina dorsale. La voce le faceva ancora più male
della stretta con cui le tirava i capelli. Mentre si impigliava le dita
nella fibbia della cintura il sospiro esasperato del Senza Paura le fece
perdere l’equilibrio.
«Reaaally, spero che lo spettacolo valga l’atte...».
Non terminò la frase. Octavio gli aveva tirato un pugno sulla
mandibola. Si sentì uno scricchiolio d’ossa così sonoro che sembrava
provenire sia dalle dita che dai denti. La forza del colpo proiettò
entrambi a terra. Senza perdere un secondo Octavio salì sul Senza
Paura per immobilizzarlo al suolo e si mise a tempestarlo di pugni. Il
viso gli era interamente scomparso sotto un diluvio di capelli neri. Il
suo corpo era rabbia allo stato puro, scatenata come gli elementi
intorno a loro.
Più picchiava forte e più il Senza Paura rideva.
«Magnifico, boy! Vai così! Lascia uscire la belva!».
Ofelia scattò in piedi, ma non ebbe il tempo di intervenire. La tigre
dai denti a sciabola, che fino a quel momento era rimasta ferma come
una statua, si distese come una molla, e la sua enorme zampa spedì
Octavio a rotolare nella foschia. Ofelia corse da lui. Stava
raggomitolato a terra, rosso di polvere e di sangue. Le fiamme dei
suoi occhi si erano spente. Non aveva tracce di ferite gravi, ma il
colpo l’aveva stordito.
La voce del Senza Paura esultava sovrastando il tumulto del vento.
«L’ha fatto! Reaaally! Ah ah ah, ha varcato la linea rossa!».
Ofelia si affrettò a staccare le alette dai suoi stivali e da quelli di
Octavio per mettersele in tasca. Ora che le ostilità erano aperte
dovevano scappare, i nemici stavano all’erta da qualche parte nella
tempesta di sabbia, al minimo tintinnio li avrebbero individuati.
Nel momento in cui si passò il braccio di Octavio intorno alle
spalle risuonò uno sparo. L’eco della detonazione attraversò la
polvere del cortile rimbalzando sulle facciate degli immobili. Ofelia
non aveva la sensazione di essere stata colpita, ma le sue pulsazioni
erano talmente accelerate che non era più sicura di nulla.
«Chi ha sparato?» gridò il Senza Paura. «Niente iniziative, avevo
detto!».
Non rideva più. Le voci dei suoi uomini protestarono, ognuno
sosteneva di non essere stato lui. Ofelia non capiva cosa stesse
succedendo, ma era ben decisa ad approfittare di quel diversivo. Alla
cieca trascinò Octavio che, ancora rintronato, stentava a camminare
dritto. Lei stessa vedeva a meno di tre passi. Era ancora
scombussolata, e a ogni respiro inalava sabbia.
Un grido la bloccò, un urlo di orrore come mai aveva sentito in vita
sua.
La voce del Senza Paura deflagrò come un’esplosione eclissando
vento e polvere. Ofelia e Octavio si tapparono le orecchie. L’intero
cortile fu solo un lungo, interminabile grido.
Poi la voce tacque.
Octavio indicò a Ofelia la sagoma montagnosa che si intravedeva
nella foschia. La tigre dai denti a sciabola era proprio davanti a loro
prostrata a terra, con le orecchie appiattite all’indietro, il pelo irto, le
pupille tonde come due fari.
Terrorizzata.
Ofelia inciampò su un corpo steso sulla schiena. Le fu necessario
qualche secondo e qualche battito di cuore per riconoscere il Senza
Paura. Aveva la pelle della faccia deformata come una maschera da
tragedia antica. La bocca urlava in silenzio. Gli occhi fuori dalle
orbite fissavano il vuoto.
«Morto» mormorò Octavio.
«Ammazzato» lo corresse una voce alle loro spalle.
Dalla tempesta, soprannaturale come uno spettro, sbucò il
professor Wolf. Era interamente vestito di nero. Il collare ortopedico
gli conferiva una rigidità cadaverica, e la barbetta emanava un
pungente odore di bruciaticcio. Portava a tracolla un vecchio
tromboncino la cui canna sembrava essere scoppiata. Probabilmente
era stato lui a sparare.
Porse a Ofelia la redingote che aveva raccolto strada facendo.
«Seguitemi, voi due» ordinò tra i denti. «Chi ha fatto questo
potrebbe essere ancora nei paraggi e, credetemi, non ci tenete a
incontrarlo».
LA DATAZIONE

Il professor Wolf li guidò attraverso la tempesta di sabbia. Quando


Ofelia lo perdeva di vista seguiva lo scricchiolio delle sue suole.
Poteva fare affidamento solo sulle orecchie. All’infuori del vento non
c’era più un rumore né un grido. Che fine avevano fatto gli uomini
del Senza Paura? Erano scappati? Erano morti?
E l’assassino? Era ancora da qualche parte nel cortile?
Ofelia si morse la manica per non tossire. La polvere la soffocava, la
accecava, la assordava...
Andò a sbattere su Octavio quando quest’ultimo si fermò
bruscamente davanti a lei. Il professor Wolf li aveva condotti fino al
muro di un edificio.
«Montate, presto» borbottò.
Ofelia vide la scala di emergenza che portava sul tetto. Salì i pioli
uno dopo l’altro scivolando sul muschio, investita dalle raffiche di
vento. Più saliva e meno la polvere era fitta. Arrivata all’ultimo piolo
era senza fiato, ma respirava meglio. Aiutò Octavio a issarsi a sua
volta. Il sangue che gli colava dal sopracciglio e dal naso gli aveva
formato una melma appiccicosa su metà del viso.
Il tetto era un’immensa terrazza di lavanda che ondeggiava al
vento come un mare. Il professor Wolf ne fendé i flutti con passo
nervoso. Vestito, barbetta e capelli neri erano altrettante macchie
d’inchiostro sui colori circostanti. Dato che il collare gli impediva di
voltare la testa girò sui tacchi per fare segno a Ofelia e Octavio di
sbrigarsi controllando al contempo di non essere seguiti.
I tetti erano collegati l’uno all’altro da archi di pietra. Vi cresceva di
tutto: rosmarino, alloro, limoni, ma anche ortiche e liane. Visto da
terra il quartiere era solo un mondo di polvere, visto dall’alto si
trasformava in una giungla labirintica.
Il professore prese una scala che saliva fino a una vecchia serra
soprelevata. La porta era così arrugginita che dovette aprirla con una
spallata, poi mugugnò parecchie imprecazioni animiste prima di
riuscire a richiuderla alle loro spalle. Alla fine usò il tromboncino per
bloccarla. La serra era invasa dalle erbacce e dalle mosche. Fazzoletti
variopinti riempivano i buchi lasciati dai vetri mancanti. Il vento
soffiava da tutte le fessure, ma era un rumore che sembrava un
silenzio dopo il tumulto dell’esterno.
Ofelia si lasciò cadere sul bordo di una vasca asciutta e si massaggiò
il cuoio capelluto ancora dolorante. I suoi ricci avevano assunto
proporzioni apocalittiche.
«State per dirci che...».
«Zitta» la interruppe il professor Wolf. «Sto cercando di
concentrarmi».
Aveva incollato l’occhio a un cannocchiale e osservava il cortile a
strapiombo sotto la serra. Ofelia guardò dai vetri sporchi: sotto non
vedeva nessuno, a parte i mulinelli rossi che si gonfiavano,
ondeggiavano, scoppiavano e si riformavano in una danza senza fine.
Stentava a credere che fino a pochi istanti prima fossero intrappolati
laggiù.
Sciacquò gli occhiali al rubinetto della vasca. Tutto intorno, tra le
piante, c’era un arsenale di vecchie armi nonché un lettino da
campo, scatole di conserva, stoviglie e pile di libri.
Il professore aveva trasformato quella serra abbandonata in bunker.
Ofelia si preoccupò del silenzio di Octavio. Accovacciato in un
angolo, in mezzo alle felci, con le gambe ripiegate contro il petto e le
braccia intorno alle ginocchia, stava cercando di calmare i tremiti
delle dita tumefatte dai pugni. La frangetta gli copriva il viso come
una tenda.
Ofelia cercò un recipiente. Anche lì, come in casa del professor
Wolf, gli oggetti si mostravano scontrosi come granchi che si rifugino
nei buchi della roccia. Riacchiappò per un pelo una bacinella di latta
che cercava di nascondersi dietro un cactus. La riempì d’acqua e,
tenendola ferma, vi immerse un fazzoletto per pulire Octavio dal
sangue. Quest’ultimo la lasciò fare senza protestare fissando un punto
distante ed evitando con cura di incrociare il suo sguardo.
La sua fierezza sembrava essersi spezzata insieme alla catenella
d’oro.
«Grazie» mormorò lei. «Non dimenticherò quel che hai fatto per
me».
Le labbra di Octavio assunsero una piega amara.
«Non ho neanche la metà dell’eroismo che mi attribuisci. Ho avuto
voglia di picchiarlo fin dal primo istante in cui me lo sono trovato
davanti, really. Perfino adesso che è morto ne ho ancora voglia,
perché mi ha visto dentro con più chiarezza dei miei stessi occhi. Se
mia madre sapesse quel che ho fatto... Lo saprà» si corresse con un
profondo disgusto di sé che gli si leggeva sulla faccia. «Glielo dirò io».
Ofelia guardò l’acqua rossastra della bacinella che continuava a
dimenarsi fra le sue dita. Quanti segreti, quanti pensieri aveva
nascosto lei alla madre per evitare di essere giudicata? Prese le alette
che aveva tenuto in tasca per restituirgliele.
«Avevi ragione» disse. «Sei un tipo a posto».
Il professor Wolf si staccò bruscamente dal vetro, e il cannocchiale
si ripiegò da solo con un sonoro scatto.
«È arrivata la guardia familiare, qualcuno deve averli chiamati. Ci
sarà un’inchiesta, e come al solito la conclusione sarà che si è trattato
di uno sfortunato incidente. Dopo tutto il crimine non esiste nella
nostra bella città».
Octavio sollevò gli occhi oltre le felci e lo guardò con espressione di
rimprovero, ma aggrottare le sopracciglia gli fece di nuovo sanguinare
la ferita.
«Rasentate l’antipatriottismo, professore. Non vi denuncerò se
verrete a testimoniare insieme a me e all’apprendista Eulalia.
Dobbiamo riferire come si sono svolti i fatti».
In realtà Ofelia non ci teneva affatto. Se avesse rilasciato una
deposizione avrebbero verificato la sua identità e le avrebbero fatto
una quantità di domande che preferiva risparmiarsi.
Risolse il problema il professor Wolf prendendo una carabina dalla
sua collezione di armi e puntandola sui due ospiti.
«Voi non andate da nessuna parte» sibilò.
L’arma era antidiluviana quanto il tromboncino che gli era esploso
tra le mani, ma la cosa non sembrava preoccuparlo. La barbetta
carbonizzata gli dava un’aria temibile.
«Che facevate davanti alla mia porta? Chi vi ha mandato?».
Il colorito di Octavio passò da bronzo a piombo. Non era
indietreggiato di fronte al Senza Paura perché per lui la violenza era
ancora una nozione astratta, ma da allora ne aveva fatto l’esperienza
sul proprio corpo.
Quanto a Ofelia, non vedeva la carabina del professore, vedeva solo
la paura annidata nel suo sguardo. Una paura maggiore di quella che
aveva provato lei in cortile.
«Siamo venuti di nostra spontanea volontà» rispose. «Avevamo
bisogno del vostro aiuto. E io avevo bisogno del vostro perdono»
aggiunse dopo un profondo respiro, «per non aver rispettato il codice
deontologico dei lettori sotto il vostro tetto. Avete tutto il diritto di
considerarmi una nemica, ma la cosa non è reciproca».
Il professore contrasse le labbra in una smorfia. Pur non posando la
carabina ne abbassò impercettibilmente la canna.
«Perché avreste bisogno del mio aiuto?».
«Siete l’unica persona viva a capire quel che succede davvero, o
quanto meno a poterne parlare» specificò Ofelia pensando a
Mediana. «Avete già incontrato ciò che ha ucciso miss Silence e il
Senza Paura, vero?».
Gli occhi del professore passarono da Ofelia a Octavio con la
velocità di una pallottola.
«Voi due... non avete la minima idea di ciò che andate stuzzicando.
Volete un consiglio? Smettete di cercare. A me ha portato solo
problemi. Meno ne saprete e meglio starete».
Octavio, che fino a quel momento era rimasto rannicchiato
nell’angolo, si alzò lentamente, si spolverò la divisa e raddrizzò le
spalle.
«Siamo apprendisti precorritori. Abbiamo il dovere di saper fare e di
far sapere».
Il professor Wolf ridacchiò senza lasciare la carabina, ma i suoi
modi si erano fatti meno astiosi. I muscoli della faccia e delle braccia
si stavano rilassando, come cedendo poco a poco al peso di un
fardello troppo oneroso.
Ofelia decise che era arrivato il momento di portare quel fardello
insieme a lui.
«Avete letto i libri di E. D.?».
Percepì su di sé lo sguardo ardente di Octavio, che per la seconda
volta sentiva uscire dalle sue labbra la stessa domanda.
Il professor Wolf si portò una mano al collare ortopedico, come se
Ofelia gli avesse tolto il respiro.
«Come avete... Cosa sapete?».
«Poco e troppo. Se devo avere paura, vorrei almeno capire perché.
Ho bisogno di conoscere la verità. La vostra verità» concluse
sottovoce.
Dopo un’interminabile esitazione il professore andò a mettersi sul
lettino da campo e posò la carabina. Sembrava improvvisamente
molto stanco.
«La mia verità» grugnì continuando ad accarezzarsi il collare. «La
mia verità è che sono un vigliacco. Prendetevi una sedia, faremo due
chiacchiere».
L’aveva appena detto che due sedie da giardino uscirono dai rovi e
vennero avanti in punta di piedi. Erano così timorose che Ofelia
dovette sedersi di peso sulla sua per impedirle di fare marcia indietro.
Stava finalmente per veder rimessi insieme i pezzi del puzzle.
Il professore emise un lungo sospiro contemplandosi i guanti neri
da lettore.
«Sono un esperto di guerre del vecchio mondo. Lo ero già prima
che la parola venisse messa all’Index» disse stizzito vedendo Octavio
corrugare la fronte. «Non ero forse un virtuoso come voi diventerete
un giorno, ma ero uno dei massimi esperti in datazione. Il Memoriale
mi ha sempre affascinato per il suo passato di scuola militare. Era un
periodo in cui avevo le mie entrature al Secretarium, dove potevo
leggere le collezioni originali. A forza di leggi e decreti ho viso la mia
disciplina godere di sempre minor considerazione. I Lord di LUX mi
hanno negato l’accesso dall’oggi al domani. Armi, decorazioni,
testimonianze, corrispondenza» elencò contando sulle dita, «tutte le
collezioni del Memoriale relative alla guerra sono state buttate via
come rifiuti. Poi è toccato ai libri. Dagli scaffali sono spariti i romanzi
di spionaggio, i romanzi gialli, i romanzi di cappa e spada. Una vera e
propria purga!».
Il professor Wolf fulminò con lo sguardo i due apprendisti che gli
stavano davanti, come se fossero personalmente responsabili
dell’accaduto.
Ofelia lo capiva, anche se non poteva dirglielo. Per lei l’epurazione
del suo museo era stata una mutilazione.
Octavio non fece commenti. Dal momento in cui si era seduto
aveva incrociato le braccia e accavallato le gambe con un
atteggiamento di chiusura.
«Il Memoriale di oggi non è neanche paragonabile a quello che
frequentavo quand’ero studente» continuò il professor Wolf.
«Trovare risorse per le mie ricerche è stato sempre più difficile. Ho
assistito impotente all’impoverimento della documentazione, degli
archivi e dei testi storici. In realtà era ancora peggio: quella maledetta
Acustica, miss Silence, era sempre sulle mie tracce. Appena mi sentiva
sfogliare un libro lo mandava direttamente all’ufficio censura. Teneva
d’occhio ogni mio minimo gesto al Memoriale, come si tiene
d’occhio il volo di un avvoltoio al disopra di una carcassa. Dal suo
punto di vista se uno specialista del mio genere reputava un libro
degno d’interesse, quel libro non poteva che essere sovversivo.
Passavo il tempo a evitarla, camminavo in punta di piedi per non
farmi sentire. Così, per ripicca, mi sono spostato alla sezione libri per
l’infanzia».
Una raffica più forte delle altre fece tremare un vetro della serra, e
tanto bastò al professor Wolf per balzare in piedi con la carabina in
spalla. Gli occhi sgranati sotto le folte sopracciglia nere gli davano
un’aria un po’ da pazzo.
La stessa Ofelia non poté fare a meno di scrutare le erbacce intorno
a loro. Probabilmente era stata contagiata dalla paranoia di
quell’uomo, ma non riusciva a liberarsi dalla sensazione di essere
spiata.
Quando capì che era un falso allarme il professore si rimise seduto
di peso facendo cigolare le molle arrugginite del letto, poi si passò
una mano sulla faccia scavata dall’insonnia e corrosa dall’angoscia.
«Non... non mi sono subito interessato ai libri di E. D. Da piccolo,
come ogni giovane babeliano che si rispetti, un paio di volte ero
salito sulla scala vietata ai bambini della mia età, curioso di vedere
quei racconti posti troppo in alto, ma trovandoli noiosi da morire mi
ero affrettato a rimetterli a posto».
Octavio annuì senza sciogliere braccia e gambe. Almeno su quello,
era d’accordo con l’opinione del professor Wolf.
Vedendo le loro reazioni concordanti la curiosità di Ofelia andò
alle stelle.
«Cosa c’era di diverso?» domandò. «Cosa avete scoperto in quei
libri che da piccolo ignoravate?».
Il professore storse la bocca come se avesse bevuto latte inacidito.
«Da principio proprio niente, erano sempre le stesse storie
benpensanti, lo stesso stile superato, lo stesso linguaggio invecchiato
male dei miei ricordi. Tutti i racconti sembravano scritti con un’unica
intenzione, fare l’elogio del nuovo mondo. Come i ventuno spiriti di
famiglia sono diventati i formidabili progenitori dell’umanità!»
declamò alzando gli occhi al cielo. «Come le arche sono state
miracolosamente ripopolate dalle loro discendenze! Come i poteri
familiari si sono meravigliosamente propagati generazione dopo
generazione! Come sono apparsi i “signori degli oggetti”, i “signori
dello spazio”, i “signori della gravità” e tutta la cricca! Come la pace
ha sostituito le guerre! Insomma, tutto un bla-bla di questo genere.
Non avrei approfondito di più se non ci fosse stato... qualcos’altro».
Deglutì sotto il collare. Ofelia pendeva talmente dalle sue labbra
che, protesa verso di lui sulla sedia da giardino, cadde in avanti.
«Sebbene le storie di E. D. non valessero un accidente» continuò il
professor Wolf in tono serrato, «i suoi libri mi hanno incuriosito in
quanto oggetti. Dovete sapere che non erano riedizioni, erano tutte
opere d’epoca magnificamente conservate. Troppo ben conservate, in
realtà. Sono un esperto in datazioni» ricordò loro con una
contrazione sarcastica della bocca, «ed ero convinto che il
memorialista che le aveva catalogate avesse commesso un errore
grossolano. Quei racconti non potevano essere stati stampati solo un
secolo dopo la Lacerazione, dovevano per forza essere più recenti. La
mia coscienza professionale mi ha spinto a offrire al Memoriale i miei
servigi in quanto lettore per dotare quella collezione di una perizia
come si deve. No» mormorò il professore più per se stesso che per
Ofelia e Octavio, che quasi non sembrava vedere. «Non la mia
coscienza. La mia arroganza. Volevo che rimpiangessero di avermi
giudicato male». Fece una risatina senza gioia. «Non solo ho ricevuto
un rifiuto categorico, ma ho pure attirato l’attenzione di miss Silence
sui libri di E. D.».
Ofelia tratteneva il fiato. Il puzzle stava cominciando a prendere
forma sotto i suoi occhiali. Quindi miss Silence aveva cercato di
distruggere la collezione completa a causa dell’interesse manifestato
dal professor Wolf!
«Allora che avete fatto?» domandò.
«La cosa più stupida della mia vita: ho rubato un libro».
Octavio non disse una parola, ma i suoi occhi si accesero di nuovo
come braci ardenti. A Babel il furto era un crimine gravissimo.
Ofelia non condivideva la sua disapprovazione.
«Ce l’avete ancora? È L’era dei miracoli, vero? Posso vederlo?».
«No».
La risposta del professore era stata sferzante come una frustata.
«No?».
«No, non potete vederlo. No, non è L’era dei miracoli. E no, non ce
l’ho più. Se volete la “mia verità”, giovine dama» si spazientì, «cercate
di tenere la bocca chiusa».
Ofelia strinse le labbra per non lasciar uscire altre domande.
«Ho rubato un libro» continuò il professor Wolf. «Ne ho preso uno
a caso dalla collezione di E. D., l’ho nascosto sotto la giacca e sono
uscito evitando le orecchie di miss Silence. Tornato a casa, ero
costernato da quel che avevo fatto» mormorò guardando da un’altra
parte. «Non mi sono mai sentito in colpa perché dicevo parole messe
all’indice o collezionavo oggetti proibiti, ma rubare... Avevo dato
ragione a tutti quei memorialisti che non mi consideravano degno di
essere chiamato “professore”. Ho pensato di mandare un telegramma
a sir Henry per fare atto di ammenda, spiegargli le mie motivazioni e
denunciare miss Silence. Quel Lord non è certo un sentimentale, ma
si è sempre opposto alla distruzione dei libri».
Ofelia deglutì a fatica. Ogni volta che si parlava di Thorn aveva la
sensazione di creparsi un po’ di più.
Il professor Wolf abbozzò una specie di sorriso che mise in mostra i
denti inferiori.
«Non l’ho fatto. Non ho contattato sir Henry. Non ho denunciato
nessuno. Ho letto il libro con le mani».
Il silenzio del professore fu così improvviso che Ofelia e Octavio si
guardarono. Era diventato pallidissimo. I favoriti neri sgocciolavano
sudore. Più si avvicinava all’epilogo del racconto e più i muscoli della
mascella gli si irrigidivano. Il suo tremore si propagava anche al legno
del collare e alle molle del letto.
«And?» rilanciò Octavio. «Il libro che avete... sottratto era recente
come pensavate? Avevate ragione?».
La domanda spinse il professor Wolf a riprendersi.
«No, giovanotto. Avevo torto. Più torto di quanto potessi
immaginare. I libri di E. D. sono molto più antichi».
Il professor Wolf infilò la mano sotto il materasso e tirò fuori un
pacchetto di sigarette che aveva dovuto procurarsi al mercato nero.
Vedendo la fiamma dell’accendino brillare nella penombra Ofelia si
rese conto che oltre i vetri della serra era sceso il crepuscolo. L’aria era
totalmente silenziosa, non c’era un alito di vento né un verso di
insetto.
«I libri di E. D. non sono stati scritti dopo la Lacerazione» dichiarò
in una nuvola di tabacco. «Sono stati scritti prima».
Ofelia sentì un brivido percorrerle la schiena come una scossa
elettrica.
«Impossibile» mormorò Octavio.
La sigaretta del professor Wolf sfrigolò. La sua voce assunse la stessa
consistenza spettrale del fumo che espirava.
«È quello che ho pensato anch’io. Ho tagliato un pezzetto di
pagina per sottoporlo a un collega, senza dargli alcuna indicazione
sulla provenienza del frammento. Ha confermato la mia perizia. La
stessa composizione della carta è diversa da tutte quelle che
conosciamo, ha una durata di vita che sfida l’immaginazione. In altre
parole» concluse il professor Wolf, «i racconti di E. D. non hanno mai
descritto il nuovo mondo, lo hanno anticipato».
Ofelia fu colta da un’improvvisa vertigine, come se avesse appena
scoperto che la sua sedia era sospesa nel vuoto. L’ultima volta che
aveva provato una cosa simile era stata quando aveva letto il Libro di
Faruk.
«La Lacerazione, le arche, le famiglie, il mondo come lo
conosciamo oggi...» enumerò il professor Wolf. «Era tutto previsto, ed
E. D. lo sapeva».
«Impossibile» ripeté Octavio.
I suoi occhi luccicavano nella sera come pupille animali. Era
sempre più buio nella serra. Le sagome delle piante si stagliavano
appena sul fondale indaco dei vetri.
Lo sfrigolio della sigaretta cessò quando il professor Wolf la spense.
Le sue parole si fecero telegrafiche.
«I libri di E. D. sono pericolosi. La mia vita è precipitata per colpa
loro. Letteralmente. Dall’alto delle scale di casa mia».
«Chi è stato?» lo incalzò Ofelia. «Chi vi ha spinto?».
Nel buio il respiro del professor Wolf divenne accelerato.
«Non mi ha spinto. Non ha avuto bisogno di farlo. È
semplicemente apparso davanti a me... spuntato dal nulla. Non ha
dovuto toccarmi né parlarmi. La sua sola presenza mi ha...».
Tacque. Non era necessario dirlo. Il terrore gli assottigliava la voce.
«E volete sapere la cosa più ironica? Non mi ricordo neanche più
com’è fatto. Mi rivedo mentre salgo le scale. Mi aspettava in cima agli
scalini. Poi... non lo so, è stato come precipitare in un incubo... anzi,
nella materia stessa di un incubo. Non un’immagine, non un suono,
solo un baratro di assurdità, il nulla in tutto il suo orrore». Il
professor Wolf inspirò lentamente e profondamente per calmare il
respiro spezzato. «È stata la mia padrona di casa a trovarmi il giorno
dopo in fondo alle scale, spezzato nel corpo e nell’anima. Più tardi mi
sono reso conto che il libro rubato non era più in casa. Ho saputo in
seguito che era tornato sullo scaffale del Memoriale, dove a quanto
pare nessuno si era accorto di niente. A Babel la gente vede solo quel
che vuole vedere».
Il professore si alzò facendo cigolare le molle.
«Ecco la mia verità» disse in tono disincantato. «Non ho altro da
raccontarvi che non sia ancora più pietoso. Quando ho saputo che al
Memoriale c’erano state nuove aggressioni ho abbandonato
l’appartamento e mi sono rinchiuso quassù come un codardo. Avevo
una paura viscerale che “quello” tornasse a trovarmi. Non capisco chi
è né cosa vuole. L’unica cosa di cui sono sicuro» aggiunse tra i denti,
«è che voi l’avete attirato qui».
Le parole del sogno colpirono Ofelia come uno schiaffo: “Se cerchi
E. D., l’altro ti troverà”.
«Penso di sapere cosa voglia» bisbigliò. «Miss Silence ha buttato
tutti i racconti di E. D. nell’inceneritore, cosa che sicuramente ha
fatto sì che... ehm... venisse spaventata a sua volta. Tutti tranne uno»
disse a voce più alta per anticipare Octavio e il professor Wolf che
stavano già aprendo la bocca. «L’era dei miracoli. Il libro è sfuggito alla
distruzione e sparito dalla circolazione. Se, come credo, il misterioso
visitatore sta proteggendo l’opera di E. D., ciò che cerca è il libro.
Forse Mediana e il Senza Paura si sono messi di traverso sulla sua
strada senza saperlo».
L’ipotesi restò sospesa nell’aria. Il silenzio fra i tre si fece denso
come la notte ormai definitivamente calata. L’unica fonte di luce
nella serra erano gli occhi spalancati di Octavio.
Poi l’ombra del professor Wolf si mosse. Ofelia sobbalzò quando le
mise in grembo un cestino che esalava un forte odore di fichi.
«Mangiate e dormite mentre monto la guardia. A quest’ora non
trovereste più un trenuccello che vi riporti al conservatorio. Mi
raccomando, non avvicinatevi al letto» borbottò allontanandosi. «Se
vi si corica qualcuno che non sono io si chiude come un’ostrica».
LA CONVOCAZIONE

