Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
STESSA AUTRICE
PRESSO LE NOSTRE EDIZIONI:
Grafica/Emanuele Ragnisco
www.mekkanografici.com
ISBN 9788833571676
Christelle Dabos
L’ATTRAVERSASPECCHI
LIBRO 3
LA MEMORIA DI BABEL
Traduzione dal francese
di Alberto Bracci Testasecca
L’ATTRAVERSASPECCHI
LIBRO 3
LA MEMORIA
DI BABEL
RICORDI DEL LIBRO 2
GLI SCOMPARSI DI CHIARDILUNA
Ofelia aveva corso lungo le rotaie a più non posso. Era madida di
sudore, coperta di graffi, le bruciavano i polmoni e le faceva male la
milza. Dopo un ponte e alcune vie i binari presentavano una
biforcazione. Che direzione aveva preso il tram? Da che parte era
andato? Si guardò intorno alla ricerca di un’indicazione, ma c’era
solo una bolgia assordante di cittadini, omnibus, risciò, biciclette,
animali e automi. Aggiustandosi gli occhiali sul naso le vennero le
vertigini. L’intero quartiere era concepito come una colossale
scalinata di cui ogni gradino era una via piena di gente e vegetazione.
Nonostante l’effervescenza, si sentiva sola come non mai. Come
avrebbe fatto a ritrovare la sciarpa? Come avrebbe rintracciato Thorn?
Come aveva potuto pensare anche solo per un attimo a lanciarsi da
sola in una spedizione del genere? La zia Roseline, Archibald, Gaela e
Renard le avevano raccomandato di aspettare un po’ prima di
precipitarsi, ma lei aveva dato ascolto solo alla propria impazienza.
«Per piacere» chiese a un risciò di passaggio, «sto cercando il tram
che viene dal mercato».
Si era rivolta al guidatore, ma quando quest’ultimo piegò verso di
lei una testa senza volto si accorse che era un manichino. La
passeggera, che stava sonnecchiando sotto la tettoia del veicolo,
rispose al suo posto con voce insonnolita.
«Dovreste fare le vostre domande a una guida, cara ragazza».
«Una guida?».
La passeggera sollevò una palpebra, e il suo naso bombato su cui
brillava un anello aspirò l’aria come se volesse fiutare Ofelia a
distanza.
«Una guida segnaletica pubblica. Ce n’è una a ogni incrocio. E visto
che palesemente non siete di queste parti mi permetto di darvi un
consiglio: vestitevi in maniera decente».
Ofelia guardò il risciò allontanarsi. D’accordo, il suo vestitino grigio
non era proprio freschissimo, ma non stava mica andando in giro
nuda. Vide in mezzo all’incrocio una grande statua-automa le cui
otto braccia puntavano in tutte le direzioni: doveva trattarsi di una
guida segnaletica pubblica.
«Ehm... il deposito dei tram?» gli domandò Ofelia.
Non ottenendo risposta notò, incorporata nella base della statua,
una chiave per la ricarica simile a quelle dei carillon. La liberò dalle
piante che l’avevano ricoperta e la girò più volte.
«FATE UNA DOMANDA» dichiarò la statua.
«Il capolinea del tram del mercato?».
«LA FORTUNA ARRIDE AGLI AUDACI».
«L’ufficio oggetti smarriti?».
«UNA BUONA GIORNATA COMINCIA CON UNA BUONA NOTTE».
«La XXII Esposizione interfamiliare?».
«MEGLIO UN UOVO OGGI CHE UNA GALLINA DOMANI».
«Grazie lo stesso».
Scoraggiata, Ofelia si appoggiò al piedistallo. I suoi averi si
riducevano ormai all’orologio di Thorn e alla vecchia cartolina. Non
aveva più documenti né vestiti di ricambio, e la sua povera sciarpa
era abbandonata a se stessa in quella città incomprensibile.
Si sfregò furiosamente le palpebre. E se qualcuno trovava la borsa?
Se la consegnava alla guardia familiare di Polluce? Se Dio veniva a
sapere che su Babel era stata localizzata una sciarpa animata?
Era appena arrivata e aveva l’impressione di aver già compromesso
tutte le sue possibilità.
«A guardarvi si direbbe che non sia andata proprio come volevate».
Si aggiustò gli occhiali stupita di sentirsi rivolgere la parola da una
voce umana. Un adolescente era seduto di fronte a lei in una
poltroncina di legno scolpito riparata da un ombrellone. Il candore
dei suoi abiti faceva risaltare la pelle abbronzata. Emanava da lui
qualcosa di strano che Ofelia non seppe definire. In realtà sarebbe
stato più al suo posto in una sala da tè che non in mezzo alla
pubblica via. Osservava Ofelia con la massima curiosità senza fare
caso alla circostante fiumana di concittadini.
«Mi riferisco alla guida segnaletica pubblica» spiegò indicando la
statua-automa. «Dovete fornirgli l’indirizzo preciso della vostra
destinazione, altrimenti non può capire. E senza volervi offendere,
miss, credo che il vostro accento sia un po’ troppo marcato per lui».
Il ragazzo si esprimeva con la cadenza tipica di Babel, un misto di
musicalità e distinzione. Tutto in lui era delicato: gli occhi da
antilope, i lunghi e setosi capelli neri, i lineamenti raffinati e perfino
la stoffa satinata dei vestiti.
Ofelia era con tutta probabilità più vecchia di lui, ma in quel
momento di fronte all’adolescente si sentiva una bambina.
«Ho perso la borsa e i documenti» disse con una voce arrochita di
cui non andò fiera. «Non so che fare. È la prima volta che vengo a
Babel».
Lui si voltò a fatica sul sedile e Ofelia fu di nuovo colpita
dall’indefinibile senso di stranezza che emanava.
«Prendete quel viale, percorretelo fino alla fine e attraversate il
ponte» disse indicando verso est. «Da là vedrete un edificio molto
grande che somiglia a un faro: una volta individuato quello non
potete più perdervi».
«E che edificio è?».
Il ragazzo accennò un sorriso.
«Il Memoriale di Babel, dove si è svolta la XXII Esposizione
interfamiliare. Stavate chiedendo questo alla guida, no? Sorry, miss,
non ho potuto fare a meno di ascoltarvi. Mio padre dice che la
curiosità è un “grazioso difetto”, ma io ho sempre la tendenza a
ficcare il naso in affari che non mi riguardano. E anche a parlare
troppo» aggiunse in tono di scusa, «ma questo l’ho preso da lui.
Quanto alla vostra borsa, sono sicuro che la ritroverete presto.
L’onestà è un dovere civico su Babel».
Ofelia fu travolta da un’ondata di gratitudine. Quel giovane le
aveva restituito tutto il suo coraggio.
«Grazie, signore».
«Ambroise. E senza il signore, miss».
«Io mi chiamo O... Eulalia. Grazie, Ambroise».
«Buona fortuna, miss».
Esitò un attimo, come se volesse aggiungere qualcosa, poi ci
ripensò. Ofelia attraversò l’incrocio contromano, e malgrado le
esclamazioni offese di ciclisti e risciò a un certo punto non poté fare a
meno di voltarsi. Aveva la sensazione di aver sfiorato un particolare
importante. Capì cos’era vedendo Ambroise manovrare con difficoltà
la sua poltroncina.
Era su una sedia a rotelle. Che si era incastrata tra le pietre del
selciato.
Ofelia fece immediatamente dietrofront suscitando una nuova
ondata di rimostranze e fece leva con tutto il suo peso sulla sedia per
liberare la ruota. Ambroise, che la credeva già lontana, sollevò su di
lei uno sguardo stupito.
«È ridicolo» disse con un risolino imbarazzato, «ogni volta mi
incastro. Non riuscirò mai a essere un buon tac-si».
«Un tac-si?».
«Un trabiccolo a cui si fischia, miss. Tutto ciò che è in grado di
muoversi e prendere a bordo un passeggero. Non ne avete a casa
vostra?».
Dato che Ofelia si limitava ad annuire evasivamente, Ambroise la
squadrò con un rigurgito di curiosità.
«Io vi ho aiutato. Voi mi avete aiutato. Ora siamo amici».
La dichiarazione fu così spontanea che Ofelia gli strinse di slancio
la mano, e in quell’istante capì in cosa consistesse la stranezza
dell’adolescente: aveva il braccio sinistro al posto del destro e il destro
al posto del sinistro, e a giudicare dalla curva divergente delle sue
babbucce anche le gambe dovevano essere invertite. Era l’handicap
più insolito che avesse mai visto, quasi che anche Ambroise fosse
rimasto vittima di un incidente di specchio.
«Se mi volete come autista, miss Eulalia, salite!».
Girò una manovella fissata alla sedia producendo un prolungato
rumore di ingranaggi. Ofelia si appollaiò goffamente sul predellino
posteriore e quasi cadde quando Ambroise abbassò il freno a mano
proiettando il trabiccolo in avanti. Sentiva sfilare sotto di sé ogni
singola pietra del selciato. Più volte dovette scendere per liberare le
ruote dalle malformazioni della strada mentre Ambroise ne
approfittava per ricaricare le molle a colpi di manovella.
L’ombrellone mal fissato allo schienale strideva rumorosamente
secondo i capricci del vento coprendo la voce di Ambroise, che faceva
conversazione. Fu un viaggio piuttosto scomodo, ma Ofelia smise di
pensarci nell’istante in cui la sedia a rotelle imboccò un ponte fra due
arche e Ambroise puntò la sua mano invertita verso il lontano.
Tra il cielo infinito e il mare di nuvole un’immensa torre a spirale
culminante in una cupola di vetro svettava su un isolotto a stento
abbastanza grande da ospitarlo. Un intero versante dell’edificio
sconfinava sul vuoto, ma l’equilibrio architettonico era talmente
perfetto che l’insieme si teneva in piedi contro tutto e tutti.
«Il Memoriale di Babel» disse Ambroise. «È il nostro monumento
più antico, di cui una metà risale al vecchio mondo. Si dice che vi sia
conservata tutta la memoria dell’umanità».
“La memoria dell’umanità” ripeté dentro di sé Ofelia. Al pensiero
che forse Thorn c’era stato sentì il cuore batterle come un tamburo.
Sporse la testa oltre lo schienale per farsi sentire da Ambroise, di cui
vedeva soltanto il movimento dei capelli neri.
«Solo una metà?».
«Una parte della torre è crollata con la Lacerazione, ma è stata
ricostruita da LUX secoli fa. Mi piace andare al Memoriale, ci sono
migliaia di libri! Vado pazzo per i libri, voi no? Potrei passare le mie
giornate a leggere di qualsiasi argomento. Una volta ho cercato di
scriverne uno, ma come autore sono ancora più scadente che come
tac-si, mi perdo sempre in digressioni. Non crediate che il Memoriale
sia una vecchia biblioteca polverosa, miss Eulalia. È il massimo della
modernità, con tanto di familioteche, transcendium e
fantopneumatici! Il tutto grazie a LUX».
Ofelia non aveva la più pallida idea di cosa fossero le familioteche,
i transcendium e i fantopneumatici, ma la parola LUX le ricordava
qualcosa. Ricordò allora che era il nome stampato sui manifesti
pubblicitari dei tram.
«E un soldato senza testa?» domandò. «Ce n’è uno?».
Ambroise frenò così bruscamente che Ofelia sbatté la fronte contro
la sua nuca.
«Non dovete dire parole del genere in pubblico, miss» mormorò
dandole un’occhiata stupita. «Non so come funziona da voi, ma qui
abbiamo un Index».
«Un Index?».
«L’Index vocabulum prohibitorum, l’elenco di tutte le parole che è
vietato pronunciare ad alta voce. Tutto ciò che ha un rapporto con...
sapete...». Ambroise fece segno a Ofelia di avvicinare la testa per
poterle sussurrare all’orecchio. «...Con la guerra».
Ofelia si irrigidì. E così i tabù fissati da Dio vigevano anche a Babel.
«Suppongo che intendiate la vecchia statua all’entrata del
Memoriale» riprese Ambroise in tono più leggero facendo ripartire il
trabiccolo. «È antica quanto il luogo».
«Come ci si va?».
«In trenuccello, miss». E prima che Ofelia potesse chiedergli cosa
fosse un trenuccello continuò: «Ma se volete visitare il Memoriale o
recuperare la borsa sarà bene che vi cambiate d’abito. Così come siete
non vi lasceranno entrare da nessuna parte».
«Non capisco» disse Ofelia aggrottando le sopracciglia. «Cos’ha di
sconveniente il mio vestito?».
Ambroise scoppiò a ridere.
«Vi porto a casa mia, miss! Sarà bene che vi spieghi un paio di
cose».
Casa di Ambroise non corrispondeva affatto all’idea che si era fatta
Ofelia della casa di un conducente di tac-si. La sedia a rotelle percorse
un porticato tra le cui colonne scintillavano vasche di ninfee. Più si
addentravano nella proprietà e più i rumori e gli odori della strada si
facevano lontani. Un esercito di manichini in livrea andò loro
incontro e aprì le alte porte della dimora. La frescura che regnava
all’interno strappò a Ofelia un sospiro di benessere. Liberata dal
nuovo taglio di capelli, la sua nuca era bollente.
Scese dal predellino e guardò sconcertata l’atrio. Statue e automi,
tavoli di marmo e apparecchi di telefonia, piante rampicanti e
lampade elettriche stavano fianco a fianco in un singolare
assortimento di raffinatezza antica e tecnologia moderna. Il luogo
sintetizzava l’atmosfera anacronistica di tutta la città.
