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DELLA STESSA AUTRICE

PRESSO LE NOSTRE EDIZIONI:

Fidanzati dell’inverno. L’Attraversaspecchi – Libro 1


Gli scomparsi di Chiardiluna. L’Attraversaspecchi – Libro 2
La memoria di Babel. L’Attraversaspecchi – Libro 3
L’ATTRAVERSASPECCHI
LIBRO 4

ECHI IN TEMPESTA
Christelle Dabos

L’ATTRAVERSASPECCHI
LIBRO 4

ECHI IN TEMPESTA

Traduzione dal francese


di Alberto Bracci Testasecca
Edizioni e/o
Via Camozzi, 1
00195 Roma
info@edizionieo.it
www.edizionieo.it

Titolo originale: La Passe-Miroir Vol.4, La tempête des échos


Copyright © 2019 by Gallimard Jeunesse
Copyright © 2020 by Edizioni e/o

Grafica/Emanuele Ragnisco
www.mekkanografici.com

Grafica di copertina e illustrazioni di


Laurent Gapaillard © Gallimard Jeunesse

ISBN 9788833572529
RICORDI DEL LIBRO 3
LA MEMORIA DI BABEL

Dopo quasi tre anni passati a tormentarsi Ofelia ritrova le tracce di Thorn
su Babel, un’arca cosmopolita, gioiello di modernità, che riesce a
raggiungere con l’aiuto di Gaela, Renard e Archibald, impegnati da mesi a
cercare il modo di arrivare a Terra d’Arco servendosi delle Rose dei Venti.
Appena giunta sull’arca dei gemelli Helena e Polluce, Ofelia si fa
ammettere sotto falso nome al conservatorio della Buona Famiglia per poter
indagare sulla vera identità di Dio. Ofelia si confronta allora con
l’onnipotenza dei Lord di LUX e con la legge del silenzio che
paradossalmente vige proprio nel massimo luogo preposto all’informazione.
Nella scia delle sue ricerche si verificano strane morti, gente paralizzata in
un’espressione di terrore puro...
L’accanito impegno nello studio le permette alla fine di ritrovare Thorn
nel cuore del Memoriale di Babel, un’immensa biblioteca che si vanta di
essere la “memoria del mondo”, in cui l’ex intendente del Polo si è rifugiato
per tentare di trovare le tracce di Dio. Contro ogni aspettativa, l’identità di
Dio è nascosta in certi libri per bambini: si tratta di Eulalia Diyoh, l’autrice
degli stessi. La distorsione del cognome l’ha poco a poco fatta assurgere al
rango di Dio.
Ma se Dio è Eulalia, chi è l’Altro, quell’alter ego che Ofelia percepisce
nello specchio e che provocherà il crollo definitivo delle arche? E cosa sono
gli echi che Lazarus, un alleato di Dio, considera “la chiave di tutto”?
PERSONAGGI
OFELIA

Nata sull’arca di Anima, Ofelia ha rifiutato due proposte di matrimonio


prima di essere costretta a sposare Thorn, cittadino del Polo. La variante del
suo potere familiare le permette di leggere il passato degli oggetti e
spostarsi attraversando gli specchi. Dotata di voce flebile, e con una
sconfortante propensione a mettersi nei guai, è di una goffaggine fuori dal
comune a causa di un incidente di specchio occorsole in gioventù. Bassina,
cela la timidezza dietro occhiali rettangolari, che cambiano colore a seconda
del suo umore, e dietro una vecchia sciarpa a tre colori, contaminata dal suo
animismo, dalla quale non si separa mai. La famiglia le rimprovera di
vestirsi in modo austero e fuori moda, i preziosi guanti da lettrice si
scuciono a forza di essere rosicchiati dalla nervosa proprietaria, eppure, per
passare inosservata su Babel, Ofelia non esiterà a sacrificare i folti riccioli
bruni per adottare un taglio tanto corto quanto indomabile né a mettere via
sciarpa e cappotto per indossare la divisa blu notte della compagnia dei
precorritori.
Dietro un’apparenza di basso profilo Ofelia nasconde una determinazione
e una resilienza a tutta prova: dapprima smarrita di fronte alla crudeltà del
Polo, è tuttavia animata da un profondo senso della giustizia e della verità, e
rifiuta di piegarsi alla volontà degli altri quando cozza contro la propria.
Caparbia e volitiva, ha passato più di due anni a cercare le tracce di Thorn,
il marito scomparso, e ha attraversato le arche per potergli confessare i
propri sentimenti e fare di lui il suo miglior alleato. Col tempo si rivela
sempre più intrepida e ingegnosa nella sua ricerca per scoprire l’identità di
Dio e l’origine del cataclisma che ha diviso il vecchio mondo in tante arche
diverse.
THORN

In apparenza l’intendente del Polo è solo un ruvido contabile


perennemente imbronciato, alto e caustico quanto Ofelia è bassa e cordiale.
Discendente bastardo del clan dei Draghi e posto sotto la protezione della
zia Berenilde, ha ereditato dalla madre il potere degli Storiografi, un clan
decaduto dotato di una memoria eccezionale. Il suo aspetto è a immagine
del suo carattere: riservato e freddo come il ghiaccio che ricopre la sua arca
e profondamente misantropo, ha rispetto solo per i numeri e non sopporta il
disordine. Ogni sua azione è cronometrata dalla lancetta dell’orologio da
taschino da cui non si separa mai e il suo sorriso sembra tendere verso il
basso, come tirato giù dal peso di un’infanzia difficile. Tuttavia Thorn
rivela poco a poco un’autentica repulsione per la violenza, una volontà
feroce di proteggere chi gli è caro e un senso del dovere inflessibile.
Ossessionato dal desiderio di riabilitare la sua famiglia, contava sui poteri
di lettrice di Ofelia per scoprire i segreti del Libro di Faruk, lo spirito di
famiglia del Polo. Purtroppo le cose sono sfuggite dal suo controllo, e più di
una volta il terribile complotto in cui ha trascinato la fidanzata e la zia ha
rischiato di farli morire tutti.
Deciso a non coinvolgere più Ofelia suo malgrado, Thorn sceglie di
sparire per indagare da solo sull’identità di Dio e sulla forza implacabile
che di nascosto sembra regolare la vita sulle arche. Eppure è proprio quando
fa squadra con Ofelia che entrambi danno il meglio di sé, come se le
rispettive insicurezze e mancanze si vedessero guarite dallo sguardo
dell’altro. Il corpo solcato da cicatrici e ormai storpio di Thorn si delinea
come contraltare della sua mente brillante e testimonianza del suo desiderio
prioritario di fare il bene e il meglio per i suoi e per il mondo in cui vive.
ARCHIBALD

Appartenente al clan della Rete, dotato di una variante dei poteri familiari
del Polo che ha a che fare con la telepatia, Archibald è l’ambasciatore del
Polo, benché non si sappia esattamente in che consistano le sue funzioni,
dato che da un ambasciatore ci si aspetterebbe un minimo di... diplomazia.
Viceversa fa tutto il contrario: trasandato, disinvolto e dongiovanni, ha
anche l’abitudine di non mentire mai, spesso e volentieri senza preoccuparsi
dei sentimenti dell’interlocutore. Paradossalmente, per le sue scappatelle è
sia rispettato che disprezzato. Forse, data la sua bellezza angelica, si è più
propensi a perdonargli gli errori, a meno che non siano la sua posizione a
corte e il deferente timore che ispira la sua famiglia a conferirgli un
prestigio che si ostina a non meritare. In realtà, tuttavia, l’irriverenza di
Archibald nasconde un’intelligenza viva e una profonda malinconia. Sotto
la sua aria spensierata l’ambasciatore è un temibile stratega politico, e ha
l’arte e il modo di far credere di perseguire solo i propri interessi quando in
verità la maggior parte delle sue azioni ha permesso a Ofelia, Berenilde e
allo stesso Thorn di sopravvivere agli scontri con i loro nemici. Da quando
è stato rapito all’interno del palazzo di Chiardiluna, considerato il luogo più
sicuro di Città-cielo, la Rete ha interrotto il legame con lui. Scollegato da
tutti quelli che erano i suoi punti di riferimento, Archibald è ormai un cane
sciolto in grado di trovare i passaggi tra le Rose dei Venti, cioè le porte che
permettono di viaggiare da un capo all’altro del mondo...
ROSELINE

La zia Roseline non aveva chiesto niente a nessuno quando era stata
mandata al Polo come accompagnatrice di Ofelia. Brontolona e rigida come
un cardine non lubrificato, si distingue per il suo incrollabile senso della
realtà.
Sotto l’austero chignon si nascondono tuttavia un feroce istinto protettivo
e una morale incorruttibile anche in un ambiente ostile. La sua variante del
potere familiare le conferisce un’affinità tutta particolare con la carta, e non
è raro vedere la zia Roseline ingannare la noia o il nervosismo riparando i
libri o le carte da parati che le capitano sottomano. Detesta il freddo gelido
del Polo, ma vuole sinceramente bene alla figlioccia Ofelia e adora
Berenilde, con la quale ha intessuto un forte e genuino legame di amicizia.
Costretta a tornare su Anima una volta concluso il suo dovere di chaperon,
il Polo e Berenilde le mancano terribilmente, anche se preferirebbe
mangiare la sua preziosa carta anziché ammetterlo. Così, appena si presenta
l’occasione, Roseline si infila senza esitare nella prima Rosa dei Venti che
le capita a tiro per tornare dalla sua famiglia d’adozione e sostenerla nelle
avversità.
BERENILDE E VITTORIA

Bella e spietata sono le prime parole che vengono in mente per descrivere
la splendida Berenilde, unica sopravvissuta del clan dei Draghi nonché zia
di Thorn. Favorita di Faruk, è ammirata per la sua bellezza e temuta per le
sue manovre all’interno di Città-cielo. I dissensi tra clan e gli intrighi di
corte hanno causato la morte del marito Nicolas e dei figli Thomas, Marion
e Petrus. Divorata da rabbia, dolore e bisogno di essere di nuovo madre,
non indietreggia di fronte a niente per assicurare la propria posizione a
corte. Il suo umore capriccioso trascina spesso Ofelia in situazioni difficili,
ma nonostante l’approccio talvolta rude Berenilde le vuole un gran bene.
La gravidanza la metterà in una posizione molto particolare, poiché darà
alla luce la prima discendente diretta di uno spirito di famiglia da secoli.
Benché in apparenza disprezzi Archibald, Berenilde ha una fede cieca nella
sua lealtà e nella sua bontà, tanto da designarlo come padrino della figlia
Vittoria. Si dice che Berenilde e Vittoria siano le uniche due persone delle
quali Faruk si preoccupi realmente. E per fortuna, visto che il nuovo potere
sviluppato da Vittoria le conferisce la capacità di scindersi producendo un
doppio astrale errante che solo Dio e Faruk sembrano in grado di vedere...
Ma per salvare l’ultima figlia che le resta Berenilde non esiterà a sfoderare
gli artigli...
GAELA E RENARD

Renard, che in verità si chiama Renold, è un domestico di Chiardiluna al


servizio di madama Clotilde, la nonna di Archibald. È un ragazzone dai
capelli rossi, con un cuore ardente come la sua chioma. Quando Ofelia
arriva a Chiardiluna sotto la falsa identità di Mime, valletto di Berenilde,
Renard la prende sotto la sua ala protettrice e acconsente a iniziarla ai
misteri della corte in cambio delle sue prime dieci clessidre verdi. Dopo
essere uscito di prigione, dov’era finito per un vizio di forma in seguito alla
morte della padrona, Ofelia lo prende al suo servizio come consigliere.
Renard è un amico fedele, una guida leale e una solida spalla su cui
appoggiarsi. Da anni nutre un amore misto ad ammirazione per Gaela, la
meccanica di Chiardiluna.
Protetta da Madre Ildegarda, Gaela è l’ultima sopravvissuta del clan dei
Nichilisti, un clan che aveva il potere di annullare i poteri degli altri. Per
nascondere la propria ascendenza si tinge di nero i capelli corti e porta un
monocolo ugualmente nero su quello che lei chiama “l’occhio cattivo”.
Meno espansiva di Renard, condivide tuttavia i suoi sentimenti, pur senza
averglielo mai davvero confessato. Profondamente onesta, Gaela odia gli
intrighi e fornisce a Ofelia il proprio incrollabile sostegno.
ELIZABETH E OCTAVIO

Elizabeth, aspirante virtuosa, è a capo della divisione degli apprendisti


precorritori di cui fa parte Ofelia su Babel. Alta, slanciata, col viso
costellato di lentiggini, Elizabeth padroneggia molto male gli arcani
dell’umorismo, ma molto bene quelli dell’informazione. Del resto è
specializzata in banche dati. Figlioccia di Helena, viene da una famiglia di
senza-poteri, ma nel gruppo dei precursori si rivela una delle poche alleate
di Ofelia.
Octavio discende da Polluce. Fa parte del ramo familiare dei Visionari:
come la madre lady Septima, docente alla Buona Famiglia, è dotato di
un’ineguagliabile acutezza visiva. Studia per diventare aspirante virtuoso
nella compagnia dei precorritori. Mentre la madre è fermamente
intenzionata a fare di lui il migliore della sua divisione, Octavio ci tiene a
guadagnarsi il posto con le proprie forze. Del tutto estraneo alle manovre di
lady Septima, fa amicizia con Ofelia e si impegna a dimostrarle di essere
una persona “come si deve”, salvo poi farsi trascinare in situazioni
pericolose che lo travolgono.
AMBROISE E LAZARUS

Lazarus è un famoso esploratore che viaggia da un’arca all’altra.


Racconta che un giorno ha cercato di saltare dal bordo del mondo
indossando uno scafandro, ma che ha dovuto essere tirato su prima di poter
vedere altro che nuvole. Quando non va in giro per il mondo si dedica alle
sue invenzioni: grazie a lui Babel è dotata di una quantità di automi che
dovrebbero impedire “l’asservimento dell’uomo all’uomo”. Purtroppo la
sua apparenza allegra e amichevole nasconde lealtà nei confronti di Dio.
Forse le sue intenzioni non sono così pure come sostiene.
Il figlio Ambroise, invece, è l’innocenza e la bontà incarnate. Disabile
dalla nascita, ha braccio e gamba destra al posto di braccio e gamba sinistra,
motivo per cui si sposta in sedia a rotelle. Ha però l’ambizione di diventare
tac-si e portare la gente in giro per Babel. È il primo ad accogliere e aiutare
Ofelia quando arriva su quell’arca a lei sconosciuta. È tuttavia a conoscenza
dell’esistenza di Dio e del coinvolgimento del padre nel vasto complotto
che regola l’ordine del mondo. Mentre Ofelia dalla Buona Famiglia gli
manda messaggi disperati, i telegrammi del giovane si fanno rari e laconici.
Ofelia crederà che il giovane l’abbia abbandonata e dal canto suo
Ambroise, indottrinato dal padre, penserà che lei sia l’Altro, l’essere
misterioso all’origine del crollo delle arche.
SPIRITI DI FAMIGLIA

Non si sa bene come siano nati gli spiriti di famiglia, né quale catastrofe
abbia fatto sì che abbiano la memoria cortissima. Esistono da secoli,
immortali e onnipotenti, con i Libri come unico punto di riferimento,
antichi volumi fatti di un materiale simile alla pelle umana: inquietanti,
misteriosi, scritti in una lingua che più nessuno capisce, i Libri celano
segreti che neanche i più competenti lettori di Anima sono riusciti a
penetrare. Gli spiriti di famiglia hanno trasmesso i propri poteri alle loro
discendenze umane e regnano, ognuno a modo suo, sulle rispettive arche di
appartenenza da cui non si allontanano mai.

Artemide, la gigantessa dai capelli rossi che veglia su Anima, ha trovato


rifugio nelle stelle, che studia con passione. Ha pochi contatti con la sua
discendenza, ma è per essa uno spirito benevolo. Sembra del tutto
disinteressata a ciò che riguarda il passato.

Faruk, spirito del Polo, è capriccioso e collerico come un bambino. La


sua memoria è un tale colabrodo che fa scrivere tutti i suoi pensieri e le sue
decisioni in un taccuino affidato a un aiuta-memoria, in compenso la
potenza dei suoi poteri psichici è immensa. Non si è mai preoccupato di
controllarla, e spesso le onde mentali che libera provocano dolorosi mal di
testa a chi gli sta intorno. Come tutti gli spiriti di famiglia Faruk è
bellissimo, ma di una bellezza fredda che sembra scolpita nel marmo. Sta
spesso stravaccato sui cuscini, indifferente a tutto. Ha un’unica idea fissa:
penetrare i segreti del Libro e del proprio passato.

Su Babel i gemelli Helena e Polluce formano un’accoppiata


complementare. Polluce è la bellezza, Helena l’intelligenza. Diversamente
dagli altri spiriti di famiglia, Helena ha un fisico sgraziato e sproporzionato,
e si muove con l’aiuto di una crinolina su ruote o di membra automatizzate.
Non potendo avere discendenza si dedica alla protezione dei senza-poteri,
chiamati i Figliocci di Helena. Quanto a Polluce, manifesta un interesse
quasi paterno per i suoi discendenti, detti appunto Figli di Polluce. Entrambi
amanti del sapere, Helena e Polluce dirigono l’istituto della Buona
Famiglia, che forma l’élite della nazione, e soprintendono alla gestione del
Memoriale, l’immensa biblioteca contenente tutti i libri e il sapere
accumulato dalla Lacerazione del mondo. Regnano sull’arca più
cosmopolita, ma anche più militarista, tra quelle che Ofelia ha esplorato.
Laddove la vita su Anima è leggera e quella sul Polo contrassegnata da
intrighi e vizio, la vita su Babel è sottomessa al rispetto di leggi implacabili
e alla ricerca della conoscenza. Ma a tirare i fili nell’ombra sembra che
siano i Lord di LUX, e guai a chi ficca il naso nei loro affari!
DIO

Può riprodurre l’apparenza e il potere di tutti quelli a cui si avvicina.


Vuole ottenere l’ultimo potere che gli manca, la padronanza dello spazio
degli Arcadiani.
In origine è una modesta scrittrice di Babel.
Il suo vero nome è Eulalia Diyoh.
Non ha riflesso.
Sta cercando l’Altro.
L’ALTRO

Nessuno, a parte Dio, sa chi sia veramente e come sia fatto.


L’ha liberato Ofelia la prima volta che ha tentato di attraversare uno
specchio.
L’Altro ha quasi totalmente distrutto il vecchio mondo.
E non accenna a smettere.
L’ATTRAVERSASPECCHI
LIBRO 4

ECHI IN TEMPESTA
Per te, mamma.
Il tuo coraggio ispira il mio.
C. D.
«Sei impossibile».
«Impossibile?».
«Poco probabile, se preferisci».
«...».
«Sei sempre qui?».
«Sempre qui».
«Bene. Mi sento un po’ sola».
«Un po’?».
«Molto, in effetti. I miei soffiatori... i miei superiori non scendono spesso
a trovarmi. Ancora non ho detto loro di te».
«Di te?».
«Non di me, di te».
«Di me».
«Esatto. Non so se ti canterebbero... se ti capirebbero. Neanch’io sono
molto sicura di capirti. Ho già difficoltà a capire me stessa».
«...».
«Non mi hai ancora detto come ti chiami».
«Ancora no».
«Eppure penso che stiamo pomiciando... cominciando a conoscerci bene.
Io sono Eulalia».
«Io sono io».
«È una risposta interessante. Da dove emetti?».
«...».
«Va bene, era una domanda un po’ difficile. Dove sei adesso?».
«Qui».
«Qui dove?».
«Dietro».
«Dietro? Dietro cosa?».
«Dietro dietro».
RECTO
DIETRO LE QUINTE

Guarda lo specchio. Non c’è il suo riflesso, ma non importa: l’unica cosa
importante è lo specchio. È semplicissimo, non molto grande, appeso un
po’ storto alla parete. Somiglia a Ofelia.
Il suo dito scivola sulla superficie riflettente senza lasciare traccia. Lì è
cominciato tutto o, a seconda dei punti di vista, è finito tutto. Comunque è lì
che le cose si sono fatte davvero interessanti. Ricorda come se fosse ieri la
notte memorabile del primo attraversamento di specchio di Ofelia.
Fa qualche passo nella camera, con occhio da frequentatore abituale dà
uno sguardo ai vecchi giocattoli che si agitano sulle mensole e si ferma
davanti al letto a castello. Ofelia l’aveva condiviso con la sorella maggiore,
poi col fratello minore, prima di partire precipitosamente da Anima. Lui lo
sa bene. Sono anni che la osserva con attenzione da dietro le quinte. Ofelia
ha sempre preferito il letto in basso. La famiglia l’ha lasciato sfatto e con
l’impronta della testa sul cuscino, come se si aspettassero di vederla tornare
a casa da un momento all’altro.
Si china ed esamina divertito le mappe delle ventuno arche maggiori che
Ofelia ha fissato con le puntine sul fondo del letto di sopra. Bloccata lì dalle
Decane, a lungo ha cercato su quelle mappe il marito scomparso.
Scende le scale. Attraversa la sala da pranzo in cui i piatti si stanno
raffreddando. Non c’è nessuno. Sono tutti usciti a metà della cena. A causa
del buco, ovviamente. In quelle stanze vuote ha quasi l’impressione di
essere presente, di essere davvero lì. La casa stessa sembra percepire la sua
intrusione: i lampadari tremano quando passa, i mobili scricchiolano, la
pendola batte un colpo interrogativo. È un aspetto degli Animisti che lo
diverte: tra oggetto e proprietario, non si capisce più chi appartenga
all’altro.
Una volta fuori percorre con indolenza la via. Non ha fretta. È curioso, sì,
ma mai di fretta. Eppure il tempo stringe. Per tutti, lui compreso.
Raggiunge l’assembramento di vicini che si scambiano occhiate
preoccupate intorno a quello che chiamano “il buco”. Sembra un tombino in
mezzo al marciapiede, con la differenza che quando avvicinano le lanterne
non vi penetra nessuna luce. Per sondarne la profondità qualcuno srotola
una bobina, ma rimarrà presto a corto di filo. Durante la giornata il buco
non c’era, è stata una Decana a dare l’allarme dopo esserci quasi caduta
dentro.
Non può fare a meno di sorridere. E questo, signora, è solo l’inizio.
Nota tra la gente il padre e la madre di Ofelia. Loro, come sempre, non lo
notano. Nei loro occhi sgranati c’è la stessa domanda muta. Non sanno
dove si nasconda la figlia, non sanno neppure che in parte è colpa sua se c’è
quell’abisso nel marciapiede, ma si capisce facilmente che quella sera
pensano a lei più che mai. Stringono con forza gli altri figli senza poter
rispondere alle loro domande, figli belli e alti, pieni di salute, con i capelli
d’oro che brillano alla luce dei lampioni.
Non si stanca mai di constatare quanto Ofelia sia diversa da loro, e per
evidenti ragioni.
Continua la passeggiata. Fa due passi ed eccolo all’altro capo del mondo,
al Polo, da qualche parte tra i piani superiori e i bassifondi di Città-cielo,
sulla soglia della dimora di Berenilde. Conosce quella proprietà immersa in
un autunno perenne tanto quanto conosce la casa di Anima. Ovunque sia
andata Ofelia è andato anche lui. Quando è stata valletto di Berenilde lui
c’era. Quando è diventata vicenarratrice di Faruk lui c’era. Quando
indagava sugli scomparsi di Chiardiluna lui c’era. Ha assistito allo
spettacolo delle sue disavventure con curiosità crescente, sempre da dietro
le quinte.
Si compiace nel tornare con regolarità sui luoghi chiave della storia, della
grande storia, la storia di tutti. Cosa sarebbe stata Ofelia se Berenilde non
l’avesse scelta fra tutte le lettrici di Anima per fidanzarla col nipote? Non
avrebbe mai incrociato la strada di ciò che viene chiamato Dio? Sì, invece.
La storia avrebbe semplicemente fatto un altro percorso. Ognuno deve
interpretare il proprio ruolo come lui interpreterà il suo.
Mentre attraversa l’anticamera gli giunge una voce dal salone rosso.
Guarda da uno spiraglio della porta. Nello stretto campo visivo scorge la zia
di Ofelia che va avanti e indietro sul tappeto esotico, illusorio quanto i
quadri di caccia e i vasi di porcellana. La donna incrocia e distende le
braccia, agita un telegramma indurito per effetto del suo animismo, parla di
un lago drenato come un bidet, definisce Faruk una “cesta da bucato”,
Archibald una “saponetta”, Ofelia una “pendola a cucù” e l’insieme del
corpo medico una “latrina pubblica”. Seduta su una bergère, Berenilde non
la ascolta. Canticchia spazzolando i lunghi capelli bianchi della figlia
fiaccamente abbandonata contro di lei. Sembra che per le sue orecchie non
esista altro che quel tenue respiro tra le sue mani.
Lui guarda subito da un’altra parte. Distoglie lo sguardo ogni volta che le
cose diventano troppo personali. È sempre stato curioso, ma mai voyeur.
Solo allora si accorge dell’uomo accanto a lui, seduto per terra nella
penombra del corridoio, appoggiato alla parete, intento a pulire
rabbiosamente la canna di un fucile da caccia. A quanto pare le dame si
sono trovate una guardia del corpo.
Continua a camminare. Con un passo si allontana dall’anticamera, dalla
villa di Berenilde, da Città-cielo, dal Polo e si trasferisce su un altro pezzo
di mondo. Eccolo a Babel. Ah, Babel! È il suo terreno di studi preferito,
l’arca su cui la storia e il tempo termineranno, il punto in cui tutto converge.
Su Anima era sera, su Babel è mattina. Una fitta pioggia cade sui tetti.
Percorre le gallerie della Buona Famiglia come le percorreva Ofelia
quando studiava per diventare precorritrice. È stata a un passo dall’ottenere
le alette e diventare cittadina di Babel, situazione che le avrebbe aperto
molte porte per le successive indagini. Fortunatamente per lui non ce l’ha
fatta, cosa che gli ha reso l’osservazione da dietro le quinte ancora più
stimolante.
Sale la scala a chiocciola di una torretta d’avvistamento. Da lassù,
nonostante la pioggia, distingue in lontananza le arche minori circostanti,
quella del Memoriale di fronte e quella dell’osservatorio delle Deviazioni
dietro: entrambe avranno un ruolo cruciale nella storia.
A quell’ora gli apprendisti virtuosi dovrebbero essere già in divisa con le
cuffie della lezione radiofonica sulle orecchie, Figli di Polluce da una parte
e Figliocci di Helena dall’altra. Viceversa sono tutti mischiati sulle mura
dell’arca minore con i pigiami fradici di pioggia. Lanciano grida inorridite,
puntano il dito sulla città al di là del mare di nuvole. La stessa direttrice,
Helena in persona, l’unico spirito di famiglia a non aver mai avuto
discendenza, si è unita a loro protetta da un enorme ombrello e guarda
l’anomalia con attenzione concentrata.
Dal suo punto d’osservazione privilegiato lui li guarda tutti. O meglio,
cerca di guardare attraverso i loro occhi spaventati, di vedere come loro
quel vuoto che ha guadagnato altro terreno.
Ancora una volta non riesce a trattenere un sorriso. Ha indugiato
abbastanza dietro le quinte, è arrivato il momento di entrare in scena.
IL VUOTO

Ofelia conservava un ricordo meraviglioso dell’orto botanico di Polluce.


Era il primo luogo in cui aveva messo piede arrivando su Babel. Rivedeva
gli imponenti terrazzamenti e gli innumerevoli scalini che aveva dovuto
salire per uscire da quella giungla.
Ricordava gli odori, i colori, i rumori.
Non restava più niente.
Una frana aveva fatto finire nel vuoto anche l’ultimo filo d’erba. Il vuoto
aveva inghiottito pure un ponte, metà del vicino mercato e varie arche
minori con tutte le vite che vi si trovavano.
Avrebbe dovuto esserne inorridita, invece provava solo stupore.
Contemplava l’abisso attraverso la cancellata che era stata montata in fretta
e furia sull’orlo del nuovo confine tra terra e cielo. Non pioveva più, ma il
mare di nuvole traboccava sull’intera città, una marea calda che, oltre a
rendere incerta la visibilità, ricopriva di vapore gli occhiali di Ofelia.
«L’Altro esiste eccome» constatò. «Finora era una nozione astratta. Per
quanto mi dicessero che avevo fatto una sciocchezza liberandolo, che
avrebbe provocato il crollo delle arche per colpa mia, che volente o nolente
ero legata a lui, non mi sono mai sentita davvero responsabile. Com’è
possibile che io abbia fatto uscire una creatura apocalittica dallo specchio di
camera mia e non sia in grado di ricordarmelo? Non so neppure che aspetto
abbia, come faccia e perché lo faccia».
La nebbia intorno a lei era così densa che le sembrava di essere una voce
disincarnata in mezzo al nulla. Contrasse le mani sulle sbarre quando una
schiarita liberò un pezzo di cielo tra le nuvole nel punto in cui prima
sorgeva il quartiere nordoccidentale della città.
«Non c’è più niente. E se Anima... forse anche il Polo...».
Lasciò la frase in sospeso. Uomini, donne e bambini erano caduti nel
vuoto che aveva di fronte, ma il suo pensiero andava prima di tutto alla sua
famiglia.
Uno stormo di uccelli scombussolati stava cercando gli alberi scomparsi.
Dove andavano a finire le cose che cadevano oltre il bordo? Tutte le arche,
maggiori e minori, gravitavano intorno a un gigantesco oceano di nuvole in
cui nessuna forma di vita si avventurava. Si diceva che il nocciolo del
mondo fosse solo una concentrazione di temporali perenni. Lo stesso
Lazarus, il celebre esploratore, non ci era mai arrivato.
Ofelia si augurò che nessuno avesse sofferto.
Solo il giorno prima si era sentita così serena, così completa... Aveva
scoperto l’identità del Dio dalle mille facce che controllava le loro
esistenze: Eulalia Diyoh. Conoscere finalmente il suo nome, sapere che in
origine era stata una modesta scrittrice idealista, capire che quella donna
non aveva mai avuto la legittimità di decidere cosa fosse bene e cosa male
erano tutte cose che avevano liberato Ofelia da un peso enorme! Forse,
però, il nemico più temibile non era quello che credeva.
“Mi condurrai a lui”.
«L’Altro si è servito di me per sfuggire al controllo di Eulalia Diyoh, e
oggi Eulalia Diyoh si serve di me per ritrovare l’Altro. Visto che quei due
mi coinvolgono nei loro crimini, ne faccio una questione personale».
«Ne facciamo».
Ofelia si voltò verso Thorn senza vederlo. Con quella nebbia era anche
lui un mormorio lontano, eppure la sua voce le sembrò più tangibile del
terreno su cui poggiava i sandali. Con due parole l’aveva fatta sentire
meglio.
«Se viene fuori che ha a che fare sia con la Lacerazione del vecchio
mondo che con il crollo delle arche e la trasformazione di un’umana in
onnipotente» continuò Thorn come se stesse commentando un bilancio,
«l’Altro diventa una componente essenziale dell’equazione con la quale sto
combattendo da anni».
Si sentì uno scatto metallico. Era il rumore caratteristico dell’orologio da
taschino che si apriva e chiudeva da sé per ricordare l’ora. Da quando si era
animato aveva adottato le manie del suo proprietario.
«Il conto alla rovescia prosegue» disse Thorn. «Per i comuni mortali un
crollo come questo è una catastrofe naturale. Noi sappiamo che non solo
non lo è, ma che per giunta continuerà. Non possiamo parlarne con nessuno
finché non sappiamo di chi fidarci e su quali prove basarci. Dobbiamo
quindi stabilire la natura precisa del rapporto che unisce Eulalia Diyoh
all’Altro, capire cosa vogliono, chi sono, dove si trovano, come e perché
stiano facendo quello che stanno facendo, poi servirci di queste conoscenze
contro di loro. Possibilmente in fretta».
Ofelia strizzò gli occhi. Una ventata aveva scacciato le nuvole intorno a
loro e la luce li investì come una cascata bollente.
Ormai vedeva Thorn chiaramente. Troppo alto, troppo dritto, stava come
lei di fronte alla cancellata con l’orologio in mano e lo sguardo perso
nell’infinito del cielo. Il riflesso del sole sulle dorature della sua uniforme
era accecante, ma non per questo Ofelia distolse lo sguardo. Anzi, aprì gli
occhi ancora di più per lasciar entrare in sé quel bagliore. Da Thorn
emanava una determinazione comunicativa come una corrente elettrica.
Ofelia realizzava con tutta se stessa cosa lui fosse diventato per lei e cosa
lei fosse diventata per lui, e niente al mondo le sembrava più solido.
Tuttavia si guardò bene dall’avvicinarsi. I luoghi erano stati evacuati
dalle autorità, ma anche se in giro non c’era nessuno mantenevano fra loro
la stessa distanza protocollare che osservavano sempre in pubblico. Si
trovavano a estremità opposte della scala sociale. Da quando era stata
bocciata al conservatorio della Buona Famiglia, Ofelia non contava
praticamente niente a Babel, mentre Thorn era sir Henry, un rispettabile
Lord di LUX.
«Eulalia Diyoh ha migliaia di identità diverse, l’Altro non ne ha nessuna»
aggiunse Thorn. «Non sappiamo che aspetto avranno quando le nostre
strade si incroceranno, ma dobbiamo essere pronti ad affrontarli prima di
trovarli. O prima che loro trovino noi».
Si accorse dell’insistenza con cui Ofelia lo guardava e si schiarì la gola.
«Non posso strapparti a loro, ma posso strappare loro da te».
Erano quasi le stesse parole che le aveva detto al Secretarium del
Memoriale quando ancora le dava del voi. La cosa preoccupante per Ofelia
era che gli credeva sulla parola. Thorn aveva sacrificato il proprio nome e il
proprio libero arbitrio per svincolarla definitivamente dalla sorveglianza
alla quale lei aveva avuto tanta difficoltà a sottrarsi e sotto la quale poteva
ricadere alla prima mossa sbagliata. Sì, sapeva che Thorn sarebbe stato
capace di rinunciare a tutto, se farlo gli avesse permesso di raggiungere
quell’unico scopo. Aveva perfino accettato l’idea che Ofelia potesse
mettersi in pericolo stando al suo fianco, dal momento che era una sua
scelta.
«Non siamo soli, Thorn. Ad affrontarli, intendo dire. Mentre noi siamo
qui a parlare Archibald, Gaela e Renard stanno cercando Terra d’Arco.
Forse l’hanno già trovata. Se riescono a convincere gli Arcadiani a
schierarsi con noi la situazione potrebbe ribaltarsi completamente».
Thorn, scettico, aggrottò le sopracciglia. Avevano già affrontato
l’argomento il giorno prima, quando poi le sirene d’allarme li avevano tirati
giù dal letto, e il nome di Archibald gli suscitava sempre la stessa reazione.
«È l’ultima persona al mondo di cui mi fido».
La parentesi di sole si concluse. Furono di nuovo ghermiti dalla marea di
nuvole.
«Io vado» annunciò Thorn mentre l’orologio ticchettava impaziente. «Ho
un altro incontro con i Genealogisti. Conoscendoli, la prossima missione
che mi affideranno avrà direttamente a che fare con la faccenda che ci
riguarda. A stasera».
Un cigolio meccanico segnalò a Ofelia che si era incamminato.
L’esoscheletro gli permetteva di non zoppicare: un beneficio, l’unico, che i
Genealogisti avevano apportato alla sua vita. Tramite loro Thorn sperava di
avvicinarsi ai segreti di Eulalia Diyoh, visto che come lui avevano il
desiderio di porre fine al suo regno, ma lavorare con i Genealogisti era
come fare il giocoliere con dei candelotti di dinamite. Avevano dotato
Thorn di una falsa identità, ma potevano levargliela in qualsiasi momento, e
se fosse venuta meno la facciata di sir Henry lui sarebbe tornato a essere un
fuggiasco.
«Sii prudente».
Thorn si fermò, e Ofelia intuì i contorni spigolosi del suo corpo.
«Pure tu. Anche un po’ di più».
Poi si allontanò fino a sparire nella nebbia. Ofelia aveva colto l’allusione.
Si frugò le tasche della tunica. C’erano le chiavi di casa di Lazarus, che le
aveva dato Ambroise, e il biglietto che aveva ricevuto da Helena, la sua ex
direttrice di studi: Passate a trovarmi, voi e le vostre mani, quando ne avete
l’occasione.
Trovò finalmente quello che cercava: una placca d’alluminio. Vi erano
incisi gli stessi arabeschi che figuravano sui Libri degli spiriti di famiglia,
scritti in un codice inventato da Eulalia Diyoh e, fino a quel momento,
indecifrati. La placca, forata al centro da una pallottola di fucile, era ciò che
restava del vecchio spazzino del Memoriale. Il solo pensare a lui la faceva
sentire male. Si era rivelato essere uno spirito di famiglia completamente a
parte, il guardiano del passato di Eulalia Diyoh, e prima di essere ucciso
c’era mancato poco che la facesse morire di spavento. Ofelia era stata
salvata dal figlio del Senza Paura E Quasi Senza Rimprovero che voleva
vendicare il padre. Fortunatamente per lei, il ragazzo aveva mirato alla
testa, dove era imbullonata la placca. Appena il codice era stato spezzato il
vecchio spazzino si era volatilizzato come un incubo. Una vita che si
reggeva su poche righe... Quando Ofelia gli aveva raccontato l’episodio,
Thorn non aveva affatto apprezzato.
Lanciò la placca attraverso le sbarre della cancellata. L’alluminio scintillò
un’ultima volta prima di perdersi sotto le nuvole e raggiungere i poveretti
che erano caduti nel vuoto.
Ripensò con angoscia ai suoi documenti falsi. Eulalia: senza volerlo si
era scelta lo stesso nome della sua nemica. Non solo: talvolta era assalita da
ricordi estranei. Dove cominciava la memoria di Eulalia e dove finiva la
sua? Come costruirsi nel presente se il suo passato era un enigma? E come
sentirsi libera se la sua strada era destinata a incrociare di nuovo quella
dell’Altro? L’aveva liberato, si sentiva in dovere di assumersene la
responsabilità, ma ce l’aveva con tutti e due, Eulalia Diyoh e l’Altro, per
averla privata di ciò che avrebbe potuto essere se non ci fossero stati loro.
Soffiò sulla nebbia per allontanarla da sé. Avrebbe sfruttato ogni pista
che quella seconda memoria le avrebbe offerto pur di scoprire i loro punti
deboli. La storia di Eulalia, dell’Altro, degli spiriti di famiglia e del nuovo
mondo era cominciata a Babel. Crollo o non crollo, Ofelia non se ne
sarebbe andata da quell’arca senza averle strappato ogni suo minimo
segreto.
Girò i tacchi per lasciarsi il vuoto alle spalle.
C’era qualcuno accanto a lei: per via della nebbia, un’ombra indefinita.
Il quartiere era vietato al pubblico. Da quando era lì? Aveva ascoltato
quello che lei e Thorn si erano detti poco prima? O era in innocente
raccoglimento sul luogo della catastrofe?
«Buongiorno...».
L’ombra non rispose, si allontanò a passi lenti nella nebbia. Ofelia la
lasciò andare avanti, poi decise di seguirla tra le sagome delle tende
abbandonate. Forse si sbagliava, ma se quel – o quella – ficcanaso li aveva
deliberatamente spiati voleva almeno sapere che faccia avesse.
Nel mercato immerso nella nebbia e tagliato in due dalla frana regnava
un’atmosfera da fine del mondo. Non essendo stato ricaricato, un automa
destinato a distribuire i giornali era fermo come una statua in mezzo alla
piazza brandendo una copia del giorno prima. In quel silenzio, la cosa che
faceva più effetto erano i minuscoli rumori che Ofelia non avrebbe notato a
cose normali: il gorgoglio dell’acqua nelle canaline, il ronzio delle mosche
sulla merce rimasta lì, il suono del proprio respiro. In compenso non sentiva
niente dell’ombra che stava perdendo di vista.
Accelerò il passo.
Quando una ventata diradò la nebbia Ofelia sobbalzò di fronte al proprio
riflesso. Per poco non era andata a sbattere sulla vetrina di un negozio
VETRERIA – SPECCHI

Per quanto puntasse gli occhiali in tutte le direzioni non vedeva più
nessuno in giro. L’ombra l’aveva seminata. Pazienza.
Si avvicinò all’ingresso della vetreria. Il titolare, spaventato dalla frana,
se n’era andato senza neanche chiudere la porta. Dall’interno si sentiva il
mormorio di una radio ancora accesa:
«...è qui con noi al Giornale ufficiale. Cittadino, voi siete uno dei pochi
testimoni della tragedia-tragedia che ieri mattina ha funestato Babel.
Raccontateci».
«Ancora non ci credo, eppure l’ho really visto. Cioè no, non l’ho visto. È
più complicato».
«Diteci semplicemente quel che è successo, cittadino».
«Ero nel mio posto, avevo montato la tenda. Pioveva come non s’era mai
visto, un torrente che veniva giù dal cielo-dal cielo. Ci stavamo chiedendo
se rimpacchettare tutto. In quel momento ho sentito una specie di
singhiozzo».
«Singhiozzo?».
«Sì, un piccolo sussulto. Non l’ho visto né udito, ma di sicuro l’ho
percepito».
«E poi?».
«Poi ho capito che anche gli altri l’avevano percepito. Siamo tutti usciti
dalle tende-tende. Mi è venuto un colpo! Il banco vicino al mio era
scomparso. Non c’era più niente, solo nuvole. Avrei potuto esserci io al suo
posto».
«Grazie, cittadino. Cari ascoltatori-ascoltatori, siete sintonizzati sulla
frequenza del Giornale ufficiale. Per la vostra sicurezza i Lord di LUX hanno
vietato la circolazione nel settore nordovest. Vi raccomandiamo di non
leggere i volantini proibiti che turbano l’ordine pubblico. Ricordiamo anche
che al Memoriale è in atto un censimento-censimento...».
Ofelia non ascoltò il seguito, gli echi la disturbavano. Il fenomeno, una
volta raro e fino a due giorni prima occasionale, colpiva ormai tutte le
trasmissioni. Prima di partire per un altro viaggio Lazarus aveva detto che
gli echi erano “la chiave di tutto”. In realtà aveva anche detto a Ofelia che
era “un’invertita”, che lo era anche lui, che esplorava le arche per conto di
Dio e che aveva creato gli automi per contribuire a rendere il suo mondo
ancora più perfetto. Insomma, Lazarus diceva di tutto e di più, ma aveva
una bella casa in centro dove lei e Thorn si erano piazzati.
Ofelia sostenne il proprio sguardo nello specchio in vetrina. L’ultima
volta che ne aveva attraversato uno aveva fatto un balzo enorme nello
spazio, come se il suo potere familiare fosse maturato insieme a lei.
Attraversare gli specchi l’aveva tirata fuori dai guai più volte, ma il mondo
sarebbe stato in condizioni migliori se si fosse astenuta dal farlo fin dalla
prima volta. Se solo avesse potuto risalire a ciò che era davvero successo
nello specchio della sua camera da bambina! Dell’incontro con l’Altro
conservava solo poche briciole, una presenza sotto il proprio riflesso, un
richiamo che l’aveva svegliata nel cuore della notte.
Liberami.
Lei l’aveva liberato, è vero, ma da dove era uscito e sotto quale forma?
Non conosceva nessuno, su Anima o altrove, che avesse segnalato l’arrivo
di una creatura apocalittica.
Sgranò gli occhi. C’era qualcosa che non tornava nello specchio in
vetrina. Vedeva se stessa con la sciarpa, mentre era assolutamente sicura di
averla lasciata a casa di Lazarus. Il codice d’abbigliamento di Babel le
vietava di indossare colori in pubblico, e lei non voleva attirare l’attenzione.
Si accorse allora che non era la sola anomalia di quel riflesso. Aveva la
tunica insanguinata e gli occhiali a pezzi. Stava morendo. C’erano anche
Eulalia Diyoh e l’Altro, senza una forma precisa, e ovunque intorno a loro
soltanto vuoto.
«Documenti, please».
Ofelia distolse lo sguardo dalla visione con il cuore che le batteva forte.
Una guardia tendeva la mano verso di lei con autorità.
«Il settore è vietato ai civili».
Mentre l’uomo esaminava i documenti falsi Ofelia dette un’altra occhiata
allo specchio della vetrina. Il riflesso era tornato normale. Non c’erano più
né sciarpa né sangue né il vuoto. Quando viveva al Polo le era capitato più
volte di essere ingannata da un’illusione. Prima l’ombra, poi il riflesso: si
chiese se fosse stata vittima di un’allucinazione. O peggio, di una
manipolazione.
«Animista di ottavo grado» commentò la guardia restituendole i
documenti. «Voi non siete nativa della città, miss Eulalia».
Essere di pattuglia così vicino al crollo lo metteva a disagio. Le sue
lunghe orecchie si giravano e rigiravano senza sosta, come quelle di un
gatto agitato. Ogni discendente di Polluce, lo spirito di famiglia di Babel,
possedeva un senso ipersviluppato. Quella guardia era un Acustico.
«Ma ho un alloggio» rispose Ofelia. «Posso andarci?».
La guardia scrutò con insistenza la sua fronte, come se cercasse qualcosa
che avrebbe dovuto esserci.
«No. Non siete in regola. Non avete sentito gli annunci? Dovete andare al
Memoriale per il censimento. Now».
LA FIRMA

Il trenuccello era gremito, il che non impedì alla guardia di farci entrare a
forza Ofelia prima che si chiudessero le porte. L’aria era bollente e l’odore
di sudore era più forte di quello, pur penetrante, dei volatili giganti sul tetto.
Da qualche parte un neonato strillava. Ofelia non poteva cambiare
posizione senza calpestare la babbuccia di qualcuno. Intorno a lei tutti
sembravano preda della stessa confusione. Perché li portavano al
Memoriale? Che senso aveva quell’improvviso censimento? Aveva a che
fare con lo sfaldamento del terreno? Nonostante l’inquietudine nessuno
osava alzare la voce. A giudicare dal codice d’abbigliamento, nel vagone si
accalcavano Totemisti, Floriani, Indovini, Heliopoliti, Trasformisti,
Negromanti, Fantasmi, uomini e donne provenienti dai quattro angoli delle
arche come se ne incontravano tanti a Babel. Ogni invenzione della città era
frutto dei loro talenti familiari congiunti, a cominciare dal trenuccello sul
quale stavano soffocando, che tardava a decollare.
Erano nervosi, ma Ofelia lo era molto di più. Non aveva nessuna voglia
di essere censita, non con dei documenti falsi in tasca e un’apocalisse da
impedire. Frutto o no della sua immaginazione, il riflesso nello specchio
della vetreria l’aveva scossa.
Schiacciata contro il finestrino della portiera osservò la folla fuori. Un
mercante stipava i suoi tappeti su un carro, una vecchia signora manovrava
un furgoncino carico di bambini, e uno zebù in mezzo alla strada impediva
a tutti di circolare. Non scappavano soltanto dal quartiere colpito dalla
frana, scappavano dal bordo, dal vuoto. La gente aveva paura e Ofelia non
la biasimava di certo. L’Altro avrebbe potuto essere uno chiunque di loro...
Sebbene a quanto pareva fosse legata a lui, non l’avrebbe mai riconosciuto
se l’avesse incrociato su un marciapiede.
Spuntò un automa alla guida di una bicicletta. Era uno spettacolo curioso
vedere quel manichino senza occhi, naso e bocca pedalare dritto davanti a
sé mentre una voce graffiante da giradischi gli usciva dalla pancia.
«STRAPPO ERBACCE, LUCIDO OTTONI, AGGIUSTO BABBUCCE-BABBUCCE... E NON
MI STANCO MAI. ASSUMETEMI PER METTERE FINE ALL’ASSERVIMENTO DELL’UOMO

ALL’UOMO».

Attraverso il vetro, gli occhi di Ofelia incrociarono quelli di un signore


seduto su una valigia troppo pesante per lui. Aveva l’espressione stravolta
di chi non sa dove passerà la prossima notte. L’uomo gridò a Ofelia e a tutti
i passeggeri a bordo del trenuccello:
«Trovatevi un’altra arca! Lasciate Babel ai suoi veri cittadini!».
Alla fine il trenuccello si staccò dalla banchina. Ofelia si sentiva
vacillare, e non solo per le scosse del volo. Durante tutto il tragitto si sforzò
di non guardare il vuoto sotto il mare di nuvole. Tirò un sospiro di sollievo
quando le porte si aprirono sul marciapiede del Memoriale.
Sollevò gli occhi più in alto che poté per abbracciare con lo sguardo
quella follia architettonica che ricordava sia un faro che una biblioteca,
talmente colossale da dominare tutta l’arca minore, mimosa più mimosa
meno. Ofelia aveva trascorso là dentro intere giornate e talvolta notti a
catalogare, periziare, classificare e perforare.
Ci si sentiva quasi a casa.
La guardia familiare di Polluce diramò gli ordini. «Scendere, please!
Andare avanti, please! Aspettare, please!». I passeggeri avevano appena
finito di sbarcare che una fiumana di civili già censiti prese il loro posto a
bordo del trenuccello per essere ricondotta in città. Avevano tutti una strana
traccia sulla fronte.
Ofelia si ritrovò intrappolata in un’interminabile fila in attesa sotto il
sole. Invidiava il vecchio Rabdomante dietro di lei, che aveva una nuvoletta
di pioggia sospesa sul cranio.
Rimase a lungo davanti alla statua del soldato senza testa, antico quanto
il luogo. Il Memoriale esisteva già all’epoca del vecchio mondo. Lì Eulalia
Diyoh aveva cresciuto gli spiriti di famiglia. Era lì che aveva incontrato
l’Altro e che insieme avevano provocato la Lacerazione? Il Memoriale ne
portava il segno. Una metà era precipitata nel vuoto e in seguito era stata
ambiziosamente ricostruita al di sopra del mare di nuvole. Ogni volta che
Ofelia guardava l’edificio si domandava come facesse a non inclinarsi.
A un certo punto non vide più niente. Una ventata le aveva mandato a
sbattere un volantino sugli occhiali.
BERREMO. FUMEREMO.
TRASGREDIREMO TUTTI I DIVIETI.
E VOI COME FESTEGGERETE LA FINE DEL MONDO?
Girò il volantino. Dall’altra parte c’era una sola riga.
UNITEVI AI BAD BOYS DI BABEL!
Il Senza Paura E Quasi Senza Rimprovero era morto, ma i suoi seguaci
facevano le cose in grande.
Una guardia le strappò il volantino dalle mani.
«Entrare, please!».
Ofelia varcò finalmente le porte del Memoriale. Come ogni volta, per
prima cosa si sentì rimpicciolita dal gigantismo dei luoghi, dall’immenso
atrio, dagli alti piani ad anello, dai corridoi verticali dei transcendium, dai
box di lettura sul soffitto, dal globo terrestre del Secretarium sospeso sotto
la cupola e soprattutto dalle infinite corsie di scaffali carichi di libri
traboccanti di sapere. Poi, passata la prima impressione schiacciante, si
sentì elevata da tutte quelle pagine, voci silenziose che sembravano
sussurrarle all’unisono che anche lei aveva il diritto di far sentire la sua.
La fila si divise in più rami che si snodavano per tutto l’atrio. I pochi
memorialisti che Ofelia vedeva ai piani superiori camminavano con passo
furtivo, guardando da un’altra parte, come imbarazzati da quel censimento
che veniva effettuato a casa loro. Ofelia cercò tra la folla il volto familiare
di Blasius, ma capì presto che non c’era: iellato com’era, il povero
commesso non passava mai inosservato. In compenso c’erano molti automi
che andavano e venivano con macchine da scrivere portatili.
Si lasciò sfuggire un «Oh, no» quando, dopo un’eternità, vide finalmente
dove portava la sua fila. Dall’altra parte del bancone c’era una precorritrice
alta e magra con i capelli fulvi raccolti senza troppa cura in una coda di
cavallo.
Elizabeth.
La giovane era stata la sua responsabile di divisione. Ofelia ne
apprezzava l’originalità e ne ammirava l’intelligenza, ma la sua lealtà cieca
verso la classe dirigente della città le faceva venire i nervi. Se i documenti
falsi avessero presentato qualche problema Elizabeth sarebbe stata
inflessibile.
«Ancora tu?» disse a mo’ di saluto quando toccò a Ofelia. «Benvenuta
allo sportello dei non nativi di Babel».
Come al solito non sorrideva. Le palpebre grosse e grigie le cadevano
sugli occhi come paralumi, e le lentiggini non riuscivano a rallegrare il suo
pallore. A forza di prendere il sole Ofelia sembrava più Babeliana di lei.
«Non sei molto presentabile» disse Elizabeth indicando con la
stilografica il naso di Ofelia che sgocciolava sudore.
«Neanche tu hai un gran bell’aspetto» rispose l’Animista.
Era facile, Elizabeth non aveva mai un bell’aspetto. La precorritrice
sollevò leggermente le sopracciglia, probabilmente stupita che l’altra le
desse del tu, ma poi dovette ricordarsi che non era più la sua superiore in
grado e si rilassò.
«Ci è vietato truccarci. Abbiamo il dovere di ostentare una completa
trasparenza durante l’esercizio delle nostre funzioni. Dammi i documenti,
Eulalia, così verifico la tua, di trasparenza».
«Che succede? Perché siamo stati tutti convocati qui?».
«Mmm?» fece Elizabeth senza sollevare gli occhi dai documenti di
Ofelia. «I Lord di LUX hanno deciso di procedere a un censimento
obbligatorio di coloro che sono arrivati a Babel da meno di dieci anni. E
credimi, sono tantissimi» aggiunse indicando con flemma le file della gente
in attesa che si perdevano in lontananza. «Io mi sono offerta volontaria per
dare una mano. È un incarico provvisorio, presto dovrei conoscere il mio
prossimo luogo di lavoro. Ho già ricevuto parecchie proposte».
In quel momento a Ofelia stava più a cuore il proprio futuro che quello di
Elizabeth. I suoi documenti falsi erano stati confezionati in fretta e furia da
Archibald, bastava un timbro nel punto sbagliato per svelare l’impostura.
«Ma perché?» insisté. «Perché i Lord vogliono censirci?».
«Perché non dovrebbero?».
Ofelia se l’aspettava. Benché avesse raggiunto il livello massimo
raggiungibile dai precorritori, Elizabeth non aveva niente dell’iniziata.
Come tutti i Babeliani ignorava che i Lord di LUX fossero segretamente al
servizio di Eulalia Diyoh. Ofelia non credeva che l’aver messo su
un’operazione di così ampia portata all’indomani del crollo fosse una
coincidenza. Stavano tramando qualcosa.
«Elizabeth» mormorò protendendosi sul bancone, «sai se ci sono state
frane altrove, oltre che su Babel?».
«Mmm? Perché dovrei saperlo?».
«Perché sei una precorritrice».
L’espressione impassibile di Elizabeth la indispettì. Le serviva una fonte
migliore di informazioni. Guardò verso gli sportelli vicini.
«Octavio c’è?».
Chiedendo di lui Ofelia non desiderava tanto vedere il figlio di lady
Septima, anche lei appartenente alla casta di LUX, quanto una persona di cui
si fidava, il che era abbastanza ironico pensando a quanto lei e Octavio
avessero cordialmente diffidato l’una dell’altro quando studiavano insieme
alla Buona Famiglia.
«Ha appena cominciato un part-time al Giornale ufficiale» rispose
Elizabeth. «E non sta a noi darti informazioni. Ora ti faccio una serie di
domande per completare il tuo dossier. Rispondi con meno parole
possibile».
Ofelia subì un interrogatorio come mai in vita sua. Quand’era arrivata a
Babel? Per quale motivo si era trasferita lì? Da quale arca veniva? Qual era
il suo potere familiare? Era attualmente sotto contratto? Aveva precedenti
penali? Qualche membro della sua famiglia presentava un deficit fisico o
psicologico? Su una scala da uno a dieci, qual era il suo grado
d’attaccamento alla città? Qual era la sua marca di dolciumi preferita?
Per quanto avesse sempre saputo che prima o poi le avrebbero fatto
domande sulle sue false origini, Ofelia dovette fare ricorso a tutto il suo
sangue freddo per rispondere. Fu tuttavia sul punto di perderlo quando vide
avvicinarsi una coppia che, con la sua sola presenza, fece calare un
rispettoso silenzio sulle file in attesa. Di colpo la gente smise di mormorare,
sbadigliare, spazientirsi, tossire. Ofelia aveva visto i Genealogisti una sola
volta e da lontano, in occasione della consegna dei gradi che si era svolta lì
al Memoriale, ma li riconobbe subito, visto che erano interamente vestiti
d’oro. Perfino faccia e capelli erano dorati. Girellavano sorridendo stretti
l’uno all’altra, con le dita intrecciate, passeggiando fra le pratiche
burocratiche come se fossero al parco.
Thorn avrebbe dovuto avere un appuntamento con loro, ma non li
accompagnava, cosa che preoccupò Ofelia. La stava aspettando a casa di
Lazarus, come d’accordo? Si augurò che avesse avuto meno noie di lei. I
Genealogisti erano scortati da una giovane Pharaon che sussultava con aria
spaurita appena uno dei due le sfiorava il braccio o le diceva qualcosa
all’orecchio.
Ofelia si irrigidì quando vennero verso di lei. Perché, tra tutti gli sportelli
del Memoriale, puntavano proprio verso quello a cui si trovava lei?
I Genealogisti si fermarono da una parte e dall’altra di Elizabeth.
«Che ci fa la vincitrice del premio d’eccellenza in un posto così indegno
di lei?» deplorò l’uomo.
«Da sola avete rivoluzionato la banca dati del Memoriale» aggiunse la
donna. «Le vostre competenze sono molto mal impiegate qui, cittadina!».
Per quanto poco espressiva, Elizabeth era visibilmente sconcertata
dall’essere oggetto della loro attenzione. Si alzò per mettersi sull’attenti e
pronunciare il saluto di prammatica, “La conoscenza è al servizio della
pace”, ma loro le posarono la mano sulle spalle per invitarla a rimanere
seduta.
«Non vi disturbate per noi, giovane lady. Fateci soltanto sapere se avete
riflettuto sulla nostra proposta».
«È che non ho avuto il tempo di...».
«Basta un sì» disse la donna.
«È un incarico che sembra fatto apposta per voi» sottolineò l’uomo.
«E rendereste un grande servizio alla città!» conclusero in coro.
Ofelia ignorava di cosa stessero parlando, ma fu felice di non essere al
posto di Elizabeth, le cui guance si erano bruscamente colorite. Osservando
i Genealogisti da vicino notò la grana strana della loro pelle sotto la polvere
d’oro di cui la ricoprivano, come se avessero di continuo la pelle d’oca.
Erano Tattili. Non sapeva niente di quella variante del potere familiare di
Polluce.
«In fact, la mia prima scelta era il posto di assistente personale di lady
Helena» spiegò rispettosamente Elizabeth. «Senza di lei sarei per strada, le
devo ognuno dei miei gradi».
I Genealogisti si scambiarono uno sguardo complice.
«Una storia very commovente, cittadina, ma il vostro lavoro
all’osservatorio riguarderà anche lady Helena. Il modo migliore di esserle
utile è accettare la nostra offerta!».
La maschera imperturbabile di Elizabeth si crepò. Ofelia dette
un’occhiata alla giovane Pharaon che, con gli occhi fissi a terra, faceva finta
di non seguire la conversazione. Non le fu difficile intuire il suo ruolo in
quell’incontro a sorpresa. Il potere incantatorio dei Pharaon permetteva loro
di modulare abilmente le emozioni degli altri in modo da renderli fiduciosi
verso l’interlocutore. Di solito lavoravano in ambiente medico per
tranquillizzare i pazienti, ma non era palesemente quella la funzione della
Pharaon lì presente.
«Non dovresti decidere adesso».
Vedendo Elizabeth persa nell’incertezza Ofelia non era riuscita a
trattenere l’avvertimento, ma lo rimpianse subito. I Genealogisti, che fino a
quel momento non l’avevano degnata di uno sguardo, si voltarono verso di
lei con uno stesso movimento fluido. Anche le loro ciglia erano d’oro.
«Avete qualcosa da dire, miss?» domandò l’uomo guardando i documenti
falsi.
«Forse una modifica da apportare nel vostro fascicolo?» suggerì la donna
accarezzando il modulo.
A Ofelia ispirarono un’antipatia così viscerale che ritenne più prudente
indietreggiare un po’. Sposandosi con Thorn, e condividendo quindi i
rispettivi poteri familiari, aveva ereditato gli artigli dei Draghi. Sebbene i
suoi non fossero altrettanto pericolosi, le facevano strani scherzi quando si
arrabbiava. I Genealogisti non la conoscevano, ma lei conosceva loro. Non
desideravano il bene della città, volevano diventare ciò che Eulalia Diyoh
era diventata. Era importante che per loro Ofelia restasse una straniera
insignificante, altrimenti sarebbero state grane per se stessa e per Thorn.
Si ringhiottì la saliva, l’orgoglio, gli artigli.
«No».
«Allora?» insisterono i Genealogisti rivolgendosi di nuovo a Elizabeth.
«Accettate la nostra proposta, cittadina?».
«Milady, milord... Ne sarei onorata».
Dalla scollatura la donna tirò fuori un contratto e lo aprì sul tavolo.
L’uomo porse una stilografica a Elizabeth.
Che firmò.
«Good girl».
Su quelle parole, che entrambi le avevano sussurrato alle orecchie, i
Genealogisti si allontanarono mano nella mano con i mantelli d’oro
svolazzanti dietro di loro, seguiti a una certa distanza dalla giovane
Pharaon. Ofelia si rese conto che la presenza di quei due le aveva seccato la
bocca.
Elizabeth si tamponò la fronte su cui le si erano incollati i capelli.
«Forse... forse sono stata un po’ precipitosa a firmare».
«In che consiste la loro offerta?» domandò Ofelia.
Subito si levò un coro di proteste. Andati via i Genealogisti, le persone in
fila ricominciavano a spazientirsi. Il vecchio Rabdomante minacciò di
scatenare un temporale. Elizabeth era ancora frastornata.
«È un’informazione riservata, non posso dirtelo. Sì, ho firmato davvero
troppo in fretta».
Sbatteva le palpebre con aria così disorientata che Ofelia si impietosì.
«Merito della Pharaon».
«Non vorrai insinuare che mi abbiano manipolato, spero» disse Elizabeth
con severità restituendole i documenti. «Stiamo parlando di Lord di LUX. È
un’accusa molto grave, tanto più che proviene da una persona la cui
posizione non è conforme. Dovrai comparire in tribunale».
Senza dare a Ofelia il tempo di reagire si protese in avanti e le fece un
timbro in mezzo alla fronte.
«Sto scherzando. È tutto in regola, per il momento. Devi solo passare una
visita medica, poi puoi tornare a casa».
LA CASA

«Perlomeno, voi non siete banale».


Seduta su uno sgabello, Ofelia guardò il viso sfocato del dottore davanti a
sé. Per essere visitata aveva dovuto togliersi gli occhiali, quindi di lui
vedeva chiaramente solo due pupille che scintillavano nella penombra. Vari
studi medici erano stati allestiti nei locali di riprografia al primo piano del
Memoriale. Ofelia era in sottoveste in mezzo a mimeografi, ciclostili e
duplicatrici. Senza i guanti da lettrice, posati insieme alle altre sue cose sul
vassoio tenuto da un automa, si sentiva vulnerabile.
Elizabeth le aveva detto che per il momento era in regola, e quel “per il
momento” la preoccupava. Che sarebbe successo se avessero deciso che
non era conforme ai desiderata dell’amministrazione babeliana? Dietro le
finestre la luce aveva cominciato a calare e lei si stava seriamente
chiedendo se quel censimento sarebbe mai finito. Voleva raggiungere Thorn
e dare inizio alle ricerche.
«Posso andare? Sono attesa altrove».
Il dottore si avvicinò. I suoi occhi da Visionario, luminosi come
lampadine, valevano tutti gli apparecchi di radiodiagnostica. Da quando
Ofelia era entrata, non l’aveva toccata neppure una volta, neanche per
misurarle le pulsazioni, eppure nel suo sguardo c’era qualcosa di
inquietante.
«Avete avuto incidenti, miss Eulalia?» domandò guardando il suo
fascicolo.
Aveva pronunciato la parola “incidenti” con un tono particolare che non
era dovuto soltanto all’accento di Babel.
Ofelia inarcò un sopracciglio. Si riferiva alle tracce dei tagli di cui era
disseminato il suo corpo da quando gli Indovini le avevano rovesciato
addosso schegge di vetro mentre si faceva la doccia? Alla cicatrice sulla
guancia, più vecchia, regalino della sorellastra di Thorn? Alle sue ossa che
negli ultimi anni si erano fratturate più volte?
Capì che aveva tutto l’interesse a non passare per una persona dalla
salute cagionevole. Pur avendo sulla fronte il timbro di Elizabeth, si sarebbe
sentita davvero in salvo solo una volta fuori di lì.
«Alcuni» rispose evasivamente. «Ma non mi hanno mai impedito di fare
ciò che dovevo».
Il dottore annuì. Ofelia si accorse allora che le stava esaminando il basso
ventre senza la minima discrezione.
«Stavo pensando a un incidente di tipo... particolare» spiegò scegliendo
prudentemente le parole. «Stando al vostro fascicolo, miss Eulalia, non siete
impegnata da un punto di vista matrimoniale. Confermate?».
«Questo riguarda la mia vita privata».
Non le piaceva affatto la piega che stava prendendo la conversazione. In
realtà non le piaceva niente di quello che le stavano facendo subire da
quando l’avevano portata di forza al Memoriale. L’amministrazione di
Babel si avventurava sempre più in profondità nella sua vita intima, e Ofelia
non sopportava l’invadenza di quel dottore.
«Vado a rivestirmi».
«Voi soffrite di una malformazione, miss».
Ofelia, che si era alzata dallo sgabello per prendere i suoi vestiti dalle
mani dell’automa, si rimise seduta lentamente. Poi si infilò i guanti e gli
occhiali, come se il fatto di averli addosso potesse aiutarla ad ascoltare
meglio.
Gli occhi del dottore ebbero uno scintillio più intenso mentre la
sondavano quasi affascinati.
«Mi è già capitato di vedere cose strane, ma mai niente di simile. È un
po’ come se tutte le particelle del vostro corpo si fossero, I don’t know...
rivoltate su se stesse. Mi chiedo davvero che razza di incidente possa aver
provocato una cosa del genere».
“Un incidente di specchio” rispose Ofelia dentro di sé. Il primo. Quello
che ha liberato l’Altro.
«Mi chiedo anche come facciate a coordinare i movimenti» continuò il
dottore mentre gli occhi gli si spegnevano come lampade. «Dovevate essere
giovane quando vi è successo, il vostro organismo è riuscito a ripararsi
quasi completely. Quasi» sottolineò con benevolenza paterna. «Capite dove
voglio arrivare, cara ragazza?».
«Sono un’invertita, lo so, me l’hanno già...».
«Non potrete mai avere figli» la interruppe l’uomo. «Vi è fisicamente
impossibile».
Ofelia guardò il dottore completare il suo fascicolo. Capiva le parole che
aveva detto, ma per lei non avevano senso. Non trovò altro da rispondere
che:
«Posso andare?».
«Dovreste farvi vedere all’osservatorio delle Deviazioni. Non potranno
fare niente per voi, ma probabilmente saranno interessati a studiarvi da
vicino. Sono specialisti in casi come il vostro. Rivestitevi» aggiunse in tono
disinvolto. «Abbiamo finito».
Ofelia ci mise un po’ ad allacciarsi i sandali, come se le sue mani non
fossero più capaci di mettersi d’accordo, poi uscì e lasciò il posto alla
persona dopo di lei. Il primo piano del Memoriale era invaso da uomini e
donne che aspettavano il proprio turno. Vedere tutte quelle fronti timbrate le
fece l’effetto di trovarsi in un mattatoio. La guardia familiare convogliava
verso l’uscita quelli che avevano già passato la visita medica, ma lei non
aveva nessuna intenzione di farsi rinchiudere un’altra volta in un
trenuccello.
Doveva isolarsi. Subito.
Al Memoriale non c’erano scale né ascensori, ma Ofelia era abituata alla
gravità artificiale dei transcendium. Senza farsi notare si infilò in un
corridoio verticale che la allontanò dalla folla, poi si rifugiò nelle toilette. A
parte una scimmia che lappava l’acqua di un lavandino, era finalmente sola.
Si guardò senza pietà in uno specchio. Non aveva più paura di trovarci
qualcosa che non esisteva, come le era successo quella mattina nella
vetreria, bensì quello che non vedeva e che tuttavia esisteva.
Si posò una mano sulla pancia con cautela, come se rischiasse di
romperla spingendo troppo forte. L’Altro non si era accontentato di lacerare
il mondo, le aveva anche lacerato il corpo. Allora perché di colpo Ofelia
non provava più niente? In lei non c’era nessun grido di protesta, solo
silenzio.
«Non mi sono mai immaginata madre di famiglia, e Thorn detesta i
bambini» mormorò guardando bene in faccia il proprio riflesso. «Quindi il
problema non si pone».
Si arrampicò goffamente sul lavandino, pensò “casa” e si tuffò nello
specchio.

Ofelia aveva perso la bussola. Letteralmente. Entrando nello specchio del


Memoriale si era preparata a uscire da quello di casa di Lazarus. Invece
ebbe un’incomprensibile sensazione di caduta vertiginosa, come se cascasse
dal basso verso l’alto.
Tutto si era fatto sfocato.
Le immagini.
I suoni.
I pensieri.
A un certo punto si rese conto che qualcuno le stava tenendo saldamente
la mano. Passo dopo passo, si sentiva trascinata attraverso una scenografia
indefinibile. Cercò di concentrarsi su ogni frammento di realtà che i suoi
sensi captavano. C’era una statua. La statua del soldato senza testa. La
statua del soldato senza testa quando aveva la testa. Quindi si trovava di
nuovo sul piazzale del Memoriale, ma all’epoca in cui non era ancora il
Memoriale.
La scuola militare.
Associare parole agli oggetti conferiva loro contorni più precisi.
L’edificio verso il quale si stava dirigendo non aveva ancora l’aspetto
maestoso che gli architetti di Babel gli avrebbero dato molto tempo dopo,
ma era già imponente. L’azzurro e l’oro tutto intorno erano l’oceano e le
mimose. Un’isola. A Ofelia sembrava quasi di sentire quel profumo
inebriante mezzo salato e mezzo dolce. Quasi. Aveva il naso congestionato
e faceva fatica a respirare.
Scalini. La donna che la teneva per mano le stava facendo salire gli
scalini d’ingresso. Donna? Sì, la voce che le stava mormorando di sbrigarsi
era una voce femminile. Parlava in una lingua che non era la sua, ma che
Ofelia avrebbe potuto capire se tutto non fosse stato offuscato
dall’evanescenza dell’ambiente.
La donna la fece sedere in quello che sembrava un atrio, ma la scena era
troppo confusa perché Ofelia potesse esserne certa. Aveva la sensazione di
muoversi in un acquarello su cui fosse stato versato un bicchiere d’acqua.
Ebbe un piccolo shock quando si rese conto di non toccare più il suolo con i
piedi. Si era rimpicciolita? E dov’era finita la donna? Non le stava più
tenendo la mano e la sua voce giungeva da lontano, ma non più rivolta a lei.
Mettendosi d’impegno, alla fine Ofelia riuscì a tradurre in parole
comprensibili la conversazione che stava sentendo.
«E poi devo già occuparmi dei miei figli, come faccio a crescerne
un’altra? E poi mio marito è andato in guerra, come faccio senza un soldo?
E poi, attenzione, è una che si dà da fare, educata e intelligente, molto
intelligente! Sì sì, parla perfettamente la lingua. Ne parla molte, in realtà. Il
suo passatempo preferito è creare nuove lingue, pensate! E poi scrive tutto a
macchina come un’adulta. Certe volte ha qualche sbalzo d’umore, è vero,
ma poverina... ha perso genitori, fratelli, sorelle, zii, zie e cugini, tutti
deportati. Una famiglia di tipografi, credo. Probabilmente hanno stampato
qualcosa che non dovevano, e là non scherzano con queste cose. È un
miracolo che si sia salvata. Come? Diyoh. No, non Dio: Diyoh, con la
ipsilon e l’acca finale! Sì, è un nome delle sue parti, qui si sbagliano tutti.
Allora, so che state cercando bambini con... come avevate detto? Ah sì,
bambini con un “grosso potenziale”. Non ne capisco di queste cose, ma la
piccola è piena di risorse e non chiede altro che dare il suo contributo allo
sforzo bellico».
Quando qualcuno le si avvicinò, Ofelia sollevò la testa. Non era più la
donna, ma un uomo. Benché lo vedesse male, percepiva in lui qualcosa di
familiare. Capì d’istinto che doveva andare con lui e lo seguì attraverso un
labirinto di scale sfocate come tutto il resto. L’uomo indossava un turbante,
camminava con passo militaresco e borbottava in modo strano. Era sicura di
conoscerlo. A forza di concentrarsi su di lui e distaccarsi da sé, non
diversamente da come avrebbe fatto per una lettura, riuscì a vederlo con più
precisione. La stoffa del turbante cercava di nascondergli, senza peraltro
riuscirci, la parte bassa del viso, dove un’orribile ferita che sembrava
recente, ancora non cicatrizzata, gli aveva portato via parte della mascella.
Il vecchio portiere. Il vecchio portiere quando non era ancora vecchio.
Giunti al piano più alto Ofelia fu fatta entrare in un luogo che le procurò
una sensazione agrodolce: in quel luogo avrebbe trascorso molte,
moltissime notti.
“Casa”.
Ragazzi e ragazze di tutte le età le si fecero intorno curiosi e al tempo
stesso diffidenti. Orfani come lei. Non li vedeva in faccia, ma sentiva le loro
domande.
«Come ti chiami?».
«Da che paese vieni?».
«Sei una spia?».
«Hai visto la guerra?».
Ofelia sentì se stessa rispondere con la massima serietà, con una voce che
era la sua senza essere la sua.
«Mi chiamo Eulalia, e salverò il mondo».

Gli orfani scomparvero in una nuvola di polvere. Ofelia tossì più volte
per le ragnatele che inghiottiva ogni volta che cercava di respirare. Il
tavolato su cui era crollata era pieno di schegge che la ferivano.
Guardò inebetita lo specchio dal quale era caduta. La visione si stava già
dissipando. La madre di famiglia, il portiere, gli orfani: tutti erano stati
inclusi in una minuscola frazione di secondo, giusto il tempo di un
passaggio.
Stavolta non era stata un’allucinazione, aveva assistito a una scena che si
era realmente svolta molti secoli prima.
Si rimise in piedi. Lo specchio sospeso a mezz’aria era l’unico elemento
di mobilio della stanza in cui si trovava. Non c’erano porte né finestre, solo
un piccolo orifizio sul soffitto che lasciava penetrare un filo di luce.
Conosceva il posto, era la camera segreta contenuta nel globo che
galleggiava al centro del Secretarium, che a sua volta galleggiava al centro
del Memoriale di Babel.
Si avvicinò allo specchio sospeso, che le rimandò un riflesso di sé
alquanto polveroso. Come quando c’era stata la prima volta, intuiva i
contorni del muro fantasma a cui un tempo era stato appeso. Sapeva, per
aver già letto quello specchio, che Eulalia Diyoh aveva vissuto lì quando
ancora non era diventata Dio. Rivedeva quella donna bassina che le
somigliava tanto, pur essendo completamente diversa, mentre scriveva a
macchina le sue storie per bambini. Capì in quel momento che per Eulalia
Diyoh quella camera era molto più che un laboratorio di scrittura. Prima di
essere la scuola della pace in cui aveva cresciuto gli spiriti di famiglia, il
Memoriale era stato l’orfanotrofio militare in cui aveva passato l’infanzia.
“Casa”.
Era la destinazione che aveva chiesto Ofelia entrando nello specchio
delle toilette, e lo specchio l’aveva portata lì risvegliando in lei l’altra
memoria, quella che non era la sua.
«Questa non è casa mia» rimproverò al proprio riflesso, come se non si
capissero più. «Io non sono lei».
Nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole tutto le risultò
evidente. La prima volta che era stata lì aveva visto Eulalia di fronte al
proprio riflesso, un riflesso al quale Eulalia si era rivolta direttamente, un
riflesso che ormai Eulalia non possedeva più.
Cos’è che gli aveva detto?
“Presto, ma non oggi” ricordò Ofelia.
Capì allora una cosa semplicissima e del tutto folle di cui doveva
assolutamente parlare con Thorn.
Si rituffò nello specchio con la massima attenzione e con il minimo di
intenzionalità. Si sforzò di aprirsi a tutte le destinazioni senza sceglierne
una in particolare. Si sentì precipitare in uno spazio difficile da descrivere a
parole. Vi fluttuavano forme e colori un po’ come quelli che si vedono
quando si premono forte le palpebre.
Il luogo di mezzo. Il divario tra due specchi. La prigione dell’Altro,
quella da cui l’aveva liberato. Lo capiva in quel momento.
Era la dimensione parallela che aveva accidentalmente visitato quando
era stata rinchiusa nell’isolatoio della Buona Famiglia. D’istinto stava
cominciando a capire come entrarci. Da lì le sembrava quasi possibile
percepire la risonanza di tutti gli specchi del mondo, per quanto distanti
fossero.
Ne scelse uno senza esitazioni, quello che si trovava nell’atrio di casa di
Lazarus. Eppure, quando riemerse sul piano di un cassettone posando
goffamente i piedi tra gli incensieri, si chiese se non avesse di nuovo
sbagliato destinazione.
Thorn era tête-à-tête con una bambola.
LA MESSAGGERA

«Finalmente siete arrivata, miss!».