Ofelia trascorse la notte a contemplare le stelle dietro i vetri


sporchi. Ogni tanto, quando il professor Wolf dava un tiro di
sigaretta, con l’occhio sempre incollato al cannocchiale, nella serra si
udiva uno sfrigolio. Le sue rivelazioni l’avevano un po’ delusa. Che la
Lacerazione e la fondazione delle famiglie fossero state pianificate in
anticipo era un’idea spaventosa, tuttavia Ofelia continuava a non
sapere chi fosse E. D., dove si trovasse L’era dei miracoli e se si trattasse
o no dell’opera cercata da Thorn, e neppure conosceva l’identità
dell’assassino che aveva terrorizzato tante persone intorno a lei.
Ancora una volta le sembrava di avere molte più domande che
risposte.
Si stava addormentando in mezzo alle felci quando Octavio la
scosse per indicarle il cielo: l’alba si stava avvicinando. Uno per volta,
si lavarono alla meno peggio in un bagno dall’odore dubbio. Le loro
divise avrebbero avuto bisogno di un salto in lavanderia.
Il professor Wolf spense l’ultima sigaretta senza dire una parola. Si
infilò la giacchetta nera, tolse il tromboncino che bloccava la porta
della serra e li guidò attraverso i tetti fino alla scala d’emergenza dalla
quale erano saliti il giorno prima.
«Qui ci separiamo» disse. «Voi andate. Io rimango».
Strinse con la punta delle dita la mano che Octavio gli porgeva, lo
guardò scendere, poi trattenne Ofelia per la spalla.
«Vi fidate di lui?».
«Sì».
Fu la prima a sorprendersi di quella risposta spontanea. Fino a due
giorni prima considerava Octavio un nemico.
Le dita del professore si strinsero sulla sua spalla facendo stridere la
pelle dei guanti.
«È comunque un Figlio di Polluce, ripeterà alle autorità tutto quello
che ci siamo detti ieri. Se fossi in voi non mi fiderei di gente che
manipola la memoria collettiva, soprattutto ora che sapete quello che
so io».
Ofelia annuì.
«Ho un piacere da chiedervi» continuò il professor Wolf. «Me lo
dovete, giovine dama».
Ofelia annuì di nuovo.
«Conoscete un commesso del Memoriale di nome Blasius?».
Annuì per la terza volta, ma meno convinta. Era consapevole di
aver contratto un debito, ma se per sdebitarsi doveva compromettere
un amico la faccenda era diversa. Il professor Wolf, tuttavia, le parve
imbarazzato quanto lei. Si massaggiava i resti bruciacchiati della
barbetta torcendo le labbra, come se volesse masticare le parole prima
di pronunciarle.
«Potete dirgli solo... di stare attento?».
Ofelia lo guardò e subito capì. L’uomo nella vita di Blasius era colui
che in quel momento le stava davanti.
«Blasius sa?» mormorò Ofelia. «È al corrente di ciò che vi è
realmente successo?».
Il professore aggrottò le sopracciglia. Con i capelli spettinati, la
barba disfatta e l’espressione scontrosa faceva pensare più a un
animale selvatico che a un rispettabile scienziato.
«No» grugnì. «Se viene a saperlo vorrà aiutarmi, e se prova ad
aiutarmi si attirerà problemi. Credetemi, è già abbastanza iellato così.
Posso contare su di voi? Mettetelo in guardia, ma non dite una parola
riguardo a me».
Ofelia si aggrappò alla ringhiera e posò con cautela i piedi sul
primo piolo.
«Credo che Blasius avrebbe preferito sentirlo dalle vostre labbra».
Scese la scala con una lentezza da record. Per lei, coordinare i
movimenti della destra e della sinistra per vari piani era di una
difficoltà mostruosa. Arrivata nel cortile ebbe una curiosa sensazione.
Solo il giorno prima quel luogo era un’apocalisse di polvere, mentre
in quel momento la luce dell’aurora gli dava la limpidezza di un lago.
L’aria e il tempo sembravano immobili, come se non fosse mai
successo niente.
Octavio la aspettava in mezzo al cortile scrutando il suolo. Ofelia
non sarebbe stata in grado di determinare il punto in cui avevano
visto il cadavere del Senza Paura, ma comunque non ce n’era più
traccia. Le guardie di Polluce avevano fatto pulizia. Di colpo le venne
in mente il figlio del Senza Paura. L’avrebbero avvertito con le dovute
forme di quel che era successo al padre? Gli restava una famiglia?
«Andiamo» disse Octavio. «Qui non c’è più niente da vedere».
Si recarono ai moli, salirono a bordo della prima gondola in
partenza per il mare delle nuvole e, una volta in centro, presero un
tac-si per farsi portare all’imbarcadero del trenuccello. Il sole stava
sorgendo quando il convoglio decollò, ma i sedili erano già affollati
di viaggiatori.
Seduta accanto a Octavio, Ofelia lo osservò con l’angolo degli
occhiali. La frangetta gli copriva mezza faccia assorbendo nella
propria ombra le ferite del sopracciglio e del naso. L’unico occhio che
si vedeva era oppresso da una palpebra pesante per la stanchezza.
Teneva le braccia incrociate, sulla difensiva, sfregando col pollice i
gradi di apprendista virtuoso cuciti sulla manica. Ofelia sentì che
qualcosa era cambiato in lui.
«Che conti di fare?» gli domandò sottovoce.
Octavio rimase a lungo appoggiato contro il finestrino del vagone
con lo sguardo nel vuoto, poi mormorò tra i denti:
«Well... ho picchiato un uomo, ho assistito a un omicidio e sono
stato testimone di più cose vietate in una giornata che in tutta la mia
vita. Dirò la verità a mia madre dopo le lezioni. Saprà prendere la
decisione più giusta. Che ne pensi?».
Le aveva rivolto l’ultima frase con uno sguardo interrogativo.
Ofelia capì allora cosa fosse cambiato. Quel Visionario aveva sempre
visto il mondo con l’occhio del dominatore, sicuro del posto che vi
avrebbe avuto e del ruolo che vi avrebbe giocato. In quel momento,
molto semplicemente, cominciava ad avere dei dubbi.
«Penso» rispose lei dopo un attimo di riflessione, «che dovresti
decidere tu stesso la cosa che ti sembra più giusta».
Octavio la fissò con improvvisa intensità.
«Mi chiedo se non stia cominciando un po’ ad amarti».
Ofelia si tolse gli occhiali per evitare che le arrossissero sul naso. Si
sentiva sporca e puzzolente, quella dichiarazione era l’ultima cosa
che si aspettava.
«Octavio...».
«Evitiamo i discorsoni» la interruppe lui, flemmatico. «Anche se tu
fossi interessata non potrebbe esserci niente fra noi, e non solo a
causa del regolamento. Le nostre vite sono già abbastanza complicate
così. E poi» aggiunse con una punta di ironia, «sei una persona
troppo confusa per me».
Ofelia si rimise gli occhiali, e il profilo di Octavio tornò ad avere
contorni netti. Pelle e capelli scuri si stagliavano con forza sul
chiarore del vetro. Guardava dritto davanti a sé, già concentrato sul
futuro. Con un certo stupore, pensò che lo ammirava. Erano più o
meno della stessa statura, ma le sembrò molto più alto, perché era
coraggiosamente consapevole dei propri pensieri, dei propri
sentimenti e delle proprie trasgressioni.
“Troppo confusa, eh?” pensò Ofelia lasciandosi andare contro lo
schienale. Se l’era meritato.
Finalmente arrivarono all’imbarcadero della Buona Famiglia. Si
erano appena incamminati sul viale principale del conservatorio
quando gli altoparlanti a tromba delle torrette scandirono
all’unisono:
«Apprendista Eulalia, apprendista Octavio, siete attesi con la
massima urgenza nell’ufficio di lady Helena».
Si scambiarono uno sguardo teso. Passare la notte fuori era
un’infrazione passibile di sanzioni, ma mai la direttrice avrebbe fatto
perdere le lezioni a un apprendista, tranne in caso di forza maggiore.
Attraversarono il labirinto di giardini e camminamenti senza dire
una parola. Il silenzio era sottolineato dalle cicale, che al loro
passaggio smettevano di frinire. Quando costeggiarono l’anfiteatro
dei Figliocci di Helena sorpresero una folla di facce che li guardava da
dietro le alte finestre. Una convocazione era comunque più eccitante
delle lezioni radiofoniche del lunedì, e poteva forse significare due
concorrenti in meno nella corsa ai gradi.
Ofelia trattenne il fiato vedendo un aerostato ormeggiato davanti
all’ingresso dell’edificio dell’amministrazione. Sul rivestimento
bianco era dipinto un gigantesco sole dal volto umano.
«Siamo stati preceduti» commentò Octavio.
Dopo una serie di colonnati e scale arrivarono all’ufficio della
direttrice, in cui come sempre regnava una penombra che richiese a
Ofelia qualche secondo per abituarsi al brusco cambio di luminosità.
La sagoma elefantiaca di Helena troneggiava dietro la scrivania di
marmo. I numerosi bracci articolati della poltrona erano
eccezionalmente fermi. Oltre a lady Helena c’erano altre tre persone
nella stanza: una guardia familiare con l’elmetto sottobraccio, un
fotografo con le orecchie a sventola e lady Septima. Quest’ultima
quasi non batté ciglio vedendo il viso scorticato del figlio.
«La conoscenza è al servizio della pace» salutarono Octavio e Ofelia
mettendosi sull’attenti.
«La conoscenza è al servizio della pace» rispose la guardia.
La sua barba faceva pensare a un’onda lanciata verso il cielo. Ogni
filamento luccicava come argento sullo sfondo bruno della pelle.
Doveva essere un Olfattivo, a giudicare dal naso leonino che aspirava
profondamente l’aria.
«Innanzitutto faccio le mie scuse al figlio di lady Septima per il
disturbo creato da questa convocazione» disse l’uomo. «So che la
cerimonia della consegna dei gradi è imminente, e certamente non
sentite la necessità di saltare le lezioni».
“Va bene, io non conto” pensò Ofelia. Se non altro era stato dato il
la.
«Qui Octavio non è mio figlio, ma un apprendista come tutti gli
altri» assicurò lady Septima in tono indifferente. «Come io qui non
sono sua madre, ma la rappresentante ufficiale di sir Polluce.
Interrogatelo come esige il vostro dovere».
La guardia annuì e, senza altre cerimonie, posò sul marmo del
tavolo un oggetto tintinnante.
«È vostra, apprendista Octavio?».
Era la catenella che il Senza Paura gli aveva strappato. A Ofelia si
contrasse lo stomaco notando un pezzettino di carne ancora
attaccato a una delle due estremità.
«È mia, signore» confermò l’interessato.
«L’abbiamo trovata ieri nel cortile di un edificio in un quartiere di
senza-poteri, accanto al cadavere di un agitatore che stavamo
attivamente cercando da anni. È stato quell’uomo a provocarvi
queste?» domandò la guardia indicando le ferite di Octavio.
«Sì, signore, ma non sono responsabile della sua morte».
La guardia si produsse in un sorriso benevolo che proiettò sui lati i
baffi argentei.
«Nessuno lo è. Non vi preoccupate, milord, la causa del decesso
non dà adito a dubbi».
Ofelia, ricordando gli occhi fuori dalle orbite, la bocca spalancata e
il corpo contratto, si domandò cos’altro gli servisse per fargli sorgere
qualche dubbio. Il professor Wolf aveva ragione: a Babel la gente
vede solo quello che vuole vedere.
Osservò il gigantesco corpo di lady Helena dall’altra parte della
scrivania, immobile sulla poltrona, con le lunghe dita da ragno
inarcate le une contro le altre. Il suo sistema ottico era puntato sui
convenuti come un binocolo da teatro, tuttavia non sembrava
disposta ad abbandonare il ruolo di spettatrice.
«Quello che vogliamo stabilire» continuò la guardia, «è se il Senza
Paura E Quasi Senza Rimprovero si sia reso colpevole di violenza. È
seccante da dire, ma quel capopopolo godeva di una certa notorietà,
naturalmente relativa, presso gli elementi più deboli e più
influenzabili della nostra città. Non vogliamo che la morte lo
trasformi in figura eroica» tuonò gonfiando il naso dall’indignazione.
Un lampo di luce vivida squarciò per un attimo la penombra
dell’ufficio. Il fotografo dalle orecchie a sventola aveva immortalato
Octavio. Ofelia fu sicura che il giorno dopo il Giornale ufficiale
avrebbe pubblicato un primo piano delle sue stimmate.
«Nient’altro» disse la guardia rimettendosi l’elmetto d’oro. «Grazie
per la vostra collaborazione».
«Anch’io mi sono reso colpevole di violenza».
La dichiarazione di Octavio cristallizzò il tempo all’interno della
stanza. Le palpebre impassibili di lady Septima lasciarono filtrare una
scintilla. Il fotografo, che stava riponendo il suo materiale, fermò il
gesto a metà. Lady Helena mantenne un’immobilità da montagna.
Octavio ostentava una calma di facciata. Leggermente arretrata,
Ofelia vide che si stringeva le mani dietro la schiena per impedire che
tremassero. Fu sul punto di cedere all’impulso di raccontare tutto, ma
Octavio la dissuase con un’occhiata in tralice. Era una battaglia che
doveva combattere da solo.
«Dovreste aver trovato delle contusioni sul suo corpo» insisté.
«Sono i segni dei pugni che gli ho dato io».
Dopo un attimo di incertezza la guardia consultò lady Septima con
lo sguardo, quindi si arrotolò un baffo con l’indice.
«Ciò è disdicevole, indeed. Tuttavia non lo ritengo un dettaglio
abbastanza pertinente da figurare nel mio rapporto. Vi auguro una
splendida giornata».
La guardia e il fotografo fecero un inchino e uscirono dall’ufficio.
Octavio guardò la porta chiudersi alle loro spalle con un’espressione
che Ofelia non gli aveva ancora mai visto. Niente di quel che Octavio
aveva vissuto nelle ultime ventiquattr’ore l’aveva colpito altrettanto.
«Un dettaglio?» ripeté. «Non capisco, madre. Non dovrei anch’io
rispondere delle mie az...».
Lady Septima gli tolse la parola con uno sguardo.
«Qui non sono vostra madre, apprendista Octavio. E non tocca a
voi giudicare le decisioni dei rappresentanti dell’ordine. Apprendista
Eulalia, è stata vostra l’iniziativa della gitarella nel quartiere dei
senza-poteri?».
La sua voce si era fatta corrosiva come i suoi occhi. In quell’istante
Ofelia ebbe la certezza che lady Septima la odiava, la vedeva come la
straniera che aveva fatto deviare il suo perfetto figlioletto dalla retta
via. Ormai avevano un conto personale in sospeso.
«Sì».
«Avete spronato l’apprendista Octavio a venire con voi?».
«Sì».
«Avete deliberatamente provocato un incontro con il Senza Paura E
Quasi Senza Rimprovero?».
«No».
«Ma potete affermare che le probabilità di incontrarlo in quel posto
fossero pari a zero?».
Ofelia contrasse le mascelle. Lady Septima aveva un modo
insopportabile di porre le domande. Helena seguiva l’interrogatorio
in silenzio, come se non avesse niente da dire. Eppure il caso di Ofelia
ricadeva sotto la sua giurisdizione, più che sotto quella di una
rappresentante di Polluce. Doveva pensare che lo spirito di famiglia
fosse manipolabile quanto il fratello gemello?
«Non posso affermarlo in questi termini, ma non sapevo...».
«Siete consapevole che presto ci sarà la consegna dei gradi?»
continuò lady Septima senza dare a Ofelia il tempo di sviluppare la
risposta.
«Sì».
«Siete consapevole di aver penalizzato l’apprendimento del vostro
compagno, oltre ad aver messo in pericolo la sua vita?».
«S-sì».
Ofelia non era riuscita a impedire che la voce la tradisse. Ogni
parola di lady Septima le inoculava un granello in più di senso di
colpa.
«Chiedo il permesso di esporre la mia versione dei fatti» intervenne
Octavio. «Ho accompagnato l’apprendista Eulalia di mia spontanea
volontà. Abbiamo condotto un’inchiesta insieme in quanto
precorritori. Quello che abbiamo scoperto è prioritario rispetto a ciò
di cui stiamo parlando. Se ci date la possibilità di spiegarci...».
«La vostra testimonianza è già stata ascoltata» sibilò lady Septima
con un tono che non ammetteva repliche. «Apprendista Octavio,
avete l’ordine di tornare alla vostra divisione seduta stante, passando
prima dall’infermeria e dal guardaroba. State offrendo un’immagine
deplorevole del nostro istituto».
Lo sguardo del figlio sostenne a lungo quello della madre, come
due fuochi opposti. Ofelia vide la fiamma di Octavio spegnersi poco a
poco. Non aveva manifestato una tale sofferenza neanche quando gli
avevano strappato la catenella. Aveva appena perso la più preziosa
delle sue illusioni.
Uscendo sbatté la porta. Il rumore fece storcere a Helena la bocca
da orchessa.
«Milady» riprese lady Septima voltandosi verso di lei. «Poiché si
tratta di una vostra figlioccia la scelta della sanzione tocca a voi. Mi
permetto tuttavia di consigliarvi l’espulsione con effetto immediato».
«Mi oppongo!».
Le parole erano sgorgate da Ofelia insieme alla sua collera. Per la
prima volta ebbe pienamente coscienza degli artigli che
prolungavano ogni sua terminazione nervosa. Un istinto primordiale
le suggerì come avrebbe potuto servirsene per infliggere a lady
Septima lo stesso dolore che lei aveva inflitto a Octavio.
Le bastava collegare il proprio sistema nervoso al suo.
Le bastava un pensiero.
Ofelia distolse lo sguardo e fece un profondo respiro. L’attimo dopo
le dispiacque di aver avuto quella tentazione.
«Mi oppongo» ripeté con voce più controllata. «Mi rifiuto di essere
cacciata senza poter dire quello che ho da dire».
«Vi ascolto».
La voce di lady Helena possedeva una sonorità minerale, come se
l’interno del suo corpo fosse fatto dello stesso marmo del tavolo. Era
la prima volta che parlava dall’inizio di quella riunione. Le erano
bastate due parole per riaffermare la sua presenza nella stanza.
Ofelia si concentrò interamente sull’apparecchio ottico puntato
verso di lei. Doveva ignorare lady Septima: se ci teneva così tanto a
sbatterla fuori a pochi giorni dalla consegna dei gradi, evidentemente
temeva di vederla diventare aspirante, il che significava che la
riteneva capace di riuscirci. Aveva deluso Thorn su tutto il resto,
quella battaglia in suo onore era doverosa.
«Sono grata dell’opportunità che mi è stata data di entrare a far
parte della Buona Famiglia. Qui ho ricevuto una formazione di
qualità che mi ha permesso sia di affinare il mio potere familiare che
di ampliare le mie conoscenze. Mi sono sforzata di ripagare
onestamente impegnandomi nei gruppi di lettura, così come mi sono
sforzata di mostrarmi degna della fiducia che mi è stata accordata
quando sono stata chiamata a sostituire Mediana al Secretarium».
Ofelia si schiarì la voce e raddrizzò la schiena per liberare il
diaframma. Non avrebbe permesso alla sua flebile voce di avere la
meglio. Più che mai, era arrivato il momento di farsi sentire.
«Se c’è una cosa che mi è rimasta impressa del mio apprendimento
è che un precorritore non deve aspettare che l’informazione gli arrivi,
deve andare a cercarsela. È quello che ho fatto io. Ho scoperto che al
Memoriale erano state incenerite alcune edizioni uniche e ho
indagato per scoprirne la ragione. L’apprendista Octavio mi ha
aiutato. Abbiamo pensato che il professor Wolf avrebbe potuto
illuminarci su alcuni punti dell’indagine, ma non l’abbiamo trovato
in casa. In quelle circostanze siamo involontariamente capitati sul
Senza Paura E Quasi Senza Rimprovero».
Tutto ciò che Ofelia aveva detto era la pura verità, anche se aveva
taciuto le cose più importanti. Non si fidava abbastanza di lady
Septima per spingersi oltre nelle rivelazioni. Eppure, a giudicare dal
lieve sussulto delle sue palpebre, quest’ultima era sinceramente
sorpresa.
Con lentezza pachidermica lady Helena fece ruotare la poltrona.
«È vero? Sono stati bruciati dei libri? Non è contrario alla vocazione
stessa del Memoriale?».
«Non ne ero al corrente» ammise lady Septima a malincuore. «Ma
ciò non giustifica le vostre iniziative, apprendista Eulalia. Sareste
dovuta venire a dirmelo».
Ofelia fece un passo con l’unico scopo di far tintinnare le alette alle
caviglie.
«Non avevamo tutti gli elementi a disposizione. Volevamo prima
risalire alla fonte. Come ci avete insegnato voi, professoressa».
Fu una vera soddisfazione poter ritorcere contro lady Septima il suo
stesso insegnamento. Ofelia la trovò d’un tratto meno
fiammeggiante, nonostante le belle dorature dell’uniforme.
Helena disgiunse le mani dalle interminabili dita, prese una
stilografica e scrisse un appunto.
«L’apprendista Eulalia non verrà espulsa. Avrà diritto di presentarsi
all’assegnazione dei gradi al pari degli altri apprendisti e, come per
loro, verrà accettata la sua candidatura al ruolo di aspirante virtuosa.
Tuttavia» aggiunse mentre già Ofelia si accingeva a ringraziarla,
«l’orgoglio e la mancanza di discernimento che ha dimostrato in
quest’occasione sono contrari a ciò che mi aspetto dai miei
precorritori. Pertanto l’apprendista Eulalia verrà rinchiusa
nell’isolatoio fino al giorno della cerimonia. Non terminerà
l’apprendimento al conservatorio, non potrà comunicare con
nessuno e le sue sregolatezze figureranno sul fascicolo. Metterete a
frutto questo periodo per riflettere, apprendista Eulalia» concluse
Helena con voce da oltretomba. «L’isolatoio è il luogo ideale per
farlo».
Ofelia non la sentiva più. Il sangue le pulsava nelle orecchie come
il tamburo di una lavatrice. L’unica realtà di cui fu crudelmente
cosciente fu il sorriso trionfante di lady Septima.
IL LUOGO DI MEZZO

Pur non avendo mai visto l’isolatoio, Ofelia lo conosceva di fama.