«Vivete qui?».
«Con mio padre. In realtà ci sto soprattutto io. Mio padre è
raramente a casa».
Così dicendo Ambroise le indicò un ritratto a figura intera che
troneggiava sulla parete principale. Raffigurava un uomo con lunghi
capelli bianchi e occhialini rosa dietro i quali guizzava uno sguardo
pieno di malizia. Ofelia lo riconobbe.
«È Lazarus, il famoso arca-trotter! È vostro padre? L’ho conosciuto
una volta».
«Non mi stupisce. Tutti lo conoscono e lui conosce tutti».
Nel sorriso che Ambroise rivolse al quadro c’era più malinconia che
fierezza, notò Ofelia. Non doveva essere facile trovare il proprio posto
in una vita piena come quella di un padre del genere.
«Non avete altri parenti?».
«Né parenti né amici. Almeno, nessuno che non sia un automa».
Ofelia osservò i maggiordomi meccanici che in maniera piuttosto
maldestra stavano smontando l’ombrellone della sedia a rotelle.
Cercò di immaginare cosa volesse dire crescere in mezzo a quei corpi
senza volto dalle cui pance usciva ogni tanto un LA CALMA È LA VIRTÙ DEI
FORTI o un LA FETTA DI PANE CADE SEMPRE DALLA PARTE IMBURRATA.
«Ho detto a mio padre che i proverbi non facevano una gran
riuscita» sospirò Ambroise, «ma è cocciuto come un dromedario».
«È stato lui a inventare gli automi?» si stupì Ofelia. «Sapevo che li
commercializzava, ma non che li avesse ideati».
«Mio padre è un senza-poteri, ma è un genio. Deve il suo status di
cittadino esclusivamente ai propri meriti».
«La vostra famiglia dev’essere molto importante».
Ambroise aggrottò le sopracciglia, come se avesse difficoltà a capire
Ofelia.
«Mio padre è importante, anche se non certo come i Lord di LUX. Io
perché mai dovrei esserlo? Non sono riuscito a trovare un modo di
rendermi utile alla città, sono un mantenuto».
L’aveva detto con un’aria di vergogna da cui si capiva chiaramente
quanto la cosa fosse disonorevole. Lanciò la sedia a rotelle tra le
colonne interne continuando a parlare con brio forzato, senza
riprendere fiato, come se intendesse riempire con la voce i grandi
spazi vuoti della dimora.
«Prima di fare il tac-si ho tentato ogni genere di lavoretti, e ogni
volta ho fallito. Il fatto è che non sono un tipo manuale, anche
battere i tasti di una macchina da scrivere è di una complessità atroce
per me. Penso spesso che se fossi stato un figlio di Polluce avrei avuto
a disposizione almeno un senso ipersviluppato. Se in questo
momento un genietto buono mi chiedesse cosa vorrei essere
risponderei senza dubbio un Visionario! Dev’essere fantastico vedere i
microbi a occhio nudo, non trovate? O un Acustico: è straordinario
quante cose si possono imparare del mondo che ci circonda solo
captando gli ultrasuoni. Non mi sarebbe dispiaciuto neanche essere
un Olfattivo, un Tattile o un Gustativo, invece niente, mi ritrovo con
le mani al contrario. Mio padre dice sempre che la mia sola esistenza
fa di me qualcuno di molto importante per la città, ma è l’unico a
pensarlo».
Mentre seguiva Ambroise, un po’ frastornata dalle sue chiacchiere,
Ofelia capiva sempre meno quella società in cui espellere una
straniera dal tram era ben visto, provvedere ai bisogni del proprio
figlio era mal visto, e il fatto che una ragazza si recasse da sola a casa
di un ragazzo non importava a nessuno. Le sembrava che né il Polo
né Anima né i libri l’avessero davvero preparata a Babel. Le norme
che regolavano quel mondo erano diverse da tutte quelle che aveva
conosciuto in precedenza.
L’impressione divenne certezza quando Ambroise la condusse in un
elegante guardaroba e aprì le ante scolpite degli armadi adattate
all’altezza della sedia a rotelle. Tutti i vestiti, impeccabilmente
piegati, erano bianchi come quello che indossava.
«Dovete capire, miss Eulalia, che qui le persone sono esattamente
ciò che appaiono. Così come abbiamo un codice civile e un codice
penale, abbiamo un codice d’abbigliamento molto rigido. Io e mio
padre, per esempio, dobbiamo per legge vestirci di bianco, che è il
non colore dei senza-poteri. Siete una senza-poteri?».
«Ehm... sono Animista. Di ottavo grado» aggiunse pensando ai
documenti falsi che aveva perso.
«Ottavo grado? Con un potere familiare così diluito potete
indossare anche voi il bianco. Siete piccola, ma neanch’io sono molto
alto. I miei vestiti saranno più o meno della vostra taglia».
«Non darò nell’occhio indossando vestiti da uomo?».
Ambroise, che stava dispiegando una lunga tunica bianca, la
guardò interdetto sorridendo in tralice.
«Scusate, non sono come mio padre che conosce gli usi e costumi
delle altre arche. Qui non facciamo differenza tra i sessi. Devo
dedurne che da voi gli uomini non portino vestiti come i vostri?».
Ofelia fece uno sforzo su se stessa per non immaginare Thorn in
abitino grigio.
«No, infatti».
«Interessante. Ciò detto, miss Eulalia, il problema principale del
vostro vestito è che il modello non figura nel nostro codice
d’abbigliamento, e non rispettare il codice in pubblico è considerata
una provocazione, cosa evidentemente molto mal vista».
Ofelia sollevò le sopracciglia. Non avrebbe mai immaginato che
quell’anticaglia abbottonata dal mento alle caviglie un giorno
l’avrebbe fatta passare per una poco di buono.
«La foggia dei vestiti varia a seconda dell’età, della professione e
dello stato civile» continuò Ambroise rovistando negli armadi. «Per
esempio i cittadini portano colori diversi dai non cittadini».
«I non cittadini» ripeté Ofelia ricordando di aver letto qualcosa a
riguardo su un libro di geografia. «Sono quelli che vivono a Babel ma
non discendono da Polluce?».
«Non è più esattamente così» spiegò Ambroise con un sorriso
indulgente. «I Figli di Polluce sono cittadini d’ufficio, è vero, possono
votare, eleggere ed essere eletti, ma è anche possibile diventare
cittadini per particolari meriti, come mio padre. Questo da quando
Babel ha stretto accordi commerciali con le altre arche. Dovreste
averlo notato per strada, è pieno di famiglie diverse che vivono qui:
ci sono Floriani, Totemisti, Cyclopiani, Alchimisti ed Heliopoliti! E i
senza-poteri» aggiunse in un sussurro. «Noi siamo i “Figliocci di
Helena”. Non avendo mai avuto discendenza, lady Helena è
diventata la madrina ufficiale di tutti quelli che non sono Figli di
Polluce. Sarà anche la vostra finché rimarrete a Babel».
Ofelia sperava proprio di no. L’ultima volta che era stata pupilla di
uno spirito di famiglia per poco non ci aveva rimesso la pelle.
«Per tornare ai vestiti» disse Ambroise rituffando il naso
nell’armadio, «dovete capire che ogni ornamento, ogni gioiello, ogni
accessorio aggiunge strati di significati ben precisi. È un intero
linguaggio a parte! Se intendete trattenervi a Babel vi consiglio di
imparare a padroneggiarlo alla perfezione onde evitare malintesi.
State attenta, la polizia effettua regolari controlli sull’abbigliamento».
Ofelia, abituata a mettersi la prima cosa che le capitava sottomano,
avrebbe dovuto impegnarsi a fondo se voleva fondersi con l’ambiente
di Babel.
«Che succede se uno si veste in modo non conforme a quanto
previsto dal codice?».
«Si paga una multa alla città. Più l’infrazione è grave e più la multa
è salata».
Fece cadere la pila di vestiti che Ambroise le aveva messo sulle
braccia. Era sconfortante constatare che, sebbene non avesse le mani
invertite, rimaneva la più goffa dei due.
«Rimanete qui per la notte» le offrì l’autista di tac-si vedendo dalle
finestre la luce che declinava. «Ci metteremo alla ricerca della vostra
borsa come prima cosa domattina».
«E il Memoriale? Non potremmo andarci oggi?».
«Il tempo di arrivarci e lo troveremmo chiuso. Quel posto ha l’aria
di starvi molto a cuore. Cosa state cercando esattamente?».
«È una faccenda personale».
Vedendo sparire il sorriso dalla faccia di Ambroise rimpianse quella
risposta impulsiva.
«Perdonate l’indiscrezione, miss. E vogliate seguirmi, immagino che
desideriate darvi una rinfrescata e riposarvi. Avete fame? Vi va di
cenare con me?».
Ofelia raccolse i vestiti sparsi a terra e sollevò gli occhiali verso la
sedia a rotelle che con un ronzio meccanico stava già avviandosi alla
porta.
«Ambroise?».
«Miss?».
«Perché mi aiutate?».
Le ruote della sedia si bloccarono di colpo stridendo sul marmo a
scacchi, tuttavia Ambroise non si voltò. Da dove si trovava, Ofelia
vide le sue mani invertite contrarsi sui braccioli.
«Perché non siete un automa».
LA MEMORIA
Mamma l’aveva messa a letto ancora prima del solito. Come ogni
sera le aveva misurato due volte la temperatura, l’aveva fatta bere
dopo aver assaggiato la sua acqua, le aveva pettinato i lunghi capelli
bianchi e le aveva rincalzato le coperte chiedendole se aveva freddo.
Come ogni sera, esitante e sorridente l’aveva guardata a lungo dalla
soglia della camera prima di decidersi ad accostare la porta e
allontanarsi in un fruscio di tessuti.
Vittoria contemplava il soffitto.
Mamma non aveva chiuso la porta. Non la chiudeva mai, perché di
quando in quando dava un’occhiata in camera per assicurarsi che
andasse tutto bene. Dal salotto giungevano voci lontane. La casa era
spesso piena di silenzio, talvolta di musica, quasi mai di voci.
Vittoria non aveva voglia di dormire, voleva stare con le voci. Le
lenzuola erano rincalzate talmente strette che poteva a stento
muovere le dita dei piedi. Se fosse stata una bambina come tutte le
altre si sarebbe dimenata con rabbia, avrebbe chiamato la madre
urlando e piangendo, ma Vittoria non era come tutte le altre.
Vittoria non parlava mai.
Vittoria non camminava mai.
Almeno l’Altra Vittoria. La vera Vittoria scese dal letto, mise i piedi
a terra e andò fino allo spiraglio della porta.
Esitò e, come Mamma poco prima, guardò verso il letto. Vi era
coricata una bambina con gli occhi spalancati sul soffitto. Viso,
labbra e capelli erano bianchi come la federa del cuscino. Vittoria
sapeva di essere lei sia nel letto che fuori, cosa che non la stupiva né
le faceva paura. Si sentiva semmai un po’ in colpa, come quando
voleva scendere da sola dalla sedia e Mamma si precipitava a
prenderla con aria spaventata.
Vittoria non esitava mai a lungo, il richiamo del viaggio finiva
sempre per avere la meglio.
Sgattaiolò in corridoio. Si sentiva leggera, molto più leggera
dell’Altra Vittoria! Leggera come quando si trovava nell’acqua tiepida
della vasca da bagno. E, come quando metteva la testa sott’acqua
strappando a Mamma grida di panico, vedeva le cose in maniera
diversa. I colori erano fluttuanti, le forme degli oggetti si erano fatte
incerte, Vittoria non poteva prenderli né spostarli. Osservò un grande
specchio a muro che non le restituì il riflesso. La sua superficie
sembrava un mulinello, come quando Mamma toglieva il tappo per
svuotare la vasca.
Attratta dalle voci del salotto rimbalzò come una bolla di sapone
sui gradini dell’ampia scala. Al momento di attraversare l’anticamera
sentì qualcun altro dietro la porta d’ingresso rimasta aperta.
Dette un’occhiata fuori.
Da principio vide solo gli alberi agitati dal vento d’autunno.
Pioveva. Pioveva quasi tutti i giorni e, sebbene quella pioggia non
bagnasse, Vittoria preferiva comunque il sole. Seguì con gli occhi il
volo di un uccello nel cielo, ma sapeva che non era vero. Niente era
veramente vero all’esterno dalla casa, gliel’aveva detto Mamma.
Vittoria si chiedeva come fosse una pioggia vera, come fossero fatti
alberi e uccelli veri. Padrino non l’aveva mai portata a vederli, e lei
non aveva mai osato allontanarsi da casa durante i suoi viaggi.
A un certo punto vide un buco, un enorme buco in mezzo al
paesaggio. In quel punto non c’era erba né alberi né pioggia, solo un
vecchio parquet polveroso.
Proprio di fronte, sulla soglia, era seduta una coppia: la Signora
dagli Occhi Strani e l’Omone Tutto Rosso.
Gli amici di Padrino.
Né l’uno né l’altra notarono Vittoria quando si avvicinò. Stavano
parlando, ma per quanto si facesse il più vicina possibile le loro voci
continuavano a giungerle distorte e lontane.
«Ce ne mette di tempo, quello straccione!» protestò la Signora dagli
Occhi Strani. «Terra d’Arco non si trova da sola, e questa villa mi è
insopportabile. Pullula di illusioni, non so più dove guardare».