Sentendo Ofelia atterrare sul cassettone Ambroise le era andato incontro
tutto contento sulla sedia a rotelle. I suoi occhi, ombreggiati da lunghe
ciglia da antilope, brillavano sulla pelle scura. Aveva la sciarpa arrotolata
sulle ginocchia.
«Abbiamo saputo del censimento. Spero che non vi abbiano fatto troppe
difficoltà».
Premuroso, il giovane le porse entrambe le mani: la sinistra che si
trovava a destra e la destra che si trovava a sinistra. Anche Ambroise era
affetto da una grave inversione, ma la sua era impossibile non notarla.
Quella di Ofelia invece era invisibile, sotterranea, sorniona.
«I documenti falsi hanno fatto il loro dovere» rispose lei. «Ma non ho
capito a che servano tutte quelle formalità».
«Inutili non sono di certo».
Thorn aveva parlato con voce profonda. Stava seduto sul bordo
dell’impluvium riempito fino all’orlo dalle ultime piogge e fissava come
ipnotizzato la bambola sul divanetto di fronte a sé.
«O comunque» aggiunse articolando le parole con lentezza, «sono dati
che certamente non rimarranno inutilizzati. I Lord hanno un piano».
«Quale?».
«Non lo so. Di LUX conosco solo l’abito che indosso».
Ofelia allungò la mano per prendere la sciarpa, ma quest’ultima
serpeggiò intorno al corpo di Ambroise fino ad avvolgersi sulla sua testa
come un turbante a tre colori. Vedere la sua sciarpa addosso a un altro la
fece sentire un po’ a disagio. Da quando per colpa di Ofelia si erano dovute
separare, il loro rapporto era cambiato.
Ambroise, con un’aria colpevole, le offrì una ciotola di riso.
«Avrete fame. Vi ho fatto preparare qualcosa da mangiare dal nostro
automa di cucina. Sorry, ha un po’ esagerato con le spezie» aggiunse con un
sospiro vedendola lacrimare fin dal primo boccone. «Che avete sulla
fronte?».
«Al Memoriale avevano finito la carta» scherzò lei.
Si avvicinò allo specchio da cui era appena uscita e sfregò il timbro. Non
solo non riuscì a cancellarlo, ma vi aggiunse una strisciata gialla di curry.
«È inchiostro da Alchimista, miss» spiegò Ambroise. «Si cancellerà solo
alla data e all’ora stabilite dall’amministrazione di Babel. Dovrete avere
pazienza».
Quel ragazzo era la dolcezza incarnata. Aveva ben poco in comune con
Lazarus, padre strampalato e brillante che aveva preferito diventare la
pedina di un dio anziché occuparsi del suo unico figlio. Ofelia non se la
sentiva di rimproverargli né la sua parentela né i favori della sciarpa.
Sorrise a sua volta.
Ambroise le indicò Thorn, che non staccava gli occhi d’acciaio da quelli
di vetro della bambola.
«Vostro marito è arrivato con questa nuova ospite. Sono extremely
curioso di saperne di più, ma non ha voluto dirmi niente. Ho passato il
tempo elaborando trentaquattro teorie diverse capaci di spiegare cosa possa
fare un uomo così serio con quel giocattolo».
Thorn, indispettito, sbuffò.
«Le ha elaborate tutte ad alta voce».
Ofelia, rendendosi improvvisamente conto di essere affamata, mangiò il
riso con appetito. Il macigno che aveva sullo stomaco si era fatto più lieve.
“Casa” era lì.
«Posso?».
Thorn trasferì su Ofelia lo sguardo scrutatore che fino a quel momento
aveva rivolto alla bambola. Annuì, pur sapendo che non gli stava davvero
chiedendo il permesso di sedersi accanto a lui.
Era un accordo fra loro. Ofelia non doveva fare niente che potesse
coglierlo di sorpresa.
Sedette anche lei sul bordo dell’impluvium e guardò la bambola. Con la
frangetta nera, il volto di porcellana e i lineamenti orientali le ricordava un
po’ Zen, la sua ex compagna di corso nella divisione degli aspiranti
precorritori.
«È un regalo dei Genealogisti?».
«È la loro messaggera» rispose Thorn. «Non si rivolgono mai
direttamente a me per trasmettermi le loro istruzioni. Hanno un senso
dell’umorismo piuttosto discutibile».
«Allora ci avevo quasi azzeccato con la diciannovesima teoria» gli fece
notare Ambroise andando verso di loro con il vassoio del tè sulle gambe.
A Babel, più faceva caldo e più si bevevano cose calde. Ofelia soffiò
sulla tazza. L’aroma del tè alla menta fu velocemente soppiantato dal
pungente odore di canfora del disinfettante che emanava da Thorn seduto
accanto a lei. Perfino l’acqua piovana che riempiva la vasca di ninfee alle
loro spalle aveva un odore meno penetrante. Ofelia era abituata alle sue
manie, ma quella aveva assunto proporzioni preoccupanti da quando era
diventato sir Henry.
«Che dice il messaggio?».
Thorn allungò il braccio, prese la bambola dal divanetto e mise allo
scoperto un meccanismo sulla schiena di porcellana, nascosto dal kimono in
miniatura.
«Non lo so. È una registrazione vocale che si può attivare una volta sola.
Aspettavo che tornassi per sentirla insieme».
Essere invitata ad ascoltare una bambola non rientrava tra le situazioni
coniugali che Ofelia aveva immaginato di poter vivere un giorno. Più che
l’oggetto, osservò le lunghe mani ossute che lo tenevano. Le maniche
rimboccate permettevano di vedere alcune delle cinquantasei cicatrici che
scalfivano il corpo di Thorn.
Ofelia le aveva viste tutte, e lo considerava un privilegio. Ne era ancora
impressionata.
Appena intercettò il suo sguardo, Thorn si schiarì la gola. Riportò
indietro l’unico ciuffo che minacciava di defilarsi dai ranghi serrati dei suoi
capelli e disse con voce ancora più compassata del solito:
«Insieme».
Ofelia annuì.
«Insieme».
Ambroise guardò l’uno e l’altra, poi fece fare marcia indietro alla sedia a
rotelle.
«Io... well... vi lascio soli. Chiamatemi se avete bisogno di qualcosa».
«Meglio essere prudenti» la avvertì Thorn quando il rumore delle ruote si
spense tra i colonnati. «Il fatto che il ragazzo conosca la maggior parte dei
nostri segreti e ci apra le porte di casa sua non lo rende necessariamente un
nostro alleato. Non mi sorprenderebbe se il padre gli avesse detto di tenerci
d’occhio in sua assenza».
Parlava camuffando il pronunciato accento del Nord. Sebbene Ambroise
non ignorasse le sue vere origini, Thorn abbandonava la maschera di sir
Henry soltanto in privato. Ofelia dette un’occhiata alla giacca dell’uniforme
accuratamente piegata in un angolo: Thorn se n’era disfatto come fosse la
pelle di un altro. Appuntato sulla stoffa bianca e oro, il simbolo di LUX a
forma di sole luccicava alla luce delle lampade elettriche.
Il buio era calato con la velocità di un sipario di teatro. Alzando la testa
verso il tetto aperto Ofelia non vide neanche una stella. Un’altra marea di
nuvole si era addensata sulla città. La nebbia si infiltrava fino nell’atrio.
«Ascoltiamo il messaggio» disse posando la tazza.
Thorn ruotò a lungo la chiavetta che si trovava sul dorso della bambola.
Appena la lasciò, un suono acutissimo fece risuonare la porcellana.
«Salute, dear friend».
Ofelia si aggiustò gli occhiali sul naso. Se era la voce di un Genealogista,
era stata distorta dalla registrazione fino a diventare irriconoscibile.
«Eccovi dunque promosso grande ispettore familiare» continuò la
bambola. «Domani all’alba sarete accolto all’osservatorio delle Deviazioni,
che vi ospiterà tra i suoi muri-suoi muri per le prossime settimane.
Ufficialmente ci andrete per sincerarvi che le generose sovvenzioni
assegnate all’osservatorio dai mecenati di LUX vengano correttamente
impiegate. Le vostre approfondite conoscenze in materia di contabilità
fanno di voi l’agente ideale per questo tipo di ispezioni. È una procedura
very lunga che vi lascerà il tempo di condurre in parallelo un’altra indagine-
indagine.
«L’osservatorio delle Deviazioni è stato istituito per studiare e correggere
determinate patologie, ma sappiamo che è soltanto una facciata
sapientemente costruita e quasi impossibile da penetrare. Nonostante la
nostra influenza-influenza ci è stato rifiutato l’accesso a quel che c’è dietro
con la scusa del “segreto professionale in ambito sanitario”. Da un pezzo
sospettiamo che l’osservatorio si dedichi ad attività nascoste. L’ultimo
rapporto di un nostro informatore, infiltrato, ci comunica l’esistenza di un
programma condotto nella massima segretezza.
«Si chiama Progetto Cornucopiando.
«L’informatore non è stato in grado di dirci di più, è sparito senza
lasciare tracce. Abbiamo tutte le ragioni di pensare-pensare che le risposte
alle nostre e vostre domande abbiano a che fare con detto progetto.
«Voi, dear friend, avete compiuto la prima missione segnalandoci un
nome. Abbiamo effettuato qualche ricerca in antichissimi archivi vietati al
pubblico. L’osservatorio delle Deviazioni è stato un tempo una base
militare, molto prima che il termine fosse messo al bando dal nostro Index.
Anche la base militare lavorava a un progetto top secret-top secret.
«Indovinate che nome abbiamo trovato sul vecchio registro?
«Sì, proprio quello.
«Capite, dear friend? Il segreto che ha reso quella donna ciò che
sappiamo, col potere di avere tutti i poteri compreso quello di eludere la
morte-morte e di salvare il nostro mondo dal grande crollo, si trova
all’osservatorio delle Deviazioni.
«Quelli che davvero muovono le leve dell’osservatorio hanno una
lunghezza di vantaggio su di noi. Tocca a voi invertire la tendenza, dear
friend. Tutte le vostre cose sono pronte, vi aspettano sul posto. Non vi
faremo l’insulto di specificarvi che fine farebbe-farebbe il buon vecchio sir
Henry in caso di fallimento».
Un ultimo gorgoglio sonoro indicò che il meccanismo vocale si era
autodistrutto. La bambola tacque.
Ofelia si sforzò di non lasciar trapelare l’emozione violenta che si era
impossessata di lei ascoltando il messaggio, anche se la tradivano gli
occhiali diventati scuri. Si rese conto che odiava i Genealogisti. Per quanto
aprissero a Thorn porte che altrimenti gli sarebbero rimaste chiuse, era
disgustata dal piacere che manifestavano a servirsi di lui, a giocarci come se
fosse lui la vera bambola.
Thorn sembrava non attribuire alcuna importanza a quell’aspetto della
questione. Anzi, nei suoi occhi stretti per la concentrazione brillava una
certa soddisfazione. Rimise la bambola sul divanetto e prese dalla tasca un
flacone di alcol farmaceutico per disinfettarsi le mani.
«L’osservatorio delle Deviazioni» ripeté. «Se i Genealogisti hanno visto
giusto, se è lì che Eulalia Diyoh è diventata Dio, allora abbiamo in mano
una pista fondamentale».
Ofelia fissò gli occhi a mandorla incredibilmente realistici sul viso di
porcellana della bambola. Ancora l’osservatorio! Ripensò a quel che le
aveva detto il dottore del Memoriale a proposito della sua malformazione:
«Non potranno fare niente per voi, ma probabilmente saranno interessati a
studiarvi da vicino». Bastavano quelle parole a farle venire una fitta allo
stomaco. Era un argomento che doveva affrontare con Thorn.
«Sono già stata all’osservatorio delle Deviazioni, una volta» disse invece.
Non si era spinta oltre la veranda dei visitatori. Vi era stata internata
Mediana, la sua più temibile rivale tra gli apprendisti precorritori, dopo che
il vecchio spazzino del Memoriale l’aveva spaventata a morte. Era rimasta
così traumatizzata che quasi non aveva risposto alle domande di Ofelia.
«È un edificio imponente» continuò, «occupa da solo tutta un’arca
minore. Ricordo che erano piuttosto enigmatici in quel posto. Hanno detto
di avere un fascicolo a mio nome, ma non hanno risposto a niente di ciò che
ho chiesto». Poi sembrò colpita da un pensiero improvviso. «Allora è lì che
vogliono mandare Elizabeth! I Genealogisti hanno citato un osservatorio,
ma non avevo collegato le due cose».
«I Genealogisti?».
Thorn aggrottava le sopracciglia in continuazione, ma aveva una certa
capacità di modulare la profondità del gesto a seconda di quanto era
contrariato.
«Li ho incontrati al Memoriale».
«Spero che non ci sia stata interazione fra voi».
Ofelia mantenne un silenzio prudente che fece aggrottare ancora di più le
sopracciglia a Thorn, tanto che le due estremità delle cicatrici facciali si
avvicinarono fino a formare un unico sfregio.
«Non ho scatenato catastrofi» gli assicurò. «In realtà erano interessati
soltanto a Elizabeth. Non è stato come se mi avessero nominato
vicenarratrice».
«Che volevano da Elizabeth?».
«Che accettasse un incarico all’osservatorio. Le hanno detto che avrebbe
reso un servizio alla città, ma anche a lady Helena. Non ci ho capito
niente».
Thorn puntò i gomiti sulle ginocchia e appoggiò il mento sulle dita
intrecciate seguendo con gli occhi il tracciato geometrico delle pietre della
pavimentazione.
«Piazzano pedoni».
«Uno di loro è finito male» osservò Ofelia. «L’informatore infiltrato è
scomparso mentre indagava sul progetto Carno... Copra...».
«Cornucopiando» la corresse Thorn. «Da cornucopia, il corno
dell’abbondanza della mitologia».
Ofelia era sconcertata. Corno dell’abbondanza? Lei era specializzata in
storia, più che in mitologia, ma ovviamente aveva sentito parlare
dell’oggetto leggendario che produceva cibo a volontà. Le versioni
variavano da un’arca all’altra. Su Anima, in cui predominava il senso
pratico, veniva raffigurato come una sporta inesauribile. Che rapporto c’era
con Eulalia Diyoh e l’Altro? Nessuno dei due aveva certo distribuito
abbondanza intorno a sé. Anzi, avevano sacrificato terre, mari e vite.
Avrebbe voluto poter riascoltare il messaggio dei Genealogisti. Gli echi
inopportuni l’avevano deconcentrata, e non possedeva la memoria di Thorn.
«Il potere di avere tutti i poteri» ripeté maneggiando la bambola con
cautela alla ricerca di un altro meccanismo vocale. Una cosa così
importante poteva dunque essere studiata in un rinomato osservatorio senza
che nessuno lo sapesse?
Trasalì vedendo una zanzara sul polso di Thorn. L’insetto si era appena
posato che una lametta invisibile lo tagliò in due con precisione chirurgica.
Concentrato sulla trama del pavimento, immerso in un’intensa riflessione,
Thorn non se n’era neanche accorto. Minaccia o non minaccia, i suoi artigli
attaccavano senza discernimento tutto ciò che si trovava nell’angolo morto
della sua coscienza: un istinto di caccia primitivo e incontrollabile di cui si
vergognava. Ofelia non capiva bene cosa gli avesse provocato una tale
incapacità a regolarsi.
«Eulalia Diyoh ha creato ventuno spiriti di famiglia immortali» disse
Thorn. «Ha descritto il funzionamento di ognuno di loro in un Libro
inattaccabile dal tempo. Ha, direttamente o indirettamente, provocato la
Lacerazione. Ha propagato i poteri familiari su tutte le arche. Infine»
concluse con un disprezzo che gli alterò il tono di voce, «ha elevato se
stessa al rango di una divinità che oggi detiene il controllo su tutte le
famiglie. Eppure nessuno conosce il suo nome. Per i posteri è rimasta
un’autrice anonima di racconti per l’infanzia, per giunta mediocri. Se
un’umana così insignificante è stata in grado di compiere simili prodigi, è
logico pensare che altri possano fare la stessa cosa anche oggi».
Contrasse talmente le dita intrecciate da infilarsi le unghie nella carne.
Ofelia capì che la sua reazione era dovuta a un difetto sul lastricato
dell’atrio che spezzava la continuità perfetta dell’insieme. Thorn aveva un
bisogno patologico di simmetria. Lo sguardo gli si fece più affilato, come se
cercasse di correggere la pietra problematica con la sola forza di volontà.
«I Genealogisti hanno lasciato intendere che nell’osservatorio siano
racchiuse le risposte alle mie domande» disse scandendo ogni sillaba. «Ne
ho un numero considerevole. Come ha fatto Eulalia Diyoh a diventare Dio?
Qual è la sua vera parte di responsabilità nella Lacerazione? Perché ha
dotato gli spiriti di famiglia di libero arbitrio e memoria, se poi glieli ha
tolti? Perché oggi ha tutti i poteri meno quello degli abitanti di Terra
d’Arco? Se ha davvero creato gli spiriti di famiglia con le sue mani, perché
non possiede già tutte le loro capacità? Con che diritto si fa passare per
Dio? Come osa sostenere di avere a cuore il bene dell’umanità quando ha
perso l’essenza di tutto ciò che costituiva la sua umanità?».
La sua voce si era fatta gradualmente più forte, vibrava di collera
trattenuta, e Ofelia sentì la pelle crepitarle per l’effetto elettrificante degli
artigli. Si augurò di non fare la fine della zanzara. Ogni volta che diceva
“Dio”, Thorn lo pronunciava a fior di labbra, in modo quasi impercettibile,
ciò nonostante Ofelia percorse l’atrio con lo sguardo per assicurarsi che
fossero soli. Gli automi di Lazarus erano concepiti per trasformarsi in una
prigione di lame quando la parola veniva detta in casa sua. In mezzo
all’arredamento d’epoca c’erano così tanti macchinari che non era facile
stabilire quali potessero nascondere una trappola. Il grafoscopio sul tavolo
di marmo, per esempio, era innocuo come sembrava? E la teiera
cronometrica? E la statua-fontana al centro dell’impluvium, che allo
scoccare di ogni ora suonava i cembali?
Thorn chiuse gli occhi per non vedere più il difetto del pavimento.
«Ho orrore delle contraddizioni, eppure devo scenderci a patti da quando
mia madre mi ha trasmesso i ricordi di Faruk. Non c’è nessun Altro in quei
frammenti di memoria, ma sono convinto...». Si corresse. «...Anzi, Faruk
era convinto che Eulalia Diyoh fosse stata punita il giorno della
Lacerazione. Certe volte mi sembra quasi di poter ricordare ciò che è
davvero successo in quel momento. Sono però sicuro che Faruk ne sia stato
l’unico testimone, motivo per cui Eulalia non voleva che il suo Libro
venisse letto».
Ofelia lo ascoltava trattenendosi ancora dall’intervenire. Thorn era un
uomo piuttosto avaro di parole, tanto che certe volte era difficile capirlo, ma
quella sera ci teneva a dare consistenza ai suoi pensieri. Con gli occhi
chiusi, sembrava assistere a una scena che si svolgeva all’interno delle sue
palpebre.
«Quando c’è stata la Lacerazione, Eulalia era chiusa in una stanza. Aveva
proibito a Faruk di entrare, ma alla fine lui ha aperto la porta».
Thorn corrugò l’ampia fronte lucida di sudore, come se si sforzasse di far
tornare a galla frammenti di una memoria ormai scomparsa.
«Da una parte il parquet, dall’altra il cielo. La stanza è stata tagliata a
metà. Non è rimasto più niente. Niente a parte Eulalia e... e cosa?» si
domandò scontento mentre il ricordo gli sfuggiva di nuovo.
«Uno specchio sospeso».
Thorn sollevò le palpebre e raddrizzò le spalle.
«In effetti c’era uno specchio sospeso» ammise dopo un po’.
«Tuttora ce n’è uno» disse Ofelia. «L’ho visto per caso. Si trova nel
Memoriale, all’interno del globo che levita nel Secretarium».
«Al centro esatto della circonferenza dell’edificio» concluse Thorn con
un lampo di comprensione negli occhi. «Nel punto preciso in cui metà del
Memoriale è stato portato via dalla Lacerazione. Non mi stupirebbe che sia
stata la stessa Eulalia Diyoh a ordinare agli architetti di Babel di murare la
stanza, quando l’hanno ricostruito. Se scopriamo cos’è davvero successo,
prima all’osservatorio delle Deviazioni e poi al Memoriale, l’equazione è
risolta».
Ofelia ripensò alla visione brutale avuta davanti alla vetreria: il sangue, il
vuoto, il terribile incontro con Eulalia e l’Altro nell’abisso della fine del
mondo. Si chiese se in quello specchio non avesse proiettato le proprie
paure. Osservò la sua ombra e quella di Thorn, esaltate dalle lampade, che
si allungavano ai loro piedi sovrapponendosi.
«Anch’io mi faccio molte domande. Mi sono spesso chiesta per quale
ragione le somigliassi così tanto. A Eulalia» specificò di fronte allo sguardo
interrogativo di Thorn. «Ho molte più cose in comune con lei che con le
mie sorelle. Ho perfino alcuni suoi ricordi, e non mi sono stati trasmessi
come i tuoi».
Si interruppe. La casa di Lazarus era immersa in una calma turbata
appena dal fruscio delle zanzariere mosse dalla brezza e dall’attività lontana
degli automi. Dal quartiere non giungeva loro alcun rumore. Le notti di
Babel non conoscevano musica da festa né vicini rumorosi né clacson per
strada.
«Credo di aver finalmente capito perché» continuò. «L’Altro, quello che
ho liberato dallo specchio di camera mia, quello con cui mi sono mischiata»
disse insistendo sull’ultimo termine, «è il riflesso di Eulalia Diyoh».
L’affermazione avrebbe potuto far ridere Thorn, se ne fosse stato capace,
il quale invece si mise a riflettere con impegno.
Allora Ofelia sollevò lentamente la mano sinistra e guardò la propria
ombra imitarla con la destra.
«Un riflesso che Eulalia avrebbe perso insieme alla sua essenza umana»
mormorò turbata. «Una parte di me accetta questa teoria da molto più
tempo di quanto non voglia ammettere, un’altra parte la rifiuta. So che
viviamo in un mondo in cui i miracoli sono divenuti la norma, ma... è
possibile che un riflesso sia scappato da uno specchio? Che sia capace di
pensare e agire in maniera indipendente? Che sia in grado di annientare
intere arche? Non c’è dunque alcun limite accettabile alla trasgressione
della realtà? E che rapporto c’è col progetto dell’osservatorio? Eulalia
Diyoh si è servita di questo Corno dell’abbondanza per ottenere una
moltitudine di facce e di poteri? È per questo che è entrata in conflitto col
suo riflesso nello specchio? È a causa di questo conflitto che è comparso
l’Altro e si è prodotta la Lacerazione?».
Thorn guardò l’orologio da taschino appeso alla catena della camicia. Il
coperchio si aprì e richiuse da sé per fargli vedere l’ora.
«Dovremo trovare le risposte da soli» dichiarò pragmatico. «Se Eulalia
Diyoh ha lavorato su un progetto che ha reso lei e l’Altro ciò che sono oggi,
bisogna che capiamo questo progetto dall’interno. Forse ciò che è stato fatto
può essere disfatto, basta solo sapere come. Parto all’alba, vado a indagare
all’osservatorio».
Ofelia strinse i pugni sulla tunica. Doveva assolutamente dirglielo. Thorn
aveva il diritto di conoscere tutte le implicazioni del suo incidente di
specchio. “Non posso avere figli”. Solo poche parole, in fondo neanche
troppo importanti. Allora perché si rifiutavano di uscire?
Pensò che forse non era il momento migliore.
«Vengo con te».
Thorn si contrasse, ma nella sua voce non c’era disapprovazione.
«Non posso portarti con me».
«Lo so. Sir Henry non può farsi vedere in giro con una straniera che ha
questo coso in mezzo alla fronte». Con un sorrisino si tamburellò sul
timbro. «Solleveremmo i sospetti di tutti. Ci andrò per conto mio. Dopo
tutto Lazarus ha detto che in quanto invertita sarei stata interessante per
l’osservatorio. Potrei offrirmi volontaria».
Evitò di aggiungere che la stessa cosa le era stata consigliata dal dottore
della visita medica.
«Nessuno può proporsi come volontario per un posto del genere senza
una valida motivazione» la avvertì Thorn. «Forse l’infiltrato dei
Genealogisti è sparito perché non è stato abbastanza prudente. Se l’hanno
smascherato, avranno anche raddoppiato la vigilanza e diffideranno dei
nuovi arrivi».
«Domani mi informo sulla strategia migliore da adottare. Ho anch’io i
miei informatori».
Fedele a se stesso, e senza ricambiare il sorriso, Thorn esaminò con
sguardo d’acciaio il segno del timbro sotto i riccioli spettinati di Ofelia.
«Per quanto vada in giro col simbolo dei Lord di LUX addosso ignoro
quale sia l’obiettivo del censimento. Il crollo del quartiere nordovest della
città non sarà privo di conseguenze. Forse dovresti evitare di farti vedere in
pubblico, almeno per un po’».
«Non basterà tutta la burocrazia di Babel a impedirmi di raggiungerti».
Le sopracciglia di Thorn si rilassarono di colpo. La guardò quasi
sconcertato, come se gli sembrasse inverosimile che Ofelia fosse ancora lì,
seduta accanto a lui sul bordo dell’impluvium, per giunta di sua spontanea
volontà. Allora sulla sua faccia si susseguì una serie di espressioni talmente
contraddittorie e sottili che era difficile distinguerle l’una dall’altra.
Sollievo. Frustrazione. Gratitudine. Necessità.
Evitò lo sguardo di Ofelia, si schiarì la gola e rispose:
«Ti aspetterò».
Di colpo ebbe l’aria di sentirsi a disagio su quel bordo di pietra, come
troppo stretto nella propria pelle, intralciato da braccia e gambe troppo
lunghe e dall’armatura troppo pesante.
Ofelia capì allora che l’intimità condivisa con lui il giorno prima non le
aveva dato Thorn in tutta la sua interezza, che una parte di lui rimaneva
impalpabile. La distanza tra loro si era fatta più esigua, ma era diventata di
troppo. Sentì il bisogno urgente di porvi fine, ma si ricordò di avere la pelle
piena di graffi e i capelli pieni di polvere. Probabilmente non era l’ideale
per uno che metteva l’igiene al primo posto delle sue priorità.
«Devo disinfettarmi?».
L’oscurità si abbatté su di lei. Senza fiato, ci mise un po’ a capire che
Thorn l’aveva bruscamente stretta a sé. In quell’uomo gli abbracci non
erano preceduti da alcun segno premonitore. C’era la distanza, e l’attimo
dopo la simbiosi.
«No» rispose lui.
Ofelia smise di pensare e si abbandonò contro il suo petto. Ascoltò i
battiti furiosi del suo cuore. Le piaceva che lui fosse così grande e lei così
piccola. Si sentiva come interamente sommersa da un’onda.
Thorn sciolse l’abbraccio quando vide i suoi occhi spalancati sotto gli
occhiali turbati. Si spinse con forza la punta del naso per voltarsi da un’altra
parte. Aveva le orecchie in fiamme.
«Non sono abituato a essere guardato in questo modo» disse.
«In che modo?».
Thorn si schiarì di nuovo la gola, imbarazzato come Ofelia non l’aveva
mai visto. Eloquente com’era quando si trattava di ragionamenti
intellettuali, in quel momento sembrava a corto di parole.
«Come se fossi incapace di commettere errori. Invece alcuni ne
commetto. Anche un po’ di più».
Abbassò verso Ofelia il lungo naso che portava ancora l’impronta delle
dita e la considerò con la massima serietà.
«Se ogni tanto c’è qualcosa che non ti va a genio... un gesto che faccio,
una parola che non dico... devi dirmelo. Non voglio dover stare a chiedermi
perché non riesco a rendere felice mia moglie».
Ofelia si morse l’interno della guancia. La verità era che ormai si
trovavano entrambi in territorio sconosciuto.
«Sono già felice. Anche un po’ di più».
Le severe labbra di Thorn furono percorse da un fremito. Si chinò su di
lei, stavolta con decisione, ma l’articolazione dell’armatura della gamba si
inceppò bloccandolo in pieno slancio. Ofelia lo vide così innervosito che
non riuscì a impedirsi di scoppiare a ridere.
Sì, nonostante il mondo stesse andando in frantumi era felice. Si chiese
se Eulalia Diyoh avesse mai provato una cosa del genere. Si chiese anche
cosa stesse facendo in quel momento, là dove si trovava.
SOLITUDINE

Il Falso Omone Tutto Rosso sollevò i pugni. Con un movimento


scoordinato allungò le braccia muscolose sopra la testa, spalancò una bocca
enorme e sbadigliò.
Vittoria indietreggiò spaventata. Non troppo, però. Non voleva perdere di
vista Padrino, che camminava a lunghe falcate nella via. Era una via strana.
Una terrazza piena di ombrelloni si ripiegò su se stessa fino a sparire
completamente. La stessa cosa successe più avanti ad alcuni variopinti
banchi di frutta e ancora più avanti a un grazioso chiosco di giornali.
Appena vedevano avvicinarsi Padrino le persone rientravano in casa e le
case rientravano in se stesse con un complicato gioco di ripiegamenti, come
se fossero fatte di carta. Alla fine restavano solo facciate bianche senza
porte né finestre, alte come il cielo.
Presto la strada fu vuota. Rimanevano solo Padrino, il Falso Omone
Tutto Rosso, la Signora dagli Occhi Strani e Vittoria, ma lei non contava
davvero. Era successa la stessa cosa con la strada di prima, con quella di
prima ancora e così via.
Padrino si fermò in un raggio di sole che filtrava dai tetti lassù. Un dito
gli spuntava dal buco della tasca, una bretella gli sbatteva sulla gamba.
Chiuse gli occhi e inspirò profondamente col naso, come se volesse nutrirsi
di luce. Pelle e barba gli scintillavano.
Si girò con un sorriso verso il Falso Omone Tutto Rosso e la Signora
dagli Occhi Strani.
«Il proverbio dice il vero. Non c’è persona più introvabile di un
Arcadiano che non vuole essere trovato».
Vittoria lo sentiva male. Viaggiare era come guardare il mondo dal fondo
di una vasca da bagno, ma aveva l’impressione che quella vasca fosse
sempre più profonda. Non aveva mai fatto un viaggio così lungo. Le voci le
arrivavano ancora più distorte, ancora più lontane, spesso duplicate. Il
sorriso di Padrino era l’unica cosa che le trasmettesse un po’ di sicurezza.
La Signora dagli Occhi Strani frugò nella borsa degli attrezzi che portava
alla cintura, prese il martello e batté piano su una facciata avvicinando
l’orecchio.
«Spessore minimo. Si nascondono, ma ci ascoltano».
La Signora dagli Occhi Strani parlava con metà bocca. L’altra metà
mordeva una sigaretta. Accesa o spenta, ne aveva sempre una tra i denti,
cosa che rendeva ancora più difficile capirla.
«Vi stanno evitando, caro ex ambasciatore. Certo, non fate che
collezionare incidenti diplomatici! Forse dovremmo evitarvi anche noi, eh,
Renard?».
La Signora dagli Occhi Strani posò gli occhi strani, uno azzurrissimo e
l’altro nerissimo, sul Falso Omone Tutto Rosso. Lui le fece un cenno col
mento che non era né un sì né un no. Alla luce di mezzogiorno i suoi capelli
fiammeggiavano, eppure Vittoria non gli trovava niente di caldo.
Padrino si sdraiò in mezzo alla strada in pieno sole con un braccio
piegato dietro la testa e l’altro che sventolava come un ventaglio il cappello
sfondato. Il suo sorriso era ormai rivolto soltanto al cielo.
«Temo di essere assolutamente inevitabile, anche per me stesso».
Vittoria avrebbe voluto avvicinarsi a lui anche se non poteva vederla né
sentirla né toccarla, anche se lei stessa percepiva di lui solo una forma
confusa e suoni distorti, ma non osava, il Falso Omone Tutto Rosso non
staccava gli occhi da Padrino, parlava poco e ascoltava tutto. Ne era
terrorizzata.
La Signora dagli Occhi Strani tirò in aria il martello, lo riacchiappò per il
manico, lo lanciò di nuovo.
«Allora è questo il piano? Ci sediamo per terra e aspettiamo?».
«Precisamente» rispose Padrino.
La Signora dagli Occhi Strani proruppe in un’imprecazione di quelle che
a Mamma non avrebbe fatto piacere sentire. Salame, che le si strusciava
contro i polpacci, per poco non le aveva fatto perdere l’equilibrio.
«Chiama un po’ il tuo gatto, Renard!».
Il Falso Omone Tutto Rosso fece schioccare la lingua, ma Salame non
rispose al richiamo, lo fissò senza muoversi. Vittoria sapeva perché. Anche
lei vedeva la folla di ombre che gli brulicavano sotto la suola delle scarpe.
Non era il vero Omone Tutto Rosso, non era quello che l’aveva spinta in
carrozzina nel giardino di casa né quello che l’aveva presa al volo quando
stava per cadere da uno sgabello da arpista. No, il Falso Omone Tutto
Rosso era qualcun altro. Vittoria non sapeva chi, ma tutto dentro di lei
urlava al pericolo, e né Padrino né la Signora dagli Occhi Strani se ne
stavano rendendo conto.
Vittoria avrebbe tanto voluto che ci fosse Padre. Lui sarebbe stato capace
di vederla e avrebbe scacciato il Falso Omone Tutto Rosso così come aveva
scacciato la Falsa Dama d’Oro.
Si bloccò.
Il Falso Omone Tutto Rosso aveva guardato in tralice nella sua direzione,
come intuendo la sua presenza con la coda dell’occhio. Subito le ombre
sotto le scarpe si contorsero gesticolando.
In quel momento una voce riecheggiò tra i muri bianchi della via.
«Che devo fare con te?».
Era una voce come Vittoria non aveva mai sentito, una voce maschile e
femminile insieme che sembrava provenire dal cielo. Lassù in alto, molto in
alto, una persona era seduta sul bordo di un tetto. Vittoria cercò di
distinguerla meglio, ma gli occhi del viaggio rendevano ancora più sfocato
ciò che si trovava a distanza.
«Don Janus!» lo salutò Padrino rimettendosi agilmente in piedi. «Stavo
venendo da voi».
La persona scomparve dal tetto. Non era caduta, aveva solo smesso di
trovarsi lassù e stava in mezzo alla strada di fronte a Padrino. Il corpo,
come la voce, non era né maschile né femminile, ma un po’ tutte e due le
cose insieme.
«Nessuno viene da me, sono io che trovo gli altri, in particolare quelli
che mi disubbidiscono».
In Vittoria la curiosità soppiantò per un attimo il timore che le ispirava il
Falso Omone Tutto Rosso. L’uomo-donna era immenso, elegante e
indecifrabile come Padre, ma a parte quello non gli somigliava per niente.
Aveva la pelle color caramello, i baffi a forma di scale a chiocciola e una
gorgiera talmente grossa che la testa sembrava posata su una meringa.
Neanche l’uomo-donna vedeva Vittoria. In realtà guardava solo Padrino.
«Niente mi sfugge di quel che succede su Terra d’Arco, niño. So che hai
creato un passaggio tra la mia arca e il Polo, che sei andato a trovare la
prima favorita di mio fratello Faruk, che avevi intenzione di portarla qui per
presentarmela e che contavi sulla sua influenza per farmi cambiare idea».
L’uomo-donna si esprimeva con lentezza, senza riprendere fiato. «Non l’ho
cambiata. I miei ordini sono rimasti gli stessi: più niente deve entrare a
Terra d’Arco e più niente deve uscirne. Compreso tu, niño. Pensavi davvero
che non mi sarei accorto di niente?».
«Ci speravo» rispose Padrino. «Mi sono assentato per meno di un’ora e
sono tornato a mani vuote, non è il caso di farne un caso».
«Otto delle mie Rose dei Venti in tutto il mondo sono scomparse».
Vittoria era abbastanza sicura che l’uomo-donna non avesse nessuna
voglia di scherzare, ma Padrino scoppiò a ridere.
«Ah, su quello non c’entro niente. Ho solo invocato una scorciatoia da
qui al Polo e l’ho annullata subito dopo essere passato».
Su una facciata un blocco di pietre bianche si staccò dal muro e si aprì
come fosse cartone fino a far apparire una finestra col balcone. Alcune
persone si erano affacciate per vedere cosa succedesse in strada.
«Otto delle mie Rose dei Venti sono scomparse» ripeté l’uomo-donna. «E
anche il terreno sul quale poggiavano. Ho detto ai señores della compagnia
di gestione di ricontrollare, il loro rapporto è categorico. Tu te ne vai, niño,
e quando torni le arche si sbriciolano. Sono tentato di vederci un nesso di
causa-effetto».
Piegò il busto in avanti con un movimento così spettacolare che Vittoria
ebbe paura di vederlo cadere su Padrino. Poi si accorse che, attaccata a lui
come un grande mantello di fumo, c’era un’ombra che nessuno a parte lei
sembrava vedere. Sebbene diversa, le ricordava l’ombra con gli artigli di
Padre e Mamma.
«Non posso fare altro che considerarti un membro della mia discendenza,
visto che un po’ del mio potere familiare ti scorre nelle vene, tuttavia dovrò
mutilarti per averne fatto un uso così sbagliato».
Vittoria ebbe paura vedendo l’uomo-donna aprire dita gigantesche e
avvicinarsi a Padrino come se volesse racchiudergli la testa nella mano.
Poi successe qualcosa di molto lento e molto rapido insieme. Vittoria
vide la grande ombra staccarsi dall’uomo-donna, volteggiare in un turbine
di fumo e atterrare sul marciapiede alle spalle di Padrino. L’attimo dopo
c’era l’uomo-donna, che aveva preso il posto dell’ombra senza aver avuto
bisogno di muoversi.
Janus assestò sulla schiena di Padrino una grande pacca che gli fece
volare il cappello per terra.
«Pensandoci bene, non credo che tu abbia abbastanza potere da
provocare un’instabilità del genere nello spazio».
Vittoria riportò l’attenzione sul Falso Omone Tutto Rosso. Sebbene fosse
fermo e tranquillo, le sue ombre erano agitatissime. Si contorcevano ai suoi
piedi e allungavano miriadi di braccia verso l’uomo-donna come se
volessero strappargli l’ombra e non ci riuscissero.
Padrino raccolse il cappello e facendoselo piroettare sulla mano se lo
rimise sui capelli scarmigliati.
«È molto probabile che l’instabilità sia opera di Dio, don Janus. Invece di
fare la morale a me dovreste darvi da fare per snidarlo. Avete dato origine a
tutta una famiglia di Arcadiani che manipolano lo spazio e disponete di un
corpo scelto di Orientatori capaci di ritrovare chiunque ovunque. È un vero
spreco obbligarli a nascondersi come talpe!».
Vittoria non capiva cosa avesse detto Padrino di così interessante, ma le
ombre del Falso Omone Tutto Rosso si agitarono ancora di più.
L’uomo-donna infilò le dita tra le pieghe della grossa gorgiera, come
rovistando all’interno del suo stesso collo, e ne tirò fuori un libro alto quasi
come Vittoria. Padre ne aveva uno simile che portava sempre con sé.
«È inutile che insisti» disse l’uomo-donna scuotendo il Libro. «Non sono
come i miei fratelli e sorelle, ho una memoria che funziona perfettamente,
io. I miei Agujas rimarranno introvabili finché non deciderò altrimenti.
Quanto alla persona che chiami Dio, non ho dimenticato il suo vero nome».
«Il suo vero nome» ripeté Archibald molto interessato.
«Un nome che non ti dirò senza ottenere qualcosa in cambio. Devi
riguadagnarti la mia fiducia, niño. Sappi almeno questo: io e quella persona
non siamo mai stati vicini. Geograficamente, intendo. Da quando ho l’età di
servirmi del mio potere familiare sono stato incapace di rimanere fermo.
Non ero con quella persona quando il mondo si è lacerato. Non c’ero
neppure quando quella persona ha strappato una pagina a ogni Libro dei
miei fratelli e sorelle privandoli per sempre della memoria. Devo dire che
l’episodio non mi ha invogliato a rivederla. Ho deciso di mantenere le
distanze, ho nascosto Terra d’Arco in una piega dello spazio e questa è la
situazione. Non ficco il naso negli affari di quella persona, lei non ficca il
naso nei miei e tutti ci trovano il proprio tornaconto da secoli».
La Signora dagli Occhi Strani, che fino a quel momento era rimasta in
silenzio, si fece avanti con determinazione. Buttò per terra la sigaretta
accesa, la schiacciò col tacco per spegnerla e piantò i suoi occhi strani in
quelli dell’uomo-donna.
«Vigliacco».
La gente dal balcone si mise a insultarla pesantemente e a lanciarle
arance. Padrino ne prese una al volo e cominciò a sbucciarla in tutta
tranquillità.
«Poi sono io quello che crea gli incidenti diplomatici...».
Vittoria sarebbe stata seriamente preoccupata, se non ci fosse stato il
sorriso di Padrino. La Signora dagli Occhi Strani non rideva affatto.
«La cosa ha smesso di essere vera, Janus, e voi lo sapete. Quella persona
sta dando la caccia al vostro potere familiare, ed è per questo che Madre
Ildegarda...».
«...Ha fatto il suo dovere» concluse l’uomo-donna ridisegnandosi la
spirale dei baffi con un gesto delle dita. Poi aggiunse: «Forse era una mia
discendente, ma mi ha lo stesso tradito cambiandosi il nome e deviando
dalla politica di famiglia. Per noi la neutralità è legge. Doña Mercedes
Imelda si è molto immischiata negli affari delle altre famiglie, in particolare
della vostra. Non ha fatto altro che rimediare al suo errore. Quanto a quella
persona, resteremo qui buoni buoni finché non sarà scesa a più miti
consigli».
Vittoria vide la Signora dagli Occhi Strani contrarre il pugno sul manico
del martello e contemporaneamente Padrino infilarsi tra lei e l’uomo-donna.
«Vi propongo un accordo, don Janus. Se riusciremo a dimostrarvi che
Terra d’Arco è già coinvolta nelle manovre di quella persona vi unirete a
noi per rimetterla al suo posto».
Vittoria capiva ben poco di quei discorsi da adulti, pensò che Padrino si
riferisse alla bretella, visto che se l’era rimessa sulla camicia con gesto
deciso. Aveva l’aria di un eroe. Era sempre stato il suo eroe. Allora perché
non la vedeva?
L’uomo-donna infilò il libro nelle pieghe della gorgiera.
«Affare fatto. Fino ad allora, niño, divieto a chiunque su Terra d’Arco di
avere a che fare con te e il tuo gruppo. Avete un’influenza troppo nefasta».
Subito le persone alla finestra rientrarono in casa, il balcone si ripiegò
con un fruscio di carta e al suo posto rimasero solo file di pietre bianche.
Vittoria vide l’ombra dell’uomo-donna prendere il volo come un grosso
uccello di fumo. L’attimo dopo anche don Janus era scomparso.
La Signora dagli Occhi Strani fissò a lungo Padrino. Sembrava che
avesse voglia di usare il martello per cancellargli il sorriso.
«Non riusciremo a parlare con un solo Arcadiano e non dimostreremo
mai niente. E tu te ne freghi!» tuonò voltandosi di colpo verso il Falso
Omone Tutto Rosso. «Il mondo finisce in bulloni, Madre Ildegarda è morta
per due chiodi e tu stai lì nel tuo angolo senza fiatare. Certe volte ti
comporti ancora come un valletto».
Vittoria vide che nella rabbia della Signora dagli Occhi Strani c’era anche
dolore. Sembrava che si aspettasse dal Falso Omone Tutto Rosso qualcosa
di molto importante per lei.
Lui non si degnò neanche di guardarla.
«Peccato» disse soltanto, fissando il marciapiede su cui si trovava
l’uomo-donna fino a poco prima.
Le ombre continuavano a trascinarsi ai suoi piedi tendendo le braccia in
tutte le direzioni, come se cercassero disperatamente qualcosa che non
riuscivano a trovare.
Quando Vittoria vide un’ombra strisciare fino a lei fu combattuta tra la
voglia di scappare e il bisogno di restare.
A un certo punto ombre e sole si mischiarono. Il fondo della vasca da
bagno da cui Vittoria osservava il mondo si fece ancora più torbido. Forme
e colori si intrecciarono in un unico immenso vortice. Non ci furono più né
il Falso Omone Tutto Rosso né la Signora dagli Occhi Strani né la strada, e
neppure Padrino. Vittoria non aveva mai vissuto una cosa del genere nel
corso di un viaggio. Non capiva cosa stesse succedendo. Si sentì
risucchiata, come se il vortice volesse diluirla nell’intero universo.
Pensò “No!”, e il vortice invertì il senso di rotazione, poi rallentò il
movimento. Forme e colori ripresero poco a poco il loro posto. La strada
tornò ad avere un aspetto più o meno stabile. Era vuota e buia. Il sole non
filtrava più tra i tetti.
Guardò da tutte le parti. Padrino non c’era più. Dov’era finito? Andò un
po’ avanti, girò a destra, salì una scala, girò a sinistra. Il cielo era sempre
meno azzurro. Alla svolta di un giardino pubblico vide una figura che pensò
essere Padrino, ma era solo un addetto all’accensione dei lampioni che
camminava con la pertica in spalla. Di quando in quando vedeva porte che
si aprivano, sconosciuti che uscivano per strada, si scambiavano mormorii,
portavano a passeggio il cane e tornavano a casa dopo essersi augurati la
buonanotte.
Si fermò in mezzo al ponte più alto della città e contemplò i puntini
luminosi dei lampioni in basso tra le miriadi di strade che si diramavano a
zigzag nell’oscurità.
Aveva perso Padrino, non c’erano dubbi.
Alzò gli occhi verso quel cielo vero che aveva sempre voluto vedere
quand’era a casa. L’azzurro era scomparso del tutto. Era sola. Sola e
smarrita. Pensò all’Altra Vittoria con tutte le sue forze per tornare a essere
di nuovo unita a lei, e se avesse avuto vere palpebre avrebbe chiuso anche
quelle con tutte le sue forze. Il suo corpo da viaggio si raggomitolò su se
stesso. Non aveva detto una parola da quando era nata, ma dentro di lei il
silenzio urlava.
Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma.
Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma.
Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma.
Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma. Mamma.
Mamma. Mamma. Mamma. Mamma.
«Non ho abbindolato il tondo».
A parlare era stato il Falso Omone Tutto Rosso.
Si era piegato su Vittoria al punto da nascondere le stelle. Il suo sguardo
la attraversava senza vederla. Strizzava le palpebre e aggrottava le folte
sopracciglia, come se questo lo aiutasse a individuare la sua presenza in
mezzo al ponte. Anche Vittoria lo vedeva male, sia per il buio che per il
viaggio. Curiosamente, però, distingueva benissimo le ombre ai suoi piedi.
Tutte puntavano il dito verso di lei.
«Abbandonato il mondo» si corresse il Falso Omone Tutto Rosso. «Non
ho abbandonato il mondo».
Il suo corpo muscoloso cominciò allora a rimpicciolire, mentre i capelli
si misero a crescere, crescere e crescere. Il Falso Omone Tutto Rosso era
diventato una piccola signora con gli occhiali. A Vittoria fece venire in
mente Madrina, anche se l’aveva vista una volta sola. Ancora di più le fece
venire in mente Mamma, forse per gli occhi che cercavano i suoi nel buio
della notte, come un vuoto che chiedesse solo di essere riempito.
«Mi chiamo Eulalia, e non abbandonerò neanche te, bambina».
La Piccola Signora con gli Occhiali riprese l’aspetto del Falso Omone
Tutto Rosso e girò su se stessa con passo incerto, come se fosse difficile per
lei, o per lui, dare al proprio corpo una direzione contraria, poi attese.
Dopo una lunga incertezza Vittoria decise di seguirli: lei, o lui, e le
ombre.
IL BIANCO

«Secondo voi cos’hanno provato quelli che sono caduti nel vuoto?»
domandò Ambroise.
Appollaiata sul predellino posteriore della sedia a rotelle, Ofelia non lo
vedeva in faccia. In realtà vedeva ben poco. Il giovane autista di tac-si
aveva aperto sopra la sua testa un ombrello meccanico che le ricadeva sugli
occhiali e, quando riusciva a scostarlo, a ostruirle la vista era un enorme
turbante. La sciarpa non aveva voluto che Ambroise uscisse senza di lei. Si
era aggrappata a lui con tutte le sue maglie, come se volesse fondersi con i
capelli del ragazzo e diventare una parte del suo tutto. Per non trasgredire al
codice d’abbigliamento Ambroise l’aveva avvolta in una fascia bianca che
gli faceva un cranio più che gonfio.
Per quanto Ofelia cercasse di essere ragionevole, si sentiva spossessata di
un pezzetto di sé.
«Non lo so» rispose.
«Vi ho già raccontato che mio padre ha cercato di esplorare il vuoto tra le
arche? Voleva fotografare il nocciolo del mondo, ma non è riuscito a
scendere fino a laggiù. Nessuno c’è mai riuscito. Forse quelli che sono
caduti non sono really morti. Forse sono tutti là sotto prigionieri dei
temporali eterni. Oppure» aggiunse Ambroise dopo aver evitato per un pelo
un dodo che attraversava la strada, «sono usciti dall’altra parte e adesso
sono agli antipodi di qui, magari su un’altra arca. Il che sarebbe in
contraddizione con il principio della memoria planetaria, quello in base al
quale tutte le arche occupano una posizione assoluta le une rispetto alle
altre, ma preferisco comunque quest’idea a... well, avete capito».
Se non altro Ambroise aveva quello in comune con Lazarus: era capace
di fare conversazione per due, o anche di più.
«Mio padre si è rimesso a viaggiare nel momento peggiore» sospirò
guardando il cielo che si stagliava tra i tetti di Babel. «Spero che stia bene.
Spesso non c’è, non sempre capisco cosa stia facendo, ma mi vuole bene»
assicurò, come temendo che Ofelia potesse avere dubbi a riguardo. «Mi ha
sempre detto che ero very important, nonostante la mia inversione».
«Siete mai stato all’osservatorio delle Deviazioni?».
«No, miss. Quando è a Babel, ogni tanto ci va mio padre a consegnare
nuovi automi. I direttori dell’osservatorio sono tra i suoi migliori clienti!
Per scherzare, mio padre dice che sarebbero più contenti di dissezionare lui,
sapete, per la faccenda del situs transversus, ma preferisce essere morto
prima di donare i suoi organi alla scienza, per quanto invertiti».
Ofelia ripensò all’immenso ritratto di Lazarus in piedi che troneggiava
nella sua anticamera. Sì, era il classico genere di cose che poteva dire lui.
«Vorrei chiedervi un’altra cosa. Qualcosa di personale».
«Of course, miss!».
«Dov’è vostra madre?».
Ambroise si voltò stupito e per poco non andò a sbattere sul risciò fermo
davanti a lui. Tutte le strade erano intasate. Era così da quando i Babeliani
avevano cominciato a scappare dalle periferie e dalle arche minori
circostanti. Si sentivano al sicuro solo in centro città. La sedia a rotelle di
Ambroise poteva intrufolarsi tra gli omnibus e i carri, ma a occupare ogni
centimetro della pubblica via c’erano anche furgoni, carretti di bagagli,
animali, veicoli meccanici e una folla di gente a piedi. Alcuni prendevano
d’assalto le vetture ferme per supplicare gli occupanti di ospitarli fino a che
non avessero trovato un alloggio.
L’aria risuonava di «Please! Please! Please!».
Ofelia rifiutava di sentirsi in colpa per il crollo, tuttavia stava male per
quelle persone. Molti portavano sulla fronte lo stesso suo timbro. Si era
quasi scorticata la pelle a forza di sfregarsi col sapone, e l’inchiostro non si
era neanche leggermente sbiadito.
Ambroise si sottrasse all’ingorgo tagliando per la giungla di un
giardinetto pubblico in cui intere famiglie avevano piantato le tende.
«Vorrei saperlo anch’io» rispose alla fine. «Non ho mai conosciuto mia
madre, e mio padre smette di essere logorroico appena si accenna a lei. Non
so neanche dirvi da che arca venga o se io le assomigli».
Il suo tono aveva perso leggerezza. Ofelia si sentì una stupida a essere
stata gelosa di lui per la sciarpa.
Ambroise si fermò davanti a un maestoso edificio di marmo sul frontone
del quale era inciso:
GIORNALE UFFICIALE
«Eccovi a destinazione, miss. Quel che è successo non è colpa vostra. Lo
sapete, vero?» aggiunse con tenerezza.
Ofelia scese dal predellino e lo guardò negli occhi.
«Sia chiaro, non sto cercando l’Altro perché mi sento in torto o perché
l’ho promesso a vostro padre».
«No, lo fate perché l’avete deciso» concluse Ambroise al posto suo.
«Questo l’ho perfectly capito».
Ofelia sorrise a lui e all’enorme turbante che aveva sulla testa. Lei voleva
fare le proprie scelte? Allora la sciarpa aveva il diritto di fare le sue.
«Prima o poi dovrò trovare il modo di sdebitarmi per i vostri servizi,
Ambroise. Avete molte qualità, ma non il senso degli affari».
Entrò, stavolta da sola, negli uffici del giornale. C’era una cacofonia
sonora in cui si mischiavano squilli di telefono, ticchettii di rotative, brusio
di voci e, su tutte quelle note acute, il contrappunto basso dei ventilatori.
«Sorry, miss, non possiamo dare informazioni».
Ofelia non aveva avuto neanche il tempo di fargli la domanda che aveva
sulle labbra. L’impiegato dell’accoglienza, con una cornetta del telefono in
una mano e un’altra incastrata tra spalla e mento, le indicò l’uscita col
gomito.
«Volevo soltanto chiedere...».
«Leggete il nostro giornale» la interruppe l’uomo spingendo verso di lei
un espositore di giornali con la punta del piede. «Contiene tutto quello che
c’è da sapere».
«...Dove posso trovare l’aspirante Octavio» concluse Ofelia.
«Eulalia?».
Un’alta pila di fascicoli si era bruscamente voltata verso di lei. Sotto la
pila scintillavano le alette d’argento dei lucidi stivali. Quando anche questi
ultimi si voltarono Ofelia incrociò gli occhi rossi di Octavio, che brillarono
come braci sotto le sopracciglia ad accento circonflesso sollevate dalla
sorpresa, poi guardarono l’impiegato che riattaccò subito entrambi i
telefoni.
«Chiedo il permesso di lasciar entrare questa persona. La conosco».
«Benissimo, milord. Sorry, milord».
«Si rivolge a te come se fossi il caporedattore» commentò Ofelia mentre
seguiva Octavio attraverso i vari settori del giornale.
Lui non rispose. Passando, lasciò fascicoli su ogni scrivania rispondendo
a fior di labbra alle eccessive manifestazioni di gratitudine dei giornalisti,
«Grazie, milord! I miei rispetti a lady Septima!», fino a che non ebbe
smaltito la pila. Poi fece entrare Ofelia in una sala stranamente calma in
confronto alle altre, sulla porta della quale era affissa la targhetta: Critico
d’arte. Una radio diffondeva un brano per pianoforte, un’esecuzione che
Ofelia avrebbe trovato eccellente se non fosse stata continuamente
disturbata dagli echi. Un’Acustica la stava ascoltando con espressione
dubbiosa e orecchie dritte come quelle di un gatto, lasciandosi ogni tanto
sfuggire qualche “oh” o “ah”.
Octavio indicò a Ofelia di sedersi a un tavolo da riunioni libero,
illuminato dalla luce spezzettata che filtrava da una tenda. Il pianoforte, gli
“ah” e gli “oh” tacquero di colpo. Il tavolo si trovava in una parentesi di
insonorizzazione. Finché fossero rimasti lì non avrebbero sentito il resto del
mondo e nessuno avrebbe sentito loro.
«Sono contento di vederti» disse Octavio senza preamboli. «Quando c’è
stata la frana nel quartiere nordovest mi sono reso conto di non sapere dove
ti fossi trasferita dopo essere andata via dalla Buona Famiglia».
Ofelia scrutò il piano lucido del tavolo su cui si riflettevano le loro facce.
Quella mattina aveva fatto la stessa cosa con Ambroise, servendosi delle
stoviglie d’argento della colazione. Era una precauzione spiacevole, ma
necessaria. Doveva mettere da parte i sentimenti e non dare mai per
scontata l’autenticità della persona che aveva di fronte basandosi soltanto
sulla faccia. Non sapeva come le sarebbero apparsi Eulalia Diyoh e l’Altro
quando sarebbe arrivato il momento, ma se l’uno era davvero il riflesso che
l’altra aveva perso, solo gli specchi potevano rivelarne l’identità e far
cadere le maschere.
Quando fu sicura che Octavio era Octavio le sue parole la commossero.
Notò che non aveva rimpiazzato la catenella d’oro che il Senza Paura E
Quasi Senza Rimprovero gli aveva strappato, e capì subito che non
l’avrebbe mai fatto. Quel gioiello era il segno manifesto della sua
discendenza da un Lord di LUX. Ofelia considerava Octavio come un suo
pari, e non solo perché avevano la stessa età ed erano alti uguali, ma non era
così per tutti coloro che lo mettevano su un piedistallo.
«Mi dispiace» gli disse in tutta sincerità. «Anche qui la gente ti vede
prima di tutto come figlio di lady Septima».
Attraverso la lunga frangetta nera che gli copriva metà del viso Octavio
fece un sorriso che non era né davvero allegro né del tutto triste.
«Per me conta solo l’opinione dei miei amici».
Svuotò un fondo di caraffa in un bicchiere che porse a Ofelia. La luce
della finestra attraversò l’acqua e tremolò sulla superficie del tavolo.
«In fact, della mia unica amica. Che posso fare per te? Se è a proposito di
quello» disse indicando il timbro sulla fronte, «i comunicati stampa
provenienti dal palazzo familiare non ne hanno ancora diffuso il significato.
Il giornale è sommerso da richieste di informazioni. Posso solo dirti che
riguarda quasi esclusivamente i Figliocci di Helena che risiedono a Babel
da meno di dieci anni».
«Sì, Elizabeth me l’ha detto».
Gli occhi di Octavio si accesero di rosso per effetto del suo potere di
famiglia.
«Ci sei rimasta un po’ male» constatò. «Lo vedo da come i muscoli del
viso ti si sono leggermente afflosciati».
Ofelia incrociò le braccia sulla pancia. Sapeva che la visione di Octavio
non era quella di un medico, ma essere scrutata in quel modo ormai la
metteva a disagio. Probabilmente il giovane lo percepì, perché distolse
pudicamente lo sguardo.
«Il fatto che lavori al Giornale ufficiale in quanto aspirante precorritore
non fa automaticamente di me un grande iniziato. Sono ancora studente per
metà, e alla Buona Famiglia ho la responsabilità di un’intera divisione. Il
mio lavoro qui consiste only nel verificare la pertinenza dei comunicati che
ci inviano i cittadini, e nove volte su dieci non sono affidabili. I Bad Boys
di Babel non ci facilitano certo il compito a forza di disinformare il
pubblico con volantini catastrofisti e voci prive di fondamento».
Toccò a Ofelia guardarlo con attenzione. Dietro la tenda della finestra il
sole era sparito, inghiottito da una marea di nuvole, e l’ombra si aggiunse a
quella che già si trovava sotto la frangetta di Octavio.
«Non sono osservatrice quanto te, ma ho imparato a conoscerti. Cos’è
che ti pesa?».
Ofelia si rese improvvisamente conto di quanto lei stessa fosse tesa. Si
sforzava di non pensarci, ma le sembrava che da un momento all’altro
potessero annunciarle che Anima era scomparsa. Aveva abbandonato la
famiglia senza una parola di spiegazioni, e sebbene ritenesse che non le
avevano lasciato scelta, dato che la madre prendeva tutte le decisioni e il
padre rifuggiva da tutte le responsabilità, rimpiangeva ogni giorno di non
aver detto loro quanto li amasse.
Octavio dette una breve occhiata all’altra parte della sala, dove la critica
d’arte, probabilmente esasperata dagli echi, dava schiaffetti alla radio senza
fare caso a loro. Ma se anche li avesse guardati, le sue acutissime orecchie
da Acustica non avrebbero potuto sentirli.
«Non lo so» finì per rispondere. «Come ti ho detto, riceviamo comunicati
in continuazione. Molti ci sono stati telegrafati da Totem, l’arca più vicina a
Babel. Lasciano intendere che anche loro hanno difficoltà, ma al momento
ci è impossibile verificare l’autenticità della fonte».
Ofelia bagnò le labbra nel bicchiere. Nonostante i ventilatori a soffitto,
l’acqua era calda come l’aria.
«Il giornale non può mandare qualcuno a vedere?».
«I voli a lunga distanza sono stati sospesi. Gli echi disturbano le
comunicazioni radio e nessuno sa spiegare perché di colpo ce ne siano così
tanti. Per i tragitti brevi non è un problema, io stesso sono venuto in
trenuccello stamattina, ma sorvolare il grande mare di nuvole senza punti di
riferimento è un altro paio di maniche».
«Ancora gli echi... Cosa sono esattamente?».
Era una domanda generica, più che rivolta specificamente a Octavio, così
Ofelia si stupì della sua risposta categorica.
«Non dovrebbero esserci, è proprio questo il problema. Tecnicamente
non sono neppure echi nel senso stretto del termine. Un eco normale, per
esempio, si ha quando la voce torna indietro dopo aver rimbalzato contro un
muro, quindi è il ritorno di un’onda verso la fonte che l’ha emessa. Questi
echi hanno un comportamento del tutto diverso. Non si sentono e non si
vedono. Gli unici a rilevarli, per giunta accidentalmente, sono i nostri
apparecchi. No» concluse Octavio serissimo, «questi echi non si muovono
sulla nostra stessa lunghezza d’onda. Non hanno niente di normale. Anzi,
sono diventati pericolosi».
“Eppure” pensò Ofelia, “secondo Lazarus erano ‘la chiave di tutto’”.
«Qui al giornale sappiamo tuttavia che stanotte è stato allestito un
convoglio di dirigibili» continuò Octavio. «Iniziativa dei Lord di LUX. A
quanto pare stanno pensando di lasciare Babel. Significa che hanno trovato
un modo di aggirare il problema degli echi ai fini del sistema di
navigazione? Aspettiamo i comunicati ufficiali per saperne di più».
Ogni volta che Octavio menzionava i Lord di LUX dalla sua voce
trapelava il pensiero della madre. Le palpebre gli calavano come due
spegnitoi sulla brace degli occhi, ma anche così sembrava capace di vedere
attraverso le membrane.
«Devo controllare l’autenticità di tutti i comunicati» ripeté. «Tutti tranne
quelli che provengono da LUX, e quindi dalla quasi totalità delle istituzioni.
La parola dei Lord non viene mai messa in discussione. La città ha smesso
di essere trasparente o è solo la mia visione delle cose a essere cambiata?».
Ofelia fu riportata alla realtà dalla suoneria dell’orologio da tavolo. A
quell’ora Thorn doveva aver già assunto le sue nuove funzioni.
«Ho un piacere da chiederti. Delicato per te e importante per me».
Inspirò profondamente cercando le parole. Octavio la considerava
un’amica, e il sentimento era reciproco. Le sarebbe piaciuto confidarsi con
lui, ma non avrebbe potuto farlo senza citare la missione dei Genealogisti e
quindi compromettere Thorn. Non poteva dirgli la verità, ma non voleva
mentirgli. Ripensò alle parole del dottore durante la visita medica, ci
pensava in continuazione, e decise di servirsene come compromesso.
«Mi è stato raccomandato di recarmi all’osservatorio delle Deviazioni in
qualità di paziente. Una volta mi hai parlato di tua sorella Seconda, hai
detto che andavi a trovarla ogni domenica. Conosci meglio di me gli
ingranaggi di quell’istituto. Che mi consigli?».
Octavio riaprì gli occhi come se Ofelia gli avesse tirato in faccia il resto
del bicchiere.
«La mia pausa è finita» annunciò in tono aspro.
Appena si furono alzati da tavola il silenzio scoppiò come una bolla. La
macchina da scrivere della giornalista produceva un rumore di percussioni
che sovrastava la voce ovattata della radio: «...una prodezza musicale come
solo-come solo Romulus può fare, che rivaleggia col tocco dei più grandi-
più grandi Tattili della città». Octavio si avviò di buon passo verso l’uscita
con le alette che gli tintinnavano a ogni passo, seguito da Ofelia che non
aveva ben capito se il colloquio fosse finito o no. Fu urtata da un giornalista
che stava andando a buttare un pacco di fotografie nella spazzatura
lamentandosi che erano tutte sbagliate e che finché non fosse stato risolto il
problema degli echi non avrebbe più potuto fare il suo lavoro. Ofelia ne
raccolse una caduta per terra e vide un’immagine così sdoppiata che non si
capiva neanche cosa raffigurasse.
«Andiamo, Hugo».
Octavio aveva dato l’ordine a uno degli automi allineati in attesa
nell’ampio atrio il quale, non avendo faccia, non aveva espressioni, ma
parve mettersi in cammino di malavoglia mentre dalla pancia gli uscì un
«NESSUNA NUOVA, BUONA NUOVA». Portava a tracolla una bisaccia che
sembrava la sacca del postino. Aveva un’antenna sulla testa e un telegrafo
incorporato nel petto.
«Hugo raccoglie i comunicati da verificare» spiegò Octavio aprendo la
porta a Ofelia. «E funziona anche da guida segnaletica pubblica per
portarmi all’indirizzo giusto. Vieni con noi, se non hai fretta».
L’aveva detto in tono secco, ma meno di quello che Ofelia aveva temuto.
Fuori era tutto bianco. L’alzarsi della marea aveva fatto dilagare una
valanga di nuvole tra le facciate di marmo. Ofelia si scambiò un cenno
d’intesa con Ambroise, la cui sedia a rotelle appena visibile era sempre
ferma davanti al portone, poi si immerse nelle nuvole al seguito di Octavio
e dell’automa. Gli occhiali le si ricoprirono subito di condensa. Non vedeva
più niente, andava a sbattere sulla gente e sulle colonnine antincendio.
Dopo qualche passo si ritrovò con la tunica imbevuta di umidità. Sentiva i
capelli arricciarsi sulla testa.
«Non ho visto crescere mia sorella».
La voce di Octavio, da qualche parte sulla sinistra, era attutita
dall’amarezza, oltre che dalla nebbia. La sua andatura nervosa faceva
tintinnare le alette.
«Non l’ho neanche vista nascere» continuò parlando a tutta velocità.
«Ero in collegio dai Cadetti di Polluce e i miei non venivano mai a
trovarmi. Per dirla tutta non sapevo neanche che mia madre fosse incinta.
Lo stesso giorno in cui mia madre mi ha annunciato che avevo una sorellina
mi ha detto pure che mio padre se n’era andato. Non le ho nemmeno chiesto
di vedere mia sorella. Non mi importava che fosse anormale, ce l’avevo con
lei per aver rotto il nostro equilibrio. Quando mia madre è tornata al
collegio per dirmi che aveva mandato Seconda all’osservatorio delle
Deviazioni ho pensato soltanto “All right, ce ne siamo liberati”».
Ofelia vedeva a stento l’uniforme blu notte di Octavio che, cancellata dal
biancore generale, procedeva spedita davanti a lei. Lo stesso Hugo aveva
difficoltà a stargli dietro e ripeteva con voce metallica «SEGUITE LA GUIDA,
PER PIACERE!». La sedia a rotelle di Ambroise li scortava a distanza con un

concerto di cigolii meccanici molto riconoscibile.


