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ECHI IN TEMPESTA
Christelle Dabos
L’ATTRAVERSASPECCHI
LIBRO 4
ECHI IN TEMPESTA
Grafica/Emanuele Ragnisco
www.mekkanografici.com
ISBN 9788833572529
RICORDI DEL LIBRO 3
LA MEMORIA DI BABEL
Dopo quasi tre anni passati a tormentarsi Ofelia ritrova le tracce di Thorn
su Babel, un’arca cosmopolita, gioiello di modernità, che riesce a
raggiungere con l’aiuto di Gaela, Renard e Archibald, impegnati da mesi a
cercare il modo di arrivare a Terra d’Arco servendosi delle Rose dei Venti.
Appena giunta sull’arca dei gemelli Helena e Polluce, Ofelia si fa
ammettere sotto falso nome al conservatorio della Buona Famiglia per poter
indagare sulla vera identità di Dio. Ofelia si confronta allora con
l’onnipotenza dei Lord di LUX e con la legge del silenzio che
paradossalmente vige proprio nel massimo luogo preposto all’informazione.
Nella scia delle sue ricerche si verificano strane morti, gente paralizzata in
un’espressione di terrore puro...
L’accanito impegno nello studio le permette alla fine di ritrovare Thorn
nel cuore del Memoriale di Babel, un’immensa biblioteca che si vanta di
essere la “memoria del mondo”, in cui l’ex intendente del Polo si è rifugiato
per tentare di trovare le tracce di Dio. Contro ogni aspettativa, l’identità di
Dio è nascosta in certi libri per bambini: si tratta di Eulalia Diyoh, l’autrice
degli stessi. La distorsione del cognome l’ha poco a poco fatta assurgere al
rango di Dio.
Ma se Dio è Eulalia, chi è l’Altro, quell’alter ego che Ofelia percepisce
nello specchio e che provocherà il crollo definitivo delle arche? E cosa sono
gli echi che Lazarus, un alleato di Dio, considera “la chiave di tutto”?
PERSONAGGI
OFELIA
Appartenente al clan della Rete, dotato di una variante dei poteri familiari
del Polo che ha a che fare con la telepatia, Archibald è l’ambasciatore del
Polo, benché non si sappia esattamente in che consistano le sue funzioni,
dato che da un ambasciatore ci si aspetterebbe un minimo di... diplomazia.
Viceversa fa tutto il contrario: trasandato, disinvolto e dongiovanni, ha
anche l’abitudine di non mentire mai, spesso e volentieri senza preoccuparsi
dei sentimenti dell’interlocutore. Paradossalmente, per le sue scappatelle è
sia rispettato che disprezzato. Forse, data la sua bellezza angelica, si è più
propensi a perdonargli gli errori, a meno che non siano la sua posizione a
corte e il deferente timore che ispira la sua famiglia a conferirgli un
prestigio che si ostina a non meritare. In realtà, tuttavia, l’irriverenza di
Archibald nasconde un’intelligenza viva e una profonda malinconia. Sotto
la sua aria spensierata l’ambasciatore è un temibile stratega politico, e ha
l’arte e il modo di far credere di perseguire solo i propri interessi quando in
verità la maggior parte delle sue azioni ha permesso a Ofelia, Berenilde e
allo stesso Thorn di sopravvivere agli scontri con i loro nemici. Da quando
è stato rapito all’interno del palazzo di Chiardiluna, considerato il luogo più
sicuro di Città-cielo, la Rete ha interrotto il legame con lui. Scollegato da
tutti quelli che erano i suoi punti di riferimento, Archibald è ormai un cane
sciolto in grado di trovare i passaggi tra le Rose dei Venti, cioè le porte che
permettono di viaggiare da un capo all’altro del mondo...
ROSELINE
La zia Roseline non aveva chiesto niente a nessuno quando era stata
mandata al Polo come accompagnatrice di Ofelia. Brontolona e rigida come
un cardine non lubrificato, si distingue per il suo incrollabile senso della
realtà.
Sotto l’austero chignon si nascondono tuttavia un feroce istinto protettivo
e una morale incorruttibile anche in un ambiente ostile. La sua variante del
potere familiare le conferisce un’affinità tutta particolare con la carta, e non
è raro vedere la zia Roseline ingannare la noia o il nervosismo riparando i
libri o le carte da parati che le capitano sottomano. Detesta il freddo gelido
del Polo, ma vuole sinceramente bene alla figlioccia Ofelia e adora
Berenilde, con la quale ha intessuto un forte e genuino legame di amicizia.
Costretta a tornare su Anima una volta concluso il suo dovere di chaperon,
il Polo e Berenilde le mancano terribilmente, anche se preferirebbe
mangiare la sua preziosa carta anziché ammetterlo. Così, appena si presenta
l’occasione, Roseline si infila senza esitare nella prima Rosa dei Venti che
le capita a tiro per tornare dalla sua famiglia d’adozione e sostenerla nelle
avversità.
BERENILDE E VITTORIA
Bella e spietata sono le prime parole che vengono in mente per descrivere
la splendida Berenilde, unica sopravvissuta del clan dei Draghi nonché zia
di Thorn. Favorita di Faruk, è ammirata per la sua bellezza e temuta per le
sue manovre all’interno di Città-cielo. I dissensi tra clan e gli intrighi di
corte hanno causato la morte del marito Nicolas e dei figli Thomas, Marion
e Petrus. Divorata da rabbia, dolore e bisogno di essere di nuovo madre,
non indietreggia di fronte a niente per assicurare la propria posizione a
corte. Il suo umore capriccioso trascina spesso Ofelia in situazioni difficili,
ma nonostante l’approccio talvolta rude Berenilde le vuole un gran bene.
La gravidanza la metterà in una posizione molto particolare, poiché darà
alla luce la prima discendente diretta di uno spirito di famiglia da secoli.
Benché in apparenza disprezzi Archibald, Berenilde ha una fede cieca nella
sua lealtà e nella sua bontà, tanto da designarlo come padrino della figlia
Vittoria. Si dice che Berenilde e Vittoria siano le uniche due persone delle
quali Faruk si preoccupi realmente. E per fortuna, visto che il nuovo potere
sviluppato da Vittoria le conferisce la capacità di scindersi producendo un
doppio astrale errante che solo Dio e Faruk sembrano in grado di vedere...
Ma per salvare l’ultima figlia che le resta Berenilde non esiterà a sfoderare
gli artigli...
GAELA E RENARD
Non si sa bene come siano nati gli spiriti di famiglia, né quale catastrofe
abbia fatto sì che abbiano la memoria cortissima. Esistono da secoli,
immortali e onnipotenti, con i Libri come unico punto di riferimento,
antichi volumi fatti di un materiale simile alla pelle umana: inquietanti,
misteriosi, scritti in una lingua che più nessuno capisce, i Libri celano
segreti che neanche i più competenti lettori di Anima sono riusciti a
penetrare. Gli spiriti di famiglia hanno trasmesso i propri poteri alle loro
discendenze umane e regnano, ognuno a modo suo, sulle rispettive arche di
appartenenza da cui non si allontanano mai.
ECHI IN TEMPESTA
Per te, mamma.
Il tuo coraggio ispira il mio.
C. D.
«Sei impossibile».
«Impossibile?».
«Poco probabile, se preferisci».
«...».
«Sei sempre qui?».
«Sempre qui».
«Bene. Mi sento un po’ sola».
«Un po’?».
«Molto, in effetti. I miei soffiatori... i miei superiori non scendono spesso
a trovarmi. Ancora non ho detto loro di te».
«Di te?».
«Non di me, di te».
«Di me».
«Esatto. Non so se ti canterebbero... se ti capirebbero. Neanch’io sono
molto sicura di capirti. Ho già difficoltà a capire me stessa».
«...».
«Non mi hai ancora detto come ti chiami».
«Ancora no».
«Eppure penso che stiamo pomiciando... cominciando a conoscerci bene.
Io sono Eulalia».
«Io sono io».
«È una risposta interessante. Da dove emetti?».
«...».
«Va bene, era una domanda un po’ difficile. Dove sei adesso?».
«Qui».
«Qui dove?».
«Dietro».
«Dietro? Dietro cosa?».
«Dietro dietro».
RECTO
DIETRO LE QUINTE
Guarda lo specchio. Non c’è il suo riflesso, ma non importa: l’unica cosa
importante è lo specchio. È semplicissimo, non molto grande, appeso un
po’ storto alla parete. Somiglia a Ofelia.
Il suo dito scivola sulla superficie riflettente senza lasciare traccia. Lì è
cominciato tutto o, a seconda dei punti di vista, è finito tutto. Comunque è lì
che le cose si sono fatte davvero interessanti. Ricorda come se fosse ieri la
notte memorabile del primo attraversamento di specchio di Ofelia.
Fa qualche passo nella camera, con occhio da frequentatore abituale dà
uno sguardo ai vecchi giocattoli che si agitano sulle mensole e si ferma
davanti al letto a castello. Ofelia l’aveva condiviso con la sorella maggiore,
poi col fratello minore, prima di partire precipitosamente da Anima. Lui lo
sa bene. Sono anni che la osserva con attenzione da dietro le quinte. Ofelia
ha sempre preferito il letto in basso. La famiglia l’ha lasciato sfatto e con
l’impronta della testa sul cuscino, come se si aspettassero di vederla tornare
a casa da un momento all’altro.
Si china ed esamina divertito le mappe delle ventuno arche maggiori che
Ofelia ha fissato con le puntine sul fondo del letto di sopra. Bloccata lì dalle
Decane, a lungo ha cercato su quelle mappe il marito scomparso.
Scende le scale. Attraversa la sala da pranzo in cui i piatti si stanno
raffreddando. Non c’è nessuno. Sono tutti usciti a metà della cena. A causa
del buco, ovviamente. In quelle stanze vuote ha quasi l’impressione di
essere presente, di essere davvero lì. La casa stessa sembra percepire la sua
intrusione: i lampadari tremano quando passa, i mobili scricchiolano, la
pendola batte un colpo interrogativo. È un aspetto degli Animisti che lo
diverte: tra oggetto e proprietario, non si capisce più chi appartenga
all’altro.
Una volta fuori percorre con indolenza la via. Non ha fretta. È curioso, sì,
ma mai di fretta. Eppure il tempo stringe. Per tutti, lui compreso.
Raggiunge l’assembramento di vicini che si scambiano occhiate
preoccupate intorno a quello che chiamano “il buco”. Sembra un tombino in
mezzo al marciapiede, con la differenza che quando avvicinano le lanterne
non vi penetra nessuna luce. Per sondarne la profondità qualcuno srotola
una bobina, ma rimarrà presto a corto di filo. Durante la giornata il buco
non c’era, è stata una Decana a dare l’allarme dopo esserci quasi caduta
dentro.
Non può fare a meno di sorridere. E questo, signora, è solo l’inizio.
Nota tra la gente il padre e la madre di Ofelia. Loro, come sempre, non lo
notano. Nei loro occhi sgranati c’è la stessa domanda muta. Non sanno
dove si nasconda la figlia, non sanno neppure che in parte è colpa sua se c’è
quell’abisso nel marciapiede, ma si capisce facilmente che quella sera
pensano a lei più che mai. Stringono con forza gli altri figli senza poter
rispondere alle loro domande, figli belli e alti, pieni di salute, con i capelli
d’oro che brillano alla luce dei lampioni.
Non si stanca mai di constatare quanto Ofelia sia diversa da loro, e per
evidenti ragioni.
Continua la passeggiata. Fa due passi ed eccolo all’altro capo del mondo,
al Polo, da qualche parte tra i piani superiori e i bassifondi di Città-cielo,
sulla soglia della dimora di Berenilde. Conosce quella proprietà immersa in
un autunno perenne tanto quanto conosce la casa di Anima. Ovunque sia
andata Ofelia è andato anche lui. Quando è stata valletto di Berenilde lui
c’era. Quando è diventata vicenarratrice di Faruk lui c’era. Quando
indagava sugli scomparsi di Chiardiluna lui c’era. Ha assistito allo
spettacolo delle sue disavventure con curiosità crescente, sempre da dietro
le quinte.
Si compiace nel tornare con regolarità sui luoghi chiave della storia, della
grande storia, la storia di tutti. Cosa sarebbe stata Ofelia se Berenilde non
l’avesse scelta fra tutte le lettrici di Anima per fidanzarla col nipote? Non
avrebbe mai incrociato la strada di ciò che viene chiamato Dio? Sì, invece.
La storia avrebbe semplicemente fatto un altro percorso. Ognuno deve
interpretare il proprio ruolo come lui interpreterà il suo.
Mentre attraversa l’anticamera gli giunge una voce dal salone rosso.
Guarda da uno spiraglio della porta. Nello stretto campo visivo scorge la zia
di Ofelia che va avanti e indietro sul tappeto esotico, illusorio quanto i
quadri di caccia e i vasi di porcellana. La donna incrocia e distende le
braccia, agita un telegramma indurito per effetto del suo animismo, parla di
un lago drenato come un bidet, definisce Faruk una “cesta da bucato”,
Archibald una “saponetta”, Ofelia una “pendola a cucù” e l’insieme del
corpo medico una “latrina pubblica”. Seduta su una bergère, Berenilde non
la ascolta. Canticchia spazzolando i lunghi capelli bianchi della figlia
fiaccamente abbandonata contro di lei. Sembra che per le sue orecchie non
esista altro che quel tenue respiro tra le sue mani.
Lui guarda subito da un’altra parte. Distoglie lo sguardo ogni volta che le
cose diventano troppo personali. È sempre stato curioso, ma mai voyeur.
Solo allora si accorge dell’uomo accanto a lui, seduto per terra nella
penombra del corridoio, appoggiato alla parete, intento a pulire
rabbiosamente la canna di un fucile da caccia. A quanto pare le dame si
sono trovate una guardia del corpo.
Continua a camminare. Con un passo si allontana dall’anticamera, dalla
villa di Berenilde, da Città-cielo, dal Polo e si trasferisce su un altro pezzo
di mondo. Eccolo a Babel. Ah, Babel! È il suo terreno di studi preferito,
l’arca su cui la storia e il tempo termineranno, il punto in cui tutto converge.
Su Anima era sera, su Babel è mattina. Una fitta pioggia cade sui tetti.
Percorre le gallerie della Buona Famiglia come le percorreva Ofelia
quando studiava per diventare precorritrice. È stata a un passo dall’ottenere
le alette e diventare cittadina di Babel, situazione che le avrebbe aperto
molte porte per le successive indagini. Fortunatamente per lui non ce l’ha
fatta, cosa che gli ha reso l’osservazione da dietro le quinte ancora più
stimolante.
Sale la scala a chiocciola di una torretta d’avvistamento. Da lassù,
nonostante la pioggia, distingue in lontananza le arche minori circostanti,
quella del Memoriale di fronte e quella dell’osservatorio delle Deviazioni
dietro: entrambe avranno un ruolo cruciale nella storia.
A quell’ora gli apprendisti virtuosi dovrebbero essere già in divisa con le
cuffie della lezione radiofonica sulle orecchie, Figli di Polluce da una parte
e Figliocci di Helena dall’altra. Viceversa sono tutti mischiati sulle mura
dell’arca minore con i pigiami fradici di pioggia. Lanciano grida inorridite,
puntano il dito sulla città al di là del mare di nuvole. La stessa direttrice,
Helena in persona, l’unico spirito di famiglia a non aver mai avuto
discendenza, si è unita a loro protetta da un enorme ombrello e guarda
l’anomalia con attenzione concentrata.
Dal suo punto d’osservazione privilegiato lui li guarda tutti. O meglio,
cerca di guardare attraverso i loro occhi spaventati, di vedere come loro
quel vuoto che ha guadagnato altro terreno.
Ancora una volta non riesce a trattenere un sorriso. Ha indugiato
abbastanza dietro le quinte, è arrivato il momento di entrare in scena.
IL VUOTO
Per quanto puntasse gli occhiali in tutte le direzioni non vedeva più
nessuno in giro. L’ombra l’aveva seminata. Pazienza.
Si avvicinò all’ingresso della vetreria. Il titolare, spaventato dalla frana,
se n’era andato senza neanche chiudere la porta. Dall’interno si sentiva il
mormorio di una radio ancora accesa:
«...è qui con noi al Giornale ufficiale. Cittadino, voi siete uno dei pochi
testimoni della tragedia-tragedia che ieri mattina ha funestato Babel.
Raccontateci».
«Ancora non ci credo, eppure l’ho really visto. Cioè no, non l’ho visto. È
più complicato».
«Diteci semplicemente quel che è successo, cittadino».
«Ero nel mio posto, avevo montato la tenda. Pioveva come non s’era mai
visto, un torrente che veniva giù dal cielo-dal cielo. Ci stavamo chiedendo
se rimpacchettare tutto. In quel momento ho sentito una specie di
singhiozzo».
«Singhiozzo?».
«Sì, un piccolo sussulto. Non l’ho visto né udito, ma di sicuro l’ho
percepito».
«E poi?».
«Poi ho capito che anche gli altri l’avevano percepito. Siamo tutti usciti
dalle tende-tende. Mi è venuto un colpo! Il banco vicino al mio era
scomparso. Non c’era più niente, solo nuvole. Avrei potuto esserci io al suo
posto».
«Grazie, cittadino. Cari ascoltatori-ascoltatori, siete sintonizzati sulla
frequenza del Giornale ufficiale. Per la vostra sicurezza i Lord di LUX hanno
vietato la circolazione nel settore nordovest. Vi raccomandiamo di non
leggere i volantini proibiti che turbano l’ordine pubblico. Ricordiamo anche
che al Memoriale è in atto un censimento-censimento...».
Ofelia non ascoltò il seguito, gli echi la disturbavano. Il fenomeno, una
volta raro e fino a due giorni prima occasionale, colpiva ormai tutte le
trasmissioni. Prima di partire per un altro viaggio Lazarus aveva detto che
gli echi erano “la chiave di tutto”. In realtà aveva anche detto a Ofelia che
era “un’invertita”, che lo era anche lui, che esplorava le arche per conto di
Dio e che aveva creato gli automi per contribuire a rendere il suo mondo
ancora più perfetto. Insomma, Lazarus diceva di tutto e di più, ma aveva
una bella casa in centro dove lei e Thorn si erano piazzati.
Ofelia sostenne il proprio sguardo nello specchio in vetrina. L’ultima
volta che ne aveva attraversato uno aveva fatto un balzo enorme nello
spazio, come se il suo potere familiare fosse maturato insieme a lei.
Attraversare gli specchi l’aveva tirata fuori dai guai più volte, ma il mondo
sarebbe stato in condizioni migliori se si fosse astenuta dal farlo fin dalla
prima volta. Se solo avesse potuto risalire a ciò che era davvero successo
nello specchio della sua camera da bambina! Dell’incontro con l’Altro
conservava solo poche briciole, una presenza sotto il proprio riflesso, un
richiamo che l’aveva svegliata nel cuore della notte.
Liberami.
Lei l’aveva liberato, è vero, ma da dove era uscito e sotto quale forma?
Non conosceva nessuno, su Anima o altrove, che avesse segnalato l’arrivo
di una creatura apocalittica.
Sgranò gli occhi. C’era qualcosa che non tornava nello specchio in
vetrina. Vedeva se stessa con la sciarpa, mentre era assolutamente sicura di
averla lasciata a casa di Lazarus. Il codice d’abbigliamento di Babel le
vietava di indossare colori in pubblico, e lei non voleva attirare l’attenzione.
Si accorse allora che non era la sola anomalia di quel riflesso. Aveva la
tunica insanguinata e gli occhiali a pezzi. Stava morendo. C’erano anche
Eulalia Diyoh e l’Altro, senza una forma precisa, e ovunque intorno a loro
soltanto vuoto.
«Documenti, please».
Ofelia distolse lo sguardo dalla visione con il cuore che le batteva forte.
Una guardia tendeva la mano verso di lei con autorità.
«Il settore è vietato ai civili».
Mentre l’uomo esaminava i documenti falsi Ofelia dette un’altra occhiata
allo specchio della vetrina. Il riflesso era tornato normale. Non c’erano più
né sciarpa né sangue né il vuoto. Quando viveva al Polo le era capitato più
volte di essere ingannata da un’illusione. Prima l’ombra, poi il riflesso: si
chiese se fosse stata vittima di un’allucinazione. O peggio, di una
manipolazione.
«Animista di ottavo grado» commentò la guardia restituendole i
documenti. «Voi non siete nativa della città, miss Eulalia».
Essere di pattuglia così vicino al crollo lo metteva a disagio. Le sue
lunghe orecchie si giravano e rigiravano senza sosta, come quelle di un
gatto agitato. Ogni discendente di Polluce, lo spirito di famiglia di Babel,
possedeva un senso ipersviluppato. Quella guardia era un Acustico.
«Ma ho un alloggio» rispose Ofelia. «Posso andarci?».
La guardia scrutò con insistenza la sua fronte, come se cercasse qualcosa
che avrebbe dovuto esserci.
«No. Non siete in regola. Non avete sentito gli annunci? Dovete andare al
Memoriale per il censimento. Now».
LA FIRMA
Il trenuccello era gremito, il che non impedì alla guardia di farci entrare a
forza Ofelia prima che si chiudessero le porte. L’aria era bollente e l’odore
di sudore era più forte di quello, pur penetrante, dei volatili giganti sul tetto.
Da qualche parte un neonato strillava. Ofelia non poteva cambiare
posizione senza calpestare la babbuccia di qualcuno. Intorno a lei tutti
sembravano preda della stessa confusione. Perché li portavano al
Memoriale? Che senso aveva quell’improvviso censimento? Aveva a che
fare con lo sfaldamento del terreno? Nonostante l’inquietudine nessuno
osava alzare la voce. A giudicare dal codice d’abbigliamento, nel vagone si
accalcavano Totemisti, Floriani, Indovini, Heliopoliti, Trasformisti,
Negromanti, Fantasmi, uomini e donne provenienti dai quattro angoli delle
arche come se ne incontravano tanti a Babel. Ogni invenzione della città era
frutto dei loro talenti familiari congiunti, a cominciare dal trenuccello sul
quale stavano soffocando, che tardava a decollare.
Erano nervosi, ma Ofelia lo era molto di più. Non aveva nessuna voglia
di essere censita, non con dei documenti falsi in tasca e un’apocalisse da
impedire. Frutto o no della sua immaginazione, il riflesso nello specchio
della vetreria l’aveva scossa.
Schiacciata contro il finestrino della portiera osservò la folla fuori. Un
mercante stipava i suoi tappeti su un carro, una vecchia signora manovrava
un furgoncino carico di bambini, e uno zebù in mezzo alla strada impediva
a tutti di circolare. Non scappavano soltanto dal quartiere colpito dalla
frana, scappavano dal bordo, dal vuoto. La gente aveva paura e Ofelia non
la biasimava di certo. L’Altro avrebbe potuto essere uno chiunque di loro...
Sebbene a quanto pareva fosse legata a lui, non l’avrebbe mai riconosciuto
se l’avesse incrociato su un marciapiede.
Spuntò un automa alla guida di una bicicletta. Era uno spettacolo curioso
vedere quel manichino senza occhi, naso e bocca pedalare dritto davanti a
sé mentre una voce graffiante da giradischi gli usciva dalla pancia.
«STRAPPO ERBACCE, LUCIDO OTTONI, AGGIUSTO BABBUCCE-BABBUCCE... E NON
MI STANCO MAI. ASSUMETEMI PER METTERE FINE ALL’ASSERVIMENTO DELL’UOMO
ALL’UOMO».
Gli orfani scomparvero in una nuvola di polvere. Ofelia tossì più volte
per le ragnatele che inghiottiva ogni volta che cercava di respirare. Il
tavolato su cui era crollata era pieno di schegge che la ferivano.
Guardò inebetita lo specchio dal quale era caduta. La visione si stava già
dissipando. La madre di famiglia, il portiere, gli orfani: tutti erano stati
inclusi in una minuscola frazione di secondo, giusto il tempo di un
passaggio.
Stavolta non era stata un’allucinazione, aveva assistito a una scena che si
era realmente svolta molti secoli prima.
Si rimise in piedi. Lo specchio sospeso a mezz’aria era l’unico elemento
di mobilio della stanza in cui si trovava. Non c’erano porte né finestre, solo
un piccolo orifizio sul soffitto che lasciava penetrare un filo di luce.
Conosceva il posto, era la camera segreta contenuta nel globo che
galleggiava al centro del Secretarium, che a sua volta galleggiava al centro
del Memoriale di Babel.
Si avvicinò allo specchio sospeso, che le rimandò un riflesso di sé
alquanto polveroso. Come quando c’era stata la prima volta, intuiva i
contorni del muro fantasma a cui un tempo era stato appeso. Sapeva, per
aver già letto quello specchio, che Eulalia Diyoh aveva vissuto lì quando
ancora non era diventata Dio. Rivedeva quella donna bassina che le
somigliava tanto, pur essendo completamente diversa, mentre scriveva a
macchina le sue storie per bambini. Capì in quel momento che per Eulalia
Diyoh quella camera era molto più che un laboratorio di scrittura. Prima di
essere la scuola della pace in cui aveva cresciuto gli spiriti di famiglia, il
Memoriale era stato l’orfanotrofio militare in cui aveva passato l’infanzia.
“Casa”.
Era la destinazione che aveva chiesto Ofelia entrando nello specchio
delle toilette, e lo specchio l’aveva portata lì risvegliando in lei l’altra
memoria, quella che non era la sua.
«Questa non è casa mia» rimproverò al proprio riflesso, come se non si
capissero più. «Io non sono lei».
Nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole tutto le risultò
evidente. La prima volta che era stata lì aveva visto Eulalia di fronte al
proprio riflesso, un riflesso al quale Eulalia si era rivolta direttamente, un
riflesso che ormai Eulalia non possedeva più.
Cos’è che gli aveva detto?
“Presto, ma non oggi” ricordò Ofelia.
Capì allora una cosa semplicissima e del tutto folle di cui doveva
assolutamente parlare con Thorn.
Si rituffò nello specchio con la massima attenzione e con il minimo di
intenzionalità. Si sforzò di aprirsi a tutte le destinazioni senza sceglierne
una in particolare. Si sentì precipitare in uno spazio difficile da descrivere a
parole. Vi fluttuavano forme e colori un po’ come quelli che si vedono
quando si premono forte le palpebre.
Il luogo di mezzo. Il divario tra due specchi. La prigione dell’Altro,
quella da cui l’aveva liberato. Lo capiva in quel momento.
Era la dimensione parallela che aveva accidentalmente visitato quando
era stata rinchiusa nell’isolatoio della Buona Famiglia. D’istinto stava
cominciando a capire come entrarci. Da lì le sembrava quasi possibile
percepire la risonanza di tutti gli specchi del mondo, per quanto distanti
fossero.
Ne scelse uno senza esitazioni, quello che si trovava nell’atrio di casa di
Lazarus. Eppure, quando riemerse sul piano di un cassettone posando
goffamente i piedi tra gli incensieri, si chiese se non avesse di nuovo
sbagliato destinazione.
Thorn era tête-à-tête con una bambola.
LA MESSAGGERA
«Secondo voi cos’hanno provato quelli che sono caduti nel vuoto?»
domandò Ambroise.
Appollaiata sul predellino posteriore della sedia a rotelle, Ofelia non lo
vedeva in faccia. In realtà vedeva ben poco. Il giovane autista di tac-si
aveva aperto sopra la sua testa un ombrello meccanico che le ricadeva sugli
occhiali e, quando riusciva a scostarlo, a ostruirle la vista era un enorme
turbante. La sciarpa non aveva voluto che Ambroise uscisse senza di lei. Si
era aggrappata a lui con tutte le sue maglie, come se volesse fondersi con i
capelli del ragazzo e diventare una parte del suo tutto. Per non trasgredire al
codice d’abbigliamento Ambroise l’aveva avvolta in una fascia bianca che
gli faceva un cranio più che gonfio.
Per quanto Ofelia cercasse di essere ragionevole, si sentiva spossessata di
un pezzetto di sé.
«Non lo so» rispose.
«Vi ho già raccontato che mio padre ha cercato di esplorare il vuoto tra le
arche? Voleva fotografare il nocciolo del mondo, ma non è riuscito a
scendere fino a laggiù. Nessuno c’è mai riuscito. Forse quelli che sono
caduti non sono really morti. Forse sono tutti là sotto prigionieri dei
temporali eterni. Oppure» aggiunse Ambroise dopo aver evitato per un pelo
un dodo che attraversava la strada, «sono usciti dall’altra parte e adesso
sono agli antipodi di qui, magari su un’altra arca. Il che sarebbe in
contraddizione con il principio della memoria planetaria, quello in base al
quale tutte le arche occupano una posizione assoluta le une rispetto alle
altre, ma preferisco comunque quest’idea a... well, avete capito».
Se non altro Ambroise aveva quello in comune con Lazarus: era capace
di fare conversazione per due, o anche di più.
«Mio padre si è rimesso a viaggiare nel momento peggiore» sospirò
guardando il cielo che si stagliava tra i tetti di Babel. «Spero che stia bene.
Spesso non c’è, non sempre capisco cosa stia facendo, ma mi vuole bene»
assicurò, come temendo che Ofelia potesse avere dubbi a riguardo. «Mi ha
sempre detto che ero very important, nonostante la mia inversione».
«Siete mai stato all’osservatorio delle Deviazioni?».
«No, miss. Quando è a Babel, ogni tanto ci va mio padre a consegnare
nuovi automi. I direttori dell’osservatorio sono tra i suoi migliori clienti!
Per scherzare, mio padre dice che sarebbero più contenti di dissezionare lui,
sapete, per la faccenda del situs transversus, ma preferisce essere morto
prima di donare i suoi organi alla scienza, per quanto invertiti».
Ofelia ripensò all’immenso ritratto di Lazarus in piedi che troneggiava
nella sua anticamera. Sì, era il classico genere di cose che poteva dire lui.
«Vorrei chiedervi un’altra cosa. Qualcosa di personale».
«Of course, miss!».
«Dov’è vostra madre?».
Ambroise si voltò stupito e per poco non andò a sbattere sul risciò fermo
davanti a lui. Tutte le strade erano intasate. Era così da quando i Babeliani
avevano cominciato a scappare dalle periferie e dalle arche minori
circostanti. Si sentivano al sicuro solo in centro città. La sedia a rotelle di
Ambroise poteva intrufolarsi tra gli omnibus e i carri, ma a occupare ogni
centimetro della pubblica via c’erano anche furgoni, carretti di bagagli,
animali, veicoli meccanici e una folla di gente a piedi. Alcuni prendevano
d’assalto le vetture ferme per supplicare gli occupanti di ospitarli fino a che
non avessero trovato un alloggio.
L’aria risuonava di «Please! Please! Please!».
Ofelia rifiutava di sentirsi in colpa per il crollo, tuttavia stava male per
quelle persone. Molti portavano sulla fronte lo stesso suo timbro. Si era
quasi scorticata la pelle a forza di sfregarsi col sapone, e l’inchiostro non si
era neanche leggermente sbiadito.
Ambroise si sottrasse all’ingorgo tagliando per la giungla di un
giardinetto pubblico in cui intere famiglie avevano piantato le tende.
«Vorrei saperlo anch’io» rispose alla fine. «Non ho mai conosciuto mia
madre, e mio padre smette di essere logorroico appena si accenna a lei. Non
so neanche dirvi da che arca venga o se io le assomigli».
Il suo tono aveva perso leggerezza. Ofelia si sentì una stupida a essere
stata gelosa di lui per la sciarpa.
Ambroise si fermò davanti a un maestoso edificio di marmo sul frontone
del quale era inciso:
GIORNALE UFFICIALE
«Eccovi a destinazione, miss. Quel che è successo non è colpa vostra. Lo
sapete, vero?» aggiunse con tenerezza.
Ofelia scese dal predellino e lo guardò negli occhi.
«Sia chiaro, non sto cercando l’Altro perché mi sento in torto o perché
l’ho promesso a vostro padre».
«No, lo fate perché l’avete deciso» concluse Ambroise al posto suo.
«Questo l’ho perfectly capito».
Ofelia sorrise a lui e all’enorme turbante che aveva sulla testa. Lei voleva
fare le proprie scelte? Allora la sciarpa aveva il diritto di fare le sue.
«Prima o poi dovrò trovare il modo di sdebitarmi per i vostri servizi,
Ambroise. Avete molte qualità, ma non il senso degli affari».
Entrò, stavolta da sola, negli uffici del giornale. C’era una cacofonia
sonora in cui si mischiavano squilli di telefono, ticchettii di rotative, brusio
di voci e, su tutte quelle note acute, il contrappunto basso dei ventilatori.
«Sorry, miss, non possiamo dare informazioni».
Ofelia non aveva avuto neanche il tempo di fargli la domanda che aveva
sulle labbra. L’impiegato dell’accoglienza, con una cornetta del telefono in
una mano e un’altra incastrata tra spalla e mento, le indicò l’uscita col
gomito.
«Volevo soltanto chiedere...».
«Leggete il nostro giornale» la interruppe l’uomo spingendo verso di lei
un espositore di giornali con la punta del piede. «Contiene tutto quello che
c’è da sapere».
«...Dove posso trovare l’aspirante Octavio» concluse Ofelia.
«Eulalia?».
Un’alta pila di fascicoli si era bruscamente voltata verso di lei. Sotto la
pila scintillavano le alette d’argento dei lucidi stivali. Quando anche questi
ultimi si voltarono Ofelia incrociò gli occhi rossi di Octavio, che brillarono
come braci sotto le sopracciglia ad accento circonflesso sollevate dalla
sorpresa, poi guardarono l’impiegato che riattaccò subito entrambi i
telefoni.
«Chiedo il permesso di lasciar entrare questa persona. La conosco».
«Benissimo, milord. Sorry, milord».
«Si rivolge a te come se fossi il caporedattore» commentò Ofelia mentre
seguiva Octavio attraverso i vari settori del giornale.
Lui non rispose. Passando, lasciò fascicoli su ogni scrivania rispondendo
a fior di labbra alle eccessive manifestazioni di gratitudine dei giornalisti,
«Grazie, milord! I miei rispetti a lady Septima!», fino a che non ebbe
smaltito la pila. Poi fece entrare Ofelia in una sala stranamente calma in
confronto alle altre, sulla porta della quale era affissa la targhetta: Critico
d’arte. Una radio diffondeva un brano per pianoforte, un’esecuzione che
Ofelia avrebbe trovato eccellente se non fosse stata continuamente
disturbata dagli echi. Un’Acustica la stava ascoltando con espressione
dubbiosa e orecchie dritte come quelle di un gatto, lasciandosi ogni tanto
sfuggire qualche “oh” o “ah”.
Octavio indicò a Ofelia di sedersi a un tavolo da riunioni libero,
illuminato dalla luce spezzettata che filtrava da una tenda. Il pianoforte, gli
“ah” e gli “oh” tacquero di colpo. Il tavolo si trovava in una parentesi di
insonorizzazione. Finché fossero rimasti lì non avrebbero sentito il resto del
mondo e nessuno avrebbe sentito loro.
«Sono contento di vederti» disse Octavio senza preamboli. «Quando c’è
stata la frana nel quartiere nordovest mi sono reso conto di non sapere dove
ti fossi trasferita dopo essere andata via dalla Buona Famiglia».
Ofelia scrutò il piano lucido del tavolo su cui si riflettevano le loro facce.
Quella mattina aveva fatto la stessa cosa con Ambroise, servendosi delle
stoviglie d’argento della colazione. Era una precauzione spiacevole, ma
necessaria. Doveva mettere da parte i sentimenti e non dare mai per
scontata l’autenticità della persona che aveva di fronte basandosi soltanto
sulla faccia. Non sapeva come le sarebbero apparsi Eulalia Diyoh e l’Altro
quando sarebbe arrivato il momento, ma se l’uno era davvero il riflesso che
l’altra aveva perso, solo gli specchi potevano rivelarne l’identità e far
cadere le maschere.
Quando fu sicura che Octavio era Octavio le sue parole la commossero.
Notò che non aveva rimpiazzato la catenella d’oro che il Senza Paura E
Quasi Senza Rimprovero gli aveva strappato, e capì subito che non
l’avrebbe mai fatto. Quel gioiello era il segno manifesto della sua
discendenza da un Lord di LUX. Ofelia considerava Octavio come un suo
pari, e non solo perché avevano la stessa età ed erano alti uguali, ma non era
così per tutti coloro che lo mettevano su un piedistallo.
«Mi dispiace» gli disse in tutta sincerità. «Anche qui la gente ti vede
prima di tutto come figlio di lady Septima».
Attraverso la lunga frangetta nera che gli copriva metà del viso Octavio
fece un sorriso che non era né davvero allegro né del tutto triste.
«Per me conta solo l’opinione dei miei amici».
Svuotò un fondo di caraffa in un bicchiere che porse a Ofelia. La luce
della finestra attraversò l’acqua e tremolò sulla superficie del tavolo.
«In fact, della mia unica amica. Che posso fare per te? Se è a proposito di
quello» disse indicando il timbro sulla fronte, «i comunicati stampa
provenienti dal palazzo familiare non ne hanno ancora diffuso il significato.
Il giornale è sommerso da richieste di informazioni. Posso solo dirti che
riguarda quasi esclusivamente i Figliocci di Helena che risiedono a Babel
da meno di dieci anni».
«Sì, Elizabeth me l’ha detto».
Gli occhi di Octavio si accesero di rosso per effetto del suo potere di
famiglia.
«Ci sei rimasta un po’ male» constatò. «Lo vedo da come i muscoli del
viso ti si sono leggermente afflosciati».
Ofelia incrociò le braccia sulla pancia. Sapeva che la visione di Octavio
non era quella di un medico, ma essere scrutata in quel modo ormai la
metteva a disagio. Probabilmente il giovane lo percepì, perché distolse
pudicamente lo sguardo.