Lanciò uno sputo in direzione del grosso buco.
Vittoria indietreggiò. Una volta, durante un viaggio, era passata
davanti alla Signora dagli Occhi Strani, e questo l’aveva subito
rispedita a letto al posto dell’Altra Vittoria. La Signora dagli Occhi
Strani era molto particolare, ma forse non poteva vederla.
L’Omone Tutto Rosso si appoggiò con i gomiti sullo scalino dietro
di sé. Vittoria notò che aveva un sorriso curiosamente goloso, come
se di colpo gli fosse venuta voglia di mangiare la Signora dagli Occhi
Strani.
«Io so benissimo dove guardare».
La Signora dagli Occhi Strani si calò il berretto sugli occhi facendo
sparire il viso nonché il buco del giardino.
«Sto parlando seriamente, René. Da quando Madre Ildegarda è
morta non mi sento più a mio agio qui, né a Città-cielo né nel resto
del Polo. Posso abituarmi all’idea che i nobilastri mi detestino, è
reciproco, ma mi dà la nausea vedere i nostri vecchi compagni
appiattirsi come tappetini davanti a me. Dei codardi! Parlano di
sciopero, di contestazione, di rivendicazioni... e se la fanno sotto
davanti al primo aristocratico che passa. Come possiamo mai
sconfiggere Dio se non siamo capaci di ribellarci a qualche marchese?
Che ne dici, signor sindacalista? Sei consapevole che il solo farti
vedere con me ti fa passare per traditore?».
L’Omone Tutto Rosso posò la mano sulla testa della Signora dagli
Occhi Strani e la tirò a sé.
«Il primo che dice una parola contro la mia padrona, una sola, gli
faccio saltare tutti i denti. Anch’io sto parlando seriamente, Gaela».
La Signora dagli Occhi Strani non disse altro, ma Vittoria colse un
sorriso sotto la visiera del berretto. Non aveva mai visto Padre e
Mamma comportarsi in quel modo, e il pensiero le suscitò un dolore
nell’altro corpo, quello che era rimasto a letto.
Distolse lo sguardo e vide Salame sulle scale che la fissava con i suoi
grandi occhi gialli. Non aveva mai accarezzato Salame, Mamma
trovava che i gatti fossero troppo pericolosi per lei, ma ne aveva
sempre avuto voglia. Quando allungò una mano timida verso di lui,
Salame soffiò e corse via così rapidamente che l’Omone Tutto Rosso e
la Signora dagli Occhi Strani sobbalzarono.
Vittoria corse dentro casa sicura di aver commesso una sciocchezza
imperdonabile. Per un attimo fu tentata di tornare a essere l’Altra
Vittoria nel letto e dormire come le aveva detto Mamma, ma appena
sentì il suono dell’arpa dimenticò lo spavento.
Il richiamo del viaggio ebbe di nuovo la meglio.
Entrò nel grande salotto. Rallentò vedendo Grande Madrina presso
una finestra con le braccia conserte, le sopracciglia aggrottate e gli
occhi puntati sulle nuvole. Ancora Vittoria non la conosceva bene.
L’aria severa e la pelle giallastra la intimidivano un po’.
Per fortuna c’era Mamma. Era seduta all’arpa, e le sue belle mani
tatuate volavano da una corda all’altra come i finti uccelli del parco.
Vittoria si avvicinò per farsi coccolare, ma Mamma non la vide. La
sua musica era evanescente come il proprio corpo.
Con vivo piacere vide che c’era anche Padrino, steso di traverso su
una poltrona. Sfogliava buste come se fossero state un mazzo di carte
da gioco.
«Ancora proposte di matrimonio! Non ha nemmeno tre anni ed è
già considerata il miglior partito del Polo. Le rifiuteremo tutte,
vero?».
Anche la sua voce era distorta, e Vittoria dovette impegnarsi con
tutte le sue forze per sentirlo. Mamma continuò a suonare l’arpa
senza rispondere.
«Non suonate mai tanto bene come quando siete infuriata con me»
continuò Padrino con un sorriso largo come lo spacco del suo
cappello. «Ve l’ho riportata sana e salva, no? È rimasta all’interno
della Rosa dei Venti. So che Città-cielo non vi ispira niente di buono,
ma non potete tenere vostra figlia chiusa in questa villa per l’eternità.
Credetemi, ho fatto così con le mie ex sorelle, e in due anni sono
diventate più scandalose di quanto non lo sia stato io in tutta la mia
vita».
Vittoria non capiva di che parlasse, troppe parole complicate tutte
insieme, ma non le importava. Padrino aveva i capelli più che
spettinati, le guance coperte da una peluria dorata e stava sulla
poltrona in maniera decisamente scomposta. Lo amava alla follia.
«Suvvia, Berenilde» insisté sventolando le buste come fossero state
un ventaglio. «Presto mi rimetterò in viaggio, non salutiamoci
litigati».
Mamma scoppiò in una risata musicale come l’arpa.
«Viaggio? Vagabondare da una Rosa dei Venti all’altra alla ricerca
di un’arca che sapete fuori dalla vostra portata? Più che viaggio lo
definirei una fuga».
Il sorriso di Padrino si allargò. Vittoria si arrampicò sulla poltrona
per toccargli la guancia non rasata e pungersi le dita, ma non sentì
niente e ci rimase male.
«Oh, comincio a capire. Non mi state rimproverando per la
scappatella con vostra figlia, vero? Quello che non riuscite a mandare
giù è che non sia tornato con la mogliettina di Thorn».
Le mani di Mamma volavano sempre più veloci sulle corde, ma
Vittoria capì che qualcosa non andava. Una volta, rincalzandole il
letto, Mamma le aveva detto di possedere grandi unghie nascoste di
cui non avrebbe esitato a servirsi se qualcuno avesse cercato di far
loro del male. Certe volte, quando Mamma era molto contrariata,
Vittoria le aveva quasi sentite.
In quel momento le vedeva.
Un’ombra si stava formando tutto intorno a Mamma, un’ombra
irta di artigli ancora più minacciosi di quelli della pelliccia d’orso
appesa all’attaccapanni della biblioteca. Tanto era spaventosa l’ombra
quanto era bella Mamma.
«Dov’è?» domandò calmissima. «Dov’è Ofelia?».
Grande Madrina si staccò dalla finestra e guardò Padrino, che le
strizzò l’occhio.
«Potete chiedermelo quanto volete» ribatté lui. «La risposta sarà
sempre la stessa. Ofelia ci ha fatto promettere di non dirlo a nessuno,
neanche a voi. La specialità della Rete non è forse quella di
proteggere i segreti?».
«Il vostro clan vi ha rinnegato, Archi».
Mamma l’aveva detto con voce carica di tenerezza, ma Vittoria vide
l’ombra irta d’artigli ingrandirsi ancora di più. Padrino scoppiò a
ridere. Non la vedeva, lui, l’ombra terribile di Mamma?
«Touché!» disse lanciando il pacchetto di buste su un tavolino
basso. «Eppure, che vi piaccia o no, manterrò il segreto, cara amica.
Ofelia mi ha incaricato di trasmettervi un unico messaggio. Una
promessa. Ritroverà Thorn».
L’ombra intorno a Mamma scomparve come una nuvola di fumo.
Posò le mani sulle corde dell’arpa per farla tacere. Il silenzio fu quasi
più forte di un grido. Eppure Mamma era calma come al solito.
«C’è stato un tempo in cui padroneggiavo a meraviglia le regole del
gioco, anche se la lezione per impararle è stata spesso crudele. Oggi le
regole non sono più le stesse. I nuovi clan ci impongono le loro
riforme e i domestici tramano alle spalle dei padroni. Evito la corte
come una decaduta, ho congedato tutta la servitù. Quanto al nostro
sire... lui ci prova, capite? Ci prova realmente, e tutti si approfittano
di lui. I ministri gli danno l’assillo continuo. Non lo vedo da
settimane, eppure sto qui e gli scrivo ogni giorno. Volete sapere
perché, Archi? Perché ne ha bisogno. Ha bisogno di me e forse ancora
più di sua figlia. La verità è che sono terrorizzata» aggiunse Mamma
con voce più dolce. «Sono terrorizzata perché il mondo che credevo
di conoscere è solo un ingranaggio tra migliaia d’altri ingranaggi
all’interno di un meccanismo che va oltre la mia capacità di
comprendere. Quel meccanismo mi ha rubato Thorn, e non voglio
che se la prenda con mia figlia. Il mondo fuori da queste mura è
diventato troppo pericoloso per noi. Rimanete con me e mia figlia, vi
prego. Non lasciateci sole».
Vittoria sentì nel suo altro corpo, al piano disopra, un singhiozzo
risalirle lungo la gola. Non capiva niente di quella conversazione, ma
una parte di lei sentiva confusamente che Mamma soffriva e che in
qualche modo era colpa di Padre.
Padre faceva paura. Molto più di Salame. Molto più dell’ombra di
Mamma. Le poche volte che Vittoria l’aveva visto non le aveva detto
una parola, non aveva fatto un gesto, non l’aveva neanche guardata.
Padre non le voleva bene.
Con due piroette Padrino scese dalla poltrona e svuotò il fondo di
una caraffa in un bicchiere.
«Recidendo il filo la Rete mi ha condannato alla solitudine eterna.
Voi sarete pure abituata, ma in tutta franchezza non capisco come
possiate sopportare di rimanere qui giorno dopo giorno. Per me
l’immobilità è diventata insopportabile!».
Si mise a ridere come se avesse detto qualcosa di buffissimo, e
Vittoria pensò che sarebbe stato il miglior papà del mondo.
Padrino bevve metà bicchiere e porse l’altra metà a Mamma.
«Ho molti vizi, ma non l’ingratitudine. Ho perso la mia famiglia,
ma in cambio ne ho trovata un’altra. Avreste potuto legittimamente
scegliere un altro tutore per vostra figlia, invece avete tenuto me
nonostante tutto. Che ci crediate o no, quello che sto facendo oggi lo
faccio anche per voi, per Vittoria, per Ofelia e, anche se dirlo mi
brucia la lingua, per Thorn. Pure per voi, signora Roseline».
Padrino fece un altro occhiolino a Grande Madrina che strabuzzò
gli occhi, anche se di colpo Vittoria la trovò molto meno gialla e
molto più rosa. Poi si tolse l’alto cilindro sfondato, mormorò
«Madame!» e lasciò il salotto accennando un passo di danza.
Vittoria ebbe voglia di mollare l’altro corpo in camera e seguire
Padrino fuori dalla casa, andare con lui a vedere gli alberi veri e gli
uccelli veri.
«Non ha completamente torto» disse bruscamente Grande Madrina
col suo strano accento. «Non siete sola, Berenilde. Ho appena
attraversato la metà delle arche per venire a trovarvi, e sono
fermamente intenzionata a imporvi la mia compagnia. E poi,
guardate il tempo che suscitate!» si innervosì battendo la mano sulla
finestra. «Casa vostra è più deprimente di un barattolo di cetriolini.
Dovrò tirarvi su, e tanto per cominciare dare una bella pulita. Che
direbbe Thorn se vedesse casa vostra coperta di polvere?».
Mamma si lasciò sfuggire una risatina di cui sembrò la prima a
stupirsi.
«Si rifiuterebbe di entrare».
Vittoria tornò a essere l’Altra Vittoria nel letto. Sbadigliò e chiuse
gli occhi, intorpidita da quel corpo troppo pesante. Fuori aveva
smesso di piovere. Se Grande Madrina era capace di riportare il sole
valeva la pena di rimanere ancora un po’ a casa.
I GUANTI
Ofelia toccò una per una le punte dei guanti del professor Wolf,
troppo lunghi per le sue dita. Era andata da quell’uomo in cerca di
risposte e ne tornava con ancora più domande, oltre che con una
bella collezione di graffi. Cosa poteva essere stato a dissuaderlo dal
continuare le ricerche al Memoriale? Cos’era il campione che aveva
fatto esaminare? Perché la risposta del collega l’aveva tanto
terrorizzato? La sua paura aveva un qualche rapporto con quella
provata da miss Silence al momento di morire?
Un fitto acquazzone si abbatté sui finestrini del trenuccello. Ofelia
chiuse gli occhi cercando di respingere l’emozione che la assaliva.
Giorno dopo giorno era ossessionata dalla visione della sciarpa che
errava per le strade di Babel come un cane abbandonato.
No, non doveva pensarci, doveva guardare avanti.
Riaprì gli occhi sentendo il trenuccello manovrare per accostarsi a
un belvedere. Era la quinta accademia a cui si fermava, presto sarebbe
arrivato al conservatorio. Alcuni studenti uscirono sotto la pioggia
sollevandosi il cappuccio, altri salirono a bordo scrollandosi
l’impermeabile. Come a ogni stazione, Ofelia guardò se fra loro non
vi fosse un ragazzo in sedia a rotelle. Ambroise le mancava, le
mancavano la sua amicizia, la sua gentilezza, la sua loquacità. Non
capiva perché a un certo punto avesse preso le distanze, rispondesse
laconico ai suoi telegrammi, non andasse mai a trovarla, e ne era
preoccupata.
No, non doveva pensare neanche a quello.