«Ci ho messo del tempo prima che mi venisse voglia di conoscerla»
riprese Octavio. «Poi sono andato a trovarla all’osservatorio all’insaputa di
mia madre. Convinto com’ero di sapere tutto, mi sono reso conto di non
conoscere niente di quella ragazza che aveva il mio stesso sangue. Ci sono
tornato più e più volte, ma per me continua a essere un enigma. Il giorno in
cui è entrata in quell’osservatorio ha smesso di fare parte del mio mondo».
All’improvviso gli occhi di Octavio puntarono Ofelia come due fari.
«Non andarci».
«Non ho intenzione di rimanerci più di...».
«Tu non capisci» la interruppe Octavio. «Entrarci è facile, uscirne molto
meno. Una volta che entri a far parte del loro programma vieni
automaticamente messa sotto curatela. Rinunci a ogni libertà di movimento
e al diritto di comunicare con l’esterno, a parte le visite che sono very
regolamentate. In poche parole appartieni a loro».
Ofelia si irrigidì. Infiltrarsi nell’osservatorio delle Deviazioni l’avrebbe
costretta a sacrificare il poco libero arbitrio che era riuscita ad acquisire nel
corso degli anni.
«Mi lamentavo della poca trasparenza della città» continuò Octavio,
implacabile, «ma è niente in confronto al torbido che regna in quel posto».
Come per smentire le sue parole una schiarita inondò di sole il ponte che
stavano attraversando. C’erano meno persone che sui grandi viali. Quella
luce inattesa tra due ondate di nuvole fece scintillare l’erba umida che
cresceva tra le pietre del selciato, ma non ebbe alcuna presa su pelle, capelli
e divisa scura di Octavio.
Ofelia non voleva creargli problemi, tuttavia non poté fare a meno di
domandargli:
«Hai mai sentito parlare del Corno dell’abbondanza?».
Preso alla sprovvista, Octavio sollevò le sopracciglia.
«Of course! È un riferimento mitologico. Il Corno dell’abbondanza
assume forme diverse da un’arca all’altra, può essere un piatto, una coppa o
un catino, ma il principio non cambia: dà ricchezza a chi lo possiede. Che
c’entra con l’osservatorio?».
«Hai detto che è diverso da un’arca all’altra. Mi piacerebbe sapere come
è raffigurato qui a Babel».
Octavio si bloccò in mezzo al ponte così di colpo che Hugo gli finì
addosso dichiarando «UN AMICO È UNA STRADA, UN NEMICO È UN MURO».
Attraverso gli occhiali Ofelia vide che la fissava. Sapeva che Octavio si
serviva del proprio potere per decifrare i suoi battiti di ciglia, la stabilità
delle sue iridi e la dilatazione delle sue pupille.
«Da noi il Corno dell’abbondanza è strettamente legato a tutto ciò che è
proibito. Secondo una versione della leggenda risalente a prima della
Lacerazione uomini e donne lo bramavano talmente che... che si
danneggiavano a vicenda».
A Babel nessun termine appartenente al lessico della violenza poteva
essere pronunciato in pubblico. Perfino la parola “delitto” era un delitto.
«Il Corno dell’abbondanza li ha giudicati indegni ed è andato a
seppellirsi dove nessuno potrà trovarlo» concluse Octavio. «Attende il
momento in cui l’umanità si mostrerà finalmente all’altezza dei suoi
benefici. L’ultima volta che mi hai fatto domande così strane per poco non è
finita male. C’è qualcosa che devo sapere?».
La sua bocca esigeva la verità, i suoi occhi avevano paura.
«No» rispose Ofelia.
Non aveva idea di dove si stesse accingendo a mettere piede, ma non
voleva trascinarci Octavio un’altra volta.
Nel frattempo continuava a non capire cosa c’entrasse il Corno
dell’abbondanza con quella storia. Tuttavia se Eulalia Diyoh aveva lavorato
su un progetto che aveva quel nome, se l’Altro vi era in qualche modo
collegato e se proprio in quel momento l’osservatorio delle Deviazioni
stava conducendo gli stessi esperimenti, Ofelia doveva andarci al più
presto, e pazienza se ciò avrebbe significato diventarne temporaneamente
prigioniera.
«Fin dal primo giorno ho sentito che c’era in te qualcosa di inquietante»
disse Octavio strizzando le palpebre, «e alla fine ho capito cos’è.
Qualunque sia il tuo obiettivo sei sempre determinata a raggiungerlo. Ti
invidio. Io mi sono talmente calato nella via tracciata da mia madre da aver
dimenticato cosa desidero davvero. Now, se permetti, avrei un lavoretto da
fare».
Hugo si era fermato di fronte all’entrata di un mulino a vento dall’altra
parte del ponte e batteva con impazienza il piede per terra. Se gli automi
fossero stati capaci di sviluppare una personalità, Ofelia avrebbe trovato che
quello aveva un brutto carattere. Fece un altro cenno ad Ambroise sulla
sedia a rotelle, che sembrava incerto tra l’avvicinarsi o il rimanere a
distanza. Neanche lei sapeva bene cosa dovesse fare. Octavio bussò a una
porta con aria professionale senza più fare caso a Ofelia.
«Buongiorno, milady» disse quando una vecchia mugnaia si presentò alla
porta. «Vengo per questo».
Octavio le mostrò il telegramma che Hugo gli aveva porto con un
grugnito metallico.
«No, grazie» declinò la mugnaia richiudendo la porta.
Octavio scoccò uno sguardo incandescente a Ofelia sfidandola a mettersi
a ridere, poi ricominciò a bussare finché la vecchia signora non gli aprì di
nuovo.
«Devo insistere, milady. Sono un rappresentante del Giornale ufficiale.
Ci avete mandato questo dispaccio ieri».
La mugnaia aggrottò le sopracciglia suscitando lo scompiglio tra le
rughe. Si mise sul naso grossi occhiali a pince-nez e guardò il telegramma.
«Sorry. Vi avevo scambiato per uno di quei Bad Boys, come si
autodefiniscono. Stamattina sono già venuti due volte con i loro volantini.
Guardatemi, giovanotto: vi sembra che alla mia età potrei festeggiare la fine
del mondo?».
«Avete dichiarato di essere stata testimone della frana» disse Octavio,
imperturbabile. «Vorrei qualche precisazione».
«Non è stata una frana».
La mugnaia l’aveva detto con tale sicurezza che Ofelia ne fu colpita.
Notò anche la lunghezza impressionante della lingua, che indicava la sua
appartenenza al ramo genealogico dei Gustativi. Octavio, da parte sua, si
concentrò sulle microscopiche sfumature dell’espressione per analizzare la
sua sincerità.
«Il vostro dispaccio non riguardava la frana che si è portata via il
quartiere nordovest della città?».
«Sì, giovanotto, sì. Ero al mercato delle spezie quando è successo, stavo
comprando il pane al curry. E pioveva forte. Ma non è stata una frana».
«E cos’è stato secondo voi?».
«Ah, questo non lo so proprio. Dovrebbe essere il vostro lavoro
spiegarmelo, no?».
«Mi faciliterebbe il compito se mi fornisse qualche particolare, milady».
«Che volete che vi dica? Prima c’era la terra e l’attimo dopo non c’era
più. Ho sentito solo una leggera vibrazione. Non ha scricchiolato poco a
poco prima di cedere, è stato più come... come se una bocca invisibile
avesse inghiottito tutto in un boccone» disse la mugnaia imitando due
mascelle che si chiudono. «Anyway, non era niente di naturale».
Octavio sembrò scettico. Ofelia invece rabbrividì in tutto il corpo
nonostante il caldo. Una bocca invisibile. La bocca dell’Altro? Un riflesso
poteva possedere una bocca del genere?
«Avete notato qualcosa o qualcuno?» non poté fare a meno di chiedere.
«Qualunque cosa che vi sia sembrata insolita?».
«Niente» affermò la mugnaia. «Tutto era esattamente come al solito. Non
mi credete perché porto questi?» protestò indicandosi i pince-nez. «Forse
non sarò una Visionaria, ma ho visto quel che vi ho detto come adesso vedo
la luce sulla vostra fronte, here».
Puntò il dito su Ofelia che sbatté le ciglia senza capire. Anche le pupille
di Octavio si contrassero appena la guardò affascinato.
«Eulalia, il timbro... ti è diventato bianco».
GLI ELETTI

Ofelia si guardò la fronte nel vetro della finestra più vicina. Non solo
l’inchiostro alchimista era passato dal nero al bianco, ma splendeva come
una luna piena. Anche se ci metteva la mano sopra, la luce filtrava fra le
dita inguantate.
«Che razza di...».
Le sue parole furono sovrastate da una voce squillante.
«Avviso alla popolazione! Informiamo i concittadini che i residenti
stranieri-stranieri col marchio di colore bianco sono invitati a presentarsi
seduta stante-stante nell’anfiteatro municipale. Avviso alla popolazione!».
Mentre l’annuncio e i suoi echi risuonavano nelle vie del quartiere Ofelia
rivolse gli occhiali in tutte le direzioni. La gente usciva dalle case e dai
veicoli fermi per radunarsi intorno ai pali degli altoparlanti. Tra la folla di
curiosi che formavano una massa confusa nella marea di nuvole vide un
uomo agitatissimo con la fronte luminescente come la sua.
Octavio la trascinò in disparte per farsi sentire malgrado il frastuono
degli altoparlanti.
«Non ti preoccupare, è una procedura normale».
«Non voglio andarci».
«Devi. La disubbidienza civile ti renderebbe automaticamente fuorilegge.
Sono really sicuro che non sia niente di grave. Fino a poco tempo fa eri
ancora apprendista virtuosa. Vengo con te».
Octavio si riportò indietro la cortina nera di capelli per guardare in faccia
Ofelia. Si chiese perché gli occhi le fossero diventati viola, poi realizzò che
erano i suoi occhiali ad aver assunto una tinta bluastra. Nell’intento di
mostrarsi rassicurante si era completamente scordato la mugnaia sulla
soglia del mulino, che stava chiedendo se poteva tornare a lavorare.
Neanche fece caso a Hugo, il cui telegrafo di petto sputava fuori una sfilza
ininterrotta di comunicati da quando era stato diramato il primo annuncio
pubblico.
Ofelia cercò Ambroise con gli occhi senza riuscire a localizzarlo in
mezzo alla confusione. In compenso non le sfuggì nessuna delle pattuglie
appostate in ogni strada, che appena videro la sua fronte le ordinarono di
ubbidire alla convocazione. Erano perfino stati assunti alcuni Zefiri per
disperdere con grandi ventate la nebbia che ristagnava negli angoli in cui
avrebbero potuto nascondersi eventuali recalcitranti.
Octavio aveva un bel dire, ma Ofelia non era affatto tranquilla. Aveva
promesso a Thorn che avrebbe trovato il modo di raggiungerlo
all’osservatorio delle Deviazioni e non aveva tempo da perdere con ulteriori
formalità amministrative. Se sulla sua strada avesse trovato uno specchio ci
si sarebbe infilata senza esitare.
Dopo un po’ al di sopra dei tetti più alti scorse l’immensa struttura
dell’anfiteatro municipale. Le centinaia di arcate del portico erano una
sapiente miscela di pietra, metallo, vetro e vegetazione. Gli uccelli
variopinti che vi si rifugiavano facevano venire in mente uno sciame di api.
Mentre gli annunci radiofonici continuavano a vibrare nell’aria i convocati
affluivano dai quattro angoli della città per infilarsi negli ingressi
dell’anfiteatro. Ofelia fu impressionata dalla quantità di gente. C’erano
residenti stranieri di quasi tutte le arche con addosso gli abiti tradizionali
imposti dal codice d’abbigliamento: pepli, nastri, boleri, penne, veli, tartan,
farsetti, kimono... Per quanto diversi, ognuno di loro aveva lo stesso timbro
e condivideva le stesse preoccupazioni.
Il malessere di Ofelia raggiunse il culmine quando toccò a lei varcare le
porte. Le guardie familiari, dotate di un naso che conferiva loro
un’autentica faccia da leone, la annusarono dalla testa ai piedi. Perché alle
entrate erano stati dislocati degli Olfattivi?
«Prendono le loro precauzioni» commentò Octavio.
Ofelia notò comunque che aveva aggrottato le sopracciglia circonflesse.
Octavio si presentò come rappresentante del Giornale ufficiale e fu accolto
con saluti protocollari generalmente riservati ai Lord di LUX. Perfino
l’automa venne trattato con più riguardi di Ofelia, che fu costretta a
rivoltarsi le tasche della tunica per mostrarne il contenuto.
Poi salirono labirintiche scale buie in cui le fronti dei convocati
brillavano come un corteo di lanterne. Anche se Ambroise li avesse seguiti
fin lì la sedia a rotelle non avrebbe potuto affrontare tutti quegli scalini.
Ofelia strizzò gli occhi quando, dopo un’ultima scala, sbucò al sole. Le
gradinate erano a cielo aperto. Dall’interno l’anfiteatro sembrava ancora più
imponente e in grado di accogliere molte più persone di quelle che erano
state convocate, che non erano certo poche.
«Prendete posto con calma, ladies and gentlemen!» ordinavano gli
altoparlanti a intervalli regolari.
Ofelia non aveva nessuna voglia di ubbidire. Aveva appena notato i
dirigibili ormeggiati nello spiazzo centrale come balene addormentate. Si
trattava di modelli che esistevano solo a Babel, un misto di innovazioni
tecnologiche e abilità interfamiliari. Sugli scafi l’emblema a forma di sole
di LUX brillava come oro.
«Velivoli per le lunghe distanze» mormorò Octavio. «Why here? Non
capisco più niente».
«Miss Eulalia?».
Ofelia schermò il sole con la mano. Si era appena seduta sulla pietra
bollente di un gradone che una sagoma in controluce si era fermata davanti
a lei. Aveva occhi neri e umidi, un lungo naso a punta, capelli irsuti e la
targhetta Commesso che brillava sulla divisa da memorialista.
«Blasius!».
«Mi sembrava di aver riconosciuto il vostro odore, infatti».
Di tutti gli Olfattivi che aveva conosciuto fino a quel momento Blasius
era certamente l’unico da cui non le dava fastidio essere fiutata.
«Che ci fate qui?» domandò l’Animista cercando invano il timbro sulla
sua fronte. «Siete un Figlio di Polluce, voi. Non ditemi che vi hanno
convocato!».
Il sorriso di Blasius si fece ancora più timido.
«In fact, sono qui per accompagnare... ehm... il mio amico».
Se già si era stupita di incontrare Blasius in quell’anfiteatro, Ofelia fu del
tutto sbalordita riconoscendo il professor Wolf nell’uomo dietro di lui:
vestito di nero, con guanti neri, occhiali neri e barbetta nera, portava il
cappello altrettanto nero inclinato in modo da attenuare il bagliore del
timbro. Era l’unico Animista che conoscesse a Babel ma, a differenza di lei,
ci era nato. Gli occhiali gli scivolarono lungo il naso per permettergli di
squadrare bene lei e Octavio.
«Ecco» borbottò. «E io che speravo di non avere più a che fare con voi».
L’affermazione non gli impedì tuttavia di sedersi alla sinistra di Hugo, la
cui pancia emise un «AMA IL TUO VICINO, MA MANTIENI LA RECINZIONE». La
rigidità di Wolf, accentuata dal collare ortopedico di legno, rivaleggiava con
quella dell’automa.
«Professore, la vostra convocazione dev’essere un errore» disse Octavio.
«Pur non essendo un discendente di Polluce siete nato a Babel. Stando alle
informazioni che abbiamo al Giornale ufficiale le misure riguardano solo i
cittadini arrivati qui di recente».
«Hanno perquisito casa mia e hanno trovato la mia collezione di arm...».
«Di oggetti vietati» lo corresse Blasius, accanto a lui, guardando
angosciato verso i gradoni vicini.
Il professor Wolf si sollevò ironicamente il cappello per accecarlo con la
propria fronte.
«Cos’è, hai paura che mi denuncino ancora? Ti ricordo che ha già
provveduto la mia padrona di casa. Non so cosa stia succedendo qui, ma
sento puzza di guai».
Mentre così mugugnava un escremento di uccello colpì in pieno il suo
timbro luminoso. Convinto di essere il responsabile di quell’ennesima
manifestazione di sfortuna Blasius si profuse in scuse e lo aiutò a ripulirsi
mandandogli fuori posto gli occhiali con una gomitata involontaria. Quando
Wolf si rimise il cappello con un sospiro Ofelia notò che la sua espressione
aveva perso durezza.
L’ultima volta che l’aveva visto si nascondeva sui tetti del quartiere dei
senza-poteri. All’epoca si difendeva da ciò che gli faceva più paura al
mondo e, Ofelia lo capiva in quel momento, non si trattava soltanto del
vecchio spazzino del Memoriale che era andato a spaventarlo a casa sua. In
mezzo a quella folla che continuava a crescere sembrava impegnato a
combattere contro un acuto attacco di misantropia che solo la presenza di
Blasius riusciva ad attutire.
Ofelia si sorprese a invidiarli. Aveva anche lei un brutto presentimento su
ciò che li attendeva, ma qualsiasi cosa fosse avrebbe dovuto affrontarla
senza Thorn. Forse Thorn non era neanche al corrente di quella
convocazione pubblica dall’altra parte di Babel.
«Attenzione, please».
La voce amplificata dagli altoparlanti dell’anfiteatro risuonò
sgradevolmente familiare alle orecchie di Ofelia. Octavio contrasse le mani
sulle ginocchia. Sui gradoni, i mormorii ansiosi cessarono. Sugli scafi dei
dirigibili sospesi sopra l’arena era proiettata in grande una faccia di donna
con due occhi penetranti che sembravano sondare tutte le anime.
Lady Septima.
Madre di Octavio, Visionaria superdotata e membro influente di LUX, per
Ofelia era stata soprattutto un’insegnante temibile che aveva sfruttato il suo
talento di lettrice pur sminuendolo in continuazione.
«Grazie a tutti voi per aver risposto alla convocazione» disse con voce
potente. «E grazie anche a sir Polluce e lady Helena qui presenti-presenti
per la fiducia che accordano a noi Lord di LUX, umili servitori della città».
Tutti gli sguardi ruotarono nella stessa direzione. Gli spiriti di famiglia
gemelli troneggiavano su un’alta tribuna riparata da un tendaggio color
porpora. Erano troppo lontani perché Ofelia potesse vederli bene, ma
distingueva i riflessi emessi dalle molte lenti del sistema ottico di Helena.
Avrebbe giurato che anche loro non avevano avuto altra scelta che andare lì.
«Come sapete» continuò la bocca di lady Septima ingigantita su ogni
scafo di dirigibile, «Babel sta attraversando una situazione di crisi. La
recente frana nel quartiere nordovest della città e la scomparsa di sei arche
minori hanno sconvolto-sconvolto tutti. Niente fa pensare che una tale
catastrofe possa ripetersi, ciò nondimeno resta una terribile tragedia e la
periferia della città verrà provvisoriamente considerata zona non abitabile.
Vi invito a osservare un minuto di silenzio-silenzio in memoria di quelli che
ci hanno lasciato e di quelli che hanno dovuto abbandonare le loro case».
Più che pensare agli altri, durante il minuto di silenzio ogni convocato fu
certamente più preoccupato per la propria sorte. Ofelia ne approfittò per
dare un’occhiata discreta alle scale da cui erano arrivati. Erano chiuse da
una saracinesca di sicurezza. Vide che erano stati bloccati anche tutti gli
altri accessi ai gradoni.
Se qualcuno voleva fare dietrofront era troppo tardi.
«Oggi la città ha bisogno di voi» riprese lady Septima con espressione
solenne. «I nostri concittadini devono ritrovare una stabilità. Il segno che
portate sulla fronte fa di voi degli eletti. Siete stati designati voi tra tanti
altri-altri per la vostra grande capacità di autonomia».
Sempre più tesa, Ofelia si strofinò la fronte che proiettava un alone
luminoso sulle lenti degli occhiali. Notò che, come lei stessa e Wolf, molti
convocati erano accompagnati da persone senza timbro.
«Indeed, nessuno di voi è attualmente trattenuto da un impegno verso la
città, sia esso di natura professionale, coniugale o parentale» spiegò lady
Septima scandendo ogni sillaba. «Per lungo tempo Babel vi ha accolto, ma
ora non ha più lo spazio per ospitarvi. Quindi siete tutti invitati a lasciare la
nostra arca a partire da oggi-oggi. I vostri beni e le vostre proprietà sono già
stati confiscati dalla città e saranno equamente redistribuiti tra i nostri
concittadini. Siamo sicuri che sarete accolti a braccia aperte sulle vostre
arche d’origine. Le vostre famiglie faranno in modo che non vi manchi
niente, una volta giunti sul posto. Grazie a ognuno di voi per agire
nell’interesse generale. Vogliate adesso-adesso raggiungere gli aeromobili
seguendo le istruzioni che vi saranno comunicate. Appena a bordo i vostri
timbri si cancelleranno. In nome di tutti i Lord di LUX, di lady Helena e di
sir Polluce, andate in pace!».
La faccia di lady Septima scomparve dai dirigibili. La fine del discorso fu
seguita da un silenzio così assoluto che sembrava quasi di sentire la pelle
dei presenti scaldarsi al sole. Quando cominciarono le prime proteste gli
altoparlanti emisero un fischio stridente che costrinse tutti a tapparsi le
orecchie.
«Ladies and gentlemen, siete pregati di avviarvi con calma. Prima le file
in basso. Le persone che accompagnano i viaggiatori-viaggiatori sono
pregate di rimanere al loro posto fino all’evacuazione completa
dell’anfiteatro».
All’annuncio seguì una musica d’ambiente ad altissimo volume, falsata
dagli echi, che soffocò tutte le voci. Nessuno riusciva più a parlare con
nessun altro. La guardia di famiglia circolò tra i primi gradoni per invitare
gli uomini e le donne che vi erano seduti a dirigersi verso il convoglio degli
aeromobili. Ogni fila venne metodicamente formata, suddivisa e
reindirizzata. Alcuni cercarono di manifestare il proprio sgomento.
Scuotevano la testa, si battevano il petto, indicavano il cielo al di là della
cinta dell’anfiteatro e sembravano gridare con tutti se stessi “casa!”,
“amici!”, “lavoro!”, ma le guardie, nelle loro armature rutilanti, erano
inflessibili. Altri cercarono di sollevare le saracinesche delle uscite o di
farsi passare per accompagnatori annodandosi un fazzoletto sulla fronte, ma
furono spediti nello spiazzo dei dirigibili ancora prima degli altri. Da
incerto, il movimento della folla si fece rassegnato. L’organizzazione era
talmente efficiente che poco dopo un primo dirigibile già pieno si alzò in
volo con un gran rumore di eliche.
Seduta sui gradoni più alti, Ofelia aveva osservato la scena ragionando a
tutta velocità.
Si voltò verso Octavio, alterato in volto, poi verso Blasius, che aveva la
bocca contratta in una smorfia torturata a metà tra l’incredulità e il senso di
colpa, infine verso il professor Wolf, che sotto la facciata stoica era
impallidito al punto che l’inchiostro bianco del timbro si confondeva con la
pelle.
«No!» disse a tutti e tre.
Non aveva bisogno di farsi sentire, il suo viso parlava per lei. No, non
avrebbe ubbidito. Già una volta l’avevano rimpatriata di forza su Anima:
non ce ne sarebbe stata un’altra. Il suo posto era accanto a Thorn
all’osservatorio delle Deviazioni, nel luogo in cui si trovavano le risposte.
La guardia di famiglia stava già cominciando a formare le colonne in
quella parte dell’anfiteatro. Ofelia partì controcorrente, sgattaiolò tra i
convocati, si infilò in ogni spiraglio in cui la sua piccola corporatura le
permetteva di infilarsi. Non sarebbe passata a lungo inosservata, e
comunque se qualcuno l’avesse chiamata non l’avrebbe sentito: gli ordini
ripetuti e gli stacchi musicali diffusi dagli altoparlanti inghiottivano ogni
suono.
Ofelia avanzò gradone dopo gradone puntando gli occhi sul grande
tendaggio porpora che il vento gonfiava come una vela. Non riusciva a
vedere se Helena e Polluce fossero ancora sulla tribuna, ma erano gli unici
in grado di mettere fine a quelle espulsioni.
Si accingeva a raggiungere l’obiettivo quando qualcosa la bloccò. Un
guanto d’acciaio le aveva afferrato il braccio. Era una guardia, che con un
cenno del mento le ingiunse in silenzio di unirsi alla colonna più vicina.
Non era armato – la sola parola era già un delitto – ma aveva una presa
solida. Ofelia lo guardò negli occhi e fu sorpresa di leggervi sofferenza. Le
orecchie dell’Acustico erano abbassate come quelle di un animale per
proteggersi dalla cacofonia degli altoparlanti, tuttavia il suo dolore
sembrava avere altre origini, come se stesse male perché doveva ubbidire
agli ordini. Allora Ofelia, come ricevendo un cazzotto improvviso, si rese
conto che i Lord di LUX stavano mettendo gli espulsi in pericolo facendoli
salire a bordo dei dirigibili.
Irrigidì ogni muscolo del viso per farsi capire dalla guardia con la mimica
facciale.
«No».
Un sandalo dopo l’altro, avanzò verso la tribuna tirando con tutte le sue
forze il braccio imprigionato nell’acciaio. La violenza era vietata su Babel,
e la cosa valeva anche per la guardia. Se non avesse mollato la presa,
l’uomo sarebbe stato costretto a slogarle la spalla.
Cedette.
Ofelia si lanciò sulla tribuna. Davanti a lei gli spiriti di famiglia, massicci
come i pilastri che sostenevano il tendaggio, assistevano passivamente
all’evacuazione.
«Impedite gli imbarchi!».
Aveva attinto dai polmoni tutta l’aria che le rimaneva per gridare quelle
parole, ciò nonostante non riuscì a distinguere la propria voce da quella
degli altoparlanti.
Polluce distolse lo sguardo dall’arena. L’aveva sentita. Sensi
ipersviluppati, postura plastica da statua e benevolenza paterna: avrebbe
potuto avere il carisma di un re, ma gli occhi dorati che posò su Ofelia
esprimevano solo impotenza. Era incapace della minima iniziativa.
Lei lo ignorò per rivolgersi a Helena e soltanto a Helena.
«Impedite gli imbarchi!» ripeté scandendo ogni sillaba. «Gli echi sono
pericolosi. Disturbano gli strumenti di navigazione».
Con lentezza meccanica Helena girò le rotelle della crinolina fino a
trovarsi di fronte a lei. L’apparecchio ottico fissato al suo naso elefantiaco si
azionò per sollevare lenti e abbassarne altre in modo da metterla in
condizione di vedere Ofelia con dei contorni definiti. La gigantessa non
aveva un gran bell’aspetto: il vitino di vespa tra la mole dei fianchi e quella
del seno era così stretto che sembrava sul punto di spezzarsi in due da un
momento all’altro.
L’unico punto in comune che avevano gli spiriti di famiglia gemelli era il
volume che entrambi portavano appeso alla cintura: due Libri con le pagine
scure come la loro pelle.
Visibilmente combattuta tra quello che doveva o non doveva fare, la
guardia che aveva seguito Ofelia sulla tribuna cercò di mettersi tra lei e lo
spirito di famiglia, ma con gesto aracneo Helena le fece segno di lasciarla in
pace. Aveva capito la gravità della situazione? Il suo udito ipersensibile, che
una porta sbattuta o un naso soffiato male era sufficiente a disturbare, lì era
assalito da tutte le parti.
Ofelia indicò il secondo dirigibile che aveva cominciato le operazioni di
decollo.
«Davvero siete d’accordo con tutto questo? Fate sentire la vostra voce,
siete la nostra madrina. Io stessa sono stata una delle vostre allieve».
L’immensa bocca di Helena articolò una risposta che Ofelia non sentì, ma
dalla piega interrogativa delle labbra capì che era più che altro una
domanda. Helena non si ricordava di lei. Come tutti gli spiriti di famiglia al
cui Libro Eulalia Diyoh aveva strappato una pagina, era condannata a
dimenticare continuamente. Perché avrebbe dovuto fidarsi di una
sconosciuta più che dei Lord di LUX?
Ofelia aprì il foglietto che aveva conservato preziosamente tra i
documenti falsi.
Passate a trovarmi, voi e le vostre mani, quando ne avete l’occasione.
«Vi siete già fidata di me una volta».
Si mise sulla punta dei piedi e consegnò il foglietto a Helena, il cui
apparecchio ottico si azionò subito per permetterle di leggerlo. Se non altro
avrebbe riconosciuto la propria scrittura. Data la sovrapposizione di lenti
era impossibile vedere il suo sguardo, ma Ofelia capì di avere ormai tutta la
sua attenzione.
«Aiutateci».
Le lunghe falangi di Helena si chiusero intorno ai suoi polsi come
granchi. Il foglietto si lacerò.
«Gli echi non sono pericolosi, giovine dama».
Ofelia sentì la voce vibrarle contro le guance, diffondersi sulla pelle e
raggiungerle i timpani fino a far sloggiare tutto il resto. Non c’erano più né
altoparlanti né anfiteatro.
«Gli echi parlano a chi sa ascoltarli. Voi tutti, compreso mio fratello, siete
sordi e ciechi».
La bocca di Helena era un abisso irto di denti, così vicini che Ofelia
avrebbe potuto contarli se non fossero stati così tanti.
«Gli echi sono dappertutto, ormai. Sono nell’aria che respiri».
Helena liberò finalmente i polsi di Ofelia, su cui le sue unghie avevano
lasciato un’impronta. Con attenzione si tolse l’apparecchio ottico di cui non
si disfaceva mai e senza il quale vedeva il mondo come una galassia di
atomi. Le sue pupille, dilatate all’estremo, occupavano tutto lo spazio degli
occhi. Erano come la bocca: due pozzi che inghiottivano la luce. Che
inghiottivano Ofelia.
«Sono dappertutto, giovine dama, e intorno a te più che altrove. Attiri gli
echi come mosche, si aspettano da te l’imprevisto».
Ofelia era sbalordita.
«Ma i dirigibi...».
«Taci e ascolta».
Le enormi pupille guardavano, sentivano e palpavano cose che erano
fuori dalla portata di Ofelia.
«Dovrai andare oltre la gabbia e rivoltarti. Rivoltarti davvero. Solo una
volta là capirai. Forse potrai anche renderti utile. Dici che ho dato fiducia a
te e alle tue mani, ma quando il tempo sarà finito avrai abbastanza dita?».
L’unica cosa che aveva capito Ofelia in quell’intrico di parole era che
Helena non avrebbe fermato le espulsioni. Era come un ricevitore radio
sintonizzato su una frequenza diversa dalla sua. La frequenza degli echi,
forse? Nell’istante in cui tacque, la barriera sensoriale che il suo potere
aveva eretto intorno a sé si spezzò.
Ofelia fu sommersa dai rumori, e non si trattava soltanto degli
altoparlanti. Ciò che stava succedendo intorno alla tribuna le fece temere di
aver peggiorato la situazione.
LA FABBRICA

Trattenuti con difficoltà dalle guardie, uomini e donne si accalcavano


tendendo braccia imploranti verso gli spiriti di famiglia. Puntavano il dito
su Ofelia per indicare che anche loro volevano avere il diritto di perorare la
propria causa. L’ombra del tendaggio metteva in risalto l’inchiostro
luminoso che avevano sulla fronte. Le suppliche erano così disperate o
indignate che si udivano nonostante le sirene.
Tutti dicevano la stessa cosa.
«Dateci un lavoro!».
Con l’apparecchio ottico in mano Helena li guardava senza vederli, li
ascoltava senza sentirli. Quanto a Polluce, rivolse loro un sorriso esitante.
Anziché diminuire, le grida si fecero più forti.
Mai Ofelia aveva assistito a una tale agitazione in uno spazio pubblico di
Babel. Quelle persone che i Lord di LUX volevano rispedire alle loro
famiglie d’origine avevano cominciato a costruirsi una nuova vita su
quell’arca. Quanti di loro avrebbero avuto le proprie case abitate da altri?
Quanti venivano buttati fuori senza avere un posto in cui andare? E con
l’occasione, di quanti importuni come il professor Wolf si stava
sbarazzando Babel? Oppressa dal loro sgomento, Ofelia non osava
immaginare cosa avrebbero provato tutti venendo a sapere che forse quel
viaggio di andata senza ritorno non sarebbe mai giunto a destinazione.
In quel momento in mezzo alle facce vide l’unico che non ne aveva una.
L’automa Hugo stava fendendo la folla per aprirsi un varco fino alla tribuna
disseminando nastri telegrafici al suo passaggio. Octavio si era arrampicato
sulle sue spalle. Ofelia capì il perché quando lo vide disattivare
l’altoparlante del palo più vicino mettendo a tacere la sirena. Incoraggiati
dall’iniziativa, altri lo imitarono sui vari gradoni.
«Sono un Figlio di Polluce».
Inerpicato sull’automa, Octavio non ebbe bisogno di alzare la voce. La
sua dichiarazione catturò l’attenzione di quelli che avevano preso d’assalto
la tribuna. Non era alto, ma possedeva un carisma che non era dovuto
soltanto alla sua divisa da virtuoso. La stessa Ofelia pendeva dalle sue
labbra.
«In fact, sono il figlio di lady Septima, il futuro successore di quelli che
vogliono mandarvi via da Babel. Eppure» continuò con voce implacabile
mentre già si levavano le prime proteste, «condivido la vostra contrarietà. Il
modo in cui siete stati trattati oggi è inqualificabile. In quanto
rappresentante del Giornale ufficiale lo farò sapere all’intera arca. Vi
scongiuro di mantenere la calma. Possiamo trovare una soluzione a
condizione di cercarla insieme, con lady Helena e sir Polluce».
Seguirono alcuni secondi di silenzio durante i quali Ofelia, soggiogata
dagli occhi rossi di Octavio, fu convinta che tutto sarebbe rientrato
nell’ordine.
Ma né Helena né Polluce reagirono, una chiusa nei suoi echi, l’altro
prigioniero dell’indecisione.
«Io ho una soluzione, milord!» esclamò qualcuno. «Fammi lavorare al
posto del tuo automa!».
«Un lavoro vero per persone vere!» aggiunse un altro.
La folla cominciò a spintonare Hugo scandendo a una sola voce «Ladro
di lavoro! Ladro di lavoro!» senza più dare ascolto a Octavio, che si
aggrappò all’antenna telegrafica dell’automa per mantenere l’equilibrio.
Quando la pancia di metallo grugnì «L’OZIO È IL PADRE DEI VIZI» la collera
collettiva divenne rabbia, urla, botte. Una violenza repressa da anni si
scatenò contro l’automa. Intrappolato sulle spalle di Hugo, Octavio dovette
difendersi da quelli che gli afferravano gli stivali per togliergli le alette da
precorritore.
Cadde.
Mentre Ofelia si infilava nella calca per tendergli una mano in un ridicolo
gesto di soccorso, uno scoppio fece sussultare tutti quanti. Un fumo spesso
dall’odore penetrante si liberò come un gas vulcanico. Quelli che avevano
cercato di smantellare Hugo sgranarono occhi stupefatti in cui il bianco si
stagliava sulla pelle annerita.
Un mucchietto di polvere era ciò che restava dell’automa. Era esploso?
Da principio ci fu stupore, poi panico. Il disordine nell’anfiteatro divenne
anarchia. La gente gridava all’omicidio, gridava all’attentato, e pazienza se
erano parole proibite. Nonostante fossero due giganti, Helena e Polluce
furono sopraffatti da quel traboccare di umani. La guardia di famiglia non
controllava più niente.
Dagli ultimi altoparlanti che non erano stati disattivati risuonò la voce
autoritaria di lady Septima.
«I convocati che lasceranno l’anfiteatro non in dirigibile saranno
considerati fuorilegge. Ripeto-ripeto: i convocati che lasceranno l’edificio
dell’anfiteatro non in dirigibile saranno considerati fuorilegge».
Nessuno la ascoltava più. Il vero pericolo ormai era la folla. In mezzo
alla ressa Ofelia vide una forma raggomitolata per terra e ricoperta dalla
polvere di Hugo.
«Octavio!».
Si prese un bel po’ di gomitate prima di riuscire a raggiungerlo. Lo
stavano calpestando.
Lo chiamò di nuovo, provò a farlo rialzare, fu rovesciata a sua volta,
cadde su di lui e si raggomitolò per proteggersi dalle ginocchia che la
urtavano da ogni parte. Stavano rischiando di finire con le ossa in frantumi.
Avevano bisogno d’aiuto.
Ofelia fece appello a un potere annidato in lei come una bestia selvaggia,
che al suo richiamo si risvegliò: gli artigli dei Draghi. Mai aveva avuto una
consapevolezza così chiara della loro esistenza, della loro portata, dei loro
impulsi, del modo in cui prolungavano i suoi nervi per adottare la forma e
l’intensità da lei volute. Si stupì talmente di padroneggiare i suoi artigli tre
anni dopo averli ricevuti che per un attimo si scordò della folla. Mossa da
un istinto primario sentì la coscienza estendersi oltre i limiti corporei, si
collegò a un reticolo di diramazioni nervose che non le appartenevano. Gli
artigli le permisero di distinguere la moltitudine di gambe agitate con un
acume superiore a quello degli altri sensi.
Non voleva ferire.
Servendosi del suo potere allontanò tutto ciò che non era lei o Octavio,
provocando intorno a loro una valanga di corpi e di imprecazioni.
Quella tregua dette loro il tempo di rimettersi in piedi prima della
prossima ondata. Sotto lo strato di fuliggine che lo ricopriva, Octavio
sembrava indenne. O quasi. Sbatté gli occhi che avevano smesso
completamente di brillare e bisbigliò tre parole.
«Non vedo niente».
Ofelia gli prese la mano. Octavio era entrato in quell’anfiteatro per lei: lei
ne sarebbe uscita con lui. Lo trascinò verso una delle saracinesche che
impedivano l’accesso alle scale, sulla quale si riversavano i corpi
spingendosi l’un l’altro. In tanti si impegnarono a cercare di far risalire la
griglia metallica. Ofelia ricorse all’animismo per contaminarla con la
propria determinazione, ma la saracinesca fu inamovibile. In quel caso gli
artigli non le erano di nessuna utilità, perché avevano presa solo sugli esseri
viventi.
«Là!» disse qualcuno.
Dall’altra parte della saracinesca c’era la manovella per azionare gli
ingranaggi di sollevamento, fuori portata delle molte braccia che si
tendevano attraverso le grate. Una Fantasma di Vesperal riuscì ad allungare
il suo trasformandolo parzialmente in gas. Afferrare la manovella e girarla
le richiese una fatica notevole, ma i suoi sforzi uniti a quelli della gente che
spingeva la saracinesca verso l’alto riuscirono finalmente a liberare
l’accesso.
Una fiumana si precipitò per le scale.
Trascinata dallo slancio generale, Ofelia scese precipitosamente gli
scalini aggrappandosi a Octavio per non perderlo. Ogni curva delle scale li
mandava a sbattere contro il muro.
I richiami di lady Septima si fecero sempre più lontani.
«Fuorilegge-legge-legge...».
Girata l’ultima rampa furono inghiottiti dalla nebbia. Finalmente fuori.
Ofelia corse dritto davanti a sé con i sandali che scivolavano sul selciato
umido. Le sue uniche percezioni erano la condensa sugli occhiali e la mano
di Octavio nella sua.
Alcune braccia li tirarono indietro. Erano Blasius e Wolf, che con un dito
sulla bocca indicarono le figure che si agitavano nella bruma. Le guardie
stavano procedendo ad arresti massicci. Ancora pochi passi e Ofelia sarebbe
caduta nella loro rete.
Guardò in tutte le direzioni. Dove fuggire? Octavio continuava a
spalancare occhi spenti. Non potevano contare sul suo potere familiare ed
erano circondati da ombre: come distinguere le guardie dai civili?
Un’ombra stava vicino a lei. Troppo vicino.
Anonima, immobile, silenziosa.
Ofelia non ne distingueva il viso, ma la riconobbe senza incertezze. Era
lo sconosciuto della nebbia che aveva incontrato il giorno prima sul ciglio
del vuoto. Era la stessa sagoma, lo stesso atteggiamento insolito, molto
attento, come in attesa.
Lentamente, l’ombra della nebbia si allontanò di qualche passo, passi che
non producevano alcun rumore sul selciato, poi si immobilizzò, di nuovo in
attesa.
Era lì per loro.
Amico o nemico, Ofelia decise che non poteva permettersi esitazioni. Se
restavano lì si sarebbero fatti prendere. Strinse la mano di Octavio e fece
segno a Blasius e Wolf di seguirla.
Soddisfatta, l’ombra si rimise allora in movimento. Le andarono dietro
alla cieca attraversando strati successivi di nuvole. Del sole giungeva loro
soltanto una luminosità crepuscolare. Tutto intorno il mondo si riduceva a
figure senza forma che gridavano, si mescolavano e si separavano in
un’isteria collettiva. Era in atto una sommossa come Babel non ne vedeva
da secoli. Alcuni ne avevano approfittato per scendere in strada a lanciare
volantini e sampietrini che disegnavano scie scure su fondo bianco. Ai
fischietti delle guardie rispondevano con le risate.
«Festeggiate la fine del mondo in bellezza! Unitevi ai Bad Boys di
Babel!».
Ofelia, Octavio, Blasius e Wolf superarono quella confusione senza
incrociare la traiettoria degli agitatori né quella delle pattuglie. L’ombra li
stava guidando in quello che aveva tutta l’aria di essere il quartiere delle
talentofatture tenendosi abbastanza vicina da non essere persa di vista e
abbastanza lontana da non essere riconosciuta, e rigorosamente in silenzio.
“Chi sei?” ripeteva Ofelia dentro di sé. “Dove ci stai portando?”.
Più cercava di coglierne i contorni, più l’ombra si contraeva. Non era una
sagoma femminile, ma quello non significava niente. Neanche Eulalia
Diyoh aveva un aspetto stabile, forse era così anche per il suo riflesso. Era
impossibile capire in che forma si fosse materializzato lasciando lo
specchio. Da quando c’era stato il crollo era già la seconda volta che Ofelia
incrociava la strada di quello sconosciuto. Escludeva una coincidenza, ma
da lì a decidere che si trattasse dell’Altro... Perché mai qualcuno il cui
passatempo preferito era distruggere arche avrebbe dovuto preoccuparsi
della sorte di un pugno di umani?
Ofelia trattenne il fiato. Lo sconosciuto si era fermato in mezzo alla
nebbia. Non disse una parola, ma come un mimo cominciò a effettuare gesti
bislacchi indicando il cielo con la sinistra e la terra con la destra, poi il cielo
con la destra e la terra con la sinistra.
«Un pazzo» mormorò il professor Wolf.
Scese la sera, e l’ombra dello sconosciuto fu assorbita da quelle del
quartiere. Ofelia avanzò fino al punto in cui l’ombra si era fermata e sbatté
contro l’entrata di una fabbrica sormontata da un immenso frontone in
mattoni e ferro battuto.
FABBRICAZIONE AUTOMI

LAZARUS & FIGLI


Neanche quella poteva essere una coincidenza.
«E ora?» domandò una voce preoccupata.
Ofelia si rese conto che c’erano parecchi aloni nella nebbia. Erano le
fronti dei convocati che, sopraffatti dagli eventi, li avevano seguiti a
distanza. Non si conoscevano, ma ormai erano tutti clandestini.
Ofelia spinse il cancello. Non era chiuso a chiave.
Entrarono insieme nella fabbrica. Uno strano cane meccanico dotato di
varie teste si raddrizzò vedendoli, ma non dette l’allarme. Si ritrovarono in
un grande capannone poco illuminato in cui file di figure senza volto
lavoravano alla catena di montaggio lungo nastri trasportatori. Ritagliavano,
limavano, perforavano, collegavano e avvitavano pezzi che sembravano
usciti da un’orologeria. Concentrati su quei compiti ripetitivi non ebbero
alcuna reazione di fronte all’arrivo dei visitatori. Per un attimo Ofelia si
aspettò di vedere Lazarus in mezzo a tutta quell’attività, poi si ricordò che
era in viaggio. Quegli automi erano stati chiaramente concepiti per costruire
altri automi. In assenza del proprietario la fabbrica funzionava in
autonomia.
Ofelia non vedeva più lo sconosciuto che li aveva salvati dalle pattuglie.
In compenso in un garage attiguo trovò una sedia a rotelle. Vuota.
«Ambroise?» chiamò.
La portiera di un furgone a eliche si aprì. Il ragazzo si voltò a fatica
guardando perplesso Ofelia e le persone che erano con lei. La sciarpa
arrotolata intorno alla testa si era drizzata a forma di punto interrogativo.
«Miss? Stavo venendo a soccorrervi. Well, l’avrei fatto se fossi riuscito a
far decollare questo furgone. È un po’ più complicato del tac-si. Come
sapevate dove trovarmi?».
«Non lo sapevo. Qualcuno ci ha guidato qui, ma è sparito prima delle
presentazioni. Avete un kit di pronto soccorso in fabbrica? Il mio amico ha
bisogno di cure».
Ofelia aveva appena formulato la richiesta che Octavio le lasciò la mano
e si sfregò le palpebre nere di polvere.
«Basterà un po’ d’acqua».
«Of course!» esclamò Ambroise estraendo le gambe dal furgone una
dopo l’altra. «C’è un rubinetto nel locale manutenzione, accanto alle scale».
A disagio sui piedi invertiti, barcollò fino alla sedia a rotelle. La sua
goffaggine era così grottesca che i clandestini guardarono da un’altra parte.
«Siete il figlio di Lazarus?» borbottò il professor Wolf. «Uno dei vostri
automi ha scatenato un bello scompiglio. È esploso».
Mentre si sedeva, Ambroise sembrò più dispiaciuto che sorpreso.
«Imploso» lo corresse. «Immagino che qualcuno abbia cercato di
smontarlo».
«Un’intera folla».
«Damned! Papà ha dotato tutte le sue invenzioni di un meccanismo di
autodistruzione per proteggere i segreti di fabbricazione. È spettacolare, ma
inoffensivo».
«Inoffensivo?» ridacchiò Wolf. «Ha dato fuoco alle polveri! Non poteva
depositare un brevetto come chiunque altro, Lazarus? Già all’epoca in cui
insegnava nella mia scuola faceva di tutto per distinguersi».
Ofelia riportò l’attenzione sul gruppo di clandestini che, armati di carta
vetrata, si stavano sfregando la fronte. Ma per quanto strusciassero,
l’inchiostro luminoso rimase inalterato. Leggeva sui loro volti le domande
che si ponevano interiormente. E ora? Che fare? Dove andare?
Ofelia ne ebbe pietà. Accarezzò col guanto la scritta Consegna automi
sulla fiancata del furgone a eliche. Per quanto riguardava se stessa, sapeva
cosa, sapeva dove e sapeva come. Chiunque fosse lo sconosciuto della
nebbia le aveva reso un gran favore.
«Vieni» disse a Octavio, i cui occhi rossi lampeggiavano come lampadine
difettose.
Lo portò nel locale manutenzione e aprì l’acqua del lavandino.
Silenziosissimo, lui mise le mani a coppa e si sciacquò la faccia ripetendo
l’operazione più e più volte, finché a un certo punto si bloccò. Rimase in
piedi con le dita premute sulle palpebre, come se non volesse più doverle
aprire.
«Sei sempre decisa ad andare all’osservatorio?».
«Sì».
«Prima ho provato a dissuaderti. Dimenticalo. Ognuno dovrebbe avere il
diritto di andare dove vuole».
«Octavio...».
«Le cose che mia madre ha detto oggi nell’anfiteatro...» la interruppe
parlando a denti stretti. «Non sai quanto mi vergogno».
Ofelia osservò l’acqua grigia che gli scorreva tra le dita. Anche lei aveva
un sapore di cenere in bocca.
«Vuoi...».
«...Restare solo. Sì. Please».
Octavio si portò le mani a pugno sugli occhi e aggiunse con voce
spezzata:
«Domani tornerò al giornale. Tornerò alla Buona Famiglia. Cambierò le
cose dall’interno, te lo prometto, ma stasera non guardarmi».
Ofelia si allontanò camminando all’indietro.
«Le cose che hai detto oggi nell’anfiteatro...» mormorò prima di
richiudere la porta. «Non sai quanto sono fiera di te».
Senza avere la minima idea di quello che stava facendo, ma anche senza
la minima esitazione, Ofelia salì le strette scale della fabbrica e sbucò su un
tetto sistemato a terrazza tra due ciminiere di mattoni. La fabbrica sembrava
fendere il mare di nuvole come un piroscafo.
Si aggrappò alla ringhiera di ferro battuto per smettere di tremare. Dal
centro città giungeva ancora il suono dei fischietti delle guardie.
“Non è colpa mia” si ripeté più volte.
Non era colpa sua se c’erano crolli. Non era colpa sua se c’erano
espulsioni.
Spostò gli occhi dalla nebbia e li puntò lontano, oltre il mare di nuvole,
verso le luci artificiali che si confondevano con le stelle: le arche minori di
Babel. Localizzò senza difficoltà la cupola del Memoriale, luminosa come
un faro, e i lampioni più discreti della Buona Famiglia. Vedendoli fu presa
dalla nostalgia. Una volta quei luoghi erano stati i suoi, e il fatto che ormai
la trattassero da indesiderabile la addolorava.
Quante persone erano state spedite lontano contro la loro volontà, quel
giorno? Quanti sarebbero arrivati a destinazione nonostante gli echi?
«Sono dappertutto, e intorno a te più che altrove» aveva detto Helena.
«Indagate sugli echi, sono la chiave di tutto» aveva detto Lazarus.
Ofelia si sforzava di capire. Un filo invisibile sembrava unire Eulalia
Diyoh, l’Altro, i crolli e gli echi, ma era pieno di nodi.
Una lampada esterna si guastò nel momento in cui Blasius si appoggiò
alla ringhiera, alla sua sinistra. Il profilo col lungo naso a punta si stagliava
appena nella notte.
«Qualunque cosa abbiate in mente, miss Eulalia, dovrete essere very
prudente. La guardia familiare ha memorizzato il vostro odore come quello
di tutte le persone che erano là dentro. Sono Olfattivi di prima classe,
seguiranno le vostre tracce senza darvi tregua».
«Non mi tratterrò in città. Ma che faranno gli altri?».
Il professor Wolf si appoggiò alla ringhiera alla destra di Ofelia. La luce
sulla sua fronte dette il cambio a quella che si era rotta. Aveva perso gli
occhiali neri e il cappello. Da come contraeva la mano intorno al collare
ortopedico sembrava che la corsa attraverso la città avesse messo a dura
prova le sue vertebre.
«Il figlio di Lazarus ci ospiterà finché le cose non si aggiusteranno. Ha
fegato, il ragazzo. Se cadiamo cadrà con noi».
Blasius gli scompigliò i capelli rendendoli ancora più irsuti.
«A quanto pare la vita a Babel diventerà ancora più complicata per noi».
Gomito a gomito con quei due uomini a cui il mondo vietava di toccarsi,
Ofelia sentì crescere in sé l’esigenza di proteggerli. Se un solo crollo aveva
diviso un’intera città, cosa sarebbe successo quando ne fossero avvenuti
altri? Ovunque si trovasse l’Altro, qualsiasi aspetto e intenzione avesse,
Ofelia sapeva che l’avrebbe rifatto, se non fosse riuscita a fermarlo prima.
Sollevò lo sguardo verso il punto luminoso più lontano. Laggiù, in quel
preciso istante, da qualche parte dietro spessi muri, alcuni Babeliani stavano
lavorando al progetto Cornucopiando, esattamente come Eulalia Diyoh
prima di diventare Dio. Aveva ragione Thorn a pensare che ciò che era stato
fatto potesse essere disfatto? Era davvero possibile riportare Eulalia Diyoh
alla condizione umana, rispedire l’Altro nello specchio e riparare il
riparabile? E se l’unico rimedio al vuoto fosse l’abbondanza? Ma che ruolo
avrebbero gli echi nella faccenda?
Ofelia doveva trovare le risposte all’osservatorio delle Deviazioni. Con
Thorn.
«Nessuno può proporsi come volontario per un posto del genere senza
una valida motivazione» l’aveva avvertita.
In tutta quella storia, l’ironia più pazzesca era che i Lord di LUX le
avevano appena fornito ciò che le mancava.
DIETRO LE QUINTE

Si aggira per le strade di Babel. Grida, fischietti. La guardia familiare di


Polluce arresta tutto ciò che si muove. Tutto tranne lui, ovviamente.
Potrebbe ballare sotto il loro naso e non lo arresterebbero.
Nessuno lo arresta mai.
In due passi raggiunge la cima della piramide più alta, si siede e da lì
guarda Babel avvoltolarsi nella nebbia. Babel che invecchia. Una città
troppo antica per le loro piccole memorie.
La storia si ripeterà. Ci ha pensato lui.
Era prematuro che Ofelia lasciasse Babel oggi. Ha qualcos’altro da
compiere ai confini dell’arcipelago, nell’osservatorio delle Deviazioni.
Oh sì, la storia si ripeterà. Così potrà finalmente concludersi.
LA TRAPPOLA

I corpi inanimati degli automi erano appesi al tettuccio del furgone. Ogni
scossa ne agitava gli arti provocando un rumore d’ossa sbattute. Immersa
nella penombra, Ofelia aveva l’impressione di trovarsi in mezzo a scheletri.
Si rannicchiò contro uno di loro quando sentì il furgone perdere quota. Un
altro controllo aereo? Le portiere posteriori si dischiusero. Il fascio di luce
di una torcia illuminò la testa senza faccia di un manichino accanto a
Ofelia, poi le portiere si richiusero e le eliche del furgone ricominciarono a
ronzare.
«Sir Octavio e sir Ambroise dicono che non dovremmo incontrare altre
pattuglie».
Ofelia intravide una sagoma irsuta tra gli automi che sgomitava per
raggiungerla nel retro del velivolo. Appena si sollevò il turbante che le
nascondeva la fronte il timbro proiettò una luce lunare su Blasius creando
ombre tra le pieghe ansiose della sua pelle. Vedendole, Ofelia rimpianse di
averlo messo a parte della sua intenzione di andare all’osservatorio delle
Deviazioni. Da quando gliel’aveva detto, lui aveva insistito per
accompagnarla.
«Sareste dovuto rimanere nella fabbrica con gli altri clandestini» sospirò.
«Se mi prendono...».
«...Espelleranno anche me? Detto tra noi, miss Eulalia, non mi va di
restare su un’arca che non accetta le persone a cui voglio bene. E poi volevo
parlarvi di una cosa, ma... well... non davanti a Wolf».
Con gesto timido Blasius si rimboccò la manica della divisa da
memorialista fino a mettere a nudo il braccio. Alla luce della propria fronte
Ofelia vide un tatuaggio: una P e una A intrecciate.
«Sta per Programma Alternativo» spiegò Blasius.
Ofelia ci mise un po’ prima di capire.
«Siete stato internato all’osservatorio delle Deviazioni?».
«Non so perché per voi sia così importante entrarci, miss. Ma di sicuro so
quanto è stato difficile per me uscirne. Mi ci avevano mandato i miei
genitori perché fossi... come si dice... rettificato». Pronunciando la parola
Blasius fece un sorrisino afflitto. «Ero ancora adolescente, ma loro avevano
già capito le mie tendenze. Sono rimasto all’osservatorio fino alla maggiore
età, e anche in seguito non sono stato autorizzato ad abbandonare il
programma».
Pigiata tra gli automi, sballottata dalle scosse, Ofelia guardò le due lettere
tatuate sul braccio di Blasius. Marchiato a vita.
«Cos’è il programma alternativo?».
«L’altra faccia della vetrina. L’osservatorio delle Deviazioni è famoso per
ottenere eccellenti risultati su... su casi come il mio, giustappunto. Ma
quando mi hanno visitato hanno detto ai miei genitori che il mio stato non
rientrava nel programma classico, che ero un invertito di un genere very
particolare, che erano pronti a farsi interamente carico di me per studiarmi.
Per anni sono stato alloggiato, nutrito e “curato”. Ogni mese chiedevo di
tornare a casa e ogni mese mi rispondevano che la decisione non toccava a
me. Poi, dall’oggi al domani, mi hanno rimandato dai miei senza una parola
di spiegazione, come se ai loro occhi avessi perso ogni interesse. Ho solo
qualche ricordo confuso di quel che è successo là, di quel che ho fatto e
visto, ma voglio dirvi una cosa, miss, ed è che all’osservatorio erano molto
più interessati alla mia sfortuna che alle mie inclinazioni sentimentali».
Su quelle parole Blasius aveva spinto Ofelia di lato. L’imbracatura di un
automa subito dietro di lei si era staccata, minacciando di farle cadere
addosso vari chili di metallo.
«La vostra sfortuna?» ripeté. «E perché?».
«Non me l’hanno detto. Non dicono mai niente. Osservano».
«E voi avete osservato qualcosa di particolare in quel posto?» insisté
Ofelia.
«Tutto è particolare in quel posto, miss. Ero circondato da invertiti. Menti
invertite. Corpi invertiti. Poteri invertiti».
Ofelia ebbe un attimo di esitazione. Non avrebbe avuto altre occasioni di
fare domande a qualcuno che aveva conosciuto l’osservatorio da così
vicino, anche se parecchio tempo prima.
«Avete mai sentito parlare del progetto Cornucopiando?».
La fronte di Blasius si corrugò ancora di più sotto la spinta delle
sopracciglia.
«No».
«E del Corno dell’abbondanza?».
Lui scosse la testa.
«Davanti a me non l’hanno mai menzionato, ma ve lo ripeto, non dicono
mai niente».
Ofelia guardò il corpo disarticolato ai suoi piedi. Se non era carico, un
automa sembrava davvero uno scheletro. Ricordò la conversazione che
avevano avuto una volta lei e Blasius nelle catacombe della città. «Certi
esseri umani sono oggetti anche da vivi».
«Le cose che hanno fatto a voi, quelle che faranno a me...» disse con una
voce che avrebbe voluto più coraggiosa. «Soffrirò?».
La faccia di Blasius si distese come se fosse fatta di gomma. Le afferrò
goffamente le spalle.
«Non nel senso che intendete voi. È che... è che... Blast!».
Blasius non era mai stato molto sciolto nell’esprimersi, ma più parlava
dell’osservatorio e più balbettava, quasi che fosse anche lui pieno di echi.
Contrasse le dita sulle spalle di Ofelia. Sgranò gli occhi umidi e scuri.
«In ognuno di noi c’è un confine, miss Eulalia. È una cosa... necessaria,
una cosa che ci limita, una cosa che... che ci mantiene all’interno di noi
stessi. Ecco... loro cercheranno di farvi varcare questo confine. Qualsiasi
cosa vi dicano, miss, la decisione sarà vostra».
Ofelia sentì che i piedi sembravano volersi staccare dal suolo e capì che
stavano atterrando. Erano arrivati. Era arrivata. Thorn la aspettava. Poco
importava cosa le avrebbe riservato l’osservatorio delle Deviazioni, non
sarebbe stata sola. Neanche in quel furgone lo era.
«Grazie, Blasius. Abbiate cura di voi. E del professor Wolf».
Le mani di Blasius lasciarono le spalle di Ofelia e le presero il viso.
L’uomo appoggiò la fronte sulla sua fino a coprirne la luce.
«Mi ha evitato per quindici anni» sussurrò talmente sottovoce che
sembrava volesse essere sentito solo da lei. «Quindici lunghi anni durante i
quali ho creduto che si proteggesse da me, mentre proteggeva me da lui.
Fino al crollo del quartiere nordovest. E questo perché voi gli avete
consigliato di parlarmi. Non so se vi rendete conto» disse Blasius cercando
gli occhi di Ofelia dietro gli occhiali, «della solitudine a cui mi avete
strappato il giorno in cui mi avete rivolto la parola per la prima volta, sul
trenuccello».
Le loro fronti sbatterono l’una contro l’altra quando il furgone si
immobilizzò. Dopo qualche secondo le portiere posteriori si aprirono. Era
Octavio.
«Nessuno in vista. Sbrigati».
Ofelia si abbassò il turbante sulla fronte prima di uscire. Era una tiepida
alba rosa. Alcune palme fremevano in prossimità del vuoto. Il furgone si era
fermato in cima a una torre, su una piattaforma per le consegne. Octavio
aveva ragione, i luoghi erano deserti.
Ofelia si avvicinò al bordo. Voleva vedere l’osservatorio dall’alto prima
di viverlo dal di dentro. Un groviglio inestricabile di pagode e strade
ferrate, giardini e fabbriche, vecchie pietre e strutture metalliche si
estendeva ai suoi piedi. Il tutto aveva un’aria sia da antica città imperiale
che da zona industriale. Ofelia tuttavia individuò ben presto una logica in
quel caos illusorio: l’osservatorio era diviso in quartieri separati da
gigantesche porte rosse incorporate in fortificazioni. Una
compartimentazione controllata.
Al centro, l’istituto era dominato da una statua monumentale, un colosso
con una testa dalle molte facce.
“So tutto, vedo tutto!” esclamava in silenzio.
«In questo caso parliamo un po’» gli mormorò Ofelia. «Sono venuta
apposta».
Si diresse verso il posto di guida del furgone. Ambroise le tese una mano
invertita oltre la portiera.
«Good luck, miss. Vi invidio un po’, sono curiosissimo di sapere cosa
studiano là dentro! Mio padre ha detto che di tutti i clienti l’osservatorio è
quello che gli fa le ordinazioni più insolite. Non mi stupirei se vi imbatteste
in automi del tutto sconcertanti».
Ofelia non trovò la prospettiva particolarmente divertente. Non poté
evitare di fare un gesto verso la sciarpa arrotolata a palla sulla testa del
ragazzo, ma ne ottenne in cambio solo un fremito da lana imbronciata.
Quella nuova separazione a cui costringeva entrambe non era certo propizia
alla riconciliazione.
«Sorry» fece Ambroise, imbarazzato.
Ofelia gli strinse la mano con altrettanta goffaggine.
«C’è un proverbio animista che dice “Tale padrone, tale oggetto”. Voi
ispirate alla mia sciarpa quello che avete ispirato a me la prima volta che ci
siamo incontrati e che oggi ispirate a molta gente: una sensazione di
rifugio».
Octavio aveva assistito al dialogo da uno spiraglio della frangetta. I suoi
occhi stanchi non avevano ancora ritrovato la lucentezza, ma scrutavano
Ambroise con espressione indecifrabile. Indicò un capannone composto da
migliaia di vetri all’altro capo della piattaforma delle consegne.
«Dev’esserci un’entrata di servizio. La accompagno e torno» disse ad
Ambroise e Blasius.
All’interno del capannone Ofelia e Octavio videro solo piramidi di casse
e vagoncini fermi. Certo, era ancora presto, ma data la psicosi che regnava
nel resto di Babel quella calma metteva i nervi allo scoperto.
Scesero i numerosi piani della torre con un montacarichi.
«Ambroise è davvero figlio di Lazarus?» domandò Octavio di colpo.
«Non gli somiglia affatto. In fact» aggiunse senza dare a Ofelia il tempo di
rispondergli, «non somiglia a nessuno. Sono stato seduto accanto a lui
durante tutto il volo. Il suo corpo è davvero molto strano».
Ofelia evitò di commentare che anche il proprio corpo era strano assai e
che era decisa a servirsene per infiltrarsi nell’osservatorio, nonostante la
sola idea la facesse tremare.
«Torni subito al Giornale ufficiale?».
«Prima vado alla Buona Famiglia. Sono il responsabile della divisione
degli apprendisti precorritori di Polluce. Devo farmi vedere tutti i giorni,
altrimenti verrà considerata diserzione dal posto di lavoro».
Ofelia sollevò le sopracciglia.
«Dopo tutto quello che è successo? Dopo il crollo del quartiere
nordovest? Dopo i tumulti in centro?».
«Soprattutto dopo quelli. Ormai è ordine contro caos».
Il montacarichi sbucò in un corridoio che sbucò in un altro corridoio che
sbucò in una sala d’accoglienza dove non trovarono nessuno. Sul bancone
c’erano alcuni formulari a disposizione del pubblico. Bisognava riempirne
uno di proprio pugno, infilarlo nella fessura di un cilindro e abbassare una
leva per azionare il trasporto pneumatico. Ofelia aveva già seguito quella
procedura quando era andata a trovare Mediana. A differenza di quella
volta, invece di sbarrare la casella Visita sbarrò la casella Ammissione.
Non ebbe neanche il tempo di dirigersi verso la sala d’attesa che una
voce educata la chiamò.
«Miss Eulalia?».
Una donna veniva verso di lei con passo sicuro. Non era la ragazza con
cui Ofelia aveva avuto a che fare la prima volta che era andata lì, ma
indossava lo stesso sari di seta gialla, gli stessi occhiali scuri a pince-nez e
gli stessi lunghi guanti di pelle. Aveva sulla spalla uno scarabeo meccanico,
e sottobraccio un portadocumenti a cui era spillato il modulo che Ofelia
aveva appena riempito. Sembrava quasi che la aspettassero da giorni.
«Da questa parte, please» disse aprendole un’elegante porta a vetri. «Voi
no, milord».
La donna aveva rivolto un sorriso inflessibile a Octavio, che si stava
facendo avanti. Non ebbe alcuna considerazione per la divisa da virtuoso né
gli chiese come si chiamasse. Sapeva già perfettamente chi era.
Ofelia gli rivolse un ultimo intenso sguardo.
«Cambiare il mondo» gli mormorò.
Gli angoli della bocca di Octavio trasalirono. Raddrizzò la testa fino a
mandare indietro la frangetta, mettendo allo scoperto le cicatrici sul naso e
sul sopracciglio nei punti in cui un tempo c’era stata la catenella.
«Dall’interno» rispose.
Se ne andò sbattendo risolutamente i tacchi, cosa che infuse a Ofelia un
po’ di coraggio. La donna le fece attraversare una stanza che sarebbe potuta
sembrare uno studio medico, se su tutti gli scaffali non ci fossero stati
scarabei che alla luce mattutina delle finestre brillavano come pietre
preziose.
«Avete fatto domanda per essere ammessa nel nostro osservatorio» disse
sedendosi in una poltrona e posando il portadocumenti davanti a sé.
«Ditemi».
Appena seduta, per prima cosa Ofelia si sincerò che il vetro della finestra
rimandasse il riflesso dell’interlocutrice. Non era né Eulalia Diyoh né
l’Altro, per quanto affidabile potesse essere il test. Bene. Si tolse il turbante
che le nascondeva il timbro sulla fronte.
«Sarò breve. Un medico mi ha consigliato di iscrivermi al vostro
programma. So che avete già un fascicolo a mio nome. Non capisco bene in
che modo, ma sono sicura che l’osservatorio sia la mia ultima risorsa per
non essere espulsa da Babel».
Ofelia non ebbe bisogno di sforzarsi per apparire disperata. La sua paura
era molto reale. A parte il pavimento su cui poggiava i piedi in quell’istante,
il resto dell’universo era diventato un gigantesco punto interrogativo.
La donna sfogliò le pagine fissate al portadocumenti. A Ofelia sarebbe
piaciuto essere sulla sua spalla al posto dello scarabeo per leggere le
informazioni che l’osservatorio aveva sul suo conto.
«In altre parole, miss Eulalia, è una richiesta d’asilo, la vostra?».
«Mi offro volontaria per tutto ciò che voi giudicherete interessante».
La donna inclinò la testa in modo da sostenere il suo sguardo attraverso
le lenti scure del pince-nez, poi le porse un foglio bianco e una penna
stilografica.
«Devo firmare da qualche parte?».
«No, miss. Scrivete soltanto “Ma quel pozzo non era più vero di un
coniglio di Odino”».
«Prego?».
Ofelia era interdetta. Che pozzo? Che coniglio? E perché Odino? Odino
non era l’antico nome di Faruk?
«“Ma quel pozzo non era più vero di un coniglio di Odino”» ripeté la
donna con un sorriso imperturbabile. «Scrivete, please».
Ofelia ubbidì. La donna le tolse subito il foglio e lo sostituì con un altro
bianco.
«Perfect. Ora riscrivete la frase, ma con l’altra mano».
«Non so scrivere con l’altra mano».
«Certo che sì» le assicurò la donna. «Non vi stiamo chiedendo di scrivere
bene, solo di scrivere».
Ofelia ubbidì di nuovo. Sotto il pennino di metallo le parole venivano
fuori mostruose. Anche concentrandosi invertì la maggior parte delle
lettere. La donna non dedicò la minima attenzione al risultato. Attraverso il
prisma scuro del pince-nez osservava con interesse educato Ofelia e
soltanto Ofelia. Non aveva gli occhi di una Visionaria. Qual era il suo
potere familiare? Se ne stava servendo in quel momento?
«Perfect».
La pelle dei suoi guanti stridé quando aggiunse i due fogli al
portadocumenti. Ogni suo gesto era metodico all’eccesso, neanche stesse
maneggiando prodotti chimici altamente tossici. Si alzò e rimise il turbante
sulla testa di Ofelia. Per coprirle il timbro lo strinse talmente forte che le
dette fastidio. Poi la fece entrare in uno sgabuzzino stretto e buio e chiuse la
porta. Le tenebre erano così fitte e faceva un tale caldo che a Ofelia mancò
il respiro. Non vedeva più gli occhiali sul proprio naso. Ecco spiegato il
turbante: a quanto pareva, il buio faceva parte dell’esperimento.
«Non muovetevi, please».
Ci fu un lampo di luce improvviso come un fulmine. Poi un altro. La
stavano fotografando? Ofelia era così abbagliata da non notare subito che la
porta dello studio si era riaperta.
Con un sorriso la donna le indicò una scrivania sulla quale era in attesa
una piccola scatola di legno laccato.
«Voi siete Animista, miss Eulalia».
Non era una domanda.
«Di ottavo grado» mentì Ofelia.
«Specializzata in lettura».
Neanche quella era una domanda. Se quelli dell’osservatorio delle
Deviazioni avevano avuto accesso al fascicolo di Ofelia compilato dalla
Buona Famiglia sapevano già tutto. Eppure la donna sembrava aspettare
una conferma da parte sua.
«Sono lettrice, in effetti».
«Spero che non avrete problemi a darci una piccola dimostrazione».
Ancora mezzo abbagliata dai flash, Ofelia si avvicinò alla scatola.
«Dentro c’è un campione» disse la donna.
Ofelia fece scorrere il coperchio. Una minuscola biglia di piombo era
adagiata su un cuscinetto rosso. Il sangue cominciò a pulsarle su tutta la
faccia. Un frastuono organico le colpì le orecchie.
«Possiamo procedere con la lettura, miss Eulalia?» domandò
cortesemente la donna.
Sembrava che le riuscisse difficile limitare il sorriso a proporzioni
professionali.
Ofelia si sbottonò i guanti uno dopo l’altro. Fino a quel momento si era
sentita padrona della situazione. Era andata lì per sua scelta e si
sottometteva agli esami dell’osservatorio perché lo voleva. Mostrava di sé
solo quello che aveva deciso di mostrare.
E così dovevano andare le cose.
«Sono tenuta a farvi la domanda» disse con un tono che si augurava
impassibile. «L’oggetto è proprietà dell’osservatorio?».
«Certamente, miss Eulalia».
Bugia.
Ofelia inspirò profondamente per evitare che la collera le facesse
diventare scuri gli occhiali. Non doveva tremare. Non doveva tradirsi. Si
concentrò interamente sulla biglia di piombo nella scatola. Un proiettile.
Sapeva di avere sotto gli occhi una cosa impossibile, o che almeno avrebbe
dovuto esserlo, ma per quanto frastornata c’era un campo in cui nessuno
poteva fargliela sotto il naso. Conosceva personalmente ogni pezzo della
collezione del museo di Storia primitiva di Anima, e quello in particolare.
Prese la pallottola di piombo a mani nude. La nausea le bruciò la gola:
non la sua nausea, ma quella dell’ultima persona ad aver maneggiato
l’oggetto senza protezione, un tizio con la bombetta che voleva conoscere le
guerre del vecchio mondo, uno sciocco al quale Ofelia aveva dato una
lezione. Succedeva quattro anni prima, ma sembrava che ne fossero
trascorsi quaranta. Mentre risaliva sempre più lontano nel tempo passando
da un lettore all’altro e da una nausea all’altra si preparò all’inevitabile
shock. Il dolore, astratto ma autentico, la colpì in piena pancia. L’agonia del
fante i cui organi interni erano stati perforati da quella pallottola molti
secoli prima divenne la sua agonia. Stavolta fu la propria nausea a
sommergerla, tanto che per poco non vomitò sulla scrivania.
Rimise il proiettile sul cuscinetto, chiuse la scatola e si portò il pugno alle
labbra tremanti. Una lacrima le colò sulla guancia. Come aveva potuto
imporre una cosa del genere a qualcun altro?
“No”, si riprese appena la potente ondata di empatia si fu ritirata. Perché
l’avevano imposto a lei? Per quale improbabile concorso di circostanze
l’osservatorio delle Deviazioni si era procurato un pezzo del museo in cui
lei, Ofelia e non Eulalia, aveva lavorato un tempo?
«Desiderate un bicchiere d’acqua, miss?».
La donna non le aveva staccato gli occhi di dosso prima, durante e dopo
la lettura. Dietro le lenti scure del pince-nez brillava una luce sempre più
curiosa.
«Volete la mia perizia?» domandò Ofelia con freddezza.
«No, miss Eulalia. Non era questa la finalità dell’esercizio».
«E qual era?».
La donna prese da un cassetto della scrivania un documento dello
spessore di un pollice. Prima di toccarlo Ofelia si rimise i guanti.
Convenzione tra il paziente e l’osservatorio delle Deviazioni: consenso
all’atto di studio dei protocolli da I a III del programma alternativo e
relativa clausola di riservatezza. Bastava il titolo a far venire il mal di testa.
«I Lord di LUX dettano le leggi» dichiarò la donna con lo scarabeo, «ma
nessuna legge è superiore al segreto professionale in ambito sanitario che
qui applichiamo da svariate generazioni. Finché resterete fra noi non
dovrete più rendere conto di nulla al mondo esterno».
Ofelia non capì una parola delle decine di fogli che costituivano la
convenzione, scritta in un linguaggio che presupponeva l’aver studiato da
giurista.
Ma la cosa non aveva più importanza. Firmò.
Il sorriso della donna si allargò impercettibilmente quando Ofelia le
restituì il documento. Il futuro avrebbe stabilito chi delle due era caduta
nella trappola dell’altra.
GLI OCCHIALI

Ofelia soffocò un grido. Sgranò gli occhi dietro i capelli che le


sgocciolavano sulla faccia. Da bollente l’acqua era diventata gelida, poi si
era interrotta di colpo lasciandola ansimante con le braccia strette intorno al
corpo arrossato dalle temperature estreme. Aspirato dal sistema di
ventilazione, il vapore si dissolse mettendo allo scoperto la figura in sari
giallo che aveva appena fermato il getto. Anche senza occhiali Ofelia ne
vedeva il sorriso. La donna con lo scarabeo non ebbe il minimo riguardo
per il suo pudore, la guardò uscire goffamente dalla doccia, scivolare sulle
mattonelle e frizionarsi la pelle con la massima attenzione.
«Dove sono i miei vestiti?».
Ofelia non trovò sulla panca nessuna delle cose che ci aveva lasciato. Al
loro posto, impeccabilmente piegati, la aspettavano ampi pantaloni di tela,
corti al ginocchio e senza tasche, e una tunica senza maniche.
L’osservatorio voleva proprio che non avesse niente da nascondere. Le
avevano sequestrato perfino i sandali.
«I guanti» reclamò.
La donna scosse educatamente la testa in segno di diniego. Da quando
Ofelia aveva firmato la convenzione non aveva più sentito il suono della
sua voce.
«Ne ho bisogno, lo sapete».
Altro segno di diniego. Ofelia non capiva. Quel no significava che non le
avrebbero restituito i guanti o che non ne avrebbe avuto bisogno?
Si vestì storcendo la bocca ogni volta che le sue mani leggevano suo
malgrado il tessuto. Visualizzò una misera sartoria in fondo a un suk, una
macchina da cucire di bassa qualità, un tintore che fischiettava disinvolto:
se non altro, nessuno aveva indossato quegli abiti prima di lei.
«Gli occhiali?».
Altro diniego. Ofelia sentì il respiro farsi affannoso e lo obbligò a
rallentare. Si era preparata all’idea che niente sarebbe stato facile in quel
luogo, ma doveva fare in modo che non prendessero il sopravvento su di lei.
Con uno scatto meccanico dallo scarabeo uscì uno specchietto. Era
minuscolo e rifletteva il suo viso a frammenti, ma Ofelia ebbe almeno la
soddisfazione di constatare che non aveva più il timbro sulla fronte.
L’inchiostro luminescente si era sciolto sotto la doccia. Quell’acqua doveva
avere proprietà alchemiche.
«E ora?».
Con gesto cortese la donna la invitò a seguirla. Appena si allontanava
diventava sfocata e le sue forme si mischiavano confusamente a quelle
dell’arredo. Ofelia avrebbe fatto bene ad abituarsi in fretta a camminare nel
vago senza guanti e senza sandali. Fare la spia si stava rivelando meno
facile del previsto, ma se l’osservatorio voleva davvero complicarle la vita
gli avrebbe reso pan per focaccia.
Mentre percorrevano una serie di corridoi Ofelia fu colpita dalle
lampadine elettriche: tutte senza eccezione sfrigolavano e lampeggiavano.
Finalmente uscì all’aria aperta, dove il sole del mattino le asciugò
istantaneamente i capelli. Il selciato bollente le scottò le piante dei piedi. La
donna la fece passare per giungle odorose, pergolati ombrosi e una
successione interminabile di porte.
Benché Ofelia vedesse del mondo solo una quantità di puntini policromi,
distingueva molto chiaramente i suoni. Coglieva qua un ronzio d’insetto e
là un ronzio meccanico, e passando sotto una finestra sentì la musica
squillante di una tromba. Sentiva anche bambini che ridevano e genitori che
facevano domande preoccupate, «Fa progressi? È al sicuro qui?», a cui voci
ponderate rispondevano che i progressi erano eccellenti, che la sicurezza era
garantita, che i giovani e i meno giovani rifiorivano all’osservatorio più che
altrove, che il programma classico aveva sempre dato eccellenti risultati,
ma che ognuno era evidentemente libero di tornare a casa appena lo
desiderava.
I segreti di Eulalia Diyoh si trovavano lì da qualche parte, a portata
d’orecchio?
Ofelia non staccava gli occhi miopi dalla donna il cui sari di seta
ondeggiava in maniera liquida davanti a lei. Non riusciva a disfarsi della
nausea provocata dalla lettura del proiettile del museo di Anima. Quando e
come se l’erano procurato? I Genealogisti avevano ragione su una cosa:
quell’osservatorio aveva una lunghezza di vantaggio su di lei. Ma fino a che
punto? Quanto sapevano di lei, del suo passato, delle sue attitudini, delle
sue intenzioni?
“E Thorn?” pensò conficcandosi le unghie nei palmi ormai nudi.
Trentuno mesi. Per trentuno mesi Ofelia aveva vissuto sorvegliata dalle
Decane, tanto da non poter muovere un passo fuori di casa dei suoi genitori
senza ritrovarsi la Relatrice alle costole. Per trentuno mesi si era impedita di
andare alla ricerca di Thorn a causa loro, per non comprometterlo. Se
Archibald non fosse riuscito a intrufolarsi tra le maglie della rete per tirarla
fuori di lì sarebbe ancora su Anima. Ma se si fosse sbagliata? Se per tutto il
tempo trascorso a Babel in cui si era creduta libera dalla sorveglianza di
Eulalia Diyoh fosse invece rimasta prigioniera del suo sguardo? Se fosse
stata Eulalia stessa a condurla fino a Thorn?
In fondo Ofelia non sapeva chi fosse davvero al comando di
quell’osservatorio. Forse non era Eulalia Diyoh. Forse era qualcun altro.
Qualcuno che la conosceva molto bene.
Chiunque fosse quella persona, sapeva anche che sir Henry era in realtà
un evaso? Thorn era in pericolo in quel luogo come lo era stato il
precedente informatore dei Genealogisti? E se Ofelia fosse arrivata troppo
tardi? Se l’avessero già fatto sparire?
Strizzò gli occhi. La donna col sari era appena entrata in un portone ad
arco lobato sul quale era inciso a grandi lettere:
OSSERVAZIONE

Il portone dava accesso a una sala di un bianco talmente immacolato che


faceva quasi male. Ofelia non riusciva a distinguerne i particolari
architettonici, ma a giudicare dalla superficie liscia e fredda che aveva sotto
i talloni doveva trattarsi di un vero e proprio salone di marmo. Le finestre a
crociera riversavano all’interno fontane di sole.
La donna con lo scarabeo si unì alle file di ciò che Ofelia, man mano che
si avvicinava, capì essere un pubblico piuttosto impressionante. Figure
drappeggiate di seta gialla la squadravano attraverso i pince-nez col
taccuino in mano. Osservatori. Trovarsi in piena luce esposta agli sguardi di
tutti era sgradevolissimo. Con braccia, gambe e piedi nudi, e i capelli
scarmigliati, Ofelia sembrava un monello di strada.
Una ragazza sussurrò:
«Avete chiesto di assistere a ogni entrata e ogni uscita. L’invertita qui
presente è un caso un po’ particolare, sir. La sua deviazione rientra nel
programma alternativo».
Per tutta risposta ci fu soltanto un sonoro tac-tac. Ofelia si sforzò di non
tradire il sollievo che le fece rilassare tutti i muscoli. Una dopo l’altra,
sconficcò le unghie dai palmi. Thorn c’era e stava bene. Si sforzò di non
cercarne il volto tra le facce confuse e anonime che le stavano intorno.
Nessuno provvide alle presentazioni.
Un uomo fece sedere Ofelia su una specie di sgabello da pianoforte
bianco e freddo come il pavimento e ne regolò l’altezza affinché le piante
dei piedi poggiassero bene al suolo. Senza tante cerimonie le stampigliò
sull’avambraccio una P e una A intrecciate. Ecco fatto. Un timbro in cambio
di un altro.
Poi l’uomo le prese le misure: quelle del cranio con un compasso a
branche curve e quelle del dito medio destro e del piede sinistro con un
metro a nastro. Il silenzio era così assoluto che il ticchettio degli strumenti
risuonò in tutta la sala. L’uomo nascondeva gli occhi dietro le lenti scure del
pince-nez e, benché non sorridesse, aveva all’angolo della bocca una
fossetta tenace che disturbava Ofelia. Sulla spalla aveva un automa a forma
di lucertola.
Con gesti affabili l’osservatore la invitò ad alzarsi, poi a rimettersi seduta
sullo sgabello in un angolo diverso, il che non semplificò le cose: stavolta
era proprio di fronte a Thorn, la cui figura caratteristica spiccava sul resto
dei convenuti. In fin dei conti Ofelia era contenta di non avere gli occhiali,
così non sarebbe stata tentata né di incrociare né di evitare il suo sguardo.
Nonostante la luminosità del luogo, il poco che indovinava della sua faccia
era pieno di ombre. L’avevano fatto accomodare su una poltrona sistemata
di lato, in prima fila, in modo che potesse assistere alla scena pur rimanendo
ai margini. Thorn teneva le braccia conserte in un atteggiamento neutro che
andava di pari passo con la sua nuova funzione di grande ispettore
familiare.
Osservava l’osservatorio.
Accanto a lui c’era una ragazza con quella che sembrava una scimmietta
meccanica sulla spalla. A Ofelia parve di riconoscere la Babeliana che
l’aveva accolta la prima volta che era stata all’osservatorio. Stava porgendo
a Thorn un vassoio di rinfreschi, e tutto nel suo comportamento era
improntato al massimo rispetto.
In effetti, Thorn stava proprio bene.
Finito di prenderle le misure, l’uomo con la lucertola cominciò a
maneggiarla senza dire una parola. Le fece chiudere un occhio e sollevare il
braccio opposto, poi il contrario. Seguì una lunga serie di movimenti simili,
apparentemente insignificanti, che tuttavia misero Ofelia sempre più a
disagio. Forse era il fatto di non avere gli occhiali, ma sentì un’emicrania
sorda montarle nel cranio. A forza di stimolare una volta la destra e una
volta la sinistra non riusciva più a distinguere l’una dall’altra. Tutto intorno
gli osservatori prendevano scrupolosamente appunti con un continuo
fruscio di carta e si scambiavano commenti sottovoce come se assistessero a
una rappresentazione rara.
Ofelia trovò ridicola quella situazione. Si stava augurando che non lo
diventasse ancora di più quando l’uomo con la lucertola le dette uno
schiaffo.
Fu così inaspettato che per un attimo Ofelia fu incapace di riflettere. Con
la testa inclinata sulla spalla e la guancia in fiamme non capì che diavolo
fosse successo.
In compenso fu subito consapevole del cigolio metallico che risuonò
nella sala. Thorn si era alzato.
«Don’t worry, sir Henry» gli sussurrò la ragazza con la scimmietta. «La
procedura potrà sorprenderla, ma è conforme al primo protocollo.
L’invertita qui presente è consenziente, non è stata infranta alcuna regola
della città».
La mente di Ofelia si rimise subito a lavorare. Ignorava cosa la procedura
si aspettasse da lei, ma non avrebbe permesso che Thorn mettesse a rischio
la propria copertura per difendere lei.
Restituì lo schiaffo all’uomo.
«Non mi avete dato indicazioni» spiegò poi in tono piatto, «così mi è
sembrata la reazione più logica».
Tutti si misero a scrivere con un fruscio frenetico di stilografiche.
L’uomo con la lucertola raccolse il pince-nez che gli era caduto. Nel
momento in cui se lo rimise sul naso la fossetta scomparve. Dal
leggerissimo riaggiustamento del suo sguardo Ofelia si accorse che aveva
notato qualcosa che si estendeva oltre lei, qualcosa che lei non vedeva.
L’uomo non le fece più fare movimenti, non commentò e tornò tra le file
degli osservatori.
“È come il monocolo di Gaela” pensò Ofelia con un sussulto di sorpresa.
I pince-nez che indossavano tutti funzionavano secondo lo stesso principio.
Ma quali misteri rivelavano? Cosa avevano scoperto su Ofelia che lei stessa
ignorava?
Thorn si rimise seduto con lentezza calcolata e non incrociò le braccia.
Anche lui aveva capito. Ofelia non ebbe bisogno di vederlo né di sentirlo
per sapere che avevano pensato la stessa cosa nello stesso momento: “Ci
servono quelle lenti”.
La donna con lo scarabeo si staccò dagli altri osservatori e con gesti
esageratamente educati invitò Ofelia a seguirla.
«Ora l’invertita viene portata nell’area di confino, sir» commentò la
ragazza con la scimmietta piegandosi verso Thorn. «È importante che i
pazienti del programma alternativo non entrino in contatto con quelli del
programma classico».
«Dovrò ispezionare anche quell’area».
La voce di Thorn era risuonata fin nella pancia di Ofelia.
«Of course, sir! Vi mostreremo tutto quello che vorrete vedere, nel
rispetto del segreto professionale in ambito sanitario».
Mentre seguiva la donna attraverso la sala lasciandosi gli osservatori alle
spalle Ofelia sentì l’impronta umida che i suoi piedi nudi lasciavano sul
marmo.
I limiti del segreto professionale in ambito sanitario...
La donna la fece uscire da un altro portone sul lato opposto al primo, al
di sopra del quale era scolpita la scritta:
ESPLORAZIONE

La porta a doppio battente dipinta di rosso e alta parecchi metri si chiuse


appena Ofelia fu passata. Dall’altra parte non c’erano risate di bambini né
genitori preoccupati. Dovette varcare altre tre porte, ognuna separata dalla
successiva da una vasta spianata.
Le venne in mente lo sconosciuto della nebbia, che già due volte aveva
fatto in modo di incrociare la sua strada. Non pensava che ci sarebbe
riuscito una terza volta lì dentro, e non sapeva se fosse una buona cosa o no.
L’avrebbe mai rivisto?
Arrivò ai piedi del colosso che aveva osservato dalla piattaforma
d’atterraggio in cima alla torre. Visto dal basso era ancora più imponente.
Senza occhiali, Ofelia trovò che sembrava una montagna. Alla base era
stato scavato un tunnel: era l’unico modo di raggiungere la parte
dell’osservatorio alla quale la statua dava le spalle.
Il mal di testa peggiorava di secondo in secondo, come se Ofelia stesse
camminando all’interno della propria scatola cranica. Non sapeva cosa le
avessero fatto, ma aveva voglia di chiudersi in una camera, tappare ogni
fessura e ogni finestra e sprofondare la faccia in un cuscino nero.
La donna con lo scarabeo le fece segno di salire su un vagoncino che
sembrava quello delle montagne russe, ma non prese posto accanto a lei.
Impugnò una leva. Subito prima di abbassarla si degnò finalmente di
abbandonare l’eterno sorriso.
«Se davvero volete capire l’altro, trovate prima il vostro».
«Come avete detto?».
Le tenebre del tunnel la inghiottirono insieme alla domanda. Contemplò
il cerchio di luce dietro di lei che rimpiccioliva man mano che il vagoncino
filava sulle rotaie. Davanti, come un’immagine al contrario, l’uscita del
tunnel passò gradualmente dalle dimensioni di una scintilla a quelle di un
sole. Tenne le mani strette a pugno in modo da non toccare niente, non tanto
per un fatto deontologico quanto per paura di farsi deconcentrare da una
lettura involontaria. Quel che aveva detto la donna era una considerazione
filosofica o parlava proprio dell’Altro? Le sarebbe piaciuto che il mal di
testa cessasse anche solo per pochi secondi, per poter riflettere. Quegli
esercizi le avevano scombinato il cervello.
Le pareti del tunnel si misero a reagire stranamente alla luce del giorno,
che all’avvicinarsi del vagoncino aumentava, aumentava e aumentava.
Cominciarono a riflettere migliaia di figure geometriche multicolori. Ofelia
capì troppo tardi che il tunnel era stato concepito come un caleidoscopio
gigante. In un attimo un’infinità di combinazioni frattali le penetrò negli
occhi. Il mal di testa si trasformò in ruggito. Chiuse gli occhi per non far
entrare più niente.
Il vagoncino rallentò, poi si fermò. Il mal di testa si fermò insieme a lui.
Ofelia riaprì gli occhi. Davanti a lei, a perdita d’occhio, si estendeva un
cantiere che vedeva nei minimi dettagli, come se avesse di nuovo gli
occhiali.
Infatti ce li aveva.
Solo che non erano i suoi.
Erano quelli di Eulalia Diyoh.
L’ATTRAZIONE

«Il cibo della mensa è disgustoso, ma vi ci abituerete. Almeno non si


muore di fame come in città. È che bisogna conoscere gli indirizzi giusti.
Siete mai stata in un vero ristorante, soldato Dio?».
Il sergente rivolge a Eulalia uno sguardo che vorrebbe essere canagliesco
senza esserlo davvero. Lei nota subito il neo leggermente tremante
all’angolo dell’occhio. È più giovane e più piccola di lui, eppure si rende
conto di intimidirlo. Spesso fa quell’effetto alle persone. Lo faceva già ai
professori.
Gli sorride indulgente.
«Volo una solta... solo una volta. E, se permettete che vi corregga, il mio
nome si pronuncia Diyoh».
Il sergente continua a camminare in silenzio facendo scricchiolare i
calcinacci sotto le suole degli stivali militari. Eulalia capisce che si sente
umiliato. Gli ha parlato come se si rivolgesse a un bambino, non a un uomo
e ancora meno a un graduato.
Stringendo il manico della valigetta Eulalia osserva il cantiere che stanno
attraversando. Nuvole di sabbia le sbattono contro gli occhiali. Le scavatrici
dell’esercito stanno trasformando quella che un tempo era stata la città
proibita dell’ultimo imperatore di Babel, e che presto sarà un osservatorio
unico nel suo genere.
Si sofferma a guardare le carcasse degli alberi millenari buttati giù.
Un’altra storia sradicata per sempre. Non si commuove. Non è attaccata al
passato: per lei conta solo il futuro che verrà riscritto su quelle rovine.
Riesce già a immaginare il mondo nuovo, palpitante sotto i suoi passi come
un cuore di bambino che aspetta di nascere. È il motivo per cui si è offerta
volontaria dopo aver dedicato l’adolescenza a prepararsi al Progetto.
È il motivo stesso della sua esistenza.
Scendono per una scala cadente. Gradino dopo gradino, i rumori del
cantiere si affievoliscono e scompaiono. La discesa è interminabile. Il
sergente non fa altro che lanciarle occhiate. Il neo gli trema sempre di più.
«L’unica sopravvissuta di tutta la famiglia, eh? Condoglianze».
«Tutti perdono qualcuno in guerra».
«Ma quelli che perdono tutti sono più rari. È per questo che siete stata
scelta?».
Storce le labbra sulla parola “questo”. Eulalia lo incuriosisce e lo
indispettisce. Altra cosa a cui lei è abituata. Si domanda cosa sappia l’uomo
del Progetto. Probabilmente non più di lei, forse meno.
«In parte, sergente».
Non se la sente di spiegargli l’altra parte, la più importante. Non l’hanno
scelta. È stata lei a fare in modo di essere scelta tra centinaia di altri orfani.
Ha sempre saputo che era chiamata a salvare il mondo.
In quella città antica l’esercito ha trovato qualcosa che la aiuterà a farlo,
qualcosa che ha il potere di mettere fine alla guerra, a tutte le guerre.
Nonostante il segreto militare, in città hanno cominciato a circolare voci, ed
Eulalia sa che sono fondate. Ha sempre pensato che l’umanità sia così
aggressiva e bellicosa non tanto per odio verso gli altri, quanto per timore
della propria fragilità. Se al mondo tutti fossero in grado di compiere
miracoli nessuno avrebbe più paura del proprio vicino.
Miracoli, ecco cosa serve a tutti quanti.
«Che avete là dentro? È roba regolamentare, almeno?».
Il sergente ha indicato la valigetta di Eulalia. Il neo all’angolo dell’occhio
si agita come un uccellino inquieto. Eulalia immagina – non fa altro – il
bambino che è stato e che è ancora, e di colpo si sente pervasa di tenerezza.
Se il sergente non fosse un suo superiore gli darebbe un buffetto sulla
guancia come faceva fino al giorno prima con i nuovi arrivati
all’orfanatrofio.
«La mia nacchera da ridere... voglio dire, la mia macchina da scrivere.
Mi hanno dato il permesso di portarla con me».
«Per stilare rapporti?».
«Per scrivere romanzi. Romanzi senza guerra».
«Ah già. Be’, una cantina è il posto giusto per trovare ispirazioni di
pace».
Eulalia si ferma sull’ultimo scalino e osserva il sottosuolo in cui sa che
passerà molto tempo. Deve ammettere di essere sconcertata. Si è sottoposta
a un addestramento intensivo sui più sofisticati apparecchi di crittoanalisi
dell’esercito.
Lì c’è soltanto un telefono.
E all’improvviso c’è la caduta al contrario, una sensazione vertiginosa e
assurda di cadere verso l’alto. Il telefono visto dal soffitto, poi la risalita
delle scale, il volo al di sopra del cantiere, della città imperiale, della città,
del continente, dell’intera terra: un pianeta rotondo, non frazionato, senza
arche né vuoto.
Il vecchio mondo.