«Il fatto che lavori al Giornale ufficiale in quanto aspirante precorritore
non fa automaticamente di me un grande iniziato. Sono ancora studente per
metà, e alla Buona Famiglia ho la responsabilità di un’intera divisione. Il
mio lavoro qui consiste only nel verificare la pertinenza dei comunicati che
ci inviano i cittadini, e nove volte su dieci non sono affidabili. I Bad Boys
di Babel non ci facilitano certo il compito a forza di disinformare il
pubblico con volantini catastrofisti e voci prive di fondamento».
Toccò a Ofelia guardarlo con attenzione. Dietro la tenda della finestra il
sole era sparito, inghiottito da una marea di nuvole, e l’ombra si aggiunse a
quella che già si trovava sotto la frangetta di Octavio.
«Non sono osservatrice quanto te, ma ho imparato a conoscerti. Cos’è
che ti pesa?».
Ofelia si rese improvvisamente conto di quanto lei stessa fosse tesa. Si
sforzava di non pensarci, ma le sembrava che da un momento all’altro
potessero annunciarle che Anima era scomparsa. Aveva abbandonato la
famiglia senza una parola di spiegazioni, e sebbene ritenesse che non le
avevano lasciato scelta, dato che la madre prendeva tutte le decisioni e il
padre rifuggiva da tutte le responsabilità, rimpiangeva ogni giorno di non
aver detto loro quanto li amasse.
Octavio dette una breve occhiata all’altra parte della sala, dove la critica
d’arte, probabilmente esasperata dagli echi, dava schiaffetti alla radio senza
fare caso a loro. Ma se anche li avesse guardati, le sue acutissime orecchie
da Acustica non avrebbero potuto sentirli.
«Non lo so» finì per rispondere. «Come ti ho detto, riceviamo comunicati
in continuazione. Molti ci sono stati telegrafati da Totem, l’arca più vicina a
Babel. Lasciano intendere che anche loro hanno difficoltà, ma al momento
ci è impossibile verificare l’autenticità della fonte».
Ofelia bagnò le labbra nel bicchiere. Nonostante i ventilatori a soffitto,
l’acqua era calda come l’aria.
«Il giornale non può mandare qualcuno a vedere?».
«I voli a lunga distanza sono stati sospesi. Gli echi disturbano le
comunicazioni radio e nessuno sa spiegare perché di colpo ce ne siano così
tanti. Per i tragitti brevi non è un problema, io stesso sono venuto in
trenuccello stamattina, ma sorvolare il grande mare di nuvole senza punti di
riferimento è un altro paio di maniche».
«Ancora gli echi... Cosa sono esattamente?».
Era una domanda generica, più che rivolta specificamente a Octavio, così
Ofelia si stupì della sua risposta categorica.
«Non dovrebbero esserci, è proprio questo il problema. Tecnicamente
non sono neppure echi nel senso stretto del termine. Un eco normale, per
esempio, si ha quando la voce torna indietro dopo aver rimbalzato contro un
muro, quindi è il ritorno di un’onda verso la fonte che l’ha emessa. Questi
echi hanno un comportamento del tutto diverso. Non si sentono e non si
vedono. Gli unici a rilevarli, per giunta accidentalmente, sono i nostri
apparecchi. No» concluse Octavio serissimo, «questi echi non si muovono
sulla nostra stessa lunghezza d’onda. Non hanno niente di normale. Anzi,
sono diventati pericolosi».
“Eppure” pensò Ofelia, “secondo Lazarus erano ‘la chiave di tutto’”.
«Qui al giornale sappiamo tuttavia che stanotte è stato allestito un
convoglio di dirigibili» continuò Octavio. «Iniziativa dei Lord di LUX. A
quanto pare stanno pensando di lasciare Babel. Significa che hanno trovato
un modo di aggirare il problema degli echi ai fini del sistema di
navigazione? Aspettiamo i comunicati ufficiali per saperne di più».
Ogni volta che Octavio menzionava i Lord di LUX dalla sua voce
trapelava il pensiero della madre. Le palpebre gli calavano come due
spegnitoi sulla brace degli occhi, ma anche così sembrava capace di vedere
attraverso le membrane.
«Devo controllare l’autenticità di tutti i comunicati» ripeté. «Tutti tranne
quelli che provengono da LUX, e quindi dalla quasi totalità delle istituzioni.
La parola dei Lord non viene mai messa in discussione. La città ha smesso
di essere trasparente o è solo la mia visione delle cose a essere cambiata?».
Ofelia fu riportata alla realtà dalla suoneria dell’orologio da tavolo. A
quell’ora Thorn doveva aver già assunto le sue nuove funzioni.
«Ho un piacere da chiederti. Delicato per te e importante per me».
Inspirò profondamente cercando le parole. Octavio la considerava
un’amica, e il sentimento era reciproco. Le sarebbe piaciuto confidarsi con
lui, ma non avrebbe potuto farlo senza citare la missione dei Genealogisti e
quindi compromettere Thorn. Non poteva dirgli la verità, ma non voleva
mentirgli. Ripensò alle parole del dottore durante la visita medica, ci
pensava in continuazione, e decise di servirsene come compromesso.
«Mi è stato raccomandato di recarmi all’osservatorio delle Deviazioni in
qualità di paziente. Una volta mi hai parlato di tua sorella Seconda, hai
detto che andavi a trovarla ogni domenica. Conosci meglio di me gli
ingranaggi di quell’istituto. Che mi consigli?».
Octavio riaprì gli occhi come se Ofelia gli avesse tirato in faccia il resto
del bicchiere.
«La mia pausa è finita» annunciò in tono aspro.
Appena si furono alzati da tavola il silenzio scoppiò come una bolla. La
macchina da scrivere della giornalista produceva un rumore di percussioni
che sovrastava la voce ovattata della radio: «...una prodezza musicale come
solo-come solo Romulus può fare, che rivaleggia col tocco dei più grandi-
più grandi Tattili della città». Octavio si avviò di buon passo verso l’uscita
con le alette che gli tintinnavano a ogni passo, seguito da Ofelia che non
aveva ben capito se il colloquio fosse finito o no. Fu urtata da un giornalista
che stava andando a buttare un pacco di fotografie nella spazzatura
lamentandosi che erano tutte sbagliate e che finché non fosse stato risolto il
problema degli echi non avrebbe più potuto fare il suo lavoro. Ofelia ne
raccolse una caduta per terra e vide un’immagine così sdoppiata che non si
capiva neanche cosa raffigurasse.
«Andiamo, Hugo».
Octavio aveva dato l’ordine a uno degli automi allineati in attesa
nell’ampio atrio il quale, non avendo faccia, non aveva espressioni, ma
parve mettersi in cammino di malavoglia mentre dalla pancia gli uscì un
«NESSUNA NUOVA, BUONA NUOVA». Portava a tracolla una bisaccia che
sembrava la sacca del postino. Aveva un’antenna sulla testa e un telegrafo
incorporato nel petto.
«Hugo raccoglie i comunicati da verificare» spiegò Octavio aprendo la
porta a Ofelia. «E funziona anche da guida segnaletica pubblica per
portarmi all’indirizzo giusto. Vieni con noi, se non hai fretta».
L’aveva detto in tono secco, ma meno di quello che Ofelia aveva temuto.
Fuori era tutto bianco. L’alzarsi della marea aveva fatto dilagare una
valanga di nuvole tra le facciate di marmo. Ofelia si scambiò un cenno
d’intesa con Ambroise, la cui sedia a rotelle appena visibile era sempre
ferma davanti al portone, poi si immerse nelle nuvole al seguito di Octavio
e dell’automa. Gli occhiali le si ricoprirono subito di condensa. Non vedeva
più niente, andava a sbattere sulla gente e sulle colonnine antincendio.
Dopo qualche passo si ritrovò con la tunica imbevuta di umidità. Sentiva i
capelli arricciarsi sulla testa.
«Non ho visto crescere mia sorella».
La voce di Octavio, da qualche parte sulla sinistra, era attutita
dall’amarezza, oltre che dalla nebbia. La sua andatura nervosa faceva
tintinnare le alette.
«Non l’ho neanche vista nascere» continuò parlando a tutta velocità.
«Ero in collegio dai Cadetti di Polluce e i miei non venivano mai a
trovarmi. Per dirla tutta non sapevo neanche che mia madre fosse incinta.
Lo stesso giorno in cui mia madre mi ha annunciato che avevo una sorellina
mi ha detto pure che mio padre se n’era andato. Non le ho nemmeno chiesto
di vedere mia sorella. Non mi importava che fosse anormale, ce l’avevo con
lei per aver rotto il nostro equilibrio. Quando mia madre è tornata al
collegio per dirmi che aveva mandato Seconda all’osservatorio delle
Deviazioni ho pensato soltanto “All right, ce ne siamo liberati”».
Ofelia vedeva a stento l’uniforme blu notte di Octavio che, cancellata dal
biancore generale, procedeva spedita davanti a lei. Lo stesso Hugo aveva
difficoltà a stargli dietro e ripeteva con voce metallica «SEGUITE LA GUIDA,
PER PIACERE!». La sedia a rotelle di Ambroise li scortava a distanza con un
Ofelia si guardò la fronte nel vetro della finestra più vicina. Non solo
l’inchiostro alchimista era passato dal nero al bianco, ma splendeva come
una luna piena. Anche se ci metteva la mano sopra, la luce filtrava fra le
dita inguantate.
«Che razza di...».
Le sue parole furono sovrastate da una voce squillante.
«Avviso alla popolazione! Informiamo i concittadini che i residenti
stranieri-stranieri col marchio di colore bianco sono invitati a presentarsi
seduta stante-stante nell’anfiteatro municipale. Avviso alla popolazione!».
Mentre l’annuncio e i suoi echi risuonavano nelle vie del quartiere Ofelia
rivolse gli occhiali in tutte le direzioni. La gente usciva dalle case e dai
veicoli fermi per radunarsi intorno ai pali degli altoparlanti. Tra la folla di
curiosi che formavano una massa confusa nella marea di nuvole vide un
uomo agitatissimo con la fronte luminescente come la sua.
Octavio la trascinò in disparte per farsi sentire malgrado il frastuono
degli altoparlanti.
«Non ti preoccupare, è una procedura normale».
«Non voglio andarci».
«Devi. La disubbidienza civile ti renderebbe automaticamente fuorilegge.
Sono really sicuro che non sia niente di grave. Fino a poco tempo fa eri
ancora apprendista virtuosa. Vengo con te».
Octavio si riportò indietro la cortina nera di capelli per guardare in faccia
Ofelia. Si chiese perché gli occhi le fossero diventati viola, poi realizzò che
erano i suoi occhiali ad aver assunto una tinta bluastra. Nell’intento di
mostrarsi rassicurante si era completamente scordato la mugnaia sulla
soglia del mulino, che stava chiedendo se poteva tornare a lavorare.
Neanche fece caso a Hugo, il cui telegrafo di petto sputava fuori una sfilza
ininterrotta di comunicati da quando era stato diramato il primo annuncio
pubblico.
Ofelia cercò Ambroise con gli occhi senza riuscire a localizzarlo in
mezzo alla confusione. In compenso non le sfuggì nessuna delle pattuglie
appostate in ogni strada, che appena videro la sua fronte le ordinarono di
ubbidire alla convocazione. Erano perfino stati assunti alcuni Zefiri per
disperdere con grandi ventate la nebbia che ristagnava negli angoli in cui
avrebbero potuto nascondersi eventuali recalcitranti.
Octavio aveva un bel dire, ma Ofelia non era affatto tranquilla. Aveva
promesso a Thorn che avrebbe trovato il modo di raggiungerlo
all’osservatorio delle Deviazioni e non aveva tempo da perdere con ulteriori
formalità amministrative. Se sulla sua strada avesse trovato uno specchio ci
si sarebbe infilata senza esitare.
Dopo un po’ al di sopra dei tetti più alti scorse l’immensa struttura
dell’anfiteatro municipale. Le centinaia di arcate del portico erano una
sapiente miscela di pietra, metallo, vetro e vegetazione. Gli uccelli
variopinti che vi si rifugiavano facevano venire in mente uno sciame di api.
Mentre gli annunci radiofonici continuavano a vibrare nell’aria i convocati
affluivano dai quattro angoli della città per infilarsi negli ingressi
dell’anfiteatro. Ofelia fu impressionata dalla quantità di gente. C’erano
residenti stranieri di quasi tutte le arche con addosso gli abiti tradizionali
imposti dal codice d’abbigliamento: pepli, nastri, boleri, penne, veli, tartan,
farsetti, kimono... Per quanto diversi, ognuno di loro aveva lo stesso timbro
e condivideva le stesse preoccupazioni.
Il malessere di Ofelia raggiunse il culmine quando toccò a lei varcare le
porte. Le guardie familiari, dotate di un naso che conferiva loro
un’autentica faccia da leone, la annusarono dalla testa ai piedi. Perché alle
entrate erano stati dislocati degli Olfattivi?
«Prendono le loro precauzioni» commentò Octavio.
Ofelia notò comunque che aveva aggrottato le sopracciglia circonflesse.
Octavio si presentò come rappresentante del Giornale ufficiale e fu accolto
con saluti protocollari generalmente riservati ai Lord di LUX. Perfino
l’automa venne trattato con più riguardi di Ofelia, che fu costretta a
rivoltarsi le tasche della tunica per mostrarne il contenuto.
Poi salirono labirintiche scale buie in cui le fronti dei convocati
brillavano come un corteo di lanterne. Anche se Ambroise li avesse seguiti
fin lì la sedia a rotelle non avrebbe potuto affrontare tutti quegli scalini.
Ofelia strizzò gli occhi quando, dopo un’ultima scala, sbucò al sole. Le
gradinate erano a cielo aperto. Dall’interno l’anfiteatro sembrava ancora più
imponente e in grado di accogliere molte più persone di quelle che erano
state convocate, che non erano certo poche.
«Prendete posto con calma, ladies and gentlemen!» ordinavano gli
altoparlanti a intervalli regolari.
Ofelia non aveva nessuna voglia di ubbidire. Aveva appena notato i
dirigibili ormeggiati nello spiazzo centrale come balene addormentate. Si
trattava di modelli che esistevano solo a Babel, un misto di innovazioni
tecnologiche e abilità interfamiliari. Sugli scafi l’emblema a forma di sole
di LUX brillava come oro.
«Velivoli per le lunghe distanze» mormorò Octavio. «Why here? Non
capisco più niente».
«Miss Eulalia?».
Ofelia schermò il sole con la mano. Si era appena seduta sulla pietra
bollente di un gradone che una sagoma in controluce si era fermata davanti
a lei. Aveva occhi neri e umidi, un lungo naso a punta, capelli irsuti e la
targhetta Commesso che brillava sulla divisa da memorialista.
«Blasius!».
«Mi sembrava di aver riconosciuto il vostro odore, infatti».
Di tutti gli Olfattivi che aveva conosciuto fino a quel momento Blasius
era certamente l’unico da cui non le dava fastidio essere fiutata.
«Che ci fate qui?» domandò l’Animista cercando invano il timbro sulla
sua fronte. «Siete un Figlio di Polluce, voi. Non ditemi che vi hanno
convocato!».
Il sorriso di Blasius si fece ancora più timido.
«In fact, sono qui per accompagnare... ehm... il mio amico».
Se già si era stupita di incontrare Blasius in quell’anfiteatro, Ofelia fu del
tutto sbalordita riconoscendo il professor Wolf nell’uomo dietro di lui:
vestito di nero, con guanti neri, occhiali neri e barbetta nera, portava il
cappello altrettanto nero inclinato in modo da attenuare il bagliore del
timbro. Era l’unico Animista che conoscesse a Babel ma, a differenza di lei,
ci era nato. Gli occhiali gli scivolarono lungo il naso per permettergli di
squadrare bene lei e Octavio.
«Ecco» borbottò. «E io che speravo di non avere più a che fare con voi».
L’affermazione non gli impedì tuttavia di sedersi alla sinistra di Hugo, la
cui pancia emise un «AMA IL TUO VICINO, MA MANTIENI LA RECINZIONE». La
rigidità di Wolf, accentuata dal collare ortopedico di legno, rivaleggiava con
quella dell’automa.
«Professore, la vostra convocazione dev’essere un errore» disse Octavio.
«Pur non essendo un discendente di Polluce siete nato a Babel. Stando alle
informazioni che abbiamo al Giornale ufficiale le misure riguardano solo i
cittadini arrivati qui di recente».
«Hanno perquisito casa mia e hanno trovato la mia collezione di arm...».
«Di oggetti vietati» lo corresse Blasius, accanto a lui, guardando
angosciato verso i gradoni vicini.
Il professor Wolf si sollevò ironicamente il cappello per accecarlo con la
propria fronte.
«Cos’è, hai paura che mi denuncino ancora? Ti ricordo che ha già
provveduto la mia padrona di casa. Non so cosa stia succedendo qui, ma
sento puzza di guai».
Mentre così mugugnava un escremento di uccello colpì in pieno il suo
timbro luminoso. Convinto di essere il responsabile di quell’ennesima
manifestazione di sfortuna Blasius si profuse in scuse e lo aiutò a ripulirsi
mandandogli fuori posto gli occhiali con una gomitata involontaria. Quando
Wolf si rimise il cappello con un sospiro Ofelia notò che la sua espressione
aveva perso durezza.
L’ultima volta che l’aveva visto si nascondeva sui tetti del quartiere dei
senza-poteri. All’epoca si difendeva da ciò che gli faceva più paura al
mondo e, Ofelia lo capiva in quel momento, non si trattava soltanto del
vecchio spazzino del Memoriale che era andato a spaventarlo a casa sua. In
mezzo a quella folla che continuava a crescere sembrava impegnato a
combattere contro un acuto attacco di misantropia che solo la presenza di
Blasius riusciva ad attutire.
Ofelia si sorprese a invidiarli. Aveva anche lei un brutto presentimento su
ciò che li attendeva, ma qualsiasi cosa fosse avrebbe dovuto affrontarla
senza Thorn. Forse Thorn non era neanche al corrente di quella
convocazione pubblica dall’altra parte di Babel.
«Attenzione, please».
La voce amplificata dagli altoparlanti dell’anfiteatro risuonò
sgradevolmente familiare alle orecchie di Ofelia. Octavio contrasse le mani
sulle ginocchia. Sui gradoni, i mormorii ansiosi cessarono. Sugli scafi dei
dirigibili sospesi sopra l’arena era proiettata in grande una faccia di donna
con due occhi penetranti che sembravano sondare tutte le anime.
Lady Septima.
Madre di Octavio, Visionaria superdotata e membro influente di LUX, per
Ofelia era stata soprattutto un’insegnante temibile che aveva sfruttato il suo
talento di lettrice pur sminuendolo in continuazione.
«Grazie a tutti voi per aver risposto alla convocazione» disse con voce
potente. «E grazie anche a sir Polluce e lady Helena qui presenti-presenti
per la fiducia che accordano a noi Lord di LUX, umili servitori della città».
Tutti gli sguardi ruotarono nella stessa direzione. Gli spiriti di famiglia
gemelli troneggiavano su un’alta tribuna riparata da un tendaggio color
porpora. Erano troppo lontani perché Ofelia potesse vederli bene, ma
distingueva i riflessi emessi dalle molte lenti del sistema ottico di Helena.
Avrebbe giurato che anche loro non avevano avuto altra scelta che andare lì.
«Come sapete» continuò la bocca di lady Septima ingigantita su ogni
scafo di dirigibile, «Babel sta attraversando una situazione di crisi. La
recente frana nel quartiere nordovest della città e la scomparsa di sei arche
minori hanno sconvolto-sconvolto tutti. Niente fa pensare che una tale
catastrofe possa ripetersi, ciò nondimeno resta una terribile tragedia e la
periferia della città verrà provvisoriamente considerata zona non abitabile.
Vi invito a osservare un minuto di silenzio-silenzio in memoria di quelli che
ci hanno lasciato e di quelli che hanno dovuto abbandonare le loro case».
Più che pensare agli altri, durante il minuto di silenzio ogni convocato fu
certamente più preoccupato per la propria sorte. Ofelia ne approfittò per
dare un’occhiata discreta alle scale da cui erano arrivati. Erano chiuse da
una saracinesca di sicurezza. Vide che erano stati bloccati anche tutti gli
altri accessi ai gradoni.
Se qualcuno voleva fare dietrofront era troppo tardi.
«Oggi la città ha bisogno di voi» riprese lady Septima con espressione
solenne. «I nostri concittadini devono ritrovare una stabilità. Il segno che
portate sulla fronte fa di voi degli eletti. Siete stati designati voi tra tanti
altri-altri per la vostra grande capacità di autonomia».
Sempre più tesa, Ofelia si strofinò la fronte che proiettava un alone
luminoso sulle lenti degli occhiali. Notò che, come lei stessa e Wolf, molti
convocati erano accompagnati da persone senza timbro.
«Indeed, nessuno di voi è attualmente trattenuto da un impegno verso la
città, sia esso di natura professionale, coniugale o parentale» spiegò lady
Septima scandendo ogni sillaba. «Per lungo tempo Babel vi ha accolto, ma
ora non ha più lo spazio per ospitarvi. Quindi siete tutti invitati a lasciare la
nostra arca a partire da oggi-oggi. I vostri beni e le vostre proprietà sono già
stati confiscati dalla città e saranno equamente redistribuiti tra i nostri
concittadini. Siamo sicuri che sarete accolti a braccia aperte sulle vostre
arche d’origine. Le vostre famiglie faranno in modo che non vi manchi
niente, una volta giunti sul posto. Grazie a ognuno di voi per agire
nell’interesse generale. Vogliate adesso-adesso raggiungere gli aeromobili
seguendo le istruzioni che vi saranno comunicate. Appena a bordo i vostri
timbri si cancelleranno. In nome di tutti i Lord di LUX, di lady Helena e di
sir Polluce, andate in pace!».
La faccia di lady Septima scomparve dai dirigibili. La fine del discorso fu
seguita da un silenzio così assoluto che sembrava quasi di sentire la pelle
dei presenti scaldarsi al sole. Quando cominciarono le prime proteste gli
altoparlanti emisero un fischio stridente che costrinse tutti a tapparsi le
orecchie.
«Ladies and gentlemen, siete pregati di avviarvi con calma. Prima le file
in basso. Le persone che accompagnano i viaggiatori-viaggiatori sono
pregate di rimanere al loro posto fino all’evacuazione completa
dell’anfiteatro».
All’annuncio seguì una musica d’ambiente ad altissimo volume, falsata
dagli echi, che soffocò tutte le voci. Nessuno riusciva più a parlare con
nessun altro. La guardia di famiglia circolò tra i primi gradoni per invitare
gli uomini e le donne che vi erano seduti a dirigersi verso il convoglio degli
aeromobili. Ogni fila venne metodicamente formata, suddivisa e
reindirizzata. Alcuni cercarono di manifestare il proprio sgomento.
Scuotevano la testa, si battevano il petto, indicavano il cielo al di là della
cinta dell’anfiteatro e sembravano gridare con tutti se stessi “casa!”,
“amici!”, “lavoro!”, ma le guardie, nelle loro armature rutilanti, erano
inflessibili. Altri cercarono di sollevare le saracinesche delle uscite o di
farsi passare per accompagnatori annodandosi un fazzoletto sulla fronte, ma
furono spediti nello spiazzo dei dirigibili ancora prima degli altri. Da
incerto, il movimento della folla si fece rassegnato. L’organizzazione era
talmente efficiente che poco dopo un primo dirigibile già pieno si alzò in
volo con un gran rumore di eliche.
Seduta sui gradoni più alti, Ofelia aveva osservato la scena ragionando a
tutta velocità.
Si voltò verso Octavio, alterato in volto, poi verso Blasius, che aveva la
bocca contratta in una smorfia torturata a metà tra l’incredulità e il senso di
colpa, infine verso il professor Wolf, che sotto la facciata stoica era
impallidito al punto che l’inchiostro bianco del timbro si confondeva con la
pelle.
«No!» disse a tutti e tre.
Non aveva bisogno di farsi sentire, il suo viso parlava per lei. No, non
avrebbe ubbidito. Già una volta l’avevano rimpatriata di forza su Anima:
non ce ne sarebbe stata un’altra. Il suo posto era accanto a Thorn
all’osservatorio delle Deviazioni, nel luogo in cui si trovavano le risposte.
La guardia di famiglia stava già cominciando a formare le colonne in
quella parte dell’anfiteatro. Ofelia partì controcorrente, sgattaiolò tra i
convocati, si infilò in ogni spiraglio in cui la sua piccola corporatura le
permetteva di infilarsi. Non sarebbe passata a lungo inosservata, e
comunque se qualcuno l’avesse chiamata non l’avrebbe sentito: gli ordini
ripetuti e gli stacchi musicali diffusi dagli altoparlanti inghiottivano ogni
suono.
Ofelia avanzò gradone dopo gradone puntando gli occhi sul grande
tendaggio porpora che il vento gonfiava come una vela. Non riusciva a
vedere se Helena e Polluce fossero ancora sulla tribuna, ma erano gli unici
in grado di mettere fine a quelle espulsioni.
Si accingeva a raggiungere l’obiettivo quando qualcosa la bloccò. Un
guanto d’acciaio le aveva afferrato il braccio. Era una guardia, che con un
cenno del mento le ingiunse in silenzio di unirsi alla colonna più vicina.
Non era armato – la sola parola era già un delitto – ma aveva una presa
solida. Ofelia lo guardò negli occhi e fu sorpresa di leggervi sofferenza. Le
orecchie dell’Acustico erano abbassate come quelle di un animale per
proteggersi dalla cacofonia degli altoparlanti, tuttavia il suo dolore
sembrava avere altre origini, come se stesse male perché doveva ubbidire
agli ordini. Allora Ofelia, come ricevendo un cazzotto improvviso, si rese
conto che i Lord di LUX stavano mettendo gli espulsi in pericolo facendoli
salire a bordo dei dirigibili.
Irrigidì ogni muscolo del viso per farsi capire dalla guardia con la mimica
facciale.
«No».
Un sandalo dopo l’altro, avanzò verso la tribuna tirando con tutte le sue
forze il braccio imprigionato nell’acciaio. La violenza era vietata su Babel,
e la cosa valeva anche per la guardia. Se non avesse mollato la presa,
l’uomo sarebbe stato costretto a slogarle la spalla.
Cedette.
Ofelia si lanciò sulla tribuna. Davanti a lei gli spiriti di famiglia, massicci
come i pilastri che sostenevano il tendaggio, assistevano passivamente
all’evacuazione.
«Impedite gli imbarchi!».
Aveva attinto dai polmoni tutta l’aria che le rimaneva per gridare quelle
parole, ciò nonostante non riuscì a distinguere la propria voce da quella
degli altoparlanti.
Polluce distolse lo sguardo dall’arena. L’aveva sentita. Sensi
ipersviluppati, postura plastica da statua e benevolenza paterna: avrebbe
potuto avere il carisma di un re, ma gli occhi dorati che posò su Ofelia
esprimevano solo impotenza. Era incapace della minima iniziativa.
Lei lo ignorò per rivolgersi a Helena e soltanto a Helena.
«Impedite gli imbarchi!» ripeté scandendo ogni sillaba. «Gli echi sono
pericolosi. Disturbano gli strumenti di navigazione».
Con lentezza meccanica Helena girò le rotelle della crinolina fino a
trovarsi di fronte a lei. L’apparecchio ottico fissato al suo naso elefantiaco si
azionò per sollevare lenti e abbassarne altre in modo da metterla in
condizione di vedere Ofelia con dei contorni definiti. La gigantessa non
aveva un gran bell’aspetto: il vitino di vespa tra la mole dei fianchi e quella
del seno era così stretto che sembrava sul punto di spezzarsi in due da un
momento all’altro.
L’unico punto in comune che avevano gli spiriti di famiglia gemelli era il
volume che entrambi portavano appeso alla cintura: due Libri con le pagine
scure come la loro pelle.
Visibilmente combattuta tra quello che doveva o non doveva fare, la
guardia che aveva seguito Ofelia sulla tribuna cercò di mettersi tra lei e lo
spirito di famiglia, ma con gesto aracneo Helena le fece segno di lasciarla in
pace. Aveva capito la gravità della situazione? Il suo udito ipersensibile, che
una porta sbattuta o un naso soffiato male era sufficiente a disturbare, lì era
assalito da tutte le parti.
Ofelia indicò il secondo dirigibile che aveva cominciato le operazioni di
decollo.
«Davvero siete d’accordo con tutto questo? Fate sentire la vostra voce,
siete la nostra madrina. Io stessa sono stata una delle vostre allieve».
L’immensa bocca di Helena articolò una risposta che Ofelia non sentì, ma
dalla piega interrogativa delle labbra capì che era più che altro una
domanda. Helena non si ricordava di lei. Come tutti gli spiriti di famiglia al
cui Libro Eulalia Diyoh aveva strappato una pagina, era condannata a
dimenticare continuamente. Perché avrebbe dovuto fidarsi di una
sconosciuta più che dei Lord di LUX?
Ofelia aprì il foglietto che aveva conservato preziosamente tra i
documenti falsi.
Passate a trovarmi, voi e le vostre mani, quando ne avete l’occasione.
«Vi siete già fidata di me una volta».
Si mise sulla punta dei piedi e consegnò il foglietto a Helena, il cui
apparecchio ottico si azionò subito per permetterle di leggerlo. Se non altro
avrebbe riconosciuto la propria scrittura. Data la sovrapposizione di lenti
era impossibile vedere il suo sguardo, ma Ofelia capì di avere ormai tutta la
sua attenzione.
«Aiutateci».
Le lunghe falangi di Helena si chiusero intorno ai suoi polsi come
granchi. Il foglietto si lacerò.
«Gli echi non sono pericolosi, giovine dama».
Ofelia sentì la voce vibrarle contro le guance, diffondersi sulla pelle e
raggiungerle i timpani fino a far sloggiare tutto il resto. Non c’erano più né
altoparlanti né anfiteatro.
«Gli echi parlano a chi sa ascoltarli. Voi tutti, compreso mio fratello, siete
sordi e ciechi».
La bocca di Helena era un abisso irto di denti, così vicini che Ofelia
avrebbe potuto contarli se non fossero stati così tanti.
«Gli echi sono dappertutto, ormai. Sono nell’aria che respiri».
Helena liberò finalmente i polsi di Ofelia, su cui le sue unghie avevano
lasciato un’impronta. Con attenzione si tolse l’apparecchio ottico di cui non
si disfaceva mai e senza il quale vedeva il mondo come una galassia di
atomi. Le sue pupille, dilatate all’estremo, occupavano tutto lo spazio degli
occhi. Erano come la bocca: due pozzi che inghiottivano la luce. Che
inghiottivano Ofelia.
«Sono dappertutto, giovine dama, e intorno a te più che altrove. Attiri gli
echi come mosche, si aspettano da te l’imprevisto».
Ofelia era sbalordita.
«Ma i dirigibi...».
«Taci e ascolta».
Le enormi pupille guardavano, sentivano e palpavano cose che erano
fuori dalla portata di Ofelia.
«Dovrai andare oltre la gabbia e rivoltarti. Rivoltarti davvero. Solo una
volta là capirai. Forse potrai anche renderti utile. Dici che ho dato fiducia a
te e alle tue mani, ma quando il tempo sarà finito avrai abbastanza dita?».
L’unica cosa che aveva capito Ofelia in quell’intrico di parole era che
Helena non avrebbe fermato le espulsioni. Era come un ricevitore radio
sintonizzato su una frequenza diversa dalla sua. La frequenza degli echi,
forse? Nell’istante in cui tacque, la barriera sensoriale che il suo potere
aveva eretto intorno a sé si spezzò.
Ofelia fu sommersa dai rumori, e non si trattava soltanto degli
altoparlanti. Ciò che stava succedendo intorno alla tribuna le fece temere di
aver peggiorato la situazione.
LA FABBRICA
I corpi inanimati degli automi erano appesi al tettuccio del furgone. Ogni
scossa ne agitava gli arti provocando un rumore d’ossa sbattute. Immersa
nella penombra, Ofelia aveva l’impressione di trovarsi in mezzo a scheletri.
Si rannicchiò contro uno di loro quando sentì il furgone perdere quota. Un
altro controllo aereo? Le portiere posteriori si dischiusero. Il fascio di luce
di una torcia illuminò la testa senza faccia di un manichino accanto a
Ofelia, poi le portiere si richiusero e le eliche del furgone ricominciarono a
ronzare.
«Sir Octavio e sir Ambroise dicono che non dovremmo incontrare altre
pattuglie».
Ofelia intravide una sagoma irsuta tra gli automi che sgomitava per
raggiungerla nel retro del velivolo. Appena si sollevò il turbante che le
nascondeva la fronte il timbro proiettò una luce lunare su Blasius creando
ombre tra le pieghe ansiose della sua pelle. Vedendole, Ofelia rimpianse di
averlo messo a parte della sua intenzione di andare all’osservatorio delle
Deviazioni. Da quando gliel’aveva detto, lui aveva insistito per
accompagnarla.
«Sareste dovuto rimanere nella fabbrica con gli altri clandestini» sospirò.
«Se mi prendono...».
«...Espelleranno anche me? Detto tra noi, miss Eulalia, non mi va di
restare su un’arca che non accetta le persone a cui voglio bene. E poi volevo
parlarvi di una cosa, ma... well... non davanti a Wolf».
Con gesto timido Blasius si rimboccò la manica della divisa da
memorialista fino a mettere a nudo il braccio. Alla luce della propria fronte
Ofelia vide un tatuaggio: una P e una A intrecciate.
«Sta per Programma Alternativo» spiegò Blasius.
Ofelia ci mise un po’ prima di capire.
«Siete stato internato all’osservatorio delle Deviazioni?».
«Non so perché per voi sia così importante entrarci, miss. Ma di sicuro so
quanto è stato difficile per me uscirne. Mi ci avevano mandato i miei
genitori perché fossi... come si dice... rettificato». Pronunciando la parola
Blasius fece un sorrisino afflitto. «Ero ancora adolescente, ma loro avevano
già capito le mie tendenze. Sono rimasto all’osservatorio fino alla maggiore
età, e anche in seguito non sono stato autorizzato ad abbandonare il
programma».
Pigiata tra gli automi, sballottata dalle scosse, Ofelia guardò le due lettere
tatuate sul braccio di Blasius. Marchiato a vita.
«Cos’è il programma alternativo?».
«L’altra faccia della vetrina. L’osservatorio delle Deviazioni è famoso per
ottenere eccellenti risultati su... su casi come il mio, giustappunto. Ma
quando mi hanno visitato hanno detto ai miei genitori che il mio stato non
rientrava nel programma classico, che ero un invertito di un genere very
particolare, che erano pronti a farsi interamente carico di me per studiarmi.
Per anni sono stato alloggiato, nutrito e “curato”. Ogni mese chiedevo di
tornare a casa e ogni mese mi rispondevano che la decisione non toccava a
me. Poi, dall’oggi al domani, mi hanno rimandato dai miei senza una parola
di spiegazione, come se ai loro occhi avessi perso ogni interesse. Ho solo
qualche ricordo confuso di quel che è successo là, di quel che ho fatto e
visto, ma voglio dirvi una cosa, miss, ed è che all’osservatorio erano molto
più interessati alla mia sfortuna che alle mie inclinazioni sentimentali».
Su quelle parole Blasius aveva spinto Ofelia di lato. L’imbracatura di un
automa subito dietro di lei si era staccata, minacciando di farle cadere
addosso vari chili di metallo.
«La vostra sfortuna?» ripeté. «E perché?».
«Non me l’hanno detto. Non dicono mai niente. Osservano».
«E voi avete osservato qualcosa di particolare in quel posto?» insisté
Ofelia.
«Tutto è particolare in quel posto, miss. Ero circondato da invertiti. Menti
invertite. Corpi invertiti. Poteri invertiti».
Ofelia ebbe un attimo di esitazione. Non avrebbe avuto altre occasioni di
fare domande a qualcuno che aveva conosciuto l’osservatorio da così
vicino, anche se parecchio tempo prima.
«Avete mai sentito parlare del progetto Cornucopiando?».
La fronte di Blasius si corrugò ancora di più sotto la spinta delle
sopracciglia.
«No».
«E del Corno dell’abbondanza?».
Lui scosse la testa.
«Davanti a me non l’hanno mai menzionato, ma ve lo ripeto, non dicono
mai niente».
Ofelia guardò il corpo disarticolato ai suoi piedi. Se non era carico, un
automa sembrava davvero uno scheletro. Ricordò la conversazione che
avevano avuto una volta lei e Blasius nelle catacombe della città. «Certi
esseri umani sono oggetti anche da vivi».
«Le cose che hanno fatto a voi, quelle che faranno a me...» disse con una
voce che avrebbe voluto più coraggiosa. «Soffrirò?».
La faccia di Blasius si distese come se fosse fatta di gomma. Le afferrò
goffamente le spalle.
«Non nel senso che intendete voi. È che... è che... Blast!».
Blasius non era mai stato molto sciolto nell’esprimersi, ma più parlava
dell’osservatorio e più balbettava, quasi che fosse anche lui pieno di echi.
Contrasse le dita sulle spalle di Ofelia. Sgranò gli occhi umidi e scuri.
«In ognuno di noi c’è un confine, miss Eulalia. È una cosa... necessaria,
una cosa che ci limita, una cosa che... che ci mantiene all’interno di noi
stessi. Ecco... loro cercheranno di farvi varcare questo confine. Qualsiasi
cosa vi dicano, miss, la decisione sarà vostra».
Ofelia sentì che i piedi sembravano volersi staccare dal suolo e capì che
stavano atterrando. Erano arrivati. Era arrivata. Thorn la aspettava. Poco
importava cosa le avrebbe riservato l’osservatorio delle Deviazioni, non
sarebbe stata sola. Neanche in quel furgone lo era.