Era la stanza più temuta del conservatorio, quella riservata alle teste
calde. Si diceva che una sola ora là dentro sembrasse durare una
giornata intera, e che rimanerci troppo a lungo facesse perdere la
ragione. Ofelia si era chiesta se esistesse davvero, ma non poteva più
dubitarne mentre Elizabeth la conduceva in fondo al giardino, dove
la giungla era una rete inestricabile di liane. Arrivarono di fronte alla
statua di una donna con la testa da elefante seduta a gambe
incrociate. Era così monumentale che negli anfratti della scultura
erano cresciuti alberi, riversando sulla pietra una tortuosa colata di
radici. Elizabeth salì gli scalini del piedistallo e scostò i rovi con gli
stivali portando alla luce una botola rotonda sul pavimento.
«Apri, apprendista Eulalia. È la tradizione».
Ofelia fece fare parecchi giri alla maniglia. Doveva essere stata
forgiata in una lega alchemica inossidabile, perché malgrado
l’apparente vetustà non le oppose alcuna resistenza. In compenso
sollevare la botola si rivelò complicato, visto che era grossa quanto
lei. Gli occhiali le impallidirono quando vide il pozzo buio che
scendeva per parecchi metri sotto la pietra del piedistallo.
«Devo infilarmi là dentro».
Era una constatazione, più che una domanda. Ofelia sapeva di non
avere scelta. Contestare il verdetto di uno spirito di famiglia
equivaleva a diventare fuorilegge.
Con gesto noncurante Elizabeth sganciò il paniere di frutta secca
che aveva portato. Il rumore dei vimini ebbe una strana risonanza in
fondo al pozzo.
«Laggiù troverai acqua e luce a sufficienza. Almeno così mi hanno
detto, io non ci ho mai messo piede. Verrò a prenderti alla fine della
settimana per condurti alla cerimonia. Stai attenta a razionare bene il
cibo, nessuno ti porterà niente».
Ofelia pensava che Elizabeth avrebbe aggiunto il suo solito “sto
scherzando”, ma successe che una volta tanto non era una battuta.
L’idea di ritrovarsi da sola in fondo al pozzo per vari giorni e varie
notti le fece venire un brutale attacco di claustrofobia.
«Potreste... potreste spiegare la situazione a sir Henry?».
«Non ti preoccupare per lui, apprendista. Ti sostituirà come ha
sostituito Mediana prima di te».
Ofelia si sforzò di non mostrare quanto le facessero male quelle
parole.
«Credete che abbia ancora qualche possibilità di diventare
aspirante precorritrice come voi?».
«Non credo, no».
Per quanto ci fosse abituata, quel giorno Ofelia avrebbe volentieri
fatto a meno della sua implacabile neutralità. Mentre scendeva gli
scalini del pozzo Elizabeth si chinò sul buco rimettendosi dietro le
orecchie i capelli che le si appiccicavano alla faccia.
«Ma credo in lady Helena, e tu dovresti fare altrettanto».
Dopo quella raccomandazione Elizabeth richiuse la botola. Le sue
lentiggini furono l’ultima immagine che Ofelia ebbe del mondo
esterno, così come la sua voce fu l’ultimo suono: i versi delle
scimmie, degli uccelli e degli insetti lasciarono il posto a un silenzio
di tomba. Ofelia sentì il cuore batterle in gola mentre l’angoscia
riprendeva prepotentemente il sopravvento.
Non voleva rimanere sola in quel posto.
Lottò contro l’impulso di battere sulla botola supplicando Elizabeth
di aprirle. Fece un lento e profondo respiro. Benché non proprio
profumata, l’aria era respirabile. Allentò la presa delle mani sui pioli
e, un piede dopo l’altro, finì di scendere.
Alcune lampadine di Heliopolis diffondevano una luce fredda sul
fondo del pozzo. L’isolatoio consisteva in una stanza dotata delle
comodità basiche: gabinetto, lavandino, doccia senza pareti,
armadietto dei medicinali, materasso e specchi. Molti specchi. Ogni
muro era uno specchio. Il soffitto era a specchio. Perfino il pavimento
era di specchio. Quando Ofelia si chinò a raccogliere il cestino di
frutta secca che Elizabeth aveva lasciato cadere nel pozzo il suo
movimento si moltiplicò all’infinito. Si vedeva contemporaneamente
di faccia e di schiena, in riflessi sempre più piccoli senza soluzione di
continuità. Invece che in uno spazio limitato le sembrava di trovarsi
in mezzo a un tunnel multidirezionale popolato da migliaia di altre
Ofelia alle quali non poteva sfuggire.
Non c’era telefono né periscopio. Non c’era niente con cui tenere
occupata la mente, né da leggere, né di che scrivere, nulla che potesse
riempire il vuoto e il silenzio. C’era solo lei, un’infinità di lei.
“Un luogo ideale per riflettere”.
Ofelia sedette in un angolo, tirò a sé le ginocchia e sprofondò la
faccia tra le braccia. Il tempo colò su di lei come colla. Non sapeva
che ore fossero, perché naturalmente non c’erano orologi
nell’isolatoio, ma più rimaneva prostrata e più si intorpidiva. Dopo
due notti in bianco di seguito avrebbe avuto bisogno di dormire,
invece non ci riusciva. Ogni volta che stava per assopirsi il corpo le
inviava una scarica elettrica che la faceva sussultare. Ossessionata
dallo sguardo degli innumerevoli riflessi, non osava spostarsi da
quell’angolo. Non stava comoda, ma il fetore del materasso era più
che dissuasivo.
Si chiese quando Elizabeth avesse chiuso la botola. Oggi? Ieri? Era
notte là sopra? Se almeno avesse potuto sentire il suono del gong...
Gli unici rumori erano quelli organici emessi dalle tubazioni e dalla
sua pancia.
Mordicchiando una per una le cuciture dei guanti si mise a pensare
a trecentosessanta gradi: a Dio, all’Altro, a E. D., a LUX, alla
Lacerazione, al misterioso sconosciuto che seminava terrore sulla sua
strada.
Per quanto cercasse di mettere ordine nei suoi pensieri gli specchi
dell’isolatoio la deconcentravano. Era un’attraversaspecchi, avrebbe
dovuto sentirsi nel suo elemento, ma l’angoscia la divorava. L’ultima
volta che aveva tentato di servirsi del suo potere era stata una
delusione. Aveva paura di confrontarsi di nuovo col suo riflesso, e
sapeva che il solo fatto di aver paura rendeva impossibile ogni
attraversamento.
Octavio aveva ragione. Era diventata una persona troppo confusa.
E poi dove sarebbe andata? Per quanto ne sapeva non c’erano
specchi sull’arca della Buona Famiglia. Il più vicino in cui si era
guardata stava nelle toilette del Memoriale, e non era in grado di
coprire una distanza del genere.
Si rannicchiò ancora di più. La vera domanda non era “dove
andare?”, ma “perché andare?”. Thorn non la aspettava più, aveva
messo fine alla loro collaborazione. Ofelia aveva avuto la pretesa di
servirgli su un vassoio d’argento il libro che cercava, ma nonostante
quello che era successo, nonostante quello che era venuta a sapere,
non aveva fatto passi avanti. Anzi, aveva compromesso la possibilità
di diventare aspirante.
Ancora una volta non era riuscita ad aiutare Thorn.
Sfinita, si lasciò scivolare a terra. Stesa sullo specchio gelido vide la
moltitudine dei suoi riflessi sul soffitto come strani corpi celesti. Poi
non vide più niente, i pensieri si diluirono, il sonno la raggiunse. Si
sentì sprofondare.

Quando si svegliò galleggiava in una nebbia in cui percepiva
immagini esplose, colori fluttuanti, suoni distorti, come se stesse
andando alla deriva sotto la superficie di un lago. Non provava
timore né stupore, aveva la sensazione di scivolare sulla trama
elastica dello spazio e del tempo. Conosceva quel luogo infimo e
infinito per averlo attraversato centinaia di volte senza mai essercisi
fermata. Il pavimento dell’isolatoio l’aveva inghiottita mentre
dormiva, e lei non ne era uscita. Era ovunque e in nessun luogo.
Si trovava nello iato fra gli specchi.
«Perché siete venuta a Babel?».
La voce di Thorn vibrò su Ofelia come un diapason. Non era
materialmente lì con lei, in quel luogo di mezzo, ma la domanda
aveva una consistenza reale. Erano le prime parole che le aveva detto
la sera in cui si erano rivisti. Quell’eco del passato tornava verso di lei
con l’implacabilità di un pendolo.
Perché Thorn le aveva chiesto perché? Non era evidente che era lui
l’unica risposta alla domanda?
Nell’istante in cui il pensiero prese forma capì la ragione del suo
passaggio nel luogo di mezzo. Quello spazio era il riflesso del suo
stato interiore. Né bambina né adulta, né ragazza né donna, era
rimasta incastrata nella cerniera della propria vita. Aveva aspettato da
Thorn parole e gesti che lei non aveva mai avuto per lui. In nessun
momento aveva detto “noi”. In nessun momento aveva fatto un
passo verso di lui. In nessun momento si era messa a nudo.
La verità, l’unica verità, è che era stata una vigliacca.
Quella presa di coscienza la attraversò come una breccia. Le sembrò
che fosse l’intera superficie del suo essere a creparsi da tutte le parti
come un guscio d’uovo. Le fece male, ma sapeva che era un dolore
necessario. La sofferenza scoppiò quando la sua vecchia identità andò
in frantumi.
Si sentì morire. Poteva finalmente cominciare a vivere.

Una volta, da piccola, si era divertita a correre all’indietro in
giardino per veder sfilare il mondo nell’altro senso. All’epoca il piede
era scivolato su una palla e lei si era capovolta all’indietro senza
riuscire più a distinguere l’alto dal basso.
Fu esattamente ciò che provò lasciando il luogo di mezzo.
Cadde all’indietro con una sensazione di irrealtà. La schiena sbatté
brutalmente sul pavimento. L’impatto le svuotò i polmoni, per
lunghi secondi non respirò più. Inebetita, fissò attraverso gli occhiali
il groviglio di ragnatele che scintillavano sopra di lei. Un chiarore
pallido come un raggio di luna filtrava da un orifizio al centro di un
soffitto a volta.
Forse era uscita dal luogo di mezzo, ma certamente non era tornata
nell’isolatoio.
Alzandosi si impigliò nelle ragnatele. Il posto in cui si trovava era
immerso in un nebuloso chiaroscuro. A parte il buco sul soffitto, non
si vedevano porte né finestre. Però in mezzo alla stanza c’era un
vecchio specchio che le rimandava un riflesso approssimativo. La
superficie era ricoperta da uno spesso strato di polvere, tranne nel
punto in cui Ofelia l’aveva attraversato: la polvere di quel punto
svolazzava ancora nell’aria sulla scia della sua caduta.
Dov’era? Com’era possibile che avesse attraversato uno specchio in
cui non si era mai riflessa? Andava contro tutte le leggi della fisica
animista.
Ofelia notò rapidamente che non era l’unica stranezza di quello
specchio: stava sospeso a mezz’aria, e non si trattava di uno stato di
levitazione come se ne vedevano ovunque a Babel. Avvicinandosi si
capiva che era circondato da una parete trasparente e immateriale,
almeno a giudicare dal modo in cui poteva passarci il braccio. Del
muro su cui era stato fissato restava solo un fantasma.
Dette uno sguardo circolare alla stanza, poi al soffitto da cui
entrava un raggio di luce, e di colpo capì dove si trovava: era nel
cuore del Memoriale, nel Secretarium, dentro il secondo globo che
galleggiava in assenza di gravità. Lo specchio che aveva davanti
faceva parte di uno degli ultimi piani dell’edificio originale. Era nel
punto preciso in cui l’altra metà era crollata al momento della
Lacerazione. Per una ragione o per l’altra non era caduto nel vuoto
insieme al resto, era rimasto assurdamente ancorato all’aria.
Qualcuno gli aveva fatto costruire il globo intorno per nascondere
l’anomalia. Era stato Dio? Quante persone conoscevano l’esistenza di
quello specchio sospeso?
“La camera blindata” ricordò allora. “La verità finale”.
Col guanto grattò delicatamente la polvere che si era depositata sul
vetro. Se aveva ragione, quello specchio era vecchio di parecchi
secoli. Nessuno specchio poteva vivere tanto a lungo senza perdere la
stagnatura. A cose normali non avrebbe dovuto vederci il suo riflesso.
E in effetti quella che vedeva non era la sua faccia.
La donna che le stava di fronte era bassina come lei, bruna come lei
e aveva gli stessi occhiali, ma non era lei.
Le loro labbra si mossero insieme.
«Sono Ofelia» disse Ofelia.
«Sono Eulalia» disse il riflesso.
Ofelia chiuse gli occhi, e quando li riaprì c’era di nuovo la propria
immagine. Si sbottonò i guanti, li mise in tasca e si strofinò i palmi
umidi uno contro l’altro. Non capiva cosa stesse succedendo, ma era
sicura di una cosa.
Doveva leggere quello specchio.
Mise a tacere i pensieri uno dopo l’altro soffiandoci sopra come
altrettante innumerevoli candeline. Quando si sentì pronta appoggiò
le mani contro quelle del riflesso. La prima visione fu quella di lei che
cadeva fuori dallo specchio, il che era perfettamente logico.
Poi niente andò più come previsto.
Ofelia ebbe l’impressione di farsi risucchiare dal proprio riflesso. La
memoria si rivoltò su se stessa come un guanto. Ricordi
estremamente antichi, venuti da un’altra epoca, lampeggiarono in
fondo alla sua coscienza, una reminiscenza talmente forte che Ofelia
si spaccò in due come un tempo aveva fatto l’edificio. Una metà di sé
le era improvvisamente diventata estranea.
Quella metà somigliava in tutto e per tutto alla donna che aveva
visto al posto del proprio riflesso, e stava battendo a macchina di
fronte al grande specchio all’epoca in cui c’era ancora il muro che lo
sosteneva. Ofelia guardava attraverso lei come una spettatrice di
teatro. Aveva capelli scuri e ribelli non lavati da così tanto tempo che
le si incollavano alla fronte. Le colava il naso, cosa che la costringeva
a soffiarselo con una mano continuando a scrivere a macchina con
l’altra.
«Presto» mormorò allo specchio. «Presto, ma non oggi».
Ofelia osservò i luoghi attraverso gli occhi della donna. Almeno ci
provò. Quest’ultima sembrava vederci male quanto lei, per giunta
non aveva messo gli occhiali. Nella stanza non c’era nessun altro, in
compenso c’erano fogli appallottolati su tutto il parquet.
Qualcuno bussò alla porta. Ofelia smise subito di battere a
macchina e tirò una pesante tenda per coprire interamente lo
specchio.
«Che c’è?».
La porta della camera si aprì lasciando intravedere una figura
sfocata che Ofelia riconobbe quando si avvicinò. Era il portiere di cui
aveva analizzato il registro. Come nel sogno, indossava occhialini di
ferro e un turbante il cui velo tentava di nascondere la mascella
mutilata dalla guerra. L’uomo aggrottò le sopracciglia vedendo i fogli
e i fazzoletti di cui era ingombro il pavimento. Nella sua rigidità
c’erano tracce residue del militare che era stato una volta.
«Nessuna materia riflettente» gli disse Ofelia dopo essersi
coscienziosamente soffiata il naso.
Il portiere si tolse gli occhiali con gesto disciplinato, cosa che non
impedì alle sue mani di tremare.
«Abbiamo un fottuto problema».
Parlava un dialetto del tutto sconosciuto, tuttavia Ofelia lo capì
senza la minima difficoltà. Ebbe addirittura l’educazione di
rispondergli nella sua lingua.
«Sentiamo. Cos’ha fatto ancora?».
«Ha ammazzato i nostri fottuti passeri, ecco cosa ha fatto. Non
volevo che entrasse nella voliera, ma c’è entrato lo stesso. Uno di
questi giorni giuro che l’ammazzo io».
Il portiere si guardò nervosamente alle spalle verso la porta, come
se temesse una presenza dall’altra parte.
«Abbi pazienza» sospirò Ofelia. «Imparerà a controllarsi come gli
altri».
«Non è come quei fottuti bambini, quello lì».
Il portiere sparì dal suo campo visivo. Ofelia si sfregò le palpebre
con gesto stanco. A forza di scrivere a macchina senza occhiali le
bruciavano gli occhi, e la sinusite cronica non aiutava di certo.
«Il suo ruolo è diverso, protegge la scuola».
«Anch’io proteggo questa fottuta scuola» borbottò il portiere tra le
labbra deformi. «Se quei fottuti soldati arrivano alla nostra fottuta
isola li ributterò in acqua».
Ofelia appallottolò il fazzoletto e lo mandò a raggiungere gli altri
sul pavimento strappando al portiere un grugnito esasperato.
«Sei solo un uomo» gli disse con dolcezza. «E io solo una donna. Io
e te siamo limitati, lui no. Da qui all’avvento della nuova umanità ci
proteggerà tutti. Abbi fiducia in lui».
“Abbi fiducia in lui”.
Quelle quattro parole le risuonarono dentro mentre il vecchio
portiere, i fogli, i fazzoletti, la macchina da scrivere e la stanza si
disfacevano come cerchi nell’acqua. Quando tornò nel presente era
stesa in mezzo all’isolatoio come una naufraga risputata dal mare,
congelata e allo stesso tempo bollente.
Aveva lasciato l’altro globo del Memoriale e varcato il luogo di
mezzo in senso inverso senza neanche rendersene conto.
Guardò a lungo il proprio riflesso sul pavimento intorbidito dalle
gocce di sudore che le colavano dal viso, con la pelle che fremeva
ancora del suo potere familiare.
Non si era mai sentita così diversa. Non si era mai sentita così se
stessa.
Sapeva tutto. Sapeva dov’era il libro che permetteva di diventare
pari a Dio. Sapeva chi lo proteggeva e perché. O meglio, sapeva di
sapere. Percepiva le risposte che le pulsavano nelle vene, ma ancora
non vi aveva accesso.
Si spogliò, fece la doccia, mangiò un po’ di frutta secca. Visse ogni
sensazione con un’acutezza nuova. Non si rimise i guanti: una volta
tanto aveva voglia di toccare il mondo senza fare barriera.
L’onnipresenza dei suoi riflessi tutto intorno non la disturbava più.
Quando si sentì abbastanza riposata sedette in mezzo agli specchi e
giunse le mani con forza. Stavolta doveva imparare a leggere il proprio
corpo.
Ascoltò con attenzione il flusso e riflusso del respiro. Ascoltò con
attenzione tutti i pensieri, anche i più stupidi. Ascoltò con attenzione
il silenzio dell’isolatoio, che poco a poco diventava il suo. Il tempo
sfumò.
Dimenticò se stessa per meglio ricordare.

Una cascata di luce si riversò nell’isolatoio rimbalzando sugli
specchi con l’irruenza di un fiume che portava con sé i rumori e gli
odori della giungla.
In alto si era riaperta la botola.
«Sei viva?» fece la voce flemmatica di Elizabeth.
Ofelia si alzò lentamente, abbagliata dalla luce del giorno. Un
pacchetto le atterrò fra le braccia. Era una divisa pulita.
«Preparati, apprendista. La cerimonia ci aspetta».
Ofelia annuì. Sapeva esattamente quel che le restava da fare.
LA CERIMONIA