Attraverso il cammino sinuoso delle gocce sul vetro osservò il
Memoriale in lontananza. Da qualche parte fra quelle mura c’era il
Secretarium. E nel Secretarium una camera blindata. E nella camera
blindata la “verità finale”. Era quella la verità a cui si erano avvicinati
troppo miss Silence e il professor Wolf? E se lo stesso Thorn si fosse
messo in pericolo per scoprirla? Era frustrante sapere che sarebbe
dovuta scendere alla prossima fermata senza poter proseguire fino al
Memoriale. Le sue tre ore di permesso stavano volgendo al termine.
La lentezza delle gondole le aveva fatto perdere tempo prezioso, del
resto era riuscita a prendere il trenuccello per un pelo. Farsi espellere
dalla Buona Famiglia per aver perso una coincidenza a due giorni
dalla fine del periodo di prova sarebbe stato il colmo.
Si rimise a palpeggiare il tessuto dei guanti che le sopravanzava
sulle dita. Un sospiro le salì dal profondo, ma fu il suo vicino di sedile
a emetterlo al posto suo. Ofelia lo guardò con aria interrogativa.
Anche lui stava guardando il vetro schizzato di pioggia, ma con
un’espressione colpevole, come se fosse direttamente responsabile del
brutto tempo. Il suo profilo, irsuti capelli grigi e naso a punta, faceva
pensare al muso di un riccio. A Ofelia ispirava una sensazione di
familiarità di cui capì l’origine vedendo la targhetta “commesso”
spillata alla divisa.
«L’uomo del carrello...» mormorò.
Dopo un attimo di incertezza il commesso staccò lo sguardo dal
finestrino.
«Sorry, miss? Dite a me?».
Ofelia si produsse in un sorriso educato. Col professor Wolf non le
era riuscito, ma si augurava che il commesso non l’avrebbe buttata
fuori da un trenuccello in volo. O no?
«Ci siamo già incontrati nella sezione libri per l’infanzia del
Memoriale. Ho rovesciato i libri del vostro carrello, e voi... be’, voi
siete stato rimproverato per colpa mia».
«Ah, quei libri!» farfugliò l’uomo. «Mi sembrano così lontani».
Fu preso da un improvviso interesse per le proprie mani che teneva
giunte sulle ginocchia, incassò la testa fra le spalle e non disse niente.
Sembrava disperatamente solo. Solo quanto Ambroise in mezzo agli
automi del padre. Solo come il professor Wolf chiuso a tripla
mandata nel suo appartamento.
“Solo quanto me” non poté fare a meno di pensare Ofelia.
«Mi chiamo Eulalia» si presentò.
«What?» si stupì il commesso. «Oh, ehm... io Blasius». Si grattò la
nuca a disagio, come se non fosse abituato ai convenevoli. «Ehm... la
vostra divisa... Siete un’apprendista virtuosa?».
La bocca di Ofelia si allargò in un sorriso, stavolta un sorriso vero.
Non capitava tutti i giorni di imbattersi in qualcuno più goffo di lei.
«Precorritrice».
«Sono colpito».
Sembrava sincero. Aveva sgranato gli occhi, pupille nere e umide
da riccio, come se gli avessero detto che era seduto accanto a un Lord
di LUX.
Fuori, spinta da un vento dell’ovest, la pioggia raddoppiò di
intensità. Un fulmine lacerò il silenzio proiettando una luce vivida
sui volti degli studenti, ma non uno di loro sollevò il naso dal libro
che stava leggendo. Sui trasporti pubblici di Babel regnava sempre
una calma esagerata, ma c’era un motivo: al minimo accenno di
chiasso il capotreno infliggeva una multa salata.
Ofelia non poté evitare di guardare preoccupata verso il soffitto con
un pensiero alle chimere che trainavano i vagoni sotto il temporale.
«In prova» si sentì in dovere di specificare. «Mi piacerebbe molto
lavorare al Memoriale come voi».
«Come me? Non ve lo auguro» rispose Blasius indicandosi la
targhetta di commesso. «Sono anni che metto a posto quel che mi
viene ordinato di mettere a posto, non c’è niente di prestigioso».
«Le collezioni del Memoriale sono imponenti, dev’essere una mole
di lavoro notevole, no? Soprattutto se includiamo il Secretarium»
aggiunse con l’aria più innocente del mondo.
«Non ci ho mai messo piede» sospirò Blasius con grande delusione
di Ofelia. «È un reparto troppo importante e troppo segreto per uno
come me».
«Non partecipate neanche ai gruppi di lettura?».
Blasius si lasciò sfuggire una risatina incredula che soffocò con la
mano vedendo lo sguardo accigliato del capotreno.
«I gruppi dell’automa... sorry, di sir Henry?» rispose sottovoce.
«Dovrebbero essere pazzi per accettarmi».
Ofelia non capì il perché di quel commento, ma preferì non
ostinarsi. Aveva finalmente trovato un interlocutore conciliante,
doveva approfittare di ogni minuto di tragitto.
«Ho saputo di miss Silence» sussurrò studiando la reazione di
Blasius con la coda dell’occhio. «Dev’essere stato un brutto colpo».
Nello stesso istante fu brutalmente scossa sul sedile. Una raffica di
vento più violenta delle altre aveva investito l’intero vagone
suscitando stavolta esclamazioni di sorpresa da tutti i passeggeri.
«Non perdete la calma, cittadini!» esclamò il capotreno. «È solo
una leggera turbolenza. Il nostro Totemista ha il perfetto controllo
del mezzo».
Ofelia si riaggiustò gli occhiali che lo scossone aveva spinto sulla
punta del naso e vide vari studenti intorno a sé raccogliere i libri che
erano caduti. Non era affatto tranquilla. Istintivamente si era
aggrappata al braccio di Blasius, che le contemplava la mano con aria
sbigottita, come se fosse la prima volta che ne vedeva una in un
punto così improbabile. Alla fine le tamburellò sopra con la punta
delle dita, goffamente, con un sorrisino di scusa all’angolo delle
labbra.
«Cose di questo genere succedono spesso con me. I guanti che
indossate» continuò prima che Ofelia potesse domandarsi cosa
significassero le sue parole, «sono di Wolf, vero?».
«Come sapete... Conoscete il professor Wolf?» balbettò, sempre più
sorpresa.
Blasius si sfregò il naso con gesto imbarazzato.
«Ho riconosciuto il suo odore su di voi. Sapete, sono un Olfattivo.
Wolf frequenta regolarmente il Memoriale. Almeno, lo frequentava»
aggiunse con la gola stretta dall’emozione. «Prima dell’incidente».
Ofelia notò che diceva Wolf omettendo il titolo. Era certamente
qualcosa di più di una semplice conoscenza. Mentre lei ci ragionava
sopra Blasius dette un’occhiata nervosa in giro per controllare che il
capotreno non facesse caso a loro.
«Posso confessarle una cosa, miss?».
«Ehm... prego».
Blasius le si accostò timidamente e, coperto dal frastuono della
pioggia, le sussurrò:
«Sono stato io a uccidere miss Silence».
Ofelia ebbe un conato di vomito, e non a causa del dondolio dei
vagoni. «Perché?» articolò senza riuscire a emettere un suono. Blasius
riprese le distanze e si sprofondò sul sedile tuffandosi le dita tra i
capelli già spettinati, con i lineamenti del viso tesi dal senso di colpa.
«Non è questa la domanda da fare, miss. Chiedetevi semmai come».
Rivolse a Ofelia uno sguardo preoccupato, come se temesse di vederla
spaccare il vetro e saltare nel vuoto per sfuggirgli. «Io... porto
sfortuna».
«Ah».
Fu l’unica cosa che le venne da rispondere. Era una delle
dichiarazioni più inaspettate che le avessero mai fatto.
«Dico sul serio» continuò Blasius sgranando grandi occhi
tormentati. «Il carrello dei libri, l’incidente di Wolf, la caduta di miss
Silence, questo diluvio: sono io a provocarli, capite? È così da quando
sono nato. Sfido tutte le statistiche. Il mio caso è stato studiato da
persone very competenti».
Le parole di Blasius la raggiunsero al cuore. Facevano eco a quelle
che aveva detto Thorn due anni e mezzo prima: “Penso che abbiate
una predisposizione naturale alla catastrofe”.
Aprì la bocca, ma un ruggito le tolse la parola.
«Vergognatevi, pecore!».
Ofelia e Blasius si voltarono. Intorno a loro gli studenti si
scambiarono occhiate interdette. Quanto al capotreno, aveva già
impugnato il blocchetto delle multe e stava cercando, sedile per
sedile, chi avesse osato infrangere il regolamento. Non lo trovò.
La voce risuonò di nuovo, da nessuna parte e dappertutto, più
potente dei tuoni esterni.
«Proprio così, pecorelle! Ma guardatevi con le vostre belle uniformi!
Guardatevi con i vostri virtuosi libri! Guardatevi col vostro modo di
parlare come si deve! E voi osate pretendere di essere la gioventù di
Babel?».
Ofelia si tappò le orecchie per non diventare sorda. Aveva già
sentito quella voce da tenore il giorno che era andata al Memoriale,
era la voce del Senza Paura E Quasi Senza Rimprovero.
«Ve lo dico io cosa siete» continuò la voce. «Complici! Cospiratori
del silenzio! Dittatori del benpensantismo! Se vi resta uno straccio di
amor proprio, cittadini, ripetete con me: abbasso l’Index e a morte i
censori! Abbasso l’Index e a morte i censori! Abbasso l’Index e a m...».
La voce si dissolse in uno sfrigolio acutissimo che sfondò i timpani
di Ofelia. Alla fine il capotreno aveva trovato sotto un sedile una
radiotrasmittente messa a tutto volume e l’aveva sfondata a colpi di
tacco. Tornò un silenzio carico di pioggia, vento e temporale.
«L’incidente è chiuso, cittadini» dichiarò il capotreno con un tono
che non ammetteva repliche. «Prossima fermata, la Buona Famiglia!».
Ofelia, con le orecchie che ancora le fischiavano, guardò Blasius
che si era alzato per farla passare.
«Ve l’avevo detto, miss Eulalia» fece con un’alzata di spalle piena di
fatalismo. «Porto sfortuna».
Ofelia si alzò a sua volta cercando di mantenere l’equilibrio
nonostante il rollio. Guardò i resti della radio che il capotreno stava
raccattando all’altro capo del vagone. La voce le risuonava ancora in
testa: “Morte ai censori!”.
«Miss Silence era mastro censore, vero?».
Blasius sollevò le sopracciglia grigie e irsute come i capelli.
«Eh? Sì, ma... well... non penserete mica che...».
«Non so ancora quel che penso» sussurrò Ofelia il più sottovoce e il
più velocemente possibile. «La sola cosa di cui sono abbastanza
sicura, signor Blasius, è che voi non siete responsabile di quel che è
successo al professor Wolf e a miss Silence. Credo anche che avervi
incontrato su questo trenuccello sia per me una vera fortuna».
Blasius spalancò gli occhi. Ebbe un fremito all’angolo della bocca,
come la fiamma tremolante di una candela.
«È la prima volta in vita mia che qualcuno mi dice una cosa del
genere».
«La Buona Famiglia!» annunciò il capotreno.
Nonostante gli scomodi guanti troppo lunghi Ofelia strinse la
mano che Blasius le porgeva timidamente.
«Sono fermamente intenzionata a far parte dei gruppi di lettura»
dichiarò. «Ci rivedremo presto al Memoriale. Fino ad allora siate
prudente, e chiedetevi cos’abbia davvero ucciso miss Silence».
Scesa sulla banchina di sbarco Ofelia seguì con gli occhi la sagoma
del treno alato che continuava la sua corsa attraverso il cielo. La
pioggia era cessata nell’istante stesso in cui si era allontanato
dall’arca.
“Non devo” pensò con tutte le sue forze. “Diventare amica di un
memorialista sarebbe irragionevole. Anche pericoloso”.
Ma, rendendosi conto che di colpo si sentiva meno sola, fu
costretta a riconoscere che era ormai troppo tardi.
IL BENVENUTO
Ofelia passò la notte a rigirarsi nel letto tra il russare della camerata
e il ronzio delle zanzare. Non riusciva più a capire Thorn. Che
intendeva dire con quella domanda? Pensava che gli nascondesse
informazioni? Per cercarlo era scappata da Anima, aveva cambiato
identità su un’arca in cui la menzogna era un crimine, pur di non
tradirlo aveva subìto il ricatto di Mediana, era rimasta alla Buona
Famiglia perché gliel’aveva chiesto lui, e mai una volta si era
lamentata.
Non sarebbe stato più giusto che Thorn le dicesse esattamente in
cosa l’aveva tanto deluso?
Morta di caldo, scostò le lenzuola. Avrebbe dovuto essere infuriata
con lui, invece era scontenta di sé. Tre anni prima non era riuscita ad
aiutarlo quando aveva avuto bisogno di lei, e il passato si stava
ripetendo: ancora una volta si sentiva più che mai inutile.
Forse quello che Thorn aspettava da lei erano soltanto parole di
scusa.
Alla fine si addormentò.
Sorvolava il vecchio mondo persa da qualche parte tra passato e
futuro, tra sogno e realtà. Sotto le nuvole vedeva una città in rovina
che portava le cicatrici dei bombardamenti, poi mare a perdita
d’occhio. Più che un mare: un oceano. Era strano pensare che un
giorno tutta quell’acqua sarebbe stata inghiottita dal vuoto.
Concentrandosi riusciva a distinguere le sinuosità sottomarine di una
barriera corallina, e da qualche parte al centro della laguna un
minuscolo ciuffo di vegetazione.
Un’isola al largo delle coste.
«È casa mia, dannazione».