«Grazie, Blasius. Abbiate cura di voi. E del professor Wolf».
Le mani di Blasius lasciarono le spalle di Ofelia e le presero il viso.
L’uomo appoggiò la fronte sulla sua fino a coprirne la luce.
«Mi ha evitato per quindici anni» sussurrò talmente sottovoce che
sembrava volesse essere sentito solo da lei. «Quindici lunghi anni durante i
quali ho creduto che si proteggesse da me, mentre proteggeva me da lui.
Fino al crollo del quartiere nordovest. E questo perché voi gli avete
consigliato di parlarmi. Non so se vi rendete conto» disse Blasius cercando
gli occhi di Ofelia dietro gli occhiali, «della solitudine a cui mi avete
strappato il giorno in cui mi avete rivolto la parola per la prima volta, sul
trenuccello».
Le loro fronti sbatterono l’una contro l’altra quando il furgone si
immobilizzò. Dopo qualche secondo le portiere posteriori si aprirono. Era
Octavio.
«Nessuno in vista. Sbrigati».
Ofelia si abbassò il turbante sulla fronte prima di uscire. Era una tiepida
alba rosa. Alcune palme fremevano in prossimità del vuoto. Il furgone si era
fermato in cima a una torre, su una piattaforma per le consegne. Octavio
aveva ragione, i luoghi erano deserti.
Ofelia si avvicinò al bordo. Voleva vedere l’osservatorio dall’alto prima
di viverlo dal di dentro. Un groviglio inestricabile di pagode e strade
ferrate, giardini e fabbriche, vecchie pietre e strutture metalliche si
estendeva ai suoi piedi. Il tutto aveva un’aria sia da antica città imperiale
che da zona industriale. Ofelia tuttavia individuò ben presto una logica in
quel caos illusorio: l’osservatorio era diviso in quartieri separati da
gigantesche porte rosse incorporate in fortificazioni. Una
compartimentazione controllata.
Al centro, l’istituto era dominato da una statua monumentale, un colosso
con una testa dalle molte facce.
“So tutto, vedo tutto!” esclamava in silenzio.
«In questo caso parliamo un po’» gli mormorò Ofelia. «Sono venuta
apposta».
Si diresse verso il posto di guida del furgone. Ambroise le tese una mano
invertita oltre la portiera.
«Good luck, miss. Vi invidio un po’, sono curiosissimo di sapere cosa
studiano là dentro! Mio padre ha detto che di tutti i clienti l’osservatorio è
quello che gli fa le ordinazioni più insolite. Non mi stupirei se vi imbatteste
in automi del tutto sconcertanti».
Ofelia non trovò la prospettiva particolarmente divertente. Non poté
evitare di fare un gesto verso la sciarpa arrotolata a palla sulla testa del
ragazzo, ma ne ottenne in cambio solo un fremito da lana imbronciata.
Quella nuova separazione a cui costringeva entrambe non era certo propizia
alla riconciliazione.
«Sorry» fece Ambroise, imbarazzato.
Ofelia gli strinse la mano con altrettanta goffaggine.
«C’è un proverbio animista che dice “Tale padrone, tale oggetto”. Voi
ispirate alla mia sciarpa quello che avete ispirato a me la prima volta che ci
siamo incontrati e che oggi ispirate a molta gente: una sensazione di
rifugio».
Octavio aveva assistito al dialogo da uno spiraglio della frangetta. I suoi
occhi stanchi non avevano ancora ritrovato la lucentezza, ma scrutavano
Ambroise con espressione indecifrabile. Indicò un capannone composto da
migliaia di vetri all’altro capo della piattaforma delle consegne.
«Dev’esserci un’entrata di servizio. La accompagno e torno» disse ad
Ambroise e Blasius.
All’interno del capannone Ofelia e Octavio videro solo piramidi di casse
e vagoncini fermi. Certo, era ancora presto, ma data la psicosi che regnava
nel resto di Babel quella calma metteva i nervi allo scoperto.
Scesero i numerosi piani della torre con un montacarichi.
«Ambroise è davvero figlio di Lazarus?» domandò Octavio di colpo.
«Non gli somiglia affatto. In fact» aggiunse senza dare a Ofelia il tempo di
rispondergli, «non somiglia a nessuno. Sono stato seduto accanto a lui
durante tutto il volo. Il suo corpo è davvero molto strano».
Ofelia evitò di commentare che anche il proprio corpo era strano assai e
che era decisa a servirsene per infiltrarsi nell’osservatorio, nonostante la
sola idea la facesse tremare.
«Torni subito al Giornale ufficiale?».
«Prima vado alla Buona Famiglia. Sono il responsabile della divisione
degli apprendisti precorritori di Polluce. Devo farmi vedere tutti i giorni,
altrimenti verrà considerata diserzione dal posto di lavoro».
Ofelia sollevò le sopracciglia.
«Dopo tutto quello che è successo? Dopo il crollo del quartiere
nordovest? Dopo i tumulti in centro?».
«Soprattutto dopo quelli. Ormai è ordine contro caos».
Il montacarichi sbucò in un corridoio che sbucò in un altro corridoio che
sbucò in una sala d’accoglienza dove non trovarono nessuno. Sul bancone
c’erano alcuni formulari a disposizione del pubblico. Bisognava riempirne
uno di proprio pugno, infilarlo nella fessura di un cilindro e abbassare una
leva per azionare il trasporto pneumatico. Ofelia aveva già seguito quella
procedura quando era andata a trovare Mediana. A differenza di quella
volta, invece di sbarrare la casella Visita sbarrò la casella Ammissione.
Non ebbe neanche il tempo di dirigersi verso la sala d’attesa che una
voce educata la chiamò.
«Miss Eulalia?».
Una donna veniva verso di lei con passo sicuro. Non era la ragazza con
cui Ofelia aveva avuto a che fare la prima volta che era andata lì, ma
indossava lo stesso sari di seta gialla, gli stessi occhiali scuri a pince-nez e
gli stessi lunghi guanti di pelle. Aveva sulla spalla uno scarabeo meccanico,
e sottobraccio un portadocumenti a cui era spillato il modulo che Ofelia
aveva appena riempito. Sembrava quasi che la aspettassero da giorni.
«Da questa parte, please» disse aprendole un’elegante porta a vetri. «Voi
no, milord».
La donna aveva rivolto un sorriso inflessibile a Octavio, che si stava
facendo avanti. Non ebbe alcuna considerazione per la divisa da virtuoso né
gli chiese come si chiamasse. Sapeva già perfettamente chi era.
Ofelia gli rivolse un ultimo intenso sguardo.
«Cambiare il mondo» gli mormorò.
Gli angoli della bocca di Octavio trasalirono. Raddrizzò la testa fino a
mandare indietro la frangetta, mettendo allo scoperto le cicatrici sul naso e
sul sopracciglio nei punti in cui un tempo c’era stata la catenella.
«Dall’interno» rispose.
Se ne andò sbattendo risolutamente i tacchi, cosa che infuse a Ofelia un
po’ di coraggio. La donna le fece attraversare una stanza che sarebbe potuta
sembrare uno studio medico, se su tutti gli scaffali non ci fossero stati
scarabei che alla luce mattutina delle finestre brillavano come pietre
preziose.
«Avete fatto domanda per essere ammessa nel nostro osservatorio» disse
sedendosi in una poltrona e posando il portadocumenti davanti a sé.
«Ditemi».
Appena seduta, per prima cosa Ofelia si sincerò che il vetro della finestra
rimandasse il riflesso dell’interlocutrice. Non era né Eulalia Diyoh né
l’Altro, per quanto affidabile potesse essere il test. Bene. Si tolse il turbante
che le nascondeva il timbro sulla fronte.
«Sarò breve. Un medico mi ha consigliato di iscrivermi al vostro
programma. So che avete già un fascicolo a mio nome. Non capisco bene in
che modo, ma sono sicura che l’osservatorio sia la mia ultima risorsa per
non essere espulsa da Babel».
Ofelia non ebbe bisogno di sforzarsi per apparire disperata. La sua paura
era molto reale. A parte il pavimento su cui poggiava i piedi in quell’istante,
il resto dell’universo era diventato un gigantesco punto interrogativo.
La donna sfogliò le pagine fissate al portadocumenti. A Ofelia sarebbe
piaciuto essere sulla sua spalla al posto dello scarabeo per leggere le
informazioni che l’osservatorio aveva sul suo conto.
«In altre parole, miss Eulalia, è una richiesta d’asilo, la vostra?».
«Mi offro volontaria per tutto ciò che voi giudicherete interessante».
La donna inclinò la testa in modo da sostenere il suo sguardo attraverso
le lenti scure del pince-nez, poi le porse un foglio bianco e una penna
stilografica.
«Devo firmare da qualche parte?».
«No, miss. Scrivete soltanto “Ma quel pozzo non era più vero di un
coniglio di Odino”».
«Prego?».
Ofelia era interdetta. Che pozzo? Che coniglio? E perché Odino? Odino
non era l’antico nome di Faruk?
«“Ma quel pozzo non era più vero di un coniglio di Odino”» ripeté la
donna con un sorriso imperturbabile. «Scrivete, please».
Ofelia ubbidì. La donna le tolse subito il foglio e lo sostituì con un altro
bianco.
«Perfect. Ora riscrivete la frase, ma con l’altra mano».
«Non so scrivere con l’altra mano».
«Certo che sì» le assicurò la donna. «Non vi stiamo chiedendo di scrivere
bene, solo di scrivere».
Ofelia ubbidì di nuovo. Sotto il pennino di metallo le parole venivano
fuori mostruose. Anche concentrandosi invertì la maggior parte delle
lettere. La donna non dedicò la minima attenzione al risultato. Attraverso il
prisma scuro del pince-nez osservava con interesse educato Ofelia e
soltanto Ofelia. Non aveva gli occhi di una Visionaria. Qual era il suo
potere familiare? Se ne stava servendo in quel momento?
«Perfect».
La pelle dei suoi guanti stridé quando aggiunse i due fogli al
portadocumenti. Ogni suo gesto era metodico all’eccesso, neanche stesse
maneggiando prodotti chimici altamente tossici. Si alzò e rimise il turbante
sulla testa di Ofelia. Per coprirle il timbro lo strinse talmente forte che le
dette fastidio. Poi la fece entrare in uno sgabuzzino stretto e buio e chiuse la
porta. Le tenebre erano così fitte e faceva un tale caldo che a Ofelia mancò
il respiro. Non vedeva più gli occhiali sul proprio naso. Ecco spiegato il
turbante: a quanto pareva, il buio faceva parte dell’esperimento.
«Non muovetevi, please».
Ci fu un lampo di luce improvviso come un fulmine. Poi un altro. La
stavano fotografando? Ofelia era così abbagliata da non notare subito che la
porta dello studio si era riaperta.
Con un sorriso la donna le indicò una scrivania sulla quale era in attesa
una piccola scatola di legno laccato.
«Voi siete Animista, miss Eulalia».
Non era una domanda.
«Di ottavo grado» mentì Ofelia.
«Specializzata in lettura».
Neanche quella era una domanda. Se quelli dell’osservatorio delle
Deviazioni avevano avuto accesso al fascicolo di Ofelia compilato dalla
Buona Famiglia sapevano già tutto. Eppure la donna sembrava aspettare
una conferma da parte sua.
«Sono lettrice, in effetti».
«Spero che non avrete problemi a darci una piccola dimostrazione».
Ancora mezzo abbagliata dai flash, Ofelia si avvicinò alla scatola.
«Dentro c’è un campione» disse la donna.
Ofelia fece scorrere il coperchio. Una minuscola biglia di piombo era
adagiata su un cuscinetto rosso. Il sangue cominciò a pulsarle su tutta la
faccia. Un frastuono organico le colpì le orecchie.
«Possiamo procedere con la lettura, miss Eulalia?» domandò
cortesemente la donna.
Sembrava che le riuscisse difficile limitare il sorriso a proporzioni
professionali.
Ofelia si sbottonò i guanti uno dopo l’altro. Fino a quel momento si era
sentita padrona della situazione. Era andata lì per sua scelta e si
sottometteva agli esami dell’osservatorio perché lo voleva. Mostrava di sé
solo quello che aveva deciso di mostrare.
E così dovevano andare le cose.
«Sono tenuta a farvi la domanda» disse con un tono che si augurava
impassibile. «L’oggetto è proprietà dell’osservatorio?».
«Certamente, miss Eulalia».
Bugia.
Ofelia inspirò profondamente per evitare che la collera le facesse
diventare scuri gli occhiali. Non doveva tremare. Non doveva tradirsi. Si
concentrò interamente sulla biglia di piombo nella scatola. Un proiettile.
Sapeva di avere sotto gli occhi una cosa impossibile, o che almeno avrebbe
dovuto esserlo, ma per quanto frastornata c’era un campo in cui nessuno
poteva fargliela sotto il naso. Conosceva personalmente ogni pezzo della
collezione del museo di Storia primitiva di Anima, e quello in particolare.
Prese la pallottola di piombo a mani nude. La nausea le bruciò la gola:
non la sua nausea, ma quella dell’ultima persona ad aver maneggiato
l’oggetto senza protezione, un tizio con la bombetta che voleva conoscere le
guerre del vecchio mondo, uno sciocco al quale Ofelia aveva dato una
lezione. Succedeva quattro anni prima, ma sembrava che ne fossero
trascorsi quaranta. Mentre risaliva sempre più lontano nel tempo passando
da un lettore all’altro e da una nausea all’altra si preparò all’inevitabile
shock. Il dolore, astratto ma autentico, la colpì in piena pancia. L’agonia del
fante i cui organi interni erano stati perforati da quella pallottola molti
secoli prima divenne la sua agonia. Stavolta fu la propria nausea a
sommergerla, tanto che per poco non vomitò sulla scrivania.
Rimise il proiettile sul cuscinetto, chiuse la scatola e si portò il pugno alle
labbra tremanti. Una lacrima le colò sulla guancia. Come aveva potuto
imporre una cosa del genere a qualcun altro?
“No”, si riprese appena la potente ondata di empatia si fu ritirata. Perché
l’avevano imposto a lei? Per quale improbabile concorso di circostanze
l’osservatorio delle Deviazioni si era procurato un pezzo del museo in cui
lei, Ofelia e non Eulalia, aveva lavorato un tempo?
«Desiderate un bicchiere d’acqua, miss?».
La donna non le aveva staccato gli occhi di dosso prima, durante e dopo
la lettura. Dietro le lenti scure del pince-nez brillava una luce sempre più
curiosa.
«Volete la mia perizia?» domandò Ofelia con freddezza.
«No, miss Eulalia. Non era questa la finalità dell’esercizio».
«E qual era?».
La donna prese da un cassetto della scrivania un documento dello
spessore di un pollice. Prima di toccarlo Ofelia si rimise i guanti.
Convenzione tra il paziente e l’osservatorio delle Deviazioni: consenso
all’atto di studio dei protocolli da I a III del programma alternativo e
relativa clausola di riservatezza. Bastava il titolo a far venire il mal di testa.
«I Lord di LUX dettano le leggi» dichiarò la donna con lo scarabeo, «ma
nessuna legge è superiore al segreto professionale in ambito sanitario che
qui applichiamo da svariate generazioni. Finché resterete fra noi non
dovrete più rendere conto di nulla al mondo esterno».
Ofelia non capì una parola delle decine di fogli che costituivano la
convenzione, scritta in un linguaggio che presupponeva l’aver studiato da
giurista.
Ma la cosa non aveva più importanza. Firmò.
Il sorriso della donna si allargò impercettibilmente quando Ofelia le
restituì il documento. Il futuro avrebbe stabilito chi delle due era caduta
nella trappola dell’altra.
GLI OCCHIALI
Ofelia si tirò a sedere sul letto scossa e sudata con un grido di traverso
nella gola. Era la stessa storia a ogni risveglio, da quando aveva affrontato
lo spazzino del Memoriale. E, come ogni volta, le occorse un po’ di tempo
per riordinare le idee.
Era stata di nuovo visitata dalla memoria di Eulalia Diyoh. Anzi, più che
visitata. Le si era incarnata all’interno, nella pelle, nel nome, con un grado
di precisione e chiarezza mai raggiunto prima.
Mentre un “perché?” si andava formando nella sua testa Ofelia si rese
conto che non riconosceva il letto in cui si trovava. Era stranamente
inclinato, e quando lei cambiava posizione dondolava da una zampa
all’altra. Intorno c’erano solo cuscini di tutte le forme e colori. Anche il
pigiama che aveva addosso non le ricordava niente.
Non aveva memoria di essersi coricata lì. In realtà, non aveva proprio
memoria di essersi coricata.
Cercò gli occhiali prima di ricordarsi che l’osservatorio glieli aveva
sequestrati. Come del resto i guanti. Eppure mentre dormiva non aveva letto
né le lenzuola né i cuscini. Un brivido la percorse quando passò la mano su
tutta quella seta silenziosa. Dovette concentrarsi per far emergere
impressioni lontane, troppo vaghe per essere interpretate. Da quando il suo
potere familiare si era risvegliato non le era più capitato di entrare in
contatto con oggetti senza essere sommersa da visioni. Sollevò le mani
verso un raggio di sole che filtrava dai listelli di una persiana. Erano
pallidissime rispetto alle braccia abbronzate... Aveva l’impressione di
indossare guanti di una natura nuova.
Si aprì un varco in mezzo ai cuscini. Non fece in tempo a mettere un
piede fuori dal letto che rovesciò una pila di libri. Rimettendoli a posto si
accorse che erano tutti bianchi, senza titolo né testo. Il resto della camera
non era da meno: ai muri erano attaccate cornici vuote e orologi senza
lancette, gli interruttori non sortivano alcun effetto sulle lampadine a
soffitto, che continuavano con la loro insopportabile intermittenza, e la
radio verso la quale Ofelia si precipitò per ascoltare le notizie non le fece
neanche l’onore di uno sfrigolio.
Quanto alla porta, era chiusa a chiave.
Non leggeva quasi niente delle cose che toccava in quella stanza.
Possibile che l’osservatorio le avesse addormentato il suo potere familiare
nello spazio di una notte? L’idea la atterrì.
«Non sarà certo questo a frenarmi».
Avrebbe strappato i suoi segreti a quel luogo, con o senza l’aiuto delle
mani.
La persiana della finestra era senza maniglia. Incollò il naso contro i
listelli per guardare fuori, ma il sole la accecò. Ebbe un’altra falsa speranza
trovando in bagno una serie di specchi: erano tutti deformanti, restituivano
di Ofelia un’immagine grottesca e distorta. Per attraversare aveva bisogno
di un riflesso stabile.
Quel proliferare di roba inutile la opprimeva.
Armeggiò con il rubinetto fino a fargli tossire acqua e si lavò. Il sogno, o
meglio il ricordo, continuava ad attanagliarla dall’interno. Era un’emozione
difficile da definire, a metà strada tra la gioia e la tristezza.
Si guardò nella chiazza d’acqua che si era formata in fondo al lavandino.
Non c’era traccia dell’Altro in quel passato, nessuna allusione a un qualche
riflesso ribelle, neanche un pensierino, come se a quello stadio non facesse
ancora parte della storia.
Dovette tirare più volte la catena per azionare lo sciacquone. Se non altro
aveva avuto conferma che, dopo aver lasciato l’orfanatrofio militare,
Eulalia Diyoh era passata dall’osservatorio delle Deviazioni, anche se
all’epoca non si chiamava ancora così. Il Progetto per il quale si era offerta
volontaria doveva essere il progetto Cornucopiando citato dai Genealogisti,
ma nel ricordo Ofelia non aveva visto nessun Corno dell’abbondanza.
Solo una cantina e un telefono.
Un rumore di chiave riportò i suoi occhi miopi verso la porta, che si aprì
teatralmente su una figura femminile. Aveva la forma di una damigiana e
uno chignon smisurato sulla testa.
«Mamma?».
La parola le era uscita da sé. Solo l’istante dopo Ofelia si rese conto che
era impossibile. Quella donna non era sua madre. In realtà non era neanche
una donna. Era un automa.
Da sotto il grembiule su cui era cucita la parola “tata” giunse una voce
non umana.
«BUONGIORNO, DARLING. HAI FATTO UNA BELLA NANNA-NANNA?».
Ofelia non aveva mai visto un modello come quello. Aveva una faccia
con occhi spalancati, naso all’insù e bocca distorta da un sorriso eccessivo.
Il corpo era quello di una bambola articolata. Le avevano messo addosso un
vestito dalla gonna ampia e una parrucca biondo-rossiccia che precipitarono
Ofelia nella confusione. Dopo il pezzo del museo di Anima, non poteva più
trattarsi di una coincidenza: all’osservatorio sapevano chi era e da dove
veniva, e se ne servivano per spiazzarla.
«Che ore sono? Che è successo dopo il tunnel? Ho fatto tutta una dormita
da ieri?».
L’automa le sbottonò il pigiama senza chiederle il permesso e senza
rispondere alle sue domande.
«SARÒ LA TUA TATA PER TUTTO-TUTTO IL TUO SOGGIORNO QUI, DARLING. MI
PRENDERÒ CURA DI TE. VESTIAMOTI IN FRETTA, CI ASPETTA UNA GRANDE
GIORNATA!».
«Rimandatemi giù».
Ofelia tirava con tutte le sue forze il vestito della tata-automa, che però
continuava ad attraversare il parco dei divertimenti a passettini implacabili
allontanandola sempre più dalla giostra, dalla cantina e dal telefono.
«Fatemi continuare l’esperimento!».
La tata-automa non si degnò neanche di risponderle. Andava avanti con
indifferenza mentre dalla pancia le sgorgava un’insopportabile canzonetta.
Solo lei aveva la chiave che dava accesso alla stanza segreta.
A Ofelia non andava giù l’idea di ricominciare la solita routine come se
niente fosse quando magari l’Altro era a portata di telefono. L’osservatorio
voleva mettersi in comunicazione con lui, lei pure: perché non la lasciavano
fare, allora?
Il caldo pesava sul chiostro in maniera opprimente. Era come se l’aria si
fosse materializzata in una grossa tenda dietro la quale si nascondevano
tutte le verità. Gli invertiti avevano terminato i laboratori del mattino e
stavano facendo la pausa di mezzogiorno. Ofelia vedeva intorno a sé solo
figure patetiche. Erano disseminati per tutto il parco dei divertimenti, si
riparavano all’ombra degli stand, ognuno nel suo angolo, mangiando il
pessimo riso che le tate-automa distribuivano ogni giorno a quell’ora.
Eulalia Diyoh era stata una di loro molto prima che loro nascessero. Si
era allenata duramente per diventare un’invertita, come se fosse una
condizione indispensabile per dialogare con l’Altro.
Ofelia non ne poteva più di quella solitudine che imponevano a tutti per
meglio strumentalizzarli. Strizzando gli occhi avvistò Cosmos. Era seduto
sul bordo di una giostra in cui al posto dei cavalli c’erano minacciose tigri
di legno. La sua tata-automa lo sorvegliava da lontano.
Andò dritta verso di lui. Aveva a disposizione pochi secondi, da un
momento all’altro la tata-automa si sarebbe accorta che Ofelia aveva
smesso di seguirla.
«Dobbiamo parlare. E alla svelta».
Cosmos guardò da un’altra parte. Stava mangiando quella che dall’odore
sembrava essere una frittella di lenticchie. Doveva avere qualche contatto
nelle cucine per riuscire a procurarsi sempre cibo degno di questo nome.
«Càlmati» disse soltanto.
«Sei all’osservatorio da più tempo di me, e tu stesso hai detto che
dovevamo aiutarci. Ora ho bisogno di sapere tutto quello che sai».
«Càlmati» ripeté Cosmos.
La sua voce aveva assunto un tono imperativo. Non era più il giovanotto
brillante che il primo giorno aveva fatto rotolare la brioche verso di lei. Col
tempo Ofelia aveva capito che la sua inversione consisteva nel bipolarismo.
In altre circostanze l’avrebbe lasciato in pace, ma in quel momento ribolliva
di impazienza.
«Hanno fatto fare anche a te l’esperimento del telefono, vero?» insisté.
«Puoi almeno dirmi se hai sentito qualcosa? Un eco che non ti è parso
norma...».
Cosmos si lanciò su Ofelia con un tale impeto che caddero insieme sulla
ghiaia. Le afferrò le spalle, le incollò la faccia a un centimetro dalla sua.
Aveva gli occhi a mandorla fuori dalle orbite, il respiro affannoso, le labbra
arricciate su denti pieni di lenticchie.
«Càlmati!».
Ofelia non capiva più se l’ordine fosse rivolto a lei o a se stesso. Non
capiva niente. Cercava di respingere quel corpo che la schiacciava, ma più
si dimenava e più Cosmos le affondava le unghie nelle spalle. La scuoteva
con una tale forza che era rintronata dal colpo ogni volta che il cranio le
sbatteva per terra.
«Càlmati!» ringhiò lui. «Càlmati!».
Gli mise una mano sul mento per allontanarlo, invano. Incastrata sotto di
lui, cercò aiuto. Alcuni collaboratori di cui intravedeva le sagome grigie
assistevano alla scena prendendo appunti. Gli invertiti si erano avvicinati
sbalorditi. Fra loro, Seconda disegnava freneticamente, come se avesse
avuto paura che Ofelia e Cosmos abbandonassero la posa. Quanto alle tate-
automa, si guardarono bene dal muovere un dito, come se la situazione non
rientrasse nei loro compiti. Nessuno sarebbe intervenuto, quindi?
Istintivamente usò gli artigli su Cosmos come aveva fatto per allontanare
la folla dell’anfiteatro, ma nonostante fossero l’uno sull’altra lo mancò.
Anche quel potere si era guastato, come l’animismo. Cacciò un grido
quando Cosmos le morse la mano. Sembrava posseduto dal desiderio di
farla a pezzi.
Ofelia sgranò gli occhi. Lo stavano lasciando fare. Permettevano che la
uccidesse.
Denti e unghie di Cosmos mollarono finalmente la presa. Un
collaboratore l’aveva afferrato alla vita.
«Spòstati, Eulalia».
Voce femminile. Ofelia non se lo fece dire due volte. Si trascinò al suolo
con la mano ferita piegata contro la pancia.
La collaboratrice faceva del suo meglio per contenere il corpo furente di
Cosmos, che urlava e schiumava. Una gomitata sulla faccia le fece cadere il
cappuccio.
Era Elizabeth.
Ofelia aveva completamente dimenticato che era stata assunta
dall’osservatorio. La bocca le sanguinava. La gomitata le aveva spaccato il
labbro, forse anche rotto un dente, ciò nonostante non perdeva la sua
flemma. Teneva Cosmos per la vita. I gesti dell’uomo si fecero sempre
meno rabbiosi, i lineamenti si rilassarono uno a uno. La sua empatia
assorbiva la tranquillità di Elizabeth come una spugna. Presto la collera gli
scomparve dallo sguardo lasciando il posto a un grande vuoto.
Alla fine si lasciò cadere lentamente con la fronte contro il suolo.
«Scusa» balbettò. «Scusa... Scusa... Sfusa... Scusa...».
Elizabeth sciolse delicatamente la presa, poi posò su Ofelia uno sguardo
stanco appesantito dalle grosse palpebre, ignorando i collaboratori rimasti
indietro che tossicchiavano come giudici severi.
«Non sei molto presentabile».
Ofelia indicò le macchie di sangue che si erano mischiate alle sue
lentiggini. Anche senza occhiali vedeva solo quelle.
«Neanche tu hai un gran bell’aspetto».
Si scambiarono un sorriso che durò il tempo di una contrazione di labbra.
La tata-automa tirò Ofelia per un orecchio. Combattere contro una
macchina, sia pure agghindata da signora, era fatica sprecata. Ofelia non
ebbe altra scelta che incespicare attraverso un interminabile labirinto di
giostre, gallerie e scale fino a raggiungere camera sua, dove fu rinchiusa a
chiave.
«SEI STATA DISUBBIDIENTE, DARLING. NON AVRAI GIOCHI E PASTI FINO-FINO A
DOMANI».
Una volta sola, Ofelia passò un tempo considerevole a sbattere contro i
mobili sbilenchi della camera, andando e venendo febbrilmente,
dibattendosi in tutte le sue domande, ascoltando i colpi di gong a ogni ora
del pomeriggio finché, stanca, si immerse nell’acqua saponosa della vasca
da bagno. Aveva le spalle coperte di graffi, la mano gonfia intorno al morso
e, stando all’immagine deformante degli specchi, un livido sull’orecchio
provocato dalle dita meccaniche della tata. La cosa che le faceva più male
era la nuca: in mezzo ai sassolini che continuava a togliersi dai capelli
sentiva il rilievo di un enorme bernoccolo.
Bene.
Giornate intere senza che si muovesse foglia, ed ecco che in pochi minuti
aveva scoperto la vera natura dell’Altro, scatenato il furore di Cosmos e
suscitato lo scontento dell’osservatorio.
Col senno di poi capiva che il suo errore più grosso era stato dire quello
che aveva detto al telefono. Aveva chiesto all’Altro di andare a trovarla. E
se il messaggio gli fosse arrivato davvero? Se l’avesse presa in parola,
avesse deciso di onorare l’invito e le fosse spuntato in camera devastando
tutto al suo passaggio? Forse adesso ne sapeva un po’ di più su di lui, ma
continuava a non avere la più pallida idea di cosa bisognasse fare per
sconfiggere un eco in grado di distruggere le arche.
Ofelia, ormai del tutto incapace di distinguere la destra dalla sinistra, si
stava infilando per la quinta volta il pigiama al contrario quando sentì un
fruscio seguito da un rumore di passi che si allontanavano precipitosamente
in corridoio.
Qualcuno le aveva infilato sotto la porta un foglio ripiegato in quattro.
Appena lo aprì una pioggia di frutta secca cadde per terra. Incollò gli
occhi al foglio per decifrare la scrittura minuscola.
Mi dispiace.
Ora capisci perché nessuno mi aspetta là fuori.
Qualcuno aspetta te stasera.
Il messaggio era accompagnato da uno scarabocchio che somigliava
molto vagamente alla statua del colosso. Il cuore di Ofelia si mise a battere
forte. Thorn! Si era servito di Cosmos per darle un appuntamento? Come
aveva fatto? L’osservatorio lo teneva a distanza dagli invertiti fin
dall’inizio.
Appallottolò il biglietto e lo buttò nel gabinetto. Attraverso i listelli della
persiana rosseggiava il crepuscolo. E lei come avrebbe fatto a uscire, quella
sera? Probabilmente Thorn contava sul suo animismo per aprire la porta
della camera, come aveva fatto a casa di Berenilde la notte della scappatella
in città, senza sapere che il suo potere familiare non funzionava più
normalmente. Gli orologi privi di lancette della camera le sputavano in
faccia gli ingranaggi quando ci passava davanti, e aveva rinunciato a
raddrizzare il letto con dei libri da quando quelli si divertivano a tagliare la
corda durante la notte.
«Eulalia?».
Ofelia si precipitò a incollare l’orecchio alla porta. Quella voce...
«Elizabeth?».
«Parla piano».
Il mormorio dall’altra parte era impercettibile. Bisognava accostare
l’orecchio al buco della serratura per sentirlo.
«Non dovrei essere qui. E neppure sarei dovuta intervenire, prima. I
collaboratori hanno l’ordine tassativo di non interagire con i pazienti».
Sotto il tono calmo si percepiva un’emozione. Ofelia conosceva
abbastanza Elizabeth da sapere che attribuiva molta importanza alla
gerarchia. Il fatto che avesse trasgredito al regolamento, prima per aiutarla e
poi per andare a trovarla, era del tutto inaspettato da parte sua.
Ofelia osservò la frutta secca sparpagliata ai piedi della porta.
«Come sta Cosmos?» domandò.
«Meglio. In questo momento sta mangiando in refettorio. La sua empatia
soffre di una rara devianza. Non solo percepisce le emozioni degli altri, ma
le sente e le amplifica come un diapason fino a provocare una reazione a
catena. La prossima volta che sei di malumore evitalo».
Ofelia appoggiò la fronte alla porta. Quella mattina aveva perso il
controllo e, ciò che è peggio, l’aveva fatto perdere a Cosmos. In fondo era
quello che l’osservatorio si augurava. Li riportavano all’infanzia, li
isolavano e li destrutturavano per poterli rimodellare a loro piacimento.
Aveva permesso che il luogo prendesse il sopravvento su di lei, e l’idea
non le andava giù.
«Elizabeth, puoi aprirmi?».
«Certo».
Il sollievo di Ofelia fu di breve durata.
«Sto scherzando. Ho già disubbidito fin troppo. Sai che sir Henry sta
ispezionando tutto l’osservatorio?» continuò Elizabeth per non darle modo
di insistere. «L’incidente fra te e Cosmos è arrivato fino a lui. Di norma non
è consentito infrangere il segreto professionale, ma data la gravità della
situazione hanno acconsentito a fare un’eccezione. Sir Henry ha chiesto di
interrogare personalmente Cosmos dopo la vostra...».
Elizabeth cercò a lungo un termine consentito dall’Index.
«Dopo la nostra zuffa» si spazientì Ofelia.
«Dopo la vostra controversia» la corresse Elizabeth in tono di
rimprovero.
Ecco come aveva fatto Thorn a trasmetterle il messaggio. In quel caso le
dispiaceva meno di essersi fatta malmenare un po’. Fissò il buio della
serratura. E lei? Poteva servirsi di Elizabeth per comunicare con Thorn
all’insaputa dell’osservatorio? Fino a che punto si fidavano l’una dell’altra?
Al di fuori del corso di studi alla Buona Famiglia non avevano niente in
comune.
«Elizabeth, perché sei qui?».
«Lo sai, no? Mi hai visto firmare il contratto con i Genealogisti. Dovrei
semmai essere io a chiedertelo. Trovarti nell’osservatorio in mezzo agli
invertiti è stato piuttosto sorprendente».
Ofelia rivide la processione di collaboratori che aveva incrociato il primo
giorno: ricordò che uno di loro non aveva potuto fare a meno di voltarsi a
guardarla.
«Intendevo qui, davanti a camera mia».
«Ah». Una leggera scossa indicò che Elizabeth si era appoggiata alla
porta. «Un giorno mi hai chiesto un consiglio. Ricordi cosa ti ho risposto?».
«Sì».
“Rimani neutra. Osserva senza giudicare. Ubbidisci senza discutere.
Impara senza prendere posizione. Interessati senza attaccarti. Fai il tuo
dovere senza aspettarti niente in cambio. È l’unico modo per non soffrire.
Meno si soffre, più si è efficienti. Più si è efficienti e meglio si serve la
città”.
Ofelia aveva imparato quel consiglio a memoria. Era uno dei peggiori
che le avessero mai dato.
Attraverso il buco della serratura il respiro di Elizabeth suonò esitante,
poi le parole le uscirono tutte insieme a fior di labbra.
«Non ci riesco più. Non posso parlarti di quello che faccio qui. Non ho
neanche il permesso di parlarne con gli altri collaboratori, il principio di
confinamento si applica anche a noi. Abbiamo tutti prestato giuramento di
fedeltà all’osservatorio. Ma io ho anche prestato giuramento ai
Genealogisti. Si aspettano da me che li tenga informati appena sarò riuscita
a decodificare tutto. Dicono che è il mio dovere di precorritrice. Da un
punto di vista gerarchico sono miei superiori, ma da un punto di vista
deontologico l’osservatorio è il mio datore di lavoro. A chi devo ubbidire,
Eulalia?».
Ofelia provò una profonda pietà per lei. Non poteva vederla in quel
momento, ma ne immaginava il lungo corpo piatto incollato alla porta come
quello di una bambina. Elizabeth aveva la sua stessa età, era molto più
intelligente di lei, ma dover fare le proprie scelte la terrorizzava al punto da
chiedere a una semisconosciuta di prendere una decisione al posto suo.
«È una risposta che devi trovare da sola, Elizabeth. Tu cosa vuoi?».
«Rendermi degna della mano che mi ha teso lady Helena quand’ero in
mezzo a una strada. Mai come in questo posto mi sono sentita più idonea ad
aiutarla».
Stavolta non c’era esitazione nella voce. Ofelia era perplessa. In che
modo Elizabeth sperava di onorare il suo debito verso lo spirito di famiglia?
Quando quest’ultima ricominciò a parlare il suo tono aveva ritrovato la
consueta flemma.
«I Genealogisti sono Lord di LUX e i Lord di LUX sanno meglio di
chiunque altro cosa sia bene per l’interesse generale. Mi rimetterò quindi al
loro giudizio, come ho sempre fatto. Non avrei dovuto abbassarmi a
dubitare di loro, la prossima volta che li vedrò confesserò il mio peccato.
Neanche quest’osservatorio dovrebbe avere niente da nascondere a loro.
Grazie del consiglio. Ora torno agli alloggi dei collaboratori».
Ofelia aggrottò le sopracciglia. Grazie del consiglio? Elizabeth non aveva
capito niente di quello che aveva cercato di dirle. Ancora un appuntamento
mancato tra lei ed Elizabeth.
«Grazie a te di essere intervenuta nonostante gli ordini» sospirò. «Un
gesto che ho apprezzato».
«La violenza è proibita su Babel e, protocollo o no, non sembravi molto
consenziente».
Ofelia sentì il fruscio di un saio dall’altra parte, il cappuccio rimesso
sulla testa, il segnale della partenza. Forse non avrebbe avuto una seconda
occasione di affrontare l’argomento.
«Elizabeth?».
«Mmm?».
«So del progetto Cornucopiando. Tu l’hai visto questo Corno
dell’abbondanza?».
Dall’altra parte del buco della serratura ci fu un silenzio tale da farle
pensare che Elizabeth se ne fosse andata. Alla fine le arrivò la risposta, più
stanca che arrabbiata.