Il Memoriale di Babel era stato preso d’assalto da una flotta di


lussuosi aerostati, tac-si volanti e gondole zefiriane. Erano ormeggiati
come immensi palloncini da fiera, decorando il cielo con una
costellazione di colori. Era stato messo in funzione un servizio
supplementare di trenuccelli, ma l’arca minore era troppo piccola per
accoglierli tutti, così ogni convoglio doveva rispettare i propri tempi
di ormeggio per non provocare incidenti.
Ofelia sbarcò da uno di essi insieme ai membri della sua divisione.
Durante il tragitto nessuno le aveva rivolto la parola, e doveva esserci
una ragione, perché gli Indovini tenevano gli occhi bassi. Forse si
faceva delle idee, ma avevano tutti l’aria delusa.
Varcarono insieme le alte porte a vetri dell’ingresso. Precorritori,
tabellioni, ingegneri, scribi, guardiani, artisti: le compagnie della
Buona Famiglia erano radunate al gran completo nel vasto atrio.
Stavano in ranghi così serrati che le divise sembravano cucite le une
alle altre a formare un’unica e immensa uniforme blu notte con le
decorazioni d’argento. Apprendisti e aspiranti virtuosi erano di fronte
al palco su cui avevano preso posto, giganteschi, gli spiriti di famiglia
gemelli. Helena era tanto stranamente sgradevole, col rettificatore
ottico e la crinolina su ruote, quanto Polluce era splendido.
Quest’ultimo distribuiva benevole strizzatine d’occhio alle facce
rivolte verso di lui senza avere palesemente la più pallida idea di chi
fosse chi.
Ofelia era frastornata dalla folla che aveva occupato ogni galleria,
ogni transcendium, ogni suspensala, ogni pezzetto di superficie su cui
fosse possibile posare un paio di babbucce. Dopo la parentesi di
silenzio dell’isolatoio il contrasto era sconcertante. Ovunque
puntasse gli occhiali c’era gente: davanti, dietro, dritta e capovolta.
Gli eruditi delle accademie vicine formavano da soli un mare di toghe
universitarie. L’eco dei loro mormorii faceva tremare i vetri della
cupola. Ofelia si domandò se l’equilibrio architettonico che teneva
miracolosamente il Memoriale a cavalcioni sul vuoto non sarebbe
precipitato con quella sovrabbondanza di visitatori.
Tenuta a mantenere la posizione all’interno della propria fila, cercò
con discrezione Thorn tra i Lord di LUX allineati dietro gli spiriti di
famiglia. Non lo vide, in compenso individuò lady Septima che
teneva d’occhio l’orologio della statua-automa come se aspettasse
l’arrivo di qualcuno.
Sul palco c’era una tribuna d’oro i cui microfoni attendevano
l’oratore.
Ofelia incrociò lo sguardo di Octavio nella divisione dei Figli di
Polluce. Era la prima volta che lo vedeva dal giorno della
convocazione. Aveva qualche punto di sutura al sopracciglio e alla
narice, ferite tuttavia meno visibili di quelle interne. Il volto ombroso
esprimeva la lotta senza quartiere che si svolgeva dentro di lui.
Ignorava le attestazioni di solidarietà dei membri della sua divisione,
che cercavano di adularlo fino all’ultimo minuto nella speranza che
si ricordasse di loro il giorno in cui sarebbe diventato Lord. Non c’era
dubbio che Octavio sarebbe diventato aspirante virtuoso, ma
sembrava che non ne avesse più tanta voglia.
Quanto a Ofelia, voleva quei galloni. Anche se le probabilità di
ottenerli erano infinitesimali, il suo desiderio più ardente era
diventare aspirante sotto gli occhi di Thorn. Guardò il Secretarium
che galleggiava come un pianeta al disopra delle loro teste. Sarebbe
venuto?
A un certo punto ebbe la sensazione di essere osservata.
Non era un effetto dell’ansia, era come se qualcosa di appiccicoso le
si incollasse alla pelle. In mezzo alla folla c’era qualcuno concentrato
su di lei e lei soltanto, qualcuno che la spiava nell’ombra da giorni,
settimane, forse anche di più. Non lo vedeva mai, ma aveva una
consapevolezza sempre più acuta della sua esistenza.
Chi era?
Colse un movimento nel gruppo dei memorialisti venuti ad
assistere alla cerimonia. Blasius le rivolgeva grandi cenni di
incoraggiamento. Gli sorrise, poi si morse le labbra quando lui dette
accidentalmente uno schiaffo a un vicino. In tutto ciò non era
riuscita a trasmettergli il messaggio del professor Wolf.
Tra i membri del personale del Memoriale gli automi erano in
prima fila e stavano già applaudendo con cacofonia metallica. Il
vecchio spazzino non c’era. “Perché quelli che finiscono per
governare la città sono i figli di papà marci e viziati come voi,
individui che preferiscono assumere macchine anziché dare un
lavoro agli onesti cittadini”. Il Senza Paura non era certo un
angioletto, ma Ofelia non poteva fare a meno di pensare che con lui
si fosse spenta una voce necessaria a Babel.
Invece, se c’era qualcuno che non brillava per la propria assenza era
Lazarus. Seduto in un palco privato sorrideva con modestia ai
fotografi che lo bombardavano di lampi chimici. La sua redingote di
raso bianco e gli scintillanti occhiali rosa riflettevano tutte le luci
dell’ambiente. Ofelia si augurò che, da dove si trovava, non la
riconoscesse. Ambroise non era al suo fianco.
Ambroise...
Ofelia sapeva ormai con assoluta certezza che le loro traiettorie si
sarebbero incrociate presto, molto presto.
Cominciava a domandarsi che cosa stessero aspettando tutti
quando il rumore di un motore sovrastò i mormorii. Tutte le teste si
voltarono come banderuole verso l’ingresso principale nel momento
in cui, con gran stupore di Ofelia, un aereo entrò dalle alte porte a
vetri. Era un biplano che sembrava uscito dritto dritto da un museo
del vecchio mondo! Descrisse una lunga virata intorno al globo del
Secretarium sfiorando talmente la folla da sollevare grida e turbanti.
Ofelia si resse gli occhiali per vedere meglio: due persone sedevano
con disinvoltura tra le ali del biplano. Il clamore riecheggiò per tutto
il Memoriale quando caddero nel vuoto mentre l’aereo volteggiava
sotto l’immensa vetrata della cupola. Si aprirono due paracaduti. Gli
acrobati scesero lentamente il centinaio di metri che li separava dal
suolo in mezzo a uno scroscio di applausi. Dopo un ultimo giro
l’aereo se ne andò dall’ingresso così com’era entrato, obbligando gli
apprendisti ad appiattirsi nell’atrio. Con i capelli arruffati, Ofelia si
rialzò pensando che era la cosa più stupidamente pericolosa che
avesse mai visto.
I due paracadutisti manovrarono in modo da atterrare l’una nelle
braccia dell’altro al centro del tappeto porporino del palco. Si
baciarono con foga, come se fossero soli al mondo, poi si tolsero i
caschi da aviatore con un gesto teatrale che raddoppiò gli applausi
nel Memoriale. Nessuno si mostrò scioccato dal loro esibizionismo.
Ofelia non era abbastanza vicina al palco per vederli bene, ma fu lo
stesso affascinata dall’oro con cui erano dipinti pelle e capelli dei due.
Il vecchio gong suonò per ristabilire la calma.
La coppia salì mano nella mano la scaletta della tribuna. Le trombe
degli altoparlanti diffusero le loro voci come se fosse una.
«La conoscenza è al servizio della pace».
«La conoscenza è al servizio della pace» risposero in coro tutte le
persone presenti nel Memoriale.
In quell’attimo Ofelia capì che gli strani volatili erano i
Genealogisti in persona. Corrispondevano poco all’idea che si era
fatta di loro. A ben guardare non erano poi così giovani, ma avevano
un portamento sfavillante quanto il loro trucco. Si sentivano due
astri, e in effetti il loro fulgore aveva del tutto eclissato Helena,
Polluce e tutti i Lord presenti, come se fossero loro i veri spiriti di
famiglia di Babel. La stessa lady Septima li divorava con gli occhi con
una venerazione che Ofelia non le aveva mai visto prima. Quei tizi
non volevano diventare pari a Dio, si consideravano già tali.
Alleandosi con loro, Thorn stava davvero giocando col fuoco.
«Oggi è un grande giorno per la nostra città!» dichiarò nel
microfono la voce sensuale della donna. «Celebriamo un doppio
avvenimento: un nuovo catalogo e nuovi virtuosi».
«Stiamo assistendo alla riconciliazione tra passato e futuro»
continuò l’uomo con un sincronismo talmente perfetto da far
pensare che fosse il prolungamento naturale della sua compagna. «La
modernizzazione delle tecniche di consultazione si è messa al servizio
del nostro ancestrale patrimonio culturale. L’essere umano e la
macchina» affermò mentre la Genealogista indicava gli automi con
gesto significativo, «hanno raggiunto al Memoriale un livello di
collaborazione mai eguagliato. Dobbiamo estendere questo modello
all’intera Babel!».
«Per questo abbiamo bisogno di cittadini illuminati e competenti»
proseguì la donna, stavolta accarezzando con lo sguardo le file delle
compagnie dei virtuosi. «Abbiamo bisogno di cittadini del calibro del
professor Lazarus, che oggi ci onora della sua presenza e che un
tempo è stato uno di voi. Abbiamo bisogno di cittadini come voi,
Figlioccia di Helena!» concluse fermando il proprio sguardo su
Elizabeth. «Il vostro lavoro sulla banca dati è stato più che notevole.
Avvicinatevi! Venite a prendere il terzo grado che farà per sempre di
voi una cittadina virtuosa di Babel!».
In quell’invito c’era una specie di compiacimento che disturbò un
po’ Ofelia.
Notò che i Genealogisti non avevano accennato a Thorn nei loro
discorsi, eppure era stato il centro nevralgico del progetto. L’avevano
fatto per proteggere la sua copertura in quanto sir Henry o perché
non aveva trovato l’unico libro che importava loro?
Alzò gli occhiali verso il palco di Lazarus mentre quest’ultimo
ordinava al maggiordomo meccanico di fotografare la scena. Se
avessero saputo che lei sapeva...
«Grazie, precorritrice!» continuarono i Genealogisti dopo che
Helena ebbe consegnato a Elizabeth i galloni d’argento. «Siete la
dimostrazione che Babel è la città ideale in cui i discendenti dei
ventuno spiriti di famiglia e i non discendenti possono lavorare
insieme per il migliore dei mondi possibili! In segno di gratitudine
vogliate accettare questo premio d’eccellenza. Venite, Figlioccia di
Helena, venite da noi!».
Elizabeth salì la scaletta della tribuna dorata in cui i Genealogisti,
ancora più dorati, le porsero un trofeo anch’esso dorato. Presa a
tenaglia dalla coppia, Elizabeth si aggrappò con entrambe le mani al
suo premio. Il suo lungo corpo piatto sembrava volersi fare ancora
più stretto, perdere ogni rilievo, sfuggire alle migliaia di sguardi
puntati su di lei. Non era la prima volta che Ofelia sorprendeva una
fragilità dietro la maschera di indifferenza di Elizabeth. Si sentì a
disagio per lei quando i Genealogisti la spinsero delicatamente, ma
con fermezza, verso il microfono.
«Mmm? Oh, io... Ci serviva solo un sistema di gestione... un
linguaggio normalizzato... un algoritmo per le istruzioni... questo
genere di cose. Alla fine è un semplice programma di consultazione,
un po’ come... come una memoria. La memoria di noi tutti. La cosa
più importante sono i dati in sé. Non avrei concluso niente senza i
gruppi di lettura e senza sir Hen...».
«Ancora brava, cittadina!» si congratularono i Genealogisti con un
caloroso sorriso. «Potete tornare al vostro posto».
Allora non era stata una dimenticanza, pensò Ofelia mentre
Elizabeth scendeva la scaletta della tribuna nascondendosi dietro il
trofeo. Thorn era stato deliberatamente messo da parte. Ancora una
volta lo cercò con lo sguardo nella folla del Memoriale senza riuscire
a localizzarlo.
«Procederemo ora alla distribuzione degli altri gradi. Ahimè, tra
tutti gli apprendisti virtuosi qui presenti, rari saranno gli eletti. La
tradizione esige che un solo Figlio di Polluce e un solo Figlioccio di
Helena per compagnia vengano promossi aspiranti, e credeteci, la
scelta non è sempre stata facile. Ogni dossier è stato esaminato con la
massima attenzione dai Lord di LUX, oltre ovviamente che da lady
Helena e sir Polluce. Vogliate venire a ritirare il diploma quando il
vostro nome sarà chiamato. Compagnia degli scribi: Cornelia ed
Erasmus!».
Due apprendisti uscirono dai ranghi e si diressero verso il palco. I
loro volti radiosi erano un contrasto stridente con le espressioni
invidiose dei compagni che si costringevano ad applaudirli in punta
di dita.
Man mano che i Genealogisti chiamavano gli apprendisti la
tensione si faceva strada in ogni singolo muscolo di Ofelia. Ecco, il
momento decisivo era alfine arrivato, di lì a poco sarebbe diventata
aspirante, e avrebbe potuto continuare a farsi vedere pubblicamente
al fianco di Thorn, o sarebbe tornata a essere un’anonima, e tutte le
porte di Babel le sarebbero state chiuse.
Osservò uno dopo l’altro i compagni con cui aveva condiviso
l’intimità negli ultimi mesi. Zen era talmente ansiosa che sul suo
corpo da bambola orientale la divisa continuava a restringersi e
allargarsi. Quanto agli Indovini, continuavano a fissarsi la punta degli
stivali con aria cupa. Conoscevano già il risultato? Ofelia non li
avrebbe più rivisti, ed ebbe quasi una stretta al cuore realizzando che
nessuno di loro le sarebbe mancato. Il suo unico vero pensiero fu per
Mediana, che aveva lasciato rannicchiata su quella panchina davanti
alle vetrate dell’osservatorio delle Deviazioni. Nonostante i suoi
difetti, l’Indovina avrebbe dovuto essere lì con loro.
«Compagnia dei precorritori» chiamarono finalmente i
Genealogisti. «Octavio e Zen!».
A quell’annuncio Ofelia non batté ciglio. Eppure ebbe la sensazione
che l’intera coscienza le fosse scesa in fondo al corpo. Vide se stessa,
come da lontano, voltare la testa verso Zen che soffocava un grido di
sorpresa. Vide se stessa, come da lontano, applaudirla insieme agli
altri. Vide se stessa, come da lontano, seguirla con lo sguardo mentre
saliva timidamente sul palco insieme a Octavio per ritirare i galloni.
Zen era una donna seria e competente. Nel corso dei mesi non
aveva cessato di affinare il proprio potere familiare. La sua capacità di
miniaturizzare e sminiaturizzare documenti delicati senza mai
danneggiarli avrebbe sicuramente permesso al Memoriale di
ottimizzare lo stoccaggio e la circolazione delle informazioni.
Meritava la promozione.
Allora perché Ofelia non accettava la sconfitta? Perché il sorriso in
tralice di lady Septima sul palco la metteva su tutte le furie?
Perché Zen non era una vera precorritrice, perché non aveva una
reale curiosità, perché non era animata dalla sete di verità e
soprattutto, soprattutto, perché non aveva bisogno di quei gradi
come ne aveva bisogno Ofelia.
“Che ne so?” si domandò subito dopo, colpita dai propri pensieri.
“La conosco appena, non ci siamo mai davvero parlate”.
Per un attimo Ofelia si immaginò sul palco al posto di Zen come se
fossero state i riflessi invertiti di un’unica persona. Allora si guardò gli
stivali come stavano facendo gli Indovini accanto a lei. Non si
vergognava più soltanto di aver fallito, si vergognava di essersi
lasciata contaminare da quello spirito competitivo che li aveva spinti
a odiarsi l’un l’altro. Se l’isolatoio l’aveva aiutata a crescere, non
l’aveva certamente fatto perché diventasse quel tipo di adulta. In un
certo senso era contenta che Thorn non fosse lì a vederla.
Applaudì Zen, stavolta con sincerità. Pazienza. Esistevano infiniti
futuri possibili, stava a lei scegliersene un altro.
«Congratulazioni ai nuovi virtuosi!» esclamarono i Genealogisti
una volta consegnato l’ultimo diploma. «Quanto agli altri, forse non
indosserete più la prestigiosa divisa, ma essa farà sempre parte di voi
attraverso il vostro saper fare e far sapere. La conoscenza è al servizio
della pace!».
Tutto il pubblico, all’unisono, cantò l’inno di Babel a voce spiegata
portandosi il pugno sul petto. Poi cominciò la lenta processione degli
apprendisti respinti che dovevano restituire le insegne ai piedi di
Helena e Polluce. Ofelia si unì al movimento del corteo. Salì sul palco
come tanti altri prima di lei e, giunta di fronte all’immensa crinolina
di Helena, si inginocchiò per staccarsi le alette d’argento dagli stivali.
«Grazie» disse.
Di tutti gli spiriti di famiglia che aveva incontrato fino a quel
momento nessuno le aveva ispirato tanto rispetto quanto
quell’orchessa col fisico da incubo. Le sarebbe piaciuto un suo ultimo
sguardo, anche se passato al setaccio di un apparecchio ottico
terribilmente arzigogolato, ma Helena rimase di marmo quando le
alette di Ofelia tintinnarono sul mucchio delle insegne.
Anche lady Septima fece finta di non notarla. La scintilla tra le sue
palpebre tradiva tuttavia trionfo allo stato puro. Ofelia non la
ringraziò.
Sulla tribuna la coppia dei Genealogisti si disinteressava totalmente
di quel che succedeva sul palco. Avevano spento i microfoni e si
scambiavano mormorii avvicinando talmente le labbra che sembrava
si baciassero, intrecciando i lunghi capelli così come intrecciavano le
mani. La passione che irradiava dai loro corpi dipinti d’oro ne
trasformava i volti maturi. Ofelia non poté fare a meno di trovarli
affascinanti. Che fossero o no pari a Dio, portavano già in se stessi
una pulsione immortale.
«Apprendista Eulalia?».
Ofelia si girò verso Octavio che la aspettava in fondo alla scala.
Aveva rischiato di non sentirlo per colpa della quattordicesima strofa
dell’inno familiare di Babel.
«Non sono più apprendista, aspirante Octavio».
«Scusa, mi è venuto istintivo».
Sembrava talmente a disagio che Ofelia si rilassò un po’ e indicò i
nuovi galloni d’argento sulla sua manica che lui grattava come se gli
prudessero.
«Congratulazioni. Te lo meriti».
«È quel che mi dicono tutti» mormorò Octavio guardando da
un’altra parte. «Ma quando lo dici tu sono quasi tentato di crederci.
Puoi venire un secondo con me, per piacere?».
Senza darle il tempo di rispondere attraversò l’atrio fendendo la
folla degli apprendisti. Per quanto si aiutasse coi gomiti, Ofelia fu sul
punto di perderlo. Avrebbe preferito rimanere lì davanti per Thorn,
sempre che la stesse cercando, ma aveva l’impressione che Octavio
volesse invece sottrarsi al superpotente sguardo della madre, rimasta
sul palco.
Ofelia sollevò le sopracciglia quando lo vide salire sul transcendium
settentrionale ignorando le mani che si tendevano verso di lui per
complimentarsi.
Octavio prese dalla tasca una chiave che lei riconobbe subito.
Appena la infilò nella colonnina la passerella del Secretarium si
allungò.
«Sbrighiamoci» disse tra i denti. «Sir Henry vuole vederti da sola.
Data la quantità di gente che c’è oggi non vorrei rischiare che
qualcuno si autoinviti».
Ofelia non aveva sentito la fine della frase. La sua mente era
rimasta ferma a “sir Henry vuole vederti da sola”. Dovette
concentrarsi per tornare alla voce di Octavio che camminava davanti
a lei sulla passerella.
«Mia madre non ha voluto sentire ragioni. Non demorde. Quello
che è successo a miss Silence, a Mediana e al Senza Paura è solo una
serie di incidenti. Quanto alla testimonianza del professor Wolf, sono
vaneggiamenti. Lo sostiene con una tale feroce determinazione che
ho quasi pensato... è terribile da dire... ho quasi pensato che mi
nascondesse qualcosa. Ma la cosa peggiore, temo, è che crede
realmente in quello che dice. È così ossessionata dalla perfezione
della nostra città che, semplicemente, non può concepire che la
realtà sia diversa. È come per mia sorella» concluse Octavio in un
soffio. «È per questo che ho deciso di raccontare tutto a sir Henry.
Credo che almeno lui mi abbia preso sul serio. Mi ha dato la sua
chiave perché ti aprissi il Secretarium dopo la cerimonia. Immagino
che voglia ascoltare la tua versione dei fatti».
Ofelia aprì la porta blindata del globo terrestre. Così Thorn sapeva
tutto. Tutto tranne l’essenziale.
«Buona fortuna» disse. «Sono sicura che farai delle tue alette un uso
migliore di quanto tu non creda».
Dopo un’esitazione piena di rigidità Octavio le strinse la mano.
«Anche tu meritavi i gradi, Eulalia. Non ti dico addio. Ho motivo di
pensare che ci rivedremo».
Girò i tacchi con un brusco tintinnio di alette e se ne andò con un
passo affrettato che risuonò per tutta la passerella. Nella mano di
Ofelia c’era la chiave del Secretarium, ma anche un foglietto piegato
in quattro.
Sulla carta un messaggio scritto piuttosto male.
Passate a trovarmi, voi e le vostre mani, quando ne avete l’occasione.
Helena.
LE PAROLE

Ofelia attraversò il cortile interno del Secretarium con la certezza


che lo stava calpestando più o meno per l’ultima volta. I
festeggiamenti della cerimonia arrivavano lì dentro con una
risonanza squillante, come il ritornello di un vecchio giradischi. Alzò
lo sguardo verso il globo del vecchio mondo che galleggiava al centro
del pozzo di luce. Era la replica esatta di quello che lo conteneva,
eppure il segreto che nascondeva superava quello di tutte le
collezioni messe insieme.
Uno specchio sospeso.
Uno specchio cristallizzato tra due epoche.
Uno specchio testimone di una storia primordiale.
Ofelia continuava a non capire come fosse riuscita a effettuare un
trasferimento del genere, ma era grata a quell’oggetto per tutto ciò
che le aveva insegnato.
Salì sul transcendium più vicino. I battiti accelerati nel suo petto si
mischiarono ai ticchettii dei cilindri della banca dati.
“Sir Henry vuole vederti da sola”.
Batté due colpetti alla porta prima di entrare nella sala
dell’Ordinatore. Quando sbatté contro una piramide di scatole di
cartone si domandò se non avesse sbagliato stanza. Nel locale
regnava una penombra tremolante di cui Ofelia capì la natura
quando un fascio di luce la colpì in mezzo agli occhiali: posato su un
panchetto, un proiettore riproduceva immagini spettrali su una delle
pareti. L’apparecchio cambiava diapositiva ogni dieci secondi con
uno scatto meccanico. Erano tutti ingrandimenti di testi stampati.
«Non rimanete nel cono di luce».
La voce di Thorn si era fatta strada tra le vertiginose pile di scatole
dal fondo della sala, nel punto in cui le ombre erano più fitte. Il
lungo corpo spigoloso, contorto come fil di ferro, era inerpicato sullo
sgabello e chino sul visore dei microfilm. La lente binoculare
dell’apparecchio gli inghiottiva gli occhi, che sollevava ogni dieci
secondi con puntualità astronomica per dare uno sguardo alla
proiezione di un altro documento. Millimetro dopo millimetro, le sue
dita giravano con applicazione i pomelli rotanti che facevano sfilare
il nastro della bobina sotto il vetro del visore.
«Prendete una scatola» aggiunse senza interrompersi.
Non era propriamente una frase affettuosa, eppure Ofelia sentì
un’umidità incontrollabile inondarle occhi, naso e gola. Si rese conto
di colpo quanto Thorn l’avesse spaventata respingendola e quanto
rivederlo la tranquillizzasse. Tirò su col naso facendo del suo meglio
per attutire il rumore con la manica della divisa, poi aprì una scatola
a caso tra le decine di cui era ingombra la sala. Era pieno fino all’orlo
di bobine di microfilm che avevano ciascuna una piccola etichetta
slavata.
«Se riuscite a decifrare una data, mettete da parte i più vecchi» si
raccomandò Thorn.
Con gesti di una precisione chirurgica sostituì la bobina nel visore
con un’altra. Ofelia avrebbe apprezzato vederlo prendere una pausa,
ma sembrava più che mai ossessionato dal tempo. La lampadina del
visore faceva luccicare l’argento della barba che stava cominciando a
invadergli le guance. Per quanto fosse all’altro capo della stanza
Ofelia percepiva l’energia bruta che emanava da lui come un campo
elettrico. Da quanto tempo era seduto su quello sgabello? Si era
almeno accorto che proprio sotto il Secretarium si era appena svolta
la consegna dei gradi?
Thorn aggrottò le sopracciglia quando, alzando lo sguardo su una
nuova diapositiva, constatò che Ofelia non aveva ancora cominciato
a selezionare i microfilm.
«Sono al corrente del vostro incontro con il Senza Paura E Quasi
Senza Rimprovero, della vostra edificante conversazione con il
professor Wolf e delle vostre ricerche sui libri di E. D. distrutti da miss
Silence» disse d’un fiato. «Una pista eccellente. Se ne avessimo
parlato l’altra sera, invece di scaldarci, avremmo guadagnato tempo. I
microdocumenti che vedete lì sono stati realizzati in occasione
dell’Esposizione interfamiliare di sessant’anni fa» spiegò rituffando
gli occhi nella lente binoculare. «Da allora non sono mai stati
ordinati. È ragionevole supporre che una copia dei libri di E. D. si
trovi in una di quelle scatole...».
«Non sarò virtuosa» lo interruppe Ofelia.
In quel momento se ne infischiava altamente dei libri di E. D.:
niente era più urgente che avere lì e subito una vera conversazione
con Thorn.
«Lo immaginavo».
Le aveva risposto senza sollevare gli occhi dal visore e senza
smettere di far sfilare la bobina.
«Ho dato parere sfavorevole al vostro passaggio di grado» continuò
in tono indaffarato. «Presumo che abbia avuto il suo peso nella
valutazione».
«Cosa avete fatto?» balbettò Ofelia. «Ma io credevo che voleste...».
«Ho cambiato idea. Ultimamente mi è sembrato che i Genealogisti
si interessassero un po’ troppo da vicino al futuro dei precorritori.
Non avrei dovuto spingervi a ottenere la promozione. La vostra
copertura non avrebbe retto a lungo con loro».
«Allora avreste potuto...».
«Dirvelo prima?» la anticipò Thorn. «Non eravate molto
raggiungibile negli ultimi giorni».
Ofelia tacque. Dentro di lei era un tale ribollire di emozioni che
non riusciva a capire se provasse un immenso sollievo o una
spaventosa delusione.
Fece un profondo respiro.
«C’è un’altra cosa che devo dirvi. Che avrei dovuto dirvi prima, in
realtà».
«Potrà certamente aspettare ancora un po’» mormorò lui tra i denti.
«Al ritmo di una diapositiva ogni dieci secondi e di un microfilm
ogni quattro minuti, prima dell’alba avrò trovato quello che cerco».
Così dicendo cambiò la bobina nel visore e riportò gli occhi sulla
lente binoculare.
Ofelia attraversò la sala stando attenta a non rovesciare scatole, il
che non era facilissimo. Thorn era così assorto nei microfilm che non
la notò quando si avvicinò a lui. In mancanza di meglio, lei
contemplò l’immensa schiena curva che Thorn si ostinava a darle.
Era giunta alla distanza di un braccio. L’ultima volta che aveva
cercato di superare quell’abisso Thorn le aveva rivolto contro gli
artigli.
Sollevò timidamente la mano verso la spalla il cui osso si muoveva
sotto la camicia ogni volta che lui girava un bottone. Voleva ottenere
tutta l’attenzione di Thorn mentre liberava le parole che troppo a
lungo le erano rimaste dentro.
«Anch’io vi amo».
Sobbalzò. Thorn si era voltato con la velocità del fulmine per
bloccarle il polso. La sua reazione fu così brutale e il bagliore dei suoi
occhi così duro che Ofelia si aspettò di essere nuovamente respinta.
Invece, con un movimento contrario imprevedibile, la tirò a sé. Lo
sgabello si rovesciò. Ofelia ebbe la sensazione di sprofondare con
tutto il suo peso fra le costole di Thorn quando caddero insieme con
un fracasso d’acciaio provocando una valanga di scatole. Il visore finì
in mille pezzi accanto a loro sul parquet.
Era la caduta più spettacolare e incomprensibile che le fosse mai
capitata. Le orecchie le ronzavano come alveari. La montatura degli
occhiali le feriva la pelle. Non vedeva più niente, respirava a stento.
Quando si rese conto che stava schiacciando Thorn provò a spostarsi
senza riuscirci. Era imprigionata fra le sue braccia con tale fermezza
che non distingueva più i battiti dei loro cuori.
La barba ispida di Thorn le entrò nei capelli mentre le diceva:
«Niente gesti bruschi».
L’avvertimento suonava un po’ assurdo dopo il modo in cui li
aveva fatti cascare entrambi. La morsa delle braccia sul corpo di
Ofelia si allentò muscolo dopo muscolo. Per raddrizzarsi fu obbligata
a fare leva sullo stomaco di Thorn. Mezzo crollato sul parquet, con la
schiena contro uno scaffale, lui la teneva d’occhio con estrema
tensione, come se si aspettasse di vederla causare una catastrofe.
«Non fatelo mai più» disse calcando la voce su ogni sillaba. «Non
prendetemi mai più di sorpresa. Avete capito?».
Ofelia era troppo contratta per rispondergli. No, non aveva capito.
Arrivò a chiedersi se avesse sentito la dichiarazione che gli aveva
fatto.
Andò in ansia vedendo i pezzi di metallo sul parquet. Dell’armatura
di Thorn restava ben poco.
«Niente che non si possa riparare» commentò lui. «Ho un po’ di
attrezzi in camera. Invece quello è più grave» aggiunse dando un
breve sguardo al visore dei microfilm. «Dovrò procurarmene un
altro».
«Non credo che sia una priorità» disse Ofelia, stizzita.
Si morse la lingua quando Thorn posò la bocca sulla sua. Lì per lì
non capì più niente. Sentì la barba pizzicarle il mento, l’odore di
disinfettante darle alla testa, ma l’unico pensiero che riuscì a
formulare, stupido ed evidente, fu che aveva uno stivale piantato
nella gamba. Provò a farsi indietro, ma Thorn glielo impedì. Le prese
la faccia con entrambe le mani infilandole le dita nei capelli e
facendo leva sulla sua nuca con una tale furia che tutti e due persero
l’equilibrio. Lo scaffale rovesciò su di loro una pioggia di documenti.
Poi, col fiato corto, Thorn si staccò e puntò uno sguardo d’acciaio nei
suoi occhiali.
«Vi avverto. A proposito di quel che avete detto non vi permetterò
di avere ripensamenti».
La sua voce suonava aspra, ma nell’autorità delle parole c’era come
un’incrinatura. Ofelia sentiva il battito accelerato del polso nelle
mani che lui le teneva goffamente sulle guance. Doveva riconoscere
che anche il proprio cuore faceva l’altalena. Thorn era l’uomo più
sconcertante che avesse mai conosciuto, ma la faceva sentire
incredibilmente viva.
«Vi amo» ripeté lei inflessibile. «È quello che avrei dovuto
rispondervi quando mi avete chiesto perché ero venuta a Babel. È
quello che avrei dovuto rispondervi ogni volta che volevate sapere
cos’avevo da dirvi. Certo, desidero penetrare i misteri di Dio e
riprendere il controllo sulla mia vita, ma... giustappunto voi fate
parte della mia vita. Vi ho dato dell’egoista senza mettermi mai nei
vostri panni. Vi chiedo scusa».
Ofelia avrebbe voluto mostrarsi granitica, ma sentì la propria voce
tradirla sulle ultime parole. Thorn fissò la lacrima che gli era rotolata
sul pollice. Sgranava talmente gli occhi che la cicatrice non la finiva
più di allungarsi.
«Devo insistere» borbottò consolidando la presa delle dita sul suo
viso. «Non avvicinatevi mai più alle mie spalle o negli angoli morti
del mio campo visivo, non fate movimenti che non possa vedere, o
se lo fate avvertitemi ad alta voce».
Il proiettore delle diapositive continuava a produrre i suoi sporadici
lampi. Ogni volta Ofelia vedeva Thorn sotto una nuova luce: il suo
indietreggiare, il suo farsi da parte, la sua esistenza reclusa, la distanza
che manteneva scrupolosamente tra sé e il resto del mondo.
«Non avete più il controllo dei vostri artigli?».
Thorn strinse labbra e narici. Tutta la sua faccia sembrava essersi
ristretta di colpo.
«Posso trattenerli se non vi percepiscono come una minaccia, ma
farete bene a osservare le mie raccomandazioni per evitare di
scatenare riflessi di difesa. È molto semplice, non potete permettervi
di essere sbadata con me».
«Come è successo?» balbettò Ofelia. «L’inoculazione del mio
animismo ha forse creato un’instabilità nel vostro potere familiare?».
Le sopracciglia di Thorn fremettero.
«La cosa vi mette a disagio?».
In quel momento Ofelia capì che per lui quella perdita di controllo
era più umiliante dell’handicap fisico. L’altra volta Thorn non aveva
attivato deliberatamente gli artigli contro di lei, non se n’era
nemmeno accorto.
Ofelia si ripromise di non dirglielo mai.
«No» rispose guardandolo dritto negli occhi. «Adesso che lo so
starò attenta».
Thorn la fissò con un’intensità quasi brutale. Ofelia ebbe la
dolorosa e acuta consapevolezza del vuoto che da tre anni la scavava
dall’interno, e cominciò a tremare. Non perché avesse paura, ma
perché non aveva più paura. Era un tremito che proveniva dalle
radici stesse del suo essere.
La pressione delle dita di Thorn sui suoi capelli si fece più forte, poi
si allentò di colpo quando lui lasciò ricadere le mani.
Thorn si schiarì la voce.
«Voi... La scatola degli attrezzi è sotto il letto di camera mia, potete
portarmela? Devo trovare un altro visore di microfilm e rimettermi al
lavoro» disse con una smorfia cercando di piegare l’articolazione del
ginocchio, «ma per questo ho bisogno della gamba».
Ciò che di più egocentrico c’era in Ofelia si ribellò.
«È davvero così urgente?».
Per la prima volta da un’eternità colse sulle labbra di Thorn quel
leggero trasalimento che non era mai riuscita a interpretare. Stupita,
lo vide prendere il vecchio orologio da taschino, che aprì e richiuse il
coperchio spontaneamente per indicargli l’ora.
«Lo è. Anche più che urgente. Ho tempo fino alla fine dei
festeggiamenti per trovare il libro che mi hanno chiesto i
Genealogisti, dopo di che, se non ho niente in mano faranno sparire
sir Henry dalla circolazione. Mi portate la scatola degli attrezzi, per
piacere?» disse di nuovo rimettendosi in tasca l’orologio.
Ofelia lo fissò incredula.
«Faranno sparire sir Henry dalla circolazione» ripeté. «Sir Henry
siete voi».
«È solo un’identità creata dai Genealogisti. Possono riprendersela in
qualsiasi momento e darmi in pasto a Dio o peggio, cosa che faranno
senza la minima esitazione se non do loro ciò che vogliono prima
dell’alba. La scatola degli attrezzi, per favore».
«Sapevate fin dall’inizio di avere il tempo contato e non mi avete
detto niente?».
«Dirvelo sarebbe stato controproducente».
Ofelia non capiva come facesse, ma Thorn aveva veramente il dono
di metterla sottosopra. Un attimo prima combatteva contro il
desiderio di abbracciarlo, in quel momento combatteva contro
l’impulso di prenderlo a schiaffi.
«Perché vi siete alleato con gente simile? Perché mettete sempre in
pericolo la vostra vita?».
Mentre cercava con difficoltà di raddrizzarsi appoggiandosi allo
scaffale, Thorn sembrò accorgersi improvvisamente della confusione
di carta, vetro e metallo intorno a sé. Con gesto compulsivo si
controllò i gemelli e il colletto della camicia, come se temesse di
essere stato contaminato da quel disordine.
«Perché la mia vita è l’unica cosa che mi sento in diritto di mettere
in gioco. La scatola degli attrezzi, vi prego. E anche l’alcol, visto che
ci siete».
«Ma perché?» si spazientì Ofelia. «Perché vi infliggete una cosa del
genere? Perché vi costringete continuamente a sfidare forze al disopra
della vostra portata? E non venite a dirmi che è senso del dovere. Voi
non dovete niente al mondo. Che ha fatto il mondo per voi?».
Le sopracciglia perennemente aggrottate di Thorn si rilassarono di
colpo, non abbastanza però da cancellare il crepaccio che gli solcava
la fronte.
«Credete che lo faccia per il mondo?».
La tensione che lo elettrizzava, subito più intensa, gli fece contrarre
le mascelle e stringere gli occhi. Ofelia capì allora che ciò che aveva
sempre preso per determinazione era in realtà rabbia.
«Dio ha detto che non vi avrebbe perso di vista, proprio davanti a
me» mormorò con voce strozzata. «Sarò pure un marito scadente, ma
non permetto a nessuno, soprattutto non a lui, di molestare mia
moglie. Non posso strapparvi a Dio, ma posso strappare lui da voi. E
sarà quello che farò appena vi deciderete a portarmi quella benedetta
scatola degli attrezzi. Se esiste un libro che contiene il segreto di Dio e
che permette di individuare una falla nella sua invulnerabilità, io lo
troverò».
Ofelia sostenne lo sguardo di Thorn in un ostinato faccia a faccia,
poi si alzò e andò a prendere la scatola degli attrezzi sotto il letto.
«Riparatevi l’armatura e lasciate perdere i microfilm» disse
portandogliela. «So dov’è il libro».
IL CASSETTO