Ofelia notava allora un uomo seduto accanto a lei sul bordo di una
nuvola. Lo riconosceva subito, era il portiere di cui aveva letto il
registro. Il velo del turbante gli nascondeva appena il volto sfigurato.
La bocca sembrava una ferita mal cicatrizzata. Eppure lo capiva
perfettamente quando la guardava da dietro gli occhialini rotondi e le
parlava in una lingua che lei non aveva mai sentito.
«Stai attenta all’altro. Non è come quei fottuti ragazzini, quello lì».
«Quale altro?» chiedeva Ofelia.
Per tutta risposta il portiere si rituffava nella contemplazione della
sua isola torcendo quel che gli restava della bocca.
«Se cerchi E. D., l’altro ti troverà».
Si svegliò di soprassalto. Non era ancora l’alba, ma non aveva più
sonno. Dal letto accanto, sepolta sotto il lenzuolo, Zen la spiava nella
penombra con sguardo preoccupato, come se stesse tenendo d’occhio
una pazza furiosa pronta a saltarle addosso.
Ofelia prese gli occhiali, si infilò divisa e stivali dietro il paravento e
scese di corsa il transcendium. Il tintinnio delle sue alette riempiva il
silenzio del Foyer. Infilò la tessera da apprendista nel tornello del
locale del telegrafo. Era un peccato sprecare punti tanto duramente
guadagnati solo per mandare un messaggio, ma non aveva la
pazienza di aspettare.
«All’attenzione del signor Blasius, Memoriale di Babel, servizio...
ehm... servizio classificazione collezioni» dettò nel cornetto acustico.
«Ho bisogno di vedervi quanto prima per... ehm... per un consiglio. A
proposito dei libri... ehm... di cui mi avete parlato al bazar. Da parte
di Eulalia... ehm... seconda divisione della compagnia dei
precorritori».
Dopo pochi secondi il braccio meccanico dello sportello ruotò su
una base e il dito d’ottone si posò sull’apparecchio telegrafico per
inviare impulsi un po’ brevi e un po’ lunghi. Ofelia si augurò che non
riproducesse tutti i suoi “ehm”.
Come aveva fatto a dimenticare i libri di E. D.? Miss Silence li aveva
distrutti senza autorizzazione subito prima di morire per arresto
cardiaco e a lei non era mai venuto in mente di parlarne a Thorn.
Doveva provvedere al più presto.
Passò il resto della giornata a contare i minuti. Alla Buona Famiglia
il clima si era fatto irrespirabile. Venti torridi facevano tremare i vetri
degli edifici e portavano sabbia fin dentro gli atri. Ogni volta che
Ofelia si avvicinava a una finestra cercava con gli occhi, attraverso il
turbinio di polvere, la piccola arca su cui sorgeva il Memoriale
sperando che quel giorno non annullassero i voli. Il pomeriggio
rimase chiusa con i compagni nel silenzio bollente del laboratorio.
Gli Indovini la tennero fuori da tutte le attività del gruppo e Zen
cambiò posto per non doverle stare accanto. Octavio, che in genere
non le staccava gli occhi di dosso, dopo l’episodio delle toilette
evitava il suo sguardo. Quanto a lady Septima, non la degnò di un
solo commento durante il lavoro pratico: valutava, consigliava e
criticava tutti tranne lei.
L’avevano messa in quarantena. Spontaneamente e all’unanimità.
A pochi giorni dalla cerimonia di consegna dei gradi.
Fu un vero sollievo vedere che col calare del sole calava anche il
vento. Il dirigibile riservato alla compagnia dei precorritori decollò al
crepuscolo in un cielo bollente e sulfureo. Ofelia cercò un sedile in
cui non attirarsi colpetti di tosse di disapprovazione. Per quanto
strano possa sembrare c’erano momenti in cui quasi le mancava
Mediana. Scomparendo, l’Indovina aveva lasciato intorno a sé un
gran vuoto che continuava ad allargarsi.
Si ritrovò in fondo al dirigibile accanto a Elizabeth, che prendeva
tranquillamente appunti sul taccuino e sembrava non accorgersi né
dell’animosità che regnava a bordo né dello sconforto della vicina.
«Come siete riuscita a diventare aspirante virtuosa?».
«Mmm? Grazie a molto caffè».
«Per piacere» sospirò Ofelia. «Ho cominciato l’apprendistato più
tardi degli altri e ho lady Septima alle costole. Mi resta poco tempo
per fare buona impressione. Un consiglio sarebbe il benvenuto».
Elizabeth continuò a far scorrere la matita sulla carta scrivendo una
serie di numeri, lettere e simboli che evidentemente per lei avevano
un senso.
«Rimani neutra» dichiarò poi in tono placido. «Osserva senza
giudicare. Ubbidisci senza discutere. Impara senza prendere
posizione. Interessati senza attaccarti. Fai il tuo dovere senza
aspettarti niente in cambio. È l’unico modo per non soffrire»
concluse cancellando un intero riquadro di annotazioni. «Meno si
soffre, più si è efficienti. Più si è efficienti e meglio si serve la città».
Ofelia osservò le mani di Elizabeth costellate di lentiggini.
Scrivevano, cancellavano e ricominciavano da capo senza
scoraggiarsi.
«Non vi sentite mai sola?».
«Siamo sempre soli».
Ofelia scese dal dirigibile al Memoriale più disincantata di quando
c’era salita.
La seduta di catalografia le parve interminabile. Doveva concludere
la sua quota di lavoro al più presto se voleva ritagliarsi un po’ di
tempo prima dell’appuntamento con Thorn al Secretarium,
sennonché aveva in testa così tante domande che le era difficile
concentrarsi. Perché miss Silence aveva distrutto di nascosto l’opera
completa di E. D.? Aveva qualcosa a che vedere con le ricerche di
Thorn? Perché un autore di vecchi libri per bambini avrebbe dovuto
essere in possesso di un’informazione che permetteva di diventare
“pari a Dio”? Anche quello che era successo a Mediana e al professor
Wolf aveva a che fare con lo stesso segreto?
“Se cerchi E. D., l’altro ti troverà”.
Certo, era solo un sogno, ma Ofelia tendeva a prendere sul serio
tutto ciò che risaliva in superficie dall’inconscio. La memoria che
condivideva con Dio sembrava saperne molto più di lei.
Chi era “l’altro” di cui il portiere aveva così paura? Era lo stesso che
Ofelia aveva liberato dallo specchio? E di nuovo, che rapporto c’era
con E. D.?
Doveva assolutamente parlarne con qualcuno.
Dette un’occhiata oltre la rete del suo box nella speranza di
scorgere Blasius, ma incontrò solo lo sguardo degli Indovini nei box
accanto. Sotto i loro baffetti imbrillantinati aleggiava un sorriso che
la mise a disagio. Quando ebbe finito di catalogare e si alzò, le loro
voci canticchiarono all’unisono:
«Meteo della sera: allarme canicola».
Ofelia li ignorò. Si affrettò a lasciare i suoi libri al bancone dei
Fantasmi e a perforare le schede nel sotterraneo. Quando guardò
l’orologio della statua meccanica dell’atrio che accoglieva i visitatori
con profondi inchini emise un sospiro di sollievo: aveva giusto il
tempo di trovare Blasius.
Fu meno facile del previsto. Di sabato il Memoriale chiudeva
sempre le porte un po’ più tardi, in genere per le mostre temporanee,
ma quella sera c’erano più visitatori del solito. Nel grande atrio alcuni
automi stavano manovrando una gru per montare un gong di
dimensioni gigantesche. Erano preparativi che venivano fatti in vista
della cerimonia di inaugurazione del nuovo catalogo che si sarebbe
svolta lo stesso giorno della consegna dei gradi. Ofelia pestò un
numero considerevole di piedi attraversando i transcendium e le
suspensale. Si voltava ogni volta che avvistava la divisa di un
memorialista, ma non era mai Blasius. Sarebbe stato troppo frustrante
aver battuto inutilmente il proprio record di velocità in catalografia.
Sbucando da una corsia si imbatté nell’ultima persona che stava
cercando, un uomo dai lunghi capelli argentei seduto su un divano di
pelle che indossava una redingote bianca e occhiali rosa.
Lazarus! L’inventore degli automi di servizio, il famoso arca-trotter,
il padre di Ambroise.
Ofelia prese il libro più grosso che era a portata di mano e fece finta
di immergersi nella lettura. Quell’uomo l’aveva conosciuta al Polo,
sapeva chi era... e anche chi non era. Per fortuna Lazarus non l’aveva
vista. Stava conversando animatamente con il vecchio spazzino del
Memoriale che spolverava col piumino gli scaffali dei libri un
centimetro dopo l’altro.
«...Questo è il motivo per cui dobbiamo preparare il futuro, old
friend!» esclamò Lazarus con entusiasmo. «Dovreste abbandonare la
scopa, indegna di voi, e godervi una meritata pensione! Potreste fare
un viaggio. Il mondo al di là di queste mura è absolutely fabulous e,
credetemi, so di cosa parlo!».
Walter, l’inseparabile maggiordomo meccanico, era chino sul
divano per pettinare i lunghi capelli del padrone, e sottolineava ogni
parola annuendo con la testa senza faccia.
L’anziano spazzino rispose con un’alzata di spalle e ricominciò a
spolverare. Ofelia non riusciva a vederne l’espressione sotto il triplo
strato di barba, ma si sentiva esasperata per lui. Non potevano
lasciarlo lavorare lì in santa pace, se gli faceva piacere? Guardò
Lazarus sul divano con le gambe indolentemente accavallate che
agitava il cilindro come un prestigiatore facendo l’elogio del futuro e
della modernità con grandi frasi enfatiche. La prima volta che l’aveva
incontrato l’aveva trovato simpaticissimo. Si rese conto che in quel
momento diffidava di lui, e non solo perché poteva smascherarla. Si
era trovato al Polo quasi contemporaneamente a Dio, e come Dio
aveva manifestato un insistente interesse per il potere familiare di
Madre Ildegarda.
«Psss, miss Eulalia! Di qua!».
Era Blasius, che col suo scarso tempismo era apparso tra gli scaffali
all’altro capo della galleria e le faceva segnali che probabilmente
credeva discreti. Ofelia non poté fare altro che raggiungerlo con la
faccia sempre sprofondata nel libro, sentendo su di sé lo sguardo
incuriosito del vecchio esploratore.
«Non era mister Lazarus quello lì?» le sussurrò Blasius. «Sono mesi
che è tornato a Babel, ma non l’avevo ancora incontrato».
Ofelia aggrottò le sopracciglia. Mesi? Vuoi vedere che Ambroise
aveva cominciato a evitarla da quando era tornato il padre?
«Non sembrate molto felice di vederlo qui» commentò mentre si
allontanavano.
Blasius si era messo a spingere il carrello dei libri col passo pesante
e la schiena curva, come se di colpo stesse spingendo una bara.
«Oh, non mi fraintendete» sospirò. «Ammiro molto mister Lazarus.
E gli sono grato. Un tempo insegnava alla scuola che frequentavo io,
e aveva per me più benevolenza di qualsiasi altro adulto. La mia
goffaggine, la mia iella, le mie... well... le mie inclinazioni, niente di
tutto questo sembrava disturbarlo. Mi trovava interessante. Avevo
quasi l’impressione di essere speciale quando parlavo con lui»
mormorò torcendo le labbra in un debole sorriso. «Detto fra noi,
quelli che non sopporto sono gli automi. Hanno sostituito la quasi
totalità degli addetti alla manutenzione. E se mister Lazarus è qui è
probabile che abbia nuovi modelli da proporre al Memoriale, automi
capaci non soltanto di pulire, ma anche di... mettere a posto i libri e
dare informazioni ai visitatori».
Blasius si sfregò la targhetta di commesso spillata alla divisa con
una tale ansia che Ofelia contrasse le mascelle. No, decisamente
Lazarus non le ispirava più nessuna simpatia.
«Avete ricevuto il mio telegramma?» domandò Ofelia sottovoce.
Blasius sbatté più volte i grandi occhi umidi.
«What? Ah, sì sì, l’ho ricevuto. Vi mentirei se dicessi che la vostra
richiesta non mi ha sorpreso. E anche preoccupato, dopo quello che è
successo a miss Silence... Be’, spero che non stiate andando a ficcarvi
in altri guai. Che volevate sapere?».
Ofelia si guardò in giro per essere sicura che non ci fossero orecchie
indiscrete. A parte le maestose statue che fungevano da colonne alle
scaffalature non c’era nessun altro nella galleria, né a terra né sul
soffitto.
«Potete farmi vedere il punto esatto in cui si trovavano i libri di E.
D. prima che venissero rimossi?».
«Of course! Seguitemi».
Strada facendo il carrello perse una ruota, e quando Blasius si
accovacciò per rimetterla a posto gli si strappò la cucitura dei
pantaloni. Ofelia doveva riconoscere che era proprio sfortunato.
Nella sezione dell’infanzia riconobbe il posto in cui si erano
incontrati per la prima volta, si rivide mentre raccoglieva i libri di E.
D. che lei stessa aveva fatto cadere. E dire che li aveva avuti fra le
mani appena poche ore prima che venissero distrutti...
«Miss Silence mi aveva praticamente accusato di furto» ricordò a
mezza voce. «Voleva perfino perquisirmi la borsa».
Tirandosi giù le falde della giacca per nascondere lo strappo Blasius
indicò col mento l’ultimo scaffale su cui erano allineate rilegature di
tutti i colori.