«Te lo ripeto, non posso dirti niente. Non soltanto perché non voglio, ma
anche perché noi collaboratori non abbiamo nessuna visione d’insieme del
progetto. Mi dedico al compito che mi è stato assegnato, punto e basta.
Dovresti fare la stessa cosa. Ah, stavo quasi dimenticando».
Rumore di carta sotto la porta. Ofelia guardò il foglio e riconobbe subito
la mano di Seconda, probabilmente il disegno che aveva fatto durante
l’aggressione di Cosmos. Stavolta non era una nuova versione di Octavio,
ma un autoritratto che illustrava fedelmente, con una certa crudeltà, le
sproporzioni del viso, le sopracciglia diverse, il naso storto, i primi brufoli,
le labbra sfalsate, le orecchie disuguali e l’occhio senza iride. Chissà per
quale ragione ci aveva aggiunto un grande tratto a matita rossa che le
sbarrava metà faccia.
Sul retro del foglio ebbe la sorpresa di trovare un altro disegno. Sgranò
gli occhi. Per la prima volta raffigurava lei, Ofelia, minuscola in mezzo al
foglio bianco. Al suo fianco c’erano due personaggi: una donna
vecchissima a destra e un’indefinibile creatura mostruosa a sinistra. Ma non
era tutto. Seconda aveva usato la matita rossa sul piccolo corpo di Ofelia
fino a farlo praticamente sparire. Sangue.
«Seconda ci ha tenuto moltissimo a darmelo» disse Elizabeth dietro la
porta. «Voleva che lo facessi arrivare a te, credo. Evidentemente conta sul
fatto che domani lo consegnerai ai collaboratori. Non chiedermi perché, ma
l’osservatorio conserva in archivio tutti i disegni di Seconda. Ora devo
andare. La conoscenza è al servizio della pace».
Su quel saluto pronunciato con ritrovato fervore Elizabeth si allontanò. I
suoi passi si persero in fondo al corridoio. Ofelia ci rimase male. Elizabeth
l’aveva delusa. Come Octavio, era passata attraverso la stessa crisi di
coscienza, ma al contrario di lui aveva fatto la scelta di non scegliere.
Ciò detto, sul proprio lavoro aveva rivelato a Ofelia molto più di quanto
credesse. L’impiego del verbo “decodificare” non era privo di significato.
Quella precorritrice aveva rivoluzionato la banca dati del Memoriale grazie
al solo linguaggio in vuoti e pieni delle schede perforate. Se era stata capace
di inventare un proprio codice, di sicuro sarebbe stata capace di decifrare il
codice di qualcun altro.
Peraltro sembrava convinta che il proprio lavoro sarebbe stato utile a
Helena. Ma cosa poteva desiderare di più uno spirito di famiglia se non
capire il proprio Libro? L’osservatorio si aspettava da Elizabeth la stessa
cosa che Faruk si era aspettato da Ofelia, l’impresa che nessuno fino a quel
momento era riuscito a compiere: decifrare la lingua utilizzata da Eulalia
Diyoh per creare gli spiriti di famiglia.
Ofelia non sapeva ancora come e perché, ma anche quello faceva parte
integrante del progetto Cornucopiando. Aveva così tante cose da dire a
Thorn...
Osservò pensosa la luce che scemava dietro le persiane. Era scesa la sera
e ancora non aveva la minima idea di come recarsi all’appuntamento. Alla
fine aveva deciso di non servirsi di Elizabeth come messaggera. Era una
cittadina troppo indottrinata, sarebbe stata capace di denunciarla subito
dopo averla aiutata.
Doveva trovare il modo di cavarsela da sola.
Evitò di guardare il regalo di Seconda alla luce incerta delle lampadine,
di vedersi di nuovo piena di sangue. Si rifiutò di pensare all’incidente del
chiodo. No, quel disegno non aveva niente a che fare con la visione della
vetreria. La vecchia non rappresentava Eulalia Diyoh, il mostro non
rappresentava l’Altro, il bianco del foglio non rappresentava il vuoto che li
avrebbe inghiottiti tutti.
Non era certamente quella la fine della storia.
Strappò il disegno e lo buttò nel gabinetto, e pazienza per gli archivi
dell’osservatorio! Appoggiò l’orecchio al buco della serratura. Prima sentì
una serie di rumori soffusi, gli invertiti che tornavano nelle proprie camere,
poi il cigolio metallico delle tate-automa che chiudevano a chiave tutte le
porte prima di lasciare la residenza.
Quando il silenzio fu completo Ofelia andò alla persiana e infilò le dita
tra i listelli alla ricerca della presa migliore, poi tirò con forza più e più
volte. In quel luogo tutti gli oggetti avevano un difetto. Non aveva trovato
quello della porta, avrebbe trovato quello della finestra. Un cardine cedette,
poi un altro. All’ultimo strattone si ritrovò sul letto con la persiana tra le
mani.
Guardò la notte. Il vento tiepido le sollevò i capelli. Era la prima volta
che osservava il retro della residenza. La facciata era a picco come una
falesia. Intuì, a qualche metro dalla sua finestra, le persiane delle camere
vicine. Fuori portata. Alzò la testa verso i piani superiori. Inaccessibili.
Allora cercò il suolo per valutare la distanza. Non lo trovò. Strizzò gli occhi
nella speranza di scacciare quella miopia che trasformava le stelle in una
schiuma informe di luci. In basso non c’era selciato né giardino né tetti.
Non c’era niente.
La finestra della camera affacciava sul vuoto.
Ofelia camminò lentamente all’indietro come se tappeto, parquet e
mattoni si stessero sfaldando sotto i suoi piedi. Si rincantucciò nell’angolo
della stanza più lontano da quel quadrato di notte che creava un risucchio
d’aria. La sensazione di vertigini la faceva volteggiare all’interno del
proprio corpo.
Non sarebbe mai riuscita a scalare quel muro con la prospettiva del nulla
in caso di caduta, non con due mani sempre più maldestre. Non sarebbe
potuta andare da Thorn quella notte né mai.
Quel luogo era più forte di lei. Più forte di loro.
Si dette un pizzicotto nel punto in cui Cosmos l’aveva morsa. Il dolore le
fece l’effetto di una scarica salutare. Non avrebbe rinunciato così in fretta,
dopo tutto quello che aveva fatto Thorn per darle un appuntamento. Doveva
riprendersi e ragionare. Sforzarsi di pensare come una Babeliana. La città
era composta da una grande quantità di arche minori, vivere accanto al
vuoto faceva parte della quotidianità da così tanto tempo che l’architettura
vi si era adattata. Mai l’osservatorio avrebbe corso il rischio di alloggiare
pazienti da studiare in prossimità di un pericolo mortale.
Respinse le vertigini in un angolo della mente, poi prese un cuscino dal
letto e lo lanciò fuori. Il cuscino ricadde in pieno sulla facciata, subito sotto
la finestra, facendosi beffe della gravità che avrebbe dovuto trascinarlo in
basso.
Un transcendium.
Inspirò profondamente e si issò sul davanzale facendo del suo meglio per
ignorare il frastuono prodotto dal battito del suo cuore. L’istinto le urlava
che sarebbe caduta, la notte sembrava già risucchiarle il piede che aveva
sporto all’esterno.
Era un transcendium. Un transcendium. Un transcendium.
Posò il ginocchio sulla pietra. Si concentrò interamente sul cuscino
spalmato sulla facciata a pochi centimetri da lei. Doveva dimenticare l’idea
di alto e basso. L’unica legge che esisteva in quel momento era quella che
manteneva il cuscino fermo contro la parete.
Dopo interminabili manovre si ritrovò inginocchiata sul muro.
“No, non sul muro” si disse convinta. “Sul pavimento”.
Voltò risolutamente le spalle al vuoto, cioè all’orizzonte, e salì, cioè
camminò, lungo la facciata. Centinaia di volte aveva usato un transcendium
al Memoriale e alla Buona Famiglia, ma nessuno l’aveva mai messa tanto a
disagio come quello. E se anche l’architettura dell’osservatorio fosse stata
difettosa? Se un solo passo di lato fosse bastato ad annullare gli effetti della
gravità artificiale?
Sentiva le asperità di ogni mattone sotto la pianta dei piedi. Finalmente
raggiunse il cornicione. Ce l’aveva quasi fatta. Dovette contorcersi per
passare dalla verticalità della facciata all’orizzontalità del tetto, e dopo
esserci riuscita rimase per un po’ stesa sulla schiena con le gambe tremanti
e gli occhi puntati verso le stelle. Aveva il pigiama fradicio di sudore. Pensò
ai pezzi di arca crollati e ai dirigibili che avevano spedito in cielo
nonostante il pericolo. Era più di un pensiero, ormai era qualcosa di inciso
all’interno del suo corpo.
Il tetto a gradoni scendeva verso il chiostro in terrazze successive. Ofelia
si storse la caviglia più volte, ma alla fine atterrò sul lastricato di una
galleria. Tornare in camera sarebbe stata un’altra bella sfida, ma ci avrebbe
pensato dopo.
Corse attraverso il buio labirintico del chiostro senza preoccuparsi dei
sassi sotto i piedi o delle punture di zanzara sulle braccia. Smise di correre
solo quando arrivò ai piedi del colosso, davanti all’entrata del tunnel
scavato sotto la base della statua.
Un’ombra tra le ombre la accolse con uno scatto di orologio.
«Abbiamo sei ore e quarantasette minuti prima che suoni il gong del
mattino».
Ofelia avanzò lentamente. Alto, basso, destra e sinistra tornarono al
proprio posto nell’attimo in cui le braccia di Thorn la strinsero. Finalmente
aveva trovato un punto di ancoraggio.
L’OMBRA
Appena sentì girare la chiave nella serratura Ofelia non perse tempo. Si
mise i guanti e gli occhiali che aveva nascosto sotto il letto e tolse la
persiana che ormai si reggeva su un solo cardine. La sua prima fuga era
passata inosservata. Si augurò che ancora una volta la fortuna fosse dalla
sua parte.
Uscì dalla finestra. Camminare sul muro di notte era una cosa, farlo in
pieno giorno con una vista mozzafiato sul vuoto e il vento bollente in faccia
era tutt’altra. Quando lo raggiunse, il tetto rovente della residenza le
martoriò le piante dei piedi.
L’ispezione a sorpresa di Thorn nell’area di confino aveva fatto effetto.
Come pupazzetti in miniatura, le figure in saio grigio erano tutte intorno
alla sua scintillante uniforme.
Ofelia scese da una terrazza all’altra fino a raggiungere, dopo varie
acrobazie e quasi altrettanti lividi, un frutteto. Se aveva capito bene
l’itinerario era arrivata ai quartieri dei collaboratori. Rimaneva la cosa più
difficile. Aveva poco più di un’ora per scoprire i segreti di quel posto.
Attraversò un’infermeria, uno scriptorium, una biblioteca e una cucina da
cui emanava un profumino vergognosamente buono: non era certo lì che
preparavano i pasti per gli invertiti. Tutti i locali erano privi di finestre,
conformemente alla planimetria che Thorn le aveva fatto imparare a
memoria: una cosa che poteva giocare a suo favore. L’illuminazione
sfrigolante delle lampadine faceva tremolare le ombre. Se non altro il
diversivo era stato un successo: Ofelia non incontrò nessuno.
Almeno fino al centro del luogo. Si rifugiò in un angolo morto giusto in
tempo: due collaboratori montavano la guardia. Ofelia azzardò una rapida
occhiata. Tonache fruscianti, camminavano uno di fronte all’altro in
corridoio con il cappuccio sulla testa, completamente muti. Uno andava
avanti, l’altro camminava all’indietro. Dopo vari passi si scambiarono i
ruoli senza dire una parola. Quello che indietreggiava si mise ad andare
avanti e viceversa.
All’altra estremità del corridoio c’era una porticina chiusa. Sorvegliata
com’era, doveva essere quella dei laboratori. Almeno per il momento,
Ofelia non avrebbe potuto raggiungerla senza essere vista. Lei e Thorn
avevano previsto l’eventualità. Si acquattò nella penombra sperando di non
dover aspettare troppo. Ogni minuto che passava lì era un minuto sottratto
al poco tempo che aveva a disposizione.
Finalmente le lampadine si spensero. Era l’interruzione di corrente
promessa da Thorn. Il luogo, senza finestre, si ritrovò immerso
nell’oscurità. Ci fu un rumore di due corpi che si urtavano, poi un mormorio
stanco.
«Un altro guasto?».
«Un altro guasto».
Ofelia si lanciò nel corridoio sulla punta dei piedi rasentando il muro per
evitare ogni contatto con i due collaboratori. Localizzò la porta del
laboratorio. Doveva aprirla alla cieca e doveva pure sbrigarsi prima che
tornasse la luce! Le sue mani sulla maniglia confondevano destra e sinistra,
i gesti più banali erano diventati di una complessità snervante. Finalmente
uno scatto. Si infilò nello spiraglio e richiuse la porta accostandola un
centimetro alla volta per non farla cigolare.
Era dall’altra parte.
Addossata alla porta chiusa osservò con gli occhi, le orecchie e tutti i
sensi le tenebre che aveva di fronte. E se Thorn si fosse sbagliato? Se
qualche collaboratore fosse rimasto nei laboratori? Se il ritorno della luce
avesse tradito la presenza di Ofelia in mezzo a loro?
Le lampadine si riaccesero tutte insieme. Non c’era nessuno.
Si trovava in un’ampia sala divisa in settori separati da spesse pareti,
come cellette di un alveare. Tornata l’elettricità, i ventilatori a soffitto si
rimisero in moto e l’aria si fece più respirabile. Sui muri c’erano
attaccapanni vuoti, certamente destinati ai cappucci dei collaboratori.
Così come nell’area di confino, anche lì erano ammassate casse piene di
oggetti fallati: pettini senza denti, gioielli falsi, barattoli bucati, cucchiai
storti, cibo da buttare e ancora niente che potesse somigliare a un Corno
dell’abbondanza. Era frustrante non riuscire a trovare da nessuna parte la
causa di effetti constatabili dappertutto.
In fondo a un bidone della spazzatura trovò un pince-nez malridotto.
Forse un collaboratore ci si era seduto sopra per sbaglio. L’unica lente
rimasta attaccata alla montatura era rotta. E nera.
Ofelia se la appoggiò su un occhio, sotto gli occhiali, e la sua percezione
del mondo cambiò all’istante. Ogni parete, ogni lampada e ogni oggetto
avevano un’aureola di un esile vapore bianco che si scomponeva e
ricomponeva di continuo. I ventilatori, come eliche di una nave,
proiettavano la propria aureola nell’aria in grandi cerchi concentrici.
«Ma che razza...?».
Il mormorio sfuggito dalle sue labbra si materializzò come condensa e a
sua volta si propagò nell’aria.
Cercò di prenderlo. La sua mano le apparve allora doppia. Una era nera e
solida come la lente che teneva incollata all’occhio, l’altra era bianca e
vaporosa e si sovrapponeva male alla prima.
Ma le sorprese non erano finite.
A ogni gesto che faceva, e anche che non faceva, Ofelia proiettava
intorno a sé un po’ della sua ombra che certe volte, prima di disperdersi
completamente, tornava da lei in una forma diluita, come il riflusso di
un’onda, ma talmente piccolo da risultare quasi impercettibile nonostante la
lente speciale.
E non vedeva soltanto le ombre. Vedeva anche gli echi.
I pince-nez degli osservatori funzionavano come il negativo di una
pellicola rivelando ciò che non era visibile a occhio nudo. Appena si tolse la
lente, ombre ed echi scomparvero. L’avrebbe volentieri portata con sé, ma il
vetro già rotto le si sbriciolò fra le dita.
Così ogni cosa aveva un’ombra. O meglio, ombre ed echi erano
manifestazioni diverse di uno stesso fenomeno.
Ottimo inizio.
In cerca di risposte, ispezionò i laboratori uno dopo l’altro. Trovò
alambicchi spenti, lavagne ricoperte di equazioni, bilance simili a quelle
degli uffici postali e una quantità di altri strumenti di misura. La sua
goffaggine peggiorata e il morso di Cosmos non le furono di grande aiuto
per aprire i cassetti. I taccuini scientifici erano incomprensibili.
Due parole ritornavano dappertutto: “aerargyrum” e “cristallizzazione”.
Non aveva idea di cosa significassero, ma trovò un bollettino con la foto di
Cosmos e lo sfogliò. Ogni riga corrispondeva a un giorno, ma la frase
scritta accanto alla data era sempre la stessa: Soggetto inadatto alla
cristallizzazione e non reclamato dalla famiglia. Mantenere al protocollo I.
Ofelia consultò gli allegati. Riprendevano alcune foto simili a quelle che
aveva visto negli appartamenti direttoriali. Su ognuna vedeva un’ombra
dissociarsi dal corpo di Cosmos, come se un altro se stesso avesse fatto un
passo di lato. Alle foto erano annesse dozzine di disegni in cui, con una
certa sorpresa, riconobbe la mano di Seconda. In realtà più che disegni
erano schizzi, e raffiguravano tutti la stessa sagoma scura. Sotto ogni
immagine un collaboratore aveva scritto la data del giorno.
Seconda vedeva quindi le ombre della gente? Se così era, perché i suoi
disegni erano importanti, visto che l’osservatorio era già in grado di
fotografare le ombre?
Si affrettò a cercare il proprio bollettino. Lo trovò in uno schedario a
parte. Era meno pieno di quello di Cosmos, perché era stata ammessa al
programma alternativo solo di recente, ma da principio il rapporto
quotidiano era identico: Soggetto inadatto alla cristallizzazione e non
reclamato dalla famiglia. Mantenere al protocollo I.
Le venne però un accidente notando che ultimamente la frase era
cambiata in: Soggetto adatto alla cristallizzazione e non reclamato dalla
famiglia. Mantenere provvisoriamente al protocollo I. Avviare presto ai
protocolli II e III.
Controllò gli allegati. Eppure le foto erano le stesse che già conosceva,
quelle con uno sfasamento tra il corpo e l’ombra. Niente di nuovo. Fu la
stessa cosa con gli schizzi di Seconda, almeno i primi, perché i più recenti
avevano una particolarità: tracciata in fretta, l’ombra si stava fendendo,
come se avesse ricevuto una brutta sforbiciata all’altezza della spalla e
stesse per perdere il braccio.
Ofelia non aveva visto niente del genere attraverso la lente. Seconda
intuiva forse ciò che foto e pince-nez non mostravano ancora?
Pensò al chiodo. Pensò alla propria immagine imbrattata di rosso, pensò
alla vecchia e al mostro.
Un abbassamento di corrente nelle lampadine la riportò alla missione.
Doveva sfruttare il prossimo guasto per andarsene dai laboratori senza
essere vista. Il tempo stringeva.
Il disordine presente in un ufficio attirò la sua attenzione. Decine,
centinaia di appunti affollavano ogni centimetro quadrato di lavagna o
parete. L’occupante del box era perfino arrivato a scrivere direttamente sul
prezioso legno del piano di lavoro, cosa a cui un addetto alle pulizie aveva
risposto con un biglietto posato accanto: E la carta è per i marsupiali?
Esaminò gli appunti da vicino. A tratti riconobbe il testo caratteristico dei
Libri. Frecce e cerchi a gessetto cercavano di dare un senso a quegli
arabeschi. Senza grande successo, a giudicare dal numero di cancellature.
Il lavoro di decodifica di Elizabeth.
I Genealogisti l’avevano manipolata a quello scopo. Ma perché i Libri
erano così interessanti per loro? Forse perché contenevano il segreto
dell’immortalità degli spiriti di famiglia? E l’osservatorio delle Deviazioni?
Cosa si aspettavano esattamente da quella decodifica? Che rapporto c’era
con le ombre e gli echi? E con il Corno dell’abbondanza?
A quei ritmi Ofelia non avrebbe trovato nessuna risposta prima del quinto
colpo di gong. Le sembrava di avere la mente compartimentata come i
laboratori: stava continuando a vedere gli ingranaggi, ma non il
meccanismo.
Basta così.
Eulalia Diyoh aveva trasmesso la sua memoria all’Altro che a sua volta
l’aveva trasmessa a Ofelia. Era arrivato il momento di farne buon uso. Prese
una sedia e sedette davanti a una lavagna nera che Elizabeth aveva riempito
di codici. Una lingua inventata molto tempo prima da Eulalia.
“Una lingua inventata da me” si corresse facendo un profondo respiro.
Se ne sarebbe servita per scatenare un’altra visione. Fissò ostinatamente
la scrittura sforzandosi di non pensare al tempo che passava, alla propria
impazienza, al futuro e al passato, ma solo alle tracce di gessetto che le
stavano di fronte. Era lo stesso procedimento della lettura.
Dimenticare se stessi per ricordare meglio.
Un lampo le squarciò il cranio. Il mal di testa che non la abbandonava
mai da quando era entrata all’osservatorio si fece più acuto. Ofelia ebbe la
sensazione paradossale di decollare dalla sedia pur cadendo dall’alto. Il
gesso della lavagna si trasformò in stratosfera, poi in nuvole sparpagliate,
poi nel vecchio mondo, poi in una città devastata dai bombardamenti, poi in
un vecchio quartiere in ricostruzione, infine in un tavolino basso su cui
luccicavano due tazze di porcellana.
Eulalia tiene la sua con le mani magre sostenendo lo sguardo del portiere
dall’altra parte del tavolo. Occhiali di tartaruga contro occhiali di metallo.
L’uomo è invecchiato parecchio dall’ultima volta. Il velo del turbante
continua a nascondergli la mascella o ciò che ne resta. Come Babel, anche il
suo viso è devastato dalla guerra.
«È il tuo primo fottuto permesso in quattro anni e vuoi vedere me?»
grugnisce da sotto il velo.
Eulalia annuisce.
«Hai un aspetto terribile. Sembra che tu abbia la mia età».
Eulalia annuisce di nuovo. In effetti deve aver perso almeno la metà della
sua aspettativa di vita. Nessuno ti dà niente per niente. Ma non ha rimpianti.
«Ho saputo dell’orfanatrofio».
«C’è poco da dire. Una fottuta bomba ha fatto fuori i marmocchi. Tutti
sono andati via dall’isola, compreso me. Un portiere senza scuola non ha
nessun fottuto senso».
Eulalia lo capisce visceralmente. Ha l’impressione che le abbiano
strappato la famiglia per la seconda volta.
«La riapriremo» gli promette. «Io e te da soli».
Il portiere sta seduto con rigidità militare, ma intorno alla tazza le sue
mani hanno trasalito.
«Avrò tirato le cuoia prima che ti lascino tornare alla vita civile».
Dà un’occhiata furtiva fuori, ai soldati sull’attenti davanti alla porta del
bistrot. Da quando Eulalia lavora all’osservatorio sul Progetto non può
andare da nessuna parte senza averli alle costole. Non sono lì per proteggere
la sua vita, come sostengono i superiori, ma per evitare che divulghi
informazioni.
«Riapriremo la scuola» insiste lei. «Una scuola completamente diversa
pe-per bambini completamente diversi. Ma devo sapere se sei con me».
Il portiere la guarda bere il tè senza toccare il suo.
«Come dirti di no? Sei sempre stata la mia fottuta preferita».
Eulalia lo sa. All’orfanatrofio era l’unica bambina a non aver paura di lui.
Mentre gli altri giocavano alla guerra lei andava a trovarlo in portineria per
parlare di pace universale e raccontargli storie in cui i disertori erano gli
eroi.
Ignora i soldati che la tengono nervosamente d’occhio dalla porta. Conta
solo il suo amico, un vecchio che come lei non ha più niente da perdere.
«No-non ho l’autorizzazione né l’intenzione di parlarti del Progetto. Non
ti dirò mai quello che ho visto, c-che ho sentito, le cose a cui ho partecipato
e tutto ciò che il Progetto ha cambiato in me. L’unica cosa che posso dirti è
che all’oss-osservatorio stanno sbagliando strada».
Il suo balbettio residuo fa sollevare un sopracciglio al portiere. Sa che per
risolverlo le ci vorranno settimane, forse mesi di rieducazione, e i medici
l’hanno avvertita che non sarà mai del tutto al sicuro da una recidiva dei
lapsus. Ma, ancora una volta, è un prezzo irrisorio da pagare.
Alza gli occhiali verso il pezzetto di cielo sopra di loro. Il tetto del locale
è in corso di restauro. Le martellate degli operai non sono propizie alla
conversazione, ma neanche agli ascolti indesiderati.
«I miei s-superiori stanno pensando solo a una pa-pace per la città, una
pace che implica nuo-nuove guerre. Bisogna pensare più in grande. Molto
più in grande. Ho un piano».
Il portiere non risponde, ma Eulalia sa che la sta ascoltando molto
attentamente. L’ha sempre ascoltata. È uno dei motivi per cui lei l’ha scelto.
«Non saremo soli. Ho... Diciamo che in qualche modo ho conosciuto
qualcuno, una persona straordinaria che ha trasformato la mia visione del
mondo. Ha trasformato me. Mi ha insegnato che esiste qua-qualcos’altro di
ancora più straordinario, qualcosa che va al di là di tutto ciò che tu possa
concepire, di tutto ciò che io stessa concepivo, benché non sia mai stata
sprovvista di immaginazione».
Solo a citare l’Altro, Eulalia si sente già fremere di esaltazione. Le è
diventato così intimo che intuisce la sua presenza su ogni superficie
riflettente a portata di mano, gli ottoni del bistrot, il tè nella tazza, perfino le
lenti dei suoi occhiali. Lui è lei e lei è lui. Unici e plurali.
«Qual è il piano?».
La domanda del portiere è priva di ironia. L’ardore di Eulalia gli ha
acceso una scintilla di speranza. La conosce fin dal primo giorno che è
arrivata all’orfanatrofio, ma non l’ha mai davvero considerata una bambina,
e lei lo sa. In quel momento la guarda come se fosse sua madre, come se
fosse la madre dell’intera umanità.
A Eulalia piace quello sguardo.
«Salvare il mondo. E stavolta so come».
Dalla porta un soldato le indica la pendola. Il suo permesso è terminato.
Dovrà tornare all’osservatorio e ubbidire agli ordini, ma non per molto
ancora. Oh no, non per molto.
Mentre posa una banconota sul tavolo ne approfitta per sporgersi in
avanti.
«Mi servono solo tre cose: echi, parole e una contropartita».
La faccia stupita del portiere tornò a essere gesso sulla lavagna. Ofelia
sbatté le palpebre senza osare respirare, ancora impregnata dalla memoria di
Eulalia Diyoh. Ramificazioni e nuovi collegamenti si sviluppavano nella
sua testa dolente aprendo porte su stanzette interne di cui non supponeva
l’esistenza.
Vedeva il meccanismo.
Sapeva che doveva andarsene da quel luogo al più presto, tornare in
camera sua e aspettare la notte per vedersi con Thorn negli appartamenti
direttoriali, come d’accordo, ma voleva prima sincerarsi di un’ultima cosa.
Prese una lente d’ingrandimento dal cassetto di un collaboratore e un
oggetto a caso tra quelli fallati di cui erano piene le casse: una tortiera, che
stando all’odore nauseabondo doveva aver contenuto una delle disgustose
torte che ogni giorno propinavano al refettorio. Dovette aguzzare la vista e
aiutarsi con la lente per trovare quello che cercava: nel metallo erano incisi
alcuni caratteri microscopici simili a quelli dei Libri.
Sì, Ofelia aveva finalmente capito il meccanismo.
Il Corno dell’abbondanza non creava niente.
Convertiva gli echi in materia.
E lo faceva grazie a un codice.
Posò tortiera e lente d’ingrandimento dove le aveva trovate. Stava
cominciando a mettere insieme i pezzi del puzzle, ma li avrebbe disposti
nell’ordine giusto lontano da lì. Per prima cosa doveva trovare un modo di
sviare l’attenzione dei due collaboratori in corridoio, casomai non avesse
potuto contare su una nuova interruzione di corrente.
Non ne ebbe il tempo.
La porticina dalla quale era arrivata si aprì facendo entrare una folla di
collaboratori che si sbottonarono i cappucci grigi per appenderli
all’attaccapanni. Ofelia si nascose precipitosamente dietro un box. Perché
erano già di ritorno? L’ispezione di Thorn si era conclusa prima del
previsto?
Fra loro erano silenziosi come lo erano con gli invertiti. Si sentiva solo lo
scricchiolio del parquet sotto le suole dei sandali. Una volta tanto Ofelia fu
contenta di essere scalza mentre correva da una parete all’altra per non farsi
vedere. Ogni collaboratore si recò nel proprio laboratorio.
Sentendo avvicinarsi dei passi si affrettò a entrare nel box più vicino e
nascondersi sotto un piano di lavoro, sennonché il collaboratore che voleva
evitare entrò a sua volta nello stesso box. Si era messa in trappola da sola.
Acquattata nel suo nascondiglio osservò i lembi setosi del saio grigio
accarezzare il pavimento. Una mano, anch’essa inguantata in grigio, prese
lo sgabello, ma anziché piazzarlo davanti al piano di lavoro lo mise contro
una parete.
«Non è stato un incidente» mormorò il collaboratore. «Non so cosa sia
successo, ma certainly non è stato un incidente».
La sua voce aveva il timbro raffinato di un erudito. Ofelia pensò che
parlasse da solo, quando un mormorio soffocato gli rispose dall’altra parte
della parete.
«Non sono affari nostri».
«La figlia di lady Septima sono affari di tutti».
Per poco Ofelia non sbatté la testa contro la parte inferiore del bancone.
Era successo qualcosa a Seconda?
«Più che altro speriamo che non si sia danneggiata troppo» disse l’altra
voce. «Abbiamo bisogno di lei. Se non altro, l’incidente ha abbreviato
l’ispezione di sir Henry. Ho trovato la sua intrusione very spiacevole».
Il saio del collaboratore si agitò. Rannicchiata sotto il piano di lavoro,
Ofelia si protese cautamente in avanti per vederlo meglio. Era seduto sullo
sgabello con l’orecchio incollato contro la parete. Aveva il cranio pelato
lucido di sudore. Se non cambiava posizione, forse Ofelia sarebbe riuscita a
sgattaiolare fuori senza farsi notare.
«Danneggiata?» sussurrò in tono angosciato mentre Ofelia usciva dal suo
nascondiglio. «Ma è solo una bambina».
«Siete really ingenuo, caro confratello» rispose la voce dal box vicino.
«Ne riparleremo fra qualche mese. O meglio, non ne riparleremo affatto.
Rivolgetemi di nuovo la parola e mi vedrò costretto a denunciarvi alla
direzione».
Ofelia si precipitò fuori. Non era stata discreta, il collaboratore non
poteva non averla vista, avrebbe dato l’allarme.
Ma non ci furono allarmi né grida.
Il sollievo fu di breve durata. Anche se tutte le lampadine si fossero
spente in quel momento non ce l’avrebbe fatta a imboccare la porta senza
andare a sbattere su qualche collaboratore. Le serviva un’altra uscita.
Notò in fondo alla sala un tendaggio giallo al di sopra del quale era
scritto a grosse lettere SOLO OSSERVATORI. Non ricordava di aver visto
quell’accesso sulla planimetria di Thorn, ma almeno non avrebbe trovato
collaboratori dall’altra parte.
Scivolò lungo le pareti abbassandosi ogni volta che passava davanti a un
piano di lavoro.
Una collaboratrice stava scaricando un carrello appena arrivato su rotaie
con un carico di oggetti. Era la stessa paccottiglia di cui erano pieni tutti i
bidoni della spazzatura, ma la donna li maneggiava come se fossero pietre
preziose e li inventariava uno dopo l’altro in un apposito registro.
Ofelia passò alle sue spalle e si infilò dietro il tendaggio ritrovandosi in
un labirinto di scale mal illuminate che salì, scese e risalì inciampando. Da
dove uscivano quelle scale? Sulla planimetria non c’erano.
Alla fine sbucò in un corridoio.
In realtà era molto più di un corridoio. Era così lungo che non se ne
vedeva la fine e le volte a ogiva del soffitto si trovavano a varie decine di
metri dal suolo. Bastoncini di incenso diffondevano una nebbiolina
profumata rotta qua e là da lame di luce provenienti dalle alte vetrate. Era
una navata, tutta in pietra e vetro.
Suo malgrado ebbe un brivido.
Passò davanti a una vasca posata sulle spalle di una statua curva con la
bocca contratta per lo sforzo. Era una vera acquasantiera?
Camminò a lungo in linea retta senza mai scorgere la fine della navata.
Non poteva essere infinita... Le navate laterali ospitavano cappelle chiuse
da altrettante porte dietro ognuna delle quali poteva nascondersi un
osservatore. O, perché no, il Corno dell’abbondanza.
Gigantesche lettere d’oro erano incastonate nella pietra del pavimento.
Fece un passo. ESPIAZIONE.
Un altro passo. CRISTALLIZZAZIONE.
Un altro passo. REDENZIONE.
Quel posto metteva Ofelia maledettamente a disagio. Stava pensando di
fare dietrofront quando una voce la bloccò.
«Bienvenue al secondo protocollo».
L’ERRORE
Undici mesi, quattro giorni, nove ore, ventisette minuti e tredici secondi
prima.
In cima alla pagoda del colombario, sul punto più alto dei tetti
sovrapposti, appollaiato sul pinnacolo come un airone, ascolta le sirene
d’allarme. Un’esplosione di echi. Canto e grido insieme. Un altro pezzo di
mondo in meno!
Sorride all’alba nascente.
Povera Ofelia, che faccia starà facendo... Non si può dire che non sia
stata avvertita.
VERSO
L’INNOMINABILE
Lei prende.
Più che altro prende il sole, l’aria di mare.
Stamattina Eulalia si è alzata presto con il bisogno impellente di uscire
dal suo studio. Il giorno prima ha finito il suo ultimo romanzo. I tasti della
macchina da scrivere non si erano ancora raffreddati che l’ha gettato nel
cestino senza neanche rileggerlo. È il secondo dattiloscritto che butta via.
Da dove le viene quell’improvvisa insoddisfazione? Da quando ha
conosciuto l’Altro non ha mai smesso di sentirsi ispirata da tutto, mai.
Allora che c’è?
Eulalia tira su col naso.
Con i piedi nella sabbia, le mani in tasca e gli occhi puntati sull’oceano
inspira dolorosamente gli spruzzi. È senz’altro colpa degli attacchi di
sinusite. Non è facile conservare l’ottimismo quando si passa la notte a
cercare di respirare. È ancora giovane, ma si sente invecchiata
prematuramente. Ha offerto all’Altro metà della propria vita.
«Fottuto ragazzino!» urla una voce.
Eulalia si volta verso la scuola della pace, che occupa quasi tutta l’isola.
È la sua scuola. Cerca con gli occhi il portiere, che sta imprecando sempre
più forte in babeliano, e lo vede cinque metri al di sopra delle mimose in
stato di levitazione, reggendosi il turbante con le mani per non farlo cadere.
Sta minacciando Urano di dargli una lezione coi fiocchi se non lo fa
scendere subito.
La loro scuola. Sono cresciuti così in fretta... troppo in fretta. Pur essendo
ancora bambini, sono già tutti più alti di lei. Helena non riesce a spostarsi
senza rotelle. Belisama ha fatto accidentalmente spuntare un eucaliptus nel
suo letto. Mida ha trasmutato tutta l’argenteria delle cucine in sterco di
zebra. Venere ha nascosto un allevamento di boa constrictor nei bagni del
quarto piano. Davanti alla scuola Artemide ha rifatto identica a prima la
testa della statua del soldato, poi l’ha decapitata di nuovo. Il faro è in
riparazione da quando Djinn, Gaia e Lucifer si sono messi in testa di
inventare un nuovo fenomeno meteorologico. E Janus... Dov’è finito Janus?
Eulalia tira su col naso.
Se lo soffia senza riuscire a stapparselo. Quell’insoddisfazione di cui non
riesce a spiegarsi la causa le sembra più forte appena concentra la sua
attenzione sulla scuola. Contempla l’oceano e in lontananza, rosseggiante
alla luce del tramonto, il continente ancora e sempre in ricostruzione. La
guerra non è lontana. Ovunque si vada, la guerra non è mai lontana.
Pensa che avrebbero bisogno di un guardiano per proteggere la scuola.
Uno spauracchio. Presto prenderà il battello per tornare all’osservatorio.
Con il grande bombardamento laggiù sono tutti morti, come aveva predetto
l’Altro. Il Corno dell’abbondanza è nascosto da qualche parte sotto le
rovine, in un luogo che ormai solo Eulalia conosce. Si era ripromessa di non
convertire più niente, ma i ragazzi avranno bisogno di protezione fino a
quando non avranno raggiunto la piena maturità. Il portiere, che sta ancora
bestemmiando al di sopra delle mimose, non è più giovanissimo.
Quanto a Eulalia, avrà forse perduto metà della sua aspettativa di vita, ma
presto il tempo per lei si fermerà. La sua intera realtà cambierà.
Durante la passeggiata si imbatte in un grande castello di sabbia: a
giudicare dalla ricercatezza estetica deve averlo fatto Polluce. Un po’
sconcertata, si rende conto che avrebbe voglia di sfondarlo con un calcio.
«Diyoh?».
Eulalia solleva la testa verso Odino. Non l’aveva sentito arrivare. Lui si
tiene in disparte con lo sguardo di lato e la schiena curva, come se si
sentisse di troppo. Il suo alto corpo è una macchia bianca sulla spiaggia
rossa. È magnifico... e così imperfetto! Eulalia vorrebbe cacciarlo via e allo
stesso tempo abbracciarlo. Non fa né l’uno né l’altro.
«Vorrei farti vedere una cosa».
Odino si esprime nella lingua materna di Eulalia, quella che parlavano i
suoi genitori deportati, la lingua di una famiglia sparita e di un paese
lontano che quasi non ricorda più. Se tutto va secondo i suoi piani, un
giorno diventerà la lingua dell’intera umanità. Le guerre infatti scoppiano
quando non ci si capisce più.