Ofelia fendé la folla controcorrente. Aveva lasciato il Secretarium


per prima. C’era ancora troppa gente al Memoriale, ed essere vista in
pubblico con Thorn avrebbe attirato l’attenzione. I visitatori giunti
per la cerimonia seguivano i Genealogisti attraverso le collezioni
osservando un tale rispettoso silenzio che nonostante il numero di
persone e l’immensità dei luoghi si sentiva la voce sensuale della
coppia all’altro capo dell’atrio. A turno ponevano ai memorialisti
domande estremamente tecniche sul funzionamento del nuovo
catalogo. La festa d’inaugurazione stava diventando una vera e
propria ispezione.
Le sembrò di vedere accanto a loro l’alta tuba bianca di Lazarus, e si
augurò che si trattenesse ancora un paio d’ore, per permettere a lei e a
Thorn di fare quel che dovevano fare.
Si diresse verso l’uscita evitando accuratamente di incrociare
Blasius, Elizabeth o Zen, che avrebbero potuto sentirsi in dovere di
rivolgerle una parola di conforto per la perdita delle alette. Avrebbe
provveduto lei a salutarli nella maniera giusta quando la faccenda del
libro si fosse finalmente conclusa.
Prima di varcare le porte dell’edificio dette un’ultima occhiata alle
figure dorate che in quel momento stavano salendo nel
transcendium meridionale mano nella mano, come due astri solari.
Forse Thorn non aveva avuto altra scelta che allearsi con loro, ma più
li osservava e più si persuadeva che fossero pericolosi. Consegnare a
loro il libro avrebbe voluto dire risolvere un problema per crearne un
altro in futuro.
“Pazienza” pensò uscendo dal Memoriale. “Ci penseremo quando
sarà il momento”.
Parlare al plurale le strappò un fremito inedito in fondo alla
schiena. Si sedette su uno scalino per aspettare Thorn. Sentiva ancora
sul mento l’insistente prurito lasciato dalla sua barba. Sollevò il naso
e inspirò profondamente l’aria tiepida della sera. I raggi del sole al
tramonto facevano scintillare il fogliame delle mimose e la flotta
degli aeromobili. Il cielo temporalesco aveva la consistenza fluttuante
di una miscela in cui si mischiavano colori contraddittori senza
riuscire ad amalgamarsi. Ofelia stava per mettere se stessa
nuovamente in pericolo, ciò nonostante in quel momento preciso si
sentiva più che bene.
«Ci conosciamo?».
Si voltò. Seduto sullo stesso gradino, all’altra estremità della scala,
un uomo gigantesco la guardava con un sorriso confuso. Era Polluce.
Ofelia l’aveva scambiato per una delle statue di bronzo. Il crepuscolo
faceva risaltare la notte della sua pelle e il fuoco del suo sguardo. Le
sue mani sfogliavano distrattamente le pagine di carne del proprio
Libro. Sembrava un tizio qualsiasi che leggesse senza convinzione un
romanzo troppo complicato. Dava più l’idea di un bambino
abbandonato che di un venerabile patriarca. La scena aveva un che di
surreale, considerato che dall’altra parte delle porte c’erano centinaia
di suoi discendenti.
«Mi ricordate qualcuno» insisté Polluce. «In genere nessuno mi
ricorda mai nessuno. Ho difficoltà perfino a ricordarmi il nome della
mia gemella. Mentre voi» disse con una nota malinconica nella sua
voce da violoncello, «più vi guardo e più mi risultate familiare. Ci
conosciamo?».
«Non direttamente» rispose Ofelia. «Sono una discendente di
Artemide».
«Artemide» mormorò Polluce. «In effetti mi sovvengo di una
sorella con questo nome, credo. È a lei che mi fate pensare? In realtà
non so più neanche perché l’ho detto» aggiunse voltando
negligentemente una pagina del Libro. «Ho talmente la testa fra le
nuvole...».
Ofelia si avvicinò. Polluce contemplò la piccola mano inguantata
che lei gli tendeva e fece un sorriso esitante, quasi preoccupato, ma
alla fine le dette docilmente il Libro. Il volume, che tra le mani dello
spirito di famiglia pareva leggerissimo, costrinse Ofelia a reggerlo con
entrambe le braccia. Scorse con gli occhi la scrittura tatuata sulla pelle
delle pagine, un codice di cui nessuno al mondo possedeva la chiave,
a parte Dio.
«Qua» disse indicando il bordino a stento visibile di una pagina
strappata. «Qua era la vostra memoria, quella che state cercando.
Non la trovate perché qualcuno l’ha strappata molto tempo fa. Mi
dispiace».
Restituì il Libro a Polluce, che sbatté i grandi occhi con aria
inebetita.
«Ci conosciamo?» domandò di nuovo.
Ofelia non gli rispose, ma la sua espressione smarrita la commosse.
Di lì a poco Polluce avrebbe dimenticato quella conversazione, e forse
era meglio così, forse era meglio mantenere gli spiriti di famiglia
nell’ignoranza di chi fossero realmente.
Provò un certo sollievo vedendo finalmente Thorn uscire dal
Memoriale. Aveva indossato sopra la camicia la prestigiosa uniforme
di LUX e, a giudicare dal bastone di cui si serviva per camminare, non
era riuscito a mettere completamente a punto le riparazioni
dell’armatura.
Lo seguì a debita distanza fino all’imbarcadero dell’arca.
Aspettarono ognuno nel proprio angolo guardando in direzioni
opposte, e una volta a bordo del trenuccello si misero su sedili
distanti. Erano precauzioni forse eccessive, dati i pochi passeggeri
presenti a quell’ora, ma pubblicamente sir Henry ed Eulalia si
conoscevano appena.
Con un nodo alla gola, Ofelia notò il modo in cui si posizionava
Thorn per non avere nessuno intorno. I loro sguardi neanche si
sfiorarono per tutto il tragitto, eppure non si era mai sentita tanto
vicina a lui. Thorn era come al solito rigido e impassibile, ma Ofelia
intuiva il suo nervosismo ogni volta che le sue dita tamburellavano
sull’impugnatura cromata del bastone.
Avrebbe voluto sedersi accanto a lui, rassicurarlo, dirgli che era
perfettamente consapevole di quel che stava facendo, anche se non
era del tutto vero: benché sapesse dov’era il libro, continuava a non
sapere cosa contenesse.
Mentre il trenuccello manovrava per atterrare sulle rotaie del
capolinea, scosso dal vento che faceva vibrare tutti i vagoni, Ofelia
ebbe di nuovo la tenace sensazione di essere spiata. Era anche più di
una sensazione. Le orecchie cominciarono a pulsarle. La schiena sudò
freddo. Si voltò per passare in rassegna gli ultimi passeggeri. Al Polo le
era capitato di essere pedinata da un’Invisibile, ma ciò che provava in
quel momento non era neanche paragonabile. Le sembrava che, a
forza di tallonarla, il terrore in persona si fosse fuso con la sua ombra.
Si chiese se l’assassino che aveva spaventato miss Silence, il professor
Wolf, Mediana e il Senza Paura fosse lì con loro su uno dei vagoni.
Ofelia era sicura di conoscerlo personalmente, anche se non era
capace di indicarne l’identità.
Fu contenta di sbarcare.
Seguì il ticchettio metallico del bastone di Thorn sul marciapiede
evitando come lui l’alone dei lampioni. Era scesa la notte. L’una e
l’altro erano ormai sagome nere su uno sfondo d’inchiostro. Il buio
faceva risaltare il profumo resinoso e il fruscio degli aghi dei pini a
ombrello intorno a loro.
«Da qui in poi andremo a piedi» disse Thorn sottovoce. «Dobbiamo
evitare le pattuglie di controllo. Voi non dovreste più indossare la
divisa da virtuosa, e questa gente non scherza con il codice
d’abbigliamento».
Ofelia annuì. Prima di lasciare la Buona Famiglia aveva recuperato i
documenti falsi, ma non la toga.
«Sono stata una volta sola a casa di Lazarus, non sono sicura di
ricordarmi la strada».
«Me la ricordo io» disse Thorn. «Ho memorizzato le mappe di tutta
la città appena arrivato a Babel. E non è dietro l’angolo, non c’è un
minuto da perdere».
Oltrepassarono una successione di cantieri mal illuminati senza
incontrare altro che opossum. La città era tanto animata durante il
giorno quanto deserta di sera: i babeliani erano tutti bravi ragazzi.
Ofelia si voltò parecchie volte per controllare che non fossero seguiti,
ma l’ansia che l’aveva colta a bordo del trenuccello era sparita.
«Siete contrariato?» domandò.
Non lo vedeva bene nella penombra del quartiere che stavano
attraversando, ma nel silenzio di Thorn e nei colpi implacabili del
bastone c’era qualcosa di più dell’impazienza. Sebbene a Ofelia
funzionassero entrambe le gambe aveva difficoltà a tenere il passo
con lui. Le sembrava quasi incredibile che quell’uomo, che perdeva di
vista a ogni svolta, solo due ore prima l’avesse baciata.
«Sto pensando» rispose lui senza rallentare l’andatura.
«Siete stato tutto questo tempo a cercare un libro che io avevo
rubato. Avete tutti i diritti di avercela con me».
Due scintille nella notte indicarono a Ofelia che Thorn si era girato
verso di lei.
«Se non l’aveste fatto uscire dal Memoriale miss Silence l’avrebbe
distrutto, e insieme a lui avrebbe distrutto la mia unica possibilità di
sopravvivenza. No, l’aspetto della vostra storia che mi infastidisce è di
natura strettamente matematica».
«Matematica?».
«Ho impiegato più di due anni a mettere insieme gruppi di lettura
qualificati per passare al setaccio tutte le collezioni, e il primo libro
che prendete distrattamente è quello giusto. La vostra tendenza a
demolire le statistiche fa paura».
Ofelia aggrottò le sopracciglia. Ricordò il giorno in cui era stata per
la prima volta al Memoriale con Ambroise. Si rivide mentre
rovesciava e poi raccoglieva i libri di E. D. caduti dal carrello di
Blasius. Le sembrava quasi – quasi – di poter ricordare l’attimo in cui
aveva infilato L’era dei miracoli nella bisaccia. Era per quello che miss
Silence aveva tanto insistito a volerla perquisire? Le sue orecchie
avevano forse riconosciuto il rumore caratteristico del libro nella
sacca?
«Non l’ho fatto proprio distrattamente».
Si inginocchiò sul marciapiede per allacciarsi una stringa che
continuava a farla inciampare.
«Voglio dire, una parte di me non ha scelto quel libro per caso. Una
parte di me l’ha riconosciuto. Una parte di me ha voluto
impossessarsene».
«La vostra altra memoria» osservò Thorn.
«Mi sto davvero sforzando di capire da dove venga e cosa voglia
dirmi. Mi sarebbe piaciuto che almeno si fosse presa la briga di
spiegarmi cosa sappia di Dio quel libro per bambini. Ma questo»
concluse facendo un doppio nodo al laccio, «lo scopriremo presto da
soli».
Lo sguardo penetrante con cui Thorn la fissava la turbò. Sopra le
loro teste i lampioni sballottati dal vento diffondevano una luce
tremolante.
«Quando questa faccenda sarà sistemata dobbiamo parlare, noi
due».
«Parlare di che?».
«Quando la faccenda sarà sistemata» si limitò a ripetere Thorn.
Con la punta metallica del bastone indicò le colonne di un portico
sul lato opposto della piazza in cui erano sbucati. Ofelia riconobbe le
vasche di ninfee che riflettevano le stelle intorno alla proprietà.
Erano arrivati.
«Spero che Ambroise sia in casa» sussurrò mentre costeggiavano le
colonne. «Avevo dato a lui la mia borsa, me la renderà senza fare
storie appena gliela chiederò».
Evitò di menzionare il brusco cambio di comportamento del
ragazzo dopo che era stata ammessa alla Buona Famiglia. L’ultima
volta che l’aveva visto, sulla banchina dell’imbarcadero, Ambroise
aveva ignorato deliberatamente i suoi richiami. Non si era neppure
degnato di voltarsi.
Thorn bussò a una delle porte d’ingresso col pomello del bastone.
Un automa venne ad aprire.
«C’è Ambroise?» domandò Ofelia.
«NIENTE È TROPPO RISCHIOSO PER UN CUORE CORAGGIOSO».
Thorn si affrettò all’interno.
«Faremo da soli».
Ofelia fece scorrere lo sguardo sull’atrio in cui apparecchi moderni
si fondevano all’architettura antica. Le lampade attiravano sciami di
falene. C’erano solo statue e il ritratto di Lazarus con gli occhiali rosa
che sprizzava malizia.
«Ambroise?».
Ofelia attraversò l’ampia infilata di sale il cui marmo faceva
risuonare ogni suo passo. Dopo tutti quei mesi tornare nella prima
casa che l’aveva accolta a Babel le suscitava una sensazione
indefinibile.
Thorn la accompagnava camminando rigido, inarcandosi sempre
di più sul bastone.
«Li trovo inquietanti» borbottò.
Tutti gli automi della proprietà si erano riuniti per seguirli a
distanza, indecisi sulla condotta da tenere con quei visitatori che si
erano autoinvitati nella casa dei padroni. Non sembravano ostili, ma
non era piacevole sentire alle proprie spalle una tale adunata di
manichini senza volto.
«Ambroise?» chiamò ancora Ofelia entrando in un’altra sala.
Thorn le fece segno di ascoltare. Dal fondo della dimora giungeva
un rumore, ma non sembrava quello della sedia a rotelle di Ambroise,
somigliava semmai alle scosse di una lavatrice.
Più si addentravano, seguiti dal corteo silenzioso degli automi, e
più il rumore aumentava.
Ofelia riconobbe il pavimento a scacchi e i begli armadi bassi del
guardaroba di Ambroise. Era lì che le aveva regalato una toga da
senza-poteri. Sorprendentemente, il rumore non veniva da una
lavatrice meccanica, ma da un cassetto. Era agitato da violente scosse,
come se stesse cercando di scappare dal cassettone.
«Forse è la mia borsa» mormorò Ofelia, esitante. «Non l’ho avuta
per molto tempo, ma potrei averla animata senza rendermene
conto».
«C’è un solo modo per scoprirlo».
Thorn prese un fazzoletto per afferrare la maniglia del cassetto,
come se i microbi fossero una forma di vita più temibile di tutto ciò
che il mobile poteva potenzialmente contenere. Ofelia sobbalzò
quando una forma balzò fuori e si arrotolò sul braccio di Thorn. Nel
panico, il suo primo pensiero fu che si trattasse di un enorme
serpente. Incredula, il secondo pensiero fu che il serpente era di lana.
Thorn non accennò a indietreggiare. Con la mano ancora sulla
maniglia esaminò circospetto la creatura che gli stringeva il braccio
con i suoi anelli di tre colori.
«La borsa non è di sicuro. È la vostra sciarpa».
«L’avevo persa».
Le parole le erano cadute dalle labbra come pietre. Guardò la
sciarpa che si era attorcigliata a Thorn. Era la stessa che aveva fatto lei
maglia dopo maglia, quella che aveva animato giorno dopo giorno,
eppure non riusciva ad ammetterne la presenza tangibile lì davanti a
lei.
«L’avevo persa» disse di nuovo.
Allungò prudentemente la mano. Subito la sciarpa si srotolò dal
braccio di Thorn per trasferirsi sul suo e avvolgersi intorno al collo
con possessività imbronciata. Fu solo sentendone il consueto peso
che Ofelia ebbe coscienza del fatto che la sciarpa non stava
vagabondando nelle fogne della città, ma si erano finalmente
ritrovate. Il senso di colpa che le bruciava lo stomaco da mesi le risalì
in bocca sotto forma di un sapore di sale. Sprofondò la faccia nella
lana.
«L’avevo persa» ripeté con voce ovattata.
La sua gioia si incrinò subito. In che modo Ambroise era entrato in
possesso della sciarpa? Perché l’aveva nascosta nel guardaroba? Non
avrebbe potuto restituirgliela o almeno mandarle un telegramma per
tranquillizzarla? Più si sforzava di capire e meno ci riusciva. La fiducia
che gli aveva subito dato, il dolore che aveva provato quando lui
aveva cominciato a evitarla, tutto si andava sfaldando nel suo cuore.
Thorn la guardò con severità, poi disse ad alta voce quello che
Ofelia non osava mettere in parole.
«Siete sicura che questo Ambroise sia un amico?».
«Vi prego di andarvene».
Thorn e Ofelia si voltarono. Nel vano della porta, circondata da
uno stuolo di automi, si stagliava una sedia a rotelle. Ambroise si
avvicinò con un ronzio meccanico. Il gioco di luci e ombre che
regnava nel guardaroba accentuò la stranezza di quel corpo dalla
simmetria inversa, il candore abbagliante dei suoi vestiti e l’oscurità
vellutata del suo viso.
Le sue mani invertite stringevano convulsamente i braccioli della
sedia.
«Andate via».
Ofelia deglutì con difficoltà. Non era un ordine, era una supplica
che Ambroise rivolgeva a lei e solo a lei. Aveva una voce così
implorante che Ofelia non capì più che sentimento avrebbe dovuto
provare.
Si tirò la sciarpa per liberare la bocca.
«Ero venuta a prendere la mia borsa. Ma che è successo? Non vi
riconosco più».
Ambroise spalancò gli occhi da antilope. Il giorno in cui si erano
conosciuti non aveva fatto che manifestare nei confronti di Ofelia
una benevola curiosità. In quel momento invece la guardava come la
cosa più improbabile che avesse mai visto.
«È successo che non siete quella che dite di essere».
Il cuore di Ofelia saltò un battito. Come aveva fatto a scoprire
l’impostura? Era stata la sciarpa a tradirla in un modo o nell’altro?
Ambroise dovette leggerle in faccia l’imbarazzo, perché sembrò in
preda a una profonda delusione.
«Allora non mi ero sbagliato. Fin dal primo istante ho sentito che...
Ma non pensavo che...». Tacque, respirò lentamente e ripeté con
infinita dolcezza: «Dovete andarvene, miss. Please».
«Sennò?».
Thorn aveva fatto la domanda senza abbandonare la calma, ma il
suo guardo era polare quanto il suo accento. Ofelia si irrigidì. Se
aveva smesso di esprimersi come sir Henry significava che una linea
era appena stata varcata. Nel guardaroba aleggiava una diffidenza
generale che rendeva il caldo dei luoghi ancora più soffocante.
«Sennò finirà molto male» rispose Ambroise.
I suoi delicati lineamenti ebbero una contrazione dolorosa mentre
supplicava Ofelia con gli occhi.
«Comunque» mormorò teso, «finirà male in ogni caso. Dopo tutto,
miss, voi siete quella che provocherà il crollo delle arche».
Gli occhiali di Ofelia diventarono verdi. L’ultima persona che le
aveva detto quelle parole era...
Thorn si schiarì la gola esasperato.
«Tagliamo corto. Siete al servizio di Dio, vero?».
Appena pronunciata la parola “Dio” tutti gli automi, fino a quel
momento inoperosi dietro la sedia a rotelle, si misero in moto. In
lenta processione occuparono il guardaroba circondando Thorn,
Ambroise e Ofelia, poi si dettero la mano come bambini che volessero
fare un girotondo intorno a loro, alti bambini senza occhi, naso e
bocca. Quando il cerchio si chiuse ci fu un proliferare di acciaio che
strappò un brivido alla sciarpa di Ofelia. Decine, centinaia di lame
acuminate erano sbucate dai vestiti dei manichini. Quel poco che
possedevano di umanità era scomparso: ormai erano solo una
barriera invalicabile di aculei. Una trappola.
Ambroise appoggiò goffamente i gomiti sui braccioli della sua
sedia.
«Davvero spiacevole» sospirò. «Non avreste dovuto dirlo».
«Richiamateli» ordinò Thorn.
Ofelia lo guardò inquieta. Non aveva alzato la voce né accennato
un gesto, ma contraeva le dita intorno al pomello del bastone con un
tale vigore che le giunture gli erano diventate bianche. I suoi artigli si
sentivano minacciati, e lui faceva forza su se stesso per trattenerli. Il
guardaroba non era sufficientemente spazioso da permettergli di
allontanarsi da Ofelia e da Ambroise senza infilzarsi sulle lame degli
automi.
«Ambroise, per piacere» intervenne Ofelia. «So che non volete farci
del male. Richiamate i domestici e ridatemi la borsa».
Il ragazzo scosse la testa sconfortato.
«Non posso, miss».
Ofelia sentì la pelle accapponarsi come se la folgore si accingesse a
colpire. Thorn sembrava contrarre ogni muscolo del corpo per
impedire al potere dei Draghi di scatenarsi. Gli artigli non avrebbero
fatto niente agli automi, ma potevano tagliare lei e Ambroise come
fogli di carta.
«Richiamateli» insisté Ofelia fissando con la massima intensità gli
occhi disperati di Ambroise.
«Non può».
La voce musicale che aveva articolato quelle due parole si propagò
attraverso i colonnati della casa, leggera come il volo di una farfalla.
La voce di Lazarus.
«Ma io sì. Rompete le righe, boys!».
Nell’istante in cui pronunciò l’ordine gli automi fecero rientrare le
lame con un fruscio metallico, ruppero il cerchio e si ritirarono in
buon ordine.
Lazarus, sulla porta, si tolse l’immensa tuba e fece un inchino
provocando una cascata di capelli argentei.
«I famosi coniugi! Sono felice di accogliervi in casa mia. Se mi
aveste aspettato al Memoriale vi avrei offerto un passaggio a bordo
della mia aeronave. Vogliate seguirmi in salotto» propose
rimettendosi il cappello con gesto teatrale, «faremo due interessanti
chiacchiere!».
IL NOME