«La collezione completa di E. D. era lassù. Ed è da lassù che miss
Silence è caduta» aggiunse storcendo il naso con espressione
nauseata. «Mi sembra di sentire ancora l’odore della sua paura».
Ofelia notò un’elegante scala scorrevole. Un cartello indicava I
bambini non possono prendere da soli i libri che si trovano in alto.
«È la scala che ha usato miss Silence?».
«No, questa è nuova» rispose Blasius. «Abbiamo buttato la vecchia
dopo l’incidente. Non presentava anomalie, ma nel dubbio...».
Ofelia ci rimase male. Leggere un oggetto associato a una morte
violenta era una dura prova, ma poteva darsi che fosse l’unico
testimone della scena.
«Avete detto che miss Silence è tornata qui dopo aver distrutto i
libri».
Perplesso, Blasius si grattò i capelli ispidi.
«Indeed, in piena notte. Continuo a non spiegarmi perché. La
mattina, quando l’abbiamo trovata, non c’era niente di particolare».
Ofelia fece scorrere la scala sul binario e salì i pioli per raggiungere
gli scaffali più alti. C’erano solo edizioni recenti di abbecedari.
«Non c’era più niente» lo corresse. «Forse quel che miss Silence era
venuta a cercare era stato già preso da qualcun altro». In quel
momento fu attraversata da un’intuizione. «Il Memoriale conserva
traccia scritta dei libri distrutti dai mastri censori?».
Blasius allungò una mano verso Ofelia per aiutarla a scendere, ma
inciampò contro una sporgenza del parquet e per poco non la fece
cadere.
«Oh sorry! Per rispondere alla vostra domanda: sì, nell’archivio
dell’ufficio censura. Miss Silence deve aver registrato tutto presso di
loro. Peccava forse per eccesso di iniziativa, ma ha sempre rispettato
la procedura».
«Potete portarmici?».
Blasius guardò l’orologio della galleria.
«Posso aprirvi, ma non trattenermi. Ho finito il turno, e i miei
genitori mi hanno eccezionalmente invitato a cena. Non devo farli
aspettare» disse nascondendosi lo strappo sul sedere. «Si vergognano
talmente di me che aspettano solo un pretesto per rinnegarmi».
TRADIMENTO
Ofelia non era ancora mai stata all’ufficio censura. Era situato
nell’altro emisfero del Memoriale, quello interamente ricostruito
dopo la Lacerazione: impossibile camminare in quel luogo senza
pensare al vuoto che si estendeva sotto le tonnellate di pietra. Il posto
era deserto, e sembrava più un locale industriale che un ufficio
amministrativo. Lampadine senza paralume diffondevano una luce
cruda sulle pile di scatole di cartone accatastate fino al soffitto.
All’interno regnava un caldo soffocante.
«È l’inceneritore» spiegò Blasius indicando l’oblò affumicato di una
porta pressurizzata. «Io... ho il divieto categorico di avvicinarmici».
«Sta funzionando in questo momento?» si stupì Ofelia. «Credevo
che nessun documento dovesse essere distrutto finché non è pronto
il nuovo catalogo».
«I libri sì, ma non i rifiuti. Il Memoriale accoglie ogni giorno
centinaia di visitatori, senza contare il personale. Sareste stupita di
vedere la quantità di immondizia che infiliamo là dentro ogni sera,
miss! L’archivio è da questa parte».
Blasius aprì un’altra porta la cui maniglia gli rimase in mano.
L’archivio non era diverso dal resto degli uffici: scatole di cartone
dappertutto. Se il vecchio catalogo rispecchiava quell’organizzazione
Ofelia capiva meglio perché Thorn l’avesse rifatto da zero.
«Vi lascio» disse Blasius. «Non voglio perdere il trenuccello. Posso
stare tranquillo che spegniate le luci e chiudiate la porta quando
avrete finito?».
«Contate su di me».
Anche Ofelia era in ritardo, non aveva tempo da perdere. Si
rimboccò le maniche della redingote, passò in rassegna le etichette
delle scatole e a un certo punto si accorse che Blasius era ancora sulla
porta con un’espressione tormentata sulla faccia.
«Avete considerato l’ipotesi che dietro a tutto ciò ci sia... il Senza
Paura?».
«L’ho considerata, sì».
Il Senza Paura odiava i censori, e miss Silence era morta nel pieno
esercizio delle sue funzioni. Il Senza Paura aveva visto in Mediana
una nemica, e Mediana aveva smesso di essere una precorritrice
dall’oggi al domani. Era un uomo meno inoffensivo di quanto
sembrasse, molto ben informato e terribilmente ambizioso. Ofelia
non si sarebbe stupita che anche lui fosse alla ricerca del libro che
permetteva di diventare pari a Dio.
«Siate prudente, mi raccomando. Cercate di non finire come la
vostra compagna. Please».
La voce di Blasius si era fatta così implorante che Ofelia si
commosse e non seppe che dire. Non sapeva mai che dire in quei
momenti.
«L’osservatorio delle Deviazioni» disse allora Blasius con la
massima serietà. «È lì che l’hanno trasferita. Goodbye, miss».
«Io... Grazie».
Le parole le erano uscite troppo tardi, Blasius se n’era andato.
Ofelia si costrinse a riprendersi. Una cosa per volta: prima le
scatole. Ne trovò una la cui data corrispondeva al decesso di miss
Silence e sfogliò le rubriche che conteneva.
«Eccolo qua» mormorò.
Su una di esse, alla voce “autore” c’era un’intera colonna di E. D.
Scorse i titoli: Viaggio intorno al nuovo mondo, Le avventure dei piccoli
prodigi, Una bella e meravigliosa famiglia e così via. Quei libri
puzzavano di benpensantismo a un miglio di distanza, il che rendeva
ancora più incomprensibile la loro distruzione.
Alla voce “motivo della censura” miss Silence aveva scritto
Vocabolario disapprovato dall’Index e mancanza di pedagogia.
I libri di E. D. non avevano data di pubblicazione, il che era
piuttosto frequente nelle vecchie edizioni, ma stando alla rubrica la
data stimata risaliva al primo secolo dopo la Lacerazione. Era
un’epoca in cui l’umanità era in piena ricostruzione e nel bel mezzo
di un rinnovamento, quando la letteratura cosiddetta ottimista era
molto diffusa.
Interdetta, Ofelia si aggiustò gli occhiali sul naso. Fino a quel
momento non c’era davvero niente di sconvolgente. In fin dei conti
poteva pure essere che la collezione di E. D. fosse una falsa pista. E se
il libro che stava cercando fosse stato in realtà un Libro con la elle
maiuscola? Se Dio fosse stato creato come lui stesso aveva creato gli
spiriti di famiglia? Se fosse esistito un Libro che dava il potere di
riprodurre tutti i poteri?
Ofelia avrebbe potuto saperlo leggendo la rubrica con le mani e
penetrando lo stato mentale di miss Silence, ma per farlo le serviva il
consenso dell’ufficio censura. L’ultima volta che si era servita del
proprio potere senza permesso aveva violato la vita privata del
professor Wolf, una deviazione dalle regole che ancora le pesava sulla
coscienza.
A un certo punto si accorse di un’anomalia. Tutti i libri che
figuravano nella lista delle opere di E. D. erano contrassegnati dal
timbro “distrutto”.
Tutti tranne uno, L’era dei miracoli.
Un esemplare era dunque sfuggito all’incenerimento? Ecco allora
cos’era venuta a cercare miss Silence a notte fonda! Ma al suo posto
aveva trovato la morte. E il libro che fine aveva fatto?
«Ci sarà una volta, fra non molto tempo, un mondo che vivrà
finalmente in pace».
Aveva appena pronunciato la frase che si domandò perché l’avesse
detta. Erano le stesse parole che le erano venute in mente quando
aveva letto la statua del soldato senza testa. Aveva l’impressione di
averle già viste da qualche parte, di averle imparate a memoria e poi
dimenticate.
Di colpo sollevò lo sguardo dalla rubrica.
Intorno a sé vide soltanto scatole di cartone, eppure per un attimo
aveva percepito un movimento con l’angolo dell’occhio, come
un’ombra che le si chinasse sulla spalla. Allora si rese conto di essere
madida di sudore, e non solo per il caldo dell’ambiente. Il cuore le
batteva a tutta velocità. Gli occhiali le erano diventati blu.
Aveva la sensazione di essersi svegliata da un incubo che neanche
ricordava.
Vedendo l’orologio della stanza scattò in piedi. Era molto più tardi
di quel che credeva! Probabilmente tutti si stavano domandando
dove fosse finita, a cominciare da Thorn. Rimise a posto la scatola in
tutta fretta e spense la luce, ma al momento di chiudere il locale ebbe
uno sguardo incerto per la porta dell’inceneritore. L’oblò era rosso
come la piastra di un fornello. Là miss Silence aveva distrutto i libri di
E. D. tranne uno. E se L’era dei miracoli fosse accidentalmente rimasto
all’interno?
Una potente onda di calore assalì Ofelia appena dischiuse la porta
pressurizzata. Quasi tutta la stanza era occupata da un forno.
Emanava una tale temperatura che il solo fatto di stargli nei pressi le
dava l’impressione di carbonizzarsi. Avrebbe dovuto indossare una
tuta di protezione prima di entrare lì dentro, ma non aveva più il
tempo di cercarne una. Dette una rapida occhiata a ogni angolo della
stanza, sotto i cassoni dei rifiuti, dietro il deposito di carbone, in tutti
i posti in cui un libro avrebbe potuto scivolare e passare inosservato.
Niente.
L’unica cosa che trovò, quando decise che faceva troppo caldo per
trattenersi un secondo di più, fu la porta chiusa. Dall’altra parte
dell’oblò gli Indovini si stavano allontanando di corsa.
Ofelia si accanì sulla maniglia, così bollente che le scottò le dita
nonostante i guanti. Inutilmente. Avevano tirato il chiavistello di
sicurezza.
“Meteo della sera: allarme canicola”.
Gli Indovini sapevano! Avevano previsto quel momento fin
dall’inizio, e come sempre si erano fatti attori delle proprie profezie.
Per quanto colpisse la porta e chiamasse aiuto non arrivò nessuno, e
naturalmente non poteva contare sul suo animismo per aprire il
catenaccio.
Il calore del forno era insopportabile. Cercò invano un’altra uscita.
Era in trappola. Rivoli di sudore le colavano sul mento. I piedi le
bollivano negli stivali. Incollò la faccia alla griglia murale di
ventilazione. Non poteva scappare da lì, ci passava a stento un
braccio, ma era il punto meno surriscaldato della stanza. Il tempo
scorreva, e con lui tutta l’acqua che Ofelia aveva in corpo.
Non riusciva a crederci. Gli Indovini si rendevano conto di averla
messa in serio pericolo? Oltre a loro, solo Blasius sapeva dove si
trovava, e il suo trenuccello era decollato da un pezzo.
Ofelia si tirò il colletto. Il panico, più ancora del caldo, le faceva
mancare l’aria.
Si asciugò il sudore che le bruciava gli occhi: un’ombra si era
avvicinata all’oblò della porta. Uno scatto. La maniglia girò e l’aria si
infilò nella stanza.
Ofelia si precipitò fuori e tossì tanto da sentire male ai polmoni. La
testa le girava talmente che dovette appoggiarsi al muro. Avrebbe
pianto di sollievo se le fosse rimasta dentro abbastanza acqua per
farlo.
Chi le aveva aperto? Gli Indovini? Ovunque Ofelia guardasse
rimaneva l’unica persona presente nell’ufficio censura.
Barcollò fino alle toilette più vicine. Si fece forza per non bere
l’acqua del rubinetto, che non era potabile, ma si passò un fazzoletto
bagnato sulla pelle del viso e del collo. Era rossa come se avesse preso
un colpo di sole.
Doveva vedere Thorn al più presto. Era indispensabile che fosse
informato della sparizione dell’unico libro di E. D. a non essere stato
distrutto da miss Silence. C’era la possibilità che gli stesse sfuggendo
l’oggetto principale delle sue ricerche.
Era appena uscita dai bagni che vi ritornò a svuotarvi il contenuto
del suo stomaco. China sul gabinetto, scossa dai brividi, pensò
seriamente di denunciare gli Indovini. L’avrebbe fatto senza
esitazioni se dopo non fosse stata costretta a spiegare cosa stava
facendo all’ufficio censura. Doveva evitare di attirare l’attenzione di
lady Septima e dei Lord di LUX sulle indagini che stava conducendo.
Non incontrò più nessuno nelle gallerie, a parte qualche automa
che lavava le vetrine. Il Memoriale aveva chiuso le porte, i visitatori e
la maggior parte del personale se n’erano andati. Si recò al box di
lettura per cercare lady Septima, sperando che quest’ultima
acconsentisse ad aprirle l’accesso al Secretarium nonostante il ritardo.
Gli Indovini erano seduti al loro tavolo diligentemente chini sui
libri, come se fossero sempre rimasti lì. Accennarono un sorriso
ironico vedendo il suo sguardo furioso. Ce n’era tuttavia uno che
ebbe la decenza di incassare la testa nelle spalle, visibilmente a
disagio. Ofelia si domandò se non fosse stato lui, colto dai rimorsi, ad
aprirle la porta.
Si stupì notando che nel box di Octavio il tavolo dei Figli di Polluce
era vuoto.