«Col tuo permesso» aggiunge Odino di fronte al suo silenzio.
Eulalia tira su col naso.
Quel ragazzo è sempre prontissimo sia a chiedere il suo parere che a
metterlo in dubbio. Quando imparerà a definire se stesso indipendentemente
da lei?
«Fammela vedere» risponde.
Odino si raddrizza lentamente diventando ancora più alto, strizzando per
la concentrazione gli occhi translucidi, come un allievo di pianoforte che si
accinga a eseguire di fronte al maestro un brano provato cento volte. Tra le
sue mani quasi unite, una nebbiolina acquista gradualmente consistenza
fino a diventare un oggetto tangibile. Una scatola. Si sforza di non lasciar
trapelare niente, ma dal microscopico rilassarsi delle sue sopracciglia
Eulalia capisce che prova sollievo.
Gli prende la scatola dalle mani, ne saggia la solidità, la gira, la apre.
Ovviamente è vuota.
«Be’? Tutto qui?».
Odino sembra colto di sorpresa dalla reazione di Eulalia. A dire il vero è
sorpresa anche lei. È la prima volta che Odino riesce a stabilizzare
un’illusione, dev’essersi allenato molto per forzare in quel modo i limiti
della sua povera immaginazione.
Dovrebbe fargli i complimenti, è sulla buona strada.
«Dammi il tuo Libro» dice invece.
La faccia di Odino si scioglie come neve, tuttavia sta già estraendo
dall’interno del vestito il volume da cui non si separa mai. Soggetto a una
battaglia interna persa in partenza, con l’altra mano cerca invano di
trattenere il gesto. Come i fratelli e le sorelle, anche lui è programmato per
ubbidire ai suoi ordini. Eulalia lo sa bene, visto che è stata lei a inserire
quella specifica istruzione in ogni Libro.
Prende dalla tasca la sua fedele stilografica e svita il cappuccio con i
denti.
«Sei arrabbiata, Diyoh?».
Nello sguardo che Odino punta di lato Eulalia coglie un riflesso di amore
e odio aggrovigliati. Soffre per averla delusa e per essere stato deluso da lei.
Eulalia volta le pagine del Libro consapevole che sta mettendo mano a
ciò che Odino possiede di più intimo. Conosce a memoria ognuno delle
migliaia di caratteri che compongono il codice da lei inventato. Una sezione
determina la motricità di Odino, un’altra la sua capacità di analisi, un’altra
la sua percezione dei colori. Ha deciso, e affonda il pennino di metallo nella
pelle del Libro ignorando il grido soffocato di Odino, accettando il dolore
che sta infliggendo al suo stesso figlio. Con un tratto di penna, cancella una
riga di codice in modo da non intaccare il resto.
«Mangerai senza gusto e nessuna carezza ti sembrerà dolce» dice
restituendogli il Libro. «Ti ho tolto il diritto di provare piacere».
Odino si stringe al petto il Libro censurato. Il vento dell’oceano gli
solleva i capelli polari. Spalanca occhi pieni di disgusto e di adorazione, ma
sta attento a non guardare Eulalia in faccia. Malgrado ciò che gli ha fatto,
non vuole ferirla con quel potere che non controlla.
«È inchiostro ordinario» commenta Eulalia riavvitando il cappuccio della
stilografica. «Col tempo si cancellerà. Usa questo tempo per aiutarmi a
salvare il mondo».
Odino se ne va lasciandosi dietro le orme dei suoi passi nella sabbia.
Eulalia tira su col naso.
Si toglie gli occhiali più insoddisfatta che mai e senza capire perché.
Mentre soffia sulle lenti per pulirle, il sole al tramonto vi si rispecchia, e di
colpo vede lui, vede il proprio riflesso che gli fa un occhiolino complice.
Presto, dice l’Altro.
Eulalia scaglia gli occhiali il più lontano possibile. Le tempie le pulsano a
tutta velocità. Ha il naso dolorosamente tappato. Le scoppia la testa. Che le
sta succedendo? A forza di prendersi per Dio ha perso di vista se stessa?
Non sta scappando dal suo studio, ma dallo specchio che c’è dentro.
«Presto» mormora con voce tremante. «Ma non ancora».
L’ultima volta che Ofelia aveva visto il cavaliere era stato tre anni prima
alla corte di Faruk. Era stato condannato, mutilato e inviato di forza a
Helheim, un istituto dalla reputazione sinistra in cui venivano mandati i
ragazzacci del Polo.
«Non sono più lì».
L’adolescente aveva anticipato la domanda umettandosi un dito per
voltare la pagina del giornalino. La sua voce era così cambiata che Ofelia
non la riconosceva. Lo vedeva parzialmente per via della grata, ma le parve
molto cresciuto. I capelli gli scendevano in abbondanti riccioli biondi fin
sulle spalle. Nonostante la croce nera e i grossi occhiali di traverso sulla
faccia, Ofelia ne intuiva lo sviluppo osseo che aveva assorbito le rotondità
infantili. Notò che si rifletteva sul legno laccato del confessionale, pertanto
non era Eulalia Diyoh né l’Altro.
Il cavaliere non avrebbe dovuto trovarsi lì. La sua presenza in quella
navata, in quell’osservatorio, in quella parte di mondo era semplicemente
impossibile.
«Sei stato tu» disse Ofelia in un soffio. «Tutte quelle messinscene, la
pallottola del museo, l’automa vestito come mia madre... Hai consegnato
loro il mio passato su un vassoio d’argento».
Il sorriso del cavaliere rivelò che ai denti aveva l’apparecchio.
«Certo, gliel’avevo promesso».
«A chi?».
A Ofelia ronzavano le orecchie. Non si rendeva più conto del naso che le
colava né del ginocchio che si stava gonfiando. Il cavaliere era stato privato
del suo potere familiare, non poteva più imporle le sue illusioni avvelenate,
ma non per quello era meno nocivo. Avrebbe fatto bene ad andarsene da
quel confessionale al più presto.
«Di chi parli?» insisté con durezza. «Chi ti ha fatto lasciare Helheim? Chi
comanda davvero quest’osservatorio?».
Il cavaliere chiuse il giornalino, si tolse gli occhiali, si incollò alla grata
schiacciando la faccia contro la retina metallica e sgranò occhi chiari quanto
la sua croce era scura.
«Quelli che vedono le cose molto più in grande, signorina! Hanno parlato
con me come nessun adulto aveva mai fatto. Mi hanno offerto quella
seconda possibilità che il mio stesso clan mi aveva rifiutato».
Ofelia indietreggiò verso la parete quando le dita del cavaliere si
infilarono tra le maglie per afferrarsi alla grata.
«Ho aspettato così a lungo... Contavo ogni giorno in quell’orribile
istituto. Avete idea di quanto ho avuto freddo in quel posto? Pensavo che
almeno lei sarebbe venuta a trovarmi».
In bocca al cavaliere, “lei” poteva essere solo Berenilde. Ofelia notò che
aveva le unghie rosicchiate a sangue. La sua ossessione per Berenilde non si
era affievolita col tempo.
«Non è venuta» disse spiaccicando un sorriso sulla grata. «Mi ha
abbandonato. Ma io, il suo cavaliere, non la abbandonerò mai. Si sta
avvicinando il giorno in cui potrò provvedere a tutti i suoi bisogni. Mi
hanno promesso l’abbondanza! Io e voi abbiamo qualcosa in comune, se
non altro: un essere caro da proteggere».
A Ofelia piaceva sempre meno la piega che stava prendendo la
conversazione, sempre che di conversazione si trattasse. Il cavaliere era uno
specialista in monologhi. Neanche in quello era cambiato.
Sollevò la tendina e constatò stupita che il confessionale era circondato
da figure in giallo. Quant’era stata stupida! Aveva interpretato il proprio
ruolo alla perfezione. Loro avevano previsto tutto, dall’evasione attraverso
il passavivande al nascondiglio del confessionale. Il messaggio era chiaro:
qualsiasi cosa facesse, l’osservatorio aveva sempre una lunghezza di
vantaggio su di lei. Anzi, un eco di vantaggio. Probabilmente col contributo
dei disegni premonitori di Seconda.
Il cavaliere si rimise gli occhiali per darsi un contegno.
«Tutto ciò fa parte del Progetto» le spiegò in tono eccessivamente
educato. «Progetto al quale voi state partecipando da molto più tempo di
quanto non crediate. Siete speciale per loro, anche se a mio modesto parere
restate disperatamente banale. Sareste stupita di sapere quanto fossero già
molto ben informati su di voi! Da me volevano solo particolari... diciamo
più significativi del vostro passato: il valore che attribuite al museo di
Anima, il vostro ultimo giorno di lavoro nello stesso, il difficile rapporto
con vostra madre, cose così».
Infastidito dal caldo soffocante del confessionale, il cavaliere si
sventagliò col giornalino. Ofelia intravide dei cuccioli rosa sulla copertina.
Si sforzò di non far vedere quanto si sentisse oltraggiata.
«Non ti ho mai fatto confidenze del genere».
«Ma le avete fatte al vostro prozio. Ho letto tutte le lettere che gli avete
scritto quando eravate al Polo. Ma quel che so io ha poca importanza»
sottolineò mentre Ofelia contraeva le mascelle. «L’importante è ciò che
sanno loro. Per esempio sapevano che sareste venuta all’osservatorio di
vostra iniziativa. Era questione di tempo, dicevano, dovevamo solo avere
pazienza. Doveva essere una decisione vostra, capite, signorina? Tutto
l’esperimento dipendeva da quello, così come dipende da ciò che deciderete
adesso. O ve ne tornate buona buona nella cappella o ce la prendiamo con
messer Thorn, alias sir Henry. La mia dama ha vissuto piuttosto male il
fatto che io abbia decimato il suo clan, preferirei evitare di far del male
anche al nipote».
Ofelia aveva l’impressione che il sangue avesse smesso di scorrerle nelle
vene. Le parole del cavaliere le perforavano il petto. Sarebbe dovuta fuggire
con Thorn quando ne avevano avuto la possibilità.
«Voglio parlarci».
«Impossibile, signorina. Loro si sono impegnati a non fargli alcun male
finché darete prova di buona volontà, e mantengono sempre le promesse.
Giurin giurello!» assicurò disegnando in aria col pollice la croce che gli
anneriva il viso.
«Buona volontà per cosa?».
«Per espiare, cristallizzare e ottenere la redenzione. Dicono che ci siete
quasi, signorina, ma è un lavoro che non possiamo finire al posto vostro».
«Non ho nessuna colpa da espiare, ignoro cosa sia la cristallizzazione e
non so che farmene della vostra redenzione».
La voce di Ofelia era asciutta quanto lei. La rabbia le consumava la poca
acqua ancora presente nel corpo.
«Dicono che scoprirete tutto ciò da sola» rispose impassibile il cavaliere.
«E Mediana? So che era qui» si spazientì Ofelia a dispetto di ogni
prudenza. «È stata cristallizzata? Ha trovato la redenzione? Che ne avete
fatto?».
Il cavaliere scosse i riccioli biondi con aria annoiata.
«Le vostre domande sono prive d’interesse. Ce n’è una sola che merita di
essere posta: signorina Ofelia, piccola di Artemide, moglie di Thorn, miss
Eulalia» elencò allargando la bocca in un sorriso. «Sono molti ruoli per una
sola persona. Ma senza quei ruoli chi siete realmente?».
Assestò tre colpi al legno del confessionale. Un guanto sollevò subito la
tendina. Il colloquio era terminato. Il cavaliere si era già rituffato nella
lettura del giornalino rosicchiandosi il poco di unghie che gli restava.
Ofelia fu riaccompagnata alla cappella sotto buona scorta. Il ginocchio
gonfio la faceva zoppicare, ma si fece un punto d’onore di camminare dritta
e a testa alta. Non avrebbe fatto vedere quant’era scossa, no, non avrebbe
dato loro quella soddisfazione.
Quando la porta fu chiusa a chiave rimase in piedi tra i colori in
movimento della cappella, immobile come lo scheletro, rispondendo ai CHI
SEI? del pappagallo con un silenzio ostinato. Era già passata attraverso ogni
genere di esperienze che avevano messo il suo ego a mal partito: era stata
mortificata dalle Decane di Anima, umiliata dai cortigiani del Polo, rifiutata
dalla città di Babel...
Ma mai si era sentita messa così in ridicolo.
La ciotola era sempre in attesa davanti al passavivande. Una minestra di
riso ormai fredda. Dovette prenderla con entrambe le mani da quanto le
tremavano. Avrebbe voluto tirarla attraverso lo spioncino, invece bevve.
Avrebbe voluto urlare fino a farsi sentire da Thorn, invece tacque.
Capovolse la ciotola vuota. Il cibo era schifoso come quello del primo
protocollo. Se avesse avuto una lente d’ingrandimento forse avrebbe
scoperto caratteri microscopici impressi sulla porcellana. A ogni boccone
aveva mandato giù un ex eco convertito in materia. La sua pancia protestò.
Quel Corno dell’abbondanza era ben lungi dall’essere perfetto.
E se gli osservatori avessero raggiunto la perfezione che cercavano? Se si
fossero rivelati in grado di produrre cibo commestibile, acqua potabile,
oggetti funzionanti e terre che non sarebbero crollate? Se avessero deciso di
trasformarsi in nuovi dèi? Sarebbero stati potenti quanto Eulalia e l’Altro. E
altrettanto pericolosi.
Ma alla fine chi era la testa pensante?
«CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI?».
La ciotola le scivolò dalle mani e si spezzò a terra. Rotto il codice, tornò
subito allo stato di aerargyrum, proprio come il vecchio spazzino quando la
fucilata gli aveva bucato la placca sulla fronte. Aveva di nuovo fame e sete,
come se non avesse mangiato, e per quanto si passasse la lingua sul palato
lo sgradevole sapore della minestra era scomparso.
Guardò il pavimento di pietra su cui danzavano le luci colorate. Capiva in
quel momento che la cappella era una versione evoluta della cantina col
telefono. Ciò che a Eulalia aveva richiesto mesi, lì si sarebbe prodotto in
forma accelerata. Alzando gli occhi verso i riflettori meccanici Ofelia
avrebbe condannato la propria ombra. Le sarebbe sopravvissuta?
Di colpo le tornò in mente lo strano vapore che era emanato dal corpo del
cavaliere quando Faruk gli aveva tolto il potere familiare. All’epoca aveva
dunque visto l’aerargyrum? Era quello, cristallizzarsi? Rinunciare a una
parte di sé? E in che modo ciò avrebbe permesso di perfezionare il Corno
dell’abbondanza? Fino a quel momento aveva pensato che l’osservatorio si
servisse degli invertiti per attirare l’Altro ricreando le condizioni del suo
incontro con Eulalia Diyoh, ma lì non c’era cantina né telefono.
C’era solo un pappagallo, pensò dando un’occhiata all’automa fissato
alle mani dello scheletro, una macchina idiota condannata a ripetere lo
stesso eco.
«CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI?».
Ofelia si stese sul pavimento accanto alla statua scarnificata. Era così
vicina che vedeva le larvette scolpite uscirgli dalle cavità nasali. L’ultima
volta che l’avevano costretta a confrontarsi con se stessa era successo
nell’isolatoio della Buona Famiglia. Allora aveva dovuto affrontare il senso
di colpa e la vigliaccheria che le impedivano di andare avanti, e non aveva
nessuna voglia di ripetere l’esperienza un’altra volta.
In un ultimo impulso a resistere distolse lo sguardo dalla cupola e pensò a
Thorn.
“Mantengono sempre le promesse”.
Spalancò gli occhi sul caleidoscopio gigante sopra di lei, e lo shock ottico
la fece inarcare. La sua miopia trasformava le figure geometriche in uno
sciroppo di colori. Era come se le avessero infilato un arcobaleno nelle
pupille e continuassero ad affondarglielo nel cranio.
«CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI?».
Se le fosse restata un po’ di minestra in pancia l’avrebbe vomitata. Al suo
posto sputò una bile che le bruciò la gola. Respirò a fondo, aspettò che gli
spasmi si placassero, poi si stese di nuovo sulla schiena. Sopra di lei
migliaia di frammenti di specchio amplificavano la vetrata dell’oculo
reinventando sempre nuovi rosoni. Le sembrava di trovarsi di fronte a una
galassia impazzita.
Fu l’inizio di un lunghissimo spettacolo, sublime e allo stesso tempo
atroce. Ofelia trascorse ore stesa sulla pietra irradiata dai colori. Si
raddrizzava quando la testa le faceva troppo male o le sanguinava il naso o
aveva un capogiro, ma poi si rimetteva sempre giù e riprendeva il calvario
da dove l’aveva interrotto.
Al contrario di quanto aveva affermato il cavaliere, la scelta di continuare
o smettere non spettava a lei. Non se da essa dipendeva la salvaguardia di
Thorn.
Sulla cappella non scendeva mai il buio. Ben presto perse la nozione del
tempo. Aveva rinunciato quasi subito a contare gli innumerevoli CHI SEI? del
pappagallo e ripiegato sulle ciotole che le arrivavano dal passavivande, ma
il loro numero crescente non la tranquillizzava.
Neanche il proprio odore. Da quanto tempo non si lavava?
Si concesse pause il più possibile brevi, compatibilmente con le sue
esigenze fisiche, per dormire e mangiare un po’. Pensava che più a lungo si
sarebbe esposta al caleidoscopio e prima avrebbe onorato la sua parte
dell’accordo.
Come capire se era sulla buona strada? Di quando in quando il rumore
dello spioncino che si apriva la informava che era oggetto di osservazione
continua, ma nessuno le diceva qualcosa. Non un ordine, non un
incoraggiamento, nulla.
Eppure constatava dei cambiamenti. Niente affatto piacevoli.
Si era accorta che le lastre del pavimento si sfaldavano inspiegabilmente
nel punto in cui era solita sdraiarsi. Poi toccò alle ciotole disgregarsi in
pochi istanti fra le sue mani, costringendola a mandar giù la minestra in
tutta fretta prima che sparisse. Il suo animismo non era più soltanto
sregolato, era diventato distruttore. Servirsi del vaso da notte era un vero e
proprio incubo.
L’impazienza di Ofelia raggiunse il parossismo quando il suo potere di
Drago si ritorse contro di lei. Poco a poco braccia e polpacci le si
ricoprirono di graffi, come se passasse attraverso rovi invisibili.
Espiazione.
L’idea la disgustava. Di che cosa veniva punita? Era colpa di Eulalia e
dell’Altro se tutto andava di male in peggio. Un’umana pretenziosa e un eco
insaziabile. Avevano sacrificato parte del mondo con la scusa di salvarne
un’altra, avevano stretto un patto fra loro all’insaputa di tutti, e ora ne
cambiavano le regole.
No, non era colpa di Ofelia se l’Altro si era servito di lei, se lei
somigliava a Eulalia, se le arche crollavano e se Octavio era morto. Non era
colpa sua se aveva dovuto abbandonare la famiglia. Non era colpa sua se
non poteva fondarne una.
«CHI SEI?».
«CHI SEI?».
«CHI SEI?».
«CHI SEI?».
Chi è io?
La mia decisione.
La nostra decisione.
Si sono tutti fusi nel bianco, un bianco di carta, una pagina di libro in cui
Ofelia è solo sei lettere.
Un semplice ruolo.
E la pagina si lacera.
REDENZIONE.
LA BANCHINA
Vittoria era sempre stata affascinata dallo spioncino di casa. Quante volte
aveva sorpreso mamma a guardarci dentro anche se nessuno aveva bussato?
Quante volte aveva anche lei desiderato guardare fuori, al di là dei veri muri
e dei falsi alberi della casa?
Ormai aveva l’impressione di essere passata dall’altra parte dello
spioncino. Del mondo intuiva solo immagini miniaturizzate e suoni
minuscoli. Era talmente sprofondata nella grande vasca da bagno piena
d’ombre che non riusciva a muovere né percepire niente. Non aveva paura.
In realtà era appena cosciente della propria esistenza, si stava diluendo
come quelle pasticche d’aspirina che Mamma metteva nel bicchiere.
Sempre più spesso si domandava chi fossero quella Mamma e quella casa a
cui il pensiero la riportava in continuazione. Nella stessa occasione si
chiedeva anche chi fosse quella Vittoria che pensava a quella Mamma e a
quella casa.
Un rumore confuso dagli echi riportò la sua attenzione verso lo spioncino
del mondo sulla superficie della vasca. Non proprio un rumore, più una
voce. La voce di Padrino. Chi era Padrino?
Fino a quel momento Vittoria si era mantenuta fra due acque, memoria e
oblio, forma e non forma, ma sapeva che se fosse ricorsa alle ultime energie
per tornare in superficie, poi sarebbe caduta sul fondo della vasca e mai più
risalita.
Vedere Padrino un’ultima volta prima di dimenticarlo del tutto.
Si concentrò tutta intera sullo spioncino, sulla voce che ne proveniva, sui
colori che acquistavano senso man mano che ampliava il suo sguardo. Un
uomo si stava aggiustando i numerosi strappi della camicia. Era mal rasato,
mal pettinato, malvestito, ma ogni suo gesto era carico d’intensità.
Canticchiava. Il filo rosso che aveva scelto per il lavoro di alta sartoria
faceva a pugni con il bianco della stoffa, e a rammendo finito, quando si
rimise la camicia molto soddisfatto, a Vittoria sembrò che avesse il torace
disseminato di ferite. Le sembrava di ricordare che fosse lui Padrino, ma
meno si sentiva se stessa e più la sua percezione di lui, non più limitata
dagli occhi e dalle parole infantili, si faceva profonda. L’aveva trovato
bello, prima? Come aveva fatto a non accorgersi di quanto fosse sciupato
sotto l’eterno sorriso? Gli volle ancora più bene. Quell’uomo faceva parte
di lei da quando si era chinato sulla sua culla e le aveva sussurrato:
«Nessuno è degno di te, ma ci proverò ugualmente». Qualcosa dentro
Vittoria se lo ricordava meglio di lei stessa.
«Bocca a piè... tocca a te, ex ambasciatore».
La percezione di Vittoria si ampliò ulteriormente attraverso lo spioncino
fino a inglobare la donna di fronte a Padrino. Era la Piccola Signora con gli
Occhiali. Stavano seduti entrambi su un miscuglio di tappeti e cuscini,
separati da una tavola da gioco. La Piccola Signora con gli Occhiali
aspettava senza apparente fretta, inespressiva sotto i lunghi capelli scuri, ma
le ombre ai suoi piedi brulicavano freneticamente.
Padrino mise tre pedine nere una sull’altra e con un elegante gesto della
mano si portò via tutte le pedine bianche.
«Ti stai inventando le regole, ex ambasciatore».
«Mi adatto all’avversario, ex signora».
Vittoria li vedeva, ma vedeva anche le emanazioni che producevano a
ogni parola e ogni gesto, come altrettanti cerchi nell’acqua della vasca da
bagno. Certe volte alcune tornavano come echi.
Vittoria ampliò ancora la sua percezione. Si trovavano in un immenso
museo delle curiosità in cui erano riuniti oggetti provenienti dai quattro
angoli delle arche: chimere impagliate, sedie sospese a mezz’aria, libri
profumati, una grande mappa dei venti, nuvole sotto vetro, bilboquet
elettromagnetici, un quadro animato su cui una nave veniva sballottata dalla
tempesta a destra e a manca. Vittoria scoprì di poter attribuire a ogni
oggetto un’identità che non passava per le parole, come se ne avesse
conosciuto ciascuno in maniera profonda, come se dentro di lei ci fosse
qualcuno che ne sapeva molto di più e aspettava solo che lei si diluisse per
poter emergere. Ormai la sua percezione del luogo era così ampia che
poteva concepirlo nella sua integralità, nei suoi angoli più riposti, nelle sue
stanze intrecciate tra loro. Sentiva anche, al di là delle ultime pareti, lo
sfasamento spaziale che isolava quel posto dal resto dell’universo.
«Voi non mangiate mai?».
Padrino stava tranquillamente aprendo un barattolo di conserva con un
apriscatole, ma i suoi occhi chiari interrogavano la Piccola Signora con gli
Occhiali dall’altra parte della tavola da gioco.
«Non sono più sottomessa all’abnegazione ormonica... all’alienazione
organica da secoli, ex ambasciatore».
«Il che non impedisce che siate intrappolata qui insieme a noi, ex
signora».
Padrino strizzò gli occhi come per scrutare meglio la Piccola Signora con
gli Occhiali dietro la faccia rotonda, le labbra rosa, le lunghe ciglia e lo
strano vestito da cui spuntavano due ginocchia nude.
«Non riesco davvero ad abituarmi al vostro vero aspetto. Somigliate in
maniera incredibile alla nostra cara moglie di Thorn».
«Casomai è lei che somiglia a me».
L’apriscatole si bloccò tra le mani di Padrino.
«Come diavolo siete arrivata a rubare la faccia della gente? Il vostro
grazioso visino non vi piaceva più?».
La Piccola Signora con gli Occhiali alzò fiaccamente una spalla.
«Capisco» mormorò Padrino ritrovando il sorriso. «Non l’avete scelto, è
venuto da sé, avete giocato con forze che vi si sono rivoltate contro. Ma
perché non ci riuscite con gli spiriti di famiglia? Li avete creati voi, dopo
tutto».
«Senza i Libri gli spiriti di famiglia non sono niente» rispose la Piccola
Signora con gli Occhiali. «E non posso assumere la laccia di un fibro... la
faccia di un Libro».
Padrino aprì la scatola di conserva con gesto deciso.
«Ho cambiato idea. Voi e la moglie di Thorn non avete niente in
comune».
Da una stanza accanto giunse una scarica di improperi, un rumore
d’acqua e un miagolio di protesta. Un’altra donna mezza bruna e mezza
bionda si sbatté la porta alle spalle senza preoccuparsi della pozzanghera
che si lasciava dietro. Trasudava rabbia. Vittoria se la ricordava vagamente,
era la Signora dagli Occhi Strani. Il gatto che la seguiva – Vittoria ricordò
che si chiamava Salame – si scrollò con furia.
Col barattolo di conserva in mano Padrino fece un sorriso che era anche
un sospiro.
«Per pietà, ex meccanica, non ditemi che non abbiamo più il gabinetto.
Non do garanzie sull’epilogo di questo pranzo».
«Sto cercando una via d’uscita, io».
«Non la troverete in bagno né da nessun’altra parte. Non devo certo
spiegare a voi, allieva prediletta della compianta Ildegarda, cosa sia un non-
luogo. Non sono riuscito a invocare una sola scorciatoia verso il mondo
esterno, e Dio in persona» ridacchiò indicando l’avversaria, «non è riuscito
a uscire da qui nonostante le migliaia di poteri che possiede! Dobbiamo
avere pazienza, cara mia».
La Signora dagli Occhi Strani abbassò uno sguardo sprezzante sulla
tavola da gioco, ma dal modo in cui le sue vibrazioni colpivano la Piccola
Signora con gli Occhiali Vittoria capì che il suo odio era interamente
destinato a lei.
«Continuate pure a giocare. Smonterò questo posto mattone per mattone,
se necessario».
«Avevi promesso la messa storte... la stessa sorte anche a me» disse la
Piccola Signora con gli Occhiali.
La Signora dagli Occhi Strani staccò un giavellotto da una panoplia e lo
piantò ferocemente nella nuca della Piccola Signora con gli Occhiali, poi se
ne andò sbattendo di nuovo la porta. Vittoria non provò sorpresa né orrore
di fronte alla violenza della scena, solo un’intensa curiosità. Presto sarebbe
ricaduta in fondo alla vasca da bagno e non avrebbe provato più niente.
«Ve lo siete meritato» disse Padrino mettendosi in bocca un dito pieno di
pâté. «Prendere il posto di Renard è stata una pessima idea».
La Piccola Signora con gli Occhiali osservò pensosa la punta del
giavellotto che le usciva dalla gola. Con una contorsione grottesca del
bracciò afferrò il manico che le pendeva sulla schiena e lo estrasse con un
colpo secco. La ferita sul collo si richiuse subito senza una goccia di
sangue.
«Cambia poco che l’abbia ammazzato o risparmiato. Quella povera
ragazza non prede assente... non crede a niente di ciò che esce dalla mia
bocca. Ha già cercato di uccidermi quarantatré volte. Tu mai. Perché?».
Con un’espressione maliziosa Padrino dispose di nuovo le pedine sulla
tavola da gioco.
«Perché rinchiudendoci insieme in questo non-luogo Janus ha fatto di me
la vostra punizione, quindi mi sforzo di rendervi la mia compagnia il più
noiosa possibile».
La Piccola Signora con gli Occhiali posò il giavellotto accanto al cuscino
su cui era seduta. I suoi gesti erano calmi, ma le ombre sotto di lei si
agitavano sempre di più.
«Ci riesci benissimo».
«Meno di Thorn» mormorò Padrino muovendo una pedina con un dito
sporco di pâté. «Mi piacerebbe che fosse qui. È imbattibile nel guastare le
feste».
Anche la Piccola Signora con gli Occhiali mosse una pedina. Vittoria,
che decisamente non era più se stessa, vedeva nascere sulla tavola da gioco
tutti gli echi delle mosse che sarebbero state fatte. Si accorse di sapere già
come sarebbe andata a finire quella partita appena cominciata.
«Te lo ripeto, ex ambasciatore: ho dedicato la vita a salvare il mondo.
Ogni secondo che perdo in questo non-luogo lascia i miei figli fuori senza
protezione, e oggi ne hanno bisogno più che mai. Stai scolando l’antico...
stai sbagliando nemico».
Il sorriso di Padrino si allargò fino alle orecchie.
«L’Altro, eh? In tutta franchezza, ex signora, è un po’ troppo astratto per
me. È a causa vostra che il barone Melchior ha assassinato i miei ospiti. È a
causa vostra che la vecchia Ildegarda si è suicidata. È a causa vostra che il
mio legame con la Rete è stato interrotto e io sono stato rinnegato dalle mie
sorelle. Altro che salvare il mondo! Il mio, me l’avete distrutto».
La Piccola Signora con gli Occhiali scrutò Padrino con attenzione
lontana. Vittoria, a cui ormai non sfuggiva più niente, notò che gli occhi
sotto le lenti non riflettevano la luce delle lampade. La Piccola Signora con
gli Occhiali non si rifletteva né sul piano vetrificato della scacchiera né sul
sifone d’acqua gassata posato sul tavolo. Non si rifletteva da nessuna parte.
«È questo il gioco che vuoi fare, ex ambasciatore? Molto bene». La sua
pedina mangiò una dopo l’altra tutte le pedine di Padrino, come aveva
previsto Vittoria. «Il barone Melchior ha assassinato i tuoi ospiti in nome
mio, ma non era tuo dovere metterli al sicuro? Madre Ildegarda si è
suicidata per non farmi avere il suo potere, ma le hai mai dato una ragione
per vivere? Quanto alle tue sorelle, non hai mai pensato che aspettassero
solo un pretesto per liberarsi di un fratello troppo invadente? Credo che tu
abbia di brutto il rotondo... distrutto il tuo mondo da solo. Ti sei lasciato
dietro un’ambasciata nel caos, mogli morte di vergogna e mariti oltraggiati.
Sei sempre stato d’imbarazzo per la tua famiglia, per la nostra famiglia.
Quando morirai non mancherai a nessuno e nessuno ti mancherà».
Padrino osservò la scacchiera che esibiva la sua sconfitta.
«Quando morirò» ripeté sottovoce. «Voi sapete, vero? Da quando?».
«Ho preso la tua faccia e sono stata te» disse la Piccola Signora con gli
Occhiali. «Non a lungo, ma quanto bastava per sentire nel corpo la malattia
che ti consuma, la stessa malattia che si è portata via i tuoi genitori e che
cresce dentro di te giorno dopo giorno. Sappiamo tutti e due che hai i forni
smontati... i giorni contati. E sappiamo tutti e due che scappi dalle tue
sorelle perché temi che lo siano anche i loro».
Vittoria non aveva mai capito i discorsi dei grandi, ma ormai da qualche
parte dentro e intorno a lei c’era qualcuno che capiva tutto. Però ad aver
voglia di gridare non era quel qualcuno, era Vittoria. Per la prima volta da
parecchio tempo la Piccola Signora con gli Occhiali guardò nella sua
direzione strizzando gli occhi, come se avesse finito per intuire il suo
silenzio urlante.
Padrino fece una risatina e si toccò la goccia nera tra le sopracciglia.
«La mia trasparenza si è ritorta contro di me. Sono costretto ad
ammettere che avete ragione, ex signora, tranne su un punto: c’è almeno
una persona che mi mancherà».
Vittoria non sentì la fine della frase. Il non-luogo fu scosso da una specie
di violento singhiozzo, i quadri si staccarono dai muri, la tavola da gioco si
rovesciò e Padrino andò a finire tra le braccia della Piccola Signora con gli
Occhiali.
«Cos’ha sfasciato di nuovo quell’ex meccanica dei miei stivali?» disse
rimettendosi in piedi.
«Non sono stata io» grugnì la Signora dagli Occhi Strani.
Aveva aperto la porta dalla quale era uscita un attimo prima con un
trapano per mano e Salame tra i piedi.
«È questo».
Indicò il buco largo quanto un piatto che era apparso nel bel mezzo del
tappeto. Tutti si chinarono a guardare. Il buco dava su un’oscurità senza
stelle, ma nessuno sembrava vedere il turbine che l’aveva generato. Una
tempesta di echi. Vittoria si sentì risucchiata come se qualcuno avesse tolto
il tappo alla vasca e una forza la trascinasse non più soltanto in fondo, ma
molto più giù.
«I crolli» disse la Piccola Signora con gli Occhiali. «L’Altro sta
bucherellando lo spazio, neanche il non-luogo ne è indenne. Ora mi credi,
Janus?».
Si voltò verso il gigantesco uomo-donna che si ergeva dove un secondo
prima non c’era nessuno. Anche lui guardava il buco in mezzo al tappeto,
arrotolandosi un lungo baffo intorno a un dito con aria contrariata.
«Non ho scelta. C’è sempre più vuoto e sempre meno terra. E siccome
voi non siete uscita dal non-luogo, señora Diyoh, vuol dire che il problema
è altrove».
«Dammi l’ultimo potere che mi manca, Janus. Permettimi di trovare
l’Altro prima che faccia precipitare il mondo intero negli abissi, compresa
la tua arca».
«Il vostro Altro, señora, è ancora più imprendibile di me. Ho
sguinzagliato i miei migliori Orientatori, ma nessuno è riuscito a trovarlo».
«Bisogna sapere cosa si cerca. Voi non conoscete l’Altro come lo
composto zio... come lo conosco io. Fa’ che sia io la tua Orientatrice, Janus,
e tutto tornerà nell’ordine».
«Idea disastrosa» disse Padrino.
«Idea disgustosa» disse la Signora dagli Occhi Strani.
Vittoria non seppe quale fu la risposta dell’uomo-donna. Non sentiva più
niente. Il turbine inghiottiva i suoni e le forme. A un certo punto la Piccola
Signora con gli Occhiali sembrò vederla e tutte le ombre sotto di lei,
migliaia di ombre, allungarono le braccia verso Vittoria, ma nessuna la
ghermì. Il turbine la portò lontano dalla superficie, verso profondità in cui
non c’erano più confini tra ciò che era e ciò che non era.
Dimenticò Padrino, Mamma e la casa.
Dimenticò Vittoria.
ALLA DERIVA
Poi campanile e dirigibile non ci furono più. Ofelia aveva fatto un passo
fuori dal presente. Non era un’altra pagina del passato di Eulalia Diyoh.
Non era nemmeno la visione di un futuro sanguinoso. No, stavolta era la
propria memoria, la propria infanzia. Stava guardando se stessa nello
specchio a muro di camera sua su Anima. I suoi occhi insonnoliti non erano
ancora miopi, i capelli spettinati non si erano ancora inscuriti. Il suo corpo
oscillava tra l’infanzia e l’adolescenza. Un richiamo l’aveva tirata giù dal
letto.
Una richiesta d’aiuto.
Liberami.
«Eh?» aveva bisbigliato Ofelia.
Non voleva svegliare Agata che dormiva lì accanto. Forse avrebbe
dovuto. Forse sarebbe stato più ragionevole chiamare i genitori. Ofelia era
abituata alla personalità forte di certi oggetti, ma uno specchio parlante era
comunque una cosa strana.
Liberami.
Guardando meglio le era sembrato che ci fosse qualcuno dietro il suo
riflesso, una sagoma i cui contorni si discostavano leggermente dai suoi.
«Chi sei?».
Sono chi sono. Liberami.
«Come?».
Attraversa.
Ofelia si era sfregata gli occhi assonnati. Non aveva mai attraversato uno
specchio. Il padre lo faceva spesso da giovane, non doveva essere tanto
difficile. Si era chiesta se fosse il caso.
«Perché?».
Perché è necessario.
«E perché io?».
Perché tu sei chi sei.
Ofelia aveva soffocato uno sbadiglio, il suo riflesso aveva fatto
altrettanto. La sagoma nascosta dietro invece non si era mossa. Quella storia
non le sembrava reale. In verità non era neanche ben sicura di essere
sveglia.
«Posso provarci».
Se mi liberi cambierà tutto: io, te e il mondo.
Ofelia aveva esitato. La madre non le aveva mai permesso di cambiare
qualcosa. Le cose funzionavano così su Anima: erano sempre gli stessi
oggetti addomesticati, le stesse piccole abitudini e le stesse tradizioni che si
riproducevano generazione dopo generazione. La vita di Ofelia era appena
cominciata e lei già sapeva come sarebbe stata: un onesto lavoro, un bravo
marito e tanti figli. Nel mondo come lo conosceva lei non cambiava mai
nulla. Quando una voce sconosciuta aveva coniugato quel verbo al futuro,
per la prima volta Ofelia aveva sentito una curiosità nuova farsi strada
dentro di lei.