Ofelia si tirò a sedere sul letto scossa e sudata con un grido di traverso
nella gola. Era la stessa storia a ogni risveglio, da quando aveva affrontato
lo spazzino del Memoriale. E, come ogni volta, le occorse un po’ di tempo
per riordinare le idee.
Era stata di nuovo visitata dalla memoria di Eulalia Diyoh. Anzi, più che
visitata. Le si era incarnata all’interno, nella pelle, nel nome, con un grado
di precisione e chiarezza mai raggiunto prima.
Mentre un “perché?” si andava formando nella sua testa Ofelia si rese
conto che non riconosceva il letto in cui si trovava. Era stranamente
inclinato, e quando lei cambiava posizione dondolava da una zampa
all’altra. Intorno c’erano solo cuscini di tutte le forme e colori. Anche il
pigiama che aveva addosso non le ricordava niente.
Non aveva memoria di essersi coricata lì. In realtà, non aveva proprio
memoria di essersi coricata.
Cercò gli occhiali prima di ricordarsi che l’osservatorio glieli aveva
sequestrati. Come del resto i guanti. Eppure mentre dormiva non aveva letto
né le lenzuola né i cuscini. Un brivido la percorse quando passò la mano su
tutta quella seta silenziosa. Dovette concentrarsi per far emergere
impressioni lontane, troppo vaghe per essere interpretate. Da quando il suo
potere familiare si era risvegliato non le era più capitato di entrare in
contatto con oggetti senza essere sommersa da visioni. Sollevò le mani
verso un raggio di sole che filtrava dai listelli di una persiana. Erano
pallidissime rispetto alle braccia abbronzate... Aveva l’impressione di
indossare guanti di una natura nuova.
Si aprì un varco in mezzo ai cuscini. Non fece in tempo a mettere un
piede fuori dal letto che rovesciò una pila di libri. Rimettendoli a posto si
accorse che erano tutti bianchi, senza titolo né testo. Il resto della camera
non era da meno: ai muri erano attaccate cornici vuote e orologi senza
lancette, gli interruttori non sortivano alcun effetto sulle lampadine a
soffitto, che continuavano con la loro insopportabile intermittenza, e la
radio verso la quale Ofelia si precipitò per ascoltare le notizie non le fece
neanche l’onore di uno sfrigolio.
Quanto alla porta, era chiusa a chiave.
Non leggeva quasi niente delle cose che toccava in quella stanza.
Possibile che l’osservatorio le avesse addormentato il suo potere familiare
nello spazio di una notte? L’idea la atterrì.
«Non sarà certo questo a frenarmi».
Avrebbe strappato i suoi segreti a quel luogo, con o senza l’aiuto delle
mani.
La persiana della finestra era senza maniglia. Incollò il naso contro i
listelli per guardare fuori, ma il sole la accecò. Ebbe un’altra falsa speranza
trovando in bagno una serie di specchi: erano tutti deformanti, restituivano
di Ofelia un’immagine grottesca e distorta. Per attraversare aveva bisogno
di un riflesso stabile.
Quel proliferare di roba inutile la opprimeva.
Armeggiò con il rubinetto fino a fargli tossire acqua e si lavò. Il sogno, o
meglio il ricordo, continuava ad attanagliarla dall’interno. Era un’emozione
difficile da definire, a metà strada tra la gioia e la tristezza.
Si guardò nella chiazza d’acqua che si era formata in fondo al lavandino.
Non c’era traccia dell’Altro in quel passato, nessuna allusione a un qualche
riflesso ribelle, neanche un pensierino, come se a quello stadio non facesse
ancora parte della storia.
Dovette tirare più volte la catena per azionare lo sciacquone. Se non altro
aveva avuto conferma che, dopo aver lasciato l’orfanatrofio militare,
Eulalia Diyoh era passata dall’osservatorio delle Deviazioni, anche se
all’epoca non si chiamava ancora così. Il Progetto per il quale si era offerta
volontaria doveva essere il progetto Cornucopiando citato dai Genealogisti,
ma nel ricordo Ofelia non aveva visto nessun Corno dell’abbondanza.
Solo una cantina e un telefono.
Un rumore di chiave riportò i suoi occhi miopi verso la porta, che si aprì
teatralmente su una figura femminile. Aveva la forma di una damigiana e
uno chignon smisurato sulla testa.
«Mamma?».
La parola le era uscita da sé. Solo l’istante dopo Ofelia si rese conto che
era impossibile. Quella donna non era sua madre. In realtà non era neanche
una donna. Era un automa.
Da sotto il grembiule su cui era cucita la parola “tata” giunse una voce
non umana.
«BUONGIORNO, DARLING. HAI FATTO UNA BELLA NANNA-NANNA?».
Ofelia non aveva mai visto un modello come quello. Aveva una faccia
con occhi spalancati, naso all’insù e bocca distorta da un sorriso eccessivo.
Il corpo era quello di una bambola articolata. Le avevano messo addosso un
vestito dalla gonna ampia e una parrucca biondo-rossiccia che precipitarono
Ofelia nella confusione. Dopo il pezzo del museo di Anima, non poteva più
trattarsi di una coincidenza: all’osservatorio sapevano chi era e da dove
veniva, e se ne servivano per spiazzarla.
«Che ore sono? Che è successo dopo il tunnel? Ho fatto tutta una dormita
da ieri?».
L’automa le sbottonò il pigiama senza chiederle il permesso e senza
rispondere alle sue domande.
«SARÒ LA TUA TATA PER TUTTO-TUTTO IL TUO SOGGIORNO QUI, DARLING. MI
PRENDERÒ CURA DI TE. VESTIAMOTI IN FRETTA, CI ASPETTA UNA GRANDE

GIORNATA!».

«Mi vesto da sola».


Una balia era l’ultima cosa al mondo che desiderava avere tra i piedi. La
sua contrarietà crebbe quando si mise i vestiti. Fino al giorno prima non
poteva sfiorarli senza risalire nel tempo suo malgrado. Quella mattina erano
praticamente illeggibili.
Mentre Ofelia si infilava i larghi pantaloni la tata-automa le spazzolò i
capelli con un tale accanimento che finirono per sprigionare una nuvola di
elettricità. Neanche per un attimo pensò a procurarle un paio di scarpe, così
Ofelia dovette avviarsi scalza in un grande corridoio pieno di oggetti, se
possibile più ancora di quanti ce n’erano nella stanza: tutti i vasi, i mobili e
le stoviglie esposte avevano difetti di fabbricazione che li avrebbero resi
inservibili se fossero stati usati per qualcosa di diverso dall’arredare.
Lungo il corridoio altre porte si aprivano su altre camere da cui uscivano
altre figure insonnolite. Per quel poco che gli occhi le permettevano di
vedere, si trattava di uomini e donne di tutte le età e di tutti i colori di pelle,
ognuno scortato da una tata-automa vestita in maniera diversa. Tutti
indossavano gli stessi abiti che lasciavano scoperti braccia e polpacci e tutti
avevano il segno scuro di un tatuaggio sulla spalla.
Erano quindi invertiti? Alcuni presentavano deformità evidenti, altri no.
Saranno stati una quindicina in tutto. Nessuno rispose al saluto di Ofelia. In
realtà nessuno parlava con nessuno.
Seguì il flusso scendendo una scala ingombra di scatole di cartone. Il
luogo sembrava un enorme ripostiglio. Infastidita, vide che la tata-automa
non si scollava da lei. Scoprire i segreti del progetto Cornucopiando con
una scorta del genere non si annunciava affatto facile.
Arrivata al pianterreno cercò la cantina col telefono che aveva sognato,
ma al suo posto trovò un refettorio al centro del quale troneggiava un
gigantesco buffet con una profusione di dolci, spezie, creme, tortini,
biscotti, crêpes, frittelle, lokum, marmellate e tanto altro.
Troppo, sfacciatamente troppo per così pochi ospiti.
Il cuore cominciò a girarle come una trottola. Vide sotto una luce nuova
la sovrabbondanza di oggetti che regnava nella residenza. Il Corno
dell’abbondanza, che fino a quel momento era stato solo una vecchia
leggenda un po’ astratta, di colpo le parve molto concreto. Era lì da qualche
parte, sotto il suo naso, con le sembianze di una ciotola o di un piatto?
Certamente no. L’osservatorio l’aveva nascosto al riparo dagli sguardi, il
che non impedì a Ofelia di sentirsi vicinissima a ciò che era venuta a
cercare.
Affamata, dette un morso a un dolcetto. Per poco non lo sputò: faceva
schifo. Ebbe la stessa reazione con tutte le altre cose che assaggiò. C’era un
contrasto netto tra l’aspetto appetitoso del cibo e il suo sapore disgustoso.
Perfino il tè si rivelò a stento bevibile.
Quel buffet rispecchiava tutta la residenza. La delusione di Ofelia fu
inversamente proporzionale alla sua eccitazione. Il Corno dell’abbondanza
non era dunque altro che un eccesso di materia fallata? In che modo lei e
Thorn avrebbero potuto servirsene per contrastare Eulalia, l’Altro e i crolli?
Nel refettorio gli invertiti masticavano in silenzio, ognuno nel suo
angolo. Ofelia non riusciva a mandare giù niente.
Sollevò un sopracciglio quando una grossa brioche rotolò sulla tovaglia
fino a lei. Il regalo proveniva da un giovane che stava dall’altra parte del
tavolo, abbastanza vicino da permettere a Ofelia di vederne gli occhi a
mandorla, gli ampi zigomi rubicondi e il sorriso in tralice che rivelava denti
bianchissimi. Era il primo paziente di cui incrociava lo sguardo. Si chiese in
cosa consistesse la sua inversione, visto che sembrava del tutto normale.
Era pur vero che neanche la sua si coglieva a prima vista. Blasius le aveva
detto che esistevano inversioni di tutti i tipi: inversioni fisiche, mentali e dei
poteri.
Thorn le avrebbe sconsigliato di toccare il regalo di uno sconosciuto, ma
quale cibo era affidabile in quel luogo? Dette un morso alla brioche e la
trovò mangiabile.
«Grazie».
Il giovane si portò un dito alla bocca per invitarla al silenzio, poi le
indicò le tate-automa mimando con l’indice la rotazione di un disco. I
manichini erano dotati di un sistema fonografico. Se Ofelia non poteva fare
domande senza correre il rischio di essere registrata, condurre l’indagine
sarebbe stato davvero arduo.
Risuonò un gong.
«È L’ORA, DARLINGS!» annunciarono in coro le tate-automa.
Tutti attraversarono una porta per entrare in un chiostro. Anche lì il
passaggio era intralciato da scatole piene zeppe di oggetti. Le colonne color
sabbia erose dai secoli risalivano certamente all’epoca della città imperiale.
Ofelia le sfiorò con le dita senza riuscire ad addentrarsi nella loro storia.
Priva di occhiali, le era difficile scorgere l’immenso cortile che si
sviluppava oltre l’ombra merlettata degli archi. Non ricordava un giardino,
quanto semmai strutture industriali. Quella era dunque l’area di confino.
Un silenzio tetro regnava tra gli invertiti. Le tate-automa stavano attente
che ognuno si tenesse a distanza dagli altri. La loro fila incrociò una
processione di individui in saio grigio con la testa nascosta dal cappuccio.
Non sembravano automi né invertiti. Uno di loro si voltò con discrezione
quando passò Ofelia, ma non le rivolse la parola e continuò per la sua
strada.
Dopo una sfilza di gallerie e scatole di cartone gli invertiti furono fatti
scendere nel grande cortile interno già bruciato dal sole. Ofelia riuscì
finalmente a vedere meglio le strutture industriali: giostre arrugginite,
bancarelle vuote, una ruota panoramica bloccata e, ovunque, mucchi di
detriti. Era un ex parco dei divertimenti? Consisteva in quello il programma
alternativo?
Aveva la sgradevole impressione di allontanarsi da ciò che aveva
intravisto in sogno.
La fecero entrare sotto un tendone in penombra dove l’aria era
irrespirabile. Varie sedie traballanti erano di fronte a uno schermo su cui un
fascio di luce polverosa proiettava immagini spezzettate. Al centro, un
giradischi diffondeva una musica lamentosa e discordante.
Ogni invertito prese posto lontano dagli altri. Ofelia fu fatta sedere in
prima fila. Il giovane della brioche si mise a due sedie da lei.
Le tate-automa si erano appostate all’entrata del tendone per aspettare la
fine della proiezione. Ofelia si augurò che la cosa non durasse molto. Figure
geometriche si componevano e scomponevano senza sosta sullo schermo
facendole venire male alla testa e al cuore.
«Non fissarle».
Il mormorio era arrivato dal giovane della brioche. Braccia e gambe
incrociate, stava seduto con noncuranza al suo posto con la testa sollevata
verso lo schermo, ma i suoi occhi a mandorla guardavano verso Ofelia e nel
buio del tendone scintillavano di curiosità.
«Non fissare neanche me. Fai come faccio io. Fai finta».
Ofelia alzò gli occhi verso lo schermo senza davvero guardarlo. Con la
cacofonia del giradischi e le tate-automa lontane potevano finalmente
parlare.
«Io mi chiamo Cosmos».
A Ofelia piaceva il suono della sua voce, il leggero accento orientale, la
venatura d’ironia. Ascoltandolo sentì di nuovo un nodo alla gola, la stessa
cosa che aveva provato Eulalia Diyoh di fronte al sergente dal neo tremulo.
Ma cos’era?
«È tanto che sei in questo programma, Cosmos?».
«Abbastanza da consigliarti di non fissare lo schermo. Ogni giorno
cominciano con la proiezione, per metterci nella condizione giusta, come il
tonno giulivo... voglio dire, come il tunnel d’arrivo. Pare che tu sia svenuta,
è vero? Non sei la prima. Io ho vomitato».
Ofelia contrasse le dita dei piedi sul tappeto cercando, senza trovarla, una
superficie riflettente a portata di mano.
«E poi?» domandò. «Cos’hanno in serbo per noi?».
«Esami. Colloqui. Laboratori. Capirai presto. Anzi, non capirai un bel
niente. A tutti manca una rotella, qui. Tu hai l’aria di una persona sensata.
Sei come me».
Dietro di loro ci fu un colpo di tosse. Sbirciando da sopra la spalla, oltre
le file di sedie e il proiettore, Ofelia vide alcune figure in saio grigio in
fondo al tendone.
«Non li guardare» le bisbigliò Cosmos. «Sono i collaboratori. Reclutati
dall’osservatorio per stufarci... per studiarci».
Ofelia fece un profondo respiro. Un lapsus poteva essere una
coincidenza, due la invitavano alla prudenza. Le sarebbe servito uno
specchietto per controllare se quel giovane era effettivamente chi sosteneva
di essere. Appena il pensiero le attraversò la mente Cosmos cambiò posto e
andò a mettersi una sedia più lontano.
«All’improvviso hai diffidato di me. Perché?».
La sua voce, che Ofelia sentiva con più difficoltà a causa della distanza e
della musica, aveva perso ogni traccia di cordialità. L’uomo era un
Empatico, o almeno ne aveva l’aspetto. Il suo potere familiare gli
permetteva di percepire, in una certa misura, tutto ciò che emanava da
Ofelia.
Decise di parlargli con franchezza.
«Ti esprimi come una persona che conosco. E non è una persona amica».
Cosmos non poté evitare di guardarla stupito, cosa che provocò un altro
stizzito colpetto di tosse nelle retrovie.
«Ti riferisci agli orrori... agli errori? Li faccio da quando sono qui. In
questo posto non guariscono niente, ci danneggiano ancora di più. Ci
distruggono l’eloquio e il movimento. Prima o poi te ne accorgerai».
Le dita dei piedi di Ofelia si decontrassero. Forse i lapsus di Eulalia
Diyoh erano la conseguenza di ciò che aveva subìto nell’ambito del
progetto Cornucopiando. Era per quello che lei stessa aveva problemi a
leggere? Passare in quello strano tunnel era bastato a rendere analfabete le
sue mani?
Cosmos abbassò ancora la voce fino a renderla appena percepibile.
«A meno che non scappiamo prima. Da solo è impossibile, ma se ci
alleiamo udremo una penalità... avremo una possibilità».
«Mi sono offerta volontaria. Non ho nessuna intenzione di scappare».
«Se non scappiamo, miss, ci faranno sparire».
«Sparire come?».
«Ci sono tre protocolli. Qui siamo nel primo. Non so dove vadano a
finire quelli che vengono trasferiti al secondo protocollo, certe volte li
vediamo da lontano. Ma appena versano trame miti... voglio dire, appena
vengono trasferiti al terzo protocollo non se ne sente più parlare».
Ofelia ripensò a quel che le aveva detto Blasius sul furgone.
«Forse vengono soltanto rimandati a casa».
«Non tutti abbiamo la fortuna di avere una casa» ribatté Cosmos. «Per
quanto mi riguarda non ho nessuno che mi aspetti là fuori. E tu» aggiunse
con una punta di malizia, «scommetto che sei qui perché non hai dove
andare».
Un gong risuonò in lontananza mettendo fine alla proiezione e alla loro
conversazione.
«L’osservatorio delle Deviazioni ha una propria necropoli» mormorò
Cosmos alzandosi. «Non so te, ma io non ho nessuna voglia di andarci a
finire».
Su quelle parole tornò dalla tata-automa. Ofelia fu condotta dalla sua in
una tenda individuale più piccola del tendone, dove alcuni collaboratori le
fecero fare una quantità di gesti assurdi: piegare il gomito, chiudere un
occhio, avanzare a piè zoppo, ruotare il capo e così via fino a farle girare la
testa. Nessuno di loro si fece mai vedere in faccia né le rivolse la parola.
Ofelia si domandò se sotto il cappuccio portassero pince-nez con le lenti
scure.
Poi la fecero sedere nel buio di una cabina fotografica. Fu così abbagliata
dai flash che la tata-automa dovette prenderle le spalle per guidarla alla
tappa successiva del protocollo, che si svolgeva sulla piattaforma di una
giostra a vapore come Ofelia non aveva mai visto. Invece dei sedili c’erano
cavalletti da pittura. Ogni invertito stava in piedi di fronte a un cavalletto.
Appena Ofelia prese posto davanti al suo la giostra cominciò a girare.
«La sinistra!».
Alcuni si misero a scrivere, altri a disegnare, ma tutti con la mano
sinistra.
«La destra!».
Con lo stesso gesto gli invertiti cambiarono mano. La giostra si mise a
girare in senso opposto con atroci cigolii. Una donna vomitò la colazione.
Cosmos aveva ragione, in quel luogo non avevano tutte le rotelle a posto.
Guardò la pagina bianca senza sapere bene che fare. In realtà non
riusciva a togliersi dalla testa la conversazione avuta sotto il tendone. Le
parole di Cosmos l’avevano preoccupata. Non aveva paura per sé, almeno
non ancora. Aveva paura per Thorn. I Genealogisti erano i Lord più potenti
di Babel, eppure non erano riusciti a proteggere il loro informatore, che
forse era finito nel terzo protocollo. Ofelia sapeva che il miglior modo di
aiutare Thorn era essere i suoi occhi e le sue orecchie nelle zone
dell’osservatorio che non gli avrebbero permesso di ispezionare, ma
avrebbe comunque voluto metterlo in guardia.
Sussultò quando la tata-automa le dette una sculacciata.
«NON SCENDERAI DALLA GIOSTRA FINCHÉ-FINCHÉ NON AVRAI FATTO I COMPITI
PER BENE, DARLING».

Ofelia osservò i pazienti più vicini. Un vecchio smetteva continuamente


di scrivere per colpirsi un orecchio mormorando «bisogna salire in basso...
bisogna salire in basso...». Benché miope, Ofelia ne vedeva le occhiaie,
nere come l’inchiostro di cui si macchiava il viso.
Le fece pena.
Poi si voltò dall’altra parte e provò ancora più pena vedendo il profilo di
una ragazza giovanissima impegnata a colorare. Aveva le guance
punteggiate da brufoli di un inizio di pubertà. Ofelia non l’aveva vista alla
residenza. Curiosamente, di tutti gli invertiti presenti sulla giostra era
l’unica a non avere una tata-automa. In compenso era studiata da vicino da
una squadra di collaboratori.
«I COMPITI, DARLING» ripeté la tata-automa.
Ofelia prese una matita storta, illeggibile come tutto quello che aveva
toccato da quando si era svegliata, e scrisse più volte la stessa frase: Ma
quel pozzo non era più vero di un coniglio di Odino. Continuava a non
avere la minima idea di cosa significasse, ma almeno si sarebbe risparmiata
l’umiliazione della sculacciata pubblica su una giostra a vapore. Le
rotazioni, un po’ in un senso e un po’ nell’altro, trasformavano le sue parole
in poltiglia.
Non poteva fare a meno di lanciare sguardi furtivi al profilo della ragazza
accanto a lei. Più Ofelia le dedicava attenzione, più la strana impressione
che le aveva lasciato il sogno tornava a galla. Era una sensazione dolce-
amara, che le piaceva e le faceva anche male. Ma cos’era?
Quando in lontananza risuonò il gong la giostra si fermò. La ragazza si
diresse subito da Ofelia con un gran sorriso e il disegno stretto al petto.
Vista di faccia, con i capelli dietro le orecchie, rivelava tutta la sua
peculiarità. Il viso era completamente asimmetrico. Orecchie, sopracciglia,
naso, denti, addirittura i contorni della fronte e della mascella: niente
andava d’accordo, come se avessero preso le metà di due persone diverse e
le avessero messe insieme. Un occhio era privo di iride e si posava su
Ofelia con un biancore opprimente.
Una catenella d’oro collegava l’arcata sopraccigliare alla narice.
«È Seconda» mormorò Ofelia.
La sorella di Octavio. La figlia di lady Septima. Nessuna delle due metà
del viso somigliava a loro. Se non ci fosse stata la catenella sarebbe stato
impossibile individuare un legame di parentela fra quei tre.
«La beccata combatte il fieno».
«Eh?».
Ofelia non aveva capito niente. Seconda aggrottò le sopracciglia
disuguali e assunse un’aria insistente.
«Gravita dal ferro e impicca le montagne».
Ofelia scosse la testa sempre più confusa. Quelle frasi erano più
incomprensibili dei lapsus. Seconda sospirò, dette il disegno a Ofelia e
balzò giù dalla giostra.
Era un disegno strano ma ben fatto, accurato fin nei minimi particolari,
come se le scosse della giostra non avessero influito sulla fermezza della
sua mano. Raffigurava un ragazzo che somigliava molto a Octavio e
piangeva in mezzo a fogli di carta spezzettati.
Tutti i collaboratori si fecero intorno a Ofelia per toglierle il disegno,
passarselo di mano in mano e prendere alacremente appunti. Lei non ci fece
caso. Aveva appena capito la natura della sensazione che le comprimeva la
pancia da quando si era svegliata. Era ciò che Eulalia Diyoh aveva sentito
per il sergente e per gli orfani, e che molto più tardi avrebbe sentito per gli
spiriti di famiglia: un’emozione viscerale che aveva impregnato ogni fibra
di Ofelia.
L’istinto materno.
COMUNIONE

In cielo le nuvole si sfilacciavano come lana. Vittoria aveva la sensazione


di essere fatta della stessa materia. Non sentiva il vento che faceva fremere
l’erba né il profumo degli aranci. Non pesava niente, non aveva più forma.
Sprofondava nella vasca da bagno. Il peso dell’Altra Vittoria, che tanto
spesso l’aveva fatta innervosire, le mancava. Certo, la sua mente infantile
non poteva assegnare a quei pensieri parole tanto complicate.
«Trovi sereno questo mondo, bambina?».
Vittoria si girò verso il Falso Omone Tutto Rosso. Era seduto accanto a
lei, ma il suono della sua voce era lontano come quello del fiume sulla riva
del quale si erano fermati.
«La pace ha un prezzo. Se la mano destra ti crea ostacolo, tagliatela e
tirala lontano. È quello che ho fatto io. Quando cambiamo noi stessi,
bambina, cambiamo tutto l’universo. Ciò che è fuori è come ciocche al
vento... è come ciò che è dentro».
Prese un sasso da terra, lo lanciò con un movimento goffo e indicò a
Vittoria i cerchi che si formavano nell’acqua.
«Ecco chi sei».
Gli occhi del Falso Omone Tutto Rosso cercarono Vittoria sotto gli
aranci, ma non riuscirono a soffermarsi stabilmente su di lei. Vittoria aveva
bisogno di lui. O meglio, aveva bisogno di sentirsi esistere grazie a lui.
Finché lui fosse stato consapevole della sua presenza lei avrebbe potuto
mantenersi sulla superficie della vasca da bagno. Il grande vortice dell’altra
volta l’aveva terrorizzata. Che avrebbe fatto se lui avesse cercato di nuovo
di portarla via?
«Probabilmente sei troppo giovane per capire quello che sto per dirti, ma
devo dirtelo proprio perché sei troppo giovane. L’uso che fai del tuo potere
è coliperoso... pericoloso. Ogni lacerazione peggiora la lacerazione del
mondo».
Il Falso Omone Tutto Rosso accarezzò con la grossa mano muscolosa la
folla di ombre che si mischiavano a quelle degli aranci tutto intorno.
Vittoria aveva imparato a non averne più paura, anche se continuava a non
avvicinarsi troppo.
«Possiedo anche un altro me. Gli ho passato le gioie, i dolori, le
esperienze e i desideri, tutte contraddizioni che mi erano d’ostacolo. Più gli
davo, più l’Altro mi dava. E più voleva. Voleva sempre di più. Alla fine ho
dovuto rinunciare a lui, nell’interesse del mondo».
Gli occhi del Falso Omone Tutto Rosso si fermarono su Vittoria come se
finalmente l’avessero individuata in mezzo alle farfalle. Occhi pieni di
vuoto. Una parte della bambina sentiva che anche lui aveva un po’ bisogno
di lei.
«Prendi l’altra te, quella che è rimasta al Polo a casa dei tuoi genitori:
anche lei ha rinunciato a te. Tu sei quella che la ospedalava... che la
ostacolava. Di certo non capisci quello che sto cercando di spiegarti, ma è
importante. L’altra non è lei, sei tu».
No, Vittoria non capiva. Eppure cominciò a provare una tristezza che non
riusciva a esprimere piangendo o strillando.
«Non ho niente contro di te e non posso fare niente per te» disse ancora il
Falso Omone Tutto Rosso rimettendosi pesantemente in piedi. «Finché ti
limiti a rimanere ombra fra le ombre rappresenti un problema solo per te
stessa. Il vero pericolo comincia quando un riflesso lascia il suo specchio e,
rimanendo nascosto, distrugge ciò che è stato costruito nei secoli».
Con ridicole contorsioni il Falso Omone Tutto Rosso si liberò dei rametti
attaccati ai vestiti. L’acqua del fiume rifletteva tutto il paesaggio circostante
tranne lui e Vittoria.
«Questo corpo da senza-poteri è limitato, ma pazienza... Di tutti i miei
figli, Janus è sempre stato il più imprevedibile e il meno collaborativo. Se
mi trova sulla sua arca prima che io trovi i suoi Orientatori bisognerà
ricominciare tutto daccapo, e io non ne ho più il tempo. Non dobbiamo
precipitare le cose, bambina. A un certo punto ci sarà una breccia. C’è
ventre una treccia... c’è sempre una breccia».
A un suo cenno d’invito, Vittoria seguì il Falso Omone Tutto Rosso tra
gli aranci. Quando erano soli si spostava con un passo bizzarro, come se gli
venisse più naturale torcere le gambe, ma appena aprì il cancello del solito
giardinetto pubblico si sforzò di camminare normalmente. Per Vittoria era
una vera tortura vedere tutti quei tornelli e cavalli a dondolo senza poterci
giocare. Non c’erano mai bambini, lì. Una volta ne aveva visti alcuni che
ridevano da lontano, ma appena il Falso Omone Tutto Rosso era arrivato al
cancello erano spariti.
La Signora dagli Occhi Strani era seduta su un’altalena e, a forza di
strusciare le scarpe nella sabbia, aveva finito per scavare un profondo solco.
La luce obliqua del sole al tramonto faceva sembrare i suoi capelli neri
quasi biondi. Si aggrappava alle catene di sostegno osservando Salame che
andava e veniva senza sosta tra i suoi polpacci miagolando, ma il gatto si
allontanò di corsa appena il Falso Omone Tutto Rosso andò a sedersi
sull’altalena accanto. A Salame piacevano poco il Falso Omone Tutto
Rosso e Vittoria.
Quanto alla Signora dagli Occhi Strani, sollevò appena la testa.
«Scoperto qualcosa?».
«Niente».
Vittoria aveva notato che il Falso Omone Tutto Rosso parlava pochissimo
quando smettevano di essere soli. Notò pure che, a forza di mordersele, la
Signora dagli Occhi Strani si era rovinata tutte le labbra.
«Neanche io. Muri senza porte e giardini deserti ovunque vada, come se
tutta l’architettura di Terra d’Arco si fosse ripiegata all’interno di se stessa.
Il mio nichilismo non vale una cicca qui. Ti pare un talento riuscire ad
annullare soltanto i poteri familiari dei discendenti di Faruk?».
La voce della Signora dagli Occhi Strani si era fatta talmente grave che
sembrò soffocarla dall’interno. Vittoria l’aveva spesso vista arrabbiata, ma
non fino a quel punto. Contraeva le dita intorno alle catene dell’altalena
curvandosi ancora di più, tanto da rivelare le radici dei capelli: non era un
effetto della luce, stavano rinascendo biondi. Il Falso Omone Tutto Rosso
rimase zitto.
Sorpresa, Vittoria vide la Signora dagli Occhi Strani mettersi a ridere.
«Si mette male! Se non possiamo lasciare quest’arca né avere a che fare
con gli Arcadiani temo che resterò presto a corto di sigarette».
Il cancello del giardinetto cigolò quando arrivò Padrino fischiettando
pimpante. Vittoria gli corse incontro. Anche se non la vedeva, anche se non
riusciva a cogliere il suo sorriso, Padrino la faceva sentire meno triste. Ogni
mattina si separavano e ogni sera si ritrovavano in quel giardinetto in cui
passavano la notte. Sembrava un gioco in cui nessuno vinceva e nessuno
perdeva.
«Allora, ex ambasciatore?» grugnì la Signora dagli Occhi Strani.
«Qualcosa si muove?».
Padrino prese col piede un pallone abbandonato sulla sabbia e si mise a
palleggiare con destrezza.
«Forse».
«Forse?».
L’unica risposta furono i rimbalzi del pallone sul piede di Padrino. La
Signora dagli Occhi Strani si alzò di scatto facendo tremare tutta la struttura
dell’altalena.
«In attesa che il forse diventi un sì vado a espletare un bisogno naturale».
Si diresse verso una piccola costruzione piastrellata in fondo al
giardinetto. Vittoria sapeva che erano i bagni. Una volta, per curiosità, ci
era andata seguendo Padrino. Non aveva più ripetuto l’esperienza.
L’ultimo rimbalzo spedì il pallone così in alto che non scese più: era
rimasto impigliato nei rami di un albero. Padrino guardò le foglie che
venivano giù volteggiando alla luce del tramonto. Ne prese una al volo e se
la rigirò affascinato tra le dita, come se attraverso le sue nervature cercasse
di decifrare i misteri dell’universo. Vittoria adorava il modo che aveva
Padrino di osservare ogni cosa nei minimi dettagli, di toccare tutto quello
che era alla sua portata, di assaggiare tutto quello che poteva essere messo
in bocca. Era un po’ come se percepisse il mondo al posto suo.
«Non sono certo un esperto in monogamia» dichiarò dopo un po’, «ma so
riconoscere una donna sola quando ne vedo una».
Sempre seduto sull’altalena, il Falso Omone Tutto Rosso dette
un’occhiata ai bagni in fondo ai giardinetti. Il sole, sempre più basso,
allungava tutte le ombre meno quelle aggrovigliate come rovi sotto le sue
scarpe.
«Ci parlerò».
«E se invece parlassimo noi?» propose Padrino. «Una conversazione da
uomo a uomo».
Col suo sorriso di sempre si chinò sul Falso Omone Tutto Rosso che
lentamente, molto lentamente, sollevò le folte sopracciglia. Padrino aveva
lo stesso sguardo con cui un attimo prima aveva guardato la foglia
dell’albero. Un’ombra che Vittoria non aveva ancora mai visto gli uscì dagli
occhi – come facevano occhi così chiari a produrre un’oscurità del genere?
– ed entrò in quelli del Falso Omone Tutto Rosso.
«O dovrei dire da uomo a dio?» mormorò Padrino.
Vittoria era affascinata, impaurita ed eccitata. Erano troppe cose tutte
insieme, e non aveva le parole per descriverle. L’ombra di Padrino
continuava a fuoriuscire e avvolgeva ormai il corpo, ben più massiccio del
suo, del Falso Omone Tutto Rosso, che si era fatto prendere in quella
trappola nera senza accennare la minima resistenza. Le oscillazioni
dell’altalena cessarono poco a poco. Il Falso Omone Tutto Rosso aprì la
bocca, ma non ne uscì alcun suono. Più niente sembrava esistere per lui al
difuori degli occhi implacabili di Padrino che si chinava sempre più sulla
sua faccia, fino a mischiare l’oro e il rosso fuoco dei loro capelli.
«Che effetto fa? Che si prova quando si possiedono migliaia di identità e
si annega nella coscienza di un solo uomo?».
La voce di Padrino era morbida come seta, tuttavia Vittoria sentì nei suoi
confronti un rispettoso timore del tutto nuovo.
Allora successe una cosa strabiliante. La faccia del Falso Omone Tutto
Rosso si ammorbidì e cambiò forma come se fosse fatta di plastilina. I
lineamenti si assottigliarono, i capelli si schiarirono e nel giro di pochi
secondi diventò come Padrino. Aveva la sua bellezza, la sua barba non
rasata, il cappello sfondato, perfino la lacrima nera sulla fronte. Aveva i
suoi occhi, e con un solo sguardo proiettò su Padrino tutte le ombre che gli
sbucarono da sotto i piedi come innumerevoli tentacoli.
«E tu, ragazzo mio, rosa covi... cosa provi?».
Vittoria ebbe un primo shock vedendo Padrino crollare al suolo e un altro
quando la Signora dagli Occhi Strani si scagliò sul Falso Padrino facendolo
cadere dall’altalena, gli montò sopra armata di una chiave inglese e si mise
a colpirlo con furia.
«Davvero credevi che ci fossimo cascati, giunto di culatta?» urlò. «Che
ne hai fatto di Renard?».
Spaventata, Vittoria vide che il cranio del Falso Padrino si deformava
sotto i colpi di chiave inglese e si riformava subito.
«Hai finito, figlia mia?» domandò in tono stanco. «Ti sei sfogata?».
«Non. Sono. Tua. Figlia!» urlò la Signora dagli Occhi Strani colpendo
con forza tra una parola e l’altra. «Dio o no. Ti smonterò. Pezzo a pezzo!».
«Non sarà necessario» intervenne una voce. Era l’uomo-donna della
volta scorsa. Vittoria si rese conto che stava in mezzo ai giardinetti, poi che
non c’erano più i giardinetti. Tutti si trovavano all’interno di una sala
vastissima ancora più arredata del salottino di Mamma.
Steso su un tappeto, Padrino si sollevò sui gomiti. Il suo primo gesto fu
per il cappello, caduto con lui.
«Meno male che vi abbiamo aspettato, don Janus. Cominciavo a temere
che non aveste ricevuto il mio messaggio».
«E quale sarebbe il tuo messaggio, niño? Bussare sui muri di tutte le case
ripetendo “Dio è qui”? Ti facevo più scaltro. Devo comunque ammettere
che hai onorato la tua parte dell’accordo. Mi hai dimostrato che anche Terra
d’Arco è coinvolta nelle vostre beghe».
L’uomo-donna fece segno alla Signora dagli Occhi Strani di allontanarsi
e piegò il gigantesco corpo verso il Falso Padrino.
«Señora Diyoh. È un pezzo che non ci vediamo».
Il Falso Padrino cambiò forma fino a ridiventare la Piccola Signora con
gli Occhiali che Vittoria aveva brevemente visto sul ponte tra un Falso
Omone Tutto Rosso e l’altro. Aveva un’aria fragile e minuscola di fronte
all’uomo-donna, ma non sembrava affatto intimidita.
«Preventivo la revoca... preferivo l’epoca in cui mi chiamavi madre».
«Una madre capace di riprodurre in maniera identica chiunque incontri,
ma non le proprie creature. È piuttosto ironico».
La Piccola Signora con gli Occhiali allungò una mano verso l’uomo-
donna che la sovrastava, ma lui scomparve per riapparire all’altra estremità
del tappeto.
«Spero che mi capirete se non permetto che vi avviciniate troppo a me e
al mio Libro, señora Diyoh, ma sapete com’è, ho preso gusto all’integrità
della mia memoria».
Padrino cercò invano di rimettersi in piedi. Aveva ancora un mezzo
sorriso sulle labbra, ma Vittoria vide che tremava. Vide anche che scrutava
la Piccola Signora con gli Occhiali con curiosità divertita.
«Che ne facciamo, don Janus?».
L’uomo-donna si arrotolò la spirale di un baffo intorno a un dito.
«Niente».
«Come, niente?» sibilò la Signora dagli Occhi Strani stringendo in pugno
la chiave inglese.
«Niente» ripeté l’uomo-donna. «Vi trovate in un non-luogo di mia
fabbricazione. Neanche il più talentuoso degli Arcadiani riuscirebbe ad
andarsene da qui se io non voglio. Vale anche per la señora Diyoh, per
quanto potente sia. Mi ero già impegnato a – com’erano le vostre parole? –
a “rimetterla al suo posto”. Consideratela cosa fatta. Avete dimostrato che la
mia arca è coinvolta nei vostri affari, ma lo è per colpa vostra. Siete stati voi
a portare la señora Diyoh da me. Voi quindi le terrete compagnia qui e la
pianterete di alterare le regole del mondo».
«Janus, dammi un Arcadiano».
La Piccola Signora con gli Occhiali si rimandò indietro i capelli bruni
che le ricaddero fino alla vita.
«Dammi un Orientatore».
Una volta Vittoria aveva sentito Mamma usare quel tono. Le si era rotta
una collana, e una pioggia di perle si era riversata in salotto. Come
brillavano! Più appetitose di tutte le caramelle del barattolo. Vittoria aveva
strisciato sotto la poltrona e se n’era messa una in bocca, curiosa di sentire
che sapore avesse. Allora Mamma si era inginocchiata con un rapido
fruscio del vestito, aveva teso la mano aperta e nell’azzurro dei suoi occhi
Vittoria aveva sorpreso un temporale che l’aveva spaventata: «Dammela».
Come la Piccola Signora con gli Occhiali in quel momento.
I baffi dell’uomo-donna si sollevarono in un sorriso.
«C’è stato un tempo in cui non avrei potuto fare altro che ubbidirvi,
señora Diyoh. Vi bastava esigere perché i miei fratelli e sorelle cedessero
alle vostre richieste su tutta la linea. Quel tempo è finito. Ha smesso di
esistere da quando voi avete smesso di essere voi stessa».
La Piccola Signora con gli Occhiali aggrottò le sopracciglia.
«Stai sbagliando nemico, Janus. Tutti quanti state sbagliando nemico.
Non sono io a far saltare le regole del mondo, è l’Altro. Se non mi aiutate in
fretta a trovarlo e fermarlo sarà groppo guardi... sarà troppo tardi».
L’uomo-donna emise un sospiro che gli fece tremare la gorgiera.
«I secoli passano, ma è sempre lo stesso ritornello. E la mia risposta sarà
sempre la stessa: no, non siete autorizzata ad avvicinarvi ai miei Arcadiani e
assimilare i loro poteri. Non siete degna del talento di cui voi stessa mi
avete dotato. Se ne foste stata degna lo avreste già. Non offendetevi, señora
Diyoh, ma l’Altro esiste solo nella vostra incontrollabile immaginazione.
Spero almeno che la suddetta immaginazione vi serva a trovare le serate nel
mio non-luogo meno lunghe».
A quelle parole l’uomo-donna scomparve lasciando un grande vuoto sul
tappeto su cui Salame si stava già affilando le unghie. Vittoria guardò la
Signora dagli Occhi Strani che guardò la Piccola Signora con gli Occhiali
che guardò Padrino.
«Va bene» disse lui, sempre steso a terra. «Ammetto che questa non
l’avevo prevista».
LA DEVIAZIONE

Ofelia dormiva male. Le sue notti si erano ridotte a una sonnolenza


agitata in cui si mischiavano vecchio e nuovo mondo. Si svegliava sempre
di soprassalto abbagliata dalle lampadine che si accendevano e si
spegnevano, in preda a una paura indefinita, come se ci fosse ancora un
vecchio spazzino a spaventarla per tenerla lontana dai segreti di Eulalia
Diyoh. Quando non aveva gli incubi erano i suoi pensieri a girare come la
centrifuga di una lavatrice, e il letto sbilenco non aiutava certo a ragionare
dritto.
Era più che mai ossessionata dall’Altro.
L’Altro aveva provocato la morte di migliaia di individui senza mai
uscire dall’ombra, ma ad assillarla era soprattutto ciò che aveva ucciso in
lei. Avere o non avere figli era una decisione che sarebbe spettata a lei e a
Thorn. L’Altro l’aveva caricata di una memoria che lei non aveva voluto
privandola al contempo della sua primissima scelta da adulta. Ofelia non
era neanche più sicura dei propri sentimenti: la delusione che provava era
sua o era quella che Eulalia Diyoh avrebbe provato nella sua situazione?
Ogni volta che vedeva il suo riflesso distorto negli specchi deformanti del
bagno pensava alla notte lontana in cui aveva liberato l’Altro senza volerlo.
Proprio senza volerlo? Cercava con tutte le sue forze di ricordare l’elemento
scatenante. Rivedeva camera sua su Anima, lo specchio a muro, se stessa in
camicia da notte. Le sembrava di rivedere quella presenza appena
percepibile dietro la propria immagine.
Liberami.
Doveva per forza esserci qualcos’altro. Per quanto giovane, Ofelia non
avrebbe mai ceduto senza motivo al capriccio di un riflesso estraneo. Non
poteva aver deciso lei, con un colpo di testa, che la cosa migliore da fare era
attraversare lo specchio per aprirgli la strada. E di nuovo, cos’era successo
dopo, mentre lei era incastrata tra camera sua e casa della prozia? Che
aveva fatto l’Altro? Da dove era uscito? Sotto che forma? Come aveva
passato tutti quegli anni?
Ogni tanto le tornava in mente la vetreria in cui si era vista insanguinata
di fronte a Eulalia, l’Altro e il vuoto. Le faceva rabbia l’idea che visioni
estranee la assalissero e poi non riuscisse a ricordare qualcosa che le era
successo davvero quand’era piccola!
Così come i suoi pensieri erano ripetitivi, anche ogni sua giornata
all’osservatorio era una replica esatta della precedente. La tata-automa la
lasciava nella sala di proiezione in cui figure geometriche si componevano e
scomponevano sullo schermo, la accompagnava sotto una tenda in cui
Ofelia faceva sempre gli stessi gesti senza senso prima di essere fotografata,
la portava da una giostra all’altra per partecipare a laboratori inverosimili,
assisteva alle visite mediche e ai pasti, infine la chiudeva in camera fino
all’indomani.
Le uniche alterazioni a quel rituale fisso erano i frequenti guasti elettrici
che fermavano le giostre in piena corsa o spegnevano le luci del refettorio
nel bel mezzo della cena. Da quando era arrivata, Ofelia non aveva visto
una sola lampadina funzionare bene.
Aveva perso la nozione del tempo. Aveva anche perso il suo unico
interlocutore dopo che Cosmos, il cui tentativo di conversazione non era
passato inosservato, non era più stato autorizzato a sedersi accanto a lei in
sala di proiezione. Purtroppo non c’erano molti posti in cui parlare senza
avere tra i piedi la tata-automa o i collaboratori. Dopo essere stata assegnata
al programma alternativo non aveva più visto la donna con lo scarabeo né
l’uomo con la lucertola né nessun altro osservatore. Quanto ai direttori
dell’osservatorio delle Deviazioni, ogni tanto aveva captato mezze frasi
sussurrate a proposito di loro, ma non li aveva mai incontrati.
Non aveva più rivisto neppure Thorn e, di tutte le privazioni, quella era la
più dolorosa. Si chiedeva se, dal canto suo, riuscisse a indagare senza
sollevare sospetti.
Nell’attesa di poterci parlare guardava, ascoltava e toccava tutto ciò che
le capitava a portata di mano nell’area di confino. Non aveva trovato niente
che somigliasse a un Corno dell’abbondanza, o almeno all’idea che se n’era
fatta lei. In compenso constatava che ogni giorno c’erano sempre più
oggetti inutili che ingombravano i corridoi e cibo buttato nei bidoni
dell’immondizia. Non aveva più avuto rivelazioni sulla vecchia vita di
Eulalia Diyoh. In mancanza di meglio ripassava mentalmente l’ultimo
ricordo cercando invano di stabilire un collegamento tra la cantina col
telefono, il progetto Cornucopiando, la trasformazione di Eulalia, l’avvento
dell’Altro, il crollo delle arche e i giri di giostra degli invertiti.
Eppure sapeva che un collegamento c’era.
Forse Ofelia aveva già raggiunto i limiti del primo protocollo del
programma alternativo. Forse le cose avrebbero acquistato un senso solo al
secondo protocollo. Stando a Cosmos, nessuno tornava mai dal terzo
protocollo, ma lei non era ancora a quel punto. Quando aveva detto alla
tata-automa di sentirsi pronta per passare allo stadio superiore, quella aveva
emesso una risata smisurata che le aveva gelato la schiena.
Certe volte alzava gli occhi verso la statua sfocata del colosso che si
ergeva in mezzo all’osservatorio come una montagna di pietra, con la testa
dai tanti volti che dominava il mondo. “Vedo tutto, so tutto!”. Che fastidio...
Insomma, il tempo scorreva e Ofelia non aveva fatto un solo passo
avanti. Non vedeva alcuna logica in ciò che l’osservatorio faceva fare a lei e
agli altri invertiti. L’unica cosa che le balzava agli occhi era quanto Blasius
avesse ragione: il programma alternativo non cercava di guarire le
inversioni, le faceva peggiorare.
Nonostante gli oggetti della residenza fossero tantissimi, le era sempre
meno facile leggerli. In compenso le capitava sempre più spesso di animarli
suo malgrado e farne le spese. I cuscini le saltavano addosso mentre
dormiva, le sedie le calpestavano i piedi, i mobili la urtavano. Una volta,
durante la cena, una forchetta le si era piantata nel braccio.
Le cose andarono ancora peggio quando, una mattina, Ofelia si infilò la
tunica al contrario. Per quanto ci provasse e riprovasse non fu in grado di
mettersela nel verso giusto senza l’aiuto della tata-automa. Poi toccò alle
maniglie. Maniglie di porte, maniglie di cassetti, perfino i rubinetti: tutti
divennero per Ofelia ostacoli insormontabili. Non era più soltanto il suo
animismo ad andare in tilt, era lei. Tra le sue dita si mischiavano destra e
sinistra, alto e basso. Uscire dal bagno era un rompicapo quotidiano.
Sarebbe stato più semplice collezionare lapsus come Cosmos... Non sapeva
se fossero le ginnastiche che le facevano fare, le proiezioni a cui doveva
assistere, i giri di giostra che doveva subire dalla mattina alla sera o tutte
quelle cose insieme, ma niente sembrava più andare per il verso giusto. Ci
aveva messo anni ad addomesticare la sua goffaggine, dopo il disastroso
attraversamento di specchio che aveva liberato l’Altro e scombussolato il
suo corpo, e pochi giorni all’osservatorio erano bastati a farcela ricadere.
Eppure il suo stato non era dei peggiori. Durante la proiezione mattutina
una donna del programma aveva un attacco epilettico una volta su tre. Un
insonne si metteva a urlare come un pazzo appena si assopiva. Poi c’era il
vecchio che si colpiva l’orecchio mormorando in continuazione la stessa
frase, «bisogna salire in basso... bisogna salire in basso... bisogna salire in
basso...», come se ripetesse le parole che una folla invisibile gli gridava nel
condotto uditivo. Lo stesso Cosmos, che apparentemente era tra i meno
instabili, qualche volta si isolava in un angolo e rimaneva senza muoversi
per ore.
Infine c’era Seconda.
L’intrigante, affascinante Seconda con il suo doppio viso. Era diversa da
ogni altro invertito e beneficiava di un trattamento speciale. Non dormiva
alla residenza, non mangiava con gli altri, partecipava ai laboratori solo se
ne aveva voglia e poteva parlare con chiunque senza essere richiamata
all’ordine. Le capitava di sgranare l’occhio senza iride e fissare a lungo il
nulla, poi mettersi a disegnare, cosa che faceva in maniera quasi
compulsiva.
Se riceveva visite di Octavio o di lady Septima, questo avveniva nella
massima riservatezza. Ofelia notava solo che ogni tanto, durante un giro di
giostra, si allontanava trascinata da un osservatore e ricompariva un’ora
dopo. La cosa stupefacente, per non dire preoccupante, era la sua presenza
all’interno del primo protocollo. Stando a Octavio la sorella era stata
internata fin da molto piccola; in quel momento stava raggiungendo la
pubertà: era un periodo molto lungo per una sola fase del programma.
Seconda non era mai accompagnata da una tata-automa, ma i collaboratori
la seguivano con estrema attenzione. Appena lei tirava fuori la matita
prendevano appunti e si sussurravano cose dall’ombra dei cappucci grigi.
Ogni disegno che faceva le veniva sistematicamente requisito. Ofelia li
avrebbe trovati ridicoli se lei stessa non fosse stata così turbata.
Non sapeva se fosse dovuto al suo status di nuova arrivata, ma Seconda
cercava sempre di comunicare con lei, più che con chiunque altro. Appena
la vedeva le correva incontro, le afferrava il polso e le diceva allegramente
frasi senza senso tipo «Drizza le papille!», «L’ombrello devasta tutto» o
«Servono pale senza disordine?». Lo stesso guazzabuglio succedeva quando
cercava di mettere le sue idee per iscritto. Una volta si era imbarcata in un
interminabile discorso a base di maleducazione del tempo, gamberetti
frantumati, mannaie lunari, proiettili che avevano perso la strada, peli di
denti e un falco dichiarato scomparso. Nonostante la buona volontà Ofelia
non capiva un accidente e Seconda, che ci restava malissimo, alla fine le
regalava un disegno con aria delusa.
Diversamente dalle parole, i suoi disegni erano di un realismo
sorprendente. Quelli che faceva per Ofelia raffiguravano sempre Octavio da
diverse angolature, ma sempre con un’aria terribilmente tormentata. I
collaboratori glieli levavano tutti senza eccezione. Ofelia non sapeva che
pensare. Octavio conosceva quei disegni? Ofelia sperava di no. Davano
l’impressione che la sorellina volesse assolutamente vederlo soffrire.
Cambiò un po’ idea un pomeriggio, quando vide Seconda che stava
dando un disegno a un altro invertito del programma alternativo.
Raffigurava un semplice chiodo, ma Seconda lo ridisegnò più volte e lo
porse con insistenza a quella stessa persona. Qualche giorno dopo, salendo
sulla giostra, l’invertito mise il piede su un vecchio chiodo arrugginito e
dovette essere portato di corsa in infermeria. Ofelia fu colpita di ritrovare
sulla faccia asimmetrica di Seconda la delusione che mostrava ogni volta
che non era riuscita a farsi capire. Aveva davvero anticipato l’incidente?
Ofelia aveva condiviso la stanza con degli Indovini quando studiava alla
Buona Famiglia, ma nessuno di loro sarebbe stato in grado di prevedere una
cosa così specifica con un simile anticipo.
Di colpo le sembrò che Seconda, nonostante le difficoltà di
comunicazione, possedesse forse le risposte alle sue domande. E Ofelia
aveva urgentemente bisogno di risposte. Non aveva nessuna intenzione di
rivivere la stessa giornata in eterno, settimana dopo settimana, mese dopo
mese, mentre l’Altro poteva provocare un nuovo crollo in qualsiasi
momento.
Una mattina tuttavia successe qualcosa che spezzò la monotonia del
protocollo. Invece di condurla in sala di proiezione con gli altri, come al
solito, la tata-automa disse:
«NON OGGI, DARLING».
Camminarono insieme tra le giostre arrugginite e scolorite dal tempo,
invase dalle erbacce, che gemevano alle correnti d’aria del chiostro. Da una
parte c’erano rotaie sospese senza trenino, da un’altra un planetario
meccanico con le orbite bloccate. Di divertimento quel parco aveva soltanto
il nome. La ghiaia le pungeva le piante dei piedi.
La tata-automa si diresse verso una giostra che Ofelia non aveva mai
visto in azione. Era lontana dalle altre, quasi nascosta dietro montagnole di
oggetti difettosi, talmente logora che cigolò appena salirono sulla
piattaforma.
«SIEDITI, DARLING».
«Questa giostra... è il secondo protocollo?».
«È SOLO UN GIOCHINO».
Era rimasto un unico sedile sulla giostra, il giochino non sembrava
particolarmente divertente. Appena Ofelia fu seduta la tata-automa le
allacciò la cinghia di sicurezza così stretta che le mancò il respiro.
«È troppo stretta. Mi fa male».
«TUTTO È PERFETTAMENTE PERFETTO, DARLING».
La tata-automa prese una chiave dalla scollatura del vestito e la
introdusse in una serratura della giostra. La piattaforma circolare rimase
immobile, ma il sedile si infilò nel sottosuolo girando come una vite,
producendo un orribile rumore di legno e metallo, scendendo sempre più in
profondità sottoterra. Ofelia si ritrovò immersa nelle tenebre più fitte. Il
cuore le batteva e si dibatteva contro la cinghia. Si ruppe le unghie cercando
di allentarla. Continuava a scendere.
Sbatté le ciglia quando intorno a lei le lampadine si misero a baluginare.
Il sedile si era finalmente fermato. Non riusciva a togliersi la cinghia, e
comunque non c’era modo di uscire dal pozzo nel quale l’avevano calata.
L’aria sapeva di pietra. Era al centro di una stanza sotterranea di fronte a un
tavolo.
Sul tavolo c’era un telefono.
Ofelia smise subito di avere paura. Era la cantina del ricordo di Eulalia
Diyoh. Malgrado la miopia ne riconosceva i muri, le dimensioni e l’altezza
del soffitto, come se ci avesse soggiornato lei stessa. Forse il telefono
celava tutti i segreti del vecchio mondo e comunicava tutte le soluzioni al
nuovo. Era lui il Corno dell’abbondanza?
Si sforzò di analizzare con freddezza la situazione. D’accordo, si trovava
finalmente nel luogo in cui Eulalia Diyoh aveva lavorato al Progetto secoli
prima, ma il telefono non era lo stesso. L’apparecchio che le stava davanti
aveva, come tutti gli oggetti dell’osservatorio, un difetto di fabbricazione
che lo rendeva quasi inutilizzabile: le cifre sulla tastiera erano talmente
deformate da risultare incomprensibili. Non era certamente quello il Corno
dell’abbondanza.
Squillò prima che Ofelia avesse il tempo di domandarsi che farne.
Intralciata dalla cinghia del sedile, dovette riprovarci più volte prima di
riuscire a prendere la cornetta.
«Pronto?».
«Pronto».
Era solo un eco, il che non sorprendeva di certo. Ma c’era qualcuno
all’altro capo della linea?
Certo che c’era.
Sicuramente nel quadro dell’esperimento, qualsiasi fosse la sua natura,
avevano messo Ofelia sotto ascolto. Dopo tutto, osservare era la vocazione
stessa dell’istituto.
Contrasse le dita intorno alla cornetta. Non essere più capace di leggere
le dava l’impressione di essere diventata sorda. Altre mani dovevano per
forza aver toccato quel telefono prima di lei, ma non percepiva alcun
pensiero o emozione.
E lei? Cosa avrebbe dovuto sentire? Cosa si supponeva che facesse?
Allora notò sul tavolo, subito dietro il telefono, alla luce tremolante delle
lampade, un leggio sul quale invece di uno spartito era posato un libretto.
Dentro c’era una serie ininterrotta di parole e cifre che avevano ancora
meno senso delle frasi di Seconda, stampate abbastanza grandi perché
Ofelia potesse leggerle senza occhiali. Sapeva che non l’avrebbero tirata su
finché l’esperimento non fosse terminato.
Lesse ad alta voce, ma fu subito bombardata dagli echi nel telefono, ai
quali si sovrapponevano quelli della cantina che faceva da cassa di
risonanza. Ce n’erano troppi! Era praticamente impossibile rimanere
concentrata sul testo. Quando arrivò alla fine della pagina un dispositivo
meccanico del leggio passò alla successiva perché continuasse a leggere. Il
seguito non era diverso: nient’altro che parole e cifre. Un giochino, eh?
Il tempo trascorse, le pagine si voltavano. Ofelia cominciava ad avere
male alla gola e alle orecchie.
Quell’esperimento era incomprensibile. Eppure era convinta che tutte le
assurdità che le avevano fatto fare da quando era arrivata all’osservatorio –
proiezioni, ginnastiche, laboratori – avessero il preciso scopo di prepararla a
quello. Avevano ricreato le identiche condizioni di lavoro di Eulalia Diyoh
per il progetto Cornucopiando. Ma in cosa consisteva il suo lavoro? Cosa
sarebbe dovuto succedere lì con quel telefono?
Ofelia avrebbe dato qualunque cosa perché all’altro capo della linea
qualcuno le fornisse finalmente una spiegazio...
Interruppe di colpo la lettura. Per lunghi secondi sentì solo il proprio
respiro spezzato contro la cornetta. Un dolore acuto le fece sibilare le
orecchie. Non veniva dal telefono, ma dall’interno della testa. Ofelia si
stava rompendo come un guscio d’uovo per permettere a un altro ricordo di
uscire. Poteva... sì, riusciva a ricordare ciò che era successo in quella
cantina.

Lei, Eulalia Diyoh, è seduta nello stesso posto. Sfinita. Esaltata. Le fa


male il braccio a forza di reggere la cornetta. Mesi passati in un sotterraneo
a pronunciare sfilze di parole al dritto e al rovescio senza alcun risultato.
Fino a ora.
«Sei impossibile».
«Impossibile?».
La voce nella cornetta è spezzata quanto la sua. Chiunque avrebbe
pensato a un normale eco, ma Eulalia non è chiunque. Si è preparata per
anni nell’attesa di quel momento. Ha trascorso l’infanzia in orfanatrofio con
un braccio legato dietro la schiena, un tacco più alto dell’altro, un occhio
bendato, un orecchio tappato con la cera e una narice piena di ovatta per
alterare l’intero corpo e far sviluppare al massimo il suo lato sinistro. È nata
per questo.
Quell’eco ha chiaramente deviato, ne è sicura.
«Poco probabile, se preferisci».
Il silenzio improvviso nella cornetta la preoccupa. Dalla sera prima non
ha interrotto la comunicazione un solo istante, neanche per mangiare o
andare in bagno. È importante che non lo perda. Non lui. Non dopo aver
perso tutta la famiglia.
«Sei sempre qui?».
«Sempre qui».
Eulalia fa un sospiro di sollievo.
«Bene. Mi sento un po’ sola».
«Un po’?».
«Molto, in effetti».
Sorride attraverso le lacrime. Piangere non è professionale, ma non riesce
più a impedirselo. Trabocca di gioia e tristezza, di speranza e paura. Ricorda
come fosse ieri la prima volta che ha sentito parlare del fenomeno. Era
appena arrivata all’orfanatrofio militare. Spesso, dopo che le luci venivano
spente, nell’oscurità del dormitorio si parlava degli esperimenti condotti
dall’esercito sugli echi. «Per confondere le comunicazioni radio del
nemico» spiegavano i sorveglianti. Poi era filtrata un’informazione.
L’impossibile era accaduto. Si diceva che un eco avesse deviato al contatto
con un mancino. Era stata questione di secondi, l’eco non si era stabilizzato,
ma la giovanissima Eulalia aveva subito capito cosa doveva fare.
Diventare amica di un eco. E, da quel primo miracolo, generare altri
miracoli.
Dimenticata in quella cantina, è appena riuscita là dove i suoi
predecessori avevano fallito.
«I miei soffiatori... i miei superiori» dice, «non scendono spesso a
trovarmi. Ancora non ho detto loro di te».
«Di te?».
«Non di me, di te».
«Di me».
«Esatto. Non so se ti canterebbero... se ti capirebbero. Neanch’io sono
molto sicura di capirti. Ho già difficoltà a capire me stessa».
Con la cornetta incastrata tra il collo e la spalla, Eulalia prende un
fazzoletto e si soffia il naso. Dà un’occhiata alla macchina da scrivere che è
in un angolo della cantina a prendere polvere. Da settimane non riesce a
tirarne fuori una frase. Il dattiloscritto dell’Era dei miracoli è rimasto
incompiuto. Deve riconoscere di essere stata sul punto di dubitare delle sue
storie. Della sua stessa storia.
Quell’eco, quel... quell’altro, chiunque esso sia, le ha restituito tutte le
sue convinzioni.
«Non mi hai ancora detto come ti chiami».
«Ancora no».
«Eppure penso che stiamo pomiciando... cominciando a conoscerci bene.
Io sono Eulalia».
«Io sono io».
Eulalia si asciuga le lacrime che non la smettono più di scorrere. La
deviazione si accentua. L’eco impara in fretta.
«È una risposta interessante. Da dove emetti?».
Silenzio nella cornetta.
«Va bene, era una domanda un po’ difficile. Dove sei adesso?».
«Qui».
Oh sì, impara in fretta.
«Qui dove?».
«Dietro».
«Dietro? Dietro cosa?».
«Dietro dietro».