Il cucchiaino tintinnava musicalmente nella tazza di porcellana per


tentare di sciogliere la sesta zolletta di zucchero che Lazarus aveva
immerso nel tè. Il vecchio teneva la lingua in punta di labbra con
un’espressione da scolaretto impegnato. Aveva dei modi di fare che lo
rendevano buffo suo malgrado.
Ma a Ofelia non ispirava nessuna voglia di ridere.
Seduta sul bordo del divano con la sciarpa gelosamente accucciata
tra le braccia, non toccava né il tè né i biscottini che le serviva
Walter, il maggiordomo meccanico. Sentiva su di sé lo sguardo
smarrito di Ambroise, che da quando era arrivato il padre non aveva
più aperto bocca. Interrogò Thorn con l’angolo degli occhiali per
sapere che tattica adottare. Lui stava rigido in mezzo alla profusione
di cuscini del divano stringendo il pomello del bastone che teneva tra
le gambe come una spada, senza staccare gli occhi da Lazarus. Aveva
di nuovo il controllo degli artigli, che restavano comunque all’erta, a
fior di pelle, pronti a scattare al primo passo falso. Il solo fatto di stare
seduta vicino a lui impediva a Ofelia di liberarsi completamente dal
mal di testa. Quando Thorn si vide porgere da Walter una tazza di tè
ne versò subito il contenuto in un vaso di ficus.
«Andiamo, andiamo, non avvelenerei mai degli ospiti sotto il mio
tetto!» affermò Lazarus divertito. «Non riesco nemmeno a schiacciare
una zanzara senza sentirmi terribilmente in colpa».
Calò di nuovo il silenzio, denso come catrame. Ambroise osservava
Ofelia che osservava Thorn che osservava Lazarus.
«Well!» esclamò quest’ultimo posando la tazza sul piattino.
«Giocherò a carte scoperte. È vero, conosco voi sapete chi, lavoro per
lui da parecchio tempo. Ero un giovane aspirante virtuoso quando
l’ho conosciuto. In fact, per la precisione è venuto lui a reclutarmi. È
stata un’esperienza che definirei...». Col mignolo, Lazarus si aggiustò
gli occhiali sul naso cercando il termine giusto. «...Sconcertante. Un
po’ come se all’improvviso avessi scoperto un fratello gemello.
L’essere che sapete si è presentato a me con la mia faccia, la mia voce,
la mia divisa, la stessa che indossate voi oggi, giovine lady» specificò
con una complice strizzatina d’occhio a Ofelia. «Mi ha graziosamente
offerto mezzi considerevoli per consentirmi di realizzare il mio sogno
di esplorare il mondo. In cambio mi ha chiesto un’unica,
insignificante contropartita... Blast!».
Walter gli aveva riempito la tazza fino a farla traboccare. Il liquido
bollente gli si rovesciò sui bei pantaloni bianchi.
«Che contropartita?» lo incalzò Ofelia.
Dimenticando la bruciatura del tè Lazarus fece un ampio sorriso
piegandosi esageratamente sul pouf. Occhi, lenti degli occhiali, denti
e punta dorata del naso scintillarono nel chiaroscuro della stanza.
Quel vecchio possedeva una vitalità da giovanotto. Serio e immobile
sulla sedia a rotelle, Ambroise sembrava il più anziano dei due. Per
essere padre e figlio, si somigliavano ben poco.
«Una contropartita extremely semplice» rivelò Lazarus con una
vibrazione appassionata nella voce. «Dovevo guardare».
«Guardare cosa?».
«Tutto ciò che mi fosse sembrato degno d’interesse, giovine lady! E
siccome trovo che assolutamente tutto sia degno d’interesse ho
passato il resto della mia vita a guardare per Di... per voi sapete chi».
Trascinato dall’entusiasmo, Lazarus si era ripreso per un pelo. Si
guardò intorno per assicurarsi che gli automi, intenti a spolverare il
salotto, non avessero ricominciato a formare il cerchio di lame.
Allora prese un taccuino dalla redingote e lo agitò trionfalmente
come una bacchetta da prestigiatore.
«Appunti di viaggio! Ho preso talmente tanti appunti che, messi in
fila, potrebbero rivaleggiare con i chilometri che ho percorso durante
le mie esplorazioni».
In altre parole, pensò Ofelia accarezzando la sciarpa per obbligarsi a
restare calma, quell’uomo era una spia di Dio. La situazione si
presentava piuttosto male. Dette un’occhiata furtiva alla grande
vetrata che i riflessi delle lampade avevano trasformato in specchio.
Vi erano riflessi tutti e quattro, cinque contando la figura senza faccia
di Walter. Visto che Dio non aveva riflesso, in quel momento era
almeno di conforto sapere che né Ambroise né Lazarus erano degli
impostori.
«Una manciata di anni fa l’essere che sapete è venuto di nuovo a
trovarmi» continuò Lazarus dopo aver rumorosamente bevuto un
sorso di tè. «Mi ha affidato una nuova missione e nuovi mezzi per
eseguirla. Una missione extremely delicata: trovare l’introvabile Terra
d’Arco! O, in mancanza di meglio, trovare un Arcadiano. L’unico che
sono stato sul punto di incontrare» sospirò con rimpianto, «è la
povera miss Ildegarda. Pare che sia scomparsa in circostanze torbide».
«Si è disintegrata».
Ofelia guardò Thorn. Era stato lui a parlare. Il suo profilo a lama di
rasoio non lasciava trasparire niente, ma nella pausa che seguì
aleggiava una specie di accusa: si è disintegrata a causa vostra, perché
non le davate tregua, perché Dio bramava il suo potere familiare e lei
ha preferito sacrificarsi piuttosto che renderlo ancora più nocivo di
quanto già non sia.
Lazarus si massaggiò il mento glabro con le dita inguantate di
bianco.
«Un’uscita di scena ben triste per un’architetta così brillante.
Continuo a non capire come la situazione abbia potuto prendere una
piega del genere... Se fossi riuscito a vederla, a parlarle, l’avrei
certamente convinta dell’assennatezza della nostra impresa. Vedete»
si estasiò Lazarus giungendo le mani come se pregasse, «l’essere che
sapete è molto di più che il padre creatore degli spiriti di famiglia e
della nuova umanità. Non cerca né gloria né riconoscenza, aspira a
una cosa sola: diventare l’incarnazione di ognuno di voi. Anch’io,
che sono soltanto un senza-poteri, sono stato toccato nel profondo
dell’anima dalla bellezza della sua opera, dalla grandiosità della sua
opera! La mia nascita fa sì che purtroppo non apparterrò mai alla sua
bella e grande famiglia, ma impiegherò ogni mia energia a rendere
questo mondo, il suo mondo, ancora più perfetto! E pazienza se i
Lord di LUX non mi ritengono degno di entrare nei loro ranghi. Dal
momento che sono soddisfatti dei miei automi e mi aiutano a lottare
contro l’asservimento dell’uomo all’uomo, sono un cittadino
realizzato!».
Lazarus si esprimeva come se ogni parola gli frizzasse sulla lingua.
Ofelia era colpita dalla sua sincerità quanto dalla sua credulità. Per
quanto la riguardava, un solo incontro con Dio era bastato a toglierle
ogni tentazione di mettersi al suo servizio. Guardò Ambroise in
tralice per capire se anche lui fosse indottrinato come Lazarus, ma il
ragazzo stava contemplando la superficie ambrata del tè con infinita
malinconia. La presenza del padre sembrava renderlo assente.
«E a proposito di LUX» aggiunse Lazarus rivolgendo all’uniforme
dorata di Thorn uno sguardo eloquente, «come diamine avete fatto a
diventare uno di loro? L’ultima volta che ho sentito parlare di voi
eravate un intendente del Polo caduto in disgrazia, ed ecco che vi
ritrovo Lord di Babel!».
Thorn fece un’alzata di spalle.
«Sono in missione per conto dei Genealogisti. Domandatelo a
loro».
Ofelia ammirò la spigliatezza con cui dissimulava il nervosismo.
Dopo tutto quello che aveva detto Lazarus non sarebbe stato molto
strategico fargli capire che si era alleato con i Genealogisti solo per
ostacolare Dio.
«By Jove, me ne guarderò bene!» rise Lazarus pulendosi gli occhiali
sulla redingote. «Il mio grado di iniziazione è ben lontano dal loro. I
Genealogisti non possono rivelarmi quel che sanno, e lo stesso vale
per me. Tuttavia mister Thorn, sir Henry o qualunque sia il vostro
nome, senza volervi offendere, la cosa che mi interessa è soprattutto
la sorte della vostra compagna».
Ofelia contrasse le mani sulla sciarpa, di cui un’estremità frustò
l’aria come la coda arruffata di un gatto. Lazarus si rimise gli occhiali
con ampi gesti teatrali e dardeggiò il suo sguardo rosa su di lei.
Sarebbe bastata una sua parola e tutti gli automi della casa, forse
addirittura della città, si sarebbero trasformati in una prigione di
aculei. O peggio. Dall’aumentare dell’emicrania capì che gli artigli di
Thorn erano pronti ad attaccare, se la situazione fosse degenerata.
«Perché la mia sorte dovrebbe riguardarvi?» domandò.
Lazarus si piegò talmente in avanti da sbattere le ginocchia contro
il vassoio di rame del tavolino da tè.
«Secondo voi, giovine lady, per quale motivo l’essere che sapete mi
avrebbe incaricato dall’oggi al domani di trovare degli Arcadiani?
Perché oggi sente il bisogno urgente di possedere la loro padronanza
dello spazio? Non prendetelo come un rimprovero, ma è per colpa
vostra, perché avete rotto il fragile equilibrio del nostro mondo» disse
con un sorriso indulgente. «E l’essere che sapete farà tutto ciò che è
in suo potere per ristabi...».
«Non denunciatela».
Tutte le teste, compresa quella di Walter, si voltarono verso
Ambroise. Aveva parlato di getto, con un mormorio appena udibile.
Tirava il mento talmente in dentro che il turbante minacciava di
cadergli sulle ginocchia, mentre la mano gli fremeva intorno alla
tazza che non aveva toccato. A giudicare dagli occhi sgranati, era
colpito lui per primo di aver interrotto il padre.
«Non denunciatela» ripeté tuttavia. «Lei... mi ha fornito assistenza.
In cambio le ho promesso di aiutarla».
Ofelia ebbe la sensazione che un peso le si fosse staccato dal petto
per caderle in fondo alla pancia. Lei gli aveva fornito assistenza? Si
riferiva alla volta in cui aveva liberato le ruote della sedia dal selciato?
«Avete cercato intenzionalmente la mia sciarpa?».
Ambroise annuì senza staccare gli occhi dalla tazza.
«Sembrava essere molto importante per voi, miss. Durante il vostro
periodo di prova alla Buona Famiglia ho chiesto ai controllori dei
tram. Ho dovuto insistere un po’. Alla fine ho saputo che la sciarpa
era stata depositata all’ufficio oggetti smarriti. Suppongo che fosse
andata nel panico per avervi perso. Il suo carattere... well, poco
collaborativo aveva spinto l’incaricato a sigillarla. C’era da pagare una
multa per riprenderla. Volevo restituirvela, giuro, come anche la
borsa».
Finalmente Ambroise alzò gli occhi su Ofelia, poi li spostò
lentamente sul padre.
«Ma c’è stato un imprevisto, e ho preferito nascondere le vostre
cose in attesa di trovare una soluzione».
«By Jove!» esclamò Lazarus con un gran sorriso perplesso. «Sarei io
l’imprevisto, Ambroise? È stato il mio ritorno a casa che...? Mi ero
accorto che non stavi tanto per la quale in questi ultimi mesi, ma mai
avrei subodorato una cosa del genere! Perché non mi hai
semplicemente spiegato... Aspetta un attimo» fece brusco spostando
lo sguardo ora sul figlio, ora su Ofelia con un’espressione sempre più
stupefatta. «Chi credi che sia exactly questa giovine lady?».
Ofelia sollevò le sopracciglia, Thorn aggrottò ancora di più le sue.
Seguirono lunghi secondi di silenzio durante i quali un vento
notturno sollevò le zanzariere delle finestre portando con sé il
gracidare delle ranocchie e l’odore pungente delle vasche di ninfee.
«Quella che provocherà il crollo delle arche» disse finalmente
Ambroise con un filo di voce. «L’Altro di cui spesso mi avete parlato,
padre».
Con un movimento spettacolare Lazarus appoggiò entrambe le
mani sul tavolino da tè rovesciando spezie, bricco della panna e
zuccheriera, e si mise a guardare Ofelia con intensa curiosità al
disopra degli occhiali, come se volesse vederla in un colore diverso
dal rosa.
«Questo sì che è maledettamente interessante!».
«Non sono l’Altro» protestò Ofelia.
«Non è l’Altro» mugugnò Thorn.
«Non siete l’Altro?» si stupì Ambroise.
«Non è l’Altro, indeed» affermò Lazarus con incrollabile
convinzione. «Ma è lei che l’ha liberato. Ne porta la traccia
indelebile, e sono costernato di non essermene accorto da solo»
aggiunse sottolineando ogni parola con una manata contenta
sull’ottone del tavolo. «Siete anche voi un’invertita!».
Squadrò Ofelia dalla testa ai piedi come se si trattasse di
un’importante scoperta archeologica. Quanto a lei, si domandò se
dovesse sentirsi lusingata o insultata. Thorn appoggiò la punta
metallica del bastone contro il torace di Lazarus, la cui foga metteva a
dura prova i suoi artigli, per invitarlo a mantenere le distanze.
Quest’ultimo riprese docilmente posto sul pouf senza smettere di
divorare Ofelia con gli occhi.
«Anch’io lo sono!» annunciò fiero. «Avete mai sentito parlare di
situs transversus, giovine lady? È il nome che danno i medici ad
anatomie come la mia. Non è certo così evidente come nel caso di
mio figlio» disse tamburellando sulla mano malformata di Ambroise
abbandonata sul bracciolo della sedia, «ma se poteste guardarmi
dentro vedreste che tutti i miei organi interni sono al contrario. Ho il
cuore a destra, il fegato a sinistra e via discorrendo. Sono nato così. In
un certo senso liberando l’Altro dallo specchio anche la vostra
simmetria si è invertita, isn’t it?».
Ofelia annuì prudentemente. Thorn tirò fuori l’orologio da
taschino che stava cominciando ad agitarsi e che aprì
impazientemente il coperchio per ricordare loro che ore erano. Era
tutto molto bello, ma continuavano a non sapere dove fosse la borsa.
Di lì a poco la cerimonia si sarebbe conclusa e i Genealogisti
aspettavano il libro che li avrebbe resi pari a Dio.
«Siamo uguali!» si entusiasmò Lazarus. «Io, voi e mio figlio siamo
uguali! La particolarità che possediamo ci rende tutti e tre extremely
ricettivi a... a certe cose. Non mi sorprende che siate diventata una
lettrice così brava. Ambroise ha una sensibilità eccezionale e io, non
per vantarmi, ho intuizioni che mi rendono un autentico visionario.
Sapevate che un tempo i mancini venivano perseguitati?» chiese a
bruciapelo. «Li chiamavano “sinistri” per la percezione che avevano,
e che noi abbiamo, dell’universo che ci circonda! Per fortuna oggi
non li perseguitano più. Vi sorprenderà sapere, giovine lady, che qui a
Babel abbiamo un istituto che si occupa in particolare di casi come i
nostri».
«L’osservatorio delle Deviazioni» disse Ofelia con un tuffo al cuore.
«Oh, lo conoscete?».
«Ci sono stata una volta. Hanno anche un fascicolo su di me. Cioè,
su Eulalia. Mi giudicano interessante».
«Of course! Voi siete interessante!».
Lazarus si esprimeva con un tale ardore che i lunghi capelli argentei
gli si spettinavano a vista d’occhio. Guardava Ofelia come se
combattesse contro l’impulso irresistibile di ballare con lei.
«Dove ci porta esattamente questa digressione?» domandò Thorn
mentre l’orologio richiuse il coperchio con uno scatto che sembrava
un richiamo autoritario.
«Non è affatto una digressione. In fact, siamo proprio al cuore del
nostro “problema”» rispose Lazarus facendo con le dita il segno delle
virgolette. «Dopo tutto sono sicuro che vorreste sapere se andrò o no
a parlare di voi a Dio. La mia lealtà verso di lui mi spingerebbe a
mandargli un telegramma seduta stante, ma sto cominciando a
pensare che forse non sarà necessario».
«Ehm... padre?» lo interruppe timidamente Ambroise.
Lazarus non se n’era reso conto, ma alla parola “Dio” gli automi
della stanza avevano lasciato cadere i piumini per dirigersi verso di
loro.
«Blast!» imprecò Lazarus. «Tornate alle vostre occupazioni, voialtri!
Non sono la mia invenzione migliore» ammise con un sospiro
esasperato mentre gli automi tornavano al loro posto. «È l’unica
soluzione che ho trovato perché certi segreti non escano da casa mia.
Come dicevo» continuò tornando subito al sorriso, «non sono
imperativamente obbligato a consegnarvi a voi sapete chi. La sua
maggior priorità, e di conseguenza la mia, è trovare l’Altro. Ora,
giovine lady, voi siete legata all’Altro, e prima o poi sarete portata a
incrociare di nuovo la sua strada. Personalmente sono convinto che
avrete più possibilità di riuscirci in tempo se nessuno vi tiene al
guinzaglio».
Ofelia tuffò lo sguardo nelle pieghe lanose della sciarpa per
nascondere la rabbia che le scuriva gli occhiali. Lazarus le parlava del
suo destino comune con l’Altro e del crollo del mondo come se
fossero fatti indubitabili. Per quanto ne sapesse nessuna arca era
ancora stata data per dispersa. Ofelia ricordava a stento la notte in cui
aveva liberato la creatura dallo specchio, certe volte le capitava
perfino di pensare che l’avesse sognata. Quel vecchio pazzo stava
facendo perdere loro un tempo inestimabile per quelle che
probabilmente erano solo divagazioni!
Un vecchio pazzo che comandava un esercito di automi.
Quando rialzò la testa verso Lazarus i suoi occhiali avevano
riacquistato la trasparenza.
«Siamo intesi» promise facendo del suo meglio per ignorare la
contrazione di Thorn accanto a lei. «Vi aiuteremo a trovare l’Altro a
condizione che ci lasciate libertà di iniziativa. Ora abbiate la
compiacenza di restituirmi la borsa e di prestarci la vostra aeronave».
Lazarus proruppe in un tale scoppio di risa che l’immensa tuba gli
cadde all’indietro.
«Wonderful! Potete contare sulla mia totale collaborazione.
Ambroise, ti dispiace andare a prendere ciò che la giovine lady
reclama? Walter!» ordinò al maggiordomo scattando lui stesso in
piedi come una molla. «Andiamo a preparare il lazarottero per i
nostri nuovi soci!».
Vedendoli uscire dal salotto Ofelia dovette ammettere che si era
aspettata trattative più dure. Se Lazarus le credeva sulla parola, senza
esigere da lei una garanzia, era proprio ingenuo come sembrava.
Appena rimasti soli Thorn si lasciò andare contro la spalliera del
divano come se la lunga spina dorsale rifiutasse di sostenerlo un
secondo di più. Quando, un dito per volta, staccò la mano dal
bastone Ofelia vide che la forma del pomello gli si era impressa nel
palmo. Storse la bocca quando cercò di stendere le gambe di qualche
centimetro provocando uno stridore d’acciaio e la caduta di un
bullone.
«Vi fa male?» si preoccupò Ofelia.
«Non vi ho risparmiato i Genealogisti perché scendiate a patti con
Lazarus».
«Non sembra molto pericoloso, e nemmeno molto informato. Non
sa neanche cosa davvero siamo venuti a cercare in casa sua».
Eppure pronunciando quelle parole Ofelia non provò il sollievo che
avrebbe voluto. Per un attimo aveva quasi creduto che fosse stato
Lazarus ad accanirsi contro il professor Wolf, miss Silence, Mediana e
il Senza Paura. Se lui non c’entrava niente con quella serie di
aggressioni, la vera minaccia era ancora da scoprire.
«I Genealogisti sono degli egocentrici facili da corrompere» disse
Thorn. «Lazarus è un idealista che mette l’interesse generale al
disopra del suo. Non sarà manipolabile come pensate».
«Non mi sottovalutate, ho già ottenuto un’aeronave».
Era una battuta, ma Ofelia fu presa alla sprovvista dall’estrema
serietà con cui Thorn la guardò.
«Non vi sottovaluto mai».
Ofelia bevve d’un fiato il tè, fino a quel momento ignorato, senza
preoccuparsi di rovesciarne un po’ sulla sciarpa, che si scrollò
infuriata. Si era freddato, ma la aiutò a far scendere il groppo che di
colpo le si era piazzato in gola. Come si potevano fare dichiarazioni
simili in un tono tanto serio? Si sentiva più intimidita tra i cuscini del
divano con il ginocchio di Thorn che sfiorava il suo di quanto lo
fosse stata di fronte alle lame degli automi.
Alzando gli occhi dalla tazza vide che Thorn guardava da un’altra
parte, fissava i motivi del tappeto con interesse eccessivamente
marcato. Da quando erano andati via dal Memoriale aleggiava fra
loro un non detto di cui non afferrava bene la natura.
«Prima avete detto che dobbiamo parlare, noi due».
«Sì» confermò Thorn, rigido. «Sarà necessario, in effetti».
«Vorrei proprio sapere di che si trat...».
«La vostra borsa, miss».
Ambroise era ricomparso con un ticchettio meccanico.
«Mi dispiace di avervi evitato come ho fatto» mormorò. «Ero
davvero convinto che foste l’Altro, pensavo di agire per il meglio.
Spero... che resteremo amici».
Dopo tutto quello che era stato detto in quella casa i pensieri di
Ofelia erano troppo aggrovigliati per dargli una risposta onesta. E
comunque non ebbe modo. Lo sguardo incisivo che Thorn scoccò ad
Ambroise spinse quest’ultimo a far indietreggiare la sedia a rotelle
all’altro capo del salotto.
Ofelia fece un profondo respiro prima di aprire le fibbie della borsa.
Dentro ritrovò il vestitino grigio, le polacchine da inverno, il sifone
d’acqua gassata, qualche biscotto ammuffito e la cartolina che le
aveva dato il prozio prima della partenza precipitosa da Anima.
Poi tirò fuori un libro per bambini con la copertina rosso porpora e
il titolo in maiuscole d’oro.
CRONACHE DEL NUOVO MONDO
L’ERA DEI MIRACOLI
SCRITTO E STAMPATO NELLA CITTÀ-STATO DI BABEL
E. D.
Ofelia non riuscì a reprimere il leggero brivido che nonostante i
guanti le passò sulle dita mentre apriva quel libro che aveva originato
così tante bramosie e disgrazie. Individuò sul risguardo il timbro del
Memoriale. Non era un’esperta di carta come la zia Roseline, ma fu
affascinata dall’eccellente stato di conservazione. Era difficile credere
che risalisse a prima della Lacerazione. Possedeva forse le stesse
misteriose proprietà dello specchio sospeso all’interno del globo del
Secretarium?
Scorrendo le prime righe, non si stupì di poterle recitare a
memoria.

Ci sarà una volta,
fra non molto tempo,
un mondo che vivrà finalmente in pace.

Allora
ci saranno nuovi uomini
e ci saranno nuove donne.

Sarà l’era dei miracoli.

Voltò le pagine una dopo l’altra con un’incontrollabile sensazione
di familiarità, come se in passato l’avesse sfogliato più volte. Non
aveva bisogno di leggere la storia per ricordarsela. Le tornò in mente
che era divisa in venti brevi novelle, e che ognuna di esse raccontava
la nascita di una nuova famiglia: i signori degli oggetti, i signori delle
menti, i signori degli animali, i signori del magnetismo, i signori del
verde, i signori della trasmutazione, i signori dell’incanto, i signori
della divinazione, i signori della folgore, i signori dei sensi, i signori
delle acque calde, i signori dei fenomeni tellurici, i signori dei venti, i
signori della massa, i signori della metamorfosi, i signori della
temperatura, i signori dell’onirismo, i signori della fantomizzazione, i
signori dell’empatia e i signori dello spazio.
Venti famiglie, venti poteri.
Erano racconti come Octavio e il professor Wolf li avevano
descritti, noiosi da morire. Una volta accettata l’idea rivoluzionaria
che E. D. fosse riuscito ad anticipare l’avvento del nuovo mondo in
un’epoca in cui le arche ancora non esistevano, le storie in sé non
avevano alcun interesse.
Non c’erano le istruzioni per assurgere al rango di Dio.
In Ofelia sorse uno spaventoso, terribile dubbio. Dette il libro a
Thorn sforzandosi di non mostrare la sua agitazione.
«Forse... forse l’informazione che stiamo cercando è in codice».
Totalmente concentrato sulle pagine che fotografava con gli occhi
facendole sfilare a tutta velocità fra le dita, Thorn non rispose.
Arrivato alla fine rimase per un po’ curvo sul divano, rigido come
l’armatura della sua gamba, poi rivolse lentamente, molto
lentamente, il suo naso da aquila verso Ofelia, che di colpo sembrava
essere diventata per lui una fonte di infinita perplessità.
«Credo che dovreste leggere attentamente la fine» le consigliò con
una voce che lei non gli aveva mai sentito.
Ofelia si aggiustò gli occhiali sul naso per guardare l’ultima pagina
nella quale, da quanto l’inchiostro era sbiadito, non si era accorta di
una nota scritta a mano:
In attesa di giorni migliori, cari figli.
Eulalia Diyoh.
Ofelia lesse e rilesse quelle poche parole fino a che ogni particella
del suo essere ne fu impregnata.
Eulalia Diyoh.
Diyoh.
Dio.
Stranamente non provò la minima sorpresa. Lo sapeva. L’aveva
sempre saputo, e si chiedeva come avesse fatto a dimenticare una
cosa così fondamentale. Quando Archibald le aveva detto di scegliersi
un nome per i documenti falsi, Eulalia le era venuto
spontaneamente. Eulalia era la donna con cui condivideva la
memoria, il riflesso del passato che aveva scorto nello specchio
sospeso. Si rivedeva al suo posto battere energicamente sulla
macchina da scrivere inventando innumerevoli romanzi per bambini
tra una soffiata di naso e l’altra.
Eulalia era Dio. O meglio, Dio era stato Eulalia in un’altra epoca,
prima della Lacerazione. Una mediocre scrittrice col cognome
pronunciato male. Il che non spiegava né perché Ofelia condividesse
i suoi ricordi né come avesse fatto Eulalia Diyoh a creare gli spiriti di
famiglia, spaccare il mondo e diventare nel corso dei secoli un Mille
Facce quasi onnipotente. Spiegava però in che modo un semplice
libro poteva consentire a chiunque di diventare pari a Dio.
«Perché è lui a essere pari a chiunque» mormorò Ofelia
accarezzando la nota scritta a mano.
Mentre chiudeva L’era dei miracoli, ancora scossa da quei
sommovimenti di memoria, percepì con l’angolo degli occhiali uno
sguardo che fissava lei e Thorn con la massima attenzione, uno
sguardo che finalmente riconobbe. Nel salottino, in quel preciso
istante, c’era colui che aveva spaventato il professor Wolf, miss
Silence, Mediana e il Senza Paura.
Non aveva mai smesso di esserci.
Appoggiato allo schienale della sedia a rotelle di Ambroise, Lazarus
rivolse loro un ampio sorriso.
«Signore e signori, l’aeronave è pronta!».
LO SPAVENTO