«Well well well!» fece lady Septima vedendola. «Ecco la nostra
scomparsa. È un’ora che vi stiamo cercando, apprendista, e nessuno
dei vostri compagni è stato in grado di dirci dove foste finita. Come
vi giustificate?».
«Mi sono sentita male».
Il che non era una bugia. La voce rauca, le guance paonazze e i
capelli bagnati di sudore testimoniavano a suo favore.
«Ma guarda. E non avete ritenuto opportuno informarci? Sir Henry
aveva bisogno delle vostre mani per una nuova perizia. Avete fatto
fare tardi a tutti».
Lady Septima parlava in tono di disappunto, ma il suo era uno
scontento di facciata. Gli occhi le brillavano dalla soddisfazione di
poter restituire all’allieva l’umiliazione da lei subita il giorno prima in
quanto docente. Ofelia fu subito sicura che sapesse benissimo quel
che le avevano fatto passare gli Indovini. Forse ne era addirittura la
mandante.
«Recupererò» promise. «Potete aprirmi l’accesso al Secretarium?».
«È inutile, apprendista. Sir Henry ha trovato un sostituto».
L’effetto che quelle parole produssero su Ofelia fu più brutale del
calore dell’inceneritore. Ecco perché il box di Octavio era vuoto!
«Se davvero volete recuperare seguite l’esempio dei vostri
compagni» le raccomandò lady Septima indicando il tavolo dei
Figliocci di Helena. «Le ore supplementari che farete in catalografia
attenueranno forse la pessima impressione di ciò che non avete fatto
altrove. Che peccato, a così pochi giorni dalla consegna dei gradi...».
Ofelia andò a sedersi nel box, ma non prese niente da leggere né
materiale per scrivere. Si limitò a fissare con durezza il globo del
Secretarium la cui crosta terrestre in oro rosso rifletteva le lampade
delle gallerie che gli si avvolgevano intorno come anelli planetari.
Dato che i box si trovavano sul soffitto Ofelia lo vedeva al contrario,
in compenso aveva una vista perfetta sulla porta blindata.
Thorn l’aveva sostituita.
«Mademoiselle sta per piangere?» sussurrò un Indovino al di là della
rete. «Mademoiselle vuole un fazzoletto?».
Ofelia lo fece tacere con un’occhiata. Ribolliva di collera.
Thorn l’aveva sostituita per colpa loro.
Lasciò il box appena la passerella si allungò verso la porta del
Secretarium. Lady Septima si era piazzata al bancone della posta
pneumatica: se la sorprendeva ad abbandonare il proprio posto senza
permesso l’espulsione era assicurata.
«Chiedo l’autorizzazione di andare in bagno».
«Ancora?».
Lady Septima non aveva nemmeno sollevato gli occhi dal taccuino
su cui stava prendendo appunti.
«Sto davvero male. Non vorrei vomitare sul materiale del
Memoriale».
Non aveva bisogno di fingere, aveva davvero la nausea.
«Vi do cinque minuti» decretò lady Septima senza smettere di
scrivere. «E la cosa sarà riportata nel vostro dossier. Un virtuoso deve
avere la completa padronanza del proprio organismo».
Ofelia era già lontana. Si diresse verso le toilette, ma appena fuori
di vista cambiò strada, percorse un’infilata di corridoi e arrivò al
transcendium settentrionale proprio nel momento in cui Octavio si
accingeva a richiamare la passerella girando la chiave nella
colonnina.
«Devo andare al Secretarium» disse senza fiato. «Solo un minuto,
per piacere».
Octavio aggrottò le folte sopracciglia nere. In quel momento la
somiglianza con la madre fu più forte che mai.
«Perché?».
Ofelia era travolta dall’impazienza.
«Devo vedere sir Henry. Una cosa confidenziale».
«Non lo trovi più al Secretarium. È uscito adesso. Va in città, un
dirigibile lo sta aspettando».
Ofelia pensò che decisamente non era la sua serata. Niente andava
come previsto. Scese il transcendium il più velocemente possibile.
Thorn stava varcando le porte dell’atrio a grandi falcate. Per essere un
invalido aveva un bel passo. La differenza di temperatura tra la
frescura del Memoriale e la notte fuori fece a Ofelia l’effetto di entrare
nell’acqua calda.
Riuscì a raggiungere Thorn nel momento in cui passava davanti
alla statua del soldato senza testa. La sagoma di un dirigibile stava
manovrando per avvicinarsi all’imbarcadero, lo scafo luccicava alla
luna.
«Aspettate...».
Sentendo Ofelia, Thorn si voltò. Era la prima volta che lo vedeva
con l’uniforme ufficiale dei Lord di LUX. Nell’alone dei lampioni le
dorature assumevano riflessi argentati.
«Vado di fretta. Sono stato convocato dai Genealogisti».
«Sarò breve: perché mi avete fatto una cosa del genere?».
«Non dimenticate con chi state parlando».
L’avvertimento non poteva essere più chiaro. In quel momento
Thorn era sir Henry e, anche se intorno a loro c’erano solo mimose, si
trovavano in un luogo pubblico. Ofelia non se ne curava. Non
riusciva più a contenere il ribollire di emozioni che la consumava
dall’interno.
«Perché?» insisté. «Volete punirmi?».
«Voi non eravate disponibile. Aspettarvi avrebbe rallentato le mie
ricerche».
Thorn si era raddrizzato in tutta la sua altezza e guardava dritto
davanti a sé. Il distacco con cui esponeva le sue ragioni decuplicò la
rabbia di Ofelia.
«Rallentato? Tanto perché lo sappiate, stavo facendo anch’io delle
ricerche. Vi interesserà sapere...».
«Appunto, qui sta il problema» la interruppe lui. «Vi avevo
raccomandato di non lasciare mai la divisione e avvertirmi se c’erano
novità. Non è cambiato niente, state continuando a prendere
decisioni da sola».
«Volevo aiutarvi» sibilò Ofelia tra i denti.
Thorn alzò la testa verso il dirigibile, ormai così vicino all’arca che
le eliche facevano fremere le mimose circostanti.
«Non so che farmene dei vostri buoni sentimenti. Ho bisogno di
efficienza. E ora, se permettete, ho un volo da prendere».
Il sangue di Ofelia prese fuoco nelle vene.
«Siete un egoista».
Voleva far arrabbiare Thorn, e dal modo in cui lui si impietrì sul
posto capì di esserci riuscita. Tutte le ombre della notte sembravano
improvvisamente essersi radunate sulla sua faccia. Dardeggiò su
Ofelia uno sguardo di durezza tale da farla vacillare.
«Sarò esigente, guastafeste, maniaco, asociale e storpio» elencò con
voce terribile. «Potete attribuirmi tutti i difetti del mondo, ma non vi
autorizzo a darmi dell’egoista. Se preferite fare le cose a modo vostro,
fatele» concluse fendendo l’aria con il taglio della mano, «ma senza
farmi sprecare tempo».
Le voltò le spalle per andare al dirigibile.
«La nostra collaborazione finisce qui».
Ofelia sapeva che un’iniziativa da parte sua avrebbe solo aggravato
la sua posizione, tuttavia non riuscì a impedire alla mano di slanciarsi
verso Thorn per trattenerlo, obbligarlo a fare dietrofront, impedirgli
di allontanarsi di più.
Non lo raggiunse mai.
Un dolore folgorante le attraversò il braccio come una scarica
elettrica. Col respiro mozzo, dovette appoggiarsi alla statua del
soldato per non cadere. Sgranò gli occhi dietro gli occhiali scomposti
mentre Thorn si faceva inghiottire dalla notte con un sinistro cigolio
d’acciaio senza voltarsi indietro.
Aveva usato gli artigli contro di lei.
OMBRE
In vita sua a Ofelia era capitato di passare per varie sale d’attesa, ma
mai ne aveva vista una come quella. In mezzo al tappeto cresceva un
eucalipto, e sugli schienali delle panche cinguettavano pappagallini.
L’osservatorio delle Deviazioni era un luogo decisamente
sorprendente.
Quando Blasius gliel’aveva menzionato, Ofelia si era immaginata
un ospedale lugubre, invece si ritrovava in un istituto brioso in cui la
giungla era parte integrante dell’architettura. Pagode, ponti, serre e
terrazze formavano un insieme così tentacolare che l’osservatorio
occupava da solo un’intera arca minore. Quali che fossero le
“deviazioni” sotto osservazione, i responsabili di quel luogo
disponevano di larghi mezzi.
Non dovette attendere molto. Si era appena seduta quando
un’adolescente le andò incontro. Indossava un sari di seta gialla,
occhialini pince-nez scuri e lunghi guanti di pelle, e aveva una
scimmia meccanica sulla spalla. Ofelia non l’avrebbe mai considerata
un membro del personale se non le avesse fatto cenno di seguirla.
«Benvenuta nel nostro istituto, miss Eulalia! La paziente è stata
condotta nella veranda dei visitatori, permettetemi di
accompagnarvi. Siete la prima persona che viene a trovare la povera
miss Mediana» mormorò l’adolescente lasciando la sala d’attesa.
«Ho approfittato della domenica».
«Purtroppo non possiamo concedervi più di cinque minuti con lei.
Sono sicura che le farà bene vedere il volto di un’amica».
Ofelia evitò di contraddirla.
«Ve l’ha affidata lady Septima?».
«Sì, facendosi carico di tutte le spese. Una santa donna, lady
Septima! Sia sempre lode ai Lord di LUX!».
La giovane babeliana si esprimeva con autentico fervore religioso.
Ogni sorriso era un raggio di luce sul nero della sua pelle.
Mentre la seguiva in un corridoio Ofelia pensò che la invidiava.
Quanto a se stessa, aveva la sensazione che non avrebbe più sorriso.
“La nostra collaborazione finisce qui”.
Scacciò le parole di Thorn. Non doveva pensare. Solo agire.
«Di cosa soffre esattamente Mediana? Mi hanno parlato di un ictus,
ma non ho capito bene».
Il sorriso dell’adolescente si allargò e gli occhi le luccicarono dietro
le lenti scure del pince-nez.
«Sorry, miss, non sono autorizzata a rispondere alla domanda».
«Ma il vostro osservatorio è specializzato in casi come il suo?».
«Sorry, miss, neanche a questa domanda sono autorizzata a
rispondere».
La scimmia meccanica sulla sua spalla si attivò per porgerle un
taccuino.
«Toh, vedo che abbiamo già un fascicolo a vostro nome».
«A mio nome? Dev’esserci un errore» si stupì Ofelia.
L’adolescente si mise a ridere senza smettere di sfogliare il taccuino.
«Noi non facciamo mai errori, miss Eulalia, siamo molto ben
informati. All’osservatorio abbiamo i nostri precorritori» disse con
un’occhiata d’intesa alle alette degli stivali di Ofelia. «Quanto al
vostro fascicolo, entrando al conservatorio della Buona Famiglia vi
siete sottoposta a una vista medica, i risultati dei test ci sono stati
comunicati e, a quanto leggo, hanno aspetti... interessanti. Avete
cinque minuti» le ricordò l’adolescente aprendole una porta a vetri.
«Io rimango in corridoio, nel caso abbiate bisogno di me».
Ofelia rimase basita. Test medici il giorno dell’ammissione? L’unica
cosa che ricordava era di aver fatto movimenti senza capo né coda e
quindici giri di pista dopo i quali per poco non era stramazzata. Non
capiva davvero che interesse potessero avere per qualcuno.
Smise di pensarci entrando nella veranda dei visitatori. Immense
vetrate trasformavano la luce del sole in arcobaleno. I colori
rimbalzavano sul pavimento, si mischiavano al fogliame delle palme
e attraversavano l’acqua delle vasche dei pesci. La serenità dei luoghi
portava quasi a dimenticare il vento esterno che faceva tremare i vetri
nei telai.
Mediana era seduta su una panchina. Stava rannicchiata con le
gambe ripiegate contro il corpo e gli occhi spalancati. Non ebbe
reazioni al suono familiare delle alette da precorritore quando Ofelia
si avvicinò e si mise seduta accanto a lei.
«Ciao».
Mediana non rispose. In un primo momento Ofelia pensò che
osservasse la vetrata di fronte alla panchina, poi notò che gli occhi
erano fermi nelle orbite. Ciò che Mediana stava guardando si trovava
all’interno di se stessa. Era irriconoscibile col pigiama troppo largo
che indossava. I muscoli si erano dissolti, lasciandola pelle e ossa.
Dov’era finita la sua potenza? Dov’erano finite la sua grazia e la sua
superbia? La luce della vetrata le faceva scintillare le pietre preziose
incastonate nel viso. Tanti colori su quel corpo senz’anima erano
quasi sconvenienti.
Ofelia, a disagio, cercò le parole giuste.
«Ti starai chiedendo perché sono qui. La tua partenza dalla Buona
Famiglia è stata così precipitosa... Ti sei lasciata alle spalle molte
domande».
Mediana seguitava a non rispondere. Con le braccia strette intorno
alle gambe continuava a fissare il nulla come un doccione di pietra.
«Sai chi mi sta creando ancora problemi? I tuoi cugini» mormorò
Ofelia. «Mi rendono la vita dura. Dicevi che ti odiavano, ma credimi,
mi stanno facendo pagare a caro prezzo l’aver preso il tuo posto».
Di nuovo nessuna risposta.
Ofelia si voltò. A parte loro non c’era nessun altro nella veranda,
eppure aveva continuamente l’impressione che qualcuno la
guardasse.