Ofelia guardò il telefono davanti a sé come se finalmente lo vedesse per


davvero. Il mal di testa si era interrotto insieme al ricordo. Era durato lo
spazio di un battito cardiaco, un piccolo frammento di tempo durante il
quale tutto, assolutamente tutto, le era apparso chiaro. Ma già
quell’impressione andava sfumando.
L’unica certezza che le restava era che né la cantina né il telefono
avevano una vera importanza. Erano solo le condizioni necessarie a
suscitare un incontro eccezionale. Ecco come l’Altro aveva fatto irruzione
nella vita di Eulalia Diyoh. Non era il suo riflesso. Era molto di più: era un
eco unico nel suo genere.
Intelligente.
Helena aveva detto il vero sulla tribuna dell’anfiteatro. Quello che era
successo, che stava succedendo e che sarebbe successo aveva direttamente a
che fare con gli echi. Un tempo uno di essi era entrato in comunicazione
con Eulalia Diyoh, e da quel contatto era cominciato tutto. Lei gli aveva
trasmesso ciò che aveva di più intimo, i desideri, i ricordi, l’umanità, e in
cambio aveva ottenuto qualcosa che le aveva permesso di creare gli spiriti
di famiglia, di cambiare identità a piacimento, di trasformare i propri
romanzi in realtà.
L’Altro le aveva rivelato il segreto dell’abbondanza.
Ecco quindi qual era l’obiettivo dell’osservatorio delle Deviazioni.
Volevano riallacciare un dialogo con l’Altro. Avevano bisogno di lui. Il loro
Corno dell’abbondanza funzionava male, come dimostravano le casse di
oggetti guasti che si accumulavano dappertutto.
Era quello, il progetto Cornucopiando. O comunque ne costituiva il punto
di partenza, l’inizio di un esperimento ben più vasto.
Febbrile, Ofelia cominciò a tremare. Si era spesso chiesta perché l’Altro,
una volta liberato dallo specchio di camera sua su Anima, non fosse uscito
allo scoperto di fronte a tutta la famiglia. E se avesse ragione Octavio? Se
gli echi si muovessero su un’altra frequenza? Se l’Altro fosse stato sempre
accanto a lei e lei non fosse stata in grado di percepirlo?
Fissò il leggio. Il dispositivo meccanico tamburellava con autorità sulle
pagine per spingerla a riprendere la lettura. Sapeva di essere ascoltata, ma
forse in quella cantina aveva un’occasione unica per comunicare con l’Altro
come Eulalia molto prima di lei.
«Ti sei servito di me per uscire dallo spazio tra gli specchi» disse nella
cornetta, «quindi mi sei debitore. Non so se questo messaggio ti arriverà,
ma è giunto il momento di incontrarci di nuovo. Fatti vedere. Parla. Vieni a
trov...».
Uno scatto seguito da un segnale sonoro le indicò che la comunicazione
era stata bruscamente interrotta.
Il sedile fu tirato su obbligandola a lasciare la cornetta. Una volta in
superficie, sulla piattaforma della giostra, il sole le sbatté in faccia. La tata-
automa le slacciò la cinghia. La sua faccia inquietante, brutta caricatura
della madre, le rivolse un sorriso artificiale.
«GIOCHINO FINITO, DARLING».
L’APPUNTAMENTO

«Rimandatemi giù».
Ofelia tirava con tutte le sue forze il vestito della tata-automa, che però
continuava ad attraversare il parco dei divertimenti a passettini implacabili
allontanandola sempre più dalla giostra, dalla cantina e dal telefono.
«Fatemi continuare l’esperimento!».
La tata-automa non si degnò neanche di risponderle. Andava avanti con
indifferenza mentre dalla pancia le sgorgava un’insopportabile canzonetta.
Solo lei aveva la chiave che dava accesso alla stanza segreta.
A Ofelia non andava giù l’idea di ricominciare la solita routine come se
niente fosse quando magari l’Altro era a portata di telefono. L’osservatorio
voleva mettersi in comunicazione con lui, lei pure: perché non la lasciavano
fare, allora?
Il caldo pesava sul chiostro in maniera opprimente. Era come se l’aria si
fosse materializzata in una grossa tenda dietro la quale si nascondevano
tutte le verità. Gli invertiti avevano terminato i laboratori del mattino e
stavano facendo la pausa di mezzogiorno. Ofelia vedeva intorno a sé solo
figure patetiche. Erano disseminati per tutto il parco dei divertimenti, si
riparavano all’ombra degli stand, ognuno nel suo angolo, mangiando il
pessimo riso che le tate-automa distribuivano ogni giorno a quell’ora.
Eulalia Diyoh era stata una di loro molto prima che loro nascessero. Si
era allenata duramente per diventare un’invertita, come se fosse una
condizione indispensabile per dialogare con l’Altro.
Ofelia non ne poteva più di quella solitudine che imponevano a tutti per
meglio strumentalizzarli. Strizzando gli occhi avvistò Cosmos. Era seduto
sul bordo di una giostra in cui al posto dei cavalli c’erano minacciose tigri
di legno. La sua tata-automa lo sorvegliava da lontano.
Andò dritta verso di lui. Aveva a disposizione pochi secondi, da un
momento all’altro la tata-automa si sarebbe accorta che Ofelia aveva
smesso di seguirla.
«Dobbiamo parlare. E alla svelta».
Cosmos guardò da un’altra parte. Stava mangiando quella che dall’odore
sembrava essere una frittella di lenticchie. Doveva avere qualche contatto
nelle cucine per riuscire a procurarsi sempre cibo degno di questo nome.
«Càlmati» disse soltanto.
«Sei all’osservatorio da più tempo di me, e tu stesso hai detto che
dovevamo aiutarci. Ora ho bisogno di sapere tutto quello che sai».
«Càlmati» ripeté Cosmos.
La sua voce aveva assunto un tono imperativo. Non era più il giovanotto
brillante che il primo giorno aveva fatto rotolare la brioche verso di lei. Col
tempo Ofelia aveva capito che la sua inversione consisteva nel bipolarismo.
In altre circostanze l’avrebbe lasciato in pace, ma in quel momento ribolliva
di impazienza.
«Hanno fatto fare anche a te l’esperimento del telefono, vero?» insisté.
«Puoi almeno dirmi se hai sentito qualcosa? Un eco che non ti è parso
norma...».
Cosmos si lanciò su Ofelia con un tale impeto che caddero insieme sulla
ghiaia. Le afferrò le spalle, le incollò la faccia a un centimetro dalla sua.
Aveva gli occhi a mandorla fuori dalle orbite, il respiro affannoso, le labbra
arricciate su denti pieni di lenticchie.
«Càlmati!».
Ofelia non capiva più se l’ordine fosse rivolto a lei o a se stesso. Non
capiva niente. Cercava di respingere quel corpo che la schiacciava, ma più
si dimenava e più Cosmos le affondava le unghie nelle spalle. La scuoteva
con una tale forza che era rintronata dal colpo ogni volta che il cranio le
sbatteva per terra.
«Càlmati!» ringhiò lui. «Càlmati!».
Gli mise una mano sul mento per allontanarlo, invano. Incastrata sotto di
lui, cercò aiuto. Alcuni collaboratori di cui intravedeva le sagome grigie
assistevano alla scena prendendo appunti. Gli invertiti si erano avvicinati
sbalorditi. Fra loro, Seconda disegnava freneticamente, come se avesse
avuto paura che Ofelia e Cosmos abbandonassero la posa. Quanto alle tate-
automa, si guardarono bene dal muovere un dito, come se la situazione non
rientrasse nei loro compiti. Nessuno sarebbe intervenuto, quindi?
Istintivamente usò gli artigli su Cosmos come aveva fatto per allontanare
la folla dell’anfiteatro, ma nonostante fossero l’uno sull’altra lo mancò.
Anche quel potere si era guastato, come l’animismo. Cacciò un grido
quando Cosmos le morse la mano. Sembrava posseduto dal desiderio di
farla a pezzi.
Ofelia sgranò gli occhi. Lo stavano lasciando fare. Permettevano che la
uccidesse.
Denti e unghie di Cosmos mollarono finalmente la presa. Un
collaboratore l’aveva afferrato alla vita.
«Spòstati, Eulalia».
Voce femminile. Ofelia non se lo fece dire due volte. Si trascinò al suolo
con la mano ferita piegata contro la pancia.
La collaboratrice faceva del suo meglio per contenere il corpo furente di
Cosmos, che urlava e schiumava. Una gomitata sulla faccia le fece cadere il
cappuccio.
Era Elizabeth.
Ofelia aveva completamente dimenticato che era stata assunta
dall’osservatorio. La bocca le sanguinava. La gomitata le aveva spaccato il
labbro, forse anche rotto un dente, ciò nonostante non perdeva la sua
flemma. Teneva Cosmos per la vita. I gesti dell’uomo si fecero sempre
meno rabbiosi, i lineamenti si rilassarono uno a uno. La sua empatia
assorbiva la tranquillità di Elizabeth come una spugna. Presto la collera gli
scomparve dallo sguardo lasciando il posto a un grande vuoto.
Alla fine si lasciò cadere lentamente con la fronte contro il suolo.
«Scusa» balbettò. «Scusa... Scusa... Sfusa... Scusa...».
Elizabeth sciolse delicatamente la presa, poi posò su Ofelia uno sguardo
stanco appesantito dalle grosse palpebre, ignorando i collaboratori rimasti
indietro che tossicchiavano come giudici severi.
«Non sei molto presentabile».
Ofelia indicò le macchie di sangue che si erano mischiate alle sue
lentiggini. Anche senza occhiali vedeva solo quelle.
«Neanche tu hai un gran bell’aspetto».
Si scambiarono un sorriso che durò il tempo di una contrazione di labbra.
La tata-automa tirò Ofelia per un orecchio. Combattere contro una
macchina, sia pure agghindata da signora, era fatica sprecata. Ofelia non
ebbe altra scelta che incespicare attraverso un interminabile labirinto di
giostre, gallerie e scale fino a raggiungere camera sua, dove fu rinchiusa a
chiave.
«SEI STATA DISUBBIDIENTE, DARLING. NON AVRAI GIOCHI E PASTI FINO-FINO A
DOMANI».
Una volta sola, Ofelia passò un tempo considerevole a sbattere contro i
mobili sbilenchi della camera, andando e venendo febbrilmente,
dibattendosi in tutte le sue domande, ascoltando i colpi di gong a ogni ora
del pomeriggio finché, stanca, si immerse nell’acqua saponosa della vasca
da bagno. Aveva le spalle coperte di graffi, la mano gonfia intorno al morso
e, stando all’immagine deformante degli specchi, un livido sull’orecchio
provocato dalle dita meccaniche della tata. La cosa che le faceva più male
era la nuca: in mezzo ai sassolini che continuava a togliersi dai capelli
sentiva il rilievo di un enorme bernoccolo.
Bene.
Giornate intere senza che si muovesse foglia, ed ecco che in pochi minuti
aveva scoperto la vera natura dell’Altro, scatenato il furore di Cosmos e
suscitato lo scontento dell’osservatorio.
Col senno di poi capiva che il suo errore più grosso era stato dire quello
che aveva detto al telefono. Aveva chiesto all’Altro di andare a trovarla. E
se il messaggio gli fosse arrivato davvero? Se l’avesse presa in parola,
avesse deciso di onorare l’invito e le fosse spuntato in camera devastando
tutto al suo passaggio? Forse adesso ne sapeva un po’ di più su di lui, ma
continuava a non avere la più pallida idea di cosa bisognasse fare per
sconfiggere un eco in grado di distruggere le arche.
Ofelia, ormai del tutto incapace di distinguere la destra dalla sinistra, si
stava infilando per la quinta volta il pigiama al contrario quando sentì un
fruscio seguito da un rumore di passi che si allontanavano precipitosamente
in corridoio.
Qualcuno le aveva infilato sotto la porta un foglio ripiegato in quattro.
Appena lo aprì una pioggia di frutta secca cadde per terra. Incollò gli
occhi al foglio per decifrare la scrittura minuscola.
Mi dispiace.
Ora capisci perché nessuno mi aspetta là fuori.
Qualcuno aspetta te stasera.
Il messaggio era accompagnato da uno scarabocchio che somigliava
molto vagamente alla statua del colosso. Il cuore di Ofelia si mise a battere
forte. Thorn! Si era servito di Cosmos per darle un appuntamento? Come
aveva fatto? L’osservatorio lo teneva a distanza dagli invertiti fin
dall’inizio.
Appallottolò il biglietto e lo buttò nel gabinetto. Attraverso i listelli della
persiana rosseggiava il crepuscolo. E lei come avrebbe fatto a uscire, quella
sera? Probabilmente Thorn contava sul suo animismo per aprire la porta
della camera, come aveva fatto a casa di Berenilde la notte della scappatella
in città, senza sapere che il suo potere familiare non funzionava più
normalmente. Gli orologi privi di lancette della camera le sputavano in
faccia gli ingranaggi quando ci passava davanti, e aveva rinunciato a
raddrizzare il letto con dei libri da quando quelli si divertivano a tagliare la
corda durante la notte.
«Eulalia?».
Ofelia si precipitò a incollare l’orecchio alla porta. Quella voce...
«Elizabeth?».
«Parla piano».
Il mormorio dall’altra parte era impercettibile. Bisognava accostare
l’orecchio al buco della serratura per sentirlo.
«Non dovrei essere qui. E neppure sarei dovuta intervenire, prima. I
collaboratori hanno l’ordine tassativo di non interagire con i pazienti».
Sotto il tono calmo si percepiva un’emozione. Ofelia conosceva
abbastanza Elizabeth da sapere che attribuiva molta importanza alla
gerarchia. Il fatto che avesse trasgredito al regolamento, prima per aiutarla e
poi per andare a trovarla, era del tutto inaspettato da parte sua.
Ofelia osservò la frutta secca sparpagliata ai piedi della porta.
«Come sta Cosmos?» domandò.
«Meglio. In questo momento sta mangiando in refettorio. La sua empatia
soffre di una rara devianza. Non solo percepisce le emozioni degli altri, ma
le sente e le amplifica come un diapason fino a provocare una reazione a
catena. La prossima volta che sei di malumore evitalo».
Ofelia appoggiò la fronte alla porta. Quella mattina aveva perso il
controllo e, ciò che è peggio, l’aveva fatto perdere a Cosmos. In fondo era
quello che l’osservatorio si augurava. Li riportavano all’infanzia, li
isolavano e li destrutturavano per poterli rimodellare a loro piacimento.
Aveva permesso che il luogo prendesse il sopravvento su di lei, e l’idea
non le andava giù.
«Elizabeth, puoi aprirmi?».
«Certo».
Il sollievo di Ofelia fu di breve durata.
«Sto scherzando. Ho già disubbidito fin troppo. Sai che sir Henry sta
ispezionando tutto l’osservatorio?» continuò Elizabeth per non darle modo
di insistere. «L’incidente fra te e Cosmos è arrivato fino a lui. Di norma non
è consentito infrangere il segreto professionale, ma data la gravità della
situazione hanno acconsentito a fare un’eccezione. Sir Henry ha chiesto di
interrogare personalmente Cosmos dopo la vostra...».
Elizabeth cercò a lungo un termine consentito dall’Index.
«Dopo la nostra zuffa» si spazientì Ofelia.
«Dopo la vostra controversia» la corresse Elizabeth in tono di
rimprovero.
Ecco come aveva fatto Thorn a trasmetterle il messaggio. In quel caso le
dispiaceva meno di essersi fatta malmenare un po’. Fissò il buio della
serratura. E lei? Poteva servirsi di Elizabeth per comunicare con Thorn
all’insaputa dell’osservatorio? Fino a che punto si fidavano l’una dell’altra?
Al di fuori del corso di studi alla Buona Famiglia non avevano niente in
comune.
«Elizabeth, perché sei qui?».
«Lo sai, no? Mi hai visto firmare il contratto con i Genealogisti. Dovrei
semmai essere io a chiedertelo. Trovarti nell’osservatorio in mezzo agli
invertiti è stato piuttosto sorprendente».
Ofelia rivide la processione di collaboratori che aveva incrociato il primo
giorno: ricordò che uno di loro non aveva potuto fare a meno di voltarsi a
guardarla.
«Intendevo qui, davanti a camera mia».
«Ah». Una leggera scossa indicò che Elizabeth si era appoggiata alla
porta. «Un giorno mi hai chiesto un consiglio. Ricordi cosa ti ho risposto?».
«Sì».
“Rimani neutra. Osserva senza giudicare. Ubbidisci senza discutere.
Impara senza prendere posizione. Interessati senza attaccarti. Fai il tuo
dovere senza aspettarti niente in cambio. È l’unico modo per non soffrire.
Meno si soffre, più si è efficienti. Più si è efficienti e meglio si serve la
città”.
Ofelia aveva imparato quel consiglio a memoria. Era uno dei peggiori
che le avessero mai dato.
Attraverso il buco della serratura il respiro di Elizabeth suonò esitante,
poi le parole le uscirono tutte insieme a fior di labbra.
«Non ci riesco più. Non posso parlarti di quello che faccio qui. Non ho
neanche il permesso di parlarne con gli altri collaboratori, il principio di
confinamento si applica anche a noi. Abbiamo tutti prestato giuramento di
fedeltà all’osservatorio. Ma io ho anche prestato giuramento ai
Genealogisti. Si aspettano da me che li tenga informati appena sarò riuscita
a decodificare tutto. Dicono che è il mio dovere di precorritrice. Da un
punto di vista gerarchico sono miei superiori, ma da un punto di vista
deontologico l’osservatorio è il mio datore di lavoro. A chi devo ubbidire,
Eulalia?».
Ofelia provò una profonda pietà per lei. Non poteva vederla in quel
momento, ma ne immaginava il lungo corpo piatto incollato alla porta come
quello di una bambina. Elizabeth aveva la sua stessa età, era molto più
intelligente di lei, ma dover fare le proprie scelte la terrorizzava al punto da
chiedere a una semisconosciuta di prendere una decisione al posto suo.
«È una risposta che devi trovare da sola, Elizabeth. Tu cosa vuoi?».
«Rendermi degna della mano che mi ha teso lady Helena quand’ero in
mezzo a una strada. Mai come in questo posto mi sono sentita più idonea ad
aiutarla».
Stavolta non c’era esitazione nella voce. Ofelia era perplessa. In che
modo Elizabeth sperava di onorare il suo debito verso lo spirito di famiglia?
Quando quest’ultima ricominciò a parlare il suo tono aveva ritrovato la
consueta flemma.
«I Genealogisti sono Lord di LUX e i Lord di LUX sanno meglio di
chiunque altro cosa sia bene per l’interesse generale. Mi rimetterò quindi al
loro giudizio, come ho sempre fatto. Non avrei dovuto abbassarmi a
dubitare di loro, la prossima volta che li vedrò confesserò il mio peccato.
Neanche quest’osservatorio dovrebbe avere niente da nascondere a loro.
Grazie del consiglio. Ora torno agli alloggi dei collaboratori».
Ofelia aggrottò le sopracciglia. Grazie del consiglio? Elizabeth non aveva
capito niente di quello che aveva cercato di dirle. Ancora un appuntamento
mancato tra lei ed Elizabeth.
«Grazie a te di essere intervenuta nonostante gli ordini» sospirò. «Un
gesto che ho apprezzato».
«La violenza è proibita su Babel e, protocollo o no, non sembravi molto
consenziente».
Ofelia sentì il fruscio di un saio dall’altra parte, il cappuccio rimesso
sulla testa, il segnale della partenza. Forse non avrebbe avuto una seconda
occasione di affrontare l’argomento.
«Elizabeth?».
«Mmm?».
«So del progetto Cornucopiando. Tu l’hai visto questo Corno
dell’abbondanza?».
Dall’altra parte del buco della serratura ci fu un silenzio tale da farle
pensare che Elizabeth se ne fosse andata. Alla fine le arrivò la risposta, più
stanca che arrabbiata.
«Te lo ripeto, non posso dirti niente. Non soltanto perché non voglio, ma
anche perché noi collaboratori non abbiamo nessuna visione d’insieme del
progetto. Mi dedico al compito che mi è stato assegnato, punto e basta.
Dovresti fare la stessa cosa. Ah, stavo quasi dimenticando».
Rumore di carta sotto la porta. Ofelia guardò il foglio e riconobbe subito
la mano di Seconda, probabilmente il disegno che aveva fatto durante
l’aggressione di Cosmos. Stavolta non era una nuova versione di Octavio,
ma un autoritratto che illustrava fedelmente, con una certa crudeltà, le
sproporzioni del viso, le sopracciglia diverse, il naso storto, i primi brufoli,
le labbra sfalsate, le orecchie disuguali e l’occhio senza iride. Chissà per
quale ragione ci aveva aggiunto un grande tratto a matita rossa che le
sbarrava metà faccia.
Sul retro del foglio ebbe la sorpresa di trovare un altro disegno. Sgranò
gli occhi. Per la prima volta raffigurava lei, Ofelia, minuscola in mezzo al
foglio bianco. Al suo fianco c’erano due personaggi: una donna
vecchissima a destra e un’indefinibile creatura mostruosa a sinistra. Ma non
era tutto. Seconda aveva usato la matita rossa sul piccolo corpo di Ofelia
fino a farlo praticamente sparire. Sangue.
«Seconda ci ha tenuto moltissimo a darmelo» disse Elizabeth dietro la
porta. «Voleva che lo facessi arrivare a te, credo. Evidentemente conta sul
fatto che domani lo consegnerai ai collaboratori. Non chiedermi perché, ma
l’osservatorio conserva in archivio tutti i disegni di Seconda. Ora devo
andare. La conoscenza è al servizio della pace».
Su quel saluto pronunciato con ritrovato fervore Elizabeth si allontanò. I
suoi passi si persero in fondo al corridoio. Ofelia ci rimase male. Elizabeth
l’aveva delusa. Come Octavio, era passata attraverso la stessa crisi di
coscienza, ma al contrario di lui aveva fatto la scelta di non scegliere.
Ciò detto, sul proprio lavoro aveva rivelato a Ofelia molto più di quanto
credesse. L’impiego del verbo “decodificare” non era privo di significato.
Quella precorritrice aveva rivoluzionato la banca dati del Memoriale grazie
al solo linguaggio in vuoti e pieni delle schede perforate. Se era stata capace
di inventare un proprio codice, di sicuro sarebbe stata capace di decifrare il
codice di qualcun altro.
Peraltro sembrava convinta che il proprio lavoro sarebbe stato utile a
Helena. Ma cosa poteva desiderare di più uno spirito di famiglia se non
capire il proprio Libro? L’osservatorio si aspettava da Elizabeth la stessa
cosa che Faruk si era aspettato da Ofelia, l’impresa che nessuno fino a quel
momento era riuscito a compiere: decifrare la lingua utilizzata da Eulalia
Diyoh per creare gli spiriti di famiglia.
Ofelia non sapeva ancora come e perché, ma anche quello faceva parte
integrante del progetto Cornucopiando. Aveva così tante cose da dire a
Thorn...
Osservò pensosa la luce che scemava dietro le persiane. Era scesa la sera
e ancora non aveva la minima idea di come recarsi all’appuntamento. Alla
fine aveva deciso di non servirsi di Elizabeth come messaggera. Era una
cittadina troppo indottrinata, sarebbe stata capace di denunciarla subito
dopo averla aiutata.
Doveva trovare il modo di cavarsela da sola.
Evitò di guardare il regalo di Seconda alla luce incerta delle lampadine,
di vedersi di nuovo piena di sangue. Si rifiutò di pensare all’incidente del
chiodo. No, quel disegno non aveva niente a che fare con la visione della
vetreria. La vecchia non rappresentava Eulalia Diyoh, il mostro non
rappresentava l’Altro, il bianco del foglio non rappresentava il vuoto che li
avrebbe inghiottiti tutti.
Non era certamente quella la fine della storia.
Strappò il disegno e lo buttò nel gabinetto, e pazienza per gli archivi
dell’osservatorio! Appoggiò l’orecchio al buco della serratura. Prima sentì
una serie di rumori soffusi, gli invertiti che tornavano nelle proprie camere,
poi il cigolio metallico delle tate-automa che chiudevano a chiave tutte le
porte prima di lasciare la residenza.
Quando il silenzio fu completo Ofelia andò alla persiana e infilò le dita
tra i listelli alla ricerca della presa migliore, poi tirò con forza più e più
volte. In quel luogo tutti gli oggetti avevano un difetto. Non aveva trovato
quello della porta, avrebbe trovato quello della finestra. Un cardine cedette,
poi un altro. All’ultimo strattone si ritrovò sul letto con la persiana tra le
mani.
Guardò la notte. Il vento tiepido le sollevò i capelli. Era la prima volta
che osservava il retro della residenza. La facciata era a picco come una
falesia. Intuì, a qualche metro dalla sua finestra, le persiane delle camere
vicine. Fuori portata. Alzò la testa verso i piani superiori. Inaccessibili.
Allora cercò il suolo per valutare la distanza. Non lo trovò. Strizzò gli occhi
nella speranza di scacciare quella miopia che trasformava le stelle in una
schiuma informe di luci. In basso non c’era selciato né giardino né tetti.
Non c’era niente.
La finestra della camera affacciava sul vuoto.
Ofelia camminò lentamente all’indietro come se tappeto, parquet e
mattoni si stessero sfaldando sotto i suoi piedi. Si rincantucciò nell’angolo
della stanza più lontano da quel quadrato di notte che creava un risucchio
d’aria. La sensazione di vertigini la faceva volteggiare all’interno del
proprio corpo.
Non sarebbe mai riuscita a scalare quel muro con la prospettiva del nulla
in caso di caduta, non con due mani sempre più maldestre. Non sarebbe
potuta andare da Thorn quella notte né mai.
Quel luogo era più forte di lei. Più forte di loro.
Si dette un pizzicotto nel punto in cui Cosmos l’aveva morsa. Il dolore le
fece l’effetto di una scarica salutare. Non avrebbe rinunciato così in fretta,
dopo tutto quello che aveva fatto Thorn per darle un appuntamento. Doveva
riprendersi e ragionare. Sforzarsi di pensare come una Babeliana. La città
era composta da una grande quantità di arche minori, vivere accanto al
vuoto faceva parte della quotidianità da così tanto tempo che l’architettura
vi si era adattata. Mai l’osservatorio avrebbe corso il rischio di alloggiare
pazienti da studiare in prossimità di un pericolo mortale.
Respinse le vertigini in un angolo della mente, poi prese un cuscino dal
letto e lo lanciò fuori. Il cuscino ricadde in pieno sulla facciata, subito sotto
la finestra, facendosi beffe della gravità che avrebbe dovuto trascinarlo in
basso.
Un transcendium.
Inspirò profondamente e si issò sul davanzale facendo del suo meglio per
ignorare il frastuono prodotto dal battito del suo cuore. L’istinto le urlava
che sarebbe caduta, la notte sembrava già risucchiarle il piede che aveva
sporto all’esterno.
Era un transcendium. Un transcendium. Un transcendium.
Posò il ginocchio sulla pietra. Si concentrò interamente sul cuscino
spalmato sulla facciata a pochi centimetri da lei. Doveva dimenticare l’idea
di alto e basso. L’unica legge che esisteva in quel momento era quella che
manteneva il cuscino fermo contro la parete.
Dopo interminabili manovre si ritrovò inginocchiata sul muro.
“No, non sul muro” si disse convinta. “Sul pavimento”.
Voltò risolutamente le spalle al vuoto, cioè all’orizzonte, e salì, cioè
camminò, lungo la facciata. Centinaia di volte aveva usato un transcendium
al Memoriale e alla Buona Famiglia, ma nessuno l’aveva mai messa tanto a
disagio come quello. E se anche l’architettura dell’osservatorio fosse stata
difettosa? Se un solo passo di lato fosse bastato ad annullare gli effetti della
gravità artificiale?
Sentiva le asperità di ogni mattone sotto la pianta dei piedi. Finalmente
raggiunse il cornicione. Ce l’aveva quasi fatta. Dovette contorcersi per
passare dalla verticalità della facciata all’orizzontalità del tetto, e dopo
esserci riuscita rimase per un po’ stesa sulla schiena con le gambe tremanti
e gli occhi puntati verso le stelle. Aveva il pigiama fradicio di sudore. Pensò
ai pezzi di arca crollati e ai dirigibili che avevano spedito in cielo
nonostante il pericolo. Era più di un pensiero, ormai era qualcosa di inciso
all’interno del suo corpo.
Il tetto a gradoni scendeva verso il chiostro in terrazze successive. Ofelia
si storse la caviglia più volte, ma alla fine atterrò sul lastricato di una
galleria. Tornare in camera sarebbe stata un’altra bella sfida, ma ci avrebbe
pensato dopo.
Corse attraverso il buio labirintico del chiostro senza preoccuparsi dei
sassi sotto i piedi o delle punture di zanzara sulle braccia. Smise di correre
solo quando arrivò ai piedi del colosso, davanti all’entrata del tunnel
scavato sotto la base della statua.
Un’ombra tra le ombre la accolse con uno scatto di orologio.
«Abbiamo sei ore e quarantasette minuti prima che suoni il gong del
mattino».
Ofelia avanzò lentamente. Alto, basso, destra e sinistra tornarono al
proprio posto nell’attimo in cui le braccia di Thorn la strinsero. Finalmente
aveva trovato un punto di ancoraggio.
L’OMBRA

All’interno del tunnel caleidoscopico l’oscurità era assoluta. Sebbene le


pareti fossero frammentate in una molteplicità di specchi, questi non
riflettevano niente delle due figure che avanzavano alla cieca. Anche se
inciampava sulle rotaie, Ofelia era contenta che fosse buio. L’ultima volta
che era passata in quel tunnel di giorno il gioco di specchi l’aveva fatta
svenire. Per andare avanti faceva affidamento sul cigolio meccanico davanti
a sé. La gamba di Thorn non era molto indicata per muoversi con
discrezione. Se fosse andato lui fino alla camera di Ofelia attraversando i
labirinti dell’area di confino tutto l’osservatorio l’avrebbe sentito arrivare.
Il che non impediva che camminasse decisamente spedito malgrado il
suo handicap! Ofelia lo seguiva senza fare domande e a ragionevole
distanza dai suoi artigli, ma non le sarebbe dispiaciuta una sosta un po’ più
lunga: l’abbraccio di Thorn era durato cinque secondi, orologio alla mano,
prima che si mettessero in marcia.
Nel bel mezzo del tunnel si fermò. Una luce elettrica rimbalzò sugli
specchi circostanti. Veniva da una porta incorporata nella parete, così bassa
che Thorn dovette contorcersi per passarci sotto. Ofelia non l’aveva notata
quando aveva fatto il tragitto in vagoncino. Si infilò a sua volta nel
corridoio trasversale chiudendosi la porta alle spalle.
Mentre sforzava al massimo la vista per cercare di definire i contorni dei
luoghi alla luce vacillante delle lampadine un peso sul naso la fece trasalire.
China su di lei, la faccia di Thorn le apparve di colpo nei minimi dettagli:
l’acciaio duro del suo sguardo, le cicatrici che gli solcavano la pelle, la
severa ruga orizzontale sulla fronte. E sotto tutto quel rigore un’energia allo
stato puro impossibile da descrivere a parole che penetrò Ofelia fin nelle
ossa. Restituendole gli occhiali Thorn le aveva restituito la vista e molto di
più.
Le rese anche i guanti da lettrice.
«Dovrai nasconderli. Erano in uno schedario dell’ufficio ammissione. Li
ho sostituiti con un altro paio che basterà a far credere che ci siano. E a
proposito di sostituti...».
Thorn prese l’orologio da taschino. Lì per lì Ofelia pensò che volesse
dirle l’ora, poi capì che si trattava dei loro riflessi sul quadrante.
«Controlla sempre se il tuo interlocutore si riflette. Non abbassare la
guardia neanche con me. Eulalia Diyoh e l’Altro possono assumere
qualsiasi aspetto per ingannarti».
Fatte quelle raccomandazioni si affrettò a procedere nel corridoio. Non
poteva camminare eretto senza sbattere la testa sul soffitto.
«Non perdiamo tempo. Devo farti vedere una cosa».
Infilare le dita nei guanti fu un esercizio difficile, ma Ofelia ci teneva a
metterli per nascondere il morso di Cosmos. Thorn sapeva cos’era successo,
non aveva bisogno di vederlo. Sarebbe mai riuscita a servirsi di nuovo del
suo potere familiare? Dopo la pallottola del museo di Storia primitiva di
Anima non aveva più letto niente.
«C’è una cosa che devo dirti. Sanno chi sono. Chi sono stata. Forse sanno
anche di te».
Se Thorn ne fu sorpreso o contrariato non lo lasciò trapelare. Con un
cenno del dito le indicò di fare attenzione a dove metteva i piedi. Il
corridoio sbucava su una vasca sotterranea in cui ristagnava un’acqua verde
e schiumosa. Un passo di più e Ofelia avrebbe fatto un tuffo.
«Se è così, per il momento non se ne sono serviti contro di me» rispose
lui. «Mi gettano una quantità astronomica di polvere negli occhi e mi
aprono le porte di tutti i loro reparti, ma mi tengono lontano dalle cose
importanti con la scusa del segreto professionale in ambito sanitario».
Aggirarono il bacino percorrendo un camminamento che sembrava
risalire a migliaia di anni prima. L’armatura della gamba di Thorn vibrava
contro le vecchie pietre squadrate.
«Tuttavia gli osservatori non sono così ben informati come vorrebbero
farci credere. Non hanno nessun autentico potere decisionale. È chiaro che
ogni persona che lavora qua dentro ha solo una visione parziale
dell’insieme e ignora cosa faccia il vicino. La giovane osservatrice che mi
fa da interlocutrice di riferimento, per esempio: o è la più ignorante di tutti
o è un’attrice più brava di mia zia. Idolatra l’uniforme che indosso, mi
sommerge di complimenti e non risponde mai alle domande. In
conclusione» disse Thorn riacchiappando Ofelia che stava per scivolare,
«ne so poco più di quanto ne sapevo quando sono arrivato. Non so neanche
che succede fuori da questi muri. La radio ha smesso di funzionare e il
Giornale ufficiale ci arriva in ritardo».
«Io ho molto da raccontarti».
Cosa che Ofelia fece subito, mentre affrontavano un passaggio di
sicurezza di cui bisognava aprire e richiudere ogni saracinesca.
Raccontò la convocazione all’anfiteatro, le espulsioni forzate,
l’implosione dell’automa, la sommossa generale, la fuga disperata con
Octavio, Blasius e Wolf, lo sconosciuto della nebbia, il rifugio nella
fabbrica di Lazarus, l’arrivo all’osservatorio grazie ad Ambroise, il test di
ammissione, gli oggetti fallati, le confidenze di Cosmos, gli strani disegni di
Seconda, il telefono nella cantina, il lavoro di decodifica di Elizabeth.
Gli fece un resoconto affrettato, ansimante, ma più o meno completo
degli avvenimenti. Thorn non aveva mai smesso di camminare, non aveva
rallentato neppure quando Ofelia aveva raccontato le sue visioni del passato
di Eulalia Diyoh, ma lei sapeva che aveva registrato ogni parola come
avrebbe fatto la bobina fonografica di una tata-automa.
Giunsero a una passerella a strapiombo su un sottosuolo dove fumavano
macchine impressionanti simili a locomotive immobili. C’era una
temperatura da fornace. Ofelia, in pigiama, si chiedeva come facesse Thorn
a non morire di caldo sotto le dorature dell’uniforme.
«Era questo che volevi farmi vedere?».
«No. Sto approfittando della passeggiata per controllare una cosa».
Thorn rimosse il coperchio di una cassetta di contatori a lato della
passerella. Malgrado l’evidente ripugnanza che gli suscitavano morchia e
polvere, tanto da coprirsi il naso con un fazzoletto per esaminare i vari
quadranti da vicino, annuì soddisfatto. Poi prese dalla tasca un flacone e si
disinfettò le mani.
«Qui ho finito» disse. «Saliamo».
Alla fine della passerella trovarono una scala di pietra scavata nella
roccia. Come dappertutto nell’osservatorio l’illuminazione era fornita da
alcune lampadine sfrigolanti sul punto di rendere l’anima. I muri erano
venati da un intreccio di canaline e radici.
Ofelia cominciò a salire gli scalini senza staccare gli occhi dai piedi, per
sincronizzarli. Le scale a chiocciola erano le più difficili. E le dita dei suoi
piedi non erano più tanto pulite.
«Siamo sempre all’interno della statua?».
«Sì. L’osservatorio è stato costruito sulle rovine di un’antica città. Ci
sono ancora molti passaggi segreti che non vengono utilizzati. Ho
memorizzato tutte le planimetrie».
Nelle scale la voce di Thorn acquistava una risonanza ancora più bassa.
Si teneva saldamente alla ringhiera, lasciandola solo quando doveva
sbloccare l’armatura che ogni tanto si inceppava. Ofelia pensò che salire
non dovesse essere facile neanche per lui. Lo sentiva teso. Aveva percepito
la sua tensione già durante l’abbraccio, con gli artigli che ronzavano tutto
intorno a lui come uno sciame di vespe.
Dopo numerose spirali di scala e un’ultima porta nascosta raggiunsero
un’anticamera col pavimento tirato a lucido. Un elegante ascensore
provvedeva all’accesso ufficiale, certamente più comodo delle scale che
avevano appena salito. Su una parete c’era una grande porta d’ebano sulla
quale una targa dorata annunciava:
APPARTAMENTI DIRETTORIALI
VIETATO L’ACCESSO AI VISITATORI

Ofelia non si era preparata ad andare dai direttori dell’osservatorio. Non


correvano il rischio di incontrarli? Non li aveva mai visti, ma non ci teneva
a fare la loro conoscenza quella notte.
Thorn si diresse verso uno specchio a muro.
«Aspettami qui».
Ofelia fu colpita dallo sguardo senza concessioni, del tutto privo di amor
proprio, che Thorn rivolse allo specchio prima di entrarci dentro. Era la
prima volta che si serviva della facoltà di attraversare gli specchi davanti a
lei. Era un potere che richiedeva di confrontarsi con ciò che si è. Thorn ci
riusciva, ma non per questo apprezzava ciò che vedeva.
La porta degli appartamenti si aprì su di lui. Non aveva maniglia
all’esterno, ma ce l’aveva all’interno. Ofelia scrutò inquieta le profondità,
quasi invisibili alla debole luminosità delle luci notturne, di quella che
sembrava essere una grande biblioteca. Il soffitto si perdeva in altezza. Tutti
gli elementi dell’arredo erano tanto raffinati quanto funzionali: scaffali
ordinatamente etichettati, mobili dritti, quadri d’autore, orologi che
ticchettavano, busti in perfetto equilibrio sul piedistallo e nessun fronzolo a
sovraccaricare inutilmente quell’eleganza. Tutto il contrario della
sovrabbondanza di oggetti difettosi dell’area di confino. Erano appartamenti
vuoti?
«Non c’è nessuno» confermò Thorn chiudendo la porta.
«E se i direttori tornano?».
«Non c’è nessun direttore. Questi appartamenti servono come facciata e
locali di archiviazione. La vera testa pensante dell’osservatorio rimane
nell’ombra».
Ofelia sbatté le ciglia. I collaboratori lavoravano quindi per osservatori
che lavoravano per direttori inesistenti?
«E se fosse Eulalia Diyoh la testa pensante?».
«Ho considerato l’ipotesi, visto quanto questo procedimento piramidale e
non trasparente è simile al suo, ma dubito molto che sia al corrente di ciò
che accade qui. Non le conviene che altri sappiano replicare in maniera
identica ciò che ha fatto lei tanto tempo fa».
Su quelle parole pronunciate in tono aspro Thorn aprì uno schedario tra
tutti quelli di cui era composta la biblioteca. Ogni suo gesto era preciso,
affilato. Non si sarebbe lasciato dietro alcuna traccia della sua visita. Ofelia
notò un’elegante specchiera psiche che le rimandò l’immagine di una donna
bassina con il pigiama abbottonato male e i capelli che le partivano in tutte
le direzioni. Ecco da dove era entrato Thorn. Quindi non era la prima volta
che andava in quel posto.
Mentre lui esaminava con metodo lo schedario Ofelia andò presso una
delle grandi finestre a forma di rosone. Ciò che vide attraverso la vetrata le
fece mancare il respiro. Da lì si dominavano spianate e pagode di tutto
l’osservatorio. Non erano semplici rosoni: erano gli occhi del colosso.
Grazie agli occhiali ritrovati, Ofelia poteva perfino distinguere le luci della
città dalle stelle. Le arche minori formano un arcipelago a sé stante in cui
individuò il faro del Memoriale, la sobria illuminazione della Buona
Famiglia e, in lontananza, una marea di nuvole che assorbiva lo scintillio di
Babel.
Che fine avevano fatto Blasius e il professor Wolf? E la sciarpa? Erano
ancora ospiti di Ambroise? La caccia ai clandestini era continuata? Octavio
era riuscito a informare la popolazione di quello che era successo?
Di colpo realizzò quanto l’osservatorio li rinchiudesse all’interno di una
parentesi.
«È strano» mormorò contro la vetrata. «Non c’è mai alta marea qui. Il
mare di nuvole si tiene a distanza. È come se ci trovassimo in permanenza
nell’occhio del ciclone».
Pensosa, riportò l’attenzione sull’osservatorio e vide una zona recintata.
Erano monoliti quelli che intravedeva nella notte? Tombe. Cosmos aveva
ragione, l’istituto disponeva di una propria necropoli. Ofelia non poté fare a
meno di pensare al famoso terzo protocollo da cui nessuno, secondo lui, era
mai tornato.
Si allontanò dalla finestra e passò in rassegna le cornici disposte sulla
grande scrivania. Erano vecchie fotografie ingiallite dal tempo. Ne notò una
in particolare: raffigurava invertiti del passato, alcuni riconoscibili dalle
loro malformazioni, in posa davanti a una giostra. La cosa che aveva colpito
Ofelia era il buco in mezzo alla fotografia. Una sagoma era stata
interamente ritagliata, tolta dal gruppo, e con l’occasione si era portata via il
braccio del ragazzo che le cingeva amichevolmente le spalle. Il ragazzo
aveva qualcosa di familiare. Chi erano?
«Tieni».
Ofelia era così assorta nella fotografia che non aveva sentito Thorn
avvicinarsi. Lui le porse un fascicolo.
«Cos’è?».
«Immagini mediche. Che ti riguardano».
Le mani inguantate di Ofelia fremettero aprendo la cartella di uno
spessore impressionante. C’erano una quantità di buste contenenti sue
fotografie di faccia, di profilo e di spalle, tra cui alcune stampate in grande
formato.
Quelle che le avevano scattato nella cabina buia.
Rivelavano ciò che Ofelia non aveva ancora confessato a Thorn?
Mettevano in evidenza l’anomalia che avrebbe impedito a lei di essere
madre e a lui di essere padre? Il fatto che potesse averlo saputo in quel
modo anziché dalle sue labbra le dette una sensazione di pesantezza.
Esaminò le fotografie alla luce di una lampada notturna. Fu così sorpresa
che dimenticò tutti i pensieri precedenti.
Un’ombra.
Dal corpo reso livido dai flash fuoriusciva un’ombra, come un fumo dai
contorni non ben definiti che variavano da una foto all’altra. Intorno alle
mani era più estesa. La cosa più strana era che appariva leggermente sfasata
rispetto ai bordi del corpo, come se ombra e corpo non coincidessero
perfettamente. Dipendeva dalla sua inversione?
«Sono state scattate il giorno della tua ammissione» commentò Thorn.
«Ora guarda questa» disse indicandole un’altra fotografia. «È stata scattata
il giorno dopo».
L’ombra c’era sempre, ma lo sfasamento era aumentato. Nello spazio di
una sola giornata tra il corpo pallido di Ofelia e la sua aura nera si era
operato un vero e proprio sdoppiamento. Era forse l’effetto di tutti i
movimenti asimmetrici che le avevano fatto compiere? Sulle foto prese nei
giorni successivi lo sdoppiamento andava sempre aumentando.
«Quello che ti fanno, e non so cos’è, ti sta cambiando» disse Thorn.
«Anche più che cambiando».
La voce gli si era fatta di piombo. La sua tensione era dovuta a quelle
fotografie.
Accennò un gesto per trattenere Ofelia che si era già precipitata verso la
biblioteca. Thorn aveva usato infinite precauzioni per estrarre il fascicolo
senza spostare quelli accanto neanche di un millimetro. Ofelia ne era
incapace. Svuotò gli schedari uno dopo l’altro facendo cadere per terra la
metà dei dossier sotto lo sguardo impietrito di Thorn.
Doveva assolutamente controllare di persona la situazione degli altri
pazienti dell’osservatorio.
Ogni fotografia possedeva un’ombra, che nei senza-poteri era più tenue,
come specificato nei loro fascicoli, e si sdoppiava dal corpo solo negli
invertiti del programma alternativo. L’ombra era diversa da un individuo
all’altro: in uno era più estesa a livello delle orecchie, in un altro all’altezza
del petto e in un altro ancora all’altezza della gola. Perché quelle
discrepanze? Perché la sua ombra si concentrava sulle mani? Poi capì.
«Le ombre riflettono i nostri poteri familiari. Ecco perché il mio
animismo e miei artigli sono disturbati: a causa dello sdoppiamento».
«E non è tutto» disse Thorn che, fascicolo dopo fascicolo e schedario
dopo schedario, cercava di rimettere ordine dove lei aveva seminato il caos.
«L’osservatorio delle Deviazioni dispone di tutto un armamentario di
strumenti di misura più o meno nascosti per contabilizzare gli echi, non solo
quelli percepibili con la vista o con l’udito, ma anche e soprattutto quelli
molto più numerosi che i nostri sensi non percepiscono. Ho studiato le loro
statistiche da vicino».
Tra un riposizionamento di dossier e l’altro Thorn dette a Ofelia un foglio
ricoperto dalla sua scrittura compatta e nervosa. Erano essenzialmente
grafici tracciati con precisione.
«Primo fatto degno di nota: gli echi si sono moltiplicati dopo il crollo del
quartiere nordovest».
Ofelia annuì. Se n’era accorta anche lei, sì.
«Secondo fatto degno di nota: il loro numero varia in funzione di certe
condizioni».
«L’ho constatato nella cantina. Per poco non sono diventata sorda».
«Terzo fatto degno di nota» continuò Thorn come se non fosse stato
interrotto. «Il loro numero varia anche in funzione delle persone. La
frequenza degli echi rilevata nelle immediate vicinanze dei senza-poteri è
debole, ma aumenta in prossimità di persone che hanno un legame di
parentela con uno spirito di famiglia, e di conseguenza un potere familiare.
Cresce notevolmente in prossimità degli invertiti. Anzi, direi che più
l’inversione è importante e più echi ci sono».
Chino sul cassetto aperto davanti a sé, Thorn fece scendere su Ofelia uno
sguardo d’acciaio.
«Quarto e ultimo fatto degno di nota: tu detieni il record. Tra tutti gli
invertiti del programma alternativo attualmente studiati sei quella che
provoca più echi».
Ofelia ripensò a Helena sulla tribuna dell’anfiteatro, a quello che la
gigantessa aveva visto e alle parole che le aveva detto: «Sono dappertutto,
giovine dama, e intorno a te più che altrove». Il che aveva già più senso
delle altre cose che le aveva detto: la gabbia, il fatto di rivoltarsi e le dita.
«Ricapitoliamo» disse. «Tutti noi possediamo un’ombra che non
possiamo vedere. Negli invertiti è sfasata, e più l’inversione si aggrava, più
lo sfasamento aumenta. Per una qualche ragione questa peculiarità attira gli
echi. Anche l’Altro è un eco, un eco molto raro, capace di pensare da sé.
Ergo, l’osservatorio si serve degli invertiti per adescarlo e ottenere da lui il
segreto del Corno dell’abbondanza che un tempo ha rivelato a Eulalia
Diyoh. Ho tralasciato qualcosa?».
Ofelia fece per pulirsi gli occhiali nella speranza di vedere più chiaro nei
propri pensieri, ma si accorse che non erano mai stati così puliti. La
maniacalità di Thorn era passata anche da loro.
«Ho dovuto limitare le ricerche agli ultimi cinque anni» disse Thorn.
«Gli archivi precedenti sono stati spostati o distrutti».
Ofelia aprì a caso un fascicolo che Thorn aveva appena rimesso a posto
nello schedario. Era di un paziente sottoposto al programma classico, la cui
ombra si sovrapponeva con precisione al corpo. Ma di che era fatta? Perché
non si vedeva a occhio nudo?
«Le lenti scure dei pince-nez» disse in un soffio. «Ecco a che servono, a
visualizzare le nostre ombre. Forse anche gli echi».
Ripensò allo schiaffo che le aveva dato l’uomo con la lucertola il giorno
dell’ammissione. Quel giorno aveva percepito qualcosa intorno a sé. Aveva
forse visto i suoi artigli reagire istintivamente all’aggressione? Ofelia
cominciava a credere che l’uomo li avesse provocati di proposito per
osservarli meglio. Niente sembrava lasciato al caso in quel luogo, ed era
una cosa che faceva paura.
Mentre passava in rassegna tutte le foto della cartella alla ricerca di nuovi
indizi fu colpita dal sorriso del paziente su ognuna di esse. Oltre alle foto
con l’ombra ce n’erano di più tradizionali in cui il soggetto era in posa con
uno strumento musicale o accanto a una ceramica. Trovò una foto di gruppo
in cui i pazienti del programma classico si divertivano a fare smorfie
all’obiettivo. Ridevano perfino i membri dell’équipe di osservazione coi
pince-nez neri e le tonache di seta gialla. Non c’erano tate-automa né
collaboratori col saio. Soltanto facce allegre.
Ofelia ripensò all’attacco di rabbia di Cosmos, al vecchio che si colpiva
l’orecchio, a Seconda chiusa nel suo linguaggio incomprensibile.
L’osservatorio aveva i mezzi per aiutarli, ma preferiva esasperarne le
deviazioni per servirsi meglio di loro.
«E nel frattempo guardano noi che ci dibattiamo nei nostri corpi»
mormorò sentendo la collera crescerle dentro.
«Una parola».
Thorn non aveva parlato forte, ma qualcosa nella sua voce spinse Ofelia
ad abbandonare le fotografie e riportare l’attenzione su di lui. Era curvo su
di lei, con il pugno appoggiato sul tavolo e gli occhi che scrutavano
meticolosamente i suoi. Se Ofelia avesse avuto la facoltà di vedere le ombre
avrebbe visto quella irta di artigli che si ingrandiva intorno a lui. Forse
Thorn non se ne rendeva conto, né lei se la sentiva di dirglielo, ma le stava
facendo male.
«Una tua parola e ti faccio uscire dall’osservatorio stanotte stessa. Non ci
resta molto tempo, ma è ancora fattibile. Troveremo un posto dove non
dovrai temere di essere espulsa o individuata».
«Vuoi che me ne vada? Che scappi?».
Alla luce dell’illuminazione notturna l’espressione di Thorn si fece
ambigua.
«L’unica cosa che conta è quello che vuoi tu. Hai e avrai sempre la
scelta».
“I dadi della mia esistenza” pensò Ofelia.
«Il Polo... Ti manca ogni tanto?».
Thorn parve spiazzato dalla domanda, ma involontariamente contrasse le
dita sull’orologio da taschino. Era un regalo di Berenilde, Ofelia lo sapeva
da quando aveva accidentalmente letto i dadi della sua infanzia.
«Ho lasciato molte cose in sospeso laggiù, ma nessuna ha la precedenza
su quella di cui mi sto occupando adesso».
Era una risposta priva di qualsiasi sentimentalismo, ma Ofelia si
commosse. Anche Thorn, come lei, aveva paura di non rivedere più la
famiglia, tranne che lui non aveva scelta. Non sarebbe potuto tornare a casa
senza prima rendere conto di se stesso ai Genealogisti e alla giustizia del
Polo. Aveva sacrificato i suoi dadi da un pezzo.
E non si lamentava mai.
Neanche Ofelia si sarebbe lamentata.
«Vale anche per me. Voglio finire quello che ho cominciato».
Sulla faccia in chiaroscuro di Thorn l’ambiguità si fece ancora più
marcata.
«Ora posso dirtelo: speravo che la tua scelta fosse questa».
«Davvero?».
Nel petto di Ofelia si scatenò una baraonda. Si calmò solo quanto Thorn
le mise tra le mani una planimetria dell’osservatorio e le indicò un punto.
«Una visita ai locali dei collaboratori sarebbe molto istruttiva.
Scommetto che ci troveremo più di una risposta: la vera natura delle ombre
e degli echi e il loro legame con Eulalia Diyoh, l’Altro, i crolli, il Corno
dell’abbondanza e la decifrazione dei Libri. Io non ho accesso alle loro
ricerche. Con la scusa del segreto professionale, non ho neanche il diritto di
mettere piede nei laboratori. Faremo in modo che tu ci vada al posto mio».
Ofelia non era particolarmente sentimentale, ma quella era di gran lunga
la dichiarazione meno appassionata che Thorn le avesse mai fatto. Esaminò
la mappa da vicino.
«Quando?» domandò.
Il lungo dito ossuto di Thorn scivolò sulla carta.
«Ho registrato mentalmente gli spostamenti dei collaboratori. So dove si
trovano in qualsiasi momento. C’è una sola fascia oraria in cui tutti hanno
da fare fuori dai loro locali: tra il terzo e il quinto gong del pomeriggio».
«Stanotte sono uscita di nascosto, ma durante il giorno non sarà così
facile».
«Ti aiuterò io» le garantì Thorn con sicurezza. «Domani passo
all’attacco. I contatori dell’elettricità che ho consultato prima non
concordano con le letture che mi sono state fornite. In altre parole, nell’area
di confino c’è qualcosa che assorbe parecchia energia, qualcosa di molto
ben nascosto».
A Ofelia vennero subito in mente le lampadine che funzionavano male e
le giostre che andavano in panne.
«Il Corno dell’abbondanza?».
«Proprio così. Mi servirò di questa anomalia per procedere a
un’ispezione più aggressiva dell’area di confino. L’osservatorio non sarà
forse amministrato dai Lord di LUX, ma deve il suo buon funzionamento alle
loro sovvenzioni. I responsabili non potranno fare altro che piegarsi alla
mia richiesta di controllo tecnico. Insomma» concluse ripiegando la mappa,
«concentrerò su di me l’attenzione generale nelle due ore in cui il quartiere
dei collaboratori è vuoto, e tu potrai andarci indisturbata».
Più Ofelia lo ascoltava e più si rendeva conto di quanto Thorn fosse
ancora impregnato del vecchio ruolo di intendente. In realtà portava con sé
l’intero Nord. Anzi, con i suoi modi da orso polare e la sua pelle pallida che
resisteva al sole aveva così poco l’aspetto di un Babeliano che veniva da
chiedersi come facesse la gente a vedere in lui un autentico Lord di LUX. I
Genealogisti dovevano essere davvero influenti per esporlo al pubblico
senza che nessuno facesse domande.
«E se prima mi riportano nella cantina che faccio?».
«Ti rifiuti. Non so se l’esperimento punti effettivamente a stabilire un
contatto con l’Altro, ma se è così dobbiamo evitare a tutti i costi di attirare
la sua attenzione. Che si tratti di lui o di Eulalia Diyoh, non siamo ancora
pronti ad affrontarli».
Ofelia si augurò che non fosse troppo tardi dopo la sua stupida bravata
telefonica. Soprattutto si sforzò di non pensare a quello che aveva visto alla
vetreria. Anzi, creduto di vedere.
«D’accordo. Domani tra il terzo e il quinto gong andrò al quartiere dei
collaboratori, e se siamo fortunati ci troverò il Corno dell’abbondanza».
Le labbra di Thorn ebbero un leggero sussulto.
«La cosa importante è capirne il principio. Se scopriamo come Eulalia
Diyoh si è affrancata dalla condizione umana, e come l’Altro si sia
affrancato dalla condizione di eco, allora saremo in grado di liberarci di
loro».
Ofelia ebbe la sensazione di respirare meglio. Talvolta Thorn aveva un
modo di fare da tagliacarte, ma aveva anche un’assenza di dubbi che
spazzava via i suoi. Scacciò dalla mente la vetreria, il disegno di Seconda, il
sangue e il vuoto. In quel momento l’unica realtà era lui, era lei, erano loro.
Thorn tirò la catenella per estrarre l’orologio, che aprì e richiuse il
coperchio con uno scatto.
«Bene» disse in tono pragmatico. «Visto che hai deciso di restare
abbiamo un po’ di tempo in più».
«Per fare cosa?».
Ofelia temeva che avrebbero programmato un’altra missione. Già non era
sicura di riuscire a portare a termine quella dell’indomani senza farsi
scoprire, con le conseguenze disastrose che ne sarebbero seguite. Troppo
tardi si rese conto dell’effetto imprevisto che la sua domanda aveva
suscitato in Thorn. Il suo viso si era fatto più duro, dalle linee di tensione
della fronte fino ai muscoli della mascella.
«Per noi».
Ofelia sollevò le sopracciglia. In quelle due parole imperative aveva
sentito possessività, e il secondo dopo, nelle palpebre abbassate in fretta,
aveva percepito vergogna, come se Thorn fosse deluso da se stesso. Non era
la prima volta che Ofelia sorprendeva in lui forze contraddittorie.
Sentì un impulso irresistibile a lanciarsi verso di lui. Thorn la mantenne
prudentemente nel suo campo visivo. I suoi occhi erano come il ghiaccio:
freddi e bollenti insieme. Ofelia avrebbe tanto desiderato addolcire un po’
quell’intransigenza... Accolse sulla sua pelle la corrente galvanica degli
artigli, che la rinvigorì. Si issò sulla punta dei piedi e con gesti confusi ma
determinati cominciò a sbottonargli gli alamari d’oro dell’uniforme per
sbarazzarlo di quella pelle finta, restituirlo a se stesso sia pure per una notte.
L’attenzione di Thorn si era fatta divorante. Di solito piuttosto privo di
appetito, sembrava in preda a una fame da lupo.
Mentre avvolgeva il suo corpo su di lei, Ofelia fece a se stessa una
promessa.
Avrebbe cambiato lo sguardo di Thorn nello specchio.
I COLLABORATORI

La giornata cominciò normalmente secondo i criteri del programma


alternativo. Provata dalla notte in bianco, Ofelia toccò a stento la solita
colazione disgustosa, fece finta di interessarsi al balletto delle figure
geometriche sullo schermo del tendone, svolse la consueta ginnastica
mattutina davanti ai collaboratori e subì l’interminabile seduta fotografica
che, ormai lo sapeva, avrebbe messo in evidenza la progressione dello
sfasamento tra corpo e ombra. Poi toccò ai giri di giostra. Ofelia dovette
scrivere con entrambe le mani a bordo di un girello, poi correre all’indietro
su un tapis roulant. A un certo punto si addormentò mentre fissava una
girandola attaccata al manubrio del suo velocipede.
Nessuno accennò a portarla nella cantina del telefono.
Schivava Seconda ogni volta che le si avvicinava con un nuovo disegno e
l’occhio bianco spalancato. Le dispiaceva dover ignorare la sua espressione
avvilita, ma non le andava più di vedersi ricoperta di matita rossa. Quanto a
Cosmos, fu lui a mantenere le distanze da Ofelia, anche se più volte lo
sorprese a guardarle il segno del morso che le aveva lasciato sulla mano.
Il terzo gong risuonò nell’afa pomeridiana.
Tamponandosi il sudore sul collo tra una giostra e l’altra, Ofelia dette
un’occhiata preoccupata alle figure grigie e indistinte che si aggiravano
fiaccamente nel chiostro. Come previsto, tutti i collaboratori avevano
lasciato i loro quartieri, ma ancora non c’era traccia di Thorn. Se avesse
tentato qualcosa in quel momento l’avrebbero individuata prima di aver
fatto dieci passi. Stava cominciando a pensare che il piano del diversivo
fosse fallito quando tutto intorno serpeggiò l’agitazione. Un solo e unico
mormorio volò di bocca in bocca e attraversò l’area di confino come un
aeroplanino di carta: «C’è sir Henry!».
Le tate-automa interruppero ogni attività, ricondussero gli invertiti alla
residenza, tranne Seconda che rimase da sola sul cavalluccio di una giostra,
e li chiusero nelle loro camere insieme a un vassoio con la merenda.
«È SOLO UN CONTROLLO DELL’IMPIANTO ELETTRICO, RIPRENDEREMO I NOSTRI
GIOCHI DOMANI, DARLING».

Appena sentì girare la chiave nella serratura Ofelia non perse tempo. Si
mise i guanti e gli occhiali che aveva nascosto sotto il letto e tolse la
persiana che ormai si reggeva su un solo cardine. La sua prima fuga era
passata inosservata. Si augurò che ancora una volta la fortuna fosse dalla
sua parte.
Uscì dalla finestra. Camminare sul muro di notte era una cosa, farlo in
pieno giorno con una vista mozzafiato sul vuoto e il vento bollente in faccia
era tutt’altra. Quando lo raggiunse, il tetto rovente della residenza le
martoriò le piante dei piedi.
L’ispezione a sorpresa di Thorn nell’area di confino aveva fatto effetto.
Come pupazzetti in miniatura, le figure in saio grigio erano tutte intorno
alla sua scintillante uniforme.
Ofelia scese da una terrazza all’altra fino a raggiungere, dopo varie
acrobazie e quasi altrettanti lividi, un frutteto. Se aveva capito bene
l’itinerario era arrivata ai quartieri dei collaboratori. Rimaneva la cosa più
difficile. Aveva poco più di un’ora per scoprire i segreti di quel posto.
Attraversò un’infermeria, uno scriptorium, una biblioteca e una cucina da
cui emanava un profumino vergognosamente buono: non era certo lì che
preparavano i pasti per gli invertiti. Tutti i locali erano privi di finestre,
conformemente alla planimetria che Thorn le aveva fatto imparare a
memoria: una cosa che poteva giocare a suo favore. L’illuminazione
sfrigolante delle lampadine faceva tremolare le ombre. Se non altro il
diversivo era stato un successo: Ofelia non incontrò nessuno.
Almeno fino al centro del luogo. Si rifugiò in un angolo morto giusto in
tempo: due collaboratori montavano la guardia. Ofelia azzardò una rapida
occhiata. Tonache fruscianti, camminavano uno di fronte all’altro in
corridoio con il cappuccio sulla testa, completamente muti. Uno andava
avanti, l’altro camminava all’indietro. Dopo vari passi si scambiarono i
ruoli senza dire una parola. Quello che indietreggiava si mise ad andare
avanti e viceversa.
All’altra estremità del corridoio c’era una porticina chiusa. Sorvegliata
com’era, doveva essere quella dei laboratori. Almeno per il momento,
Ofelia non avrebbe potuto raggiungerla senza essere vista. Lei e Thorn
avevano previsto l’eventualità. Si acquattò nella penombra sperando di non
dover aspettare troppo. Ogni minuto che passava lì era un minuto sottratto
al poco tempo che aveva a disposizione.
Finalmente le lampadine si spensero. Era l’interruzione di corrente
promessa da Thorn. Il luogo, senza finestre, si ritrovò immerso
nell’oscurità. Ci fu un rumore di due corpi che si urtavano, poi un mormorio
stanco.
«Un altro guasto?».
«Un altro guasto».
Ofelia si lanciò nel corridoio sulla punta dei piedi rasentando il muro per
evitare ogni contatto con i due collaboratori. Localizzò la porta del
laboratorio. Doveva aprirla alla cieca e doveva pure sbrigarsi prima che
tornasse la luce! Le sue mani sulla maniglia confondevano destra e sinistra,
i gesti più banali erano diventati di una complessità snervante. Finalmente
uno scatto. Si infilò nello spiraglio e richiuse la porta accostandola un
centimetro alla volta per non farla cigolare.
Era dall’altra parte.
Addossata alla porta chiusa osservò con gli occhi, le orecchie e tutti i
sensi le tenebre che aveva di fronte. E se Thorn si fosse sbagliato? Se
qualche collaboratore fosse rimasto nei laboratori? Se il ritorno della luce
avesse tradito la presenza di Ofelia in mezzo a loro?
Le lampadine si riaccesero tutte insieme. Non c’era nessuno.
Si trovava in un’ampia sala divisa in settori separati da spesse pareti,
come cellette di un alveare. Tornata l’elettricità, i ventilatori a soffitto si
rimisero in moto e l’aria si fece più respirabile. Sui muri c’erano
attaccapanni vuoti, certamente destinati ai cappucci dei collaboratori.
Così come nell’area di confino, anche lì erano ammassate casse piene di
oggetti fallati: pettini senza denti, gioielli falsi, barattoli bucati, cucchiai
storti, cibo da buttare e ancora niente che potesse somigliare a un Corno
dell’abbondanza. Era frustrante non riuscire a trovare da nessuna parte la
causa di effetti constatabili dappertutto.
In fondo a un bidone della spazzatura trovò un pince-nez malridotto.
Forse un collaboratore ci si era seduto sopra per sbaglio. L’unica lente
rimasta attaccata alla montatura era rotta. E nera.
Ofelia se la appoggiò su un occhio, sotto gli occhiali, e la sua percezione
del mondo cambiò all’istante. Ogni parete, ogni lampada e ogni oggetto
avevano un’aureola di un esile vapore bianco che si scomponeva e
ricomponeva di continuo. I ventilatori, come eliche di una nave,
proiettavano la propria aureola nell’aria in grandi cerchi concentrici.
«Ma che razza...?».
Il mormorio sfuggito dalle sue labbra si materializzò come condensa e a
sua volta si propagò nell’aria.
Cercò di prenderlo. La sua mano le apparve allora doppia. Una era nera e
solida come la lente che teneva incollata all’occhio, l’altra era bianca e
vaporosa e si sovrapponeva male alla prima.
Ma le sorprese non erano finite.
A ogni gesto che faceva, e anche che non faceva, Ofelia proiettava
intorno a sé un po’ della sua ombra che certe volte, prima di disperdersi
completamente, tornava da lei in una forma diluita, come il riflusso di
un’onda, ma talmente piccolo da risultare quasi impercettibile nonostante la
lente speciale.
E non vedeva soltanto le ombre. Vedeva anche gli echi.
I pince-nez degli osservatori funzionavano come il negativo di una
pellicola rivelando ciò che non era visibile a occhio nudo. Appena si tolse la
lente, ombre ed echi scomparvero. L’avrebbe volentieri portata con sé, ma il
vetro già rotto le si sbriciolò fra le dita.
Così ogni cosa aveva un’ombra. O meglio, ombre ed echi erano
manifestazioni diverse di uno stesso fenomeno.
Ottimo inizio.
In cerca di risposte, ispezionò i laboratori uno dopo l’altro. Trovò
alambicchi spenti, lavagne ricoperte di equazioni, bilance simili a quelle
degli uffici postali e una quantità di altri strumenti di misura. La sua
goffaggine peggiorata e il morso di Cosmos non le furono di grande aiuto
per aprire i cassetti. I taccuini scientifici erano incomprensibili.
Due parole ritornavano dappertutto: “aerargyrum” e “cristallizzazione”.
Non aveva idea di cosa significassero, ma trovò un bollettino con la foto di
Cosmos e lo sfogliò. Ogni riga corrispondeva a un giorno, ma la frase
scritta accanto alla data era sempre la stessa: Soggetto inadatto alla
cristallizzazione e non reclamato dalla famiglia. Mantenere al protocollo I.
Ofelia consultò gli allegati. Riprendevano alcune foto simili a quelle che
aveva visto negli appartamenti direttoriali. Su ognuna vedeva un’ombra
dissociarsi dal corpo di Cosmos, come se un altro se stesso avesse fatto un
passo di lato. Alle foto erano annesse dozzine di disegni in cui, con una
certa sorpresa, riconobbe la mano di Seconda. In realtà più che disegni
erano schizzi, e raffiguravano tutti la stessa sagoma scura. Sotto ogni
immagine un collaboratore aveva scritto la data del giorno.
Seconda vedeva quindi le ombre della gente? Se così era, perché i suoi
disegni erano importanti, visto che l’osservatorio era già in grado di
fotografare le ombre?
Si affrettò a cercare il proprio bollettino. Lo trovò in uno schedario a
parte. Era meno pieno di quello di Cosmos, perché era stata ammessa al
programma alternativo solo di recente, ma da principio il rapporto
quotidiano era identico: Soggetto inadatto alla cristallizzazione e non
reclamato dalla famiglia. Mantenere al protocollo I.
Le venne però un accidente notando che ultimamente la frase era
cambiata in: Soggetto adatto alla cristallizzazione e non reclamato dalla
famiglia. Mantenere provvisoriamente al protocollo I. Avviare presto ai
protocolli II e III.
Controllò gli allegati. Eppure le foto erano le stesse che già conosceva,
quelle con uno sfasamento tra il corpo e l’ombra. Niente di nuovo. Fu la
stessa cosa con gli schizzi di Seconda, almeno i primi, perché i più recenti
avevano una particolarità: tracciata in fretta, l’ombra si stava fendendo,
come se avesse ricevuto una brutta sforbiciata all’altezza della spalla e
stesse per perdere il braccio.
Ofelia non aveva visto niente del genere attraverso la lente. Seconda
intuiva forse ciò che foto e pince-nez non mostravano ancora?
Pensò al chiodo. Pensò alla propria immagine imbrattata di rosso, pensò
alla vecchia e al mostro.
Un abbassamento di corrente nelle lampadine la riportò alla missione.
Doveva sfruttare il prossimo guasto per andarsene dai laboratori senza
essere vista. Il tempo stringeva.
Il disordine presente in un ufficio attirò la sua attenzione. Decine,
centinaia di appunti affollavano ogni centimetro quadrato di lavagna o
parete. L’occupante del box era perfino arrivato a scrivere direttamente sul
prezioso legno del piano di lavoro, cosa a cui un addetto alle pulizie aveva
risposto con un biglietto posato accanto: E la carta è per i marsupiali?
Esaminò gli appunti da vicino. A tratti riconobbe il testo caratteristico dei
Libri. Frecce e cerchi a gessetto cercavano di dare un senso a quegli
arabeschi. Senza grande successo, a giudicare dal numero di cancellature.
Il lavoro di decodifica di Elizabeth.
I Genealogisti l’avevano manipolata a quello scopo. Ma perché i Libri
erano così interessanti per loro? Forse perché contenevano il segreto
dell’immortalità degli spiriti di famiglia? E l’osservatorio delle Deviazioni?
Cosa si aspettavano esattamente da quella decodifica? Che rapporto c’era
con le ombre e gli echi? E con il Corno dell’abbondanza?
A quei ritmi Ofelia non avrebbe trovato nessuna risposta prima del quinto
colpo di gong. Le sembrava di avere la mente compartimentata come i
laboratori: stava continuando a vedere gli ingranaggi, ma non il
meccanismo.
Basta così.
Eulalia Diyoh aveva trasmesso la sua memoria all’Altro che a sua volta
l’aveva trasmessa a Ofelia. Era arrivato il momento di farne buon uso. Prese
una sedia e sedette davanti a una lavagna nera che Elizabeth aveva riempito
di codici. Una lingua inventata molto tempo prima da Eulalia.
“Una lingua inventata da me” si corresse facendo un profondo respiro.
Se ne sarebbe servita per scatenare un’altra visione. Fissò ostinatamente
la scrittura sforzandosi di non pensare al tempo che passava, alla propria
impazienza, al futuro e al passato, ma solo alle tracce di gessetto che le
stavano di fronte. Era lo stesso procedimento della lettura.
Dimenticare se stessi per ricordare meglio.
Un lampo le squarciò il cranio. Il mal di testa che non la abbandonava
mai da quando era entrata all’osservatorio si fece più acuto. Ofelia ebbe la
sensazione paradossale di decollare dalla sedia pur cadendo dall’alto. Il
gesso della lavagna si trasformò in stratosfera, poi in nuvole sparpagliate,
poi nel vecchio mondo, poi in una città devastata dai bombardamenti, poi in
un vecchio quartiere in ricostruzione, infine in un tavolino basso su cui
luccicavano due tazze di porcellana.

Eulalia tiene la sua con le mani magre sostenendo lo sguardo del portiere
dall’altra parte del tavolo. Occhiali di tartaruga contro occhiali di metallo.
L’uomo è invecchiato parecchio dall’ultima volta. Il velo del turbante
continua a nascondergli la mascella o ciò che ne resta. Come Babel, anche il
suo viso è devastato dalla guerra.
«È il tuo primo fottuto permesso in quattro anni e vuoi vedere me?»
grugnisce da sotto il velo.
Eulalia annuisce.
«Hai un aspetto terribile. Sembra che tu abbia la mia età».
Eulalia annuisce di nuovo. In effetti deve aver perso almeno la metà della
sua aspettativa di vita. Nessuno ti dà niente per niente. Ma non ha rimpianti.
«Ho saputo dell’orfanatrofio».
«C’è poco da dire. Una fottuta bomba ha fatto fuori i marmocchi. Tutti
sono andati via dall’isola, compreso me. Un portiere senza scuola non ha
nessun fottuto senso».
Eulalia lo capisce visceralmente. Ha l’impressione che le abbiano
strappato la famiglia per la seconda volta.
«La riapriremo» gli promette. «Io e te da soli».
Il portiere sta seduto con rigidità militare, ma intorno alla tazza le sue
mani hanno trasalito.
«Avrò tirato le cuoia prima che ti lascino tornare alla vita civile».
Dà un’occhiata furtiva fuori, ai soldati sull’attenti davanti alla porta del
bistrot. Da quando Eulalia lavora all’osservatorio sul Progetto non può
andare da nessuna parte senza averli alle costole. Non sono lì per proteggere
la sua vita, come sostengono i superiori, ma per evitare che divulghi
informazioni.
«Riapriremo la scuola» insiste lei. «Una scuola completamente diversa
pe-per bambini completamente diversi. Ma devo sapere se sei con me».
Il portiere la guarda bere il tè senza toccare il suo.
«Come dirti di no? Sei sempre stata la mia fottuta preferita».
Eulalia lo sa. All’orfanatrofio era l’unica bambina a non aver paura di lui.
Mentre gli altri giocavano alla guerra lei andava a trovarlo in portineria per
parlare di pace universale e raccontargli storie in cui i disertori erano gli
eroi.
Ignora i soldati che la tengono nervosamente d’occhio dalla porta. Conta
solo il suo amico, un vecchio che come lei non ha più niente da perdere.
«No-non ho l’autorizzazione né l’intenzione di parlarti del Progetto. Non
ti dirò mai quello che ho visto, c-che ho sentito, le cose a cui ho partecipato
e tutto ciò che il Progetto ha cambiato in me. L’unica cosa che posso dirti è
che all’oss-osservatorio stanno sbagliando strada».
Il suo balbettio residuo fa sollevare un sopracciglio al portiere. Sa che per
risolverlo le ci vorranno settimane, forse mesi di rieducazione, e i medici
l’hanno avvertita che non sarà mai del tutto al sicuro da una recidiva dei
lapsus. Ma, ancora una volta, è un prezzo irrisorio da pagare.
Alza gli occhiali verso il pezzetto di cielo sopra di loro. Il tetto del locale
è in corso di restauro. Le martellate degli operai non sono propizie alla
conversazione, ma neanche agli ascolti indesiderati.
«I miei s-superiori stanno pensando solo a una pa-pace per la città, una
pace che implica nuo-nuove guerre. Bisogna pensare più in grande. Molto
più in grande. Ho un piano».
Il portiere non risponde, ma Eulalia sa che la sta ascoltando molto
attentamente. L’ha sempre ascoltata. È uno dei motivi per cui lei l’ha scelto.
«Non saremo soli. Ho... Diciamo che in qualche modo ho conosciuto
qualcuno, una persona straordinaria che ha trasformato la mia visione del
mondo. Ha trasformato me. Mi ha insegnato che esiste qua-qualcos’altro di
ancora più straordinario, qualcosa che va al di là di tutto ciò che tu possa
concepire, di tutto ciò che io stessa concepivo, benché non sia mai stata
sprovvista di immaginazione».
Solo a citare l’Altro, Eulalia si sente già fremere di esaltazione. Le è
diventato così intimo che intuisce la sua presenza su ogni superficie
riflettente a portata di mano, gli ottoni del bistrot, il tè nella tazza, perfino le
lenti dei suoi occhiali. Lui è lei e lei è lui. Unici e plurali.
«Qual è il piano?».
La domanda del portiere è priva di ironia. L’ardore di Eulalia gli ha
acceso una scintilla di speranza. La conosce fin dal primo giorno che è
arrivata all’orfanatrofio, ma non l’ha mai davvero considerata una bambina,
e lei lo sa. In quel momento la guarda come se fosse sua madre, come se
fosse la madre dell’intera umanità.
A Eulalia piace quello sguardo.
«Salvare il mondo. E stavolta so come».
Dalla porta un soldato le indica la pendola. Il suo permesso è terminato.
Dovrà tornare all’osservatorio e ubbidire agli ordini, ma non per molto
ancora. Oh no, non per molto.
Mentre posa una banconota sul tavolo ne approfitta per sporgersi in
avanti.
«Mi servono solo tre cose: echi, parole e una contropartita».

La faccia stupita del portiere tornò a essere gesso sulla lavagna. Ofelia
sbatté le palpebre senza osare respirare, ancora impregnata dalla memoria di
Eulalia Diyoh. Ramificazioni e nuovi collegamenti si sviluppavano nella
sua testa dolente aprendo porte su stanzette interne di cui non supponeva
l’esistenza.
Vedeva il meccanismo.
Sapeva che doveva andarsene da quel luogo al più presto, tornare in
camera sua e aspettare la notte per vedersi con Thorn negli appartamenti
direttoriali, come d’accordo, ma voleva prima sincerarsi di un’ultima cosa.
Prese una lente d’ingrandimento dal cassetto di un collaboratore e un
oggetto a caso tra quelli fallati di cui erano piene le casse: una tortiera, che
stando all’odore nauseabondo doveva aver contenuto una delle disgustose
torte che ogni giorno propinavano al refettorio. Dovette aguzzare la vista e
aiutarsi con la lente per trovare quello che cercava: nel metallo erano incisi
alcuni caratteri microscopici simili a quelli dei Libri.
Sì, Ofelia aveva finalmente capito il meccanismo.
Il Corno dell’abbondanza non creava niente.
Convertiva gli echi in materia.
E lo faceva grazie a un codice.
Posò tortiera e lente d’ingrandimento dove le aveva trovate. Stava
cominciando a mettere insieme i pezzi del puzzle, ma li avrebbe disposti
nell’ordine giusto lontano da lì. Per prima cosa doveva trovare un modo di
sviare l’attenzione dei due collaboratori in corridoio, casomai non avesse
potuto contare su una nuova interruzione di corrente.
Non ne ebbe il tempo.
La porticina dalla quale era arrivata si aprì facendo entrare una folla di
collaboratori che si sbottonarono i cappucci grigi per appenderli
all’attaccapanni. Ofelia si nascose precipitosamente dietro un box. Perché
erano già di ritorno? L’ispezione di Thorn si era conclusa prima del
previsto?
Fra loro erano silenziosi come lo erano con gli invertiti. Si sentiva solo lo
scricchiolio del parquet sotto le suole dei sandali. Una volta tanto Ofelia fu
contenta di essere scalza mentre correva da una parete all’altra per non farsi
vedere. Ogni collaboratore si recò nel proprio laboratorio.
Sentendo avvicinarsi dei passi si affrettò a entrare nel box più vicino e
nascondersi sotto un piano di lavoro, sennonché il collaboratore che voleva
evitare entrò a sua volta nello stesso box. Si era messa in trappola da sola.
Acquattata nel suo nascondiglio osservò i lembi setosi del saio grigio
accarezzare il pavimento. Una mano, anch’essa inguantata in grigio, prese
lo sgabello, ma anziché piazzarlo davanti al piano di lavoro lo mise contro
una parete.
«Non è stato un incidente» mormorò il collaboratore. «Non so cosa sia
successo, ma certainly non è stato un incidente».
La sua voce aveva il timbro raffinato di un erudito. Ofelia pensò che
parlasse da solo, quando un mormorio soffocato gli rispose dall’altra parte
della parete.
«Non sono affari nostri».
«La figlia di lady Septima sono affari di tutti».
Per poco Ofelia non sbatté la testa contro la parte inferiore del bancone.
Era successo qualcosa a Seconda?
«Più che altro speriamo che non si sia danneggiata troppo» disse l’altra
voce. «Abbiamo bisogno di lei. Se non altro, l’incidente ha abbreviato
l’ispezione di sir Henry. Ho trovato la sua intrusione very spiacevole».
Il saio del collaboratore si agitò. Rannicchiata sotto il piano di lavoro,
Ofelia si protese cautamente in avanti per vederlo meglio. Era seduto sullo
sgabello con l’orecchio incollato contro la parete. Aveva il cranio pelato
lucido di sudore. Se non cambiava posizione, forse Ofelia sarebbe riuscita a
sgattaiolare fuori senza farsi notare.
«Danneggiata?» sussurrò in tono angosciato mentre Ofelia usciva dal suo
nascondiglio. «Ma è solo una bambina».
«Siete really ingenuo, caro confratello» rispose la voce dal box vicino.
«Ne riparleremo fra qualche mese. O meglio, non ne riparleremo affatto.
Rivolgetemi di nuovo la parola e mi vedrò costretto a denunciarvi alla
direzione».
Ofelia si precipitò fuori. Non era stata discreta, il collaboratore non
poteva non averla vista, avrebbe dato l’allarme.
Ma non ci furono allarmi né grida.
Il sollievo fu di breve durata. Anche se tutte le lampadine si fossero
spente in quel momento non ce l’avrebbe fatta a imboccare la porta senza
andare a sbattere su qualche collaboratore. Le serviva un’altra uscita.
Notò in fondo alla sala un tendaggio giallo al di sopra del quale era
scritto a grosse lettere SOLO OSSERVATORI. Non ricordava di aver visto
quell’accesso sulla planimetria di Thorn, ma almeno non avrebbe trovato
collaboratori dall’altra parte.
Scivolò lungo le pareti abbassandosi ogni volta che passava davanti a un
piano di lavoro.
Una collaboratrice stava scaricando un carrello appena arrivato su rotaie
con un carico di oggetti. Era la stessa paccottiglia di cui erano pieni tutti i
bidoni della spazzatura, ma la donna li maneggiava come se fossero pietre
preziose e li inventariava uno dopo l’altro in un apposito registro.
Ofelia passò alle sue spalle e si infilò dietro il tendaggio ritrovandosi in
un labirinto di scale mal illuminate che salì, scese e risalì inciampando. Da
dove uscivano quelle scale? Sulla planimetria non c’erano.
Alla fine sbucò in un corridoio.
In realtà era molto più di un corridoio. Era così lungo che non se ne
vedeva la fine e le volte a ogiva del soffitto si trovavano a varie decine di
metri dal suolo. Bastoncini di incenso diffondevano una nebbiolina
profumata rotta qua e là da lame di luce provenienti dalle alte vetrate. Era
una navata, tutta in pietra e vetro.
Suo malgrado ebbe un brivido.
Passò davanti a una vasca posata sulle spalle di una statua curva con la
bocca contratta per lo sforzo. Era una vera acquasantiera?
Camminò a lungo in linea retta senza mai scorgere la fine della navata.
Non poteva essere infinita... Le navate laterali ospitavano cappelle chiuse
da altrettante porte dietro ognuna delle quali poteva nascondersi un
osservatore. O, perché no, il Corno dell’abbondanza.
Gigantesche lettere d’oro erano incastonate nella pietra del pavimento.
Fece un passo. ESPIAZIONE.
Un altro passo. CRISTALLIZZAZIONE.
Un altro passo. REDENZIONE.
Quel posto metteva Ofelia maledettamente a disagio. Stava pensando di
fare dietrofront quando una voce la bloccò.
«Bienvenue al secondo protocollo».
L’ERRORE

Le parole rimbalzarono a lungo contro le pietre squadrate della navata.