Ofelia non emise un suono mentre Lazarus li guidava tra le vasche


delle ninfee con un’andatura danzante. Per calmare i tremiti si
stringeva contro lo stomaco il libro di Eulalia Diyoh. Nonostante la
calda umidità della notte aveva la sensazione che il sangue le si fosse
congelato. Si sforzava di non lasciar trapelare niente, ma la sciarpa
percepiva la sua paura e le si aggrappava al collo.
Thorn, assorto nei propri pensieri, batteva il suolo col bastone con
una determinazione nuova. Ofelia avrebbe voluto urlargli che
l’assassino era fra loro, ma avrebbe solo precipitato la loro fine. No,
doveva assolutamente mantenere il controllo dei nervi, guardare
dritto davanti a sé, non sollevare sospetti. Per quanto irragionevole e
pieno di lacune, un piano si stava facendo strada nella sua mente.
«State bene, miss?» si informò educatamente Ambroise.
Manovrava la sedia a rotelle in modo da tenersi sulla destra, col
dolce viso rivolto verso di lei come se cercasse disperatamente la sua
assoluzione. Ofelia si limitò ad annuire.
Si tranquillizzò vedendo Lazarus salire saltellando la scala di una
terrazza, con le falde della redingote che si agitavano come ali. Thorn
salì faticosamente dopo di lui, scalino per scalino, impossibilitato ad
articolare il ginocchio dell’armatura. Non c’erano rampe d’accesso
per raggiungere la terrazza: Ambroise non avrebbe potuto seguirli.
Non facilmente, almeno. Quando Ofelia gli rivolse un’ultima
occhiata dall’alto della scala, la pelle scura del ragazzo e il legno della
sedia a rotelle si fondevano completamente col buio del giardino.
Solo i vestiti bianchi spiccavano nelle tenebre, dando l’illusione di un
fantasma seduto in mezzo al nulla.
Forse il piano di Ofelia poteva funzionare.
Il lazarottero li aspettava sulla terrazza di marmo. Si trattava di un
apparecchio la cui velatura rotante e la struttura metallica, illuminate
dalle lanterne, facevano pensare a un gigantesco scheletro di libellula.
Walter stava sistemando una passerella per l’imbarco. Le eliche
dell’aeronave producevano un tale vento che Ofelia sentì l’aria
sferzarle la faccia e farle volare i capelli in tutte le direzioni. Inspirò
profondamente per farsi coraggio e dette L’era dei miracoli a Thorn,
che si stava dirigendo alla passerella.
«La verità che abbiamo scoperto» gli disse con un tono abbastanza
forte da sovrastare il ronzio delle eliche, «probabilmente non è quella
che i Genealogisti vorranno sentire».
«Non importa. Ho assolto la mia parte di contratto».
Al momento di prendere il libro Thorn le strinse la mano con
autorità e la guardò negli occhi. Il vento, scompigliandogli i capelli,
lo faceva sembrare ancora più arcigno del solito.
«Non intendete accompagnarmi al Memoriale» constatò.
«Perché?».
Ofelia non aveva fatto altro che dire bugie da quando era arrivata a
Babel, spesso perché era necessario, talvolta perché era più facile, ma
se c’era una persona al mondo con la quale avrebbe voluto essere del
tutto trasparente, era l’uomo che le stava di fronte in quel momento.
Eppure gli mentì sfrontatamente guardandolo negli occhi.
«Voglio rimanere un po’ con Ambroise, abbiamo bisogno di
mettere in chiaro alcune cose. Del resto non pensavate mica di
presentarmi ai Genealogisti, no?».
Le dita di Thorn le strinsero ancora di più la mano. La stava
sospettando di non rivelargli fino in fondo il suo pensiero?
«Non muovetevi di qui finché non sarò di ritorno. C’è gente che è
morta per essersi avvicinata al segreto di cui siamo i detentori».
Sotto il suo sguardo di piombo Ofelia fu sul punto di cedere.
Avrebbe voluto supplicare Thorn di restare con lei su quella terrazza,
ma se si tradiva in quel momento allora sì che sarebbero morti
entrambi nel più atroce dei modi. C’era soltanto una soluzione per
fermare l’assassino, e questa comportava che Ofelia gli parlasse da
sola a solo.
Trovò chissà come la forza di sorridere.
«Non mi muoverò».
Thorn le lasciò la mano a malincuore e tenne il libro. Ofelia
dovette fare violenza su se stessa per non corrergli dietro quando salì
sulla passerella.
Lazarus si precipitò sulla mano che lei aveva lasciato a mezz’aria e
gliela strinse ridendo.
«Sono stato felice di rincontrarvi, giovine lady! Non ci rivedremo
presto, avrò molto da fare nelle prossime settimane e sicuramente
non avrò tempo di ripassare da qui stanotte. Sentitevi come a casa
vostra! Vi auguro buona fortuna nella vostra ricerca dell’Altro»
aggiunse accostandosi al suo orecchio. «Non fate affidamento sugli
occhi per trovarlo, nessuno sa come sia fatto né sotto che forma vi
apparirà quando sarà il momento. Se posso permettermi un piccolo
consiglio, indagate sugli echi, sono la chiave di tutto. Blast!».
Lazarus galoppò sulla terrazza. Soffiata via dalle eliche, la tuba
bianca era volata verso le stelle.
Ofelia l’aveva a stento ascoltato.
«Lascia che se ne vadano col libro» sussurrò al vento mentre
Lazarus saliva a sua volta sulla passerella. «Sono io quella che
t’interessa, vero?».
La presenza era sempre lì. Senza la memoria di Eulalia
probabilmente Ofelia non l’avrebbe mai notata. L’apparecchio si
sollevò in un turbine di eliche e scomparve nella notte. Thorn era al
sicuro.
Il vento cessò, scese il silenzio. Ofelia deglutì con difficoltà, poi si
voltò con decisione. Le lanterne della terrazza, circondate da zanzare
ronzanti, sdoppiavano l’ombra dell’uomo che era rimasto accanto a
lei. Per la prima volta dall’inizio della serata lo vide distintamente
malgrado il triplo spessore di capelli, sopracciglia e barba. Anche in
quell’istante le sembrava incredibile che il vecchio spazzino dall’aria
inoffensiva avesse terrorizzato così tante persone.
«La sera in cui sono rimasta chiusa nell’inceneritore sei stato tu ad
aprirmi la porta» disse Ofelia con una calma che era ben lontana dal
provare.
Lui non rispose. Era impossibile distinguerne l’espressione sotto la
selva di peli che lo copriva.
«Eri lì» continuò Ofelia. «Eri lì quando il Senza Paura mi
minacciava. Eri lì quando Mediana mi ricattava. Mi hai protetto. Così
come hai protetto la mia opera» sottolineò Ofelia calcando convinta
sul pronome possessivo. «Hai punito il professor Wolf per aver rubato
uno dei miei libri e miss Silence per averli distrutti quasi tutti».
A quelle parole la figura scheletrica del vecchio, il cui equilibrio
sembrava sbilenco senza la scopa in mano, si raddrizzò lentamente.
Ofelia sentì una goccia di sudore colarle tra le scapole. Il suo piano
dipendeva interamente dalla sua abilità nell’incarnare Eulalia Diyoh
di fronte all’individuo che la scambiava per lei. Lo sapeva perché
aveva suscitato la stessa confusione in Faruk, Polluce e forse anche in
Helena e Artemide.
“Un altro” aveva detto Mediana. “Ce n’è un altro”.
«Anche tu sei uno spirito di famiglia» dichiarò Ofelia mantenendo
il sangue freddo. «Uno spirito di famiglia dell’ombra, sconosciuto al
mondo, perché il tuo ruolo è diverso. Tu proteggi la mia scuola.
Proteggi la mia opera».
Il vecchio non si muoveva, era impietrito come una statua. Ofelia
non si faceva trarre in inganno. Spesso le belve stanno immobili
prima di lanciarsi sulla preda.
«Ti ho dotato di un potere a doppio taglio» continuò con voce più
o meno ferma, «quello di ispirare la più assoluta paura o la più
completa indifferenza. È un pesante fardello quello che ti ho fatto
portare per secoli, condannato a esistere davvero per gli altri solo
spaventandoli».
Ofelia enunciava verità che il vecchio spazzino già conosceva,
tuttavia percepiva in lui una specie di esitazione. Doveva
convincerlo, e convincere se stessa, che in quel momento era solo e
unicamente Eulalia.
Dovette dare fondo a tutta la sua volontà per non arretrare quando
lo spazzino venne avanti fiaccamente sovrapponendo la propria
ombra alla sua. Di colpo ebbe la sensazione che il corpo le andasse
stretto. Avrebbe voluto sciogliersi la sciarpa che, sempre più ansiosa,
quasi la strozzava, ma riusciva sì e no a muovere le dita. Se non si
calmava in fretta lo spirito di famiglia non avrebbe avuto bisogno di
servirsi del suo potere per farla morire di paura.
«Mi dispiace» mormorò. «Sei stato solo per così tanto tempo... Non
sei più obbligato a fare tutto ciò per me. La scuola che conoscevamo
non esiste più, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono abbastanza grandi,
ora, e non vale certo la pena che ci si ammazzi per i miei libri. Tutto
quello che un tempo era importante oggi non lo è più. Devi passare
ad altro, capisci?».
Forse era un effetto dell’immaginazione, ma le sembrò di percepire
una scintilla dietro la folta zazzera. In due lente falcate il vecchio
spazzino colmò la poca distanza che li separava, poi vertebra dopo
vertebra, quasi con un movimento da rettile, si piegò in avanti fino a
che la schiena gli formò una gobba che non aveva un’anatomia
umana. Il suo viso cespuglioso e grottesco era a un soffio da quello di
Ofelia, con l’unica differenza che il suo non respirava. C’era almeno
una bocca sotto quella barba? C’erano due occhi sotto il boschetto
delle sopracciglia?
Al primo gesto impulsivo si sarebbero aperte le ostilità.
Il vecchio spazzino rimase a lungo in quel modo, curvo da spezzarsi
le ossa, in un faccia a faccia al limite della decenza. Quando
finalmente si decise a rimettersi in movimento allungò il lungo
braccio ossuto e con una mano scheletrica si sollevò i capelli.
La scintilla che Ofelia aveva visto non proveniva da uno sguardo,
ma da una placca d’alluminio avvitata direttamente sulla fronte. Vi
era incisa un’iscrizione minuscola, appena visibile alla tenue luce
delle lanterne. Ne riconobbe i caratteri, ma non per questo fu in
grado di capirla: la memoria di Eulalia non si addentrava così tanto
nel dettaglio. Erano gli stessi arabeschi che figuravano nei Libri degli
spiriti di famiglia, un codice che descriveva la loro natura intrinseca e
definiva la loro ragion d’essere.
La placca era certamente molto meno complessa di un Libro, il che
spiegava il comportamento primitivo del vecchio spazzino, ma ne
costituiva comunque la sua forza viva. Ofelia si stava chiedendo
perché ci tenesse tanto a mostrargliela quando lui ci tamburellò sopra
con la grossa unghia.
«Vuoi che te la tolga?».
Ofelia aveva ritrovato la voce. Per quanto sapesse che quella
creatura antica aveva ucciso più volte, non sentiva di avere né il
coraggio né il diritto di ucciderlo a sua volta. Sebbene terrorizzata, si
sentiva responsabile di lui. Eulalia, smettendo di essere Diyoh e
diventando Dio, l’aveva abbandonato al suo destino. Dato che in un
modo o nell’altro Ofelia aveva ereditato parte della sua memoria,
forse aveva ereditato anche parte della sua colpa.
«Miss Ofelia, siete voi? Non siete andata con mio padre?».
L’esclamazione stupita veniva da Ambroise in fondo alle scale, che
evidentemente l’aveva sentita parlare.
D’istinto, per una frazione di secondo Ofelia aveva reagito al
proprio nome. Era stato solo un breve, microscopico movimento
della testa verso la scala, ma quando riportò lo sguardo sul vecchio
spazzino capì di essersi tradita. Lui non si era mosso di un millimetro,
stava sempre esageratamente piegato in avanti con i capelli sollevati
dalla mano, ma l’atmosfera si era bruscamente fatta pesante.
“Devo fuggire, chiamare aiuto” capì Ofelia.
Non lo fece. Le sue gambe sembravano sprofondate nel marmo.
Ogni respiro le faceva l’effetto di bere acqua paludosa. Il corpo non le
ubbidiva più, era ormai soltanto un caos di budella in cui ogni
molecola urlava nel silenzio più disperato. Mai, neppure
nell’isolatoio, Ofelia si era sentita così totalmente sola, come se uno
spietato colpo di forbici avesse tagliato il filo che la legava a tutto ciò
che di bello e di buono possiede il mondo. Perfino la sciarpa le
pendeva dal collo come un peso morto, priva di qualsiasi animismo.
Quando credeva di aver toccato il fondo del terrore la paura vera
cominciò a risalirle lungo il corpo, a gonfiarle le viscere, a invadere e
devastare tutto fino a esplodere.
Impiegò qualche secondo a realizzare che l’esplosione non era
avvenuta in lei, bensì all’esterno. Con i muscoli paralizzati e la pancia
scossa da spasmi fissò il volto del vecchio spazzino di fronte a sé.
La placca sulla fronte era forata da un enorme buco.
Non usciva neanche una goccia di sangue. Per un po’ il vecchio
spazzino rimase nella stessa assurda posizione, curvo fino alla gobba e
con la mano che teneva sollevati i capelli, poi finalmente crollò sul
marmo come un burattino disarticolato.
Stecchito.
Le gambe di Ofelia cedettero. Si rannicchiò, vomitò il tè, e solo
dopo trovò la forza di voltarsi verso chi le aveva salvato la vita.
Un’ombra stava accovacciata sulla balaustra della terrazza con un
fucile da caccia in mano. Era così piccola e snella che da principio
Ofelia pensò fosse una scimmia, ma quando si raddrizzò vide che era
un bambino vestito solo di un pareo.
Il figlio del Senza Paura E Quasi Senza Rimprovero.
Senza dire una parola, senza un fruscio, il bambino si girò e saltò in
giardino.
«Miss Ofelia!» chiamò la voce allarmata di Ambroise. «Cos’era quel
rumore? Siete ferita?».
Lei guardò il corpo del vecchio spazzino col buco in mezzo alla
fronte. Perdeva progressivamente consistenza diventando più
trasparente di secondo in secondo, fino a lasciar intravedere il marmo
su cui era steso. Pochi secondi dopo era completamente sparito.
Come se non fosse mai esistito.
«Sto bene» rispose.
Non aveva mai provato tanto sollievo pronunciando quelle parole.
SCIOCCHEZZA

Vittoria sobbalzò nel letto. Alti strilli riecheggiavano per tutti i


piani della casa. Poco dopo Mamma accese la luce della camera.
Indossava soltanto una vestaglia di seta, e aveva i capelli pieni di
bigodini.
«Non avere paura, cara!» sussurrò prendendola in braccio.
Vittoria non aveva paura. Non aveva più paura da quando Padre
aveva cacciato la Dama d’Oro e tutte le sue ombre. Con gli occhi
assonnati guardò le finte stelle che luccicavano dietro la finestra. Era
però curiosa di sapere cosa fossero quelle grida. Sembrava la voce di
Grande Madrina, e sembrava pure parecchio in collera.
«Signora Roseline, che c’è? Che succede?».
Mamma scese le scale tenendosi Vittoria stretta al petto. Non c’era
nessuno nei salottini, nessuno in sala da pranzo, nessuno nell’office,
ma più Mamma apriva porte e più gli strilli di Grande Madrina
ferivano i timpani.
«Che razza di idea! Avrei potuto uccidervi! Siete... siete... siete più
irritante di un tubetto di dentifricio!».
Vittoria sgranò gli occhi quando Mamma entrò con lei nel fumoir.
Le lampade a gas erano tutte regolate sulla fiammellina notturna, ma
la luce che facevano permetteva di vedere abbastanza. Vi regnava un
disordine come Vittoria non aveva mai visto in casa. Nessun mobile
era al solito posto. Il bel tavolino a scacchiera era rovesciato con le
gambe in aria. Sul tappeto, resti di cenere si erano mischiati ai pedoni
bianchi e neri.
Grande Madrina, in vestaglia e berretta da notte, stava in mezzo
alla stanza con espressione minacciosa. Uno dei piedi aveva perso
una pantofola.
Vittoria si aggrappò a Mamma vedendo un’ombra accucciata dietro
il divano.
«Arriva senza avvisare!» esclamò Grande Madrina scandalizzata. «Si
presenta a casa della gente a qualunque ora! Ho sentito un rumore in
basso e... ho creduto che fosse un assassino!».
L’ombra dietro il divano si raddrizzò portandosi alla luce. In realtà
era un uomo che non aveva assolutamente niente dell’ombra.
Guance e barba brillavano come il sole, e in mezzo a quei raggi
scintillava un grande sorriso contento. In una mano teneva un sigaro
come quelli allineati dietro le vetrine del fumoir, con l’altra si
strofinava una curiosa impronta rossa sulla fronte senza riuscire a
farla sparire.
«La signora Roseline mi ha colpito con una spatola per cialde.
Straordinaria».
Vittoria si sentì fremere dalla testa ai piedi. Era Padrino!
«Come siete entrato?» domandò Mamma.
«Da una piccola scorciatoia del mio repertorio. La annullerò
andandomene».
Padrino indicò col sigaro l’alta pendola che batteva i secondi in
fondo al fumoir. O meglio, che avrebbe dovuto battere i secondi.
Dietro il vetro, il bilanciere era scomparso. Al suo posto a Vittoria
sembrò di vedere il selciato di una via buia.
«Bene. Vado a fare il tè».
Anche tirata giù dal letto in piena notte e con la casa sottosopra,
Mamma non dimenticava le buone maniere.
«Non fate niente, carissima. Abbiamo poco tempo».
Padrino balzò sul divano e si sedette sullo schienale senza
preoccuparsi di sporcare i cuscini con le scarpe. Aveva i pantaloni
pieni di buchi, e non si era nemmeno curato di mettersi le bretelle
sopra la camicia. Viso, collo, mani, ogni pezzo di pelle che gli usciva
dai vestiti era incredibilmente colorato. Vittoria non l’aveva mai
trovato così bello.
«In effetti non avrei il diritto di essere qui» scoppiò a ridere Padrino
in una nuvola di fumo. «Ma sapete come sono fatto, più una cosa è
vietata e più la trasgredisco!».
Mamma mise Vittoria seduta accanto a sé, e con un gesto
aggraziato le posò un fazzoletto sul naso per impedirle di respirare il
sigaro.
«Siete incomprensibile, Archi, ma le vostre spiegazioni possono
aspettare, prima devo farvi una domanda di primaria importanza:
avete commissionato un’illusione a madama Cunegonda?».
«Che idea! Perché mai avrei dovuto comprare una cosa che mi
ripugna?».
Padrino si era messo a ridere, ma Vittoria colse lo sguardo nervoso
che si scambiarono Mamma e Grande Madrina. Né l’una né l’altra
sembravano trovare divertente la sua risposta.
«Allora abbiamo avuto a che fare con un impostore. Quando penso
che gli ho aperto la porta decine di volte e ho lasciato che si
avvicinasse a mia figlia! Comunque sia questa persona vi sta
cercando, Archi. Vi ritengo dunque responsabile di averci messo tutte
e tre in pericolo».
Sotto il tono pacato di Mamma, Vittoria percepì una durezza di cui
non comprendeva la natura. Anziché spegnersi, il sorriso di Padrino
si allargò.
«Se avete parlato delle mie attività con quell’impostore» disse
calcando misteriosamente sull’ultima parola, «siete un po’
responsabile anche voi. Poco male! Sono venuto per mettervi tutte e
tre al sicuro dal suddetto pericolo».
Padrino tirò fuori da una tasca, anch’essa bucata, una palla che
lanciò a Vittoria con fare giocoso. Era pesante, e come profumava!
Mamma gliela tolse subito dalle manine, come se fosse stato un
oggetto pericoloso.
«Un’arancia» dichiarò Padrino. «Prima che voi nasceste,
madamigella, se ne trovavano su tutte le tavole del Polo. Questa l’ho
colta un quarto d’ora fa».
«Ci siete riuscito?» esclamò Grande Madrina. «Avete trovato Terra
d’Arco?».
«Non è stato facile. Abbiamo dovuto attraversare città, montagne e
foreste per trovare le corrispondenze tra una Rosa dei Venti e l’altra. E
se arrivare a Terra d’Arco non è semplice, ripartirne è ancora più
difficile. Gli Arcadiani saranno pure miei lontani cugini, ma non mi
hanno accolto a braccia aperte». Dicendolo si strofinò l’impronta
della spatola per cialde sulla fronte. «Don Janus, il loro spirito di
famiglia, mi ha espressamente ordinato di non lasciare la sua arca e
non servirmi più delle sue Rose dei Venti. Tenete presente che non è
affatto un supplizio, ci sono giardini splendidi a Terra d’Arco».
Vittoria inspirò profondamente il profumo che l’arancia le aveva
lasciato sulle mani. Montagne. Foreste. Giardini. Per lei quelle parole
erano solo incisioni scure sui libri della biblioteca, ma quando a
pronunciarle era Padrino sentiva “cielo”, “alberi”, “uccelli”!
«E voi vi siete affrettato a disubbidirgli» sospirò dolcemente
Mamma. «Avete disubbidito a uno spirito di famiglia».
«Solo a metà» disse Padrino. «Sono tornato al Polo senza utilizzare
le Rose dei Venti! Mi ha richiesto tempo e sforzi, ma sono riuscito a
invocare una scorciatoia tra le nostre arche. Non reggerà a lungo,
quindi sbrigatevi a fare le valigie!».
Grande Madrina incollò il naso al vetro della pendola e asciugò la
condensa che le impediva di vedere il selciato.
«Volete dire che quello...».
«No, quella è solo la via qua davanti. La scorciatoia per Terra d’Arco
si trova in un altro quartiere di Città-cielo. Suvvia, vi risparmio un
viaggio di varie migliaia di chilometri. Non sarà una passeggiatina a
spaventarvi, no?».
«Perché diamine volete portarci laggiù?».
«Sole, caffè, frutta, spezie: servo loro il paradiso su un vassoio
d’argento e queste dame recalcitrano!».
Seguì un silenzio più pesante dell’arancia posata sulla vestaglia di
seta di Mamma, così pesante che perfino Padrino perse la sua
leggerezza. Schiacciò a lungo il sigaro in un posacenere. La sua bocca
aveva sempre quella piega maliziosa per cui Vittoria stravedeva, ma il
tono era molto serio quando riprese la parola.
«L’impostore con cui avete avuto a che fare è un megalomane.
Controlla la quasi totalità delle istituzioni politiche, ed è
perfettamente in grado di assimilare e riprodurre i poteri familiari di
tutti quelli che incontra. È morta gente e ho rischiato di rimetterci la
pelle anch’io per colpa di un barone che voleva compiacerlo, e non
era certamente un caso isolato. Esiste un solo posto al mondo su cui
quel megalomane non è riuscito a mettere le grinfie: Terra d’Arco. E
finalmente ho capito cosa sta cercando e perché gli Arcadiani lo
tengono lontano». Ci fu una scintilla di luce in mezzo alla barba di
Padrino quando il sorriso ne rivelò i denti. «Dovete sapere che i miei
cugini detengono un potere molto affascinante. Avete mai sentito
parlare degli Agujas?».
Padrino aveva pronunciato “agukras” con un gran raschiamento di
gola. Grande Madrina aggrottò le sopracciglia, Mamma rimase in
silenzio. Vittoria non aveva ben capito la domanda, ma capì che né
l’una né l’altra sapevano la risposta.
«Li chiamano anche “Orientatori”» disse Padrino. «Sono una
ramificazione dell’albero genealogico degli Arcadiani. Neanch’io
sapevo chi fossero prima di conoscerli, e non a caso: sono
estremamente rari ed estremamente segreti. Immaginate, signore, di
essere dotate di una bussola interna il cui ago vi permetta di trovare
assolutamente chiunque assolutamente dovunque. Il vostro bersaglio
potrebbe nascondersi all’altro capo del mondo nella più
impenetrabile delle fortezze, ma non vi sfuggirebbe. Ho reso l’idea?
Ecco qual è il potere degli Orientatori! Vi lascio immaginare l’uso che
ne farebbe il nostro megalomane. Più nessuno sarebbe al sicuro dal
suo ago».
Padrino tacque come per assaporare l’effetto della rivelazione.
L’unica parola che Vittoria aveva capito di quel lungo discorso
complicato era “albero”. Non doveva essere un albero normale, però,
perché Mamma e Grande Madrina sembravano piuttosto
impressionate.
«Se ho trovato Terra d’Arco io, prima o poi ci riuscirà anche lui»
aggiunse giocherellando col mozzicone del sigaro. «Per questo penso
che dobbiamo servirci del potere degli Orientatori prima di lui. La
questione è tutta lì. La cosa a cui gli Arcadiani tengono di più, a
cominciare da don Janus, è la loro sacrosanta neutralità. Non
vogliono immischiarsi negli affari del mondo, se non ci guadagnano
qualcosa. Ho passato tutta la vita a essere neutro, data l’educazione
che ho ricevuto, e se c’è una cosa che ho imparato è che “neutralità”
è un modo grazioso per dire “viltà”. Arriva un momento in cui
bisogna scegliere da che parte stare, e per quel che mi riguarda mi
rifiuto di stare ancora dalla parte delle marionette».
Mamma applaudì con le sue belle mani tatuate. Vittoria, pensando
che fosse un gioco, la imitò.
«Congratulazioni, Archi, state crescendo. E noi tre che
c’entriamo?».
«Vorrei convincere don Janus e gli Arcadiani a rinunciare alla
neutralità, ma ai loro occhi sono solo un ex ambasciatore che parla a
nome di se stesso. Voi, Berenilde, siete per così dire la first lady del
Polo, la vostra parola ha più peso della mia. Per non parlare del
vostro charme».
Padrino spalancò gli occhi, occhi più azzurri di quanto non fosse
mai stato il finto cielo della casa. Vittoria avrebbe voluto poterci
volare dentro.
«No» disse Mamma.
«No?» ripeté Padrino sorridendo ancora di più.
«Mi state chiedendo l’impossibile. Se vi seguissi non avrei nessuna
garanzia di poter tornare e, diversamente da voi, non correrei mai il
rischio di scatenare un incidente diplomatico disubbidendo a uno
spirito di famiglia».
«Considerate però...».
«Ve l’ho detto e ve lo ripeto, Archi» lo interruppe Mamma. «Il mio
posto è qui, e oggi ne sono più che mai convinta: il nostro sire ha
bisogno di avere sua figlia accanto. Sta cercando di cambiare, sta
cercando di cambiare la famiglia, e lo fa perché vuole darle un futuro
senza lotte fra clan, senza cospirazioni e senza omicidi. Se ce ne
andiamo dimenticherà perché si sta dando tanto da fare».
Stavolta toccò a Grande Madrina applaudire. Vittoria, felice di quel
giochino notturno, si precipitò a fare come lei. Le sembrava di
assistere a un’opera di quelle che Mamma le raccontava ogni tanto.
Padrino si passò il pollice sul sempre più ampio sorriso.
«Il potere degli Orientatori, Berenilde. Pensateci! Se riuscite a
convincerli a mettersi al servizio della vostra causa troveranno Thorn
e signora in un batter d’occhio».
Vittoria sentì il corpo di Mamma irrigidirsi accanto a lei sul
divanetto. Guardandola vide una specie di dolore sul suo viso, come
se si fosse scottata, ma durò solo un attimo, Mamma tornò
rapidamente alla sua graziosa maschera di porcellana.
«Non cercherò né Thorn né Ofelia finché non vorranno essere
trovati. Allo stesso tempo voglio che loro possano trovarmi qui,
quando sarà il momento. Io e mia figlia restiamo. È la mia ultima
parola».
Dopo che Mamma ebbe parlato Grande Madrina allungò una mano
autoritaria verso Padrino, che dopo una breve esitazione le restituì la
pantofola.
«Non ho mai forzato una donna, e non comincerò certo oggi.
Pazienza! Ora devo lasciarvi, la scorciatoia non resisterà ancora a
lungo».
Il cuore di Vittoria si mise a battere forte quando Padrino si
inginocchiò davanti a lei e le prese la mano. Il mento dorato le
punzecchiò le dita. Le sorrideva, ma in maniera diversa dal solito,
con un sorriso in cui c’era poco sorriso.
«Non so quando ci rivedremo, madamigella. Nel frattempo non
cambiate troppo, vi prego».
Vittoria ebbe improvvisamente molto freddo. Guardò Padrino
spolverarsi l’alto cappello bucato e sventolarselo tre volte sulla testa,
come per dire addio a ognuna di loro.
Non voleva.
Non voleva vederlo andar via. Era come veder partire con lui il vero
cielo, i veri alberi e i veri uccelli. Mosse le labbra quando Padrino si
infilò nella pendola del fumoir, ma lui non la sentì.
Nessuno la sentiva mai.
Senza uno sguardo per Mamma e Grande Madrina, si lasciò alle
spalle l’Altra Vittoria e attraversò a sua volta la pendola ritrovandosi
sul selciato di una via piena di nebbia che il viaggio rendeva ancora
più nebbiosa. Visto dall’altra parte della pendola il fumoir era solo
una macchiolina di luce in mezzo a un muro. Padrino chiuse una
porta, la riaprì, e non c’erano più né casa né fumoir.
Vittoria non aveva paura. Continuava a percepire in lontananza la
presenza dell’Altra Vittoria contro il corpo di Mamma. E poi c’era
Padrino. Stava magnificamente bene con lui, anche se non era in
grado di vederla come Padre.
Stavolta l’avrebbe seguito fino al cielo vero!
Per il momento Padrino non si muoveva molto. Stava in mezzo alla
strada con le mani in tasca guardando la nebbia intorno a sé con aria
interrogativa.
«Ah, finalmente» disse vedendo apparire una persona. «E meno
male che dovevate montare la guardia!».
«Mi era sembrato di vedere qualcuno. Falso allarme».
Vittoria riconobbe l’Omone Tutto Rosso. Anche quando cercava di
bisbigliare il suo vocione rimbombava per tutta la via.
«Allora?».
«Allora niente» ridacchiò Padrino con un’alzata di spalle. «C’è stata
un’epoca in cui avrei convinto qualunque dama ad accompagnarmi
in capo al mondo. Avrei potuto servirmi del mio vecchio trucco»
disse tamburellandosi la lacrima nera tatuata fra le sopracciglia, «ma
ho giurato di non farlo mai più con Berenilde. Forse ha ragione lei,
sto cominciando a crescere. Che orrore...».
Vittoria saltellava di pietra in pietra per non perdere di vista
Padrino e l’Omone Tutto Rosso, che camminavano veloci nella
nebbia. I loro mormorii, distorti dal viaggio, sembravano le bolle che
si fanno con la cannuccia in un bicchiere di latte.
Imboccarono una strada ancora meno illuminata che portava a un
vicolo cieco di mattoni e a montagne di detriti. Se in viaggio Vittoria
avesse potuto sentire gli odori si sarebbe di sicuro tappata il naso. Il
cielo che aveva sperato di vedere non era lì.
Padrino salì su una cassetta ammuffita per raggiungere la portiera
di una vecchia carrozza senza ruote. L’Omone Tutto Rosso lo guardò
senza fare domande.
«Bene, è ancora qui» sussurrò Padrino facendogli segno di sbrigarsi.
«Se siamo fortunati don Janus non si sarà accorto di niente».
La portiera si aprì su una luce vivida, come se all’interno della
carrozza ci fosse un gran fuoco. L’Omone Tutto Rosso fu costretto a
qualche contorsione per far passare le sue larghe spalle. Padrino
controllò con un’occhiata che il vicolo fosse deserto, non si accorse
della bambina sotto il suo naso, ed entrò a sua volta.
Senza la minima esitazione Vittoria saltò nella luce con lui.
Per un attimo non vide più niente, né luce né buio. Un giorno la
manica di Grande Madrina si era strappata rimanendo impigliata
nella maniglia del salotto. Ecco, Vittoria si sentì come la manica di
Grande Madrina, tagliata in due.
Eppure era un dolore che non le faceva male, e un secondo dopo
smise di pensarci. Aveva occhi solo per il cielo sopra la sua testa, un
cielo gigantesco, un cielo che non si accontentava di essere azzurro,
ma era pure rosso, violetto, verde e giallo, con un sole abbagliante e
grandi stormi di uccelli. Il cielo vero! Per quanto distorto dal viaggio,
era la cosa più bella che avesse mai visto nella sua ancor breve vita.
«Ve l’avevo detto che era una perdita di tempo».
Vittoria guardò la Signora dagli Occhi Strani. Stava proprio accanto
a lei con la sigaretta fra le labbra buttando fuori il fumo con rabbia.
Anche lei aveva acquistato colori dall’ultima volta che l’aveva vista.
«Andare al Polo è stato un rischio stupido e inutile».
Padrino chiuse e riaprì la porta di una capanna con ampi gesti
esagerati.
«Ecco fatto, fine della scorciatoia! È successa forse una catastrofe?
Qualcuno ha notato la nostra assenza?».
«Non lo so» grugnì la Signora dagli Occhi Strani. «Io e il gatto ci
siamo limitati a tenere d’occhio l’aranceto per controllare che
nessuno si avvicinasse alla vostra dannata scorciatoia da questa parte
del pianeta».
Rivolse uno sguardo di rimprovero all’Omone Tutto Rosso, che
però non sembrava molto voglioso di partecipare alla conversazione;
fissava Salame che gli annusava le grosse scarpe con aria di
disapprovazione, come se sentisse che il padrone aveva camminato su
qualcosa di poco pulito.
Vittoria si rese improvvisamente conto che si trovavano in un
giardino in cui centinaia di alberi, alberi veri!, piegavano i rami sotto
il peso di arance uguali a quella che le aveva portato Padrino. La luce
che vi regnava era più forte di tutte le lampade di casa e di tutte le
illusioni del parco.
Alla meraviglia si sostituì presto una sensazione di malessere:
Vittoria non percepiva più la presenza lontana dell’Altra Vittoria.
«Basta chiacchiere, passiamo al piano d’emergenza!» dichiarò
Padrino.
«Quale piano d’emergenza, signor ex ambasciatore?» sogghignò la
Signora dagli Occhi Strani.
«Quello che dovremo inventarci per convincere i miei cugini a dare
la caccia a Dio anziché evitarlo».
Su quelle parole Padrino si allontanò sbucciando un’arancia, con le
bretelle dei pantaloni che gli sbattevano lungo i fianchi. Vittoria non
sapeva più che fare. Continuare a seguirli? Non muoversi? Per quanto
si concentrasse non riusciva a trovare la via del ritorno. In precedenza
non le era mai capitato di doversi sforzare, tornare a casa era sempre
stato naturale quanto svegliarsi.
Saltellò davanti alla Signora dagli Occhi Strani sperando che il suo
curioso potere avrebbe annullato il viaggio, ma niente cambiò. La
Signora dagli Occhi Strani sputò una cicca che attraversò Vittoria
come fosse una nuvola.
«Quell’imbecille non sa quel che fa. E a te che è successo?»
domandò all’Omone Tutto Rosso. «Ti sei preso il raffreddore al
Polo?».
L’Omone Tutto Rosso non rispose. Aveva smesso di guardare
Salame, che continuava ad annusargli le scarpe, e contemplava il
cielo.
Poi aggrottò le grosse sopracciglia rosse.
«È la fine dell’inizio. Cioè, l’inizio della fine».
Con uno shock non indifferente Vittoria notò allora le ombre sotto
le scarpe dell’Omone Tutto Rosso.
L’ALTRO