«Che è successo nei bagni del Memoriale?» domandò più che
sottovoce. «Chi ti ha ridotto in questo stato?».
Ancora silenzio.
«Devo assolutamente saperlo» insisté. «Hai scoperto qualcosa a
proposito di un libro? Magari un libro di E. D.?» suggerì di fronte
all’inespressività di Mediana. «L’era dei miracoli?».
Niente. Ofelia fece un profondo respiro. Le restava un’ultima carta
da giocare.
«“Chi semina vento raccoglie tempesta”. Mi ha incaricato il Senza
Paura di trasmetterti questo messaggio. È stato lui a ridurti così?».
Aspettò a lungo una reazione sperando che il nome sortisse
qualche effetto, ma Mediana non batté ciglio. Una mosca le si posò
sul labbro inferiore come fosse un cadavere. Dopo il ricatto e la
manipolazione Ofelia si era ripromessa di non avere mai pietà di lei,
tuttavia vederla in quello stato le fece male.
«Allora è così?» la rimproverò sottovoce. «Vuoi passare il resto dei
tuoi giorni in pigiama su una panchina? Sognavi di diventare
precorritrice, volevi sapere tutto. La Mediana che ho conosciuto
sarebbe già alla ricerca di un nuovo segreto».
«Miss Eulalia?».
All’altro capo della veranda l’adolescente aveva riaperto la porta e
le faceva segno di andarsene con un ampio sorriso.
«Sorry, miss, i cinque minuti sono passati».
Ofelia si alzò dalla panchina a malincuore. O quanto meno provò
ad alzarsi, visto che la mano di Mediana le aveva afferrato la
redingote per trattenerla. Il suo stato non era cambiato, aveva gli
stessi occhi sgranati nel vuoto e lo stesso corpo paralizzato, ma le sue
labbra articolarono due parole:
«Un altro».
«Eh?».
Ofelia si chinò su Mediana per guardarla finalmente negli occhi,
ma l’unica cosa che vi lesse fu uno spavento così intenso da farle
torcere le budella.
«Un altro... ce n’è un altro».
«Un altro che?».
Per tutta risposta Mediana lasciò la presa e ripiombò nel mutismo.
«Miss Eulalia!» chiamò allegramente l’adolescente. «La visita è
finita!».
Ofelia era andata all’osservatorio delle Deviazioni per ottenere
risposte. Ne tornava con un’ulteriore domanda: chi era questo nuovo
“altro”? Una cosa almeno le apparve evidente mentre scendeva lo
scalone di marmo che portava alla fermata del trenuccello: Mediana,
miss Silence e il professor Wolf avevano un punto in comune, il
terrore.
Data la vicinanza del vuoto, il vento era particolarmente irruento,
sollevava sulla banchina mulinelli di polvere talmente fitti che
praticamente non si sentiva e non si vedeva niente. L’osservatorio
delle Deviazioni non era una destinazione molto servita dai convogli,
bisognava armarsi di pazienza fra un trenuccello e l’altro. Ofelia però
ne era priva. Appena smetteva di agire, i pensieri tornavano alla
carica.
“La nostra collaborazione finisce qui”.
Thorn l’aveva respinta. Con le parole e con gli artigli. Ofelia si
sentiva più disseccata della polvere che le bruciava gli occhi. Le
mancava. Non aveva mai smesso di mancarle, anche quando era
vicina a lui. Non era riuscita a ricoprire il ruolo di collaboratrice, non
aveva capito niente di quel che lui si aspettava da lei. Aveva sperato
che le desse ciò che non poteva più darle. Anche in quel momento,
mentre si aggrappava alle indagini e frugava negli angoli più riposti
di Babel, in fondo stava continuando a cercare Thorn.
Si irrigidì. Attraverso il turbine di polvere che le sbatteva sugli
occhiali aveva visto una figura sulla banchina. Forse era solo un altro
viaggiatore, però sembrava osservarla con insistenza. Di colpo la
figura si precipitò su di lei. Ofelia si rese bruscamente conto della
vicinanza del vuoto, e fu attraversata come un lampo dal pensiero
della sciagura che aveva colpito tutti quelli di cui voleva penetrare i
misteri. La paura di Mediana, di miss Silence e del professor Wolf
divennero la sua paura.
«Che ci fai qui?».
Nonostante il frastuono del vento riconobbe la voce intrisa di
diffidenza. La persona che le stava di fronte era Octavio. Si era messo
la giacca sulla testa per ripararsi, cosa che lo faceva apparire più alto
di quanto fosse. Il suo potere di Visionario gli aveva permesso di
riconoscere Ofelia nonostante la pessima visibilità del belvedere.
«Mi hai seguito?» insisté lui. «Che vuoi?».
«Ehi, calma. Sono venuta a trovare Mediana. E tu?».
Seguì un lungo momento carico di tensione.
«Non dire a mia madre che mi hai visto qui».
Avrebbe potuto essere un ordine, ma la voce di Octavio era passata
dall’ostilità alla preoccupazione.
«Proprio tu mi chiedi di mentire? Credevo che l’onestà fosse un
dovere civico a Babel».
Più che parlare, Ofelia tossiva. A ogni respiro ingollava polvere.
Sobbalzò sentendo stridere le ruote del trenuccello che si posava sulle
rotaie dell’imbarcadero. Appollaiati sui tetti dei vagoni, i volatili
giganti si mantenevano stoicamente tranquilli nonostante la
tempesta.
Ofelia e Octavio salirono a bordo. Infilarono ognuno la propria
tessera, andarono a sedersi e passarono vari minuti a spolverarsi i
vestiti senza scambiarsi una parola o uno sguardo. C’era solo un altro
passeggero nel vagone, così profondamente addormentato che il
turbante gli era caduto a terra.
«Mentire è un peccato» dichiarò Octavio dopo il decollo del
trenuccello. «Ti chiederò allora di comportarti come ho chiesto di
comportarsi al personale dell’osservatorio: se mia madre ti interroga,
dille la verità. Ma nel caso, ti sarei molto grato se mostrassi una certa
discrezione».
Ofelia lo sbirciò. La lunga frangetta nera dietro la quale si
nascondeva di solito era tutta scompigliata. La faccia aveva perso la
consueta calma imperiale. Perfino gli occhi, puntati ostinatamente
verso il finestrino, mandavano riflessi meno orgogliosi. Octavio
strinse i pugni sulle gambe, come se improvvisamente si sentisse in
posizione di inferiorità, umiliato.
Ofelia l’aveva sempre visto come la copia esatta di lady Septima.
Sapere che era capace di disubbidire alla madre, per giunta Lord di
LUX, glielo rendeva meno antipatico, anche se non per questo era
pronta a dargli fiducia.
«Se devo aiutarti a nascondere qualcosa vorrei almeno sapere di che
si tratta. Che ci facevi all’osservatorio delle Deviazioni mentre c’ero
anch’io?».
«Casomai eri tu che ci stavi mentre c’ero io» le fece notare Octavio
in tono altero. «Io ci vado ogni domenica». Si morse il labbro, come
incerto se dirle di più. «A trovare mia sorella».
Ofelia si era preparata a molte rivelazioni, ma non certo a quella.
«Hai una sorella?».
«Si chiama Seconda. È... diversa. Lo è sempre stata».
Octavio si voltò di scatto e la dardeggiò con lo sguardo sfidandola a
prenderlo in giro.
Ma Ofelia non ne aveva nessuna voglia.
«Anch’io ho una sorellina diversa. Quasi non parla, ma sa
ugualmente farsi capire bene. Non c’è niente di vergognoso».
Si rese conto, facendogli quella confidenza, che aveva parlato come
Ofelia e non come Eulalia. La sua sincerità ebbe almeno il merito di
rilassare Octavio, che smise di tenere i pugni stretti.
«E tuo padre?» gli domandò prudentemente. «Anche lui non vuole
che tu vada a trovare tua sorella?».
«In fact, non lo vedo da anni. Ha lasciato mia madre poco dopo che
era nata Seconda. Dal punto di vista dei miei dare alla luce un figlio
imperfetto è un disonore per tutta la discendenza di Polluce. Alla fine
mia madre ha ritenuto che il posto migliore per Seconda fosse
l’osservatorio, dove possono studiare il suo caso. Così, a modo suo,
anche mia sorella serve la città».
«E tu non sei d’accordo».
Ofelia aveva fatto una semplice constatazione, ma per Octavio fu
come uno schiaffo. La guardò con un rigurgito di diffidenza facendo
fremere la catenella del sopracciglio.
«Non sono tenuto a essere d’accordo né in disaccordo. Mia madre
si è sempre messa al servizio dell’interesse familiare».
Ofelia si pulì gli occhiali sulla manica della divisa altrettanto
polverosa. Quanto sapeva Octavio delle forze che in verità si
nascondevano dietro quell’interesse “familiare”? Era dotato di uno
spirito di osservazione fuori dal comune, ma appena si trattava di
lady Septima diventava cieco.
«Comunque non ho chiesto la tua opinione» aggiunse
raddrizzandosi rigidamente sul sedile. «Il fatto è che mia madre pensa
sia meglio che io e Seconda viviamo vite separate. L’unica cosa che ti
chiedo è di non raccontarle delle mie visite, a meno che non te lo
domandi directly».
«Non le dirò niente» promise Ofelia. «Neanche se mi farà
domande».
Seguì un silenzio imbarazzato durante il quale si sentirono solo i
battiti d’ali degli uccelli, il crepitio della polvere contro i vetri e il
ronfare del terzo passeggero. Ofelia non riusciva a liberarsi dalla
sgradevole sensazione di sentire una presenza alle sue spalle, ma per
quanto si voltasse non c’era nessuno sui sedili dietro di lei.
«Tutti gli allievi del conservatorio sfruttano l’ultimo giorno di
vacanza per ripassare freneticamente, e tu vai a trovare Mediana»
riprese Octavio dopo un po’. «Non mi sembrava che foste così tanto
amiche».
Ofelia fece un’alzata di spalle.
«Non vedo motivo di ripassare, visto che non c’è un esame per
diventare aspirante. Lady Helena e sir Polluce ci giudicano
sull’insieme del nostro percorso».
«Mi hanno detto che Mediana non è più in grado di comunicare.
Che volevi da lei?».
Ofelia sentì su di sé lo sguardo insistente di Octavio. Non se ne
sarebbe liberata facilmente.
«Sto cercando di capire chi l’abbia ridotta in quello stato e perché.
Immagino che, come tua madre, mi dirai che non c’è niente da
capire».
«Immagini male. Penso invece che siamo tutti in pericolo,
compresa mia madre».
Ofelia smise di strofinare gli occhiali per rimetterseli sul naso più
polverosi che mai. Le sopracciglia di Octavio erano passate
dall’accento circonflesso all’accento grave. Aveva un’espressione
molto seria.
A Ofelia venne in mente una cosa.
«Tu sapevi che il professor Wolf era stato minacciato» disse. «Mi
avevi avvertito che sarebbe potuto succedere anche a me».
«Non lo sapevo, lo supponevo. Quanto è successo a miss Silence e a
Mediana non ha fatto che confermare i miei sospetti. C’è qualcuno
che si diverte come un matto a fare del male a chi frequenta il
Memoriale troppo da vicino».
«Il Senza Paura E Quasi Senza Rimprovero?».
«Of course, chi altro? Quell’agitatore si fa beffe delle nostre leggi più
sacre con le sue provocazioni. Instilla nella mente della gente ciò che
i Lord di LUX si sforzano di emendare da decenni: idee malsane,
aggressive e degradanti. Lui sì che dovrebbe trovarsi all’osservatorio
delle Deviazioni».
Octavio si era espresso con calma sovrana, ma Ofelia non si fece
trarre in inganno. I suoi occhi fiammeggiavano come se attraverso le
pareti dei vagoni e i chilometri di nuvole stesse braccando il Senza
Paura in persona. Era consumato dall’interno da una brace che
chiedeva solo di accendersi.
Ofelia si chiese quanto se ne rendesse conto, ma la domanda che le
affiorò alle labbra fu un’altra.
«Hai mai letto libri di E. D.?».
Rimpianse subito la propria imprudenza. La curiosità la portava
troppo spesso a fare le domande giuste alle persone sbagliate.
«I vecchi racconti per bambini?» si sorprese Octavio. «Li ho
vagamente sfogliati quand’ero piccolo. Trovi la collezione completa
al Memoriale».
O era un ottimo attore, o ignorava la sorte che miss Silence aveva
riservato a quei libri.
«E che ne pensi dell’Era dei miracoli?».
«Non è il migliore. È un racconto che descrive gli inizi del nuovo
mondo. Questo E. D. non era un autore molto originale. Perché ti
interessano i suoi libri? Non credo che sia stato sir Henry a chiederti
di periziarli!».
L’evocazione di Thorn le suscitò una brusca fitta tra le costole. Si
concentrò sui brontolii metallici del trenuccello per far passare il
dolore.
«E se andassimo a trovare il professor Wolf?» propose Ofelia.
«Chiediamo a lui se il Senza Paura gli ha fatto subire intimidazioni o
no».
«Insieme?».
Octavio sembrò preso completamente alla sprovvista. Ofelia lo era
altrettanto. Non aveva previsto di fare società con il figlio di un Lord
di LUX, ma a pensarci bene non era poi un’idea così peregrina.
Octavio era più influente di lei, forse avrebbe aperto porte che per lei
sarebbero rimaste chiuse. A cominciare da quella del professor Wolf.
«Insieme, sì».
IL ROSSO