Ofelia ne cercò l’origine attraverso i fumi d’incenso. La trovò
sull’inginocchiatoio di una navata laterale. Un corpo magro vi stava in
raccoglimento, talmente immobile da fondersi con il legno e il velluto. Le
luminescenze del suo profilo scintillavano alla luce delle vetrate.
Mediana.
La prima cosa che fece Ofelia fu assicurarsi che si riflettesse sul
pavimento lucido. Verifica che tuttavia non la tranquillizzò più di tanto.
Sebbene sapesse che Mediana si trovava all’osservatorio delle Deviazioni,
mandata lì da lady Septima in persona, da quando era arrivata non le era
venuta in mente una sola volta, la credeva in un reparto senza rapporti con il
suo.
«È questo il secondo protocollo?» si stupì Ofelia guardandosi intorno. «E
tu che ci fai qui?».
Mediana non rispose. Non aveva bisogno di essere né Eulalia Diyoh né
l’Altro per rappresentare una minaccia. Durante il corso alla Buona
Famiglia quell’Indovina aveva imposto a Ofelia la propria legge. Si era
servita del proprio potere per introdursi di forza nei suoi ricordi e piegarla
ricorrendo a un ricatto che avrebbe potuto compromettere seriamente lei e
Thorn. L’ultima volta l’aveva vista proprio lì all’osservatorio, nella veranda
dei visitatori, poco prima del crollo. All’epoca Mediana era così sconvolta
dall’incontro con lo spazzino del Memoriale che non era riuscita a parlarci.
In quel momento, accasciata sul gradino dell’inginocchiatoio, esprimeva la
stessa apatia di allora. Il pigiama continuava a svolazzarle intorno come una
seconda pelle troppo larga.
Eppure Ofelia la percepiva completamente diversa.
«Che ci fai qui?» insisté. «Fai parte anche tu del programma alternativo?
Ma tu non hai niente di invertito, che io sappia».
Mediana continuava a non rispondere e Ofelia continuava a tenersi
prudentemente a distanza. Non si fidava di quella postura orante.
E odiava l’idea di avere bisogno di lei.
«Puoi dirmi dov’è l’uscita, almeno?».
Una contrazione sollevò l’angolo delle labbra di Mediana. Di colpo
Ofelia si rese conto che era mantenuta sull’inginocchiatoio da ferri alle
caviglie e ai polsi. Non era in raccoglimento, l’avevano incatenata lì contro
la sua volontà. ESPIAZIONE. CRISTALLIZZAZIONE. REDENZIONE. Era dunque
quello il secondo protocollo? Trattare i pazienti come galeotti?
«Ho commesso un errore».
Mediana aveva parlato con voce flebile, ma l’acustica della navata portò
in alto la sua voce. Sembrava rinsecchita. Da quanto tempo era legata a
quell’inginocchiatoio?
Ofelia dette un’occhiata nervosa a entrambi i lati della navata. Un
osservatore sarebbe potuto uscire da una cappella in qualsiasi momento.
Non aveva proprio voglia di restare, ma nessuno, neanche Mediana,
meritava un trattamento del genere.
Cercò la chiave delle catene nelle nicchie delle statue. Non la trovò, e in
mancanza di meglio tolse i bastoncini d’incenso dal loro vasetto, lo
sciacquò nel fonte battesimale e lo riempì fino all’orlo. Quando glielo
accostò goffamente alle labbra, Mediana si lasciò scivolare l’acqua sul
mento senza bere. I suoi occhi sgranati guardavano dritto davanti a sé oltre
il vasetto, oltre Ofelia, oltre i muri della navata, luccicando febbrili e
infervorati.
«Ho commesso un errore» ripeté lentamente. «Ho passato toute la mia
vita a inseguire piccoli segreti senza importanza. Presto sarò pronta per il
terzo protocollo».
Ecco qual era il cambiamento di Mediana: sotto l’aspetto spento ardeva
dello stesso riflesso delle luminescenze della sua pelle.
Ofelia si avvicinò al suo orecchio.
«L’hai visto il Corno dell’abbondanza, tu?».
Mediana sembrò del tutto disinteressata alla domanda. I suoi occhi
guardarono ancora più lontano, come persi verso orizzonti interni.
«Non posso liberarti» sospirò Ofelia, «ma posso provare ad avvertire i
tuoi cugini, se sono ancora a Babel».
«Perché?».
«Perché quello che ti stanno facendo subire è inaccettabile».
«Sto espiando».
«E anche perché nessuno è mai tornato dal terzo protocollo».
Un sussulto provocatorio agitò la bocca di Mediana rivelando qualcosa
dell’ex regina dei precorritori.
«Non rifarò lo stesso errore. Basta con i piccoli segreti. Ormai l’unico
che valga la pena conoscere è quello che mi ha promesso l’osservatorio. Ma
prima devo cristallizzare. Solo allora conoscerò la redenzione».
Le mani giunte vibravano di misticismo mentre Mediana pronunciava
parole che per Ofelia non avevano il minimo senso. Una cosa però le
risultava chiara: doveva tirarsi fuori dal programma prima di arrivare a quel
punto. In un fascicolo dei laboratori qualcuno aveva scritto che era adatta
alla cristallizzazione e avviabile ai protocolli II e III, il tutto solo perché
Seconda aveva disegnato una crepa sulla spalla della sua ombra.
«Cos’è la cristallizzazione? A che serve?».
Mediana si passò la lingua sulle labbra secche. Ofelia sospettò che
provasse un certo gusto a sapere cose che lei ignorava, quasi che perfino in
quel luogo la loro rivalità si risvegliasse.
«Non so cosa ci facciano loro, non me l’hanno detto. A me la
cristallizzazione servirà a ottenere quello che ho sempre desiderato, la vera
conoscenza! Un punto di vista absolument nuovo sulla nostra realtà».
Ofelia si aggiustò gli occhiali sul naso. Eulalia Diyoh aveva detto la
stessa cosa dopo l’incontro con l’Altro al telefono della cantina. In qualche
modo quell’eco aveva capovolto la sua visione del mondo. La
cristallizzazione era forse il fenomeno che permetteva di invocare l’Altro?
L’osservatorio delle Deviazioni sembrava avere disperatamente bisogno di
lui e della sua scienza.
Mediana dovette scambiare il silenzio di Ofelia per stizza. Malgrado il
deperimento fisico e lo sguardo fumoso esultava.
«Credevi che solo gli invertiti come te avessero questo privilegio,
mademoiselle? Significa lasciarsi sfuggire l’essenziale».
«Cos’è l’essenziale?» si spazientì Ofelia.
Non poteva trattenersi oltre. Se l’avessero sorpresa lì mentre avrebbe
dovuto essere chiusa in camera come tutti gli invertiti sarebbe finita anche
lei ammanettata a un inginocchiatoio.
«La rinuncia».
La risposta di Mediana fu assorbita da un rumore di tuono nella navata.
Passi in avvicinamento. La risonanza era tale da rendere impossibile capire
da che parte provenissero.
Con un leggero movimento delle palpebre Mediana indicò a Ofelia un
confessionale a pochi metri da loro. Il rumore dei passi aumentava di
volume un secondo dopo l’altro. Erano più d’uno. Ofelia non poteva più
permettersi di esitare. Si nascose dietro la tendina gialla del confessionale
nel momento in cui Mediana si rivolgeva ai nuovi arrivati.
«Mostratemi la via per la cristallizzazione, s’il vous plaît».
Scostando appena la tendina Ofelia vide un gruppo di osservatori intorno
all’inginocchiatoio di Mediana. Era la prima volta che li vedeva da quando
era stata messa nell’area di confino. Si riconoscevano dagli abiti gialli,
dall’automa che avevano sulla spalla e dal pince-nez con le lenti scure.
Non dicevano niente. Si limitavano a guardare Mediana.
Sprofondandosi il più possibile nel buio del confessionale Ofelia colse un
movimento accanto a sé. Nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi la grata
di separazione tra confessore e confessato, almeno secondo i testi di storia
religiosa che aveva studiato, c’era invece uno specchio.
Ecco finalmente la via d’uscita che cercava. Che destinazione? A quanto
ne sapeva, gli unici specchi non deformanti dell’osservatorio erano negli
appartamenti direttoriali, dove non poteva recarsi prima di notte. Forse i
direttori non esistevano, ma qualcuno si occupava di gestire gli schedari di
immagini che erano in quelle stanze, e andarci di giorno sarebbe stato
troppo rischioso.
Si raffigurò mentalmente il Memoriale e, nel Memoriale, il Secretarium.
E nel Secretarium lo specchio sospeso. In quel luogo, all’interno della
camera segreta di Eulalia Diyoh, avrebbe finalmente potuto ragionare
indisturbata.
Si tuffò nel suo riflesso scivolando nel luogo di mezzo come se di colpo
avesse lo spessore di un foglio di carta, poi riemerse in piena luce.
Si ritrovò faccia a faccia con un’anziana dama sbigottita che indossava
una toga da accademico e aveva un libro in una mano e una lente
d’ingrandimento nell’altra. Non meno sbigottita di lei, Ofelia si domandò
come mai una professoressa fosse lì, prima di rendersi conto che era lei a
non essere nel posto giusto. Era uscita dallo specchio di una nicchia nel bel
mezzo della biblioteca del Memoriale, per l’esattezza in una sala di
consultazione pubblica. Le persone presenti avevano smesso di leggere per
osservare quell’intrusa a piedi nudi che contravveniva alle più elementari
regole del codice d’abbigliamento. C’era meno gente rispetto a prima del
crollo, ma abbastanza perché Ofelia non potesse passare inosservata.
Alzò gli occhi verso il globo del Secretarium che galleggiava in assenza
di peso al centro dell’atrio. Come mai per due volte era arrivata là dentro
senza farlo apposta e, quando aveva provato ad andarci intenzionalmente,
aveva sbagliato mira?
Lo sfasamento dell’ombra.
Non alterava soltanto la sua capacità di leggere e animare gli oggetti, ma
anche quella di attraversare gli specchi. D’accordo. Allora. Come tornare
all’osservatorio? I memorialisti avevano già chiamato la sicurezza, gli
onesti cittadini la stavano additando.
Un Negromante andò dritto verso di lei.
«Prego, da questa parte, miss» disse. «Devo procedere a una verifica dei
documenti».
Ovviamente Ofelia non li aveva. Erano rimasti in uno schedario a vari
chilometri da lì, e il tatuaggio PA sul braccio non poteva certo sostituirli.
Fuori dall’osservatorio era soltanto una clandestina. Se si fosse lasciata
prendere l’avrebbero espulsa da Babel seduta stante e per sempre.
Si voltò verso lo specchio da cui era accidentalmente arrivata. Ombra
sfasata o no, doveva andarsene. Subito.
«Miss» la chiamò il Negromante con voce più ferma.
Già la temperatura corporea di Ofelia stava cominciando a scendere.
Sapeva che l’uomo non avrebbe esitato a congelarla sul posto se riteneva
che volesse fuggire.
«Miss!».
Ofelia sentì se stessa rallentare di colpo. Era a un soffio dallo specchio,
ma già il respiro le si stava trasformando in condensa. Le fecero male i
polmoni. Vide il proprio viso diventare livido e, in secondo piano, la divisa
del Negromante che ingrandiva alle sue spalle, con la mano protesa per
arrestarla.
Ce. L’aveva. Quasi. Fatta.
Si lasciò cadere come un pezzo di ghiaccio nel proprio riflesso, che
subito la assorbì. Con quel poco che le restava di presenza di spirito pensò
“Osservatorio”. Attraversò il luogo di mezzo come un sogno, poi un cambio
di luminosità le indicò che era uscita. Non poté fare altro che riprendere la
caduta dove l’aveva interrotta.
Tappeto.
Raggomitolata al suolo, Ofelia fu scossa da tremiti incontrollabili. Non
riusciva ad alzarsi né a parlare. Respirare era una tortura.
Alla luce di una finestra, una forma si chinò su di lei.
«Freddo».
Fu l’unica parola che riuscì a dire tra i denti. L’oscurità le calò addosso
così all’improvviso che pensò di essere diventata cieca prima di capire che
qualcuno l’aveva avvolta in una coperta. Vi si raggomitolò dentro e poco a
poco, un grado dopo l’altro, la sua temperatura corporea risalì. La pelle
intorpidita cominciò a farle male man mano che tornava sensibile. La
violenza poteva pure essere vietata su Babel, ma una manganellata non
l’avrebbe certo fatta soffrire di più.
Cercò a tastoni gli occhiali caduti insieme a lei sul tappeto. Quando se li
rimise sul naso vide che si trovava in una camera. Seduto sul letto, un uomo
canticchiava una ninnananna. Il fatto che una sconosciuta fosse sbucata
dallo specchio del suo armadio non sembrava inquietarlo più di tanto.
Ofelia gli restituì la coperta.
«Grazie».
Lui la prese e, non sapendo bene che farne, se la tenne in grembo
continuando a canticchiare.
Ofelia sollevò la zanzariera della finestra. I giardini erano inondati da una
luce densa da tardo pomeriggio. La statua del colosso in lontananza copriva
il sole. Lo sapeva: aveva ancora una volta deviato dalla traiettoria. Aveva
puntato agli appartamenti direttoriali ed era atterrata invece in una camera
del programma classico nonostante in precedenza non ci si fosse mai
specchiata. L’occupante si mostrò molto collaborativo. Non le fece
domande, e quando Ofelia se ne andò posandosi un dito sulla bocca non
mosse obiezioni, come se avesse curato un uccellino e poi l’avesse lasciato
volare via.
Ofelia si affrettò nei piani della residenza. Dalle varie sale le giungevano
risate di bambini o note di una lezione di musica. Era la facciata dorata
dell’osservatorio delle Deviazioni. “Ma io ne ho visto l’altra faccia” pensò.
Aveva ancora impressa negli occhiali la visione di Mediana incatenata
all’inginocchiatoio.
Evitò per un pelo infermieri e sorveglianti. Lì nessuno si nascondeva
sotto un cappuccio grigio, ma tutti portavano il fischietto al collo. Dopo un
po’ percorse una passerella che, stando ai cartelli, portava agli appartamenti
direttoriali. Di fatto la passerella si infilava nel fianco del colosso, dove
brillava la gabbia di un ascensore. Ofelia fece discretamente dietrofront
quando vide due persone di guardia.
Ancora una volta avrebbe dovuto aggirare il problema.
Alla fine trovò una scala di servizio così malridotta che rischiò di crollare
sotto il suo peso, ma che le permise di scendere fino alla base della statua.
Finalmente il tunnel! Ofelia vi si infilò stando attenta a non fissare le
migliaia di sfaccettature caleidoscopiche lungo le pareti che si rimandavano
la luce del tramonto. Trovò la porticina nascosta che aveva varcato insieme
a Thorn la sera prima. Si sentì in salvo solo una volta in alto, in cima alla
statua. Si nascose dietro una tenda nel passaggio segreto che si trovava di
fronte all’anticamera degli appartamenti direttoriali, senza fiato e con le
gambe che le cedevano si lasciò andare su uno scalino e non si mosse più da
lì. A lungo sentì soltanto il proprio respiro spezzato alla luce vacillante delle
lampadine.
Ce l’aveva fatta.
Nonostante gli errori di percorso era riuscita ad andarsene dal quartiere
dei collaboratori e raggiungere il luogo convenuto, per giunta in anticipo.
Fu in quel momento che la sentì, così intensa che si abbracciò il petto per
attutirne i colpi. La paura. Non perché avesse rischiato di finire tra le grinfie
degli osservatori o congelata da un Negromante, no, era un panico che
veniva dal profondo di se stessa. Ofelia conosceva una piccola parte dei
segreti di Eulalia Diyoh, ma le sembrava di intravedere una verità ben più
vasta annidata in un angolo di memoria, e dalle implicazioni così enormi da
farla sentire una terra sconosciuta anche per se stessa.
Come aveva fatto Thorn in tutti quegli anni a sopportare il peso della
memoria che gli aveva trasmesso la madre? Thorn aveva saputo fin
dall’infanzia che il mondo era solo una gigantesca tela tessuta nei secoli da
un Dio autoproclamatosi tale, e si era fatto un dovere di porre fine a quella
situazione senza chiedere il parere di nessuno.
Accovacciata sullo scalino, appoggiò la testa sulle ginocchia. Non vedeva
l’ora che lui arrivasse, per poter attingere un po’ della sua solidità...
Dovette addormentarsi senza accorgersene, perché a un certo punto fu
svegliata dal campanello dell’ascensore. Qualcuno era entrato in
anticamera. Da dietro la tenda Ofelia riconobbe il cigolio metallico che le
era ormai familiare.
«Aspetterò da solo».
L’accento di Babel era il più melodioso del mondo, ma in bocca a Thorn
acquistava una sonorità funerea.
«Mi permettete di tenervi compagnia, sir? I direttori sono sempre
extremely occupati. Io stessa non li ho ancora mai visti. So che ci tenete a
far loro il vostro rapporto stasera, ma forse dovrete aspettare un bel po’».
Era la ragazza con la scimmietta che accompagnava Thorn dappertutto.
Se davvero credeva che i direttori esistessero era molto mal informata.
Ofelia percepì nella sua voce una tonalità acutissima che le procurò una
sensazione sgradevole. Dietro le sue parole c’era molto più che educazione
e ignoranza.
«Aspetterò da solo».
Thorn aveva pronunciato ogni sillaba come avrebbe fatto un automa.
Ofelia si rimproverò subito la gelosia che per un attimo l’aveva sfiorata.
Thorn era così poco indulgente verso se stesso da non poter concepire che
qualcuno lo trovasse seducente.
La ragazza con la scimmietta non si fece smontare.
«Forse... forse dovreste cambiarvi, sir. Posso portare l’uniforme alla
nostra lavanderia se... well, se me la date».
Ofelia trovò che quella conversazione stesse prendendo una piega ben
strana.
Attraverso la tenda che li separava immaginava la graziosa silhouette in
sari giallo con l’automa sulla spalla e un portadocumenti nervosamente
stretto al petto. Le sembrava addirittura di vederne gli occhi scuri e brillanti
che teneva sollevati verso Thorn tenendosi a rispettosa distanza.
«A proposito di miss Seconda» continuò la ragazza, «il dottore ha detto
che la ferita era impressionante, ma non preoccupante».
Ofelia era sempre più stupefatta. Dall’altra parte della tenda la voce
divenne un sussurro.
«Non sarei autorizzata a dirvelo, sir, ma queste lenti nere che porto mi
permettono di vedere certe cose. Malgrado le apparenze, non siete
responsabile di quello che è successo. Miss Seconda non avrebbe dovuto
lanciarsi su di voi in quel modo. Certe volte è così impulsiva con i suoi
disegni! La colpa è sua. Poco importa chi siate stato in passato, now siete un
Lord di LUX!» disse più forte, vibrando di venerazione. «I Lord di LUX sono
intoccabili e non commetterò mai l’err...».
«Aspetterò da solo».
La risposta di Thorn non era cambiata, ma si era caricata di un’ostilità
che convinse la ragazza a non insistere.
«Buonanotte, sir».
Si ritirò con un fruscio di seta. Appena l’ascensore se la portò via Ofelia
scostò la tenda e avanzò sul pavimento dell’anticamera.
Thorn era in piedi alla luce delle lampade e fissava con severità la porta
d’ebano degli appartamenti direttoriali. Non pensava davvero che potesse
aprirsi, sembrava più che altro concentrato a evitare il proprio riflesso sulle
superfici lucide della stanza. Staccò gli occhi dalla porta solo per spostarli
su Ofelia quando la sentì arrivare. Non manifestò sorpresa né collera. Tutto
ciò che il suo sguardo conteneva di emozione era rivolto contro se stesso.
Stava ostinatamente con la schiena al muro, come se volesse mantenere
l’intero spazio nel suo campo visivo. Stropicciava tra le dita un foglio di
carta. L’oro dell’uniforme era macchiato di sangue.
Vederlo in quel modo la sconvolse.
«Tutto ciò per un disegno».
Thorn l’aveva detto senza particolare espressività, eppure appena
pronunciate quelle parole la sua rigidità venne meno, i lineamenti duri della
faccia cedettero uno dopo l’altro e l’armatura della gamba si piegò come se
non fosse più in grado di sostenere un corpo diventato intollerabilmente
pesante.
Con un frastuono di acciaio Thorn si lasciò cadere in ginocchio e si
aggrappò con entrambe le mani a Ofelia, ma con una tale energia che per
poco non le fece perdere l’equilibrio. Ofelia tenne duro. Per quanto scossa
interiormente, in quel momento toccava a lei essere salda per due. Thorn
continuava a crollare su se stesso, con la testa china in avanti e le spalle
contratte. Stringeva Ofelia come se volesse aggrapparsi a lei e allo stesso
tempo tenerla a distanza.
Voleva impedire agli artigli di fare nuove vittime.
L’abisso nel quale stava precipitando era della stessa natura del vuoto tra
le arche, una caduta infinita da cui nessuno tornava.
Ofelia non l’avrebbe permesso.
Abbracciò Thorn stretto come lui abbracciava lei e chiuse gli occhi per
visualizzare meglio i loro artigli che pulsavano a un ritmo caotico: i suoi
deformati dall’osservatorio, quelli di Thorn pungenti come rovi. Non erano
nocivi in sé. Erano lui ed erano lei. Con un istinto che le veniva da un
potere familiare estraneo cercò di collegare il proprio influsso nervoso a
quello di Thorn per disattivarlo. Dato lo sfasamento della propria ombra
dovette riprovarci più volte, ma alla fine ci riuscì. Sentì Thorn trasalire
contro di lei e vide i muscoli delle sue spalle tendersi ancora di più. Per un
attimo pensò che si sarebbe divincolato con rabbia, invece le spalle gli si
rilassarono. La perpetua rigidità che affliggeva il suo alto corpo ossuto si
sfaldò. Aveva smesso di combattere contro se stesso.
In ginocchio sul pavimento, con la fronte appoggiata sulla pancia
contratta di Ofelia, non si mosse più. Pianse.
Per terra c’era il disegno sgualcito di Seconda.
Un coniglio che veniva fuori da un pozzo.
Rosso sangue.
(PARENTESI)

Undici mesi, quattro giorni, nove ore, ventisette minuti e tredici secondi
prima.

Thorn era seduto su una sedia d’oro. Ottantaquattro centimetri di altezza,


quarantotto di larghezza e quarantadue di profondità, escludendo i decimali
e la quota della seduta. Non calcolava intenzionalmente. Le misure
venivano da sé, si producevano in lui suo malgrado a ogni sua interazione
con l’ambiente circostante, erano nelle maglie delle zanzariere delle finestre
d’oro, nella distanza tra le gambe dei mobili d’oro, nel volume di liquido
contenuto nella caraffa d’oro, nei motivi geometrici dei tappeti d’oro.
Erano soprattutto nelle lancette d’oro della pendola del salotto.
Thorn stava aspettando su quella sedia al primo piano del club di
genealogia da duemilatrecentodiciotto secondi. Quella gente non aveva
alcun rispetto per la puntualità. Non era soltanto mancanza di educazione,
era illogico, perché se perdeva tempo lui ne perdevano anche loro. Avrebbe
potuto impiegare quei duemilatrecentodiciotto secondi, ormai
duemilatrecentotrentaquattro, a dedicarsi alla missione che loro stessi gli
avevano affidato.
Non era stupido, sapeva benissimo che l’attesa faceva parte del gioco.
Del loro gioco.
Quando finalmente la coppia di Genealogisti entrò in salotto, ai
precedenti secondi se ne erano aggiunti altri milleseicentosessantotto. La
prima volta che Thorn li aveva incontrati era un fuggiasco sporco e
febbricitante che si trascinava dietro una gamba rotta. Si presentarono a lui
come si presentavano sempre ai loro appuntamenti, d’oro vestiti.
«Welcome, sir Henry» dissero all’unisono.
Erano stati loro ad avergli dato quel nome. Thorn non conosceva i loro,
ma non ne aveva bisogno per sapere chi fossero. Lo sapeva da prima di
arrivare a Babel, da prima di evadere dal Polo. Aveva memorizzato le
ramificazioni politiche di tutte le arche e da anni si teneva informato della
cronaca interfamiliare. Sì, molto prima di incontrarli aveva capito che tra
tutti i servitori di Dio quei due erano al servizio solo di se stessi. Non ci
volevano grandi doti psicologiche per rendersene conto.
L’uomo e la donna presero posto su un divano, così stretti l’uno all’altra
che era impossibile quantificare la distanza fra loro. Thorn riportò la propria
attenzione sui diametri anteroposteriori, trasversali e sovrauricolari delle
loro scatole craniche. Era capace di prendere le loro misure con uno
sguardo, ma non avrebbe saputo tradurre quelle cifre in nozioni estetiche.
Erano belli? Lui li trovava ripugnanti. Anche un po’ di più.
«Come d’accordo sono venuto».
Il suo tono affrettato li rallegrava. Con lentezza studiata, l’uomo prese la
caraffa dal tavolino basso e la portò alle labbra della moglie senza staccare
gli occhi da Thorn. Provocatore. Un odore di vino appesantì l’atmosfera.
L’alcol era vietato a Babel, così come lo erano il tabacco, l’oscenità, il
gioco d’azzardo, la musica bruitistica e i romanzi gialli. Al club di
genealogia si trovava tutto ciò, ma a chi mai sarebbe venuto in mente di
denunciare i più alti rappresentanti della città?
Poco impressionato Thorn guardò la pendola del salotto
(quattromilatrecentosessantadue secondi). All’ambasciata del Polo aveva
visto ben di peggio.
«Fatemi la domanda».
I Genealogisti ebbero un’esitazione che tale non era, poi dissero insieme:
«Ci siete riuscito?».
La domanda presupponeva due sole risposte, e “quasi”, “non ancora” o
“manca poco” non erano tra quelle.
«No» rispose Thorn.
I suoi fallimenti erano i loro fallimenti, ma entrambi annuirono con
soddisfazione non dissimulata. Eppure desideravano quanto lui, anche se
non per le stesse ragioni, scoprire cosa avesse permesso a Dio di diventare
Dio. La missione non era mutata dal primissimo incontro, quando Thorn si
era spontaneamente presentato a loro in quello stesso salotto. Loro gli
fornivano i mezzi, lui li metteva in opera. Loro gli aprivano le porte, lui le
varcava. Si servivano di lui come lui si serviva di loro. E se un giorno
Thorn avesse varcato la porta di troppo, quella che si sarebbe chiusa su di
lui senza possibilità di marcia indietro, i Genealogisti se ne sarebbero
sbarazzati con la stessa velocità con cui l’avevano ingaggiato. Gli avrebbero
tolto il nome, l’avrebbero rinnegato, avrebbero negato di aver mai avuto a
che fare con lui e l’avrebbero consegnato a Dio da bravi figli virtuosi.
Tale era la regola del gioco. Una delle regole, almeno.
«Avvicinatevi, dear friend».
Thorn spostò la sua sedia in avanti di duecentosessantasette centimetri e
si rimise seduto con un cigolio metallico. Era vicinissimo a loro.
La donna scivolò in avanti facendo ondeggiare capelli e vestito. Se Thorn
avesse avuto un minimo di immaginazione avrebbe potuto pensare che
fosse fatta di oro liquido. Poi allungò le braccia verso di lui in segno di
invito. La prima volta che aveva fatto quel gesto, Thorn non era stato in
grado di interpretarlo. Ormai sapeva esattamente cosa voleva da lui, come
sapeva che non vi si poteva sottrarre. Le presentò le proprie mani. Appena
le dita dorate della donna toccarono le sue Thorn ebbe un conato di vomito.
Il contatto fisico lo disgustava. C’era una sola eccezione a quella regola, ma
non voleva pensarci, non lì e non in quel momento.
«Non è grave» sussurrò la donna. «It’s alright. Sappiamo che state
facendo del vostro meglio».
Sprofondato sui cuscini del divano, l’uomo osservava la scena con un
certo diletto. Sotto la doratura, la loro pelle era percorsa da fremiti visibili a
occhio nudo.
Thorn si pose seriamente la domanda: aveva fatto del suo meglio? Da
quando era evaso aveva l’impressione che la sua esistenza si riducesse a
una serie di improvvisazioni. Senza nessuna garanzia che la cosa avrebbe
funzionato era ricorso al nuovo potere familiare per attraversare la parete
riflettente della sua cella ed era uscito dallo specchio della biblioteca della
zia, la cui dimora era vuota da settimane. Aveva calcolato che a casa di
Berenilde avrebbe trovato un rifugio temporaneo e una linea telefonica
affidabile? Assolutamente no. Per puro istinto animale si era diretto verso
ciò che per lui somigliava di più a un focolare domestico. Quando aveva
contattato Vladislava, era assolutamente certo che l’Invisibile l’avrebbe
aiutato a lasciare il Polo in cambio dei favori che aveva fatto al suo clan?
Macché. Cento volte aveva temuto che lei l’avrebbe tradito. Tuttora
stentava a credere che non l’avesse fatto. Quanto alla scelta della
destinazione, la doveva solo allo sbloccaggio dell’imprevedibile memoria di
Faruk di cui era il portatore.
Più ci pensava e più si convinceva che no, decisamente non aveva fatto
del suo meglio. Al massimo aveva strapazzato un po’ le statistiche.
«Sappiamo che siete un uomo pieno di risorse» continuò la donna
stringendo un po’ di più le dita. «Ce l’avete dimostrato e ce lo dimostrerete
ancora».
Thorn sentì i primi effetti del potere familiare della Genealogista. Fu
come se degli aghi si infilassero in ogni poro della pelle delle mani. Impose
ai propri muscoli facciali di non contrarsi. Non doveva manifestare disagio.
Doveva mantenere l’uomo e la donna nel proprio campo visivo e mentire al
suo stesso potere familiare.
«Drago per parte di padre. Starete certainly pensando che questo...». La
donna strinse le mani appena un po’ più forte. «...Sia un giochino in
confronto agli artigli della vostra famiglia».
Thorn non pensava niente. Non c’era confronto possibile tra il dolore
inflitto da un Drago e quello inflitto da una Tattile. Il primo era una falsa
informazione inviata al cervello che il corpo si incaricava di rendere
manifesta. Il secondo era un vero impulso trasmesso da epidermide a
epidermide senza che niente trasparisse in superficie.
La sensazione nelle sue mani si intensificò diffondendosi lungo le
braccia. Non erano più aghi, erano chiodi, chiodi ruvidi e incandescenti.
Thorn si concentrò al massimo sulla pendola del salotto
(quattromilaottocentocinquantanove secondi) sforzandosi di convincere i
suoi artigli che non stava succedendo niente di grave, che l’aggressione era
consentita, che accettava l’oltraggio fatto al proprio corpo.
La donna lo scrutava avidamente alla ricerca di una crepa nella sua
impassibilità. Sapeva che Thorn non poteva servirsi degli artigli contro di
lei, e soprattutto che per raggiungere il suo obiettivo aveva bisogno di loro.
«Dicono che la figlia di sir Faruk sia molto cresciuta» commentò l’uomo
dai cuscini del divano.
«Pochi eletti hanno avuto il privilegio di vedere la vostra giovane
cugina» aggiunse la donna.
«Madama Berenilde la tiene nascosta al mondo, come il suo tesoro più
prezioso» dissero in coro.
Per due secondi, cioè un solo tic e un solo tac della pendola, la
concentrazione di Thorn si incrinò, due secondi durante i quali il dolore gli
penetrò in profondità nella pelle. Dovette fare ricorso a tutto il suo
autocontrollo per evitare che si scatenasse il processo mnemonico che
l’avrebbe riportato indietro, all’epoca in cui era il pilastro indispensabile sul
quale la zia aveva ricostruito se stessa. Era stato sostituito, ma ciò rientrava
nell’ordine naturale delle cose. Più nessuno lo aspettava al Polo.
«Fatemi l’altra domanda» disse.
La donna allargò le labbra in un sorriso ambiguo. La pressione delle sue
dita intorno a quelle di Thorn si fece più ferma. Era come se sotto la pelle
dell’intero corpo gli crescessero le ortiche.
«Andrete fino in fondo alla vostra missione?» domandarono i
Genealogisti.
«Sì».
«Good boy».
La donna gli lasciò le mani, e come ogni volta Thorn fu sconcertato
dall’aspetto intatto della sua pelle. Il tocco dei Tattili non lasciava tracce del
suo passaggio. Dette un ultimo sguardo alla pendola
(cinquemilaseicentodue secondi) e si lasciò alle spalle i due corpi che già si
stavano baciando sul divano senza più fare caso a lui.
Le loro voci mischiate gli giunsero un’ultima volta mentre chiudeva la
porta del salotto.
«Aspetteremo con impazienza la vostra prossima visita».
Appena solo in corridoio, Thorn svitò il tappo del flacone e si disinfettò
metodicamente le mani. Una volta. Due volte. Tre volte. La sporcizia era
invisibile, ma la sentiva nei nervi, la sentiva negli artigli che fremevano di
odio trattenuto.
No, più nessuno lo aspettava al Polo, e gli andava bene così.
Gli sarebbe andato bene finché ci fosse stata una persona ad aspettarlo da
un’altra parte.
L’INGANNO

L’erba secca scricchiolava sotto i piedi di Ofelia, che si muoveva tra


tombe e lucciole con le pupille dilatate come la luna nel cielo. In passato le
era capitato di recarsi nel cimitero di Anima, e ogni volta un grande silenzio
l’aveva pervasa fin dai primi passi. Non era serenità e neppure angoscia, era
qualcosa di più simile alla concentrazione del funambolo che avanza sul filo
teso fra due assoluti.
Quel che provava in piena notte nella necropoli dell’osservatorio delle
Deviazioni era ancora meno definibile. Le mancava quasi il respiro. Si
trattava di un vecchissimo cimitero militare, e del resto l’allineamento delle
lapidi ricordava un po’ i ranghi di un’armata. Dato che a Babel quelle erano
tutte parole vietate, Ofelia si disse che non doveva essere facile parlare di
un luogo come quello. Probabilmente non ne parlavano. Si limitavano a
tollerarne la presenza in un angolo dell’arca, come un vicino di cui non ci si
può sbarazzare.
Eppure perfino lì i vialetti erano ingombri di oggetti inutilizzabili, come
se l’osservatorio delle Deviazioni fosse sommerso da un sovrappiù di cui lui
stesso era la fonte.
Per quanto affascinanti fossero i luoghi, lo sguardo di Ofelia tornava
sempre su Thorn, che apriva la marcia davanti a lei. Non aveva più detto
una parola da quando erano usciti dall’anticamera. Aveva sceso in silenzio
la scala segreta del colosso, aggirato le giostre dell’ex parco dei
divertimenti, attraversato roseti che lo nascondevano alle finestre e aperto il
cancello della necropoli. Andava avanti a grandi falcate, costringendo
Ofelia a fare il doppio dei suoi passi per stargli dietro.
Quanto a lei, evitava di soffermarsi sul sangue che gli aveva macchiato
l’uniforme dal lato in cui Seconda si era precipitata su di lui per dargli il
disegno. Thorn era stato piuttosto laconico nel raccontarle le circostanze
dell’incidente, ma Ofelia ne sapeva quanto bastava. Seconda aveva
scatenato gli artigli suo malgrado, e sebbene non fosse in pericolo di vita
sarebbe rimasta segnata per sempre. Anche Thorn. I testimoni della scena
non avevano capito niente. Nessuno lo riteneva responsabile, ma Ofelia lo
conosceva abbastanza da sapere che avrebbe preferito esserlo. Si sentiva
oppresso da una colpa di cui non poteva liberarsi.
Dopo quell’episodio, cambiare la percezione che aveva di se stesso
sarebbe stato più difficile che mai.
Si arrampicarono su un muraglione che faceva da confine tra la terra e il
vuoto. In alto, sul camminamento di guardia, il vento era scatenato. Ofelia
lo sentì come una frusta su guance, braccia e polpacci. Non rimpiangeva né
i capelli lunghi né le sue vecchie sottogonne, però le mancavano le scarpe.
A forza di correre dappertutto aveva i piedi in fiamme.
«Oh» si lasciò sfuggire.
Fu catturata dalla vista della Buona Famiglia al di là delle feritoie. Mai
l’arca minore le era apparsa tanto vicina come da quel punto
d’osservazione. Si distinguevano perfettamente i contorni delle isole
gemelle, quella riservata ai Figli di Polluce e quella assegnata ai Figliocci di
Helena, collegate da un ponte altamente simbolico. La luna si rifletteva sui
vetri delle cupole, degli anfiteatri e della palestra.
Sotto quello sfavillio Octavio stava probabilmente dormendo, a meno che
non si rigirasse nel letto chiedendosi come cambiare il mondo dall’interno.
Che reazione avrebbe avuto venendo a sapere che la sorella era stata ferita?
Ofelia sentì una stretta al cuore. L’amicizia con Octavio era la cosa migliore
che avesse tratto dalla sua permanenza alla Buona Famiglia. Si domandò
quanto fosse consapevole del ruolo di Seconda all’osservatorio delle
Deviazioni. I suoi disegni determinavano la sorte degli invertiti, stabilivano
chi rimaneva nel primo protocollo e chi doveva essere avviato al secondo,
chi avrebbe fatto giri di giostra per tutta la vita e chi sarebbe stato
incatenato a un inginocchiatoio. Seconda era complice di quel luogo.
Volontariamente o meno, era tutta un’altra storia. Lady Septima lo sapeva?
Sapeva cosa aveva fatto mettendo lì la figlia o ne aveva perso il controllo
nel momento in cui l’aveva rifiutata?
Thorn, davanti a Ofelia, indicò la loro destinazione: una pagoda che
fungeva da torre angolare del muraglione. Vi si fondeva così bene che la si
notava appena. Al chiaro di luna sembrava stranamente scialba rispetto
all’architettura coloratissima del resto dell’osservatorio, ma guardando
meglio si vedeva una debole luminosità filtrare dalle persiane dei piani
sovrapposti. La luce divenne fiammeggiante quando Thorn fece scorrere
una porta. Ofelia ebbe l’impressione di entrare con lui all’interno di una
lanterna.
«Ci siamo» disse Thorn.
Erano al centro della sala ottagonale che costituiva la base della pagoda.
La luce proveniva dai lumini che dentro le nicchie illuminavano urne
corredate da fotografie. Ce n’erano parecchie.
Un colombario.
«Sono ceneri di pazienti deceduti all’osservatorio» spiegò Thorn. «Le
famiglie non le hanno mai reclamate».
Ofelia si sentì divenire di ghiaccio, come se fosse ancora sotto l’effetto
del Negromante. Aveva conosciuto le segrete del Polo, ma ciò che vedeva lì
era ancora più sordido. Quelle urne erano dunque il punto di arrivo di chi
accedeva al terzo protocollo? Ce n’erano talmente tante! Le nicchie si
distribuivano su vari piani fino alla cima della pagoda, con decine di scale
per raggiungerle.
«Stiamo cercando... qualcuno?».
«Qualcosa» rispose Thorn facendo scattare l’orologio. «Ma prima
mettiamo insieme quello che abbiamo scoperto».
Aveva tutta l’aria di aver ritrovato i suoi modi di fare da funzionario.
Ofelia però non si lasciò ingannare, Thorn aveva un pudore nuovo nel
sottrarsi ai suoi sguardi appena si facevano troppo insistenti.
Decise di cominciare lei.
«Avevamo ragione. Le lenti nere permettono agli osservatori di
visualizzare i nostri poteri familiari. Ma non solo».
Deglutì. La memoria di Eulalia Diyoh le aveva consentito di interpretare
ciò che aveva letto nei laboratori dei collaboratori, ma in quel momento
doveva raccontare il tutto con parole proprie, e le faceva uno strano effetto
doverlo fare in quel colombario in mezzo alle urne funerarie.
«Le ombre che ci avvolgono sono...» Ofelia cercò le parole giuste.
«...Sono proiezioni di noi stessi. Quando l’ombra è sfasata credo che si
sfasino anche le proiezioni, che poi tornano a noi sotto forma di echi. Un
po’ come un... un...».
Ofelia imitò il movimento dello yo-yo.
«Come una precessione giroscopica» tradusse Thorn.
«Esatto. E per l’effetto rimbalzo le ombre degli invertiti contaminano
tutto ciò che li circonda, cosa che genera altri echi. Quando un’arca crolla
produce una perturbazione ancora più grande. Alla fine possiamo chiamarla
ombra, proiezione, propagazione o eco, ma è sempre una sola e unica cosa:
aerargyrum».
«Aerargyrum» ripeté Thorn, visibilmente seccato di non possedere quella
voce nella sua biblioteca mnemonica.
«Almeno questo è il nome che gli hanno dato all’osservatorio. È una
materia così sottile che non si vede a occhio nudo e in certe circostanze può,
come dire, essere convertita in materia solida. È ciò che è riuscita a fare
Eulalia Diyoh creando gli spiriti di famiglia, ed è ciò che l’osservatorio
vuole rifare oggi nel quadro del progetto Cornucopiando. Un vero e proprio
Corno dell’abbondanza che produca risorse illimitate» mormorò con voce
fremente. «Solo che non ci riescono. Tutto ciò che producono è fallato,
perché non hanno ciò che aveva Eulalia Diyoh: non hanno l’Altro».
Ofelia contrasse le mani, che la permanenza all’osservatorio aveva reso
più goffe e impacciate che mai.
«Gli invertiti attirano gli echi» continuò. «E l’osservatorio esaspera al
massimo le nostre inversioni perché uno di noi invochi l’eco più potente».
Abbassò le palpebre senza chiuderle del tutto per sondare meglio la
seconda memoria che abitava in lei.
«Il Corno dell’abbondanza ha bisogno di echi per funzionare. Gli echi
rispondono a leggi e logiche tutte loro che solo un eco potrebbe spiegarci,
sempre che sappia parlare. A partire dal momento in cui Eulalia Diyoh ha
stabilito un dialogo con l’Altro, cioè con il proprio eco, ha sviluppato una
miglior comprensione del mondo in generale e degli echi in particolare, e il
nuovo sapere le ha permesso di usare tutte le potenzialità del Corno
dell’abbondanza. L’osservatorio anela a quel sapere».
Ofelia strizzò di più le palpebre. Quali erano le uniche tre cose di cui
Eulalia Diyoh aveva bisogno? Ah sì: echi, parole e una contropartita.
«Sia gli oggetti fallati che gli spiriti di famiglia sono echi convertiti in
materia. Hanno in comune il fatto che per materializzarsi serve loro un
codice. Su una tortiera ho trovato una scrittura simile a quella dei Libri.
Elizabeth crede di essere stata assunta per decifrare i Libri e rendere così un
servigio agli spiriti di famiglia, ma in realtà l’osservatorio vuole elaborare
un codice equivalente per il proprio uso. Finché il nuovo codice non sarà
perfetto il loro Corno dell’abbondanza produrrà solo materia imperfetta».
Poi Ofelia raccontò dei fascicoli che aveva guardato, della crepa che
Seconda aveva disegnato sulla spalla della sua ombra, della visione di
Eulalia Diyoh che era riuscita a suscitare, della sua visita imprevista nella
navata del secondo protocollo e dell’espiazione forzata di Mediana per
“cristallizzare”.
Terminato il rapporto sollevò le palpebre e si rese conto che Thorn la
stava guardando intensamente alla luce ipnotica dei lumini funebri. Nei suoi
occhi brillava un turbamento che, sì, somigliava quasi a desiderio.
«Ottimo lavoro».
Un complimento di Thorn era un avvenimento epocale. Ofelia diventò
rossa fino agli occhiali.
«Restano ancora parecchie domande senza risposta» disse poi. «Ho la
sensazione che il Corno dell’abbondanza sia solo la superficie di qualcosa
di sotterraneo, qualcosa di molto più grosso, e questo mi fa paura.
Ignoriamo praticamente tutto di quest’aerargyrum che ci circonda, e anche
della misteriosa “cristallizzazione” che sembra indispensabile al Progetto. È
l’obiettivo stesso del secondo protocollo, ma non ho proprio capito in che
consista. Ha qualcosa a che fare con la crepa che Seconda ha rintracciato
sulla mia ombra?» mormorò massaggiandosi la spalla alla ricerca di una
frattura invisibile. «Da quando me l’ha disegnata sono diventata idonea al
trasferimento».
Thorn fece un gesto con la mano, come se quelli fossero particolari
secondari.
«Il nostro obiettivo era scoprire come Eulalia Diyoh si sia trasformata in
Dio e il suo riflesso in apocalisse. Ora sappiamo che la funzione del Corno
dell’abbondanza è convertire. Convertire in materia» sottolineò, «e non
creare».
Ofelia annuì. Ogni frase di Thorn era impregnata di energia
comunicativa. Difficile parlare di entusiasmo con un tipo come lui, ma ci si
avvicinava abbastanza.
«Eulalia non si è accontentata di convertire echi in spiriti di famiglia»
continuò. «A quanto pare ha fatto l’esperimento inverso. Ha convertito se
stessa. Si è attribuita tutte le caratteristiche di un eco per riprodurre
qualsiasi faccia e qualsiasi potere».
«E probabilmente la sua conversione ha contaminato l’Altro» disse
Ofelia sentendosi prendere dall’eccitazione. «Forse è la conversione che si è
prodotta nella stanza murata del Memoriale, e forse è stato ciò che ha
provocato la Lacerazione. La conversione di troppo».
«Se scopriamo come ha fatto Eulalia, saremo in grado di disfare il suo
operato» le ricordò Thorn. «Per il momento lei e l’Altro stanno buoni, ma
quanto durerà? La nostra prossima mossa, qui e ora, è trovare il Corno
dell’abbondanza».
Ofelia contemplò le nicchie con le urne di cui era crivellata la pagoda.
«Qui nel colombario?».
Uno stridore abominevole la fece sussultare. L’armatura di Thorn si era
di nuovo inceppata mentre saliva una scala.
«Quarant’anni fa» spiegò sbloccandosi la gamba, «qui all’osservatorio
sono stati fatti importanti lavori di restauro. L’inzio del programma
alternativo e dei suoi tre protocolli risale a quell’epoca. Anche l’impianto
elettrico. Ti avevo detto che i contatori dell’osservatorio non
corrispondevano alle letture che mi erano state fornite, no? Durante
l’ispezione a sorpresa nessun membro del personale ha potuto o voluto
spiegarmi dove andasse a finire l’elettricità in eccesso. In risposta ho
ricevuto solo dei sorry».
Più Thorn saliva i piani, più la sua voce scendeva nei toni bassi. Il legno
lucido della pagoda le conferiva una risonanza da contrabbasso.
Ofelia cercava di seguirlo da una rampa all’altra, ma la stanchezza e la
mancanza di sonno le ingarbugliavano sempre di più i piedi. A un certo
punto lo perse di vista. Le file di urne erano disposte secondo la logica
falsamente labirintica di una biblioteca. Una biblioteca macabra.
«Cos’è che ti ha portato a questo colombario?».
«La figlia di lady Septima» rispose da un corridoio la voce lontana di
Thorn. «Almeno indirettamente. Dopo essersi lanciata tra i miei artigli è
stata portata di corsa all’infermeria del programma alternativo. L’ho
accompagnata. A distanza» specificò dopo una pausa. «Ci tenevo ad
assicurarmi... lo sai».
Le frasi si facevano spezzate. Ofelia sentì qualcosa ribollirle in pancia.
Thorn non aveva mai nascosto l’avversione che gli ispiravano i bambini,
ma averne colpita una gli pesava. C’era forse una parte di lui che non
rifiutava l’idea di avere un giorno dei figli?
La sua voce si spostava insieme a lui attraverso la pagoda.
«Mi sono ritrovato in una sala d’attesa insieme a un automa addetto alla
manutenzione. Un vecchio modello. Non ha fatto che scodellarmi proverbi,
uno dei quali tuttavia mi ha colpito».
Ofelia si sforzava di seguirlo a orecchio passando da una rampa di scale
all’altra.
«Che ti ha detto?».
La voce di Thorn, ovunque fosse, si abbassò di un’altra ottava.
«CI SONO PERSONE CHE LA GENTE CREDE MORTE E CHE NON LO SONO».
Ofelia sollevò un sopracciglio. Certo, Lazarus aveva inculcato ai suoi
automi i proverbi più discutibili, ma quello non somigliava a niente di
conosciuto.
«Deve aver ripetuto qualcosa che ha sentito dire qui all’osservatorio»
continuò Thorn. «Quando gli ho chiesto precisazioni mi ha dato la ricetta di
un caviale di melanzana. Ho ripensato a quel che avevi detto a proposito del
terzo protocollo: quelli che ci vanno non tornano mai indietro. E avevo
memorizzato il colombario dalla planimetria».
Di colpo Ofelia si sentì giudicata dai ritratti dei defunti che brillavano
alla luce dei lumini funebri. Persone che la gente crede morte e che non lo
sono.
«Quindi queste urne sarebbero vuote?».
Da qualche parte si udì un rumore di coperchio seguito da una risposta
pragmatica.
«A quanto pare no. Il che non vuol dire che siano ceneri umane».
«Se le persone sulle fotografie non sono morte, che fine hanno fatto?»
mormorò Ofelia.
Il passo metallico di Thorn si interruppe.
«Non c’è niente che ti colpisce?» domandò dopo un po’.
Ofelia pensò che tutto la colpiva in quel luogo. Un colombario forse
finto, facce di uomini, donne e bambini finiti chissà dove, vite fatte sparire.
Poi capì.
«Le lampadine».
C’era tutto un reticolo di lumini e nessuno baluginava, nessuno
sfrigolava. Quella pagoda dimenticata in un angolo dell’arca, sull’orlo del
vuoto, aveva la fornitura elettrica migliore di tutto l’osservatorio.
«Sono convinto che il Corno dell’abbondanza non sia lontano» disse
Thorn. «Se converte gli echi in materia gli serve una grossa fonte di
energia».
Ofelia annuì, ma una cosa era saperlo, altra cosa servirsi
dell’informazione. Il Corno dell’abbondanza era una di quelle urne
funerarie? Ma avrebbe dovuto essere infinitamente più grande! E quelle
persone che l’osservatorio faceva passare per morte... erano la contropartita
richiesta da Eulalia Diyoh?
L’idea era terrificante.
Ofelia dischiuse lo scuro di una finestra. Dietro il vetro la vicina arca
della Buona Famiglia le parve ancora più visibile che dal muraglione. Ma
no, era la notte a farsi meno buia, le stelle impallidivano, stava per arrivare
l’alba. Ofelia doveva assolutamente farsi trovare nel suo letto quando la
tata-automa sarebbe andata a svegliarla.
«La nostra vita di coppia è del tutto non convenzionale».
Thorn l’aveva detto come un’evidenza quando Ofelia l’aveva finalmente
trovato all’ultimo piano della pagoda. Si stava disinfettando
meticolosamente le mani, forse per via di tutte le urne che aveva aperto e
richiuso per verificarne il contenuto. Poi seguì con gli occhi un cavo
elettrico che camminava lungo le travi.
«A me piace che sia non convenzionale» gli assicurò lei.
Sorpresa, si accorse che il sangue di Seconda sull’uniforme di Thorn si
era riassorbito. L’animismo maniaco di Thorn era già all’opera per
controllare che nessuno dei suoi vestiti avesse mai una macchia o una piega.
Ofelia invece combatteva contro i capricci del proprio animismo. Da
quando li aveva recuperati, gli occhiali non facevano altro che darsela a
gambe, obbligandola a rimetterseli continuamente sul naso.
Thorn corrugò la fronte quando perse le tracce del cavo che si infilava nel
soffitto, allora riportò lo sguardo severo su Ofelia.
«Prima, nell’anticamera, hai usato i tuoi artigli sui miei. Preferirei che
non lo facessi più».
«Ti ho fatto male?».
«No».
Il tono di Thorn era aspro. Anche un po’ imbarazzato.
«No» ripeté con meno durezza. «In realtà non sapevo che gli artigli dei
Draghi potessero servire a qualcosa di diverso dal ferire. Ma non sarai
sempre accanto a me per regolare il mio potere. È bene che ne riprenda io il
controllo. Ci sono problemi che si possono risolvere soltanto da soli».
Ofelia sapeva che aveva ragione, che era stata imprudente a combinare il
suo potere deviante con quello incontrollabile di Thorn. Eppure quel che
c’era in lei di meno razionale insorse all’idea che il loro “noi” non fosse
sufficiente a superare tutte le prove.
«Là» disse.
Una fessura appena visibile sul soffitto indicava la presenza di una
botola. Nei dintorni non c’erano stecche per aprirla dal basso, ma a Thorn
bastò allungare un braccio per aprirla e far scendere una scala pieghevole a
scomparsa.
«Impossibile salire là sopra, per me».
Ofelia non si fece pregare e cominciò ad arrampicarsi sui pioli, anche se
mettere d’accordo destra e sinistra su una scaletta pieghevole era molto più
difficile che su una scala normale. Thorn aveva appena detto che certi
problemi si potevano risolvere soltanto da soli e lei sentiva il bisogno, forse
un po’ puerile, di dimostrargli che altri si potevano risolvere soltanto
insieme.
A tentoni tirò la cordicella di una lampadina a soffitto, che una volta
accesa proiettò una luce livida nel solaio. Altre urne funerarie! A prima
vista, comunque, non c’era niente che sembrasse un Corno
dell’abbondanza.
«Vado a guardare più da vicino» disse. «Tu continua a cercare giù».
«Ofelia».
Lei infilò la testa nella botola con aria interrogativa. La faccia squadrata
di Thorn la guardava con una strana rigidità solenne.
«Pure a me piace che siamo non convenzionali» disse dopo essersi
schiarito la gola. «Anche un po’ di più».
Così Ofelia si avventurò tra gli oggetti funebri con un sorriso sulle labbra
del tutto inappropriato. Urne e fotografie sembravano molto più vecchie di
quelle esposte nel colombario. Le avevano trasferite là sopra per mancanza
di spazio? Il tavolato grezzo del pavimento le strappava una smorfia di
dolore ogni volta che una scheggia le si piantava in un dito.
Circondata da ceneri che forse non erano di nessuno ripensò all’Altro.
Più si addentrava nei segreti dell’osservatorio delle Deviazioni e di Eulalia
Diyoh, meno riusciva a circoscriverli. Nella sua mente l’Altro non aveva un
volto in particolare, era solo una voce che le aveva chiesto di liberarlo dallo
specchio, era un estraneo che le aveva messo sottosopra il corpo, era una
bocca che inghiottiva pezzi d’arca, era il silenzio nel telefono che non aveva
risposto al suo appello.
Come poteva una creatura tanto sfuggente avere un effetto così
spettacolare sul mondo? E uscendo dallo specchio aveva mantenuto la
consistenza sottile dell’aerargyrum o si era incarnato in maniera durevole?
E se il Corno dell’abbondanza era capace di convertire gli echi in materia
era anche capace del processo inverso, come supponeva Thorn? Sarebbero
riusciti, grazie al Corno dell’abbondanza, a riportare l’Altro alla condizione
di eco ed Eulalia Diyoh alla condizione umana? Avrebbero fatto in tempo?
E Archibald, Gaela e Renard erano riusciti a trovare l’introvabile Terra
d’Arco? Sarebbero stati capaci di convincere Janus e gli Arcadiani a unirsi
a loro? Padroneggiare lo spazio voleva dire poter localizzare chiunque e
nascondersi ovunque, quindi disporre di un vantaggio decisivo
sull’avversario. E se quella facoltà fosse finita nelle mani di Eulalia Diyoh?
A quel punto avrebbero dovuto affrontare non solo un eco apocalittico, ma
anche una megalomane onnipotente...
In mezzo a quella girandola di domande Ofelia si fermò scioccata davanti
a una delle urne che stava lì a impolverarsi. Quando pulì col guanto la
vecchia fotografia apparve la faccia di un giovane con dolci occhi da
antilope.
Ambroise.
Braccia e gambe non erano invertite, stava perfettamente in piedi, ma
nonostante quelle contraddizioni Ofelia era certa che si trattasse di
Ambroise. Del resto c’era il nome sull’urna, insieme a una data di decesso
risalente a quarant’anni prima.
“Ci sono persone che la gente crede morte e che non lo sono”.
Le si accelerò il respiro. Era lui l’invertito che era stato ritagliato dalla
vecchia fotografia degli appartamenti direttoriali. Si intuiva un braccio
intorno alle sue spalle, il braccio del giovane che era in posa con lui e gli
altri invertiti davanti a una giostra. Ora capiva perché le era sembrato un
volto familiare: si trattava di Lazarus quarant’anni più giovane.
Padre e figlio nello stesso posto alla stessa età.
Mentre era in piena confusione colse un movimento. Si voltò di scatto
scrutando ogni angolo della stanza. Non era un effetto ottico, qualcuno
stava a pochi passi da lei in un punto in cui la luce della lampadina non
arrivava. Ofelia ne vedeva solo i contorni.
La sagoma si mosse lentamente. Non si spostava, ma faceva ampi gesti
silenziosi, come un mimo. Indicò il soffitto con la destra e il pavimento con
la sinistra, poi il pavimento con la destra e il soffitto con la sinistra. Cielo e
terra, terra e cielo, cielo e terra...
Era lo sconosciuto della nebbia.
Per quanto incredibile, aveva ritrovato Ofelia.
«Chi sei?».
Decisa a vederlo finalmente in faccia avanzò nell’ombra del solaio. Lo
sconosciuto la schivò con una piroetta, le fece un’allegra riverenza e con un
balzo si infilò nella botola. Si muoveva velocissimo!
Ofelia scese precipitosamente la scaletta del solaio. Il corridoio del piano
era deserto. C’erano solo urne. Incrociò lo sguardo sconcertato di Thorn
che, allarmato dal trambusto, si era portato in fondo alla scala più vicina.
«C’è qualcuno» sussurrò.
«Io non ho visto nessuno» rispose lui.
Se l’intruso non era sceso, non poteva essere lontano. Era passato dai
tetti?
Ofelia aprì uno scuro e tentò goffamente di far scorrere la finestra
cercando al di là del vetro un’ombra tra tutte quelle che popolavano la fine
della notte.
Si irrigidì vedendo il proprio riflesso, un riflesso da moribonda. Era
coperta di sangue. Anche la sciarpa che aveva al collo, e che sapeva di non
indossare in quel momento, era macchiata di sangue. Finestra, pagoda e
urne non c’erano più, c’era solo il nulla, un nulla che aveva portato via tutto
tranne lei, Eulalia Diyoh e l’Altro.
La mano di Thorn sulla spalla la riportò alla realtà.
«Che succede?».
Ofelia non ne aveva idea. La visione era svanita come un sogno, ma la
nausea le era rimasta. Aveva l’inspiegabile sensazione che tutti i suoi sensi
avessero percepito là fuori un’immensa anomalia che lei non era in grado di
assimilare.
Anche Thorn guardò dalla finestra. I suoi occhi d’acciaio si bloccarono
subito, come calamitati da un punto nel cielo. Sennonché in quel punto non
c’era niente. Solo allora Ofelia interpretò il segnale che le avevano inviato i
suoi sensi.
La Buona Famiglia era scomparsa.
Nello stesso istante le sirene d’allarme risuonarono per tutto
l’osservatorio.
DIETRO LE QUINTE

In cima alla pagoda del colombario, sul punto più alto dei tetti
sovrapposti, appollaiato sul pinnacolo come un airone, ascolta le sirene
d’allarme. Un’esplosione di echi. Canto e grido insieme. Un altro pezzo di
mondo in meno!
Sorride all’alba nascente.
Povera Ofelia, che faccia starà facendo... Non si può dire che non sia
stata avvertita.
VERSO
L’INNOMINABILE

Il crollo dell’arca nel mare di nuvole aveva provocato uno straripamento


come Ofelia non aveva mai visto. Era un tornado quasi immobile grondante
tuoni e fulmini, fitto come una nube vulcanica, che formava una frattura di
buio nel chiarore del mattino. La temperatura era calata di parecchi gradi.
Collaboratori, invertiti e automi stavano lasciando precipitosamente gli
edifici. Fuggifuggi generale, urla, sirene ululanti, ordini contraddittori che
fioccavano da ogni parte: insomma, c’era il panico. L’osservatorio delle
Deviazioni, fino a quel momento fatto di mormorii ovattati e porte chiuse,
si era trasformato in un unico gigantesco rumore.
«Ho sottovalutato l’Altro» disse Thorn.
Stretta nel loro nascondiglio, Ofelia distolse gli occhi dalla scena per
posarli su di lui. Erano scappati in tutta fretta dal colombario e dalla
necropoli per paura che qualcuno li sorprendesse, e magari li sorprendesse
insieme. Si erano ritrovati nell’ex parco dei divertimenti dove un gruppo di
collaboratori stava osservando la colonna di fumo che squarciava il cielo, e
non avevano avuto altra scelta che rifugiarsi nello stand detto “del Fachiro”.
«Fino a oggi credevo che Eulalia Diyoh fosse la nostra nemica più
pericolosa. Temo di dover rivedere le mie priorità».
Ofelia fu impressionata dal sangue freddo di Thorn. Personalmente
tremava in tutto il corpo di spavento, stanchezza e furore mischiati.
Soprattutto furore, una rabbia interiorizzata che le inscuriva gli occhiali, le
ronzava sotto la pelle come un alveare e sovrastava quel sentimento che lei
non voleva assolutamente provare.
«L’intruso che ho visto al colombario mi ronza intorno fin dal primo
crollo. Sa sempre dove trovarmi e sparisce subito. Mi chiedo davvero se
non sia...».
Un nodo alla gola le bloccò la frase. Provava per l’Altro un’avversione
che le comprimeva i polmoni. Il suo respiro prigioniero le urlava dentro
come le sirene d’allarme, chiedeva giustizia, esigeva vendetta, anche se
Ofelia rimuoveva dai suoi pensieri l’origine stessa di quel dolore.
Lui era vivo. Era per forza vivo. Finché il suo nome non fosse stato
pronunciato avrebbe continuato a esserlo.
«Comunque il tuo intruso sembra interessarsi da vicino alla nostra
ricerca» disse Thorn. «Forse sta cercando anche lui il Corno
dell’abbondanza. Chiunque sia e qualunque cosa voglia faremo bene a
trovare il Corno prima del prossimo crollo».
Ofelia non poté fare a meno di pensare che avevano perso troppo tempo.
Avrebbero già dovuto rispedire l’Altro in uno specchio e fermare i suoi
crimini.
Ripensò anche al riflesso nel vetro della finestra. Al sangue. Alle ultime
scoperte. Al vuoto dappertutto, intorno e dentro. E se certi echi
provenissero proprio dal futuro? Doveva farlo presente a Thorn?
Lui stava aprendo la planimetria dell’osservatorio che aveva portato con
sé. Era troppo alto per le dimensioni ridotte dello stand, per giunta doveva
stare attento a evitare le tavole con i chiodi intorno a loro. Penetrando nella
tenda le prime luci del giorno ne facevano risaltare le cicatrici e la magrezza
ascetica, tanto che sembrava lui il fachiro.
«Il colombario era la nostra pista migliore» disse indicando la pagoda
sulla mappa. «Abbiamo esplorato tutti i piani senza trovare niente di
interessante. Niente» aggiunse con voce plumbea, «a parte l’urna funeraria
di un ragazzo che a quanto pare tale non è».
Ofelia annuì. Era stato un vero colpo incappare in quella fotografia di
quarant’anni prima. Quindi anche Ambroise era collegato in un modo o
nell’altro al progetto Cornucopiando. E Lazarus pure. Avrebbe avuto due o
tre cosette da chiedere a quei due una volta uscita da quel maledetto
osservatorio.
Sbirciò da uno spiraglio della tenda. Gli evacuati si stavano tutti
radunando vicino alla giostra delle tigri, ma le sirene d’allarme le
impedivano di sentirli. Prima o poi qualcuno si sarebbe accorto che lei
mancava all’appello. Doveva prendere una decisione in fretta. Una volta
spente le sirene tutto sarebbe ricominciato come prima: i programmi, i
protocolli, le proiezioni, le fotografie, i giri di giostra, i cibi guasti, i segreti,
i silenzi, le solitudini... Il mondo intero poteva crollare, ma l’osservatorio
delle Deviazioni avrebbe continuato la sua ricerca dell’assoluto fino alla
fine. Loro soltanto avevano la soluzione ai problemi, ma Ofelia dubitava
molto che avessero le stesse sue motivazioni.
«Il secondo protocollo» annunciò. «Torno lì a cercare di scoprire cosa
stanno facendo a Mediana. Non la vedo tra gli evacuati, dev’essere sempre
nella navata. L’osservatorio vuole usarla per il Corno dell’abbondanza,
devo capire come e perché».
Sorprendentemente Thorn annuì senza fare neanche il tentativo di
dissuaderla. Provò per lui un’immensa gratitudine. Le era riconoscente di
essere così stabile davanti a lei, così presente tra gli assenti, e soprattutto
così vivo.
«Dal secondo al terzo protocollo il passo è breve» le ricordò tuttavia.
«Non sappiamo che fine abbiano fatto “le persone che la gente crede morte
e che non lo sono”».
«Non ho nessuna intenzione di farmi arruolare» lo tranquillizzò Ofelia.
«Ora mi riaggrego al primo protocollo, aspetto fino a stasera e quando cala
il buio ci faccio una scappata» aggiunse con un po’ di apprensione
pensando al transcendium a strapiombo sul vuoto. «Ci vediamo prima
dell’alba agli appartamenti direttoriali. Con un po’ di fortuna avrò
finalmente scoperto come porre fine a... a tutto ciò».
Indicò col mento le nuvole nere che continuavano a salire nel cielo. Un
vento di tempesta, simile a quello che soffiava dentro di lei, stava
cominciando a sollevare i lembi della tenda.
Thorn scrutò Ofelia con attenzione, come se sentisse che l’essenziale non
era stato detto.
«Dove si trova il secondo protocollo?» domandò indicandole la mappa.
Per quanto Ofelia cercasse di schiarirsi al massimo gli occhiali non ci fu
niente da fare.
«Non riesco a situarlo» disse indicando un punto vuoto accanto al
quartiere dei collaboratori. «Dovrebbe essere da queste parti. C’erano un
sacco di scale e poi la navata. Ho fatto varie decine di metri senza vederne
la fine... Che sia una distorsione dello spazio come quelle che faceva Madre
Ildegarda? So che a un certo punto ha vissuto a Babel, ma non mi aspettavo
di trovare qui una delle sue opere».
Thorn aggrottò ancora di più le sopracciglia, ma ripiegò la mappa con la
stessa cura che metteva in tutte le cose.
«Comunque io non sarò lontano. Approfitterò degli ultimi eventi per
prolungare la mia ispezione sul posto. Prendere visione dello stato dei
luoghi, procedere a una verifica della stabilità dell’arca, cose così».
Le sirene tacquero. Il silenzio fu quasi fastidioso.
«Devo unirmi agli altri» mormorò Ofelia.
«E io andarmene al più presto» disse Thorn aprendo e chiudendo
l’orologio. «Non dovrei trovarmi all’interno dell’area di confino».
In contraddizione con le sue stesse parole non si mosse di un millimetro.
Con le sopracciglia aggrottate, stava fermo sui lunghi piedi che si
rifiutavano di eseguire l’ordine ricevuto. Di nuovo c’erano in lui due forze
conflittuali che si accanivano l’una contro l’altra conferendo a tutti i suoi
comportamenti una strana mezza tinta. Aveva i muscoli del collo stretti
intorno alle parole che non voleva pronunciare.
A vederlo in quel modo Ofelia sentì cederle le gambe, le spalle, le
palpebre, tutto, mentre le stesse parole la stringevano dall’interno.
“Fuggiamo. Ora. Io e te”.
Si tolse guanti e occhiali, che tornarono a essere trasparenti, e li consegnò
a Thorn.
«Prima dell’alba» ripeté.
«Non sarò lontano» ripeté lui.
Si separarono. Decisa a non offrire a quell’arca una sola ragione di
ridurla come gli altri, fece leva sulle dita dei piedi e corse a raggiungere
l’assembramento generale. Finite le sirene, l’aria stormiva di domande
senza risposte. Quant’era grosso il nuovo crollo? Cosa l’aveva provocato?
Chi era stato colpito dalla catastrofe? L’osservatorio delle Deviazioni era
ancora un luogo sicuro? Dovevano rimanere o andarsene? Nessuno osava
più alzare la voce.
Sgomitò tra i collaboratori che parlavano pianissimo tra loro per non farsi
sentire. Alcuni avevano il pigiama anziché il saio d’ordinanza, ma tutti,
professionali fino in fondo, avevano trovato il tempo di mettersi il
cappuccio durante l’evacuazione del loro quartiere. Per fortuna Ofelia riuscì
a raggiungere gli altri invertiti del programma alternativo senza farsi notare.
Solo Cosmos la guardò con i suoi occhi a mandorla, come se la stesse
aspettando. Si avvicinò pur mantenendo una certa distanza: era già
abbastanza pieno delle proprie preoccupazioni per non dover assorbire pure
quelle degli altri.
«Dov’eri? Quando hanno azionato l’apertura automatica delle porte per
l’evacuazione sono chiamuto a venarti... sono venuto a chiamarti in camera
tua e non ti ho trovato».
«Ero qui» rispose evasivamente lei. «Si sa chi si trovasse... là?».
Non riusciva a staccare gli occhi dalla colonna ipnotica delle nuvole che
oscuravano il cielo e sembravano sul punto di abbattersi sull’osservatorio
come uno tsunami. Cercava di non dare parole precise a ciò che aveva
suscitato il fenomeno, di scacciare le immagini dell’arca scomparsa che un
tempo era stata la sua, di non nominare quelli, quello, che erano stati portati
via dal naufragio della Buona Famiglia.
«No, nessuno dice niente. A parte lui».
Lui era il vecchio del programma alternativo. Stava a pochi passi da loro,
calmissimo in mezzo all’agitazione collettiva. I capelli bianchi gli
svolazzavano al vento mischiandosi ai lineamenti scavati della sua faccia.
Era la prima volta che Ofelia non lo vedeva percuotersi l’orecchio sinistro.
Sembrava invece ascoltare con profonda serenità l’intero spazio dietro i
mormorii, e a intervalli regolari ripeteva la stessa frase.
«Sono saliti in basso».
Anche le tate-automa erano ferme in attesa di istruzioni. In mezzo alle
facce spaventate, i loro ampi sorrisi artificiali erano decisamente fuori
luogo. Erano così piene di echi che emettevano solo una serie di DAR-DAR-
DAR-DAR che non arrivavano mai al LING. I loro dispositivi fonografici erano
con tutta probabilità fuori uso, il che non era una brutta notizia in sé.
Cercando di non farsi notare, Cosmos raccolse un po’ di terra e se la
strofinò sulla spalla per coprire il tatuaggio PA.
«Dobbiamo tagliare la corda in fretta, miss».
Indicò una piccola porzione di cielo ancora azzurro dietro la gigantesca
testa del colosso. A forza di strizzare le palpebre a Ofelia parve di avvistare
una serie di puntini scintillanti. Aeronavi. Un’intera flotta di aeronavi.
«I piccoli privilegiati del programma classico stanno per essere recapitati
dalle loro maniglie... cioè, recuperati dalle loro famiglie. C’è il caos, tutte le
porte sono aperte, non avremo più un’occasione così. Sei con me
stavolta?».
«No».
Ofelia aveva risposto senza ostilità, ma anche senza esitazioni. Il suo
obiettivo era rendersi il più possibile trasparente fino all’arrivo del buio.
Non era certo il momento adatto per farsi coinvolgere in un tentativo di
evasione.
Nonostante il rischio di contaminazione emotiva Cosmos si avvicinò
ancora.
«L’osservatorio è in crisi, miss. Vorranno accelerare le cose. Non sarò
l’amico dei tuoi sogni, ma sono comunque meno pericoloso di lutto vo la
pipetta... di tutto ciò che ti aspetta qui».
A Ofelia non servivano gli occhiali per scorgere il senso di colpa che gli
brillava negli occhi neri. L’aveva aggredita e morsa proprio lì, accanto a
quella giostra. Cosmos credeva forse che ce l’avesse con lui?
«Mi hai detto che non hai dove andare» gli sussurrò. «Se un giorno
capiterai su Anima troverai sempre una porta aperta».
Cosmos accennò un sorriso che rivelò per un attimo i suoi denti bianchi e
restituì un po’ di colore agli zigomi, poi si allontanò dall’assembramento
camminando all’indietro passo dopo passo per non farsi notare, diventando
sempre più sfocato agli occhi di Ofelia fino a sparire completamente. Se
n’era andato.
In lontananza le prime aeronavi stavano manovrando per atterrare. Si
potevano quasi sentire le più prestigiose famiglie di Babel riversarsi nei
corridoi dell’osservatorio per riportare a casa i figli. Il tempo della
rieducazione era finito. Le terre crollavano una dopo l’altra, la gente voleva
stare insieme e non separarsi più.
Ofelia si concentrò sui propri piedi in mezzo alla ghiaia. Non doveva
pensare a Thorn. Non doveva pensare alla madre, al padre, alle sorelle, ai
fratelli, al prozio, alla zia Roseline, a Berenilde, alla piccola Vittoria, ad
Archibald, a Renard, a Gaela, a Blasius, alla sciarpa, ad Ambroise chiunque
fosse, a tutte le persone con cui in quel momento avrebbe voluto essere.
Non doveva pensare a lui.
Seguì una lunga attesa durante la quale numerosi tuoni fecero brontolare
il cielo, poi finalmente si presentò qualcuno. Quella che per Ofelia era
soltanto un’indistinta forma gialla salì sulla piattaforma della giostra e prese
posto tra le tigri di legno dominando i presenti. Vedendola, i mormorii
cessarono con un vago senso di colpa.
«Ho due dichiarazioni da farvi».
Era la voce della donna con lo scarabeo. Ofelia non aveva più avuto
l’occasione di sentirla da quando le aveva dato quello strano consiglio che
continuava a non capire: “Se davvero volete capire l’altro, trovate prima il
vostro”.
«La prima è un promemoria. Tutti voi qui presenti, pazienti e
collaboratori, siete contrattualmente vincolati all’osservatorio delle
Deviazioni. Siete quindi tenuti a restare nell’area di confino per tutto il
tempo che durerà il programma alternativo. All right?».
Ofelia la vedeva male in faccia, anche perché ce l’aveva parzialmente
coperta dal pince-nez, ma le sembrò che la sua voce avesse perso sicurezza.
In parte doveva essere colpa dell’intrusione massiccia delle famiglie nei
padiglioni del programma classico. Cosmos aveva ragione, l’osservatorio
era in crisi. Ma chi avrebbe gestito la crisi visto che i direttori non
esistevano?
«La seconda è un annuncio. Abbiamo ricevuto la visita di un
rappresentante ufficiale di sir Polluce. Non è abilitato a entrare nell’area di
confino per rivolgersi direttamente a voi, ma dato il carattere eccezionale
della situazione ho acconsentito a fargli da portavoce. Ho il triste dovere di
informarvi che un fenomeno climatico di origine ancora indeterminata ha
portato via l’arca della Buona Famiglia. E anche gli studenti che vi
risiedevano» aggiunse dopo una pausa. «La nostra bella città ha perso non
solo i suoi futuri virtuosi, ma il luogo stesso che permetteva loro di
raggiungere l’eccellenza. È una perdita immensa per tutti noi. Esprimiamo
la nostra solidarietà a tutti coloro che avevano parenti o amici tra le
vittime».
Il silenzio che seguì aveva la consistenza della roccia, duro e denso, a
stento scosso dai DAR-DAR-DAR delle tate-automa.
Perfino il vecchio, dopo un ultimo «Sono saliti in basso», tacque.
Le lenti nere della donna con lo scarabeo fissarono allora un punto
preciso, e tutti gli sguardi ruotarono nella stessa direzione. Accovacciata per
terra, Seconda stava disegnando senza preoccuparsi dell’attenzione di cui
improvvisamente era fatta oggetto. Aveva la faccia seminascosta dai capelli
e indossava una semplice camicetta da infermeria.
Ofelia ebbe la sensazione di assumere la stessa consistenza del silenzio.
Non stava più deglutendo saliva, ma sassi. Malgrado gli sforzi che aveva
fatto per non nominarlo, per dargli un’ultima possibilità di esistere, Octavio
era precipitato nel vuoto.
«Non è tutto» continuò la donna con lo scarabeo in un tono ancora più
luttuoso. «Devo purtroppo informarvi che lady Helena era sul posto al
momento del dramma».
«No!».
Il grido era sgorgato dal cappuccio di una collaboratrice. Elizabeth. Stava
piegata in due con le braccia strette a sé, come se avesse ricevuto un
cazzotto in pancia. Il suo grido di sgomento attraversò il parco dei
divertimenti, rimbalzò sulle strutture metalliche delle giostre e fece spiccare
il volo a un gruppo di piccioni. Ofelia ne fu colpita tanto da starci male,
pervasa da un dolore che si sostituiva a quello che non sapeva esprimere.
Eppure, mentre gli altri collaboratori evitavano Elizabeth, lei era l’unica a
poterla comprendere.
Ormai erano tutte e due orfane di qualcuno.
Anzi, tutte e tre.
Ofelia non poté non dirigersi verso Seconda, che stava disegnando con
febbrilità. Era abbandonata a se stessa, come al solito. Non c’era nessuno
che le rivolgesse la parola, che prendesse l’iniziativa di un gesto, che le
dicesse la verità.
Octavio non l’avrebbe sopportato.
Si chinò su di lei.
«Tuo fratello...» disse.
Come? Come nominare l’innominabile? Al di sopra del mondo le nuvole
si facevano sempre più scure.
«...Non tornerà».
Seconda sollevò gli occhi. Sotto la massa di capelli scuri la sua
asimmetria risaltava più che mai. Metà del viso, quella in cui la catenella
d’oro collegava il sopracciglio alla narice, era agitata da sussulti nervosi.
L’altra metà era immobile, con l’inespressivo occhio bianco sgranato. A
fare da passerella tra le due c’era una fasciatura sporca di sangue che le
avvolgeva naso e guance fino all’attaccatura delle orecchie. Il solo aprire la
bocca doveva farle un male cane. Gli artigli di Thorn le avevano lasciato in
eredità una cicatrice che avrebbe ormai fatto parte di lei.
Ofelia ingollò un altro sassolino. Si ricordò il disegno che aveva buttato
nel gabinetto. Seconda aveva fatto il proprio ritratto sbarrato da un lungo
tratto premonitore a matita rossa, la stessa matita rossa con cui sul retro del
foglio aveva imbrattato Ofelia incastrata tra il mostro e la vecchia.
La stessa matita rossa che teneva in mano in quel momento. Il nuovo
disegno raffigurava un’ombra squarciata in due.
Lo dette a Ofelia dichiarando solennemente:
«Ma quel pozzo non era più vero di un coniglio di Odino».
La ghiaia scricchiolò. Collaboratori, invertiti e tate-automa si stavano
facendo da parte per lasciar passare la donna con lo scarabeo, che venne
avanti fino a che Ofelia vide distintamente l’oggetto di metallo brillare sulla
sua spalla. Con uno scatto meccanico il piccolo automa sfoderò una lente
d’ingrandimento che permise all’osservatrice di esaminare il disegno.
La donna non riuscì a reprimere un sorriso di trionfo.
«Vogliate seguirci, miss Eulalia. Siete pronta per il secondo protocollo».
Dal cielo cominciò a cadere grandine.
L’ANELLO

ESPIAZIONE. CRISTALLIZZAZIONE. REDENZIONE. Ofelia sentiva sotto i piedi


il metallo delle lettere incastonate nel pavimento e, tutto intorno, il profumo
denso dell’incenso. Avanzava tra le immense colonne della navata con
un’impressione di estrema pesantezza non diversa dalla grandine che
l’aveva quasi tramortita mentre il corteo di osservatori la conduceva lì, una
grandine che in quel luogo non aveva presa. Le vetrate mute erano in netto
contrasto con il tumulto dell’esterno.
Dov’era situato in verità il secondo protocollo? Ce l’avevano portata
facendo un tragitto diverso da quello che aveva seguito lei la prima volta.
Le avevano fatto attraversare un sotterraneo, poi salire una scala molto
stretta. Da lì in poi aveva trovato le stesse colonne, le stesse vetrate, le
stesse acquasantiere e le stesse cappelle che si susseguivano senza fine.
Le sembrava di essere incastrata nel microsolco di un disco.
Non potendo contare sugli occhiali si concentrò sulle orecchie. Gli abiti
degli osservatori, intrisi di pioggia, producevano uno sgocciolio che si
mischiava allo schiocco delle suole dei sandali e formavano intorno a lei un
muro in movimento che, senza toccarla né parlarle, la spingeva
implacabilmente ad andare avanti. Erano tanti, troppi perché potesse usare
gli artigli su di loro.
Ancora una volta si era messa in guai grossi. Si chiese se l’avrebbero
incatenata all’inginocchiatoio al posto di Mediana, che tuttavia non vedeva
da nessuna parte. L’Indovina era forse stata trasferita al terzo protocollo? La
sua falsa urna funeraria si avviava forse a raggiungere le altre nel
colombario?
Ofelia avrebbe dovuto avere paura. La trappola che aveva tanto cercato
di evitare si era chiusa su di lei, e probabilmente Thorn non ne sapeva
niente.
Il corteo si fermò e gli osservatori si disposero a formare un corridoio
giallo invalicabile che conduceva alla porta di una cappella. Avevano volti
impenetrabili e attenti dietro le lenti dei pince-nez. Le loro braccia dai
lunghi guanti di pelle non accennarono un gesto. Ofelia doveva solo girare
una maniglia, ma le toccò combattere a lungo tra la destra e la sinistra prima
di riuscire ad aprire. Appena varcata la soglia, la porta venne richiusa alle
sue spalle, naturalmente a chiave. Nient’altro. Non le avevano detto cosa si
aspettavano da lei, così come non gliel’avevano detto al primo protocollo.
Sbatté gli occhi cercando di districarsi nel flusso di colori che le
colpivano le ciglia. Illuminata dalla vetrata di un oculo, la cupola della
cappella era interamente composta da riflettori che cambiavano posizione
ogni secondo con un sommesso ronzio meccanico. Ofelia guardò subito da
un’altra parte. Era lo stesso dispositivo del tunnel caleidoscopico e della
sala di proiezione: guardare significava accentuare lo sfasamento del
proprio potere familiare o peggio. Contrasse le spalle cercando di impedire
la rottura della propria ombra profetizzata da Seconda. Detestava l’idea che
il futuro potesse essere annunciato in anticipo, e detestava il riflesso
insanguinato che si era imposto a lei già due volte come una promessa di
morte imminente. Non era in grado di vedere l’aerargyrum di cui erano
costituite le ombre e gli echi, ma se davvero era possibile convertirlo in
materia, allora avrebbe modellato il futuro a modo suo.
La cappella era vuota. Non c’era una sedia, un tavolo, un armadio.
Niente.
Ofelia tastò i marmi intorno a sé alla ricerca di una breccia da cui uscire,
un punto d’appoggio per issarsi verso la cupola, ma riuscì solo a rompersi le
unghie. L’unico oggetto che trovò, dentro una nicchia di pietra sul
pavimento, fu un vaso da notte sul fondo del quale ristagnava un liquido
maleodorante di cui preferiva non determinare la natura.
A quanto pareva intendevano lasciarla lì per un po’.
In mezzo al pavimento, proprio sotto la luce dell’oculo, vide uno strano
rilievo in pietra, una sagoma umana stesa sulla schiena, come la figura
giacente di un sarcofago. Si avvicinò con prudenza per vedere meglio. La
scultura raffigurava un cadavere scarnificato con le costole all’aria. Più che
un giacente, era uno scheletro. Le sue orbite vuote fissavano il gioco dei
riflettori sulla cupola come per indicare l’esempio da seguire: sdraiarsi e
guardare fino alla fine dei tempi.
Sulla pietra a cui era appoggiato il cranio era stata incisa un’iscrizione:
LA VERITÀ È UNA MENZOGNA CHE ASCOLTA SE STESSA
Solo in quell’istante Ofelia uscì dal torpore in cui era sprofondata dopo
l’annuncio della donna con lo scarabeo. Realizzò che i suoi capelli
sgocciolavano acqua, che aveva la tunica incollata alla pelle e che le
tremavano le gambe, come se si fosse improvvisamente ricordata di avere
un corpo.
Era terrorizzata. Non aveva mai smesso di esserlo, ma fino a quel
momento si era troppo allontanata da se stessa per rendersene conto.
Davanti a lei l’orrida scultura era immersa nei colori cangianti e
scioccanti della cupola. Chiuse gli occhi. Al posto dello scheletro vide i
camminamenti, i dormitori, i corridoi e i laboratori della Buona Famiglia,
vide centinaia di studenti in caduta libera nei temporali perpetui del grande
vuoto, là dove nessuno era mai andato, vide il conservatorio cedere alla
pressione eccessiva, vide le finestre della palestra esplodere, vide i mobili e
i corpi sfasciarsi.
Vide Octavio proiettato sul soffitto della camera da letto mentre dormiva,
addentato dalla bocca invisibile dell’Altro.
Sollevò le palpebre per osservare la mandibola cadente dello scheletro,
scolpita con morboso realismo. Stava cominciando a pensare che il vero
responsabile di tutte quelle morti fosse lo sconosciuto che l’aveva seguita
nel colombario. Se l’avesse preso in tempo sarebbe riuscita a evitare un
nuovo crollo? Non l’aveva mai visto in faccia, eppure a ogni incontro le
aveva ispirato un’ineffabile sensazione di familiarità.
«Chi sei?» mormorò come se quello potesse sentirla.
«CHI SEI?».
Ofelia sobbalzò: era il suono distorto della sua voce. Prima non l’aveva
notato, ma lo scheletro stringeva tra le mani scarnificate un piccolissimo
automa, un pappagallo, evidentemente concepito per riprodurre la prima
frase che avesse registrato.
«CHI SEI?» ripeté con la voce distorta di Ofelia. «CHI SEI? CHI SEI?».
Questa poi. Si era incantato il disco? Ofelia tirò un calcio al pappagallo
per fermare quell’eco a ciclo continuo, ma riuscì solo a farsi male. L’eco
rimbalzava sui riflettori della cupola e mischiava la propria cacofonia a
quella dei colori. La cappella era esattamente come la cantina di Eulalia:
concepita come una cassa di risonanza.
«CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI? CHI
SEI? CHI SEI?».
Era infernale. In quel momento capiva bene le parole di Ambroise,
quando le aveva detto che di tutti i clienti di Lazarus l’osservatorio delle
Deviazioni era quello che gli faceva le richieste più inconsuete. Quella non
era di sicuro una bugia.
Batté sulla porta della cappella un bel po’ prima di sentire dei sandali che
si avvicinavano. Uno spioncino si aprì su una piccola grata all’altezza degli
occhi, almeno per una persona di statura media. Ofelia dovette issarsi sulla
punta dei piedi per vedere il pince-nez dalle lenti scure di un osservatore.
«Fatemi uscire» intimò.
Nessuna risposta.
«CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI?».
«Fate tacere questa macchina, allora».
Di nuovo silenzio.
Ofelia decise di mettere le carte in tavola.
«D’accordo» disse forte per farsi sentire nonostante il pappagallo. «Avete
un Corno dell’abbondanza che non funziona. Avete bisogno dell’Altro, e
per attirarlo avete bisogno di me. Ma perché? Che intenzioni avete? Che
farete poi? Nel caso non ve ne foste accorti, là fuori è in gioco il destino di
tutte le arche».
L’osservatore evitò ancora una volta di rispondere, ma invece di limitarsi
a ignorare Ofelia richiudendo lo spioncino restava lì in attesa. In attesa di
che?
ESPIAZIONE.
Era quello che stavano cercando di ottenere da lei? Un pentimento, una
confessione, una rinuncia? Doveva come Mediana chiedere perdono per
tutti i suoi errori, per tutte le trasgressioni da lei commesse da quando aveva
voltato le spalle alla famiglia e ai piani di Eulalia Diyoh?
«Un attimo, prego».
Andò in fondo alla cappella, tornò e lanciò sul pince-nez il contenuto del
vaso da notte. Lo spioncino si richiuse furiosamente.
«CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI?».
Ofelia si mise seduta contro un muro e si tappò le orecchie. Di nuovo la
collera prese il sopravvento sulla paura. Aveva voluto tornare al secondo
protocollo? Ora che c’era, anche se non proprio nel modo che aveva
previsto, sarebbe andata fino in fondo alla missione. Non avrebbe dato loro
più niente senza ottenere in cambio spiegazioni.
Silenzio per silenzio, parole per parole.
Prendere o lasciare.