«Va bene».
Una pioggia mista a sole batteva sui rosoni che erano in realtà gli occhi
del colosso. L’ombra delle gocce colava sui sorrisi dei Genealogisti. Si
abbracciavano in maniera così appassionata da formare un solo e unico
corpo. L’oro eclissava il mondo intorno a loro, tanto che Ofelia ci mise un
po’ a realizzare che non erano soli.
Negli appartamenti direttoriali le guardie di Polluce stavano svuotando le
librerie del loro contenuto. Fascicoli di internati, immagini mediche,
prendevano tutto. Appena l’ascensore segreto si era aperto su Lazarus,
Ofelia, Thorn, Ambroise, Elizabeth e Walter si erano fermate, pronte a
mettere mano ai fucili a baionetta che portavano a tracolla. Aspettavano
solo un ordine dei Genealogisti.
L’uomo aveva segnalato loro di proseguire gesticolando con un pezzetto
di dolce mentre la donna si leccava le dita.
«Ma che bella sorpresa!».
«Cominciavamo a sentirci un po’ soli».
«Qui non c’è più nessuno».
«Né osservatori».
«Né collaboratori».
«Né pazienti».
«Non c’è un cane».
Ofelia dette uno sguardo dal rosone più vicino. In effetti chiostri e
giardini erano deserti. Dov’era finito l’uomo con la fossetta? E la donna con
lo scarabeo? E gli altri invertiti? E Seconda? E il cavaliere?
Accanto a lei, Thorn non lasciò trapelare alcuna emozione, ma a Ofelia
sembrò che l’orologio nella sua tasca avesse smesso di fare tic-tac. Thorn
aveva voluto battere in velocità i Genealogisti con cui aveva stretto e poi
rotto un patto, e gli era andata male. Lo sfrigolio elettrico dei suoi artigli, al
quale Ofelia alla fine si era abituata, era cessato di colpo. Alla sola idea che,
dopo aver guardato così spesso la morte in faccia, Thorn potesse avere
paura fu presa dal panico.
Ambroise, anche lui colpito, accarezzava la sciarpa per calmare
l’agitazione di cui si sentiva sempre più preda.
Nell’aria aleggiava una minaccia, come un odore di gas. Stava per
succedere qualcosa di terribile, ma cosa?
Quanto a Lazarus, non apparve né sorpreso né preoccupato
dall’intrusione dei Genealogisti nel suo osservatorio. Con i pollici infilati
nei taschini della redingote, era come al solito eccessivamente sicuro di sé.
Con un movimento sincrono i Genealogisti si rivolsero a Elizabeth, che
fece un passo indietro.
«Che bello vedervi sana e salva, virtuosa».
«Obbligarvi a salire su quel dirigibile è stato un insulto al vostro talento».
«Lady Septima si è mostrata really indegna della sua funzione».
«A causa sua in tutta Babel sono dilagati i tumulti».
«Del resto in questo stesso momento sta pagando le sue colpe».
«I nostri bravi concittadini l’hanno lanciata nel vuoto».
«Più dura sarà la caduta!» conclusero in coro.
Ofelia li trovava disumani. Anche quando sorridevano, l’oro della pelle
non era solcato da alcuna ruga, forse conseguenza del loro potere familiare.
Pensò a lady Septima che stava precipitando all’infinito nell’abisso che le
aveva inghiottito il figlio.
Da come contraeva le unghie sporche sulle maniche della divisa Ofelia
capì che anche Elizabeth era spaventata. Seguiva con occhi sgranati
l’andirivieni delle guardie che portavano via scatole contenenti la vita
privata di centinaia di pazienti. I Genealogisti avevano approfittato del caos
per prendere possesso con la forza di quel luogo a cui non avevano mai
avuto accesso. Babel agonizzava e i suoi più alti dignitari erano
comodamente seduti in una poltrona che non era loro.
«Gli spiriti di famiglia sono tutti al Memoriale per fare fronte alla crisi»
articolò Elizabeth con difficoltà. «Perché non siete con loro?».
Mai Ofelia avrebbe immaginato che di tutte le persone presenti sarebbe
stata Elizabeth a tenere testa ai Genealogisti.
Si alzarono in piedi come un unico corpo.
«Perché è un compito che ormai spetta a voi».
«Babel ha bisogno di una cittadina esemplare e devota».
«Come sir Polluce ha bisogno di noi, ora più che mai».
«Qualcuno deve fargli da memoria vivente e dire, a lui come agli altri
spiriti di famiglia, qual è il suo vero posto».
«Eccovi elevata al rango di Lord di LUX!».
Incredula, Elizabeth guardò il sole che i Genealogisti le avevano appena
appuntato sul petto. Era lo stesso emblema che Thorn aveva restituito a lady
Septima, Ofelia ci avrebbe giurato. Non era una promozione, era
un’alienazione.
«Un aerostato è ormeggiato nel piazzale» disse l’uomo.
«Prendetelo e andate al Memoriale» disse la donna.
«Now» dissero insieme.
Le guardie di Polluce, che avevano finito di svuotare l’ultima libreria,
formarono due ali fino alla porta con le scatole in braccio, come una strada
tracciata. Elizabeth non aveva mai amato il peso delle responsabilità né le
luci della ribalta. Quel nuovo titolo aveva l’aria di un brutto scherzo.
Seguita dalla scorta armata, lasciò gli appartamenti dopo aver dato un
ultimo sguardo a Ofelia.
Andata via lei, sul posto erano rimaste solo cinque guardie: due appostate
all’ingresso degli appartamenti, due davanti all’ascensore segreto e una che
teneva d’occhio Lazarus, sempre troppo sorridente, come se fosse il più
pericoloso di tutti. Cinque fucili erano ancora troppi per pensare a una fuga.
Dal modo in cui le lunghe dita di Thorn fremevano, Ofelia capì che stava
passando in rassegna tutte le opzioni per capovolgere la situazione. Da
quando erano usciti dall’ascensore non l’aveva più guardata né si era
avvicinato a lei, come quando voleva fare credere a tutti che la sua
fidanzata non fosse niente per lui. Anche Ofelia evitava di alzare gli occhi
su di lui per paura di scatenare un’esplosione in quel gas deleterio che si
andava condensando intorno a loro.
I Genealogisti si dedicarono allora ad Ambroise. Velenosi fino alla radice
dei capelli. Il giovane trasalì quando la donna, in un fruscio di seta, si
avvicinò alla sedia a rotelle. Una tigre di fronte a un’antilope.
«Che affascinante deformità... Siete fuori dall’ordinario, ragazzo mio, e
non mi riferisco soltanto alle vostre membra».
«Padre?» chiamò piano Ambroise.
Lazarus, sempre tenuto di mira, gli sorrise a distanza.
«Tranquillo, andrà tutto per il meglio».
«Andrà tutto per il meglio» ripeté la Genealogista.
Poi la donna accarezzò i palmi di Ambroise, ne seguì ogni linea, e presto
le braccia di entrambi ebbero la pelle d’oca. A un certo punto la donna, che
si serviva del suo potere di Tattile per interrogare quell’epidermide a lei
estranea, rilassò le sopracciglia come se avesse trovato quel che stava
cercando. Lentamente, sensualmente, passò le dita d’oro tra i capelli di
Ambroise, sotto la sciarpa che a quel contatto drizzò i peli, sotto il colletto
della tunica bianca.
Ofelia capì troppo tardi cosa stesse succedendo. Ambroise emise un
singhiozzo stupito, uno solo. L’attimo dopo sulla sedia a rotelle non restava
più niente di lui, solo la sciarpa che batteva l’aria inebetita e un raggio di
sole inframmezzato da pioggia.
Evaporato come fumo.
La donna teneva tra pollice e indice una vecchia placchetta d’argento su
cui era incisa una scritta microscopica, il codice che per decenni aveva
mantenuto un eco ancorato nella materia e che lei aveva tolto come
un’etichetta.
Tutto si era svolto così in fretta che Ofelia non aveva avuto il tempo di
respirare, e ancora le mancava il fiato. Cuore, polmoni e sangue si erano
bloccati.
«Peccato» sospirò Lazarus. «Avete danneggiato il codice. Era really
necessario?».
Le guardie rimaste nella stanza fissavano un punto immaginario davanti a
sé senza battere ciglio, come per convincersi di non aver visto niente.
Con uno stesso gesto i Genealogisti indicarono Walter.
«Andate e portate con voi quell’automa».
Le guardie ubbidirono. Mentre uscivano dagli appartamenti con Walter,
che si lasciò condurre via spruzzandole di acqua di Colonia, le loro
espressioni tradivano sollievo.
Appena la grande porta d’ebano si fu richiusa Ofelia sentì un contatto
duro su entrambe le guance. Due pistole d’oro. Con una pressione delle
canne i Genealogisti la obbligarono ad alzare gli occhi su Thorn.
«La guardia di Polluce non è l’unica autorizzata a portare materiale per la
prevenzione della pace» avvertirono.
«Siete stato una vera delusione come grande ispettore familiare».
«Chiudevamo gli occhi sui vostri numerosi misteri».
«Finché in quest’osservatorio eravate dei nostri».
«Ma avete disertato per andarvene con questa piccola Animista».
Ofelia non era del tutto consapevole delle due armi puntate contro di lei
né della promiscuità dei Genealogisti, i cui capelli d’oro si mischiavano ai
suoi, e neppure dell’immobilità predatrice di Thorn. Vedeva solo il vuoto
all’altro capo della sciarpa. Ambroise era lì e l’attimo dopo non c’era più.
L’aveva accolta, guidata, sfamata, ospitata, consigliata... e non c’era più.
Senza allentare la pressione della pistola la donna lanciò a Lazarus la
targhetta con il codice che aveva strappato.
«Siamo onorati di incontrare il vero autore del progetto Cornucopiando».
«Per essere sinceri, professore, fino a poco tempo fa vi giudicavamo di
scarso interesse».
«Sapevamo che eravate al servizio di Eulalia Diyoh, of course».
«Ma mai avremmo pensato che foste capace di farle concorrenza».
«Solo di recente abbiamo capito quanto vi avevamo sottovalutato».
Lazarus sollevò gli occhi dalla targhetta che aveva tra le mani con un
accenno di sorriso all’angolo delle labbra. La brutale scomparsa di
Ambroise non l’aveva scosso.
«E cos’è stato a farvi cambiare idea?».
Ofelia non riusciva a vedere l’espressione dei Genealogisti, che le
stavano troppo vicino, ma vide Thorn contrarsi in tutto il corpo quando
aumentarono la pressione delle pistole sulle sue guance.
«Questa piccola Animista che abbiamo incontrato per caso».
«Durante il censimento, a un tavolo del Memoriale».
«Abbiamo dato un’occhiata al suo incartamento».
«Eulalia non è certo un nome comune a Babel».
«Ed è particolarmente carico di significato».
«Così abbiamo fatto qualche ricerca su di lei».
«E abbiamo saputo che abitava a casa vostra mentre non c’eravate».
«E scoperto l’esistenza del vostro cosiddetto figlio».
«Un figlio che non figurava da nessuna parte sul vostro albero
genealogico».
«E che stavate ben attento a tenere nascosto nella vostra ombra».
«Del quale, a forza di perseverare, abbiamo trovato traccia nei nostri
archivi».
«Un semplice senza-poteri nato nel quartiere della vostra infanzia».
«Internato insieme a voi in quest’osservatorio».
«Che in quarant’anni non è invecchiato di un capello».
«Lady Septima, decisamente poco ispirata, l’ha espulso senza permetterci
di conoscerlo».
«Per fortuna avete provveduto voi a tornare da noi!» conclusero insieme.
Lazarus aveva placidamente annuito a ogni affermazione dei
Genealogisti.
«Perché non mi dite quel che volete da me e dal mio modesto
osservatorio?».
Le pistole vibrarono di eccitazione contro la faccia di Ofelia, costretta
all’immobilità assoluta.
«L’abbondanza!» risposero i Genealogisti.
«L’unica cosa che conti davvero».
«Un’abbondanza di tempo».
«L’immortalità».
La sciarpa non la smetteva di cercare sulla sedia a rotelle un corpo che
non c’era più. Ofelia non riusciva a smettere di guardarla. I Genealogisti
non avevano capito niente di quel che era il Corno dell’abbondanza.
Avevano distrutto Ambroise senza sapere chi fosse davvero. Non
meritavano l’immortalità.
Non meritavano la vita.
Presa nella morsa delle due pistole, Ofelia chiuse gli occhi per collegarsi
al loro midollo spinale. Non voleva respingerli, voleva fare male, piantare
gli artigli nei loro corpi tanto a fondo quanto glielo consentiva il suo potere.
Non ci riuscì.
Stringendo i denti per estendere al massimo la propria percezione
raggiungeva il sistema nervoso di Thorn e di Lazarus, ma non quello dei
Genealogisti. La loro pelle era una fortezza impenetrabile.
Riaprì gli occhi e incrociò più in alto quelli di Thorn, che le intimavano
di non fare niente. Capì perché Thorn temesse i Genealogisti. Uccidere ed
essere uccisi non era un problema per loro.
Il loro fiato le scottò le orecchie.
«Sembra che non invecchiamo, ma è solo un’apparenza».
«Sotto la pelle i nostri corpi muoiono ogni secondo».
«Siamo stanchi di sprecare tempo».
«E siamo stanchi di perquisire questo posto».
Ofelia fu attraversata da una speranza vedendo il dirigibile di LUX alzarsi
dietro i rosoni, ma l’apparecchio continuò a salire e sparì in lontananza,
verso il Memoriale. Elizabeth non aveva potuto fare altro che ubbidire ai
Genealogisti, ma lei si sentì lo stesso abbandonata.
«Mi inchino al vostro volere» disse allora Lazarus chinando umilmente la
testa. «Vi porto al Corno dell’abbondanza, ma a condizione che ci andiamo
tutti insieme. E non fate del male ai miei soci, d’accordo?».
I Genealogisti fecero segno a Lazarus di guidarli, a Thorn di seguirlo, e
con la punta delle armi spinsero avanti Ofelia, che per non lasciare indietro
la sciarpa fu costretta a strapparla dalla sedia a rotelle. Stretta al petto,
quella lana scalpitante le dava l’impressione che il cuore le fosse uscito dal
torace.
Non si faceva illusioni. Una volta in possesso del Corno dell’abbondanza
i Genealogisti si sarebbero sbarazzati di loro.
Lazarus non chiamò il grande ascensore dell’anticamera, li fece scendere
per la scala nascosta che Ofelia e Thorn avevano salito in occasione del loro
appuntamento clandestino. Tutti si infilarono nelle viscere della statua,
lontani da sole e pioggia. La luce delle lampadine sfrigolanti mischiava le
loro ombre alle ragnatele.
Lazarus, fischiettando, ogni tanto svoltava a destra e ogni tanto
imboccava un corridoio a sinistra. Aveva intenzione di farli smarrire nei
labirinti dell’osservatorio? Ofelia non avrebbe saputo dire chi, tra lui e i
Genealogisti, le ispirasse meno fiducia. Lazarus sosteneva che Ambroise
fosse importante, ma la sua atroce e improvvisa scomparsa non gli aveva
fatto né caldo né freddo. Se necessario, avrebbe sacrificato i propri soci
senza rimpianti.
Ancora più presente delle pistole, Ofelia sentiva su di sé l’attenzione
muta di Thorn, che analizzava, quantificava, valutava ed elaborava calcoli
senza fermarsi un attimo.
Dopo interminabili giri tortuosi arrivarono a una banchina sotterranea in
cui un treno sembrava aspettarli da sempre. Mentre saliva a bordo con una
pistola puntata contro ciascun fianco Ofelia constatò che erano gli stessi
sedili di velluto e gli stessi abat-jour della carrozza su cui aveva già
viaggiato una volta. La destinazione sarebbe stata diversa?
«Vi raccomando di prendere posto» disse Lazarus dando l’esempio. «La
pendenza è notevole».
Su quelle parole la porta si chiuse e il treno cominciò la discesa nel
tunnel. Ofelia veniva da un’arca in cui capitava che i calessi e i tram
facessero talvolta di testa loro, ma quel treno sembrava davvero possedere
una volontà propria. Era anche lui un eco incarnato? Stretta suo malgrado
tra i due Genealogisti si concentrò invano sulle armi che le facevano male
alle costole. L’oro era un materiale dotato di forte personalità, anche per
un’Animista: era più facile manovrare un dirigibile che far intendere
ragione a quelle pistole.
Dando un’occhiata dal finestrino colse un sorriso sul proprio riflesso nel
vetro. In un primo momento pensò a una contrazione nervosa, poi capì che
non era lei a sorridere, ma il suo eco. Era lì. Stava continuando a seguirla.
La visione durò un istante, subito dopo sparì dal vetro, ma per Ofelia fu
estremamente confortante.
Strinse a sé la sciarpa e incrociò lo sguardo acuminato di Thorn seduto di
fronte. Come lei, era ferocemente determinato a venirne fuori. In un modo o
nell’altro avrebbero trovato una soluzione. Insieme.
Un brusco scossone indicò che il treno si era fermato.
Da principio, appena scesa dal predellino, Ofelia non vide granché, ma fu
aggredita da un odore molto forte. Era come respirare roccia. Il luogo non
era affatto buio, ma più sbatteva le ciglia e meno riusciva a delimitarne i
contorni. Si trattava di una caverna di un’altezza vertiginosa con le pareti
crivellate di gallerie da cui file di vagoncini arrivavano e ripartivano in
continuazione. La dimensione di stalattiti e stalagmiti dava la sensazione di
essere entrati nelle fauci di una Bestia.
Ofelia quasi si scordò delle pistole.
Strizzò gli occhi verso i due specchi parabolici su entrambi i lati della
caverna, orientati uno contro l’altro, ciclopici, che giravano come mulini.
Erano caleidoscopi ancora più folli di quelli che aveva visto all’osservatorio
e, a giudicare dai fasci di cavi, erano loro ad assorbire quasi tutta
l’elettricità.
«Il Corno dell’abbondanza!» mormorarono i Genealogisti guardando una
parabola ciascuno.
Lazarus, con gli occhi coperti dal riflesso degli occhiali, fece un sorriso
indulgente.
«In fact, no. Queste macchine servono solo a ottimizzarlo. Il vero Corno
dell’abbondanza è quello!».
E con una gestualità da prestigiatore consumato indicò una gabbia in
mezzo alla caverna, all’intersezione delle due parabole. Sembrava una
voliera. A parte le grosse dimensioni non era impressionante in sé, ma il suo
contenuto lo era ancora meno.
Dentro la gabbia non c’era niente.
LA CADUTA
Trascinata dai Genealogisti, solo quando giunse vicino alla gabbia Ofelia
capì che non era poi così vuota. Nel suo centro galleggiava un minuscolo
scintillio, appena più grosso della punta di un ago. Le fece venire in mente
le particelle di polvere sospese nel sole davanti agli interstizi delle persiane,
solo che quella non si muoveva in tutte le direzioni, era immobile e
immutabile. E prigioniera, visto che la gabbia era chiusa da un chiavistello.
Contro i suoi fianchi Ofelia sentì i Genealogisti irrigidirsi. Ne percepì i
muscoli contratti, il respiro, la cipria, quasi i pensieri.
«Aprite».
La loro voce aveva perso ogni lascivia, era brama allo stato puro.
«Pazienza, pazienza!».
Lazarus si frugò una per una le tasche della redingote, poi si mise a ridere
dandosi un colpetto sulla fronte, infine estrasse una chiave dal calzino
sinistro. Ofelia non riusciva a credere che per tutto quel tempo si fosse
tenuto addosso una cosa così preziosa, per giunta in un calzino. Qualcuno
doveva per forza averne una copia. Alzò gli occhi verso l’intreccio di rotaie
sulle quali i vagoncini viaggiavano tra le gallerie minerarie della caverna.
Anche se non era facile distinguere con precisione ciò che non era
illuminato dagli arcobaleni in movimento dei caleidoscopi giganti, intuiva
l’eccesso di oggetti e sentiva scricchiolii di mobili, stoviglie che sbattevano
fra loro e altre sonorità ottuse tipiche dei difetti di fabbricazione. Era stata
una minuscola scintilla a creare tutto ciò?
Lo scatto del chiavistello le fece riportare l’attenzione su Lazarus, che
spalancò la porta della gabbia alta come lui.
«Prima di proseguire vorrei fare una dichiarazione» disse con orgoglio.
Con un movimento perfettamente simmetrico i Genealogisti tolsero le
pistole dai fianchi di Ofelia e le puntarono su di lui. Due spari. Due
pallottole d’oro in mezzo al petto. L’impatto proiettò Lazarus lontano dalla
gabbia mentre nella caverna risuonava all’infinito il doppio colpo d’arma da
fuoco. Ofelia ebbe la sensazione che le risuonasse dentro. Thorn la tirò
bruscamente indietro mentre i Genealogisti, con moto inverso, andavano
verso la gabbia mano nella mano, con le pistole ancora fumanti in pugno.
Non degnarono di uno sguardo il corpo di Lazarus che giaceva sotto i colori
fluttuanti delle parabole col sorriso stampato sulla faccia. Tra loro e il
Corno dell’abbondanza non c’era ormai più nessuno.
«Aveva un piano» mormorò Thorn all’orecchio di Ofelia. «È logico che
ne avesse uno».
I Genealogisti entrarono nella gabbia come due fenici pronte a rinascere,
col profilo rivolto alla minuscola scintilla piena di infinito. Dovevano solo
allungare la mano.
«Dacci l’eternità».
Non era una supplica, era un ordine.
I Genealogisti non si mossero più. Thorn aveva smesso di respirare e la
sciarpa di muoversi. Lazarus era un cadavere a terra. Il Corno
dell’abbondanza aveva dilatato la trama del tempo iniettandovi una
produzione esagerata di secondi, minuti, ore, anni. Almeno così Ofelia
avrebbe creduto se non avesse sentito il proprio cuore battere a tutta
velocità nell’attesa che qualcosa si degnasse di succedere.
Quel qualcosa si manifestò sotto forma di un’aureola intorno ai
Genealogisti, che assistevano con occhi sgranati alla loro gloriosa
metamorfosi. L’aureola si opacizzò in una nuvola dorata che riempì la
gabbia, i loro occhi si ingrandirono di più, la nuvola divenne rossa e Ofelia
capì che erano i loro corpi – pelle, organi, trucco – che si stavano
frantumando in migliaia di briciole. Nessun gridò uscì dalle loro bocche
aperte, e poco dopo non ci furono più bocche del tutto. I Genealogisti erano
diventati una nebbia che la scintilla aspirava poco a poco, molecola dopo
molecola, come avrebbe fatto un apparecchio di ventilazione, fino a che
nella gabbia non rimase più niente.
Il Corno dell’abbondanza li aveva divorati.
Allora la scintilla si mise a brillare di più e diffuse nella gabbia un’altra
nebbia, stavolta argentea. Aerargyrum? si domandò Ofelia morbosamente
affascinata. Perché fosse visibile a occhio nudo doveva essercene una
concentrazione fenomenale. Poco a poco la nebbia cambiò aspetto, prese
colore, si solidificò fino a materializzarsi in uomini e donne: gli echi
incarnati dei Genealogisti. La gabbia ne era piena. Corpi deformi, facce
irriconoscibili. Copie fallate.
Ofelia e la sciarpa rabbrividirono. Era quindi quello il vero potere del
Corno dell’abbondanza?
«Abbiamo compagnia» disse Thorn.
Un rumore di passi giunse dalle profondità in cui si sovrapponevano tutte
le ombre. Qualcuno si stava avvicinando. Quando i passi entrarono nel cono
di luce elettrica dei caleidoscopi Ofelia ebbe uno shock ancora più grande
di quelli che aveva provato fino a quel momento. Ambroise si dirigeva
verso di loro. Più che camminare si contorceva, ma era lì in piedi, molto
vivo, in carne e sorriso. Non era solo. Un altro Ambroise lo seguì nella luce,
poi un terzo, un quarto, e ben presto dall’oscurità emerse una pletora di
sosia. Si somigliavano tutti, eppure ognuno soffriva di un’asimmetria
diversa. Erano gli echi incarnati di un Ambroise originale scomparso
quarant’anni prima.
Non dissero niente a Ofelia e Thorn, ma passando li salutarono con un
cordiale cenno del capo. Erano scortati da numerosi automi con targhette
codificate e cassette di attrezzi. Si raggrupparono intorno alla gabbia e,
riproducendo gesti ripetuti mille volte, fecero uscire gli echi senza
precipitazione, ma stando attenti a non attardarsi all’interno delle sbarre, poi
richiusero il chiavistello. Appena un Ambroise metteva una targhetta sulla
schiena di un eco quest’ultimo cambiava aspetto. I lineamenti dei
Genealogisti, naso, occhi, orecchie, capelli, carne, muscoli, si cancellavano
fino a perdere ogni residuo di umanità.
«Automi».
La voce di Ofelia aveva perso qualsiasi inflessione. Ripensò
all’implosione di Hugo nell’anfiteatro e alla fabbrica in cui si erano rifugiati
per sfuggire alle pattuglie. Niente di tutto ciò era vero. Erano solo artifici
per impedire ai cittadini di Babel di conoscere la vera natura degli automi.
Con tutta probabilità Lazarus non ne aveva mai creato uno in vita sua. Si
era servito di un codice per rimodellare echi veri in macchine finte.
Guardandoli con occhi diversi Ofelia realizzò che la morfologia di molti
automi lì presenti le era familiare. Un gruppo le ricordava Mediana, un altro
gruppo il cavaliere. Alcuni si colpivano l’orecchio sinistro imitando una
mania che non aveva più senso, altri portavano sulla spalla una
riproduzione dell’animale meccanico dei loro ex proprietari: uno scarabeo,
una scimmietta, una lucertola... Tra loro c’era anche il pappagallo
meccanico che aveva accolto la cristallizzazione di Ofelia nella cappella.
All’osservatorio delle Deviazioni non c’era più nessuno perché tutti i
suoi occupanti avevano varcato la porta della gabbia. L’avevano fatto in
quanto ultima tappa del programma alternativo o era stato un atto disperato
per sfuggire al crollo finale del mondo?
Ofelia aveva esaurito la capacità di stupirsi. Non sollevò neanche un
sopracciglio quando il cadavere di Lazarus si raddrizzò tossendo e
ridacchiando, aiutato a rimettersi in piedi da alcune repliche di Ambroise.
«Tutto ciò che entra nella gabbia si trasmuta: ecco quello che volevo dire
prima che quei due maleducati mi togliessero la parola».
Si riaggiustò gli occhiali rosa sul naso, poi si tolse la pettorina di metallo
nascosta sotto la redingote in cui si erano fermate le pallottole senza riuscire
a perforarla.
«Lo sapevate» disse Thorn con voce sorda. «Sapevate esattamente cosa
sarebbe successo».
Sentendolo pronunciare quelle parole Ofelia si rese conto che la
situazione si era capovolta, e non a loro vantaggio. Si trovavano sottoterra,
lontani da tutto, di fronte a una scintilla imprevedibile, circondati da un
esercito di echi incarnati al servizio di un solo uomo, il più temibile di tutti.
Il pericolo non erano più i Genealogisti, in realtà non lo erano mai stati, il
pericolo era Lazarus.
«Solo a grandi linee!» rispose costui con espressione divertita. «Più che
altro mi sono fidato del mignolo».
E agitò il suddetto mignolo facendo segno a qualcuno dietro di loro di
venire avanti. Seconda avanzò nella palude degli arcobaleni. Era l’unico
essere umano dell’osservatorio a non essere stato trasformato in automa
mentre loro non c’erano? Abbandonata a se stessa aveva perso la fasciatura,
e uno sfregio crostoso le fendeva il naso come un sorriso di sangue. Thorn
si contrasse ancora di più e Ofelia capì che si stava imponendo di non
distogliere lo sguardo. Eppure Seconda emanava un’improvvisa armonia,
come se a dispetto delle loro contraddizioni i suoi lineamenti si fossero
messi d’accordo per esprimere la stessa eccitazione.
Era la prima volta che non aveva con sé materiale da disegno. Né matita
né carta.
Passò decisa tra Ofelia e Thorn, obbligando quest’ultimo a spostarsi
zoppicando per evitare un altro incidente di artigli, e andò dritta verso
Lazarus guardandolo con il suo occhio bianco spalancato.
«L’orizzontalità eccessiva sfugge da tutte le vene della navata laterale...».
Senza dare la minima importanza alle cose che borbottava Seconda,
Lazarus le posò una mano sulla testa.
«È vero che in sogno posso intravedere certi echi anticipatori, ma non è
niente in confronto allo sguardo di Seconda. Non è mai riuscita a stabilire
un dialogo con gli echi né a indurre una cristallizzazione, ma li decifra
meglio di chiunque altro. In un primo momento lady Septima ha visto la sua
deviazione come una vergogna, poi come una scusa per infiltrarsi nel mio
osservatorio. Pensava in questo modo di servire la causa dei Genealogisti,
ma è a me che ha fatto un regalo absolutely fabulous!».
«E baciano le ciliegine percuotendo l’insonnia...» continuò Seconda,
imperturbabile.
Da una tasca interna Lazarus prese il portafoglio di pelle, che puzzava in
maniera spaventosa, tirò fuori una fotografia sbiadita dal tempo, dal caldo e
dall’umidità e la porse a Ofelia. Era la foto di un disegno attaccato a un
muro con le puntine. Di un realismo sconvolgente. Raffigurava con molta
precisione la gabbia del Corno dell’abbondanza, in cui brillava la scintilla, e
tre persone accanto alla porta spalancata: Lazarus, Seconda e una donna.
Una piccola donna in tunica con gli occhiali e la sciarpa.
Ofelia avrebbe voluto far fare a quella foto la fine che avevano fatto gli
altri disegni, strapparla a pezzettini e gettarla nel gabinetto, ma Lazarus
gliela riprese e la rimise nel portafoglio.
«È grazie alla cara Seconda se non ho mai perso fiducia nel futuro.
Sapevo che prima o poi sarebbe successo quello che sta succedendo og...».
«Siete un ipocrita» lo interruppe Thorn. «Porre fine all’asservimento
dell’uomo all’uomo! Quanti ne avete sacrificati strada facendo?».
Lazarus accennò un sorriso indulgente, ma lo indirizzò a Ofelia. Per lui
Thorn era trasparente.
«Non ho mai sacrificato nessuno. Nessuna delle persone che hanno avuto
il privilegio di entrare nella gabbia è morta. Esistono ancora, ma in un modo
che la vostra mente e i vostri sensi non riescono a concepire».
«E ciò dirige gli spazi fino a che la bottiglia si contrae...».
«Sono stati convertiti in aerargyrum» continuò Lazarus con una voce
esaltata che copriva quella di Seconda. «E gli echi prodotti da quella
trasmutazione sono stati convertiti in materia solida. Funziona sempre così,
presumo che sia una questione di equilibrio».
Ofelia aveva male agli occhi a forza di sgranarli. Immaginava le
molecole dei Genealogisti che galleggiavano nell’aria intorno a loro allo
stato gassoso. Magari li stava respirando. A suo modo di vedere, ciò che
stava descrivendo Lazarus era peggio della morte.
Poi la voce del professore assunse il tono del racconto.
«Migliaia di anni fa, nell’antica Babel, sopra le nostre teste è stata
costruita una città imperiale. Durante i lavori i costruttori hanno scoperto
una caverna, e nella caverna una minuscola particella di luce. Da quanto
tempo era lì? Nessuno lo sapeva, ma chiunque si avvicinava a quella
scintilla veniva inghiottito e rigurgitato sotto forma di due echi mostruosi.
Allora hanno costruito una gabbia».
Due? si stupì Ofelia dentro di sé. I Genealogisti ne avevano prodotti
molti di più.
«Ignoriamo l’uso che abbiano fatto i nostri antenati di questa scoperta,
fatto sta che a un certo punto hanno chiuso la caverna. Il Corno
dell’abbondanza è diventato una leggenda. Poi un giorno, molto tempo
dopo, in una Babel devastata dalla guerra, l’hanno ritrovata per caso i
militari mentre cercavano giacimenti nel sottosuolo dell’antica città
imperiale».
Lazarus raccontava la storia come se la narrasse a se stesso, talmente
preso da dimenticare l’Index.
«È stato l’inizio di esperimenti extremely elaborati. I militari si sono
accorti che in prossimità di materiali riflettenti la particella diventava più
grande». Indicò le gigantesche parabole che facevano girare i caleidoscopi.
«Più la particella era grande e più numerosi erano gli echi. La stessa Eulalia
Diyoh è stata qui!» esclamò trattenendosi dal baciare il suolo da lei
calpestato. «I bombardamenti hanno messo fine agli esperimenti, la
Lacerazione ha fatto volare in pezzi il vecchio mondo e il Corno
dell’abbondanza è di nuovo caduto nell’oblio. Fino a che io l’ho ritirato
fuori! La trasmutazione è un’idea difficile da accettare» ammise. «È il
motivo per cui ho installato una finta fabbrica in centro città nonché un
codice di autodistruzione degli automi, per proteggere il segreto della loro
fabbricazione. Ma si avvicina il giorno in cui potrò finalmente rendere note
le mie ricerche senza scioccare l’opinione pubblica. Ambroise!».
Gli adolescenti che si stavano dando da fare intorno ai nuovi automi si
voltarono subito verso Lazarus.
«Procediamo a una piccola dimostrazione per la nostra ospite».
«Sì, professore».
Le loro dolci voci risuonarono come un coro sotto l’immensa volta della
caverna. Ofelia si contrasse e sentì la sciarpa contrarsi: nessuno di loro
sarebbe mai stato l’Ambroise che avevano imparato a conoscere. Quelli si
limitavano a mimare un modello scomparso, avevano sguardi vuoti, assenti.
«E il muro è un profumo bianco che deraglia...» declamò Seconda.
Uno degli Ambroise prese una chiave che passò di mano deforme in
mano deforme fino a un altro Ambroise che stava vicino alla gabbia.
Riaprirono il chiavistello, poi, con una catena di gesti ripetitivi,
cominciarono a portare oggetti prelevandoli da un convoglio di vagoncini.
Ogni volta fu lo stesso rituale. Depositavano all’interno della gabbia un
oggetto in perfetto stato, tipo una sedia, un sacco di riso o un paio di scarpe,
e aspettavano che la materia fosse decomposta e ricomposta dalla scintilla.
Poi recuperavano copie irriconoscibili che acquistavano una forma
definitiva solo una volta messo il sigillo: sedie sbilenche, riso andato a
male, scarpe che non si potevano calzare.
Thorn seguì il procedimento con la massima concentrazione. Anche in
quel frangente, intrappolato nelle viscere dell’osservatorio, pensava solo a
come servirsi della scintilla per i propri fini.
Lazarus passò delicatamente un fazzoletto su una sbarra della gabbia,
come se fosse la cornice di un quadro famoso.
«Il codice serve solo a stabilizzare l’eco nella materia e correggere le sue
imperfezioni, nel limite del possibile. Senza il codice, l’eco non si
manterrebbe solido a lungo. Da una sola offerta il Corno dell’abbondanza
produce una moltitudine di duplicati. È uno scambio molto vantaggioso. In
fact, può anche riprodurre nuovi echi a partire da un eco già materializzato,
ma purtroppo più ci si allontana dal modello originale e più i duplicati
presentano difetti».
Per illustrare le sue parole tamburellò sul turbante di un Ambroise che
aveva gli occhi al posto delle orecchie e il naso sottosopra.
«L’Ambroise che ha vissuto con me in tutti questi anni faceva parte della
prima generazione di echi. Sapete, il mio vecchio amico si era offerto
volontario per entrare nella gabbia. Voleva essere trasmutato in aerargyrum,
vivere l’esperienza dall’interno. La sua curiosità scientifica era
ineguagliabile! In realtà, my dear» disse facendo l’occhiolino a Ofelia,
«l’eco che avete frequentato era una pallida imitazione del mio amico.
Somigliante, certo, anche commovente, ma pur sempre un’imitazione. In un
certo senso è stato il mio primo automa, molto tempo prima di Walter. Non
fosse che per questo, mi mancherà molto».
«E ci sono sipari che piovono dietro ogni cometa...».
Disgustata, Ofelia provò un senso di repulsione la cui unica causa era
Lazarus, così assorto nel proprio discorso da non fare caso alle parole senza
capo né coda di Seconda.
«Ma questa è storia vecchia!» esclamò sfregandosi le mani. «Ora voi e il
vostro eco siete dei nostri, my dear, e riprodurrete il miracolo che Eulalia e
l’Altro hanno realizzato in questo stesso luogo secoli fa: rendere incarnati
echi che non saranno versioni peggiorate dei modelli di partenza, ma che
anzi saranno migliori di loro in tutto. Se in origine gli spiriti di famiglia
erano umani ordinari, immaginate i prodigi che potremo compiere. Cibo
delizioso a volontà! Terre paradisiache a perdita d’occhio! Una società di
uomini e donne che potranno dedicarsi alle arti, alla filosofia e alla
realizzazione personale! I nostri nomi entreranno nella Storia, la grande
Storia, quella con la esse maiuscola».
Ofelia si sentiva sprofondare nei sandali. Quel vecchio senza-poteri
aveva puntato tutto su di lei per assurgere a figura eroica, ma lei non aveva
la più pallida idea di cosa si aspettava che facesse. Dialogare con un eco di
cui aveva solo intravisto l’esistenza quattro volte? Riceverne un
insegnamento che avrebbe fatto di lei un’iniziata alle più grandi verità
dell’universo conosciuto e sconosciuto? Si chiedeva come le fosse venuto
in mente di usare il Corno dell’abbondanza per far tornare umana Eulalia
Diyoh e rispedire l’Altro nello specchio.