Il soffio dell’asciugacapelli copriva la voce della radio nonché il


crepitio della pioggia che colpiva la finestra con grosse gocce. Ofelia
però non ascoltava né radio né pioggia, come non ascoltava il
domestico meccanico che le asciugava i ricci indisciplinati
sentenziando «MEGLIO UNA TESTA BEN FATTA DI UNA TESTA PIENA» o
«SORRIDERE TRE VOLTE AL GIORNO TOGLIE IL MEDICO DI TORNO». Ofelia aveva
cercato di spiegargli che era sufficiente un asciugamano, tanto più col
calore soffocante che regnava nella stanza, ma lui non le aveva
lasciato scelta. Lazarus non sarebbe tornato prima di qualche
settimana e Ambroise era andato a fare il tac-si: in loro assenza era
più prudente non contrariare quegli automi capaci di sfoderare
centinaia di lame alla prima parola sbagliata.
Così, armata della lente d’ingrandimento che le aveva prestato
Ambroise, si concentrava sulla cartolina del prozio. Non era facile
distinguere le figure tra la folla della XXII Esposizione interfamiliare,
ma ce n’era una molto riconoscibile: un vecchio in disparte che
scopava un corridoio del Memoriale col viso nascosto da un groviglio
inestricabile di barba, sopracciglia e capelli. In sessant’anni non era
cambiato. Aveva trascorso interi secoli a vegliare su quel che restava
della vecchia scuola in cui avevano vissuto Eulalia e i suoi spiriti di
famiglia. Ofelia non riusciva a staccargli gli occhiali di dosso da
quando l’aveva individuato sulla fotografia. Forse era defunto, ma lo
spavento che le aveva messo addosso continuava a urlare dentro di
lei. Aveva avuto gli incubi tutta la notte, ed erano state necessarie
varie docce per far sparire dalla sua pelle l’odore acre dell’angoscia.
“Eppure ne sono venuta fuori bene” pensò alzando gli occhi sulle
strisce sabbiose lasciate dalla pioggia sulla finestra. Se il figlio del
Senza Paura avesse aspettato un secondo di più a distruggere la placca
si sarebbe ritrovata come minimo nello stesso stato di Mediana. Si
domandò se quel ragazzino l’avesse spiata sapendo che l’avrebbe
condotto all’assassino del padre. Se così era, l’eredità del Senza Paura
era indubbiamente assicurata.
Inoltre, se il vecchio spazzino si trovava al Memoriale sessant’anni
prima, non poteva essere quell’Altro che Ofelia aveva liberato dallo
specchio. Doveva riconoscere di aver preso seriamente in
considerazione l’ipotesi, ma i tempi non combaciavano. E poi una
cosa era spaventare la gente, un’altra provocare il crollo delle arche.
Sollevò un sopracciglio quando sentì un vago odore di bruciato
provenirle dalla testa.
«Credo che possa bastare, grazie» disse congedando il domestico
con un educato cenno della mano.
L’automa spense l’asciugacapelli e se ne andò con un ultimo «NON SI
POSSONO SALVARE CAPRA E CAVOLI». Pioggia e radio ripresero il
sopravvento. Quella camera con i mobili in legno scolpito,
l’immenso letto con la zanzariera e la bella specchiera era un bel
cambiamento rispetto all’austerità della Buona Famiglia. E dire che in
quello stesso posto Ofelia aveva passato la sua prima notte a Babel...
Non riusciva quasi a credere che da allora fossero trascorsi quasi sei
mesi.
Aprì il foglietto che le aveva dato Octavio prima che si separassero.
Passate a trovarmi, voi e le vostre mani, quando ne avete l’occasione.
Helena.
Era tentata di onorare l’invito, ma voleva pensarci bene prima di
avere a che fare di nuovo con uno spirito di famiglia.
Guardò la finestra. Il vetro le rimandava l’immagine di una testa
spettinata su uno sfondo di gocce. Tutta quell’umidità era insolita in
piena stagione secca. Sentì senza ascoltarlo lo speaker della radio
trasmettere un servizio sul Salone delle arti domestiche che si teneva
ogni anno a Babel, in centro città. Allo stesso modo guardò senza
vederle le vasche di ninfee con l’acqua mossa da quella che cadeva
dal cielo. Combatteva contro l’impulso di aprire la finestra, uscire
sotto la pioggia e affacciarsi alla terrazza per tenere d’occhio il portale
d’ingresso. Perché Thorn tardava tanto? Non ci voleva molto a
consegnare un libro, no? Inquieta, si domandò se i Genealogisti gli
avessero fatto problemi.
Sussultò sentendo due colpi autoritari alla porta di camera sua.
«Vi dispiacerebbe sbarazzarmi da questa cosa?» disse Thorn in tono
esigente appena lei aprì.
La sciarpa gli si era arrotolata intorno alla gamba. Appoggiato allo
stipite, Thorn l’aveva presa come un gatto, per la collottola, ma la
lana si era impigliata nell’armatura.
Ofelia si lasciò sfuggire un sorriso mentre cercava di liberarlo.
«Mi stavo chiedendo dove fosse finita. Temo che abbia preso gusto
all’indipendenza».
Thorn dette l’ombrello bagnato all’automa che l’aveva condotto fin
lì e gli chiuse la porta in faccia. O meglio, non faccia.
«Dov’è il figlio di Lazarus?» domandò facendo scorrere uno sguardo
severo sulla stanza.
«Starà fuori tutta la giornata».
«Meglio così. Non saremo disturbati».
Controllò che fuori, sotto la pioggia, non ci fosse nessuno. Assalita
dalla sciarpa, Ofelia osservò circospetta il profilo ombroso di Thorn.
Si era pettinato e rasato, e aveva aggiustato l’armatura della gamba in
maniera solida. Non aveva l’aspetto di un uomo bistrattato, e tuttavia
emanava un odore eccessivo di disinfettante.
«Che vi hanno detto i Genealogisti?» chiese preoccupata. «Ci sono
rimasti male?».
Thorn tirò le tende senza curarsi di immergere bruscamente la
stanza nella penombra.
«Sono stati contenti. Anche di più».
«Ma?».
«Nessun ma. Il libro ha risposto pienamente alle loro attese. Sono
pronti ad affidarmi una nuova missione».
«Che missione?».
«Ancora non lo so».
Ogni frase gli usciva dalle labbra come piombo. La sua sola
presenza rendeva pesante l’atmosfera. Eppure Ofelia si sentiva più
leggera di quando non c’era. Anche più febbrile.
«E voi? Ci siete rimasto male?» domandò.
Thorn la squadrò in silenzio con quella sua espressione molto seria
che metteva allo scoperto i nervi di Ofelia. Lei si chiuse i lembi della
vestaglia sul pigiama che le aveva regalato Ambroise. Ripensò
all’automa e al suo maledetto asciugacapelli, che le avevano
trasformato i ricci in un cespuglio di rovi. Le faceva uno strano
effetto constatare che di colpo avrebbe voluto avere un aspetto meno
trascurato.
«No» rispose Thorn dopo un po’. «Non mi aspettavo di rovesciare
Dio al primo colpo».
Aveva detto “Dio” con un’occhia prudente al chiavistello che aveva
chiuso poco prima. Dato che nessun automa si mise a sfondare la
porta si riempì un bicchiere dalla caraffa del comodino, annusò
l’acqua con aria diffidente e andò a sedersi sul bordo del letto.
«E voi?» chiese a sua volta.
Ofelia decise di non raccontargli del vecchio spazzino. L’avrebbe
fatto in seguito, non voleva nascondergli niente, ma sentiva che
quello non era il momento giusto.
«Sono un po’ scombussolata» rispose con franchezza. «Più ho a che
fare col passato di Eulalia Diyoh, più ho l’impressione di conoscerla,
eppure fra noi c’è una distanza di vari secoli. Il potere familiare che
mi avete trasmesso non consente una cosa del genere, vero? O sì?».
«È stata punita».
Thorn l’aveva detto dopo essersi prudentemente bagnato le labbra
nel bicchiere.
«Punita?» ripeté Ofelia. «Non capisco».
«Io neppure. Una volta vi ho detto che anch’io avevo in me i
ricordi di Faruk trasmessi di generazione in generazione e di memoria
in memoria dal clan di mia madre. Ricordi frammentari, impregnati
di soggettività. In uno di essi mi è stato chiaro che Dio... cioè Diyoh»
si corresse subito, «è stata punita. Ancora non so da chi, come e
perché».
«La credenza-ghiacciaia dei Negromanti assicura una conservazione
perfetta degli alimenti durante tutto l’anno!» si entusiasmò lo speaker
alla radio. «Solida e poco ingombrante, con un massimo di capienza
utilizzabile! Di capienza utilizzabile!».
Ofelia, pensierosa, guardò la radio che aveva prodotto un eco.
«Forse la sua trasformazione in Mille Facce non è stata una scelta.
Forse è una maledizione. Forse è collegato all’Altro a tutti gli effetti!».
«Questo starà a noi scoprirlo» disse Thorn. «Sempre, naturalmente,
che siate disposta a indagare insieme a me».
Si era espresso in torno rigido, guardando il fondo del bicchiere.
Ofelia si aggiustò gli occhiali sul naso.
«Ne dubitate?».
«Per quanto forte sia la tentazione e profonda la solitudine, finché
rimarrete a Babel non dovrete avere contatti con la vostra famiglia».
«Lo so».
«Più vi avvicinerete alla verità e più sarete in pericolo».
«Lo so».
«È possibile che in caso di difficoltà non possiate contare su di me.
Sono legato mani e piedi ai Genealogisti».
«So anche questo» disse piano Ofelia. «Era quello di cui ieri
volevate che parlassimo?».
Thorn smise di guardare il bicchiere d’acqua e puntò gli occhi su di
lei. Nella penombra, le sue pupille chiare mandavano un intenso
bagliore.
«Ricordate quel che vi ho detto l’altra sera fuori dal Memoriale, che
non sapevo che farmene dei vostri buoni sentimenti?».
Ofelia annuì col mento.
«Ero sincero. Non so che farmene» continuò implacabile.
Si accigliò come se avesse un sapore sgradevole in bocca. Le sue dita
si passarono il bicchiere da una mano all’altra prima di decidersi a
posarlo.
«Almeno, non solo».
Ofelia si umettò le labbra. Thorn era un campione nel farla sentire
di volta in volta gelida o ardente.
«Voi non...».
«Niente mezze misure» la interruppe lui. «Non sono e non voglio
essere vostro amico».
«Provare la pinza da zollette automatica significa adottarla!
Significa adottarla! Le ganasce della molla si attivano con una
semplice pressione del dito! Del dito!».
Ofelia si affrettò ad abbassare il volume.
«Mi rifiuto di vivere con la sensazione continua di mettervi a
disagio» continuò Thorn in tono ruvido. «Se sono i miei artigli a
disgustarvi... sono consapevole di non essere molto attraente... la
gamba non mi impedirà di...».
Esasperato, si passò una mano sulla fronte, come se stesse soffrendo
un vero e proprio calvario grammaticale.
Il nervosismo di Ofelia scomparve all’istante. Si sbarazzò dei guanti
come se mutasse pelle. Le traversie che aveva subìto Thorn l’avevano
messo a dura prova, e i danni erano maggiori all’interno che
all’esterno. Si ripromise di proteggerlo da tutti coloro che avrebbero
potuto infierire ancora su di lui, a cominciare da lei stessa.
Gli si avvicinò in modo da essere al centro del suo campo visivo.
Era un bene che fosse seduto, quindi che fossero allo stesso livello.
Thorn trasalì quando Ofelia gli appoggiò le mani nude su entrambi i
lati del viso. Era un individuo spigoloso sia di corpo che di carattere,
senza mai una frase amorevole, un gesto galante o una battuta
scherzosa, uno che preferiva la compagnia dei numeri a quella degli
uomini. Doveva esserci un buon motivo per guardarlo in faccia.
Ofelia ne aveva due.
Gli baciò le cicatrici, prima quella che gli tagliava in due il
sopracciglio, poi quella che gli scavava la guancia, infine quella che
gli attraversava la tempia. A ogni contatto Thorn sgranava gli occhi
un po’ di più. I suoi muscoli invece si contrassero.
«Cinquantasei».
Si schiarì la gola. Mai Ofelia l’aveva visto così intimidito,
nonostante lui si sforzasse di non lasciar trapelare niente.
«È il numero delle mie cicatrici».
Lei chiuse e riaprì gli occhi, e sentì di nuovo, ancora più violento, il
richiamo imperioso che veniva dal profondo di se stessa.
«Fammele vedere».
Il mondo smise di essere parola per farsi pelle. L’ombra livida delle
zanzariere, il ticchettio della pioggia, i rumori lontani del giardino e
della città smisero di esistere per Ofelia. L’unica cosa di cui aveva
un’acuta percezione erano lei e Thorn, le loro mani che scioglievano
una dopo l’altra ogni riserva, ogni apprensione, ogni timidezza.
Ofelia aveva trascorso gli ultimi tre anni sentendosi vuota. In quel
momento si sentiva finalmente completa.

Sul tavolino accanto alla finestra la radio era ormai un mormorio.
Né Ofelia né Thorn sentirono quando il servizio sul Salone delle arti
domestiche fu bruscamente interrotto.
«Cittadine e cittadini di Babel, interrompiamo le trasmissioni per
un annuncio della massima urgenza. Importanti movimenti di
terreno sono stati rilevati venti minuti fa nel nord-ovest della città.
L’orto botanico di Polluce e il grande mercato delle spezie sono... si
sono staccati dall’arca. Se vi trovate in prossimità della zona instabile
lasciate le vostre case e allontanatevi. Invitiamo la popolazione a
mantenere la calma, vi terremo regolarmente informati dell’evolvere
della situazione. What? Ci... ci comunicano in questo istante che
molte arche minori vicine sarebbero state perse di vista. Ci
raccomandiamo di evitare moti di panico. Ripeto: cittadine e
cittadini di Babel, il seguente è un annuncio della massima
urgenza...».
RINGRAZIAMENTI

Un grazie a Thibaut, mio consigliere, mio lettore, mio ispiratore,


mio amore.
Un grazie alla mia famiglia francese e belga, che mi riempie di calde
attenzioni.
Un grazie a mio fratello Romain e a Jason Piffeteau per le loro
preziose osservazioni.
Un grazie a Stéphanie Barbaras, Célia Rodmacq, Alice Colin e
Svetlana Kirilina: mi avete insegnato molto.
Un grazie alle mie Plumes d’Argent e agli amici d’oro, il cui
sostegno mi ha seguito per tutte le arche.
Un grazie a Laurent Gapaillard, che ha saputo trasformare ogni mio
libro in opera d’arte.
Un grazie a tutta la squadra di Gallimard Jeunesse, per merito della
quale Ofelia è riuscita a uscire dallo specchio.
Infine un grazie a te, affezionato lettore, per essere venuto
appositamente a trovarmi dall’altra parte.
Che la sciarpa sia con voi!
DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE IL QUARTO
VOLUME DELL’ATTRAVERSASPECCHI

Il mondo è sottosopra. Il crollo delle arche è cominciato. C’è un


unico modo di fermarlo: trovare il responsabile. Trovare l’Altro. Ma
come procedere senza sapere neanche com’è fatto? Ofelia e Thorn si
lanciano insieme sulla pista degli echi, strani fenomeni che sembrano
essere la chiave di tutti gli enigmi. Dovranno esplorare ancora più in
profondità il dietro le quinte di Babel e la loro stessa memoria. Su
Terra d’Arco, nel frattempo, Dio potrebbe impadronirsi del potere che
brama tanto. Qual è la minaccia più grande, Dio o l’Altro?
Nota sull’Autrice

Christelle Dabos è nata nel 1980 in Costa Azzurra ed è cresciuta in


una casa piena di musica classica ed enigmi storici. Più fantasiosa che
cerebrale, comincia a scrivere i suoi primi testi sui banchi
dell’università. Trasferitasi in Belgio, si dedica all’attività di
bibliotecaria fino a quando non viene colpita dalla malattia. La
scrittura diventa allora un modo di evadere dall’ingranaggio medico,
poi una lenta ricostruzione e infine una seconda natura. Nel
frattempo beneficia dello stimolante confronto offerto dai membri di
Plume d’Argent, una community di autori su Internet. Grazie al loro
sostegno decide di raccogliere la sua prima sfida letteraria e trionfa
nel concorso indetto da Gallimard Jeunesse. Attualmente vive in
Belgio.

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