Lei prende.
Più che altro prende il sole, l’aria di mare.
Stamattina Eulalia si è alzata presto con il bisogno impellente di uscire
dal suo studio. Il giorno prima ha finito il suo ultimo romanzo. I tasti della
macchina da scrivere non si erano ancora raffreddati che l’ha gettato nel
cestino senza neanche rileggerlo. È il secondo dattiloscritto che butta via.
Da dove le viene quell’improvvisa insoddisfazione? Da quando ha
conosciuto l’Altro non ha mai smesso di sentirsi ispirata da tutto, mai.
Allora che c’è?
Eulalia tira su col naso.
Con i piedi nella sabbia, le mani in tasca e gli occhi puntati sull’oceano
inspira dolorosamente gli spruzzi. È senz’altro colpa degli attacchi di
sinusite. Non è facile conservare l’ottimismo quando si passa la notte a
cercare di respirare. È ancora giovane, ma si sente invecchiata
prematuramente. Ha offerto all’Altro metà della propria vita.
«Fottuto ragazzino!» urla una voce.
Eulalia si volta verso la scuola della pace, che occupa quasi tutta l’isola.
È la sua scuola. Cerca con gli occhi il portiere, che sta imprecando sempre
più forte in babeliano, e lo vede cinque metri al di sopra delle mimose in
stato di levitazione, reggendosi il turbante con le mani per non farlo cadere.
Sta minacciando Urano di dargli una lezione coi fiocchi se non lo fa
scendere subito.
La loro scuola. Sono cresciuti così in fretta... troppo in fretta. Pur essendo
ancora bambini, sono già tutti più alti di lei. Helena non riesce a spostarsi
senza rotelle. Belisama ha fatto accidentalmente spuntare un eucaliptus nel
suo letto. Mida ha trasmutato tutta l’argenteria delle cucine in sterco di
zebra. Venere ha nascosto un allevamento di boa constrictor nei bagni del
quarto piano. Davanti alla scuola Artemide ha rifatto identica a prima la
testa della statua del soldato, poi l’ha decapitata di nuovo. Il faro è in
riparazione da quando Djinn, Gaia e Lucifer si sono messi in testa di
inventare un nuovo fenomeno meteorologico. E Janus... Dov’è finito Janus?
Eulalia tira su col naso.
Se lo soffia senza riuscire a stapparselo. Quell’insoddisfazione di cui non
riesce a spiegarsi la causa le sembra più forte appena concentra la sua
attenzione sulla scuola. Contempla l’oceano e in lontananza, rosseggiante
alla luce del tramonto, il continente ancora e sempre in ricostruzione. La
guerra non è lontana. Ovunque si vada, la guerra non è mai lontana.
Pensa che avrebbero bisogno di un guardiano per proteggere la scuola.
Uno spauracchio. Presto prenderà il battello per tornare all’osservatorio.
Con il grande bombardamento laggiù sono tutti morti, come aveva predetto
l’Altro. Il Corno dell’abbondanza è nascosto da qualche parte sotto le
rovine, in un luogo che ormai solo Eulalia conosce. Si era ripromessa di non
convertire più niente, ma i ragazzi avranno bisogno di protezione fino a
quando non avranno raggiunto la piena maturità. Il portiere, che sta ancora
bestemmiando al di sopra delle mimose, non è più giovanissimo.
Quanto a Eulalia, avrà forse perduto metà della sua aspettativa di vita, ma
presto il tempo per lei si fermerà. La sua intera realtà cambierà.
Durante la passeggiata si imbatte in un grande castello di sabbia: a
giudicare dalla ricercatezza estetica deve averlo fatto Polluce. Un po’
sconcertata, si rende conto che avrebbe voglia di sfondarlo con un calcio.
«Diyoh?».
Eulalia solleva la testa verso Odino. Non l’aveva sentito arrivare. Lui si
tiene in disparte con lo sguardo di lato e la schiena curva, come se si
sentisse di troppo. Il suo alto corpo è una macchia bianca sulla spiaggia
rossa. È magnifico... e così imperfetto! Eulalia vorrebbe cacciarlo via e allo
stesso tempo abbracciarlo. Non fa né l’uno né l’altro.
«Vorrei farti vedere una cosa».
Odino si esprime nella lingua materna di Eulalia, quella che parlavano i
suoi genitori deportati, la lingua di una famiglia sparita e di un paese
lontano che quasi non ricorda più. Se tutto va secondo i suoi piani, un
giorno diventerà la lingua dell’intera umanità. Le guerre infatti scoppiano
quando non ci si capisce più.
«Col tuo permesso» aggiunge Odino di fronte al suo silenzio.
Eulalia tira su col naso.
Quel ragazzo è sempre prontissimo sia a chiedere il suo parere che a
metterlo in dubbio. Quando imparerà a definire se stesso indipendentemente
da lei?
«Fammela vedere» risponde.
Odino si raddrizza lentamente diventando ancora più alto, strizzando per
la concentrazione gli occhi translucidi, come un allievo di pianoforte che si
accinga a eseguire di fronte al maestro un brano provato cento volte. Tra le
sue mani quasi unite, una nebbiolina acquista gradualmente consistenza
fino a diventare un oggetto tangibile. Una scatola. Si sforza di non lasciar
trapelare niente, ma dal microscopico rilassarsi delle sue sopracciglia
Eulalia capisce che prova sollievo.
Gli prende la scatola dalle mani, ne saggia la solidità, la gira, la apre.
Ovviamente è vuota.
«Be’? Tutto qui?».
Odino sembra colto di sorpresa dalla reazione di Eulalia. A dire il vero è
sorpresa anche lei. È la prima volta che Odino riesce a stabilizzare
un’illusione, dev’essersi allenato molto per forzare in quel modo i limiti
della sua povera immaginazione.
Dovrebbe fargli i complimenti, è sulla buona strada.
«Dammi il tuo Libro» dice invece.
La faccia di Odino si scioglie come neve, tuttavia sta già estraendo
dall’interno del vestito il volume da cui non si separa mai. Soggetto a una
battaglia interna persa in partenza, con l’altra mano cerca invano di
trattenere il gesto. Come i fratelli e le sorelle, anche lui è programmato per
ubbidire ai suoi ordini. Eulalia lo sa bene, visto che è stata lei a inserire
quella specifica istruzione in ogni Libro.
Prende dalla tasca la sua fedele stilografica e svita il cappuccio con i
denti.
«Sei arrabbiata, Diyoh?».
Nello sguardo che Odino punta di lato Eulalia coglie un riflesso di amore
e odio aggrovigliati. Soffre per averla delusa e per essere stato deluso da lei.
Eulalia volta le pagine del Libro consapevole che sta mettendo mano a
ciò che Odino possiede di più intimo. Conosce a memoria ognuno delle
migliaia di caratteri che compongono il codice da lei inventato. Una sezione
determina la motricità di Odino, un’altra la sua capacità di analisi, un’altra
la sua percezione dei colori. Ha deciso, e affonda il pennino di metallo nella
pelle del Libro ignorando il grido soffocato di Odino, accettando il dolore
che sta infliggendo al suo stesso figlio. Con un tratto di penna, cancella una
riga di codice in modo da non intaccare il resto.
«Mangerai senza gusto e nessuna carezza ti sembrerà dolce» dice
restituendogli il Libro. «Ti ho tolto il diritto di provare piacere».
Odino si stringe al petto il Libro censurato. Il vento dell’oceano gli
solleva i capelli polari. Spalanca occhi pieni di disgusto e di adorazione, ma
sta attento a non guardare Eulalia in faccia. Malgrado ciò che gli ha fatto,
non vuole ferirla con quel potere che non controlla.
«È inchiostro ordinario» commenta Eulalia riavvitando il cappuccio della
stilografica. «Col tempo si cancellerà. Usa questo tempo per aiutarmi a
salvare il mondo».
Odino se ne va lasciandosi dietro le orme dei suoi passi nella sabbia.
Eulalia tira su col naso.
Si toglie gli occhiali più insoddisfatta che mai e senza capire perché.
Mentre soffia sulle lenti per pulirle, il sole al tramonto vi si rispecchia, e di
colpo vede lui, vede il proprio riflesso che gli fa un occhiolino complice.
Presto, dice l’Altro.
Eulalia scaglia gli occhiali il più lontano possibile. Le tempie le pulsano a
tutta velocità. Ha il naso dolorosamente tappato. Le scoppia la testa. Che le
sta succedendo? A forza di prendersi per Dio ha perso di vista se stessa?
Non sta scappando dal suo studio, ma dallo specchio che c’è dentro.
«Presto» mormora con voce tremante. «Ma non ancora».

Ofelia tirò su col naso.


Si era svegliata di soprassalto, ansimante come se avesse corso, in preda
alla brutale sensazione di cadere verso l’alto. Per un attimo pensò che anche
l’osservatorio stesse crollando. Indolenzita per essersi addormentata sulla
pietra del pavimento si raddrizzò. Non si sentiva più i piedi.
«CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI?» continuava a ripetere il pappagallo.
Tutto era come prima, la cappella con la porta ostinatamente chiusa e la
stessa luce diafana che filtrava dalla vetrata dell’oculo, come se il sole si
fosse fermato. Le uniche variazioni nell’illuminazione erano dovute ai
riflettori meccanici della cupola che lei si sforzava di non guardare. Aveva
mal di testa, sete e un ricordo piuttosto approssimativo del sogno, dal quale
però era uscita raffreddatissima.
«Tu non hai un fazzoletto, immagino?» domandò allo scheletro.
Da quanto tempo era chiusa in quella cappella? Aveva lottato per non
addormentarsi, prima che il sonno la vincesse.
E Thorn la aspettava...
Un rumore di cardini attirò la sua attenzione verso la parte bassa della
porta. Una mano inguantata aveva aperto un passavivande e stava lasciando
una ciotola sul pavimento. Ofelia si precipitò a bloccare lo sportello col
pollice prima che si richiudesse. Non l’aveva fatto con discrezione, eppure
nessuno protestò, i sandali si allontanarono. Ofelia contò fino a cento, poi
sollevò lo sportello il meno goffamente possibile. L’apertura era
sorprendentemente larga per un passavivande. Si contorse per infilarci la
testa e guardò da entrambe le parti della navata: per quel che vedeva era
deserta.
Centimetro dopo centimetro strisciò attraverso il piccolo vano. Se avesse
avuto una corporatura meno minuta le sarebbe stato impossibile. Il che non
significava che fosse priva di rotondità. Sentì il vestito che si strappava.
Ogni volta che rimaneva incastrata svuotava i polmoni per guadagnare
qualche millimetro. L’acustica della navata era così sensibile che i cardini
dello sportello facevano un baccano spaventoso.
Si augurò di non starnutire in quel momento.
Fu quasi stupita di ritrovarsi dall’altra parte senza aver messo in allarme
tutti gli osservatori dei paraggi. A parte qualche graffio, ce l’aveva fatta.
Si chiese da che parte andare.
A sinistra? Colonne, cappelle, rosoni.
A destra? Colonne, cappelle, rosoni.
Decise per la sinistra. Corse attraverso la nebbiolina di fumo degli
incensi con la sensazione di perdersi in un’eternità di marmo e vetro. La
miopia non la aiutava di certo. Se avesse incontrato un osservatore
l’avrebbe visto solo all’ultimo momento. Non ritrovò la scala da cui era
stata portata lì con la forza, in compenso dopo una corsa interminabile
riconobbe un pezzetto della sua tunica impigliato nello sportello
passavivande di una cappella da cui giungeva il suono ovattato della sua
voce.
«CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI?».
Aveva camminato in linea retta, non aveva trovato una sola curva, e
contro ogni logica era tornata al punto di partenza. La navata era contenuta
in uno spazio ad anello. Non c’erano dubbi, un prodigio architettonico del
genere poteva essere opera solo di Madre Ildegarda.
Fece dietrofront e partì nell’altro senso ben decisa a trovare la breccia.
Doveva per forza esserci un passaggio che consentisse agli iniziati di andare
e venire a piacimento. Si appoggiò a un pilastro massiccio come una
quercia per riprendere fiato, e in una rientranza tra due cappelle di una
navata laterale vide una forma con le tendine gialle.
Un confessionale. Se dentro avesse trovato uno specchio come l’altra
volta sarebbe stata salva.
Si slanciò senza più preoccuparsi che qualcuno potesse sentirla. Ormai la
velocità aveva la priorità sulla prudenza. Sbatté il ginocchio contro
l’inginocchiatoio e, più che entrare nel confessionale, ci cascò dentro.
Cercò lo specchio, ma invece del proprio riflesso trovò una grata, e dietro
la grata un profilo.
Un adolescente stava sfogliando placidamente un giornalino.
«Finalmente, signorina» disse reprimendo uno sbadiglio. «Pensavo che ci
avreste messo meno tempo».
E rivolse verso Ofelia i suoi occhiali dalle lenti a fondo di bottiglia sulla
faccia sbarrata da una grande croce nera.
IL RUOLO

L’ultima volta che Ofelia aveva visto il cavaliere era stato tre anni prima
alla corte di Faruk. Era stato condannato, mutilato e inviato di forza a
Helheim, un istituto dalla reputazione sinistra in cui venivano mandati i
ragazzacci del Polo.
«Non sono più lì».
L’adolescente aveva anticipato la domanda umettandosi un dito per
voltare la pagina del giornalino. La sua voce era così cambiata che Ofelia
non la riconosceva. Lo vedeva parzialmente per via della grata, ma le parve
molto cresciuto. I capelli gli scendevano in abbondanti riccioli biondi fin
sulle spalle. Nonostante la croce nera e i grossi occhiali di traverso sulla
faccia, Ofelia ne intuiva lo sviluppo osseo che aveva assorbito le rotondità
infantili. Notò che si rifletteva sul legno laccato del confessionale, pertanto
non era Eulalia Diyoh né l’Altro.
Il cavaliere non avrebbe dovuto trovarsi lì. La sua presenza in quella
navata, in quell’osservatorio, in quella parte di mondo era semplicemente
impossibile.
«Sei stato tu» disse Ofelia in un soffio. «Tutte quelle messinscene, la
pallottola del museo, l’automa vestito come mia madre... Hai consegnato
loro il mio passato su un vassoio d’argento».
Il sorriso del cavaliere rivelò che ai denti aveva l’apparecchio.
«Certo, gliel’avevo promesso».
«A chi?».
A Ofelia ronzavano le orecchie. Non si rendeva più conto del naso che le
colava né del ginocchio che si stava gonfiando. Il cavaliere era stato privato
del suo potere familiare, non poteva più imporle le sue illusioni avvelenate,
ma non per quello era meno nocivo. Avrebbe fatto bene ad andarsene da
quel confessionale al più presto.
«Di chi parli?» insisté con durezza. «Chi ti ha fatto lasciare Helheim? Chi
comanda davvero quest’osservatorio?».
Il cavaliere chiuse il giornalino, si tolse gli occhiali, si incollò alla grata
schiacciando la faccia contro la retina metallica e sgranò occhi chiari quanto
la sua croce era scura.
«Quelli che vedono le cose molto più in grande, signorina! Hanno parlato
con me come nessun adulto aveva mai fatto. Mi hanno offerto quella
seconda possibilità che il mio stesso clan mi aveva rifiutato».
Ofelia indietreggiò verso la parete quando le dita del cavaliere si
infilarono tra le maglie per afferrarsi alla grata.
«Ho aspettato così a lungo... Contavo ogni giorno in quell’orribile
istituto. Avete idea di quanto ho avuto freddo in quel posto? Pensavo che
almeno lei sarebbe venuta a trovarmi».
In bocca al cavaliere, “lei” poteva essere solo Berenilde. Ofelia notò che
aveva le unghie rosicchiate a sangue. La sua ossessione per Berenilde non si
era affievolita col tempo.
«Non è venuta» disse spiaccicando un sorriso sulla grata. «Mi ha
abbandonato. Ma io, il suo cavaliere, non la abbandonerò mai. Si sta
avvicinando il giorno in cui potrò provvedere a tutti i suoi bisogni. Mi
hanno promesso l’abbondanza! Io e voi abbiamo qualcosa in comune, se
non altro: un essere caro da proteggere».
A Ofelia piaceva sempre meno la piega che stava prendendo la
conversazione, sempre che di conversazione si trattasse. Il cavaliere era uno
specialista in monologhi. Neanche in quello era cambiato.
Sollevò la tendina e constatò stupita che il confessionale era circondato
da figure in giallo. Quant’era stata stupida! Aveva interpretato il proprio
ruolo alla perfezione. Loro avevano previsto tutto, dall’evasione attraverso
il passavivande al nascondiglio del confessionale. Il messaggio era chiaro:
qualsiasi cosa facesse, l’osservatorio aveva sempre una lunghezza di
vantaggio su di lei. Anzi, un eco di vantaggio. Probabilmente col contributo
dei disegni premonitori di Seconda.
Il cavaliere si rimise gli occhiali per darsi un contegno.
«Tutto ciò fa parte del Progetto» le spiegò in tono eccessivamente
educato. «Progetto al quale voi state partecipando da molto più tempo di
quanto non crediate. Siete speciale per loro, anche se a mio modesto parere
restate disperatamente banale. Sareste stupita di sapere quanto fossero già
molto ben informati su di voi! Da me volevano solo particolari... diciamo
più significativi del vostro passato: il valore che attribuite al museo di
Anima, il vostro ultimo giorno di lavoro nello stesso, il difficile rapporto
con vostra madre, cose così».
Infastidito dal caldo soffocante del confessionale, il cavaliere si
sventagliò col giornalino. Ofelia intravide dei cuccioli rosa sulla copertina.
Si sforzò di non far vedere quanto si sentisse oltraggiata.
«Non ti ho mai fatto confidenze del genere».
«Ma le avete fatte al vostro prozio. Ho letto tutte le lettere che gli avete
scritto quando eravate al Polo. Ma quel che so io ha poca importanza»
sottolineò mentre Ofelia contraeva le mascelle. «L’importante è ciò che
sanno loro. Per esempio sapevano che sareste venuta all’osservatorio di
vostra iniziativa. Era questione di tempo, dicevano, dovevamo solo avere
pazienza. Doveva essere una decisione vostra, capite, signorina? Tutto
l’esperimento dipendeva da quello, così come dipende da ciò che deciderete
adesso. O ve ne tornate buona buona nella cappella o ce la prendiamo con
messer Thorn, alias sir Henry. La mia dama ha vissuto piuttosto male il
fatto che io abbia decimato il suo clan, preferirei evitare di far del male
anche al nipote».
Ofelia aveva l’impressione che il sangue avesse smesso di scorrerle nelle
vene. Le parole del cavaliere le perforavano il petto. Sarebbe dovuta fuggire
con Thorn quando ne avevano avuto la possibilità.
«Voglio parlarci».
«Impossibile, signorina. Loro si sono impegnati a non fargli alcun male
finché darete prova di buona volontà, e mantengono sempre le promesse.
Giurin giurello!» assicurò disegnando in aria col pollice la croce che gli
anneriva il viso.
«Buona volontà per cosa?».
«Per espiare, cristallizzare e ottenere la redenzione. Dicono che ci siete
quasi, signorina, ma è un lavoro che non possiamo finire al posto vostro».
«Non ho nessuna colpa da espiare, ignoro cosa sia la cristallizzazione e
non so che farmene della vostra redenzione».
La voce di Ofelia era asciutta quanto lei. La rabbia le consumava la poca
acqua ancora presente nel corpo.
«Dicono che scoprirete tutto ciò da sola» rispose impassibile il cavaliere.
«E Mediana? So che era qui» si spazientì Ofelia a dispetto di ogni
prudenza. «È stata cristallizzata? Ha trovato la redenzione? Che ne avete
fatto?».
Il cavaliere scosse i riccioli biondi con aria annoiata.
«Le vostre domande sono prive d’interesse. Ce n’è una sola che merita di
essere posta: signorina Ofelia, piccola di Artemide, moglie di Thorn, miss
Eulalia» elencò allargando la bocca in un sorriso. «Sono molti ruoli per una
sola persona. Ma senza quei ruoli chi siete realmente?».
Assestò tre colpi al legno del confessionale. Un guanto sollevò subito la
tendina. Il colloquio era terminato. Il cavaliere si era già rituffato nella
lettura del giornalino rosicchiandosi il poco di unghie che gli restava.
Ofelia fu riaccompagnata alla cappella sotto buona scorta. Il ginocchio
gonfio la faceva zoppicare, ma si fece un punto d’onore di camminare dritta
e a testa alta. Non avrebbe fatto vedere quant’era scossa, no, non avrebbe
dato loro quella soddisfazione.
Quando la porta fu chiusa a chiave rimase in piedi tra i colori in
movimento della cappella, immobile come lo scheletro, rispondendo ai CHI
SEI? del pappagallo con un silenzio ostinato. Era già passata attraverso ogni
genere di esperienze che avevano messo il suo ego a mal partito: era stata
mortificata dalle Decane di Anima, umiliata dai cortigiani del Polo, rifiutata
dalla città di Babel...
Ma mai si era sentita messa così in ridicolo.
La ciotola era sempre in attesa davanti al passavivande. Una minestra di
riso ormai fredda. Dovette prenderla con entrambe le mani da quanto le
tremavano. Avrebbe voluto tirarla attraverso lo spioncino, invece bevve.
Avrebbe voluto urlare fino a farsi sentire da Thorn, invece tacque.
Capovolse la ciotola vuota. Il cibo era schifoso come quello del primo
protocollo. Se avesse avuto una lente d’ingrandimento forse avrebbe
scoperto caratteri microscopici impressi sulla porcellana. A ogni boccone
aveva mandato giù un ex eco convertito in materia. La sua pancia protestò.
Quel Corno dell’abbondanza era ben lungi dall’essere perfetto.
E se gli osservatori avessero raggiunto la perfezione che cercavano? Se si
fossero rivelati in grado di produrre cibo commestibile, acqua potabile,
oggetti funzionanti e terre che non sarebbero crollate? Se avessero deciso di
trasformarsi in nuovi dèi? Sarebbero stati potenti quanto Eulalia e l’Altro. E
altrettanto pericolosi.
Ma alla fine chi era la testa pensante?
«CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI?».
La ciotola le scivolò dalle mani e si spezzò a terra. Rotto il codice, tornò
subito allo stato di aerargyrum, proprio come il vecchio spazzino quando la
fucilata gli aveva bucato la placca sulla fronte. Aveva di nuovo fame e sete,
come se non avesse mangiato, e per quanto si passasse la lingua sul palato
lo sgradevole sapore della minestra era scomparso.
Guardò il pavimento di pietra su cui danzavano le luci colorate. Capiva in
quel momento che la cappella era una versione evoluta della cantina col
telefono. Ciò che a Eulalia aveva richiesto mesi, lì si sarebbe prodotto in
forma accelerata. Alzando gli occhi verso i riflettori meccanici Ofelia
avrebbe condannato la propria ombra. Le sarebbe sopravvissuta?
Di colpo le tornò in mente lo strano vapore che era emanato dal corpo del
cavaliere quando Faruk gli aveva tolto il potere familiare. All’epoca aveva
dunque visto l’aerargyrum? Era quello, cristallizzarsi? Rinunciare a una
parte di sé? E in che modo ciò avrebbe permesso di perfezionare il Corno
dell’abbondanza? Fino a quel momento aveva pensato che l’osservatorio si
servisse degli invertiti per attirare l’Altro ricreando le condizioni del suo
incontro con Eulalia Diyoh, ma lì non c’era cantina né telefono.
C’era solo un pappagallo, pensò dando un’occhiata all’automa fissato
alle mani dello scheletro, una macchina idiota condannata a ripetere lo
stesso eco.
«CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI?».
Ofelia si stese sul pavimento accanto alla statua scarnificata. Era così
vicina che vedeva le larvette scolpite uscirgli dalle cavità nasali. L’ultima
volta che l’avevano costretta a confrontarsi con se stessa era successo
nell’isolatoio della Buona Famiglia. Allora aveva dovuto affrontare il senso
di colpa e la vigliaccheria che le impedivano di andare avanti, e non aveva
nessuna voglia di ripetere l’esperienza un’altra volta.
In un ultimo impulso a resistere distolse lo sguardo dalla cupola e pensò a
Thorn.
“Mantengono sempre le promesse”.
Spalancò gli occhi sul caleidoscopio gigante sopra di lei, e lo shock ottico
la fece inarcare. La sua miopia trasformava le figure geometriche in uno
sciroppo di colori. Era come se le avessero infilato un arcobaleno nelle
pupille e continuassero ad affondarglielo nel cranio.
«CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI?».
Se le fosse restata un po’ di minestra in pancia l’avrebbe vomitata. Al suo
posto sputò una bile che le bruciò la gola. Respirò a fondo, aspettò che gli
spasmi si placassero, poi si stese di nuovo sulla schiena. Sopra di lei
migliaia di frammenti di specchio amplificavano la vetrata dell’oculo
reinventando sempre nuovi rosoni. Le sembrava di trovarsi di fronte a una
galassia impazzita.
Fu l’inizio di un lunghissimo spettacolo, sublime e allo stesso tempo
atroce. Ofelia trascorse ore stesa sulla pietra irradiata dai colori. Si
raddrizzava quando la testa le faceva troppo male o le sanguinava il naso o
aveva un capogiro, ma poi si rimetteva sempre giù e riprendeva il calvario
da dove l’aveva interrotto.
Al contrario di quanto aveva affermato il cavaliere, la scelta di continuare
o smettere non spettava a lei. Non se da essa dipendeva la salvaguardia di
Thorn.
Sulla cappella non scendeva mai il buio. Ben presto perse la nozione del
tempo. Aveva rinunciato quasi subito a contare gli innumerevoli CHI SEI? del
pappagallo e ripiegato sulle ciotole che le arrivavano dal passavivande, ma
il loro numero crescente non la tranquillizzava.
Neanche il proprio odore. Da quanto tempo non si lavava?
Si concesse pause il più possibile brevi, compatibilmente con le sue
esigenze fisiche, per dormire e mangiare un po’. Pensava che più a lungo si
sarebbe esposta al caleidoscopio e prima avrebbe onorato la sua parte
dell’accordo.
Come capire se era sulla buona strada? Di quando in quando il rumore
dello spioncino che si apriva la informava che era oggetto di osservazione
continua, ma nessuno le diceva qualcosa. Non un ordine, non un
incoraggiamento, nulla.
Eppure constatava dei cambiamenti. Niente affatto piacevoli.
Si era accorta che le lastre del pavimento si sfaldavano inspiegabilmente
nel punto in cui era solita sdraiarsi. Poi toccò alle ciotole disgregarsi in
pochi istanti fra le sue mani, costringendola a mandar giù la minestra in
tutta fretta prima che sparisse. Il suo animismo non era più soltanto
sregolato, era diventato distruttore. Servirsi del vaso da notte era un vero e
proprio incubo.
L’impazienza di Ofelia raggiunse il parossismo quando il suo potere di
Drago si ritorse contro di lei. Poco a poco braccia e polpacci le si
ricoprirono di graffi, come se passasse attraverso rovi invisibili.
Espiazione.
L’idea la disgustava. Di che cosa veniva punita? Era colpa di Eulalia e
dell’Altro se tutto andava di male in peggio. Un’umana pretenziosa e un eco
insaziabile. Avevano sacrificato parte del mondo con la scusa di salvarne
un’altra, avevano stretto un patto fra loro all’insaputa di tutti, e ora ne
cambiavano le regole.
No, non era colpa di Ofelia se l’Altro si era servito di lei, se lei
somigliava a Eulalia, se le arche crollavano e se Octavio era morto. Non era
colpa sua se aveva dovuto abbandonare la famiglia. Non era colpa sua se
non poteva fondarne una.

Non è colpa mia.

Ofelia sgranò gli occhi e spalancò la bocca. E quello cos’era? Si era


sentita come dissociata dal proprio pensiero. Nuovi frattali si formavano a
ogni istante sulla cupola della cappella. Ogni combinazione le provocava
nuova sofferenza, ma non riusciva più a sbattere le ciglia né a girare la testa.
«CHI SEI? CHI SEI? CHI SEI?».
Non sono loro e loro non sono me.
Luci, colori e forme danzavano non più soltanto sulla cupola. Si
combinavano e scombinavano in ogni molecola del corpo di Ofelia.
«CHI SEI?».

Non sono più un’Animista.

«CHI SEI?».

Non sono la figlia che mamma desiderava.

«CHI SEI?».

Non sarò mai madre a mia volta.

«CHI SEI?».

Con Thorn ero “noi”. Senza di lui sono “io”.

«CHI SEI?».

Chi è io?

Trascinata dal turbine caleidoscopico Ofelia era diventata spettatrice dei


pensieri. Aveva un’acuta consapevolezza della pietra friabile sotto la sua
schiena, dello spazio intorno a sé e dentro di sé. Più definiva se stessa in
vuoti, più si sentiva esistere in maniera diversa.
“Dicono che ci siete quasi”.
Cominciò ad affacciarsi un barlume di comprensione. Tutto ciò che
l’osservatorio faceva subire agli invertiti del programma alternativo non
puntava a distruggere il loro potere familiare e lacerare la loro ombra.
Quelli erano effetti secondari di un distacco ben più profondo. La rinuncia
di Mediana. La contropartita di Eulalia.
Cristallizzazione.
No, in fondo Ofelia non era davvero la piccola di Artemide né la moglie
di Thorn né Eulalia né l’Altro e neanche Ofelia. Era tutti loro e molti altri.
“In ognuno di noi c’è un confine” aveva detto Blasius. “Cercheranno di
farvi varcare questo confine. Qualsiasi cosa vi dicano, la decisione sarà
vostra”.

La mia decisione.

La nostra decisione.

Non ci sono più colori.

Si sono tutti fusi nel bianco, un bianco di carta, una pagina di libro in cui
Ofelia è solo sei lettere.

Solo un nome che si cancella.

Un semplice ruolo.

E la pagina si lacera.
REDENZIONE.
LA BANCHINA

«CHI È IO? CHI È IO? CHI È IO?».


Ofelia mosse fiaccamente le dita dei piedi. Si sentiva così intorpidita che
aveva l’impressione di fare corpo unico col pavimento. Aveva perso
conoscenza? Sollevò una palpebra. I riflettori meccanici del caleidoscopio
si erano fermati. Ruotò gli occhi verso lo scheletro steso alla sua destra. Il
teschio, invece di contemplare la cupola, fissava Ofelia con orbite vuote.
La scultura aveva cambiato posizione. Vabbè.
«CHI È IO? CHI È IO? CHI È IO?».
Si issò sui gomiti. Tutto intorno a lei la cappella si era trasformata. Dal
lastricato erano spuntati immensi petali minerali intrecciati gli uni agli altri
in una fioritura di incredibile complessità, quasi che le proiezioni del
caleidoscopio si fossero riprodotte in basso.
Ofelia ci mise un po’ a realizzare che l’unica responsabile di quel
mutamento era lei. Il suo animismo, che faceva a stento vacillare un vaso,
aveva interrotto un meccanismo a distanza, rimodellato una statua antica e
ammorbidito vari metri cubi di marmo come fosse pasta.
Lo sguardo di Ofelia scese lungo le costole disincarnate dello scheletro
fino a individuare tra le mani, ormai aperte, il pappagallo di metallo.
«CHI È IO? CHI È IO? CHI È IO?».
Il nuovo eco invece non era dovuto all’animismo.
Fu allora che notò l’ombra in mezzo alla fioritura delle pietre. In piedi
davanti a lei c’era lo sconosciuto della nebbia, l’intruso del colombario.
Ofelia fu percorsa da un brivido. Per quanto cercasse una faccia, non la
trovò. Era composto di materia nera, come se la luce naturale dell’oculo
non avesse presa su di lui.
L’ombra era ciò che era sempre sembrata: un’ombra.
Ofelia cercò invano di alzarsi.
«Sei l’Altro?».
L’Ombra dondolò la testa, o qualcosa che stava da quelle parti. No,
rispondeva in silenzio, non sono l’Altro. Inchiodata al suolo, Ofelia la fissò
a lungo e con durezza. Non aveva voglia di credere all’Ombra, non solo
perché l’aveva trovata sulla sua strada ogni volta che c’era stato un crollo,
ma anche perché tutto la indicava come la colpevole ideale. È stremante
odiare qualcuno senza averlo mai di fronte. No, Ofelia non aveva proprio
voglia di credere all’Ombra, eppure le credette. La familiarità che le
ispirava non aveva niente a che fare col suo lontano ricordo di gioventù, la
presenza nello specchio di camera sua che diceva Liberami.
«Ho capito. Sei l’eco di qualcuno che conosco?».
L’Ombra esitò, poi fece un’alzata di spalle con un gesto che non era un sì
né un no.
«Ma tu lo conosci, l’Altro?».
Con una venatura di malizia l’Ombra puntò un dito di tenebra su Ofelia.
«Io conosco l’Altro?».
L’Ombra fece di sì.
«L’ho incontrato?».
L’Ombra fece di sì.
«Quando l’ho liberato dallo specchio?».
L’Ombra fece di sì più volte.
«Ho visto l’Altro e non l’ho riconosciuto?».
L’Ombra fece di sì. Ofelia era sempre più sconcertata.
«Com’è fatto l’Altro?».
L’Ombra puntò di nuovo il dito su Ofelia. Qualcuno che le assomigliava.
Il che non le faceva fare molti passi avanti.
«Ma tu chi sei?» insisté. «Un altro Altro?».
L’Ombra fece di no e puntò il dito sul pappagallo.
«CHI È IO? CHI È IO? CHI È IO».
Ofelia ascoltò l’eco continuo con più attenzione. Era la sua voce, eppure
non era più davvero la sua. La dissociazione che aveva sperimentato, la
lacerazione che l’aveva scissa in due, il senso di liberazione che ne era
seguito, tutto aveva indotto una deviazione, il risveglio di una coscienza
estranea, un eco intelligente.
Eulalia Diyoh non aveva incontrato l’Altro, l’aveva generato,
esattamente come Ofelia aveva appena fatto.
«Ho creato un altro Altro?» mormorò stupefatta.
L’Ombra sollevò entrambi i pollici in segno di congratulazioni. L’attimo
dopo si era dissolta nella luce della vetrata.
«Resta!».
Si precipitò nel punto in cui l’Ombra era sparita, ma colta da capogiro
cadde in ginocchio. Com’era debole e com’era vibrante! Si sentiva come se,
dopo aver passato una vita intera con la colonna vertebrale fuori asse,
qualcuno le avesse rimesso a posto tutte le ossa in un colpo solo.
Comunque fosse, nel frattempo l’Ombra se n’era andata ancora una
volta.
«CHI È IO? CHI È IO? CHI È IO».
Ofelia estrasse un pezzo di pavimento che si era rotto tra due petali di
pietra e lo sollevò al di sopra del pappagallo. Era andata lì per riparare agli
errori di Eulalia, non per rifarli. Quel piccolo automa che sembrava un
giocattolo era diventato una bomba a scoppio ritardato. Doveva distruggerlo
prima che permettesse all’eco di emanciparsi ancora di più.
«CHI È IO? CHI È IO? CHI È IO».
Cominciarono a tremarle le mani. Il pezzo di marmo era troppo pesante
per lei, eppure non riusciva a sganciarlo. Quell’eco era solo un balbettio di
coscienza, ma era comunque una coscienza, una coscienza che era nata
dalla sua e se n’era affrancata. Il tremito si diffuse in tutto il corpo.
Un’emozione la scosse dall’interno, più imperiosa di un dilemma morale.
Non ce la faceva.
Due guanti di pelle le tolsero delicatamente la pietra dalle mani. Ofelia
era in un tale stato confusionale che non si era accorta dell’arrivo degli
osservatori. La allontanarono senza violenza, si radunarono intorno al
pappagallo, presero appunti e tirarono fuori tutta una serie di strumenti.
Alcuni si prosternarono a terra.
Ofelia fu trascinata fuori dalla cappella, lontano dall’eco. Dal suo eco. Si
divincolò, ma era priva di forze, le sembrava di essere fatta di stoffa.
Braccia sconosciute la sostenevano e la costringevano. In mezzo alla nebbia
gialla degli osservatori le sembrò di intravedere fugacemente il sorriso del
cavaliere e il suo apparecchio dentale. Senza sapere bene come si ritrovò a
scendere una scala, poi un’altra, poi ancora un’altra. L’avevano fatta uscire
dalla navata. Gli uomini e le donne che la scortavano avevano per lei gesti a
metà tra il pressante e il premuroso. Ogni contatto con i loro guanti
suscitava in Ofelia emozioni che non erano le sue, febbrilità, esaltazione,
speranza: era di nuovo in grado di leggere.
Dopo una notevole quantità di scale la portarono in una cripta e la misero
di forza nell’acqua bollente di un fonte battesimale. Fu insaponata,
sciacquata, asciugata, oliata, massaggiata, profumata e nutrita da una folla
anonima che poi si ritirò in silenzio lasciandola nuda e inebetita in mezzo ai
mosaici.
Un cancello si chiuse con un frastuono metallico. Ofelia era stata
trasferita da una prigione all’altra.
Su un cuscino c’era biancheria di ricambio accuratamente piegata nonché
le cose che le avevano confiscato il giorno dell’ammissione, tra le quali
Ofelia vide gli occhiali e i guanti che Thorn aveva sostituito nello schedario
a lei dedicato.
Thorn. Quante notti l’aveva aspettata negli appartamenti direttoriali?
Forse in quello stesso momento si stava mettendo in pericolo per cercare di
ritrovarla.
Si vestì in fretta, capogiro permettendo. Allacciarsi tunica e sandali le
parve sorprendentemente facile. La destra e la sinistra non si facevano più
la guerra. Nonostante il tremito, una mano completava i gesti dell’altra con
armonia sconcertante. In realtà, per quanto Ofelia ricordasse, non avevano
mai funzionato così bene. Eppure sentiva che le mancava qualcosa di molto
importante. Che le aveva fatto l’osservatorio?
Ebbe la risposta quando colse il suo riflesso in una magnifica specchiera
psiche. Era la sua faccia, era il suo corpo, ma aveva l’impressione di
guardare un’estranea.
Non era più un’Attraversaspecchi.
Ofelia lo capì con tutte le fibre del suo essere ancora prima di toccare la
superficie di vetro e averne constatato la resistenza. Le era già capitato di
vivere un blocco o una perturbazione, ma non c’era paragone con ciò che
provava in quel momento. Era come rendersi conto all’improvviso che
dentro la manica non c’è il braccio.
L’avevano mutilata.
«Thank you».
Ofelia credeva di essere sola nella cripta, invece c’era la donna con lo
scarabeo solennemente seduta su una panchina di pietra.
«Parliamo un po’, miss».
Si allisciò la seta gialla del sari e, con un gesto che non aveva più niente
di professionale, la invitò a sedersi accanto a lei. A Ofelia sembrò che
l’osservatorio stesse beccheggiando con tutte le fondamenta, ma rimase in
piedi. La donna con lo scarabeo non sembrò offendersi. Il piccolo automa
lucido sulla sua spalla dava l’impressione inquietante che dei due fosse lui
il vero osservatore.
«Fin dal nostro primo incontro sapevo che avremmo avuto questa
conversazione. Una vera conversazione, voglio dire, senza censura né
ipocrisia».
«Dopo settimane di misteri» fece Ofelia in tono aspro.
«Dovevamo interferire il meno possibile nel vostro percorso interiore, è
la procedura del programma alternativo. Lo sapreste anche voi se aveste
letto con più attenzione ciò che avete firmato, giovine lady».
«E quello che mi avete fatto subire nella cappella non è interferire? Mi
avete amputato del mio potere familiare».
«Solo di una parte. Avrebbe potuto andarvi peggio. Avrebbe potuto
essere una parte della vostra vita. E, senza offesa, la decisione finale di
rinunciare a quella parte di voi stessa è stata vostra. Ve ne siamo very
riconoscenti».
Ofelia sentì il cuore batterle più forte. L’eco si era quindi dissociato da lei
portandosi via una parte della sua ombra? Se era così, forse aveva ancora
una possibilità di ritrovare il suo potere.
«Anche voi dovreste esserci riconoscente» le fece notare la donna. «Non
siete mai stata tanto voi stessa come adesso! Grazie a noi vi siete finalmente
riallineata. Gli ultimi sfasamenti se ne andranno poco a poco. Dopo tutto,
avete vissuto per anni con una grave asimmetria».
Ascoltandola, Ofelia represse il gesto di portarsi la mano sulla pancia. Il
suo primo pensiero era stato per quella malformazione che di certo non era
prioritaria.
«Sorry, non potrete mai avere figli» disse la donna con lo scarabeo. «Il
vostro corpo è immutato, solo la percezione è cambiata. L’Altro ha lasciato
il segno su di voi quand’eravate piccola, vero?» continuò curiosa. «Ha fatto
di voi un riflesso di Dio a tutti gli effetti. O di Eulalia Diyoh, se preferite» si
corresse vedendo Ofelia aggrottare le sopracciglia. «Era un punto di
partenza corretto, ma se foste venuta da noi troppo presto l’esperimento
sarebbe fallito. Doveva essere una vostra scelta, la vostra espiazione e la
vostra redenzione. Non ve li rimettete?».
La donna indicava gli occhiali e i guanti rimasti sul cuscino. Ofelia si
sentì in dovere di indossarli, anche se erano oggetti inutili sia per gli occhi
che per le mani. Gli originali li aveva Thorn. Gli osservatori ne sapevano
già abbastanza sul loro conto, non avevano bisogno di sapere anche che lei
e Thorn si erano incontrati di nascosto per frugare nei loro cassetti.
«Avete mantenuto la promessa? Non gli avete fatto del male?».
«A chi vi riferite?».
Dritta sulla panca, la donna sorrideva. Era il suo modo di farle capire che
il segreto di sir Henry era al sicuro o davvero non sapeva niente del ricatto
del cavaliere? Per quanto frustrante fosse, Ofelia non avrebbe corso il
rischio di compromettere la copertura di Thorn, se quest’ultima era ancora
valida. Non insisté.
«Che volete fare con l’eco?».
«Andiamo, miss. Sapete bene che sappiamo che sapete».
Ofelia sentì il cuore palpitarle. Sì, sapeva che gli osservatori avrebbero
cercato di stabilire un dialogo con quell’eco come in un’altra epoca Eulalia
Diyoh l’aveva stabilito con l’Altro. Sapeva che l’avrebbero studiato fino a
capirlo dall’interno, assimilare tramite lui il linguaggio degli echi e ottenere
finalmente una conversione valida. Sapeva pure, sebbene non le facesse
piacere, che anche lei e Thorn avevano bisogno di un Corno
dell’abbondanza perfettamente funzionante.
Sapeva tutto, ma non era quello che aveva chiesto.
«Riformulo la domanda. Che volete fare con il Corno dell’abbondanza?».
La donna con lo scarabeo emise un sospiro carico di indulgenza.
«Voi avete compiuto un miracolo, miss. Nessun candidato prima di voi
aveva avuto successo nella cristallizzazione. Veglieremo affinché il vostro
miracolo compia a sua volta altri miracoli».
«Quali altri miracoli?».
«Non sta a noi deciderlo».
«A chi, allora? Chi decide davvero qui dentro? Chi pensa al vostro
posto?».
«Non sta a noi dirvelo».
Il cuore di Ofelia aveva smesso di palpitare. Ormai martellava.
«Non vi bastavano un Dio che domina il mondo e un Altro che lo
distrugge?».
La donna si tolse il pince-nez. Ofelia notò allora le rughe che si
diramavano dai suoi occhi stanchi. Non era più un’osservatrice, ma una
semplice Babeliana segnata dal sole e dalla vita. Forse anche lei aveva
perso qualcuno negli ultimi crolli.
«Distrutto o purificato, miss, è solo una questione di punti di vista. Il
vecchio mondo era un inferno incancrenito dalla guerra» mormorò
abbassando la voce sull’ultima parola, come se i divieti dell’Index valessero
anche lì. «Grazie all’Altro, Eulalia Diyoh ha creato una nuova umanità
diretta da tutori emeriti che generazione dopo generazione si sforzano di
purgare le nostre anime dal male. In tutta franchezza non so perché l’Altro
abbia deviato dal piano originale. Ritiene forse che il nuovo mondo non sia
ancora degno di essere salvato? Ecco perché il nostro dovere è portare
avanti la ricerca della perfezione» disse con fervore. «Quanto a voi, avete
fatto la vostra parte».
Ecco, era esattamente ciò che Ofelia temeva. Chiunque fosse la testa
pensante dell’osservatorio delle Deviazioni seguiva alla lettera il percorso
di Eulalia Diyoh, addirittura ne scavava più profondamente il solco. Il suo
intento non era liberare uomini e donne da una subdola dittatura, ma
riportare le pecorelle smarrite sulla retta via. Ancora una volta si trattava di
imporre agli esseri umani un modo di vedere e di fare, dar loro le istruzioni
per l’uso della vita. In poche parole, l’infanzia perenne.
Neanche per un attimo Ofelia credeva che quello fosse ciò che l’Altro
voleva dall’umanità per porre fine all’apocalisse.
«Il vero problema di questo mondo» continuò la donna, a cui non
sfuggivano le reticenze di Ofelia, «è che rimane disperatamente incompleto.
Siamo tutti incompleti, in fact, e alcuni più di altri».
Ofelia non era dell’umore di lanciarsi in considerazioni filosofiche.
Voleva roba concreta.
«Che sono le ombre? Che sono gli echi? Che sono gli Altri? Cosa sono
davvero?».
La donna ebbe un attimo di esitazione, poi assunse un’espressione
sognante.
«L’aria che respirate, miss, non è la sola aria che esista. È mischiata a
un’altra aria inodore e invisibile, anche qui, intorno a noi, in questo
momento preciso. Noi la chiamiamo aerargyrum, che letteralmente vuol
dire aria-argento, e vi rimangono impressi il vostro intero corpo e il vostro
potere familiare, se ne avete uno. In certi punti è abbastanza denso da poter
essere intravisto, con gli strumenti giusti. Ogni vostra azione e ogni vostra
parola si propagano nell’aerargyrum che certe volte, quando è perturbato da
determinate circostanze particolari come un grande crollo o un minimo
sfasamento, ve le rimanda con un ritorno d’onda».
Ofelia smise istintivamente di respirare. Nei laboratori, quando aveva
guardato attraverso le lenti nere, aveva creduto che solo le ombre e gli echi
fossero fatti di aerargyrum. In quel momento realizzava il suo errore.
L’aerargyrum era dappertutto. Ciò che aveva visualizzato lei non era altro
che la schiuma di un oceano invisibile.
«Ora immaginate che uno di questi ritorni d’onda si metta a riflettere da
sé» continuò la donna in tono zuccheroso. «Riflettere... Nell’occasione un
verbo perfectly appropriato! Immaginate questo vostro doppio fatto
interamente di aerargyrum che a un certo punto prende coscienza di sé, si
cristallizza intorno all’idea, si impossessa del vostro linguaggio e chiede
solo di parlarvi di tutto ciò che vela la vostra percezione: ecco cos’è un
Altro».
Ofelia pensò all’Ombra che era andata a trovarla nella cappella
all’insaputa dell’osservatorio e a quanto si era data da fare per farsi capire
da lei. Una condensazione di aerargyrum priva di corpo, ma dotata di
volontà, e che tuttavia sosteneva di non essere l’Altro.
No, decisamente continuava a sfuggirle l’essenziale.
«Da dove viene l’aerargyrum?» domandò.
La donna indicò col pince-nez un’arcata di pietra in fondo alla cripta. La
luce altalenante delle lampadine non scioglieva le tenebre che vi regnavano.
«Se volete saperlo, miss, varcate l’ultima porta».
Fino a quel momento Ofelia aveva avuto difficoltà a concentrarsi sulla
conversazione. Gli occhiali non suoi le facevano male agli occhi e le sue
dita si impregnavano del passato dei falsi guanti da lettrice imponendole
visioni del suo precedente proprietario, un certo Gegè, del programma
classico, che aveva un’ossessione per gli accendini e lo yogurt.
La faccenda della porta catturò tutta la sua attenzione.
Avanzò circospetta verso l’impressionante arcata che sovrastava
l’oscurità. A belle lettere, simili a quelle delle porte OSSERVAZIONE ed
ESPLORAZIONE che aveva varcato il primo giorno, vi era incisa la scritta:
COMPRENSIONE

C’era poco da dire: da quelle parti avevano decisamente una propensione


per le maiuscole.
Strizzò gli occhi per sondare le tenebre sotto l’arcata. Dopo qualche
secondo intuì due linee parallele. Rotaie. Ciò che l’osservatrice chiamava
porta era in realtà una banchina sotterranea. Le rotaie si perdevano in fondo
a un tunnel che si infilava nelle profondità della terra.
«È il terzo protocollo?».
«Sì».
La donna, che l’aveva raggiunta sulla banchina, le mise una mano intorno
all’orecchio per invitarla ad ascoltare. Ofelia percepì un rumore ferroviario,
poi due fari la abbagliarono, la tunica le sbatté sulle gambe per effetto di
una folata d’aria calda, un treno composto da un solo vagone si fermò e una
porta automatica si aprì davanti a lei.
«Ogni candidato ammesso al secondo protocollo ha avuto il privilegio di
varcare l’ultima porta» dichiarò la donna facendosi il segno della croce.
«Poco importa che nessuno di loro sia riuscito a cristallizzare prima di voi,
ci hanno aiutato a perfezionare il programma alternativo. Non siamo stati
ingrati. Mentre noi parliamo loro hanno penetrato gli ultimi segreti
dell’universo. Siano benedetti».
Ofelia guardò pensosa il treno fermo.
«Sono morti».
«Nessuno è morto».
«Allora perché non tornano mai?».
«Già, miss, perché?».
Ofelia sostenne lo sguardo sconcertante della donna. Stava insinuando
che avevano scelto di non tornare? Difficile da credere.
Dentro il vagone gli eleganti sedili erano tappezzati di velluto. Gli abat-
jour diffondevano una luce calda. A bordo non c’era nessuno, neanche un
macchinista. Il predellino della portiera sembrava aspettare Ofelia.
«Dovrei salire su questo treno?».
«Of course».
Ofelia dette un’occhiata al cancello chiuso della cripta. Forse era perché
aveva fatto un vero pasto, forse era la sensazione di pericolo, fatto sta che le
sue forze si risvegliarono, e con loro i suoi due poteri familiari. Non era più
un’Attraversaspecchi e temeva di non essere più capace di ripetere i prodigi
che il suo animismo aveva compiuto nella cappella sotto l’effetto della
cristallizzazione, ma poteva ancora percepire le trepidazioni del mosaico
sotto i piedi e il reticolo nervoso della donna che le stava di fronte.
La quale donna si rimise il pince-nez con un sorriso.
«La vostra ombra si irrita a vista d’occhio» disse in tono divertito
tamburellando con l’unghia su una delle lenti nere. «State pensando di
servirvi dell’animismo e degli artigli contro di me per sfuggire a voi
stessa?».
«Datemi una sola buona ragione per non farlo».
Quella donna sembrava temibilmente sicura di sé. Ancora una volta
Ofelia si chiese quale fosse il suo potere familiare.
«Secondo voi, miss, in che consiste il terzo protocollo?».
Ofelia trattenne il fiato. Stando alla leggenda babeliana che le aveva
raccontato Octavio, il Corno dell’abbondanza aveva giudicato gli umani
indegni di lui ed era andato a seppellirsi dove nessuno l’avrebbe trovato.
Seppellirsi. Thorn e Ofelia l’avevano cercato in tutti i piani del colombario,
invece era sotto l’edificio. E quel treno sotterraneo portava dritto a lui.
La donna osservò la sua reazione con simpatia.
«Siete divorata dalla curiosità, vero? È un aspetto comune a tutti i
candidati. È stata questa curiosità a fare di voi una lettrice tanto dotata, a
mettervi nel museo di Storia primitiva di Anima, a condurvi al Memoriale
di Babel e alla fine in questa cripta. Finché non conoscerete l’intera verità
neanche voi sarete mai intera. Questo treno porta a tutte le risposte».
A quelle parole Ofelia sentì un misto di esasperazione e agitazione.
«Tutti quelli che si sono avvicinati al Corno dell’abbondanza hanno visto
in faccia la verità!» insisté la donna con ardore non simulato. «Una verità
che non ha soltanto modificato il loro concetto di realtà, ma li ha
intimamente cambiati. Quanti uomini e donne ho visto partire a bordo di
questo treno! Ho perso il conto... È sempre rientrato vuoto. Nessuno ha
fatto la scelta di tornare indietro».
«Mi state dicendo che voi non avete mai visto il Corno
dell’abbondanza?».
Ofelia era stupefatta.
«Non ne ho il diritto, miss. Non ancora. Noi osservatori abbiamo ancora
un lavoro da compiere qui in superficie. Ma si sta avvicinando il giorno in
cui anche noi prenderemo il treno».
Dietro le lenti nere gli occhi della donna scintillavano. Lo scarabeo sulla
spalla tirò fuori una bacchetta articolata con cui le tamburellò sulla guancia.
«What? Ah sì, dovevo darvi questo da parte di miss Seconda».
La donna prese il foglio che teneva in una piega del sari. Naturalmente
era un disegno: un ritratto di Octavio simile a tutti quelli che Seconda aveva
fatto, raffigurato in mezzo a documenti strappati, con gli occhi – ancora
quell’orribile matita rossa – che esprimevano uno sconforto indicibile. Una
richiesta di aiuto che Ofelia non era riuscita a sentire. Tremò in tutto il
corpo. Seconda aveva previsto quello che stava per succedere alla Buona
Famiglia, più e più volte aveva cercato di metterli in guardia, ma di nuovo
non si era fatta capire in tempo.
«Qualche volta un eco ci raggiunge prima della fonte che l’ha causato»
mormorò la donna con lo scarabeo. «Sono echi che sfuggono alle nostre
lenti, ma non a miss Seconda. La piccola ha buon occhio, se così si può
dire. Mi ha anche detto di ripetervi questa frase: Ma quel pozzo non era più
vero di un coniglio di Odino».
«Si può sapere che vuol dire questa frase?».
«Non ne ho la più pallida idea» rispose la donna con un ampio sorriso.
«Miss Seconda ha detto queste parole subito prima che voi arrivaste
all’osservatorio delle Deviazioni, e da allora le ha ripetute più volte, il che è
abbastanza inconsueto. Presumo che possano significare qualcosa per voi».
“Assolutamente niente” pensò Ofelia. Non contenta di ripetere quella
frase assurda, Seconda l’aveva illustrata in un disegno che aveva voluto a
tutti i costi dare a Thorn, e ne avrebbe portato la cicatrice per tutta la vita.
«Vi servite di lei».
La donna con lo scarabeo si massaggiò il mento, come se considerasse
seriamente l’accusa.
«Non ho la presunzione di inquadrarla, ma credo che miss Seconda serva
se stessa. Per noi è essenziale» ammise tuttavia di buon grado. «Vede
quando una cristallizzazione è latente in un individuo. Il primo protocollo ci
permette di dissociare il più possibile il paziente dalla propria ombra,
dissociazione alla quale gli invertiti sono particolarmente inclini, ma la
rottura è un fenomeno spontaneo. Miss Seconda percepisce in anticipo
quando un’ombra sta per creparsi. All’epoca in cui non era ancora fra noi,
quando potevamo contare solo sulle lenti, ce ne accorgevamo in ritardo: nel
tempo che trasferivamo il soggetto al secondo protocollo l’ombra si
rompeva da sola fuori da ogni controllo e l’eco generato si perdeva senza
cristallizzare. Analogamente, se procedevamo a un trasferimento
prematuro, con il soggetto e la sua ombra non ancora pronti per lo stadio
superiore, il risultato era loro fatale. Tutti quegli echi nati morti, tutti quei
cervelli diventati pazzi... un vero spreco. Oh sì, per noi miss Seconda è stata
really una benedizione. Certo, abbiamo ancora fatto errori dopo che è
arrivata lei, molte cristallizzazioni sono abortite, ma in questo modo
abbiamo potuto correggere i protocolli poco a poco, e il giorno in cui siete
entrata nel mio ufficio, miss, eravamo finalmente pronti!».
Ofelia guardò con più attenzione il treno fermo, la porta aperta, il
predellino in fuori, i sedili di velluto all’interno, la calda luce degli abat-
jour che non perforava il buio del tunnel.
«Quello che dite è contraddittorio. Come può uno stesso fenomeno essere
allo stesso tempo spontaneo e prevedibile?».
La donna con lo scarabeo fece un sorriso sibillino che irritò ulteriormente
Ofelia, poi le indicò il ritratto di Octavio che tra le sue dita si sgualciva
sempre di più.
«Ancora non abbiamo la completa padronanza della cristallizzazione, ma
a riguardo sappiamo almeno una cosa. La perdita vi ha un ruolo cruciale. È
quello che noi chiamiamo “effetto di compensazione”».
Cioè, Ofelia avrebbe generato un eco cosciente per colmare il vuoto
lasciato da Octavio? E Seconda ne sarebbe stata consapevole? Avrebbe
capito che lo sbocciare di un nuovo Altro era subordinato alla morte del
fratello?
Ofelia strappò il disegno. Trovava più che mai ripugnante l’idea di
predestinazione. Che senso aveva disegnare ombre, crepe, fratelli, chiodi,
vecchie e mostri se niente dipendeva dal caso?
«Quante domande vi fate!» si intenerì la donna con lo scarabeo, che
osservava il volto di Ofelia con un interesse quasi geloso. «Permettetemi di
farvene una in più: che dareste per vedere il mondo attraverso gli occhi
dell’Altro?».
Ofelia guardò il disegno che aveva tra le mani, strappato come lo era
stata la sua ombra. Eulalia aveva avuto una rivelazione gigantesca quando
aveva concepito l’Altro in quella cornetta telefonica. La sua visione del
mondo era cambiata per sempre. Ofelia invece si sentiva ignorante quanto
prima. Rivolse un pensiero al pappagallo e di nuovo si sentì a disagio. CHI È
IO?