Guardò Thorn, che si ergeva in tutta la sua altezza tra lei e la gabbia. La
sua ombra lunghissima sembrava una colata di inchiostro che gli sgorgasse
dai tacchi. Scrutava in silenzio la piccola scintilla davanti a sé, vicinissima e
fuori portata. Non poteva impadronirsene e neanche avvicinarsi, tuttavia il
suo corpo era teso come un arco incapace di rinunciare al bersaglio. Doveva
a tutti i costi trovare una soluzione.
Seconda aveva smesso di parlare.
In quel momento Ofelia fu colpita da un fatto evidente: Thorn non
figurava sul disegno che le aveva fatto vedere Lazarus.
«Attento!».
Fu come se Seconda avesse aspettato il via. Si lanciò su Thorn, che si
girò verso di lei con un cigolio metallico sollevando le sopracciglia dalla
sorpresa. Era alto il doppio di lei e non era facile fargli perdere la stabilità.
Se ad assalirlo fosse stato qualcun altro si sarebbe servito degli artigli senza
il minimo scrupolo, ma Ofelia colse un lampo nei suoi occhi, una scelta
immediata da fare. Si lasciò spingere indietro. L’armatura della gamba si
sfasciò con un frastuono di acciaio, viti e bulloni.
Thorn cadde all’interno della gabbia.
Ofelia scattò come una molla. Non ragionava più, era solo un riflesso
primario. Doveva tirarlo fuori da lì. Subito. Alcune braccia bloccarono il
suo slancio. Erano gli Ambroise, che su uno schiocco di dita di Lazarus
l’avevano afferrata. Li scacciò con i pugni, con i denti, con gli artigli, ma
appena si liberava di un braccio altri gli davano il cambio.
Subito.
«Alzati!».
Ofelia vedeva che Thorn si stava sforzando, che lottava contro un corpo
troppo rigido intrappolato in un caos di metallo, rallentato da una gamba
che si rifiutava di ubbidire ai suoi ordini. Lo vedeva, sì, ma ciò nonostante
urlava.
«Alzati! Alzati!».
Subito.
«Aiutatelo!».
Lazarus fece un’alzata di spalle impotente. Sulla soglia della gabbia,
molto soddisfatta di sé, Seconda fissava con l’occhio vuoto l’uomo che si
contorceva ai suoi piedi.
«Ma quel pozzo non era più vero di un coniglio di Odino» gli disse.
Thorn si bloccò, circondato da un’aureola. Il corpo gli si sbriciolava.
Rivolse la lunga faccia spigolosa verso Ofelia, che si dimenava a gomitate
tra gli Ambroise in un tentativo disperato di tendergli una mano. Si immerse
tutto intero nei suoi occhi, vi fissò il suo sguardo più intransigente in
un’ultima sfida, poi si volatilizzò in migliaia di particelle.
Ofelia smise di combattere, di gridare, di esistere. Assisté senza battere
ciglio all’aspirazione della nebbia da parte della scintilla, una nebbia
interamente composta da Thorn, e pochi secondi dopo al sorgere di vari
echi in piedi nella gabbia con l’orologio in mano, caricature malformate e
inespressive che non erano Thorn, che non sarebbero mai state lui.
Quando gli Ambroise si accinsero ad applicare la solita procedura
Lazarus li fermò.
«No, questi no» disse piano.
In mancanza di codice per mantenersi nella materia gli echi si dissolsero
poco a poco. Non restava più niente di Thorn, neanche un pezzetto d’unghia
o mezzo capello.
A Ofelia mancava l’aria. Le bruciavano le vene. Si sentiva in fiamme. Il
suo istinto di sopravvivenza le diceva di ricominciare a respirare, di
riempirsi i polmoni d’aria, ma non ci riusciva più. La meccanica vitale del
suo corpo si era rotta. Le si appannò la vista e si sentì precipitare all’interno
di se stessa, lontano, molto lontano nel tempo, molto prima che lei nascesse,
là dove tutto è freddo e calmo e dimenticato.
In mezzo alla caverna Eulalia si pulisce gli occhiali per la sesta volta.
Ogni volta che là sopra, in superficie, una bomba si schianta
sull’osservatorio le stalattiti le fanno cadere addosso polvere di roccia.
Intorno a lei non c’è nessuno, ma a terra è pieno di fucili, mitragliette,
granate, lanciafiamme e mine antiuomo. Eulalia li sposta con la punta del
suo stivale militare. Tutte quelle armi sono repliche inutilizzabili, echi
fallati. Per fortuna non uccideranno mai.
Da qualche parte là sopra quelli che volevano utilizzarle sono morti.
Avrebbe dovuto capire prima la vera finalità del Progetto e la sua
assurdità. Avrebbe dovuto sapere che i suoi superiori non avevano mai
avuto altra intenzione che produrre sempre più armi. I loro esperimenti
erano comunque destinati a fallire. Gli echi non hanno la vocazione a
colmare le mancanze degli esseri umani.
Scuote la polvere di roccia che le si deposita sugli occhiali. È
sopravvissuta alla deportazione della sua famiglia, all’esilio, alla fame, alle
malattie e ai bombardamenti. Ogni sera prima di addormentarsi si è ripetuta
che tutto ciò aveva un senso, che era destinata a passare tra le maglie delle
catastrofi per salvare il mondo da se stesso.
In quel momento capisce di aver avuto soprattutto molta fortuna. La più
grande è stata incontrare l’Altro in una cornetta del telefono.
«Hai cambiato il mio punto di vista sulle cose».
«Cambiato le cose» sputacchia il suo eco nel walkie-talkie che porta alla
cintura.
Eulalia sorride.
«Pretenzioso».
Apre la cartella e ne tira fuori con cautela un grosso quaderno. È il suo
manoscritto più personale: un’opera teatrale. Ci ha messo tutto di sé. Nella
composizione dell’inchiostro ci sono il suo sangue e il suo sudore, e come
filo per rilegare ha usato i suoi capelli. L’ha scritta nelle ultime settimane
senza macchina da scrivere, all’insaputa dei superiori. Ma se anche
gliel’avessero trovata, cosa avrebbero capito? Ha criptato il testo in un
alfabeto di sua invenzione, il suo preferito, quello con gli arabeschi belli.
Col quaderno stretto al petto cammina lentamente tra i due caleidoscopi
giganti, che muovendosi continuamente le picchiettano la pelle di colori.
All’intersezione dei loro raggi, circondato da un filo spinato
approssimativo, finalmente scorge il Corno dell’abbondanza, appena
visibile a occhio nudo.
“Una particella il cui campo gravitazionale destruttura la materia che la
avvicina prima di convertirla in una sostanza modellabile a volontà”: è la
definizione che le avevano fornito i superiori. Grazie all’Altro, Eulalia sa
quanto si siano sbagliati, sa perché siano riusciti a produrre solo copie
difettose di armi e soldati, e sa che non farà gli stessi errori.
Posa il manoscritto all’interno del perimetro di filo spinato e arretra fino
a mettersi fuori portata della scintilla. Già la rilegatura si sta sbriciolando in
una nuvola di carta. Quelle pagine scritte di suo pugno, intrise di sudore e
sangue, contengono l’inizio di una storia, quella dei suoi futuri figli. Ecco
cosa offre Eulalia alla scintilla: parole. E si aspetta in cambio una vita
intelligente. Ventuno vite, per l’esattezza.
Il fatto è che i suoi superiori si sono sbagliati, il Corno dell’abbondanza
non è mai stato una particella.
È un buco.
Ecco fatto. Ha svolto il suo ruolo nella storia. Certo, non era un ruolo
principale, ma se non altro ha permesso a Ofelia di capire quel che c’era da
capire. Lei è uscita da dietro le quinte, e stavolta neanche lui sa cosa la
aspetti sulla scena.
Si avvicina la fine dei tempi, la fine del tempo. È rimasto un solo eco
anticipatore. Ofelia, la vecchia e il mostro stanno per ritrovarsi. Il resto è
soltanto una pagina vergine, recto e verso, sul punto di strapparsi. Tutto e il
contrario di tutto sono possibili simultaneamente.
Sì, non c’è dubbio, entrare in quella gabbia è stata un’esperienza delle
più interessanti.
L’IMPOSTURA
«Presto, fatela sedere qui! No, non lì. Qui, nel salotto di lettura, sul
balcone, starà più comoda. Figlia mia, sei pallida come una lampadina...
Charles, vai a cercare un bicchiere d’acqua, possibilmente potabile! Bene,
figlia, togliamo un po’ questi guanti, forse la situazione non è così
spaventosa come sembra... Per tutti i tromboncini! Le tue mani, le tue
povere mani! Smettila di frignare, Agata, non servirà certo a farle ricrescere
le dita. Forse... che siano soltanto cadute? Domitilla, Beatrice, Eleonora,
tornate nelle toilette a cercare le dita di vostra sorella! Oh, figlia mia, ma
solo a te succedono queste cose? E poi che hai fatto ai capelli? Non sai
quanto avrei voluto venire prima a proteggerti da tutti i pericoli, a
cominciare da te stessa. Perché, ma perché sei scappata? E neanche un
telegramma! Per poco non sono morta d’angoscia».
Ofelia guardava muoversi le labbra della madre. Era passata da un
mondo senza linguaggio a un vortice di parole. La madre le faceva
domande, la compiangeva, la rimproverava, la baciava. Il padre, più
riservato ma meno dispersivo, le fece bere l’acqua dal bicchiere che non era
in grado di tenere da sola. Agata piangeva sovrastando gli strilli del bebè,
l’ultimo nato a cui Charles stava appunto cambiando le fasce quando il
piede di Ofelia era spuntato dallo specchio. Quanto a Hector, che ormai si
era fatto più alto di lei, la scrutava con la massima serietà da sotto la
frangetta biondo-rossiccia del taglio a scodella.
«Perché hai perso le dita?».
«Non ho avuto scelta».
«Perché eri in quello specchio?».
«È difficile da spiegare».
«Perché te n’eri andata da casa?».
«Dovevo farlo».
«Perché non hai mai scritto?».
«Non potevo».
Per rispondere Ofelia dovette deglutire più volte. Si ricordava finalmente
come parlare, eppure non le veniva naturale. Hector arricciò il naso, e tutte
le lentiggini si mossero sulla sua faccia. Dietro ognuno dei suoi “perché”
c’era del risentimento, tuttavia fece uno strappo alla propria regola e
domandò in tono più dolce:
«Ti fa male?».
D’istinto Ofelia posò le sue mezze mani sulle guance del fratello e
osservò il vuoto che c’era al posto delle dita. La pelle era liscia, senza ferite
o cicatrici, come se fosse nata così. No, non le faceva male, ma forse era
peggio. Se avesse sentito le ossa che si rompevano e la carne che veniva
strappata forse avrebbe capito meglio ciò che le stava succedendo. Quei
dieci pezzetti di corpo che avevano fatto di lei la migliore lettrice della sua
generazione erano migrati nel Rovescio appena reincarnati. In compenso
notò che il neo era tornato al punto di partenza, nella piega del gomito
sinistro. Quanto a lei, durante il breve passaggio nel luogo di mezzo era
stata contro-invertita alla perfezione.
Domitilla, Eleonora e Beatrice, tornate dalle toilette a mani vuote,
corsero da lei. Erano troppo grandi per le sue braccia scorciate, ma lo stesso
Ofelia le strinse forte a sé.
La zia Roseline si era seduta di fronte a lei. Denti cavallini e occhi stretti
quanto lo chignon, la squadrava con un misto di disapprovazione e
compassione.
«Preferivo quando ti rosicchiavi i guanti».
Non disse altro, ma quelle parole bastarono a restituire a Ofelia tutte le
sue emozioni. Di colpo fu sommersa da gioia e tristezza, ma non aveva più
dita per tergersi le lacrime che le si incollavano alle ciglia. Provvide la
sciarpa, mandandole però gli occhiali di traverso sul naso.
Ofelia aveva una quantità di domande da fare. Cominciò da quella che
nell’immediato le sembrava la più importante.
«Dove sono gli spiriti di famiglia?».
«Qui al Memoriale, quasi al completo. Renard è andato ad avvertire
Berenilde del tuo arrivo» disse la zia Roseline. Poi si schiarì la gola. «Sì,
sono qui, ma sappi che troverai cambiati anche loro. Soprattutto la piccola
Vittoria, poverina. Non sta affatto bene».
Il prozio si aprì a fatica un varco fino a Ofelia.
«Lasciatela respirare, corpo d’una bretella! Non vedete che ha bisogno di
ricollegare i tubi?».
Facile a dirsi. Dal balcone interno su cui era stata messa, Ofelia vedeva i
piani avvolti ad anello intorno all’atrio e l’agitazione inconsueta che vi
regnava. I memorialisti correvano tra gli scaffali, svuotavano le vetrine,
riempivano carrelli di libri rari. Alcuni gridavano che bisognava evacuare
l’edificio, altri che bisognava restare. Il santuario del silenzio si era
trasformato in un frastuono generalizzato. Per aggiungere confusione alla
confusione l’alta marea aveva diffuso un velo di nuvole dappertutto.
Ofelia alzò gli occhi verso il globo del Secretarium, dentro il quale si
trovava fino a poco prima, che levitava imperturbabile sotto la cupola di
vetro. Conservava del Rovescio un ricordo confuso come un sogno e la
sensazione di non avere affatto le idee chiare. L’unica cosa chiara era che si
sentiva in colpa per essere tornata senza Thorn. Sapeva perché l’aveva fatto,
ma quella scelta le pesava sulla pancia come un macigno. Erano passate
appena poche ore da quando entrambi erano entrati nella gabbia, ma a ogni
secondo la distanza fra loro si approfondiva.
«Dove sono gli spiriti di famiglia?» ripeté.
Cercò di alzarsi respingendo con dolcezza le sorelle e appoggiando
goffamente le mani incomplete sui braccioli della poltrona, ma il prozio la
costrinse a rimettersi seduta.
«Non ti ho tradito, figliola mia, te lo giuro. Da quando te ne sei andata
all’improvviso col signor Cappello Sfondato tua madre mi ha fatto
l’interrogatorio ogni giorno di ogni settimana di ogni mese, e non ho detto
una parola».
«C’è poco da vantarsene!» intervenne la madre, risentita. «Mia sorella si
trasferisce al Polo, mia figlia fugge a Babel, tutti se ne vanno senza darmi
spiegazioni».
«Le arche non girano intorno a te, Sophie!» si spazientì la zia Roseline.
«Poi ci sono stati i buchi» continuò lo zio a voce più alta come se
nessuno lo avesse interrotto. «Anima è diventata un colabrodo! Buchi non
grossi come qui, ma belli grandi comunque, e così profondi che non se ne
vede il fondo, tanto che per poco la Relatrice non è caduta in quello che le
si è aperto in cucina, il che sarebbe stato il male minore».
«Un buco nel campo di zio Hubert» disse Hector.
«Un buco nella cantina di nonna Antonietta» disse Domitilla.
«Un buco in via degli Orefici» disse Eleonora.
«Pluf» sottolineò Beatrice.
«Ne abbiamo avuto uno alla fabbrica di merletti» disse Agata
tamburellando sulla schiena del bebè. «As-so-lu-ta-men-te spaventoso!
Vero, Charles?».
«Anche al Polo ci sono stati crolli» annunciò la zia Roseline. «Una
foresta di abeti e un lago di ghiaccio sono spariti dall’oggi al domani. Non
so se sia per quello, ma all’improvviso Faruk ha deciso di partire dal Polo e
venire a Babel. Non ha voluto scorta né ministri né aiuta-memoria, solo
Berenilde e la figlia, anche se non l’ha citata esplicitamente. Irragionevoli
come barometri» sospirò tra i denti. «Fare un viaggio del genere con i tempi
che corrono, neanche questo fosse l’unico posto al mondo in cui
rifugiarsi...».
«Moriremo?» domandò il figlio maggiore di Agata.
Il prozio imprecò tra i baffi per far stare zitti gli altri e continuò
guardando Ofelia con aria seria.
«Anche Artemide è stata presa dalla frenesia. Ha convocato le Decane in
piena notte e si è messa in testa di andare al Memoriale di Babel, proprio il
posto in cui tu stavi facendo la tua piccola indagine. Allora ho capito che
avevi problemi o stavi per averne, e non sono più riuscito a tenere la bocca
chiusa: ho detto a tua madre dov’eri. In quattro e quattr’otto abbiamo preso
baracca e burattini e ci siamo autoinvitati sul dirigibile di Artemide, una
bagnarola che lei ha animato personalmente. Filava talmente che per poco
non mi sono inghiottito la dentiera! Quando siamo arrivati qui abbiamo
visto che non c’eri, ma abbiamo deciso di fermarci lo stesso. E direi che
abbiamo fatto bene, no?».
Senza fiato per aver parlato troppo il prozio piantò i suoi occhi in quelli
di Ofelia evitando accuratamente le mani senza dita, mani addestrate
proprio da lui, mani che non avrebbero letto mai più.
Ofelia sorrise a lui e a tutta la famiglia. L’ultima azione del suo eco,
prima di dissolversi in lei, era stata riportarla dai suoi. Se non ci fossero
stati loro sarebbe rimasta incastrata nello specchio, stavolta per davvero.
«Grazie di essere qui. E di stare bene».
Tutti si guardarono quasi imbarazzati da quella dichiarazione, senza
sapere bene cosa dire.
«Dove sono gli spiriti di famiglia?» chiese allora per la terza volta
mettendosi risolutamente in piedi. «Devo vederli».
In quel momento Berenilde fece la sua apparizione nella sala di lettura.
Ofelia l’aveva vista bere, fumare e abbandonarsi a tutti gli eccessi senza
mai perdere il suo splendore. Era irriconoscibile. I capelli, di cui aveva
sempre avuto cura in qualsiasi circostanza, le ricadevano sulle spalle
smagrite come una pioggia grigia. Stava spingendo una carrozzina in cui
riposava un corpicino pallido, immobile e silenzioso. Aveva le mani
contratte sul maniglione, come se le fosse indispensabile per reggersi in
piedi. Appena lo lasciò la zia Roseline si affrettò a offrirle il braccio, ma
Berenilde lo rifiutò con un gesto cordiale e, nonostante la magrezza che le
tendeva la pelle sulle ossa, rimase ben dritta. I suoi occhi si ingrandirono
fino a divorarle la faccia mentre passava in rassegna gli Animisti grandi e
piccoli presenti nella stanza, poi si fermarono su Ofelia.
«Lui come sta?».
Berenilde non si era preoccupata né di lei né delle sue dita, ma Ofelia si
sentì travolta da una vampata di gratitudine. Era stata l’unica a pensare a
Thorn, e sembrava dare per scontato che Ofelia l’avesse ritrovato. Cosa
doveva risponderle, che l’aveva perso di nuovo? Che esisteva solo allo stato
di aerargyrum, smarrito da qualche parte nel Rovescio? Che se i due mondi
continuavano a collidere presto non ci sarebbe stato più né Dritto né
Rovescio? Che l’unica persona in grado di impedire la catastrofe era lì al
Memoriale e che Ofelia doveva assolutamente parlarci? Erano molte le
spiegazioni da fornire, e il tempo mancava.
Ne fu dispensata da un minuscolo mormorio.
«M’a».
Tutti guardarono la carrozzina. Guance scavate, occhiaie, pelle cerea,
Vittoria si era tirata a sedere. Storse la bocca emettendo con voce spezzata
la stessa parola, la prima che Ofelia avesse mai sentito uscire dalle sue
labbra.
«M’a!».
Berenilde guardò la piccola in carrozzina senza capire, come se le
avessero sostituito la figlia con un’altra, poi le tremò il mento ed emise un
grido soffocato che le veniva dal fondo dei polmoni. Sollevò Vittoria,
barcollò per il peso, cadde in ginocchio facendo frusciare il vestito e,
abbracciandola con amore rabbioso, scoppiò a ridere e a piangere.
«È incomprensibile» sussurrò la zia Roseline con voce incerta tenendosi
le mani sulla pancia. «Fino a un’ora fa riuscivamo a stento a farle
inghiottire un cucchiaio di minestra».
Tutti si raccolsero intorno a Berenilde e Vittoria. Ofelia ne approfittò per
squagliarsela. Avrebbe festeggiato degnamente la rimpatriata più tardi,
sempre che ci fosse stato un più tardi.
Sgattaiolò tra i banchi di nebbia urtando memorialisti terrorizzati che per
senso del dovere riempivano carrelli di libri. Riconobbe la sezione Brevetti
e invenzioni, a catalogare i quali aveva trascorso ore insieme ai suoi
compagni di divisione. Incontrò varie guardie familiari e Negromanti della
sicurezza, ma stavolta nessuno le chiese i documenti. Regnava il panico.
La tunica, a cui si era sganciato un fermaglio che Ofelia non riusciva a
rimettersi da sola, la impacciava nei movimenti. Non ci teneva ad assistere
alla fine del mondo in sottoveste.
Affacciandosi a una balaustra che dava sull’atrio vide che sotto c’era il
vuoto. Il vuoto vero. Il crollo si era portato via l’ingresso del Memoriale
con le alte porte a vetri, un intero pezzo di muro, lo spiazzo delle mimose,
la statua del soldato senza testa e la stazione del trenuccello. Rotti gli
ormeggi, i dirigibili interfamiliari stavano andando alla deriva. Ofelia
capiva meglio il panico dei memorialisti. Le inversioni stavano assumendo
proporzioni cataclismiche e la sua famiglia era intrappolata su un pezzetto
d’arca che si stava sbriciolando come una zolletta di zucchero. Da un
momento all’altro non ci sarebbe stato più abbastanza suolo a sostenere il
peso della torre. Attraverso quella breccia, tra una nuvola e l’altra, la città di
Babel in lontananza appariva più spezzettata che mai, rosicchiata da un
male invisibile che la mutilava quartiere per quartiere.
Pensò a Seconda che era da qualche parte in un sottosuolo, sola in mezzo
a una folla di echi-automi, in attesa che il fratello venisse salvato. Di sicuro
aveva spinto Thorn nella gabbia per una buona ragione, ma quale?
Si sporse di più dalla balaustra. Gli spiriti di famiglia erano in basso, al
centro dell’atrio, riuniti nel luogo della loro infanzia per la prima volta dopo
secoli, disposti in un cerchio quasi perfetto.
Se Ofelia non aveva fatto errori di calcolo la persona che cercava era lì
fra loro, sotto i suoi occhi.
Dal piano in cui si trovava non era facile distinguerli bene, ma riconobbe
Artemide dalla lunga treccia rossa, Faruk dal suo immacolato candore e
Polluce dalle scintille che producevano i suoi occhi anche a distanza.
Sebbene non avesse mai visto gli altri spiriti di famiglia aveva studiato i
loro ritratti e, uno per uno, riuscì a identificarli: Rê, Gaia, Morfeo, Olimpio,
Lucifer, Venere, Mida, Belisama, Djinn, Fama, Zeus, Viracocha, Yin,
Horus, Persefone, Urano...
All’appello mancava solo Helena, persa per sempre. E Janus.
Ofelia fu travolta dall’inquietudine. E se si fosse sbagliata?
«Stanno aspettando».
Renard si era appoggiato alla balaustra accanto a Ofelia e guardava anche
lui in basso. La zia Roseline non aveva esagerato, era davvero cambiato
anche lui, ma mentre Berenilde e Vittoria si erano fatte più fragili lui si era
irrobustito fin troppo. Il suo corpo sembrava aver assorbito la loro sostanza
e non solo per diventare più muscoloso che mai, tanto che le sue asole
accusavano il colpo. Aveva con sé una carabina enorme, un fucile da caccia
grossa che su Babel gli avrebbe valso l’arresto immediato se la situazione
non fosse stata così caotica. Era la prima volta che Ofelia lo vedeva armato.
Renard era più il tipo che si serviva delle parole, o in casi estremi dei pugni.
Fu colpita soprattutto dai suoi occhi verdi, che sotto le sopracciglia
aggrottate ardevano come una foresta in fiamme.
«Stanno così da quando siamo arrivati a Babel. Un faccia a faccia
interminabile. Sembrano in raccoglimento per la morte di lady Helena, ma
io so che stanno ancora aspettando qualcuno. Il grande capo».
Renard l’aveva detto come se pronunciare quella parola gli facesse venire
il mal di denti.
«Anch’io sto aspettando il grande capo» aggiunse scrutando ogni angolo
del Memoriale dal suo posto d’osservazione. «Eccome se lo sto aspettando.
Presto sarà fra noi, a meno che non sia già qui».
«Quindi l’avete incontrato» constatò Ofelia.
La forza espressa dagli occhi di Renard si fece più intensa.
«A Città-cielo, su un marciapiede. Stavo facendo la guardia mentre il
signor Archibald era in visita da madama Berenilde. Avevamo trovato Terra
d’Arco e il signor Archibald era andato a proporre a madama di venire con
noi per aiutarci a convincere don Janus. Gaela... era rimasta a Terra d’Arco
ed è ancora lì. Con lui. Lui ha preso il mio posto, la mia faccia, il mio gatto
e non posso nemmeno raggiungerli».
Il suo accento del Nord vibrò di collera trattenuta.
«E voi?» domandò Ofelia. «Siete stato...».
«Ferito? No, ed è stato peggio. Lui aveva assunto l’aspetto di un
Narcotico. Mi ha addormentato come un sasso. Se aveste visto il modo in
cui mi ha guardato subito prima... come se non fossi una persona, come se
ai suoi occhi fossi talmente insignificante che non valeva la pena farmi
fuori. Per lui non rappresentavo niente, capite? Zero. Ho servito nobili per
quasi tutta la vita, ma mai mi sono sentito tanto misconosciuto, nemmeno
quando mi hanno sbattuto nelle segrete. Appena uscirà dalla sua tana gli
farò vedere io chi sono».
Renard strinse i grossi pugni per calmarsi, poi guardò le mani di Ofelia.
Le sopracciglia aggrottate in un muraglione di collera si rilassarono, e senza
fare commenti, con tenerezza un po’ rude, le sistemò la tunica che
minacciava di caderle sui sandali.
«E tu, ragazzo, che vuoi fare?».
«Ristabilire una verità» rispose Ofelia senza esitazioni. «Sperando che
quella verità ristabilisca tutto il resto».
Dall’atrio le giunse la voce esile ma limpida di Elizabeth. Al centro del
cerchio degli spiriti di famiglia, tra quelle imponenti corporature, sembrava
più magra che mai. Nessuno di loro faceva caso a lei e al suo emblema di
LUX. Con insistenza, ma senza nessuna autorità, Elizabeth indicava loro il
baratro al posto del muro d’ingresso. «La mia amica è rimasta là sotto... è in
pericolo...». Ofelia si morse il labbro. “La mia amica”. Elizabeth la credeva
ancora all’osservatorio delle Deviazioni con Thorn e Lazarus, alla mercé
dei Genealogisti. Non l’aveva abbandonata, era sinceramente preoccupata
per lei.
Guardandosi in giro alla ricerca del transcendium più vicino Ofelia si
bloccò.
Thorn si ergeva in tutta la sua altezza nella sezione Brevetti. Aveva
sbattuto la fronte contro una lampada del soffitto, il cui paralume di rame
dondolava come un pendolo proiettando una luce agitata sulle vetrine
circostanti.
Era lì, era riuscito anche lui ad andarsene dal Rovescio.
Ofelia non fu in grado di aprire bocca. Le sembrava di avere una spugna
al posto di gola, naso e occhi, di trasformarsi tutta intera in acqua, con una
percezione più che ovattata di tutto ciò che intorno a lei non era Thorn. Lo
rivedeva scomparire dentro la gabbia in un’esplosione di particelle, e aveva
creduto di sgretolarsi con lui.
Thorn la riportò alla realtà con una domanda.
«L’hai trovato?».
Zoppicò verso di lei appoggiandosi pesantemente agli scaffali col rischio
di farli cadere. La gamba priva di armatura sembrava scomposta, come se
sotto i pantaloni gli si fossero riaperte tutte le fratture. Allungando un
braccio il polso magro gli uscì dalla manica di una camicia troppo piccola
per lui.
«Hai trovato l’Altro?» articolò con difficoltà.
Stava per cadere. Ofelia tese verso di lui le mani senza dita, ma Renard
fu più rapido. Fece roteare la carabina e colpì violentemente con il calcio la
testa di Thorn, che si rovesciò all’indietro in un sinistro scricchiolio di
vertebre.
«Le vetrine, ragazzo!».
Ofelia era inorridita. Prima dal collo spezzato di Thorn, poi dall’assenza
di riflesso sulle vetrine. Quell’uomo con la gamba spezzata e la camicia
troppo corta era una versione di Thorn risalente a tre anni prima, quando
ancora era in prigione, il giorno in cui Dio era andato a trovarli.
Ofelia aveva visto quello che aveva voglia di vedere.
Con una contorsione del braccio e un po’ di rumori ossei il falso Thorn si
rimise a posto la testa e posò su Ofelia gli occhi chiari senza degnare di uno
sguardo Renard, come se il suo colpo gli avesse fatto meno effetto di una
puntura d’insetto.
«Volevo solo guadagnare tempo, ma pazienza. A quanto pare niente e
nessuno mi sta facilitando il compito di saltare il fondo... di salvare il
mondo».
I suoi lineamenti spigolosi si arrotondarono fino ad assumere l’aspetto di
una sconosciuta che indossava una divisa molto colorata alla cintura della
quale erano appese una dozzina di bussole: al posto di Thorn, tra le vetrine
dei brevetti c’era ormai una falsa Arcadiana.
«È un regalino utile ma tardivo che mi ha fatto Janus» disse indicandosi
la nuova faccia. «Ti presento Carmen».
Si smaterializzò e rimaterializzò istantaneamente a sinistra di Ofelia,
incollata al suo orecchio.
«Ho l’ultimo potere...».
Sparì e riapparve contro l’orecchio destro.
«...Che mancava al mio repertorio».
«Stai lontana da lei!» tuonò Renard.
Aveva imbracciato il fucile da caccia. Dalla sua postura si capiva che si
era allenato un bel po’ a maneggiarlo. Sprizzava furore.
«Se l’hai toccata, anche solo sfiorata, ti giuro che...».
Ofelia capì che non stava più parlando di lei. A Renard serviva solo una
scusa per premere il grilletto. La falsa Carmen, poco disposta a prenderlo
sul serio, gli indicò un cartello su cui era scritto Silenzio, please. Ofelia vide
gli occhi di Renard dilatarsi dalla rabbia, poi non vide più Renard. Il
Memoriale non c’era più. Un cielo splendente si rifletteva su chilometri di
risaie disposte a terrazza in mezzo alle quali un baratro, che sfondava il
paesaggio come una bocca affamata, traboccava di cumuli di nuvole.
La falsa Carmen era accanto a Ofelia, immersa come lei nel fango di una
risaia fino ai polpacci. Era stato il suo potere familiare a portarle lì.
«È l’arca di Corpolis, un luogo incantevole fino a non molto tempo fa.
Qui potremo parlare senza essere interrotte. Almeno fino al prossimo
crollo».
«Fino alla prossima inversione» la corresse Ofelia.
La spugna nella sua gola si era completamente seccata. Senza le dita non
riusciva a calmare l’agitazione della sciarpa, contaminata dal tumulto delle
sue emozioni. La falsa Carmen la guardò in tralice. I suoi occhi, neri come
quelli di Madre Ildegarda, non avevano luce. Niente era autentico in lei, né
il suo modo grottesco di far tintinnare le bussole né la sua voce
inespressiva.
«È davvero molto lontano il tempo in cui, come te, ero solo una donnina
limitata. D’ora in poi posso fare qualsiasi cosa e andare ovunque. Esiste un
solo punto che resiste al mio nuovo potere ed è proprio lì, in quel Rovescio,
che sei andata a cacciarti. Ho dovuto aspettare che ti degnassi di uscire dal
tuo nascondiglio. Ti sento tesa. Preferisci un posto più familiare?».
Un’acquerugiola autunnale colpì le guance di Ofelia. Il cambio di
temperatura era stato brusco. Stava seduta su una panchina. La strada
davanti a lei era deserta, ma la riconobbe immediatamente. Si trovava su
Anima. Una carrozza senza cavallo, senza cocchiere e senza passeggeri si
dimenava per cercare di estrarre una delle ruote incastrata in un buco.
C’erano buchi dappertutto nella strada e nei giardini, come innumerevoli
camini sotterranei da cui uscivano vapori argentei. Sembrava un
bombardamento. Di fronte alla panchina di Ofelia erano allineate le case di
tegole e mattoni. La luce dietro le tende indicava che erano abitate, ma
nessuno osava più uscire, nonostante ci fossero buchi pure nei tetti.
«Una volta c’era più movimento» commentò la falsa Carmen. «Ricordo
di essere stata proprio bene quando sono venuta qui con la carampana del
funerale... con la Carovana del Carnevale».
Ofelia quasi non la ascoltava. Sotto la pioggia, una casa con tutte le luci
spente era il focolare domestico in cui aveva lasciato la sua infanzia. In
mezzo al vialetto d’ingresso c’era un cratere abbastanza grande da
inghiottire il fratello e le sorelle al primo passo falso.
«Sei fortunata, bambina mia, è un bel quartiere. Io sono cresciuta in un
orfanotrofio militare, ma immagino che tu lo sappia già, avrai fatto le tue
piccole ricerche sull’Eulalia Diyoh che ero allora. La finestrella al primo
piano, quella con le persiane chiuse, è camera tua? È in quella stanza che
hai liberato il mio riflesso dallo specchio?».
Ofelia spostò gli occhi dal cratere davanti a casa per guardare bene in
faccia quell’Arcadiana che tale non era.
«Nonostante tutti i tuoi poteri non sei stata in grado di localizzare l’Altro.
Sai perché?».
La falsa Carmen rimase impassibile sulla panchina, ma Ofelia capì di
averla contrariata. E si stava accingendo a fare ben di peggio, a rischiare
ben più delle sue dita.
«Io lo so» continuò Ofelia. «Non avevi bisogno di travestirti da Thorn
per carpirmi l’informazione. Bastava chiedermelo».
«Dov’è l’Altro?».
Nella domanda c’era molto più che semplice impazienza. Ofelia inspirò
un’aria piena di acquerugiola e rispose:
«Qui. Sei tu».
L’IDENTITÀ
L’Altro guardava Ofelia con occhi vuoti. Il modo in cui aveva ruotato la
testa, senza alcun rispetto per l’allineamento del busto e delle spalle, a una
persona di costituzione normale avrebbe fatto venire il torcicollo. Non
muoveva neanche le ciglia, sulle quali l’acquerugiola di Anima depositava
file di piccole perle.
«Stai insinuando che avresti liberato me dallo specchio, bambina mia?»
domandò calcando bene su ogni sillaba.
Ofelia sentiva con fastidio la mancanza di spazio fra loro sulla panchina.
A lungo aveva creduto che l’Altro fosse rimasto intrappolato in un
minuscolo luogo di mezzo. All’epoca ignorava l’esistenza del Rovescio,
non sapeva che l’Altro c’era nato e non ne era mai stato prigioniero.
«No. La persona che ho liberato dallo specchio, quella con cui mi sono
mescolata, è la vera Eulalia Diyoh. Era prigioniera del Rovescio, per sua
stessa scelta, dalla Lacerazione. Per tutto questo tempo vi siete scambiati i
posti. Perché Eulalia invertisse insieme a sé la metà del mondo serviva una
contropartita simbolicamente equivalente, qualcosa doveva venire fuori dal
Rovescio per rimettere in equilibrio la bilancia. Eri tu: un eco dotato di
parola, consapevole di se stesso, uscito dal ciclo di ripetizione, ma pur
sempre un eco».
«Dov’è il mio Libro?».
L’Altro fece un sorriso impersonale, si alzò e senza il minimo pudore,
con un baccano di bussole, si spogliò sotto la pioggia per esibire il corpo
nudo di Carmen. Appena tolta, la divisa evaporò come fumo. Ofelia notò le
facce di parecchi vicini, tutti suoi parenti più o meno prossimi, incollate alle
finestre, ma la paura di uscire continuava a essere più forte della curiosità.
«Se davvero sono un eco, come dici tu» fece l’Altro ruotando lentamente
su se stesso per non nascondere niente, «dov’è il codice che mi mantiene
incarnato nella materia?».
«Me lo sono chiesta» ammise Ofelia. «Credo che sia proprio questa la
cosa che ti differenzia in maniera fondamentale dagli spiriti di famiglia e da
tutte le forme materializzate di echi. A forza di dialogare con Eulalia Diyoh
ti sei cristallizzato. Ti sei svegliato a te stesso mentre eri ancora nel
Rovescio. Hai sviluppato il tuo pensiero con le tue parole all’interno di una
dimensione priva di un linguaggio proprio. Non hai bisogno di codice, però
hai bisogno di Eula...».
A Ofelia mancò il respiro. Il braccio dell’Altro si era allungato di colpo,
con uno stiramento innaturale di muscoli e ossa, e l’aveva afferrata alla
gola. Aveva sempre il corpo nudo dell’Arcadiana, ma a partire dalla spalla
la sua carne aveva assunto la consistenza gommosa di un Mille Facce. Non
le stringeva il collo al punto di strangolarla, ma quanta fermezza nella sua
presa! Era la forza di una folla concentrata in un solo individuo.
«Sono un pico fatidico... un tipo pacifico. Mi sono sempre battuto contro
tutte le torte di polenta... tutte le forme di violenza. Quindi ti prego,
bambina mia, non obbligarmi a far pedale... a farti male».
La panchina era sparita, Anima pure. Si trovavano tutti e due su Cyclope
in quello che sembrava essere il cortile di una scuola. I luoghi erano stati
evacuati in fretta e furia. Cerchi, biglie e cartelle galleggiavano qua e là in
assenza di gravità, abbandonati sul posto. Un baratro grande come un
vulcano aveva inghiottito tutti gli edifici circostanti.
Sola di fronte all’Altro, Ofelia ne sentiva le unghie sulla gola. Doveva
barcamenarsi con i piedi per non perdere l’equilibrio. Non sapeva da dove
le venisse il sangue freddo di parlare ancora, ma le parole sgorgavano quasi
suo malgrado.
«Tu credi in tutta sincerità di essere Eulalia, vero? Ti sei appropriato
delle sue idee, delle sue contraddizioni, delle sue ambizioni, da secoli segui
il suo copione punto per punto, ma stai solo recitando un ruolo. Sai che in
fondo la maschera che porti ricopre soltanto il vuoto. Sei un riflesso che ha
perso il suo riflesso. È per questo che il volto di Eulalia non ti è più bastato,
che ti sei messo a riprodurre più facce, più maschere, sempre di più...».
L’Altro affondò le unghie nella gola di Ofelia. Sul corpo dell’Arcadiana,
impudicamente inarcato e dotato di un braccio elastico da Mille Facce, il
viso cambiò aspetto. La pelle si schiarì fino al collo, i capelli si allungarono
in folti riccioli e sul naso spuntò un paio di occhiali.
La faccia della donna che somigliava a Ofelia senza esserlo davvero era
quella di Eulalia Diyoh.
«Chi sei tu per decidere chi sono e chi non sono?».
A Ofelia stava cominciando a mancare l’aria, ma si ostinò.
«Chiediti dov’è lei».
Gli occhi dell’Altro si contrassero insieme ai suoi muscoli. La scena
riprese a fluttuare trasportandoli da una prestigiosa pista di pattinaggio
olimpionica a un grande magazzino, poi da un giardino zoologico a una
spiaggia fatta di mandala. Passavano da un’arca all’altra, ma ovunque si
trovassero il suolo era tutto bucherellato. I pezzetti di mondo finiti nel
Rovescio si erano lasciati dietro solo vapori di aerargyrum.
Sospesa al pugno che le stringeva la gola, con gli occhi percorsi da
scintille, Ofelia non respirava più. La sciarpa si dimenava invano per
liberarla. Si domandò se morendo si sarebbe trasformata in aerargyrum, ma
temeva di no. Non avrebbe più rivisto Thorn.
A malincuore, con la testa china in avanti come se si rivolgesse al corpo
nudo di Carmen, l’Altro finì per mormorare:
«Portaci da Eulalia Diyoh».
Ofelia cadde a terra con tutta la sciarpa. L’aria le riempì i polmoni. Tossì
a lungo prima di ricominciare a respirare. Le scintille si dissolsero. Sopra di
lei, un globo galleggiava in assenza di gravità contro un cielo di vetro. Era
di nuovo nell’atrio del Memoriale, in mezzo agli spiriti di famiglia.
Ai piedi dell’Altro.
Il suo polimorfismo era peggiorato: oltre al corpo nudo da Arcadiana, al
braccio sproporzionato da Mille Facce e al volto di Eulalia Diyoh, ostentava
un lungo naso da Olfattivo che annusava l’aria alla ricerca di un odore
preciso. Stava al centro del cerchio formato dagli spiriti di famiglia
scrutandoli uno per uno con diffidenza, come se il colpevole che stava
cercando si nascondesse all’interno della loro pelle. Nonostante la pessima
memoria, probabilmente anche loro lo riconobbero dietro il suo aspetto
sconclusionato, perché vedendolo indietreggiarono. Tutti meno Faruk che,
mutato in statua di ghiaccio, lo guardava in faccia affascinato e disgustato.
Polluce, in quanto patriarca di Babel, lo accolse con una timorosa
riverenza.
«Benvenuto. Credo che vi stessimo aspettando. A proposito di... ehm... di
questo».
Indicò esitante il vuoto minacciosamente vicino che aveva inghiottito
l’entrata del Memoriale, mentre un dolore alterava l’oro del suo sguardo.
«Nostra sorella... Mia sorella... Ho già dimenticato come si chiama. Ci ha
lasciato, ma se fosse ancora qui, ebbene, so che vi domanderebbe
spiegazioni».
«Non è lui».
Faruk sembrò il primo a sorprendersi delle proprie parole, come se
neanche lui sapesse da dove gli venivano. Tuttavia le ripeté con estrema
lentezza.
«Non è lui. Non è Dio. Non il nostro».
Aveva posato una grande mano bianca sul suo Libro infilato da qualche
parte tra le pieghe del mantello polare. Una parte di lui, profondamente
nascosta, si ricordava di essere già stata profanata.
L’Altro non fece caso né a Polluce né a Faruk.
«Lei dov’è?».
Era un ordine, più che una domanda, e l’aveva rivolto solo a Ofelia, la
quale stava cercando goffamente di rimettersi in piedi puntellandosi sulle
mani senza dita. Le faceva male il collo. Cercò con gli occhi la vera Eulalia
Diyoh senza trovarla. Alzando la testa incrociò lo sguardo vagamente
interrogativo di Artemide, come se quest’ultima sospettasse un legame di
parentela fra loro, ma non fosse in grado di ricordarsi quale. Alzando
ancora di più gli occhi vide la gente affacciata alle balaustre dei vari piani e
fra loro, all’ultimo anello, la sua famiglia che la stava chiamando con
grandi gesti pieni di panico.
“Restate là sopra” avrebbe voluto urlare loro.
«Qua non vedo nessuna Eulalia Diyoh» mormorò l’Altro. «Stai castrando
le mie armi?... cercando di fregarmi?».
Mentre si stava domandando se sarebbe sopravvissuta a un altro
strangolamento Ofelia trasalì sentendo un grosso gatto intrufolarsi tra i suoi
polpacci. Salame?
«Su, su, la collera non si addice alla vostra carnagione».
Archibald era letteralmente spuntato dal nulla facendo volteggiare il
cappello intorno al dito. Fedele a se stesso in ogni circostanza, sorrideva.
Gaela, che come lui un secondo prima non c’era, trascinò Ofelia il più
lontano possibile dall’Altro, poi le sollevò il mento senza tanti riguardi e
imprecò vedendo sanguinarle sul collo i segni delle unghie.
«Bisognava tenere questo farabutto chiuso a tripla mandata, non limitarsi
a spiarlo da lontano. Avete fatto un casino, don Janus».
L’aria dell’atrio si spiegazzò come stoffa e ne uscì un gigante mezzo
uomo e mezzo donna che prese posto accanto agli spiriti di famiglia, come
se per lui lo spazio fosse soltanto un sipario di teatro. Ofelia capì allora da
dove fossero sbucati Archibald, Gaela e Salame. Capì anche che l’Altro si
era freneticamente spostato da un’arca all’altra per eludere la sorveglianza a
cui era stato sottoposto.
Con Janus la nidiata era finalmente al completo. Lo spirito di famiglia dal
sesso indefinibile fece risuonare i tacchi sul pavimento e si piantò davanti
all’Altro sovrastandolo a distanza.
«Non avete rispettato il nostro accordo. In cambio del potere di Aguja
dovevate osservare un’assoluta neutralità. Sostenete di essere l’unica
persona in grado di fermare i crolli? D’accordo, ma non intromettetevi nei
nostri affari e soprattutto» disse con un gesto lezioso in direzione di Ofelia,
«non alzate più le mani su uno dei nostri figli».
Con una grottesca contorsione di gambe l’Altro si voltò verso Janus. Il
suono disumano che gli uscì dalla bocca si riverberò su marmi e vetri del
Memoriale.
«Fino a oggi ho vegliato su ognuno di voi da metro le spinte... da dietro
le quinte. Credevo che foste capaci di preservare il mondo perfetto che
avevo creato per voi. Sono stato troppo permissivo. Appena delego, voi
deviate dalla retta via. Ma le rose canteranno... le cose cambieranno».
I piani del Memoriale furono percorsi da mormorii, ma nessuno fece
sentire chiaramente la propria voce. Tuttavia Ofelia notò un uomo, troppo
lontano per capire chi fosse, che stava scendendo di corsa un transcendium.
«Salverò questo mondo per la seconda volta» dichiarò l’Altro, «poi
detterò nuove regole. Molte regole. E corteggerò verticalmente...
controllerò personalmente che ognuno le applichi. Basta con gli
intermediari. Sarò ovunque e saprò tutto».
Gli spiriti di famiglia si scambiarono sguardi confusi. Faruk aveva palesi
difficoltà a rimanere concentrato su quello che stava succedendo. La cosa
più desolante, pensò Ofelia, era che di lì a poco tutti avrebbero dimenticato
ciò che stavano vedendo e sentendo in quel momento. Malleabili a volontà,
non era certo un caso che fossero stati privati della memoria. Di sicuro era
la prima cosa che aveva fatto l’Altro dopo aver preso il posto di Eulalia
Diyoh.
Solo Janus pareva in pieno possesso delle sue facoltà. Gli brillavano gli
occhi neri mentre si arricciava con aria ironica un baffo a spirale.
«E se ci rifiutiamo?» ridacchiò.
L’Altro lo fiutò come un animale, con le narici dilatate, poi dalla costola
gli sgorgò un terzo braccio che si infilò nel cranio di Janus come una lama
e, con uno scricchiolio di ossa, continuò il suo tragitto fino a dividerlo in
due per quanto era lungo. Tutto ciò che componeva il corpo di Janus andò
subito in fumo. Per terra rimase solo un Libro tagliato a metà.
Di Janus non restava niente. L’Altro non ci aveva messo neanche tre
secondi a cancellare secoli di immortalità.
Lo stupore di Ofelia fu condiviso da Archibald, Gaela e tutto il
Memoriale. Salame abbassò le orecchie e soffiò minaccioso. Gli spiriti di
famiglia si erano piegati portandosi una mano sulla pancia con espressione
di intensa sofferenza, come se la morte del fratello avesse intaccato la loro
materialità.
«Che avete fatto?».
Elizabeth mosse un passo fuori dall’ombra di Polluce, che piangeva
piano. Lunga e pallida come una candela, passata inosservata fino a quel
momento, sgranò gli occhi sul Libro tagliato in due, poi andò verso l’Altro
con uno slancio che le sollevò le falde della redingote, batté i tacchi
portandosi il pugno al petto su cui spiccava l’emblema di LUX e guardò
quella creatura proteiforme che ormai non aveva più niente di umano.
«Non... non so chi siate o cosa siate, ma in nome del potere che mi è stato
conferito vi dichiaro in arresto».
Ofelia era allibita. Per quanto la riguardava, come tutte le persone
presenti nell’atrio, non osava muovere un muscolo per paura di essere
tagliata in due. Finalmente vedeva Elizabeth com’era o, più esattamente,
come lei stessa avrebbe potuto essere. I capelli fulvi, le lentiggini, l’alta
statura, la vista buona, perfino l’età: niente di tutto ciò le apparteneva
veramente. Elizabeth aveva preso da Ofelia come Ofelia aveva preso da
Elizabeth.
Con la differenza che Ofelia ormai lo sapeva. Era lei quella che aveva
visto al posto del proprio riflesso nello specchio del Rovescio.
L’Altro, il cui terzo braccio si contorceva a terra come un tentacolo,
arrivò alla stessa conclusione e sorrise con ciò che rimaneva del viso di
Eulalia Diyoh sotto il naso prominente.
«Allora sei tu».
Elizabeth sobbalzò quando l’Altro scomparve e riapparve proprio davanti
a lei, corpo deforme contro corpo informe, a portata di fiato. L’Altro
analizzò con avidità le sue occhiaie, le sue ferite, la sua mancanza di rilievi,
nutrendosi di tutta la debolezza che scopriva in lei.
«Sei tu».
«Prego?».
Elizabeth sembrava completamente smarrita, stringeva le ginocchia per
farle tremare un po’ meno. Il sorriso dell’Altro continuava ad allargarsi
strappandogli la pelle come fosse una maschera di stoffa.
«Sei Eulalia Diyoh».
Elizabeth smise subito di tremare. Quelle tre parole che avrebbero dovuto
restituirle l’identità produssero su di lei l’effetto contrario. Perse vigore
ancora di più, la faccia le si svuotò di ogni sostanza. Era come se la sua
mente si fosse ritirata in fondo al corpo.
«Poco importa chi delle due sia la prima, vero?» continuò l’Altro. «Io
sono supermente infinitamore... infinitamente superiore a te. Guardati,
povera nullità, non sai neanche più chi sei. Allora te lo dico io: sei una
traditrice. Il tuo posto è insieme a tutto ciò che il vecchio mondo aveva di
corrotto. Tornando hai fesso in veicolo... hai messo in pericolo quelli che
sostenevi di voler salvare. Ho il dovere di rimandarti in quello specchio da
cui non saresti mai dovuta uscire».
Una terza gamba gli spuntò dal corpo e batté un grande colpo di tacco sul
pavimento. Il lastricato dell’atrio esplose per l’effetto dell’improvvisa
ondata geologica. La terra tremò. Dalla cupola vennero giù torrenti di cocci
di vetro. Gli scaffali vomitarono libri. La scossa aveva gettato a terra Ofelia.
Grida e fracasso le ronzavano nelle orecchie. Finito il terremoto, la sciarpa
le strofinò gli occhiali per pulirli dalla polvere.
L’atrio era irriconoscibile. Il pavimento era un guazzabuglio di vetri e
sassi. Le colonne si erano crepate, alcune erano crollate. Vari spiriti di
famiglia si ritrovavano tra le braccia uomini e donne feriti a morte che il
sisma aveva fatto cadere dai piani. Tra loro Ofelia non vide nessuno della
sua famiglia, ma continuava a sentire urla provenienti dai quattro angoli del
Memoriale. Si augurò che fossero tutti sani e salvi là sopra. Poi si rese
conto che anche lei sarebbe stata schiacciata da un blocco di marmo se
l’animismo di Artemide non l’avesse trattenuto.
«Grazie».
In mezzo alle macerie una coppia si stava abbracciando con passione.
L’uomo che Ofelia aveva visto scendere il transcendium di corsa era
Renard. Col fucile a tracolla stringeva Gaela tanto quanto lei stringeva lui.
Lui la ricopriva di baci, lei lo ricopriva di insulti: una bolla di felicità in un
oceano di caos.
Ofelia scacciò il pensiero di Thorn rimasto solo nel Rovescio. Non
poteva permettersi cedimenti, non in quel momento.
Dal canto suo, Archibald era coperto di graffi dovuti soprattutto alle
unghie di Salame, che aveva stretto a sé per proteggerlo dalle schegge di
vetro. L’ex ambasciatore emise un lungo fischio di apprezzamento.
Ofelia seguì la direzione del suo sguardo. Nel punto in cui il terzo tallone
dell’Altro aveva colpito il suolo un amalgama di roccia grezza e pietra
tagliata formava una scala che prima non c’era, una scala ripidissima che
portava lassù, al globo galleggiante del Secretarium, sotto una cupola ormai
senza più vetri.
“Lo specchio sospeso” pensò Ofelia. Lo specchio in cui Eulalia e l’Altro
si erano scambiati di posto il giorno della Lacerazione. Lì si sarebbe giocato
tutto.
IL POSTO
Liberami.
Una sola parola. Una parola di troppo. Nel Rovescio parlare è un atto
contronatura. Eulalia ha avuto bisogno di tempo e allenamento, molto
tempo e molto allenamento, per reimparare i rudimenti del linguaggio. Ha
immaginato un nuovo alfabeto a sei anni, inventato un codice di
programmazione a otto, finito il suo primo romanzo a undici, ed ecco che
deve fare sforzi sovrumani per quattro misere sillabe.
Liberami.
Se non altro è riuscita a catturare l’attenzione di Ofelia, che si è trascinata
fuori dal letto e volge intorno a sé uno sguardo appannato. Quello sguardo
passa attraverso Eulalia, che pure è in piedi in mezzo alla stanza, senza
vederne lo sconforto né la speranza. È la prima volta da molto tempo, da
moltissimo tempo, che un abitante del Dritto reagisce al suo richiamo.
Eulalia dispone solo di pochi istanti. Per il momento è il sonno a rendere
Ofelia ricettiva al Rovescio.
Il sonno e uno specchio.
Liberami.
Al contatto delle parole lo specchio della camera vibra come un diapason
invertendone le vibrazioni fino a renderle quasi udibili.
«Liberami».
Nell’altro letto la giovane Agata dorme profondamente tra una corona di
capelli rossi sparpagliati sul cuscino. A un certo punto Eulalia si accorge
che qualcun altro si è seduto sul materasso, un ragazzo in cui tutti i colori
sono invertiti come sul negativo di una fotografia. Ancora lui. Quel giovane
Babeliano ha preso l’abitudine di seguire Eulalia dappertutto come
un’ombra, cosa che in fondo sono tutti e due. I suoi occhi traboccano di un
misto di curiosità e dolcezza. Eulalia sa che non fa parte della vecchia
umanità che lei ha invertito insieme a se stessa. No, il tipo è stato spedito di
recente nel Rovescio grazie al Corno dell’abbondanza che lei credeva
sepolto per sempre, ed è in parte a causa sua se quella notte lei è lì.
Deve rimanere concentrata su Ofelia, che sta barcollando dal sonno
davanti allo specchio, non perdere il contatto che finalmente si sta
stabilendo fra loro.
Liberami.
«Liberami» le fa debolmente eco lo specchio.
Ofelia vi cerca Eulalia, che in realtà sta proprio dietro di lei. Dietro
dietro.
«Eh?».
Tutta la materia inversa di cui è composta Eulalia si contrae. Dopo
un’eternità di silenzio, finalmente un dialogo.
Liberami.
Ofelia si volta, guarda Eulalia senza vederla. È così giovane! Ha un piede
nell’infanzia e uno nell’adolescenza, e graziose mani avvolte dall’ombra del
suo animismo.
«Chi sei?».
A ogni movimento, a ogni parola Ofelia diffonde vibrazioni di sé che
Eulalia sente in fondo alle proprie. Darle una risposta le richiede un’energia
considerevole.
Sono chi sono.
Liberami.
«Come?».
Sulla faccia insonnolita di Ofelia c’è un po’ dell’infanzia di Artemide.
Nelle sue vene scorre lo stesso sangue, lo stesso inchiostro con cui Eulalia
ha scritto l’inizio della loro storia. Fremente di nostalgia, ricorda il giorno
in cui Artemide ha attraversato il suo primo specchio. Succedeva in un’altra
vita, in un’altra città, all’epoca in cui i suoi figli imparavano a servirsi dei
loro poteri, prima di allontanarsene.
Prima di esserne allontanati.
L’Altro ha strappato la loro memoria appena uscito dal Rovescio. Eulalia
ha assistito alla scena da dietro le quinte, ha visto il suo eco farsi passare
per lei, parlare a nome suo e mutilare i Libri di tutti i suoi figli eccetto
Janus, che quel giorno ha avuto la buona idea di non essere presente. Non si
è mai sentita tanto tradita. Non era così che dovevano andare le cose.
Falso.
Dentro di sé Eulalia lo sapeva. L’ha saputo nel momento in cui l’Altro le
ha suggerito di portare con sé nel Rovescio tutte le guerre mentre lui
avrebbe fatto da contrappeso passando nel Dritto. Eulalia voleva salvare il
proprio mondo, l’Altro voleva andarsene dal suo. Dando retta all’eco gli ha
conferito il potere di lasciare il Rovescio e prendere il suo posto, il potere di
creare un passaggio, in pratica un Corno dell’abbondanza provvisorio.
Bastava uno specchio. Eulalia ci ha messo un po’ a onorare la promessa
perché in fondo sapeva che non avrebbe mai dovuto farla. Laggiù, sulla loro
isola, il richiamo dell’Altro era diventato così potente che non riusciva più
ad avvicinarsi a una superficie riflettente senza sentirsi aspirata. Aveva
gettato tutti i cucchiai, tolto i vetri a tutte le finestre, addirittura nascosto gli
occhiali per paura di essere portata via prima di aver finito di crescere i
futuri spiriti di famiglia. Aveva lasciato intatto soltanto lo specchio di
camera sua.
Uno specchio che ha varcato il giorno in cui la guerra è tornata a
minacciare la vita dei suoi figli.
Uno specchio simile a quello in cui l’espressione interrogativa di Ofelia
si sta riflettendo in quel momento, ancora con la domanda “Come?” sulle
labbra.
Attraversa.
«Perché?».
Perché metà dell’umanità non sa di aver vissuto sul sacrificio dell’altra
metà. Perché ormai tutte le guerre spedite nel Rovescio sono finite. Perché
milioni di uomini e donne hanno finalmente deposto le armi e sono usciti
dai loro conflitti uno dopo l’altro. Perché Eulalia è l’unica a non conoscere
la pace. Perché l’Altro è sordo ai suoi richiami. Perché l’Altro non ha
portato la riconciliazione in nessun cuore e nessun focolare del Rovescio.
Perché tutti e due hanno fatto l’errore di credersi Dio. E perché, pensa
Eulalia guardando il giovane seduto sul letto di Agata, a Babel altre persone
stanno commettendo gli stessi errori in quello stesso momento.
Perché è necessario.
«E perché io?» insiste Ofelia.
Eulalia non è un’Attraversaspecchi, personalmente non ha mai avuto il
minimo potere. Ha fatto numerose visite ai discendenti di Artemide
sperando di trovare fra loro qualcuno in grado di riaprirle la strada. In realtà
non sa se Ofelia ne sia capace, ma l’importante è crederci.
Perché tu sei chi sei.
Ofelia trattiene uno sbadiglio. Presto si sveglierà del tutto e sarà troppo
tardi.
«Posso provarci».
Eulalia freme. Scambia un ultimo sguardo con il giovane Babeliano, che
le sorride e solleva entrambi i pollici per congratularsi. Tuttavia qualcosa la
trattiene. Davanti a quello specchio più che in qualsiasi altro luogo ha il
dovere di essere finalmente onesta. Verso Ofelia e verso se stessa.
Se mi liberi cambierà tutto:
io, te e il mondo.
Eulalia teme di aver perso l’occasione, invece Ofelia si decide.
«Va bene».
Si immergono insieme nello specchio. Le loro molecole si urtano, si
incrociano, si mischiano, si attraversano in un interminabile interstizio. Il
dolore è assoluto. Eulalia sente che si sta contro-invertendo un atomo dopo
l’altro, ma già non sono più totalmente i suoi. Le si confondono le idee, la
sua identità si diluisce. Presto uscirà dal luogo di mezzo. Deve affrettarsi a
scegliere la propria destinazione, un qualunque specchio di un qualunque
Babeliano.
È importantissimo che non dimentichi.
Dimenticare cosa?
Deve correggere i loro errori.
Quali errori?
Deve tornare a casa.
Tornare dove?
A Babel.
La comunione si ruppe. Ofelia, che stentava a ridefinire se stessa in
quanto entità distinta, capì il perché vedendo Archibald steso sul pavimento
con il cilindro capovolto accanto a sé. Alla fine aveva perso i sensi. Lei
stessa era stata sul punto di svenire. Quanto a Elizabeth, gemeva
rannicchiata.
Al centro della stanza l’Altro, noncurante, si strappava di dosso con le
sue centinaia di dita le ultime pagine di libro che lo ricoprivano.
Intorno a loro non c’erano più piani né biblioteche né cupola, solo nuvole
cariche di temporale e un inebriante odore di sale. Il vento fece sbattere la
sciarpa e la tunica strappata mentre Ofelia avanzava fino al bordo del
pavimento, al confine tra il solido e il vuoto. Il Memoriale era scomparso?
Incredula, ruotò lentamente su se stessa. A perdita d’occhio si estendeva
un oceano scuro e tumultuoso quanto il cielo. Una flotta di corazzate
vecchie di parecchi secoli andava alla deriva senza meta. Ofelia abbassò la
testa e strizzò gli occhi, disturbata dalle lenti fratturate degli occhiali. Nel
punto in cui prima c’era l’arca del Memoriale l’oceano si fermava di colpo
descrivendo una spirale ululante intorno al vuoto senza riversarvi una sola
goccia, a dispetto di tutte le leggi della natura. La memoria planetaria.
Il Rovescio aveva rigurgitato un pezzo del vecchio mondo e incamerato
al suo posto quel poco che restava di Babel. Si era inghiottito il Memoriale,
Faruk, Artemide, la sua famiglia. Tutta la sua famiglia.
«Posso riportarli indietro» mormorarono le bocche dell’Altro.
Ofelia guardò le facce che gli crescevano in tutto il corpo. Nell’Altro non
c’era più alcuna coerenza molecolare. Le sue braccia disarticolate, simili
alle zampe di un millepiedi, indicarono lo specchio sospeso la cui
superficie, sempre più agitata, non lo rifletteva.
«È colpa tua e di Eulalia. Sta a voi dipanare la vostra polpa... riparare la
vostra colpa. E il mondo è mio».
«Tu non rappresenti nessuno».
Era stata Elizabeth a parlare. Si era alzata. Quando raddrizzò il mento i
capelli le scesero sulla schiena. Il suo corpo privo di forme sembrò
acquistare gradualmente spessore e affermare finalmente la propria
presenza nella realtà.
«Neanche me».
Tutti gli occhi dell’Altro, e ce n’erano una quantità, si spalancarono per
poi richiudersi quasi subito, assorbiti uno dopo l’altro dalla pelle. Anche
facce, braccia e gambe rientrarono, come se una forza irresistibile le
aspirasse dall’interno. Poco a poco il suo corpo rimpicciolì, perse la sua
pluralità e riacquistò un aspetto umano fino a diventare suo malgrado la
copia conforme di Elizabeth, redingote da precorritrice compresa.
L’Altro si guardò le mani costellate di lentiggini, mani prive di poteri
familiari.
«Ora ricordo perché ho rotto il nostro patto e abbandonato il Rovescio»
disse Elizabeth.
Aveva una voce dolce e stanca, ma lo sguardo con cui fissava la copia di
se stessa era inflessibile.
«La vecchia umanità che ho invertito insieme a me non ha più niente a
che vedere con quella che conoscevamo noi. Si è placata, molto più di
quella che ho affidato a te. Sacrificare metà del mondo per salvare l’altra
metà non ha più senso. E poi» sospirò con un accenno di sorriso, «chi siamo
noi per decidere al posto loro?».
Per la prima volta Ofelia colse nella postura dell’Altro un leggero
tentennamento. Non era tanto l’espressione di un dubbio, quanto quella di
un senso di inferiorità, un’incompletezza che le parole di Elizabeth non
colmavano. Stava già lottando per liberarsi del debole corpo che Elizabeth
gli aveva imposto.
Non era proprio il caso di lasciargliene il tempo. Ofelia si proiettò in
avanti a testa bassa e con tutta la forza delle sue mani senza dita spinse
l’Altro nello specchio alle sue spalle. Lo sguardo che le lanciò lui mentre
cadeva all’indietro fu terribile. Al suo contatto la lega di vetro, stagno e
piombo assunse la consistenza di un vortice. Il passaggio verso il Rovescio
si era aperto per ottenere finalmente la contropartita che gli mancava. Poco
disposto a farsi aspirare, l’Altro si aggrappò ai bordi dello specchio. Si
dimenava accanitamente, tornava in superficie. Ignorando i colpi, Ofelia ed
Elizabeth si appoggiarono su di lui con tutto il loro peso per spingerlo
dentro.
Non ci riuscivano. Erano sfinite. Sebbene indebolito, l’Altro resisteva.
Le avrebbe uccise, avrebbe versato sangue realizzando così la profezia
della matita rossa.
Dallo specchio spuntarono due braccia. Ofelia pensò che fosse
un’ennesima metamorfosi dell’Altro, invece si strinsero intorno a lui come
una tenaglia per trascinarlo giù. Erano braccia striate di cicatrici.
Erano le braccia di Thorn.
Aveva approfittato di quella breccia provvisoria nel luogo di mezzo.
Precipitando sotto la superficie dello specchio il viso dell’Altro si dilatò
dalla sorpresa. Perse le lentiggini, le sopracciglia, il naso, gli occhi e la
bocca finché non rimase più alcun viso e si lasciò inghiottire come un
anonimo pupazzo.
Con Thorn.
«Stavolta no».
Ofelia tuffò il braccio nello specchio. Sentì la mano di Thorn afferrare la
sua, ma non avendo più dita non poté fare altrettanto. L’attrazione del
Rovescio era irresistibile come un gorgo. Se Elizabeth non l’avesse
trattenuta per la sciarpa anche lei sarebbe stata risucchiata. Cacciò un grido
quando le si slogò la spalla, ma tenne duro. Avrebbe strappato Thorn al
Rovescio anche se in cambio avesse dovuto cedere metà del proprio corpo.
L’importante era che lui non la lasciasse.
La lasciò.
Perdendo l’equilibrio, Ofelia cadde all’indietro su Elizabeth che cadde a
sua volta su Archibald che stava riprendendo i sensi. La superficie dello
specchio sospeso si spianò fino a tornare solida. Il passaggio verso il
Rovescio si era chiuso.
Ofelia si guardò l’avambraccio. Una mano senza Thorn era peggio di una
mano senza dita.
Tutto intorno a loro ricompariva gradualmente la struttura del Memoriale.
Da principio fu solo un’immagine in filigrana sullo sfondo del cielo e
dell’oceano, quasi un effetto ottico, poi la pietra, l’acciaio e il vetro
acquistarono densità. I resti del Secretarium, la grande scala minerale,
l’ingresso, il giardino di mimose, i transcendium e i piani ad anello si
stavano contro-invertendo. C’era di nuovo la famiglia di Ofelia al gran
completo. Si scambiavano sguardi incerti con i memorialisti.
«Oh oh» fece Archibald.
Anche Ofelia lo vide. Dietro lo specchio sospeso una vecchia carta da
parati stava perdendo lentamente la trasparenza. Rispedire l’Altro nel
Rovescio aveva rotto il contratto. Il vecchio mondo e il nuovo si stavano
riallineando sullo stesso piano. L’altra metà della camera, rimasta fino a
quel momento nel Rovescio, usciva poco a poco dall’invisibile, e con lei
l’altra metà del Memoriale: una metà che gli architetti di Babel, credendola
crollata, avevano interamente ricostruito. Le due parti stavano per entrare in
contrasto.
Elizabeth si mise le mani a megafono e piena di un’autorità nuova
ordinò:
«Evacuate l’edificio! Tutti fuori!».
Ofelia non voleva. Col braccio che le pendeva dalla spalla slogata
guardava intorno a sé la camera che si andava ricostituendo mobile dopo
mobile. Il legno scricchiolava, la pietra esplodeva, l’edificio rumoreggiava.
E se Thorn fosse stato lì, vicinissimo, magari sul punto di ricomparire?
Sentì che qualcuno le prendeva le spalle. Gli occhi di Archibald cercavano i
suoi dietro gli occhiali rotti. Le stava dicendo che dovevano andarsene
subito.
Poi ricevette un colpo, e tutto si fece nero.
GLI ATTRAVERSASPECCHI
trovava posto.
Quanto allo specchio sospeso, era finito in mille pezzi.
«Niente da segnalare» rispose Elizabeth anticipando la domanda. «Non
faccio che scrutare il mio riflesso: l’Altro non si manifesta più».
Ofelia annuì. Neanche l’ombra di Ambroise I le era più riapparsa. Era
riuscito a manifestarsi solo grazie alla collisione tra Dritto e Rovescio nel
punto in cui il velo tra i due mondi era più tenue, e forse concentrando lui
stesso tutto l’aerargyrum che era umanamente possibile. In un certo senso
non vederlo più era la prova che tutto era rientrato nell’ordine. Quasi tutto.
Osservò i capelli bianchi di cui era punteggiata la lunga treccia fulva di
Elizabeth. Erano legate l’una all’altra da un attraversamento di specchio.
Come due traiettorie gemelle, le loro strade non avevano mai smesso di
incrociarsi, ma ormai stavano per prendere direzioni diverse.
Elizabeth abbozzò un sorriso.
«Sai, il mio ritorno nel Dritto è stato proprio spaventoso. Avevo perso
metà della mia identità e del mio aspetto. Ho terrorizzato una coppia di
Babeliani spuntando all’improvviso nel loro salotto, ma quella che aveva
più paura ero io. Sono scappata, ho vagabondato per strada senza riuscire a
ricordarmi perché ero lì. Forse non volevo ricordarmelo. Suppongo che il
peso delle responsabilità di Eulalia Diyoh fosse troppo oneroso. E poi ai
miei ricordi si sovrapponevano i tuoi: una casa animata, una famiglia
numerosa... Non c’era soltanto il mio passato con gli spiriti di famiglia,
c’era anche un po’ della tua infanzia. Sono arrivata alla conclusione di
essere stata abbandonata. Quando le autorità mi hanno chiesto come mi
chiamavo non sono riuscita a ricordarmelo, ho farfugliato qualcosa come
Euli... Ela... e loro hanno deciso che era Elizabeth. Mi dispiace non poter
vedere il seguito della tua storia» aggiunse saltando di palo in frasca, «ma
quando tornerai non ci sarò più. In realtà sarò morta prima di stasera».
Ofelia fece un’espressione afflitta.
«Sto scherzando. Conto di reggere ancora qualche settimana».
Soddisfatta della battuta, Elizabeth andò a raggiungere gli spiriti di
famiglia zoppicando e sghignazzando come una vecchia.
Se non ci fosse stata Ofelia sarebbe già passata a miglior vita. Se il treno
dell’osservatorio delle Deviazioni fosse andato direttamente al terzo
protocollo, Ofelia non sarebbe stata consegnata a lady Septima insieme a
Elizabeth. Non sarebbe salita a bordo del dirigibile con lei. Non avrebbe
potuto ricorrere all’animismo per salvarla dal naufragio. Non avrebbero
scoperto insieme la ventiduesima arca. Non sarebbero tornate tutte e due a
Babel a bordo del lazarottero. Elizabeth non sarebbe mai stata in grado di
riprendere il sopravvento sull’Altro. Dritto e Rovescio sarebbero rimasti in
disequilibrio fino al caos finale.
Insomma, la storia sarebbe finita un po’ meno bene. Ofelia percorse il
ponte, che ormai si estendeva sull’oceano, poi attraversò il mercato delle
spezie. Era molto più affollato dell’orto botanico. Ai Babeliani attuali si
mischiavano i Babeliani di un tempo, che guardavano, annusavano e
assaggiavano tutto quello che era a portata di mano facendo indispettire i
mercanti. Da tutte le parti era richiesto l’intervento della guardia familiare.
Octavio aveva ragione, la convivenza non sarebbe stata facile.
Facile no, ma salutare sì. Le venne in mente la ragazza incontrata nel
villaggio abbandonato della ventiduesima arca. Quelli che erano tornati dal
Rovescio avevano lo stesso sguardo, uno sguardo di accettazione totale,
senza etichettatura, che non faceva confronti, in cui ogni cosa acquistava un
valore particolare. Uno sguardo che ridefiniva l’alterità. Lazarus aveva
detto una quantità di sciocchezze, ma almeno su un punto aveva visto
giusto: «Abbiamo molto da imparare da loro».
Ofelia guardò lontano quanto glielo permettevano la folla e la città:
l’oceano da una parte e il continente dall’altra, il nuovo e il vecchio mondo.
Le batteva il cuore. C’era così tanto da vedere e da scoprire!
Attraversò le rotaie del tram e si fermò solo quando giunse davanti
all’insegna:
VETRERIA – SPECCHI
A te, Thibaud, per aver vissuto insieme a me, e certe volte più
intensamente di me, tutta la storia intorno a questa storia fino alla fine e
oltre. Sei presente dietro ogni lettera di ogni parola di ogni frase che ho
scritto.
A voi, mie preziose e ispiratrici famiglie di Francia e del Belgio, di carne
e di penna, d’oro e d’argento. Fate parte dei miei libri più intimamente delle
pagine che li compongono.
A voi, Alice Colin, Célia Rodmacq, Svetlana Kirilina, Stéphanie
Barbaras per tutto ciò che mi avete dato e insegnato con le vostre parole.
Grouh.
A te, Camille Ruzé, che mi hai colmato di umorismo e di disegni senza i
quali quest’ultimo volume non sarebbe ciò che è. Anche un po’ di più.
A voi, Evan e Livia, per essere chi siete: emozione allo stato puro.
A Gallimard Jeunesse, a Gallimard e a tutti i miei editori interfamiliari
per aver portato l’Attraversaspecchi da un’arca all’altra.
A te, Laurent Gapaillard, per aver reso le mie scene in maniera sublime.
A tutta la Clique de l’Écharpe per l’incredibile creatività e l’inimitabile
buonumore che avete diffuso intorno all’Attraversaspecchi.
A voi, Émilie Bulledop, Saefiel, Déborah Danblon nonché a ogni libraio,
bibliotecario, documentalista, professore e cronista che ha passato e fatto
passare il mio specchio.
A te, Carole Trébor, per la tua amicizia e i tuoi libri.
A te, Honey, per aver creato la community Plume d’Argent e aver
creduto in me.
A te, Laetitia, che per prima mi hai spinto a scrivere.
A te, lettrice, e a te, lettore, per aver attraversato il mio specchio e
condiviso quest’avventura pagina dopo pagina.
E infine a te, Ofelia, per avermi accompagnato così intimamente dal
primo all’ultimo passaggio di specchio. Già mi manchi.
Nota sull’Autrice
Ciò che noi possiamo assicurare è che il prezzo che hai pagato per questo
libro va interamente a remunerare tutte le persone che hanno contribuito a
pubblicarlo e a distribuirlo (l’autore, l’editore, il traduttore, il redattore, il
grafico, il tipografo, il dipendente della casa editrice, il distributore, il
promotore, il libraio, ecc.). Tutte persone che svolgono il loro lavoro con
onestà e impegno e che vengono letteralmente derubate a ogni atto di
pirateria.
Il prezzo che hai pagato per questo libro serve a mantenere in piedi un
sistema editoriale ampio e articolato, in cui i successi editoriali affiancano
le migliaia di nuovi libri pubblicati ogni anno senza lo stesso successo ma
che sono parimenti indispensabili per un sistema di bibliodiversità fondato
sulla ricerca e sul pluralismo delle voci.
Gli editori