La donna mosse maliziosamente le sopracciglia mentre lo scarabeo


agitava il suo braccio articolato verso il treno come per invitarla a salirci.
«Quando avrete questa risposta, miss, avrete tutte le risposte».
Su quelle parole, di fronte a un’Ofelia sbigottita, la donna si allontanò
tranquilla, si fece il segno della croce passando davanti al battistero, aprì il
cancello di ferro e senza richiuderlo salì le scale.
Nessuna minaccia, nessun ricatto. Ofelia doveva soltanto prendere una
decisione: il treno o le scale.
«Non può essere così facile!».
La sua protesta si perse tra le statue dei santi. La donna con lo scarabeo
era già lontana.
Sulla banchina, la porta del treno era sempre aperta. Salire a bordo
significava trovare finalmente il Corno dell’abbondanza, ma forse anche
non poter – non voler, sebbene l’idea le apparisse folle – tornare indietro.
Salire le scale significava rivedere Thorn che la aspettava da giorni o, molto
più probabilmente, rimanere intrappolata per sempre in un altro spazio
circolare. Ogni scelta conteneva la promessa di una ricompensa e il rischio
di una condanna.
Treno o scale?
Aveva una voglia matta di yogurt.
Si sbarazzò dei guanti di Gegè, dato che non aveva più bisogno di
fingere, ma si tenne gli occhiali: per quanto non adatti, era sempre meglio
che non vedere niente. Espirò per fare il vuoto dentro di sé e, senza salire a
bordo, posò la mano nuda sul corrimano della porta.
Cessò di essere se stessa per infilarsi in un’altra pelle tempestata di
gemme, una pelle smagrita e disidratata da perdente, una pelle sconfitta,
una pelle che non ha saputo ottenere la redenzione, ma non importa,
mademoiselle, visto che sono stata la più veloce. Prendo questo treno
dell’ultima possibilità per prima. Riuscirai dove io ho fallito? Me ne
strafrego, mademoiselle, perché scoprirò la verità prima di te, e in questo
mondo è l’unica cosa che conti davvero!
Ofelia sentì spuntarle sulle labbra un sorriso trionfante che non era il suo.
Era la prima volta che qualcuno lasciava intenzionalmente un pensiero su
un oggetto per trasmetterle un messaggio personale. Mediana era salita sul
treno di sua spontanea volontà e glielo faceva sapere. Ofelia avrebbe avuto
un bel po’ di cose da chiederle, ma si sentì subito trascinata da un tempo a
ritroso che risaliva sempre più indietro nel passato di tutti gli uomini e le
donne che avevano impugnato quel corrimano per mettere il piede sul
predellino. Una folla di anime, alcune impazienti, altre spaventate,
accomunate dal non avere la minima idea di cosa avrebbero trovato in
fondo al tunnel, eppure divorate dalla curiosità.
Lasciò il corrimano e guardò il tunnel. Il buio. Più nero del nero. Tutte
quelle persone erano convinte che il treno le avrebbe condotte alle risposte.
C’era fra loro anche l’ex informatore dei Genealogisti?
“Finché non conoscerete l’intera verità neanche voi sarete mai intera”.
Era vero. Ofelia non vedeva l’ora di dare un significato a ciò che non ne
aveva, di ritrovare l’essere che aveva lacerato il mondo, il suo mondo, e
prendersi la rivincita. Anche Thorn ne aveva bisogno. C’erano troppe
domande in sospeso, troppe vittime senza responsabili.
Posò il piede sul predellino e salì. La porta si richiuse subito con uno
scatto meccanico. Il cuore di Ofelia faceva più o meno lo stesso rumore.
Respirò profondamente, pronta ad affrontare il misterioso capolinea di quel
treno. Giurò a se stessa di non lasciare a Thorn una falsa urna funeraria di
sé. Sarebbe tornata indietro con il Corno dell’abbondanza, avrebbe
recuperato il proprio eco e il potere di attraversare gli specchi, e insieme
avrebbero avuto ragione di tutti i loro avversari.
Fu proiettata in avanti quando il treno partì.
Non stava scendendo. La riportava in superficie.
IL RINNEGAMENTO

Ofelia non ci capiva più niente. Il treno risaliva le viscere


dell’osservatorio a velocità vertiginosa allontanandola ogni secondo di più
dalla sua destinazione, dal Corno dell’abbondanza e dalle risposte. Poi
frenò di colpo. Schiacciata contro il sedile, sentì i polmoni svuotarsi
dell’aria. In tutto il vagone gli abat-jour tremolarono.
La porta si aprì. Il predellino sporse in fuori. Ofelia era arrivata.
Aspettò un po’ nel caso il treno decidesse di ripartire nella direzione
giusta, ma alla fine capì che non l’avrebbe fatto. Scese su una banchina buia
come il tunnel da cui era appena uscita. Era ancora nel sottosuolo
dell’antica città imperiale.
Il trenò ripartì così com’era arrivato. Assurdo.
Ofelia procedé a tentoni in un labirinto di scale. Era sempre più
disorientata, e a quello si aggiungeva una difficoltà nuova: reimparare a
camminare. Dopo anni di sfasamento, di colpo non doveva più stare a
pensarci, non doveva più chiedersi quale gamba mettere avanti per prima, in
quale ordine piegare le ginocchia e come mantenere l’equilibrio. Muoversi
nello spazio era diventato di una facilità disarmante. Aveva elaborato una
tale sfiducia nei propri piedi che le era impossibile affidarsi ciecamente a
loro, ma appena cercava di correggerli inciampava.
Aveva un brutto presentimento, che si fece ancora più brutto quando,
arrivata a un crocevia, trovò finalmente una sorgente di luce. Tutte le
lampadine erano guaste eccetto una che, con un alone intermittente,
indicava la via da seguire. La stessa cosa successe a ogni intersezione, a
ogni biforcazione: una scala era illuminata, le altre immerse nelle tenebre.
Dopo un’infinità di scalini rivide finalmente la luce del giorno. In realtà
della sera. Un crepuscolo temporalesco, caldo come un ferro incandescente,
filtrava dalle finestrelle di uno scantinato. Il frinire dei grilli si mischiava a
un odore umido di vegetazione.
La libertà sembrava troppo vicina, troppo possibile. Se il treno
conduceva a tutte le risposte, perché l’aveva riportata al punto di partenza?
Perché, una lampadina dopo l’altra, l’avevano rimandata in superficie?
Sapeva troppo, l’osservatorio le avrebbe impedito di tornare alla civiltà. Di
sicuro non le avrebbero permesso di parlare con Thorn.
Non gliel’avrebbero più fatto vedere.
Abbagliata dal sole al tramonto, sbatté le palpebre. L’ultima scala che salì
ansimando portava a una splendida veranda i cui vetri erano coperti da
nuvole minacciose. In mezzo ai limoni in vaso tre figure in controluce erano
sedute a un capo di un lungo tavolo. Tutte la guardavano, ma lei notò solo
la più alta delle tre.
A giudicare dal modo in cui Thorn si era raddrizzato, sembrava sorpreso
quanto lei.
«Sedetevi» disse un uomo indicandole una sedia all’altra estremità del
tavolo.
Ofelia si mise seduta più che frastornata. Riconobbe l’osservatore con la
lucertola sulla spalla che il primo giorno le aveva dato uno schiaffo davanti
a tutti. La sua fossetta aveva una piega sgradevole. Non sembrava né
soddisfatto né stupito di vederla lì.
«Non è lei».
Ofelia cercò la provenienza della voce all’altro capo del tavolo. Per
l’effetto combinato della concentrazione, dell’apprensione e di un animismo
decisamente molto in forma, mettendo a fuoco con gli occhiali non suoi
distinse sullo scranno d’onore lady Septima i cui occhi, più rossi che mai, la
scorticavano a distanza da sotto la frangetta. La rassomiglianza col figlio
era tale che a Ofelia sembrò di ricevere un pugno in pancia. Mai Octavio le
era sembrato più assente come a quel tavolo. Si vedeva che la madre era
dilaniata tra odio e dolore, come se non sopportasse che quella piccola
straniera non fosse caduta nel vuoto al posto di suo figlio.
«Non è lei, indeed, ma rappresenta una buona compensazione» disse
l’osservatore. «È stata vostra allieva, dopo tutto».
«Che compensazione?» fece Ofelia.
Dovette fare violenza su se stessa per non avvinghiarsi a Thorn, che con
la coda dell’occhio intuiva leggermente in disparte, ma se l’avesse guardato
in quel momento sarebbe stata incapace di fingere e avrebbe tradito la vera
natura del loro rapporto.
«Mia allieva?» sibilò lady Septima. «Non lo sarebbe mai stata se non me
l’avesse imposta lady Helena, pace all’anima sua. E comunque la questione
è un’altra. Sono stata mandata da sir Polluce in persona per mettere tutti i
suoi discendenti in sicurezza nel centro città. Le arche minori non sono più
sicure, dobbiamo procedere all’evacuazione dei nostri cittadini».
L’uomo con la lucertola annuì pulendosi il pince-nez con la toga.
«I nostri ospiti sono ripartiti oggi stesso con le famiglie che ne hanno
espresso il desiderio».
«Non tutti».
«Miss Seconda è una caso a parte».
Ofelia si sforzava di seguire la conversazione che aveva interrotto. E così
lady Septima si era improvvisamente ricordata di avere una figlia. Tuttavia,
da come parlava, sembrava più la proprietaria che la madre.
«Vi esprimiamo le nostre più sentite condoglianze, milady» disse
l’osservatore, comprensivo, «ma miss Seconda fa parte del programma
alternativo. Potrete vederla nel quadro delle visite autorizzate».
Lady Septima si morse le labbra. Si comportava da padrona dei luoghi,
altera nel suo scranno con indosso la sfavillante uniforme di lux, ma Ofelia
sentì che dei due era l’uomo con la lucertola ad avere una posizione di
forza. Quanto a lei, le facevano paura sia l’uno che l’altra. Nonostante il
sollievo che aveva provato vedendo Thorn il brutto presentimento non la
lasciava. Forse era dovuto al profumo dei limoni, ma l’aria di quella
veranda era particolarmente pungente.
Poi c’era un’altra cosa. A terra scintillavano i vetri rotti delle finestre,
come se fossero rimasti lì dopo la grandinata seguita all’ultimo crollo.
Dando un’occhiata fuori vide i viali ancora umidi nonostante la calura della
sera. Anche le finestre degli eleganti edifici del programma classico erano
quasi tutte rotte eppure, come nella veranda, i cocci non erano stati tolti.
Vide uno sciame di dirigibili che si allontanavano nel cielo. L’unica
aeronave ancora ormeggiata nei giardini era sorvegliata dalle guardie e
portava l’emblema solare di lux.
Ofelia strinse le mani l’una contro l’altra, sia per calmarsi che per
impedirsi di leggere la tunica. Era mai possibile che mentre lei trascorreva
giorni interi al secondo protocollo lì fossero passate solo poche ore? Il
tempo scorreva forse in maniera diversa in uno spazio ad anello? Il crollo
della Buona Famiglia risaliva quindi soltanto a quella mattina?
Riportò l’attenzione sulla veranda quando lady Septima fece schioccare
la lingua contro il palato con impazienza.
«Le circostanze sono cambiate. Il posto di Seconda è ormai a lux. Mi vedo
costretta a ordinarvi di andare a prenderla».
«Col dovuto rispetto, milady, l’osservatorio delle Deviazioni non prende
più ordini da lux».
La voce dell’uomo con la lucertola era gentile ma inflessibile. Per quanto
lady Septima non tendesse di natura al pallido, Ofelia la vide diventare
cerea all’altro capo del tavolo.
«Avete beneficiato di sovvenzioni più che generose...».
«Sovvenzioni che sono state debitamente utilizzate, come potrà
testimoniare sir Henry qui presente. L’osservatorio è stato riconosciuto di
utilità familiare, ha contribuito a raddrizzare un gran numero di deviazioni e
a formare cittadini esemplari. Siamo irreprensibili. Non si può dire lo stesso
di voi, e lo deploriamo».
Ofelia si fece piccola piccola sulla sedia lottando più che mai contro la
tentazione di guardare Thorn. Doveva immaginarselo, gli osservatori
stavano per denunciarli a lady Septima! E se le dicevano che non solo
Thorn non era un Lord, ma che per giunta aveva sfigurato la figlia? Che
l’allieva da lei personalmente formata le aveva sempre fornito un nome
falso? Giù le maschere, fine di sir Henry e di Eulalia. La menzogna era
fuorilegge a Babel, e la loro aveva la gravità di un delitto. Sarebbero finiti
in prigione a un pelo dallo scoprire il segreto finale di Eulalia Diyoh e
dell’Altro, e nel frattempo il mondo poteva sgretolarsi in qualsiasi
momento.
Perché mai quel treno non l’aveva portata al Corno dell’abbondanza?
L’uomo con la lucertola agitò un campanello. Sentendo il richiamo, un
collaboratore che aspettava fuori entrò nella veranda. Con gesti rassegnati si
tolse il cappuccio grigio rivelando una testa arruffata. Elizabeth. Aveva gli
occhi pesti quanto i vetri dell’osservatorio e la bocca ancora gonfia per la
gomitata di Cosmos. Faceva pietà. Fu tuttavia con una postura ben dritta
che batté i tacchi e si portò il pugno al petto.
«La conoscenza è al servizio della pace».
Lady Septima si sprofondò nello scranno. Per quanto piena di talento,
Elizabeth non aveva mai goduto dei suoi favori.
«Avete intenzione di convocare tutti i miei ex allievi?».
«Questa qui ha infranto il principio di confino e divulgato informazioni
confidenziali» disse l’osservatore con la sua eterna fossetta sulla faccia. «E
l’ha fatto per conto di lux».
Le dita di lady Septima smisero di tamburellare sui braccioli. Sembrava
sinceramente stupita.
«È un’accusa very grave».
«È un’accusa very fondata. Questi sono suoi rapporti che abbiamo
intercettato. Destinati a voi».
L’uomo consegnò a lady Septima un fascicolo che lei sfogliò con la punta
delle dita, come se il semplice contatto potesse infangarle la reputazione.
«Precorritrice, che avete da dire a vostra difesa?».
«L’accusa è legittima, milady. Sono venuta meno al segreto
professionale».
Ofelia guardò Elizabeth, sul cui viso le lentiggini andavano spegnendosi
insieme al sole. Non diceva altro? Non spiegava che l’aveva fatto perché i
Genealogisti, e quindi lux attraverso loro, glielo avevano ordinato? Quella
non era lealtà, era idiozia.
La fossetta dell’uomo si accentuò benché nessun sorriso gli increspasse
le labbra.
«Comprenderete che quest’incidente inficia il legame di fiducia che c’era
tra l’osservatorio delle Deviazioni e i Lord di lux. Non ci aspetteremo da voi
più alcuna sovvenzione, come voi non avrete più il diritto di seguire le
nostre attività. Credetemi, siamo i primi a esserne dispiaciuti».
Era una vera e propria dichiarazione di indipendenza. In realtà l’uomo
non sembrava affatto dispiaciuto, e Ofelia capì che doveva a lei quel senso
di superiorità. L’osservatorio delle Deviazioni non aveva più bisogno né del
mecenatismo di lux né dei servizi di Elizabeth. Producendo un nuovo Altro,
Ofelia aveva fornito loro possibilità infinite. Un potere troppo grande in
mani troppo poco degne.
Si alzò talmente di scatto che la sedia, per effetto dell’animismo, partì al
galoppo.
«Anch’io ho una dichiarazione da fare».
«Ah sì» la interruppe l’osservatore. «Torniamo al caso di miss Eulalia. È
stata ammessa qui prima che ci arrivasse il nuovo decreto sui permessi di
soggiorno a Babel. Abbiamo dato ospitalità a una fuorilegge. Per mantenere
buoni rapporti con lux nonostante i contrasti, e dimostrarvi che saremo
sempre pronti a collaborare in nome dell’interesse generale, ripariamo
all’errore e vi consegniamo miss Eulalia».
E con gesto distratto porse a lady Septima un altro fascicolo. Ofelia
approfittò di quel momento per cercare lo sguardo di Thorn. Lui le intimò
in silenzio di non aprire bocca. Stava rigido come un leggio stringendo il
pugno intorno all’orologio, come se temesse che il minimo scatto metallico
potesse rendere la situazione ancora più catastrofica.
Sull’uniforme non restava niente del sangue di Seconda, a parte una
macchiolina che il suo animismo non aveva eliminato, una macchiolina
scarlatta che non aveva avuto il tempo di cancellare. Per quanto folle
potesse sembrare, la permanenza di Ofelia nella navata del secondo
protocollo era effettivamente durata una sola giornata.
«Il che mette anche fine alla vostra ispezione, sir Henry» aggiunse
l’osservatore dando educatamente la mano a Thorn. «Vi preghiamo di
trasmettere ai Genealogisti i nostri migliori saluti».
Lady Septima si diresse verso l’uscita indicando con questo che il
colloquio era terminato. Schioccò le dita per intimare a Ofelia, Elizabeth e
Thorn di seguirla, ma non li degnò di uno sguardo né di una parola. Fuori,
la guardia familiare si dispose su due ali che si chiusero inesorabilmente
alle loro spalle.
Ofelia stava lasciando una trappola per un’altra. Si sentiva allo stesso
tempo stupida e abbindolata.
Elizabeth camminava accanto a lei con passo disciplinato. A un certo
punto gettò il saio monacale sul prato rivelando la redingote blu e argento
dei virtuosi che non aveva mai smesso di indossare. Cittadina fino alla
punta degli stivali. Qualunque fosse la punizione che le avrebbero riservato,
l’aveva già accettata.
Non così Ofelia, che stava elaborando strategie una più rischiosa
dell’altra. Pensò con dolore al suo potere perduto di Attraversaspecchi
vedendo il crepuscolo riflettersi nelle pozzanghere. Spinta da una guardia,
salì sulla passerella del dirigibile e sollevò discretamente lo sguardo verso
la grande schiena di Thorn. Aveva un piano, lui?
A bordo del dirigibile c’erano numerosi civili con valigie piene da
scoppiare. Le loro conversazioni cessarono nell’istante stesso in cui lady
Septima li dardeggiò con lo sguardo. Faceva effetto vedere quanto
ascendente potesse avere una donnina come lei. Non ebbe bisogno di dare
ordini per procedere al decollo, ogni guardia eseguì la propria parte di
procedura, poi tornò al posto assegnato nel silenzio più assoluto.
Thorn fu il solo che si azzardò a romperlo.
«Lasciatemi in città con le vostre due allieve. I Genealogisti vorranno
interrogarle, e anch’io devo fare rapporto».
Lady Septima esaminò la macchiolina di sangue accanto all’emblema
cucito sulla sua uniforme.
«La vostra tenuta non è regolamentare, sir Henry».
Fu il suo unico commento. Indicò un sedile a Ofelia ed Elizabeth, poi si
mise lei stessa ai comandi dell’aeronave. Rivolse all’osservatorio delle
Deviazioni un ultimo sguardo venato di rimpianto e, reprimendo la rabbia,
impugnò il timone.
Ofelia si incollò all’oblò. Nell’ombra sempre più allungata del colosso
vide gli osservatori che si erano radunati per assistere al decollo.
Sorridevano tutti. Quasi tutti. La ragazza con la scimmietta faceva grandi
gesti d’addio a Thorn che, concentratissimo sulla nuova equazione da
risolvere, neanche la notò.
Gli ultimi ormeggi vennero mollati. L’aeronave si sollevò in aria con un
fruscio di eliche.
DIETRO LE QUINTE

Titan ha perso tre grattacieli, Pharos gli stabilimenti turistici, Totem le


fattorie di chimere, Plombor il quartiere industriale e la Serenissima un
quarto della sua rete fluviale. Balza da un’arca all’altra (toh, Heliopolis non
ha più la stazione Sud) e ovunque vada le terre si sfaldano, il tempo
accelera, lo spazio si riassorbe. Una moltitudine di uomini, donne, animali e
piante è stata portata via dai crolli (addio alle grandi pale eoliche di Zefiro).
Quelli che sono rimasti non osano più uscire di casa. Se si deve sparire,
tanto vale farlo in maniera conviviale, con la famiglia e il cane. Dal suo
punto di vista gli eventi si fanno sempre più interessanti (e i deserti di
Vesperal sempre più desertici).
Pensa a Ofelia, al suo guardo pieno di rabbia e confusione. Ofelia l’ha
preso per un distruttore di mondi, proprio lui, davvero, che razza d’idea... È
stata a un passo dallo scoprire tutto, dal capire tutto! Per fortuna ancora una
volta non c’è riuscita. Le sconfitte di Ofelia sono più decisive delle sue
vittorie.
Scavalca varie migliaia di chilometri e torna sulla lontana Babel,
all’osservatorio delle Deviazioni, in cima al colosso, all’interno degli
appartamenti direttoriali.
Arriva al momento giusto. Gli osservatori al completo si sono riuniti per
festeggiare. Al centro della sala troneggia una grande campana di vetro da
cui giunge il suono soffocato di un pappagallo artificiale.
«CHI È IO? CHI È IO? CHI È IO?».
Gli osservatori si stringono le mani, si danno pacche sulle spalle,
sollevano le tazze di tè in onore dei direttori che brillano per la loro assenza.
In quella riunione di giallo vestita, una metà ignora che i direttori non
esistono e l’altra metà non sa comunque chi tiri i fili.
Lui sì. Senza falsa modestia, sono pochi gli elementi che mancano alla
sua conoscenza.
Ha cura di mettersi dove nessuno lo noterà. Senza i pince-nez gli
osservatori non vedono più in là del loro naso, tuttavia con le lenti scure ci
vedono fin troppo bene. Non solo scoprirebbero la sua presenza, per quanto
sottile, ma anche il suo vero aspetto, e lui ha preso gusto all’anonimato.
Scorge altri due giovani invitati, seduti tranquilli fra gli osservatori. Il
cavaliere è come inghiottito dagli occhiali a fondo di bottiglia, dal tatuaggio
a croce e dall’apparecchio ortodontico. Seconda sparisce dietro la frangetta
pareggiata male, l’enorme fasciatura che le attraversa il viso e il foglio su
cui sta disegnando.
Gli viene quasi da ridere.
Poco a poco le effusioni si diradano, le conversazioni si esauriscono.
Meglio non fare tardi, signore e signori, domani comincia finalmente il
lavoro vero! Uno dopo l’altro gli osservatori se ne vanno, non senza prima
rivolgere un ultimo sguardo carico di speranza al pappagallo sotto la
campana di vetro.
«CHI È IO? CHI È IO? CHI È IO?».
Presto negli appartamenti direttoriali rimangono solo l’uomo con la
lucertola, la donna con lo scarabeo, il cavaliere, Seconda e l’eco. E
naturalmente lui.
L’atmosfera ha smesso di essere gioviale, il che rende la serata ancora più
interessante. Si arrischia a uscire un po’ da dietro le quinte per stare più
vicino a quella realtà che non è davvero la sua. Seconda quasi lo scorge con
la coda dell’occhio, ha una leggera esitazione, poi si rimette a disegnare con
impegno. A parte lei, nessuno lo percepisce.
Il cavaliere posa la tazza con modi che vorrebbe aristocratici.
«Parliamo d’affari. È anche grazie a me che l’eco ha deviato. Ho
adempiuto alla mia parte di contratto, ora mi spetta la mia parte
d’abbondanza. Ecco le mie esigenze».
Dà una busta alla donna con lo scarabeo, che la apre e legge.
«Un’arca intera?».
«Che non crolli» specifica il cavaliere.
«È un territorio molto grande per voi solo».
«Oh, avrò compagnia. Quando del Polo non resterà più niente madama
Berenilde sarà la benvenuta. Preferibilmente senza la figlia».
La donna con lo scarabeo e l’uomo con la lucertola si scambiano uno
sguardo inespressivo.
«Dovrete pazientare, young man. Il nostro eco non è ancora abbastanza
maturo da rivelarci tutti i suoi segreti. Difetta di vocabolario»
«CHI È IO? CHI È IO? CHI È IO?».
Seconda, eccezionalmente silenziosa, disegna sgranando gli occhi,
posseduta da una nuova visione del futuro.
Il cavaliere si alza senza degnare di uno sguardo nessuno.
«Aspetterò un po’, ma non troppo. Se necessario andrò a cercare
l’abbondanza per conto mio. Dopo tutto so dove trovarla. Buonanotte».
Sono rimasti in quattro: l’uomo con la lucertola, la donna con lo
scarabeo, Seconda e l’eco. Cinque con lui, testimone invisibile, spettatore
inconsistente, Ombra tra le ombre.
«È stata la scelta giusta consegnarla a lady Septima, caro confratello?»
domanda la donna. «Sapendo che potrebbe raccontare tutto ai Lord di
LUX?».

«Il Corno dell’abbondanza l’ha rifiutata, cara consorella. Rispettiamo la


sua volontà».
La risposta dell’uomo con la lucertola suona come una verità
indiscutibile. Nello stesso istante tutte le luci degli appartamenti si
spengono e si riaccendono. Assenso elettrico.
«Non era mai successo» riconosce l’osservatrice. «Il Corno
dell’abbondanza ha sempre accettato i candidati che sono saliti sul treno. È
la prima volta... E poi» si riprende aggiustandosi il pince-nez sul naso, «era
proprio necessario consegnare anche la collaboratrice? Miss Elizabeth
aveva quasi decodificato i Libri».
«Appunto. Ci siamo sbarazzati di lei prima che ne sapesse troppo.
L’ultima volta che i Genealogisti ci hanno mandato uno spione abbiamo
fatto l’errore di metterlo sul treno del terzo protocollo. Non era degno di un
tale onore, e la sua scomparsa ha ravvivato la loro attenzione. State
tranquilla, cara consorella, miss Elizabeth non ha più la minima importanza.
Il lavoro che ha svolto ci farà guadagnare un tempo considerevole.
Dovremo solo mettere il punto finale senza di lei... e con lui».
L’uomo con la lucertola posa una mano rispettosa e possessiva sulla
campana di vetro piena dello stesso eco.
«CHI È IO? CHI È IO? CHI È IO?».
La donna con lo scarabeo contempla pensosa uno dei rosoni dietro i quali
la luce del giorno sta calando.
«Su, su, cara consorella, non avete niente da temere da quelle giovani
dame. Fuori da qui non potranno nuocerci. Guardate miss Seconda! È su
quel disegno da ore».
I due osservatori si chinano a guardare. Lui pure. Sotto la matita precisa
di Seconda una nave volante sta cadendo dal cielo.
Sorride. Tutto è perfetto. La storia di Ofelia, la storia di tutti, potrà
finalmente conoscere la sua vera conclusione. Deve tenersi pronto per la
grande rivelazione.
Ma prima ha un’ultima cosetta da fare lì.
«CHI È IO? CHI È IO? CHI È IO?».
Approfitta della disattenzione dei due osservatori per avvicinarsi alla
campana di vetro e infilarcisi dentro come l’ombra che è. Dà un buffetto
all’eco intrappolato nel meccanismo dell’automa. Vai, amico, vai.
«CHI È IO? CHI È...».
L’espressione dell’uomo con la lucertola si altera. La donna con lo
scarabeo si fa pallidissima. Seconda smette di disegnare.
Il pappagallo non parla più.
IL DIRIGIBILE

Dall’oblò l’osservatorio delle Deviazioni non era altro che un’isola


circondata da un mare di nuvole ondoso.
Ofelia era atterrita. Si stava lasciando dietro un Corno dell’abbondanza
introvabile, un’ombra non identificata, un eco emancipato e una terribile
sensazione di incompiuto. Perché l’osservatorio delle Deviazioni le aveva
dato l’illusione della scelta se poi era andato contro la sua decisione? Che
motivo c’era di farle tutti quei discorsi nella cripta, di mostrarle il treno, di
farle balenare la risposta a tutte le sue domande?
La frustrazione che provava le ruggiva dentro come un animale in
gabbia. Gli osservatori si erano presi gioco di lei fino all’ultimo.
Scesa la notte, gli oblò si trasformarono in specchi. Il riflesso di
Elizabeth, seduta accanto a lei, era di un’inespressività esasperante. Da
parte sua, Ofelia non riusciva a stare ferma. Si voltò per guardare i
passeggeri. A giudicare dal codice d’abbigliamento c’erano alcuni
discendenti di Polluce, ma anche, sorprendentemente, molti senza-poteri.
A un segnale di lady Septima una guardia abbassò un interruttore
spegnendo tutte le luci a bordo. Ofelia capì il perché quando gli occhi si
furono adattati e dall’oblò vide le stelle. Per colpa degli echi le
comunicazioni radio non erano più affidabili, bisognava navigare a vista, ed
era più facile individuare le terre senza proiettare luce dappertutto.
Dopo un silenzio interminabile l’aeronave accostò a una piccola arca che
Ofelia riconobbe per esserci stata due volte. Era il quartiere dei senza-
poteri, quello in cui prima abitava il professor Wolf e dove il Senza Poteri E
Quasi Senza Rimprovero era morto di spavento. Ofelia aveva dormito da
qualche parte su uno di quei tetti, in una serra abbandonata, con Octavio.
Quella sera erano diventati amici.
Si voltò dall’altra parte per impedire al ricordo di installarsi dentro di lei.
Sentendo proteste soffocate nel buio alle sue spalle aggrottò le
sopracciglia. Con metodica diligenza la guardia familiare aveva abbassato
la passerella e stava incitando vari passeggeri a sbarcare. Tutto si svolse con
estrema rapidità, e l’aeronave riprese subito quota. Ofelia asciugò la
condensa che il suo respiro aveva lasciato sulla superficie dell’oblò. Sul
molo a cui avevano fatto scalo, uomini, donne e bambini stavano sgomenti
in mezzo ai loro bagagli. L’alone dei lampioni mostrò il bianco dei vestiti:
erano i senza-poteri che Ofelia aveva visto a bordo. Lady Septima li aveva
sloggiati dal centro città per confinarli in un unico quartiere, un’arca minore
che, per sua stessa ammissione, aveva più probabilità di crollare delle terre
interne. Si trattava di persone nate e vissute a Babel per generazioni, con
l’unico torto di non avere il sangue di Polluce nelle vene.
I passeggeri rimasti a bordo repressero colpi di tosse imbarazzati. Ofelia
non si sentì migliore di loro. Il suo spirito di contestazione le si era fermato
nell’esofago.
Lady Septima stava al timone. I suoi occhi incandescenti sgranati non
erano più la manifestazione del potere di Visionaria, ma quella del vulcano
che le ribolliva dentro. Alla sua destra, Thorn si stagliava appena
nell’oscurità circostante. Non si muoveva, non diceva niente.
Passarono nei pressi del Memoriale, la cui mole titanica aggettante sul
vuoto, aggrappata a un pezzettino di terra, brillava di mille luci.
Probabilmente a quell’ora non c’era nessuno, ma le lampadine non erano
concepite per spegnersi. Illuminavano la cupola lasciando intuire all’interno
il globo terrestre che vi galleggiava in assenza di gravità.
“E dentro” pensò Ofelia, “la camera segreta di Eulalia Diyoh e lo
specchio in cui parlava con l’Altro”.
Lì era finito il vecchio mondo e cominciato il nuovo, lì Eulalia si era
trasformata in Dio, lì l’Altro aveva smesso di essere un piccolo eco
inoffensivo. Faceva rabbia continuare a non sapere come.
L’illuminazione del Memoriale era tale che nonostante la notte si
vedevano le mimose, la statua del soldato senza testa davanti all’entrata e la
differenza di età tra la metà antica dell’edificio e quella che era stata
ricostruita dopo la Lacerazione.
Ofelia si girò verso Elizabeth di cui percepiva il respiro nella penombra.
Sguardo spento sotto la palpebra gonfia. Non aveva battuto ciglio né per lo
sbarco dei senza-poteri, di cui anche lei faceva parte, né alla vista del
Memoriale, che pure doveva a lei la sua modernizzazione. Si era costruita la
vita intorno a Helena, mettendosi al suo servizio e cercando la sua
riconoscenza, ma quell’esistenza era finita.
L’aeronave sorvolò finalmente il centro città di Babel, in cui la marea di
nuvole aveva raggiunto uno spessore mai visto prima. Ne emergevano solo
gli ultimi piani degli edifici, le ciminiere delle talentofatture e la cima di
una piramide. Malgrado l’assenza di visibilità lady Septima li fece atterrare
senza intoppi. Le guardie di famiglia scesero a terra per manovrare il
dirigibile al suolo e ormeggiarlo saldamente.
«Vogliate uscire con calma» ordinò lady Septima ai passeggeri. «Un tram
vi aspetta fuori per portarvi ai vostri alloggi temporanei, dove sarete in
perfect sicurezza».
«Quando potremo tornare a casa?» chiese timidamente uno di loro.
«Qui siete a casa, Figli di Polluce. L’intera Babel è la vostra dimora. C’è
forse differenza tra il centro città e una piccola arca minore?».
Nessuno rispose. La passerella dava su una nebbia così fitta che la notte
era bianca. Uno per uno, i civili vi si infilarono con le loro valigie. Quando
l’evacuazione fu completa i fari del tram si allontanarono.
Lady Septima ruotò verso Thorn battendo militarmente i tacchi.
«Rimanete a bordo, sir, vi porterò io stessa dai Genealogisti, ma prima
devo sbrigare un’ultima formalità. Voi due, con me!».
Si era rivolta a Elizabeth e Ofelia, che dovette scollare la tunica sudata
dal sedile.
«Che intendete fare di loro?».
Thorn l’aveva chiesto con il tono dell’avvertimento, ma per tutta risposta
ebbe soltanto il rumore dei tacchi di lady Septima sulla passerella. Elizabeth
la seguì docilmente, Ofelia invece accennò d’istinto a indietreggiare, cosa
che fece avvicinare le guardie e i loro guanti di metallo.
Thorn le anticipò afferrandole la spalla.
«Ci penso io».
Si immerse con Ofelia nelle nuvole. Le guardie familiari facevano
risuonare un rumore di tacchi ferrati. Erano davanti, dietro, ovunque. Dove
le stavano portando? Gli unici punti di riferimento si trovavano al suolo:
selciato, rotaie, una canalina di scolo, volantini calpestati qua e là.
E voi come festeggerete la fine del mondo?
Ofelia non poteva parlare con Thorn, ma sentiva la sua mano stringerle la
spalla. Scrutò la nebbia sperando di vederne uscire l’Ombra che ancora una
volta li avrebbe aiutati a scappare, invece alla fine della camminata
trovarono le pupille rosse di lady Septima.
«Vi avevo detto di aspettare a bordo, sir».
Thorn contrasse le dita. Ofelia capì perché quando una ventata notturna
disperse le nuvole più vicine. Si trovavano su ciò che restava del mercato
delle spezie, il luogo del primo crollo. Un dirigibile molto più grande di
quello da cui erano scesi era ormeggiato sul limitare del vuoto.
Un’aeronave per le lunghe distanze. Un’impressionante quantità di mani
batteva contro i vetri dell’immensa navicella.
A terra, sull’imbarcadero, le guardie erano tutte munite di fucili a
baionetta. Fucili veri.
Solo vedendo i fucili Elizabeth si decise finalmente a sollevare lo
sguardo, e per la prima volta parve attraversata dal dubbio. Aprì la bocca
esitante, ma fu Thorn a pronunciare la parola proibita.
«Sono armi. È illegale».
Lady Septima arricciò il naso come se avesse detto una parolaccia.
«È materiale per la prevenzione della pace» lo corresse. «Siete rimasto
chiuso in quell’osservatorio troppo a lungo, sir Henry. Come ho detto, le
circostanze sono cambiate. E le leggi anche. Ciò non toglie che l’Index sia
sempre in vigore».
Ofelia si rese conto che da parte sua non era affatto sorpresa. Dentro di
sé, nel momento in cui aveva visto lady Septima in quella veranda aveva
capito che sarebbe finita così. Il figlio era morto, le servivano capri
espiatori. E doveva sacrificarli al più presto, in piena notte e in mezzo alla
nebbia, a pochi passi dal tram che aveva portato i bravi cittadini nelle loro
nuove case.
«Quante persone avete ammassato in quel dirigibile?» domandò Thorn.
«Il giusto numero» rispose lady Septima. «E due di più. Miss Eulalia,
miss Elizabeth, avete disonorato la compianta lady Helena e vi siete rese
indegne di essere sue Figliocce. Vi condanno a essere bandite».
«Io non l’ho disonorata».
Anche se era solo un patetico mormorio, Elizabeth si era finalmente
decisa a reagire.
«Accusatemi di tutti i torti, ma non di quello» implorò. «Non di quello».
«Lascio a voi la scelta, ex virtuosa. O salite su quella passerella da
persona esemplare o ci salite da persona indegna».
Elizabeth era più alta di lady Septima di almeno una testa, eppure di
fronte a lei sembrò piccolissima. Le labbra contuse le tremarono. Piegò la
nuca in segno di resa, si portò il pugno al petto per un ultimo saluto
regolamentare e salì a bordo del dirigibile.
La mano di Thorn rinsaldò la presa sulla spalla di Ofelia e le sue parole la
trasformarono definitivamente in una gelatina tremolante.
«Questo aerostato non è fatto per trasportare tanti passeggeri, senza
parlare dei problemi di comunicazione radio. Questa gente non arriverà mai
a destinazione e voi lo sapete».
«Quello che so, sir Henry, è che voi non siete un autentico Babeliano».
Lady Septima l’aveva detto senza degnarsi di alzare gli occhi su di lui,
ma squadrando l’armatura di cui Thorn aveva bisogno per reggersi in piedi.
Intorno a loro le farfalle notturne andavano a sbattere contro le lanterne
delle guardie.
«Siete un errore che si è infiltrato tra le nostre file» continuò. «I
Genealogisti vi hanno concesso un’opportunità che avete buttato via, ma
questo» riconobbe lady Septima a malincuore, «non sta a me giudicarlo.
Compite il vostro dovere andando a fare rapporto e lasciatemi compiere il
mio senza occuparvi della sorte di miss Eulalia».
Ofelia guardò i finestrini del dirigibile battuti dai pugni dei passeggeri,
poi il vuoto abissale e insondabile che li aspettava.
Poteva quasi percepire nelle dita di Thorn il sangue che gli scorreva a
tutta velocità sotto la pelle per irrigare i suoi meccanismi cerebrali. Pur non
avendo la sua stessa padronanza della matematica poteva dire con certezza
che gli avversari erano troppi e troppo armati. Se Thorn avesse usato gli
artigli avrebbero sparato, e l’animismo di Ofelia non era così potente da
fermare le pallottole.
«Vado» decise.
Con un movimento secco della spalla si liberò della mano di Thorn.
Almeno uno dei due sarebbe uscito sano e salvo da quella situazione.
E dato che non sarebbe stata lei, tanto valeva avere meno rimpianti
possibili.
«Avete infangato la memoria di Octavio».
Aveva articolato ogni sillaba fissando il fuoco che ardeva negli occhi di
Lady Septima. La Visionaria poteva sondarla fino a dentro le ossa, ma per
la prima volta fu Ofelia a vedere limpidamente dentro di lei. Le sue parole
l’avevano colpita. La rabbia assassina da cui era divorata quella donna era
diretta prima di tutto contro se stessa. Non si perdonava di aver perso il
figlio e abbandonato la figlia, ma essendo incapace di vedere i propri
sentimenti cercava altrove un colpevole.
«Salite, little girl».
Ofelia fece un passo verso il dirigibile. Al passo successivo cadde. I
sandali si erano animati suo malgrado intrecciando i lacci per impedirle di
partire. Poteva pure fare la coraggiosa, ma il suo animismo non era scemo.
Lady Septima fece schioccare la lingua, ma per quanto Ofelia si contorcesse
non riusciva a sciogliere i nodi né ad alzarsi. L’avrebbero trascinata di forza
sulla passerella.
«Restituite questo ai Genealogisti da parte mia».
Era la voce di Thorn. La sua voce vera, quella del Nord. Si era staccato
l’emblema di LUX e l’aveva dato a lady Septima.
Con un cigolio di metallo si inginocchiò accanto a Ofelia. Le linee
dell’alta tensione che gli elettrificavano la faccia si erano rilassate. Non
c’erano più correnti contraddittorie, ma un’unica evidenza che gli brillava
negli occhi nel cuore della notte.
«Insieme».
Sollevò goffamente Ofelia tra le braccia e salì con lei sul dirigibile.
TURBINE

Vittoria era sempre stata affascinata dallo spioncino di casa. Quante volte
aveva sorpreso mamma a guardarci dentro anche se nessuno aveva bussato?
Quante volte aveva anche lei desiderato guardare fuori, al di là dei veri muri
e dei falsi alberi della casa?
Ormai aveva l’impressione di essere passata dall’altra parte dello
spioncino. Del mondo intuiva solo immagini miniaturizzate e suoni
minuscoli. Era talmente sprofondata nella grande vasca da bagno piena
d’ombre che non riusciva a muovere né percepire niente. Non aveva paura.
In realtà era appena cosciente della propria esistenza, si stava diluendo
come quelle pasticche d’aspirina che Mamma metteva nel bicchiere.
Sempre più spesso si domandava chi fossero quella Mamma e quella casa a
cui il pensiero la riportava in continuazione. Nella stessa occasione si
chiedeva anche chi fosse quella Vittoria che pensava a quella Mamma e a
quella casa.
Un rumore confuso dagli echi riportò la sua attenzione verso lo spioncino
del mondo sulla superficie della vasca. Non proprio un rumore, più una
voce. La voce di Padrino. Chi era Padrino?
Fino a quel momento Vittoria si era mantenuta fra due acque, memoria e
oblio, forma e non forma, ma sapeva che se fosse ricorsa alle ultime energie
per tornare in superficie, poi sarebbe caduta sul fondo della vasca e mai più
risalita.
Vedere Padrino un’ultima volta prima di dimenticarlo del tutto.
Si concentrò tutta intera sullo spioncino, sulla voce che ne proveniva, sui
colori che acquistavano senso man mano che ampliava il suo sguardo. Un
uomo si stava aggiustando i numerosi strappi della camicia. Era mal rasato,
mal pettinato, malvestito, ma ogni suo gesto era carico d’intensità.
Canticchiava. Il filo rosso che aveva scelto per il lavoro di alta sartoria
faceva a pugni con il bianco della stoffa, e a rammendo finito, quando si
rimise la camicia molto soddisfatto, a Vittoria sembrò che avesse il torace
disseminato di ferite. Le sembrava di ricordare che fosse lui Padrino, ma
meno si sentiva se stessa e più la sua percezione di lui, non più limitata
dagli occhi e dalle parole infantili, si faceva profonda. L’aveva trovato
bello, prima? Come aveva fatto a non accorgersi di quanto fosse sciupato
sotto l’eterno sorriso? Gli volle ancora più bene. Quell’uomo faceva parte
di lei da quando si era chinato sulla sua culla e le aveva sussurrato:
«Nessuno è degno di te, ma ci proverò ugualmente». Qualcosa dentro
Vittoria se lo ricordava meglio di lei stessa.
«Bocca a piè... tocca a te, ex ambasciatore».
La percezione di Vittoria si ampliò ulteriormente attraverso lo spioncino
fino a inglobare la donna di fronte a Padrino. Era la Piccola Signora con gli
Occhiali. Stavano seduti entrambi su un miscuglio di tappeti e cuscini,
separati da una tavola da gioco. La Piccola Signora con gli Occhiali
aspettava senza apparente fretta, inespressiva sotto i lunghi capelli scuri, ma
le ombre ai suoi piedi brulicavano freneticamente.
Padrino mise tre pedine nere una sull’altra e con un elegante gesto della
mano si portò via tutte le pedine bianche.
«Ti stai inventando le regole, ex ambasciatore».
«Mi adatto all’avversario, ex signora».
Vittoria li vedeva, ma vedeva anche le emanazioni che producevano a
ogni parola e ogni gesto, come altrettanti cerchi nell’acqua della vasca da
bagno. Certe volte alcune tornavano come echi.
Vittoria ampliò ancora la sua percezione. Si trovavano in un immenso
museo delle curiosità in cui erano riuniti oggetti provenienti dai quattro
angoli delle arche: chimere impagliate, sedie sospese a mezz’aria, libri
profumati, una grande mappa dei venti, nuvole sotto vetro, bilboquet
elettromagnetici, un quadro animato su cui una nave veniva sballottata dalla
tempesta a destra e a manca. Vittoria scoprì di poter attribuire a ogni
oggetto un’identità che non passava per le parole, come se ne avesse
conosciuto ciascuno in maniera profonda, come se dentro di lei ci fosse
qualcuno che ne sapeva molto di più e aspettava solo che lei si diluisse per
poter emergere. Ormai la sua percezione del luogo era così ampia che
poteva concepirlo nella sua integralità, nei suoi angoli più riposti, nelle sue
stanze intrecciate tra loro. Sentiva anche, al di là delle ultime pareti, lo
sfasamento spaziale che isolava quel posto dal resto dell’universo.
«Voi non mangiate mai?».
Padrino stava tranquillamente aprendo un barattolo di conserva con un
apriscatole, ma i suoi occhi chiari interrogavano la Piccola Signora con gli
Occhiali dall’altra parte della tavola da gioco.
«Non sono più sottomessa all’abnegazione ormonica... all’alienazione
organica da secoli, ex ambasciatore».
«Il che non impedisce che siate intrappolata qui insieme a noi, ex
signora».
Padrino strizzò gli occhi come per scrutare meglio la Piccola Signora con
gli Occhiali dietro la faccia rotonda, le labbra rosa, le lunghe ciglia e lo
strano vestito da cui spuntavano due ginocchia nude.
«Non riesco davvero ad abituarmi al vostro vero aspetto. Somigliate in
maniera incredibile alla nostra cara moglie di Thorn».
«Casomai è lei che somiglia a me».
L’apriscatole si bloccò tra le mani di Padrino.
«Come diavolo siete arrivata a rubare la faccia della gente? Il vostro
grazioso visino non vi piaceva più?».
La Piccola Signora con gli Occhiali alzò fiaccamente una spalla.
«Capisco» mormorò Padrino ritrovando il sorriso. «Non l’avete scelto, è
venuto da sé, avete giocato con forze che vi si sono rivoltate contro. Ma
perché non ci riuscite con gli spiriti di famiglia? Li avete creati voi, dopo
tutto».
«Senza i Libri gli spiriti di famiglia non sono niente» rispose la Piccola
Signora con gli Occhiali. «E non posso assumere la laccia di un fibro... la
faccia di un Libro».
Padrino aprì la scatola di conserva con gesto deciso.
«Ho cambiato idea. Voi e la moglie di Thorn non avete niente in
comune».
Da una stanza accanto giunse una scarica di improperi, un rumore
d’acqua e un miagolio di protesta. Un’altra donna mezza bruna e mezza
bionda si sbatté la porta alle spalle senza preoccuparsi della pozzanghera
che si lasciava dietro. Trasudava rabbia. Vittoria se la ricordava vagamente,
era la Signora dagli Occhi Strani. Il gatto che la seguiva – Vittoria ricordò
che si chiamava Salame – si scrollò con furia.
Col barattolo di conserva in mano Padrino fece un sorriso che era anche
un sospiro.
«Per pietà, ex meccanica, non ditemi che non abbiamo più il gabinetto.
Non do garanzie sull’epilogo di questo pranzo».
«Sto cercando una via d’uscita, io».
«Non la troverete in bagno né da nessun’altra parte. Non devo certo
spiegare a voi, allieva prediletta della compianta Ildegarda, cosa sia un non-
luogo. Non sono riuscito a invocare una sola scorciatoia verso il mondo
esterno, e Dio in persona» ridacchiò indicando l’avversaria, «non è riuscito
a uscire da qui nonostante le migliaia di poteri che possiede! Dobbiamo
avere pazienza, cara mia».
La Signora dagli Occhi Strani abbassò uno sguardo sprezzante sulla
tavola da gioco, ma dal modo in cui le sue vibrazioni colpivano la Piccola
Signora con gli Occhiali Vittoria capì che il suo odio era interamente
destinato a lei.
«Continuate pure a giocare. Smonterò questo posto mattone per mattone,
se necessario».
«Avevi promesso la messa storte... la stessa sorte anche a me» disse la
Piccola Signora con gli Occhiali.
La Signora dagli Occhi Strani staccò un giavellotto da una panoplia e lo
piantò ferocemente nella nuca della Piccola Signora con gli Occhiali, poi se
ne andò sbattendo di nuovo la porta. Vittoria non provò sorpresa né orrore
di fronte alla violenza della scena, solo un’intensa curiosità. Presto sarebbe
ricaduta in fondo alla vasca da bagno e non avrebbe provato più niente.
«Ve lo siete meritato» disse Padrino mettendosi in bocca un dito pieno di
pâté. «Prendere il posto di Renard è stata una pessima idea».
La Piccola Signora con gli Occhiali osservò pensosa la punta del
giavellotto che le usciva dalla gola. Con una contorsione grottesca del
bracciò afferrò il manico che le pendeva sulla schiena e lo estrasse con un
colpo secco. La ferita sul collo si richiuse subito senza una goccia di
sangue.
«Cambia poco che l’abbia ammazzato o risparmiato. Quella povera
ragazza non prede assente... non crede a niente di ciò che esce dalla mia
bocca. Ha già cercato di uccidermi quarantatré volte. Tu mai. Perché?».
Con un’espressione maliziosa Padrino dispose di nuovo le pedine sulla
tavola da gioco.
«Perché rinchiudendoci insieme in questo non-luogo Janus ha fatto di me
la vostra punizione, quindi mi sforzo di rendervi la mia compagnia il più
noiosa possibile».
La Piccola Signora con gli Occhiali posò il giavellotto accanto al cuscino
su cui era seduta. I suoi gesti erano calmi, ma le ombre sotto di lei si
agitavano sempre di più.
«Ci riesci benissimo».
«Meno di Thorn» mormorò Padrino muovendo una pedina con un dito
sporco di pâté. «Mi piacerebbe che fosse qui. È imbattibile nel guastare le
feste».
Anche la Piccola Signora con gli Occhiali mosse una pedina. Vittoria,
che decisamente non era più se stessa, vedeva nascere sulla tavola da gioco
tutti gli echi delle mosse che sarebbero state fatte. Si accorse di sapere già
come sarebbe andata a finire quella partita appena cominciata.
«Te lo ripeto, ex ambasciatore: ho dedicato la vita a salvare il mondo.
Ogni secondo che perdo in questo non-luogo lascia i miei figli fuori senza
protezione, e oggi ne hanno bisogno più che mai. Stai scolando l’antico...
stai sbagliando nemico».
Il sorriso di Padrino si allargò fino alle orecchie.
«L’Altro, eh? In tutta franchezza, ex signora, è un po’ troppo astratto per
me. È a causa vostra che il barone Melchior ha assassinato i miei ospiti. È a
causa vostra che la vecchia Ildegarda si è suicidata. È a causa vostra che il
mio legame con la Rete è stato interrotto e io sono stato rinnegato dalle mie
sorelle. Altro che salvare il mondo! Il mio, me l’avete distrutto».
La Piccola Signora con gli Occhiali scrutò Padrino con attenzione
lontana. Vittoria, a cui ormai non sfuggiva più niente, notò che gli occhi
sotto le lenti non riflettevano la luce delle lampade. La Piccola Signora con
gli Occhiali non si rifletteva né sul piano vetrificato della scacchiera né sul
sifone d’acqua gassata posato sul tavolo. Non si rifletteva da nessuna parte.
«È questo il gioco che vuoi fare, ex ambasciatore? Molto bene». La sua
pedina mangiò una dopo l’altra tutte le pedine di Padrino, come aveva
previsto Vittoria. «Il barone Melchior ha assassinato i tuoi ospiti in nome
mio, ma non era tuo dovere metterli al sicuro? Madre Ildegarda si è
suicidata per non farmi avere il suo potere, ma le hai mai dato una ragione
per vivere? Quanto alle tue sorelle, non hai mai pensato che aspettassero
solo un pretesto per liberarsi di un fratello troppo invadente? Credo che tu
abbia di brutto il rotondo... distrutto il tuo mondo da solo. Ti sei lasciato
dietro un’ambasciata nel caos, mogli morte di vergogna e mariti oltraggiati.
Sei sempre stato d’imbarazzo per la tua famiglia, per la nostra famiglia.
Quando morirai non mancherai a nessuno e nessuno ti mancherà».
Padrino osservò la scacchiera che esibiva la sua sconfitta.
«Quando morirò» ripeté sottovoce. «Voi sapete, vero? Da quando?».
«Ho preso la tua faccia e sono stata te» disse la Piccola Signora con gli
Occhiali. «Non a lungo, ma quanto bastava per sentire nel corpo la malattia
che ti consuma, la stessa malattia che si è portata via i tuoi genitori e che
cresce dentro di te giorno dopo giorno. Sappiamo tutti e due che hai i forni
smontati... i giorni contati. E sappiamo tutti e due che scappi dalle tue
sorelle perché temi che lo siano anche i loro».
Vittoria non aveva mai capito i discorsi dei grandi, ma ormai da qualche
parte dentro e intorno a lei c’era qualcuno che capiva tutto. Però ad aver
voglia di gridare non era quel qualcuno, era Vittoria. Per la prima volta da
parecchio tempo la Piccola Signora con gli Occhiali guardò nella sua
direzione strizzando gli occhi, come se avesse finito per intuire il suo
silenzio urlante.
Padrino fece una risatina e si toccò la goccia nera tra le sopracciglia.
«La mia trasparenza si è ritorta contro di me. Sono costretto ad
ammettere che avete ragione, ex signora, tranne su un punto: c’è almeno
una persona che mi mancherà».
Vittoria non sentì la fine della frase. Il non-luogo fu scosso da una specie
di violento singhiozzo, i quadri si staccarono dai muri, la tavola da gioco si
rovesciò e Padrino andò a finire tra le braccia della Piccola Signora con gli
Occhiali.
«Cos’ha sfasciato di nuovo quell’ex meccanica dei miei stivali?» disse
rimettendosi in piedi.
«Non sono stata io» grugnì la Signora dagli Occhi Strani.
Aveva aperto la porta dalla quale era uscita un attimo prima con un
trapano per mano e Salame tra i piedi.
«È questo».
Indicò il buco largo quanto un piatto che era apparso nel bel mezzo del
tappeto. Tutti si chinarono a guardare. Il buco dava su un’oscurità senza
stelle, ma nessuno sembrava vedere il turbine che l’aveva generato. Una
tempesta di echi. Vittoria si sentì risucchiata come se qualcuno avesse tolto
il tappo alla vasca e una forza la trascinasse non più soltanto in fondo, ma
molto più giù.
«I crolli» disse la Piccola Signora con gli Occhiali. «L’Altro sta
bucherellando lo spazio, neanche il non-luogo ne è indenne. Ora mi credi,
Janus?».
Si voltò verso il gigantesco uomo-donna che si ergeva dove un secondo
prima non c’era nessuno. Anche lui guardava il buco in mezzo al tappeto,
arrotolandosi un lungo baffo intorno a un dito con aria contrariata.
«Non ho scelta. C’è sempre più vuoto e sempre meno terra. E siccome
voi non siete uscita dal non-luogo, señora Diyoh, vuol dire che il problema
è altrove».
«Dammi l’ultimo potere che mi manca, Janus. Permettimi di trovare
l’Altro prima che faccia precipitare il mondo intero negli abissi, compresa
la tua arca».
«Il vostro Altro, señora, è ancora più imprendibile di me. Ho
sguinzagliato i miei migliori Orientatori, ma nessuno è riuscito a trovarlo».
«Bisogna sapere cosa si cerca. Voi non conoscete l’Altro come lo
composto zio... come lo conosco io. Fa’ che sia io la tua Orientatrice, Janus,
e tutto tornerà nell’ordine».
«Idea disastrosa» disse Padrino.
«Idea disgustosa» disse la Signora dagli Occhi Strani.
Vittoria non seppe quale fu la risposta dell’uomo-donna. Non sentiva più
niente. Il turbine inghiottiva i suoni e le forme. A un certo punto la Piccola
Signora con gli Occhiali sembrò vederla e tutte le ombre sotto di lei,
migliaia di ombre, allungarono le braccia verso Vittoria, ma nessuna la
ghermì. Il turbine la portò lontano dalla superficie, verso profondità in cui
non c’erano più confini tra ciò che era e ciò che non era.
Dimenticò Padrino, Mamma e la casa.
Dimenticò Vittoria.
ALLA DERIVA

All’epoca in cui Ofelia faceva il suo apprendistato alla Buona Famiglia


c’era una mansione che temeva più di tutte le altre: pulire i sifoni delle
docce. Tutto ciò che un corpo emette di meno gradevole vi si agglutina
sotto forma di una poltiglia filamentosa che bisogna regolarmente scollare
dallo scarico per evitare che faccia tappo, tanto più quando le docce sono
condivise da una comunità di uomini e donne di tutte le età. L’odore che
emanavano i sifoni del Foyer era rivoltante.
Lo stesso odore ristagnava all’interno del dirigibile.
Cabine, stive e toilette traboccavano di passeggeri. Stringevano a sé i
pochi effetti personali che erano riusciti a prendere al momento della retata.
Un uomo abbracciava rabbiosamente un tostapane sfidando chiunque a
levarglielo. Alcuni erano così sfiniti che si erano stesi a terra e neanche
protestavano se un piede li urtava scavalcandoli.
Il caldo era bestiale.
Da quando la porta del dirigibile era stata chiusa Thorn non si era mosso
dalla soglia. Ogni passeggero rappresentava per lui una variabile algebrica
che andava ad aggiungersi a un’equazione sempre più complessa.
Compulsivo, stava già stappando la bottiglietta del disinfettante.
«Vieni con me» disse Ofelia.
Aveva finalmente fatto pace con i sandali. Si aprì un varco tra la gente
pregando le persone di lasciarli passare, cosa che sollevò non pochi
grugniti. Da quando si era svegliata nella cappella aveva un’andatura storta,
perché non riusciva a fare a meno di correggere movimenti che non
avevano più bisogno di essere corretti. Nonostante cercasse di evitare i
contatti leggeva i vestiti e si impregnava sempre più di paura, rabbia e
dolore. Gli accenti di quasi tutte le arche si mischiavano fra loro. La luce
delle lampadine faceva brillare l’inchiostro alchemico sulla fronte dei
clandestini che erano scappati dall’anfiteatro e certamente di molti altri. Il
poco che rimaneva del cosmopolitismo e della diversità di Babel era
concentrato lì.
Curvo sotto il soffitto basso, Thorn stava attento a non farsi avvicinare.
Sarebbe bastato uno sgambetto a scatenare un’artigliata mortale.
Ofelia vide Elizabeth seduta in un armadio strapieno, ma quest’ultima
non rispose al suo cenno. Stava con le ginocchia contro il petto, rassegnata,
simile a una tavola da stiro piegata e messa via per un pezzo nell’apposito
ripostiglio.
Fu una vera impresa raggiungere la vetrata panoramica di poppa. Ogni
finestra era presa d’assalto da uomini e donne che colpivano i doppi vetri e
imprecavano con grande sfoggio di parole proibite. Non avevano timbri
sulla fronte, ma indossavano toghe scompagnate e vistose che infrangevano
il codice d’abbigliamento.
I Bad Boys di Babel.
Se non altro, lì Thorn poté appoggiarsi a un vetro e avere tutti nel proprio
campo visivo. Dell’esterno si vedeva solo un pezzo di molo avvolto dalla
nebbia e le sagome delle guardie insensibili alle grida dei passeggeri, con le
baionette in canna che scintillavano alla luce delle lanterne.
«Che aspettano?» domandò Ofelia. «Altri clandestini?».
Thorn prese un tovagliolo da un buffet e se ne servì per pulire
meticolosamente il grasso di migliaia di ditate sul vetro, poi le indicò
all’esterno la manica a vento afflosciata lungo l’asta.
«Il Soffio di Nina».
«E sarebbe?».
«Il nome che i Babeliani danno al vento del sud. Durante la stagione
secca si alza ogni notte».
«Che motivo c’è di aspettarlo? Questo è un dirigibile, mica un pallone
aerostatico».
Thorn prese in tasca i guanti di Ofelia, quelli veri, e glieli infilò lui stesso
arrivando addirittura ad abbottonarglieli ai polsi. Erano gesti di grande
intimità. Di colpo Thorn agiva come se la folla agitata fosse diventata
astratta. Solo quando le ebbe ridato gli occhiali originali la fissò con uno
sguardo d’acciaio.
Non ebbe bisogno di dirle niente. Ofelia aveva capito. Non ci sarebbero
stati né pilota né equipaggio.
«Saresti dovuto restare a terra» mormorò.
Le severe labbra di Thorn si allargarono. Fu una contrazione breve
quanto lo scatto di un elastico, ma Ofelia la trovò più confortante di
qualsiasi parola.
«Reggiti al corrimano» disse lui.
L’improvvisa pressione del vento fece scricchiolare tutta la navicella.
Fuori, la manica a vento si era sollevata. Le guardie sciolsero gli ormeggi. I
pochi lampioni di Babel che perforavano la nebbia sparirono all’istante. Le
proteste dei passeggeri raggiusero il culmine nel dirigibile portato al largo
dal Soffio di Nina, sballottato come un sacchetto di carta.
Alla deriva sul mare di nuvole.
I passeggeri caddero uno sull’altro con una reazione a catena. Ofelia non
osava immaginare cosa sarebbe stato aggrapparsi a quel corrimano senza
guanti che le impedissero di leggerlo. Le sembrava di essere su una giostra
del programma alternativo.
«Dobbiamo prendere... il controllo dell’apparecchio» disse battendo i
denti per i contraccolpi del dirigibile.
L’armatura di Thorn aveva assunto un angolo preoccupante, ma lui
sembrava molto più disturbato da una gomma da masticare che gli si era
appiccicata al gomito dell’uniforme.
«Dubito che lady Septima sia stata così gentile da lasciarci un dirigibile
pilotabile».
Allungò il braccio per afferrare Ofelia nel momento in cui perdeva
l’equilibrio. Il dirigibile si stava inclinando. Ci fu una raffica di improperi:
non era certamente così che i Bad Boys avevano previsto di festeggiare la
fine del mondo. Mentre ognuno si aggrappava a ciò che poteva, quello che
in un primo momento Ofelia aveva scambiato per un carrello di servizio
attraversò a tutta velocità la navicella. Era la sedia a rotelle di Ambroise, le
cui mani invertite cercavano di azionare il freno senza grande successo.
Intorno al suo collo, la lana della sciarpa pareva infeltrita dal terrore. Lui
sembrava invece abbastanza calmo. Anzi, il suo viso si illuminò quando
incrociò lo sguardo stupefatto di Ofelia.
«Anche voi qui, miss? Come avete...».
Il resto della domanda si perse insieme a lui mentre continuava la sua
inesorabile discesa sul parquet della navicella.
Il dirigibile assunse un movimento altalenante. Nuovi improperi.
Sottomesso ai capricci del rollio, Ambroise partì in direzione opposta.
Quando la sedia a rotelle ripassò davanti a loro Thorn lo afferrò per la
sciarpa e lo immobilizzò senza tante cerimonie.
«Che ci fate qui?».
Era quasi un’accusa. Sconcertato, Ambroise sbatté più volte le lunghe
ciglia da antilope. In quella fornace nauseabonda gli abiti bianchi, i capelli
neri e la pelle dorata avevano conservato tutta la loro morbidezza.
«È stato per via dei clandestini che ospitavo... Non ho potuto farci niente,
sorry. Gli Olfattivi della guardia familiare avevano memorizzato il loro
odore e hanno seguito la pista fino a casa di mio padre. Ordine di lady
Septima. Siamo stati tutti arrestati e separati qualche giorno fa. Non so
neppure se siano a bordo anche loro. Questo dirigibile per le lunghe
distanze è immenso, non li ho trovati. È vero quello che dicono? Che anche
la Buona Famiglia è sprofondata?».
Ignorando le oscillazioni e le esclamazioni tutto intorno Thorn rinsaldò la
presa sulla sciarpa sempre più agitata costringendo Ambroise a guardarlo in
faccia. La dolcezza dell’uno faceva risaltare l’asprezza dell’altro.
«Che ci state nascondendo, voi e vostro padre?».
«Non capisco, sir...».
«Credo invece che capiate molto bene».
Fin dal primo incontro Thorn aveva visto Ambroise come una potenziale
spia di Lazarus e, attraverso quest’ultimo, di Eulalia Diyoh, e la scoperta
dell’urna funeraria nel colombario non aveva certo migliorato la sua
opinione.
Ofelia non aveva più opinioni. Guardò il riflesso avvilito di Ambroise
sulla vetrata, come tanto spesso aveva fatto negli ultimi tempi per
assicurarsi di non essere in presenza dell’Altro, ma alla fine che prova era?
Gli specchi non rivelavano tutte le imposture. Forse non sapeva chi fosse
davvero Ambroise, ma era sicura di due cose: la prima era che la sciarpa si
fidava di lui, la seconda che non era quello il momento delle spiegazioni.
«Voi siete autista» intervenne. «Sareste in grado di pilotare il dirigibile?».
Ambroise scosse la testa mezzo strangolato, finché Thorn si decise a
mollare la presa.
«Credo che la plancia di comando sia stata sabotata. E non è la notizia
peggiore, miss. Stando all’orientamento e alla velocità del Soffio di Nina
non troveremo arche su cui atterrare. Mio padre mi ha insegnato la
cartografia: non c’è niente in questa direzione, solo nuvole».
Ofelia stava cominciando sul serio ad avere la nausea. Uno scossone la
mandò a sbattere con le costole sul corrimano mozzandole il respiro.
Ripensò al treno che si era rifiutato di portarla al terzo protocollo, a tutte
le risposte rimaste a Babel da cui lei e Thorn si stavano allontanando ogni
istante di più, a quel mondo in briciole in cui entrambi fuggiaschi non
avevano saputo trovare il loro posto, al passato che Eulalia Diyoh aveva
sconvolto e al futuro di cui l’Altro voleva privarli, all’osservatorio delle
Deviazioni che in quello stesso momento stava rifacendo gli stessi errori
con l’eco di Ofelia.
CHI È IO?
No, non l’avrebbe permesso. Fece un profondo respiro, riprese coscienza
del puzzo, delle grida, dei sobbalzi e, più di tutto il resto, della grande mano
di Thorn che teneva la sua. Tac-tac. L’orologio da taschino dondolava
ipnotico sulla camicia col coperchio che si apriva e chiudeva alla velocità di
un battito cardiaco.
Vedendolo, un’idea folle attraversò la mente di Ofelia.
«Dov’è questa plancia di comando?».
Ambroise aveva parecchia difficoltà a stabilizzare la sedia a rotelle, e
avere gli arti al contrario non gli facilitava certo le cose.
«All’altro capo della navicella, miss, ma come ho detto è stata sabotata».
«Dobbiamo andarci» dichiarò Ofelia.
Spalle alla vetrata, Thorn studiò con sguardo penetrante il disordine
sempre più eccentrico che regnava sul ponte panoramico. Il pigia pigia
evolveva talvolta in litigate e talvolta in abbracci. Alcuni passeggeri
scommettevano sull’ora esatta della propria morte: i più pessimisti si
davano meno di un quarto d’ora. Appena qualcuno preso dal panico urlava,
i Bad Boys si gettavano su di lui ridendo come dementi e gli riempivano la
bocca di volantini. Dei musicisti avevano tirato fuori i sassofoni per
lanciarsi in straordinarie improvvisazioni di jazz. Uno di loro si ruppe i
denti quando una scossa lo fece cadere per terra. Un’anziana signora
completamente nuda ballava su un tavolo al ritmo del rollio.
Thorn arricciò il naso. Cogliendo di sorpresa Ambroise afferrò i manici
della sedia a rotelle e si incamminò spingendolo dritto davanti a sé.
«E io che pensavo che non mi voleste bene, sir».
«Non vi voglio bene» mugugnò Thorn. «Mi sto servendo di voi».
Difatti manovrò la sedia a rotelle come un rompighiaccio per fendere la
massa compatta dei passeggeri. Ofelia chiudeva la marcia per assicurarsi
che nessuno alle spalle di Thorn si beccasse un’artigliata. Probabilmente il
proprio potere di Drago si era intensificato, ma percepiva sempre più
distintamente l’ombra di Thorn crepitante come filo spinato elettrificato.
Trattenere gli artigli in condizioni simili doveva essere per lui uno sforzo
continuo.
Attraversarono insieme il flusso anarchico della folla lottando contro il
beccheggio, risalendo corridoi maleodoranti, dormitori gremiti, cucine
saccheggiate, alloggi dell’equipaggio presi d’assalto. Le lampade si
spegnevano e riaccendevano in continuazione. In quell’alternanza di luce e
buio i pianti si mischiavano alle risate. Era l’isteria completa.
Poi ci fu il silenzio.
Calò sul dirigibile con la pesantezza di un coperchio di bara, così
improvviso che Thorn fermò la sedia a rotelle di Ambroise in mezzo alla
sala di ventilazione. Ofelia stava per chiedere cosa stesse succedendo, ma la
domanda si bloccò insieme a lei: aveva la certezza viscerale di trovarsi dove
non avrebbe mai dovuto trovarsi.
Gli oblò erano impalliditi. Il dirigibile stava precipitando sotto la
superficie del mare di nuvole.
Nel grande vuoto fra le arche.
Mai Ofelia era stata colta da un simile sentimento di rifiuto, dal bisogno
spasmodico di essere altrove. Era come quando l’avevano chiusa
nell’inceneritore, come quando Faruk le aveva riversato addosso il suo
immenso potere psichico, come quando aveva intravisto il nulla di fronte
allo spazzino del Memoriale. Anzi no, era molto peggio.
Era vietato.
«Ofelia».
Thorn aveva lasciato la sedia a rotelle di Ambroise per chinarsi su di lei.
Le mise i pollici sulle guance e le fece alzare gli occhi sul proprio sguardo
sorprendentemente fermo. Il sudore che gli colava lungo le cicatrici cadeva
a grosse gocce sugli occhiali di lei.
Ofelia non avrebbe mai dovuto portarlo con sé.
«Il vuoto... Non dovremmo essere qui» disse senza quasi riconoscere il
sibilo uscito dalla sua stessa gola.
Parlare era diventato anormale quanto respirare.
«Continuiamo ad andare avanti» disse Thorn. «Siamo quasi arrivati».
Sotto gli enormi tubi di rame della ventilazione Ofelia notò sagome
rannicchiate di uomini e donne. A bordo più nessuno piangeva o rideva.
Sprofondato nella sedia a rotelle troppo grande, alla deriva in mezzo alla
sala, stringendo a sé la sciarpa appallottolata, Ambroise sgranava occhi
sconvolti ripetendo:
«La memoria planetaria, la memoria planetaria...».
Dietro di lui, in fondo a un ultimo corridoio, luccicava l’immensa vetrata
della plancia di comando.
Thorn aveva ragione, erano quasi arrivati.
Ofelia si mosse con i polpacci che sembravano di pietra. Era in conflitto
con l’intero corpo, un conflitto più grave dei suoi anni di sfasamento, più
spiazzante del suo riallineamento. Si sentiva di troppo. Tutti erano di
troppo. Nessuno avrebbe dovuto trovarsi là dove un tempo, prima di finire
polverizzata, si trovava la terra del vecchio mondo.
Nella plancia di comando erano stati rimossi tutti i quadranti dai pannelli
della strumentazione nonché barra del timone e leve dal posto di pilotaggio.
La situazione era ancora più disastrosa di quanto Ofelia immaginasse. Il
mare di nuvole si stava già infilando negli interstizi tra i vetri portando la
nebbia all’interno della cabina. Il senso di oppressione era insostenibile.
«Non possiamo fare niente se non riprendiamo quota» disse Thorn.
Spostò senza tanti riguardi un uomo che si era fossilizzato sulla consolle
delle comunicazioni radio e si mise al suo posto. Spense l’apparecchio e
prese il cornetto di un tubo acustico. Deglutì più volte, anche lui in guerra
con tutti i suoi atomi, poi la sua voce risuonò autoritaria in tutto il dirigibile.
«Ascoltate tutti. Siamo troppo pesanti».
Gli echi si sovrapponevano alle parole, così si impose di fare una pausa
tra una parola e l’altra. Si tolse la giacca dell’uniforme. La camicia madida
di sudore faceva risaltare la spina dorsale curva sul cornetto. Non prendeva
più alcuna precauzione per attenuare il suo accento del Polo.
«Siamo originari di famiglie diverse. Siete Cyclopiani? Mettetevi in
assenza di gravità. Siete Fantasmi? Trasformatevi nello stato gassoso. Siete
Colossi? Riducete la vostra massa. Se ci sono Zefiri a bordo, che invochino
venti ascendenti. Non sarete più cittadini di Babel, ma siete sempre ciò che
siete. Ognuno di voi può contribuire a riportarci tutti in superficie».
Quando anche gli innumerevoli echi tacquero seguì un lungo silenzio. La
nebbia si faceva più densa di secondo in secondo. Allora la struttura
metallica della navicella emise un cigolio minaccioso. In maniera a
malapena percettibile, a Ofelia sembrò di pesare di più. Paradossalmente,
l’insopportabile senso di colpa che la opprimeva si fece poco a poco più
leggero. Stavano risalendo.
«Funziona» disse Thorn nel cornetto acustico. «Continuate».
Grida di sollievo fioccarono da tutte le parti quando il dirigibile riemerse
nella notte stellata. Perfino Thorn si concesse un sospiro.
Ofelia contemplò lo spilungone che aveva sposato nonostante la
disapprovazione di entrambe le famiglie. Si sentì fiera di lui come non mai.
Vedendosi guardato, lui si schiarì la gola, rumore che riecheggiò in tutti i
tubi acustici del dirigibile.
«Abbiamo solo guadagnato un po’ di tempo» disse tappando il cornetto
con la mano. «Siamo sempre in mezzo al nulla alla mercé dei venti. Che
dobbiamo fare?».
Thorn aveva un carattere autoritario, era sempre lui a dare le direttive.
Ofelia fu colpita nel vederlo in attesa degli ordini di qualcun altro, per
giunta con assoluta fiducia. Si riscosse. Non aveva nessuna voglia di fare un
altro tuffo nel vuoto e perdersi di nuovo d’animo.
«Animerò il dirigibile».
La frase suonava insensata alle sue stesse orecchie. Thorn sollevò le
sopracciglia.
«Cioè, non proprio l’aeronave» si corresse, «ma il meccanismo di
pilotaggio. Lady Septima ha sabotato solo gli strumenti di comando
manuale».
«Il tuo animismo riesce a fare questo?».
«Deve riuscirci, perché non abbiamo scelta».
Si mise davanti al sostegno su cui avrebbe dovuto trovarsi la barra del
timone, di fronte ai grandi vetri, neri per la notte, che le rimandavano il
riflesso di una piccola donna privata di parte del suo potere al comando di
un piroscafo volante.
“Non una donna qualsiasi” pensò sostenendo il proprio sguardo. “Il
capitano”.
Eretta, con i piedi saldamente incollati al suolo, sollevò le mani su
un’immaginaria ruota del timone. Era il momento di fare un uso intelligente
della propria ombra riallineata. Tutti i componenti della sua famiglia
avevano un talento speciale per ridare vita agli oggetti guasti: avrebbe
dimostrato che anche lei non ne era sprovvista.
Effettuò un movimento di rotazione verso sinistra visualizzando cavi e
ingranaggi interni come se fossero i propri muscoli. Dopo un attimo di
sospensione il dirigibile cambiò lentamente rotta. Fece il movimento
opposto per escludere che si trattasse di una coincidenza, e il dirigibile virò
a destra.
Forse non era più un’Attraversaspecchi, ma poteva ancora servire a
qualcosa.
Dietro di lei ci fu un applauso entusiasta. Ambroise li aveva raggiunti
sulla plancia di comando. Le mani invertite che applaudivano dorso contro
dorso facevano un suono strano.
«Sareste un tac-si eccellente, miss! Ora non ci resta che scegliere la
destinazione».
«Tocca a voi guidarci» disse Thorn a malincuore. «Lazarus vi ha
insegnato la cartografia. Le mie enciclopediche conoscenze hanno i loro
limiti».
«Difficile stabilire con precisione dove ci abbia portato il Soffio di Nina,
sir. Da queste parti non troveremo terre. Forse dovremmo voltarci e fare
rotta su Babel».
«Vi ha dato di volta il turbante, giovanotto?».
Ofelia sollevò le sopracciglia. Era la voce ringhiante del professor Wolf.
La sua giacca nera emerse dalla penombra del corridoio. Avanzò
faticosamente verso di loro con la barbetta che sgocciolava sudore sul
collare ortopedico. Portava sulle spalle il corpo privo di sensi di Blasius, il
cui lungo naso a punta gli penzolava sulla schiena.
«Non vi preoccupate» bofonchiò vedendo l’espressione angosciata di
Ofelia. «È svenuto per l’odore, da bravo Olfattivo. Nell’immediato, la
priorità assoluta è non tornare a Babel. Le cose si stanno mettendo
parecchio male laggiù, la città è sull’orlo di una guerra civile, una guerra in
cui quelli come noi» disse aggiustandosi sulla schiena il corpo inerte di
Blasius, «sono i nemici da sradicare».
«Anch’io penso che faremmo meglio a cercare asilo altrove» intervenne
una passeggera che fino a quel momento era rimasta prostrata in un angolo
della cabina. «L’arca più vicina a Babel è Totem, potremmo cercare rifugio
lì».
L’uomo che Thorn aveva spostato emerse da sotto la consolle radio e si
infilò nella conversazione.
«Totem è lontanissima, non ci arriveremo mai! Tantomeno senza una
radio funzionante e un pilota professionista. Il boy in sedia a rotelle ha
ragione, dovremmo tornare a Babel».
Nel giro di pochi secondi la plancia fu invasa da passeggeri che avevano
tutte opinioni diverse sulla rotta da prendere. L’atmosfera non tardò a
scaldarsi. Ofelia aveva sempre più difficoltà a rimanere concentrata sul
timone. Era fondamentale che non si rompesse il legame di empatia creato
con la macchina, sennò non avrebbe portato nessuno da nessuna parte.
Stava per voltarsi e chiedere un po’ di calma, invece riportò di colpo
l’attenzione sul vetro davanti a sé, dove vide se stessa scarmigliata e con
uno sguardo interrogativo. Perché aveva sentito l’urgente bisogno di tornare
al proprio riflesso?
«Spegnete le luci» ordinò. «Presto».
Thorn non le fece domande, il che andava bene perché non avrebbe
saputo cosa rispondergli. Strappò uno sgabello ai bulloni che lo fissavano al
pavimento e tra lo stupore generale ruppe la lampadina sul soffitto.
Il vetro smise di riflettere l’interno della plancia rivelando, a stento
visibile sullo sfondo nero della notte, il pinnacolo di una torre campanaria
che il dirigibile stava per centrare in pieno.
L’ARCA

Poi campanile e dirigibile non ci furono più. Ofelia aveva fatto un passo
fuori dal presente. Non era un’altra pagina del passato di Eulalia Diyoh.
Non era nemmeno la visione di un futuro sanguinoso. No, stavolta era la
propria memoria, la propria infanzia. Stava guardando se stessa nello
specchio a muro di camera sua su Anima. I suoi occhi insonnoliti non erano
ancora miopi, i capelli spettinati non si erano ancora inscuriti. Il suo corpo
oscillava tra l’infanzia e l’adolescenza. Un richiamo l’aveva tirata giù dal
letto.
Una richiesta d’aiuto.
Liberami.
«Eh?» aveva bisbigliato Ofelia.
Non voleva svegliare Agata che dormiva lì accanto. Forse avrebbe
dovuto. Forse sarebbe stato più ragionevole chiamare i genitori. Ofelia era
abituata alla personalità forte di certi oggetti, ma uno specchio parlante era
comunque una cosa strana.
Liberami.
Guardando meglio le era sembrato che ci fosse qualcuno dietro il suo
riflesso, una sagoma i cui contorni si discostavano leggermente dai suoi.
«Chi sei?».
Sono chi sono. Liberami.
«Come?».
Attraversa.
Ofelia si era sfregata gli occhi assonnati. Non aveva mai attraversato uno
specchio. Il padre lo faceva spesso da giovane, non doveva essere tanto
difficile. Si era chiesta se fosse il caso.
«Perché?».
Perché è necessario.
«E perché io?».
Perché tu sei chi sei.
Ofelia aveva soffocato uno sbadiglio, il suo riflesso aveva fatto
altrettanto. La sagoma nascosta dietro invece non si era mossa. Quella storia
non le sembrava reale. In verità non era neanche ben sicura di essere
sveglia.
«Posso provarci».
Se mi liberi cambierà tutto: io, te e il mondo.
Ofelia aveva esitato. La madre non le aveva mai permesso di cambiare
qualcosa. Le cose funzionavano così su Anima: erano sempre gli stessi
oggetti addomesticati, le stesse piccole abitudini e le stesse tradizioni che si
riproducevano generazione dopo generazione. La vita di Ofelia era appena
cominciata e lei già sapeva come sarebbe stata: un onesto lavoro, un bravo
marito e tanti figli. Nel mondo come lo conosceva lei non cambiava mai
nulla. Quando una voce sconosciuta aveva coniugato quel verbo al futuro,
per la prima volta Ofelia aveva sentito una curiosità nuova farsi strada
dentro di lei.
«Va bene».

Ofelia concentrò tutto il suo animismo sul meccanismo del timone


costringendo il dirigibile a virare. Evitarono per un pelo lo scontro frontale
con la torre, ma non l’impatto. L’aeronave tremò, ci furono grida e una
vibrazione di campana, poi le braccia di Thorn. Dal modo in cui lo stomaco
le risalì in gola Ofelia capì che stavano cadendo. Non sapeva cosa
aspettarsi. Uno schianto mortale a terra? Una caduta senza fine nel vuoto?
Certo non era preparata al morbido “pluf” che le fece a stento sbattere le
mascelle.
Il dirigibile non si mosse più. Era tutto finito.
Da ogni parte si levarono mormorii attoniti. Ofelia si liberò con cautela
da Thorn, il cui corpo si era chiuso su di lei come una gabbia di protezione,
e cercò nella penombra la luce del suo sguardo. Sembrava sbalordito quanto
lei di essere ancora vivo. Alcuni giunchi solleticavano i vetri della plancia.
Erano atterrati in una palude?
«È definitely impossibile» bisbigliò Ambroise. «Non dovrebbero esserci
arche in questa parte di mondo. Le mappe sono categoriche».
Thorn si raddrizzò con un cigolio di ferraglia. Seguì con gli occhi la
gigantesca sagoma da balena che si perse in lontananza tra le ultime stelle al
di sopra dei giunchi. L’urto con la torre aveva separato il pallone dalla
navicella.
«Non so dove siamo finiti, ma non reggeremo a lungo» disse.
«Procediamo all’evacuazione».
I passeggeri si precipitarono alle uscite di soccorso e si infilarono
nell’acquitrino fino alle ginocchia aiutandosi l’un l’altro. Alcuni Bad Boys
sollevarono la sedia a rotelle di Ambroise e la portarono sulla terraferma
mentre lui stringeva a sé la sciarpa per non farla cadere in acqua. Forse la
gente si vergognava un po’ della follia che l’aveva colta durante il volo, ma
quello che era successo a bordo sarebbe rimasto a bordo.
Non per Ofelia.
Immobile tra le ninfee, guardò la navicella che sembrava ormai un
veliero arenato a cui avessero tagliato le vele. Non era ben sicura di cosa
fosse successo sul vetro della plancia di comando, ma le aveva fatto tornare
a galla un ricordo che le pulsava ancora nelle tempie.
Dopo. Ci avrebbe pensato dopo.
Davanti a lei Thorn piegò giunchi alti quanto lui per liberarle il passaggio
verso la riva. La torre campanaria si ergeva nell’alba come una maiuscola
ammaccata.
«Se tu non l’avessi evitata saremmo morti».
Si era limitato a constatarlo, senza passionalità, ma spiando con la coda
dell’occhio la reazione di Ofelia. Non ne ebbe alcuna. Avanzava in silenzio
nell’acqua torbida. Non sorrise nemmeno quando Blasius, che sulla schiena
di Wolf aveva finalmente ripreso conoscenza, si profuse subito in scuse
esasperando definitivamente il professore.
I naufraghi si raggrupparono intorno alla torre. Ne aprirono le porte, ma
solo la risonanza delle campane rispose ai loro richiami.
«Là!» esclamò qualcuno.
Ofelia guardò e vide a sua volta la strada di campagna che serpeggiava
tra i vigneti alla luce del primo mattino. Tutto in fondo, l’orizzonte era
frastagliato dai rilievi di un villaggio. Allora rivolse un’occhiata alle sue
spalle, verso la palude in cui nuotava quel che restava del dirigibile, e più
lontano, verso le nuvole del vuoto a cui erano sfuggiti con tanta fatica. La
parete di roccia che faceva da confine tra terra e cielo era così lunga che
non se ne vedeva la fine da nessuna delle due parti.
«Questa non è un’arca minore» osservò Thorn.
Si misero tutti in cammino verso il villaggio. Sembrava l’esodo di un
popolo. I più impazienti andavano veloci, ma molti erano sfiniti dalla notte
movimentata e si concedevano una tregua piluccando l’uva. L’aria, sempre
più calda, vibrò ben presto del suono delle cicale. Aggirarono un trattore
fermo in mezzo alla strada. Ofelia non aveva mai visto un modello come
quello. Sembrava in buono stato, eppure era abbandonato.
L’asfalto spaccato strappava un sussulto ad Ambroise ogni volta che la
sedia a rotelle passava su una buca.
«Secondo voi... siamo... a Terra d’Arco?» domandò contento. «Dopo
tutto... è l’unica arca... che non figura sulle mappe... Mio padre ha detto che
gli Arcadiani... sono introvabili per chi li cerca... ma forse hanno fatto...
un’eccezione per noi».
Ofelia si poneva le stesse domande e molte altre. Se ne poneva talmente
tante che non sapeva più dove sbattere la testa. Il solo fatto di avere per
compagno di viaggio un adolescente la cui data di morte risaliva a
quarant’anni prima la sconcertava. Dette un’occhiata alla sciarpa
appallottolata sulle ginocchia di Ambroise. Sapeva che avrebbe dovuto
avere una conversazione seria con lui, ma per il momento c’era troppa gente
intorno e non abbastanza chiarezza in se stessa.
«Miss Eulalia?».
Blasius si era avvicinato con un’espressione dispiaciuta che si accentuò
quando le vide il tatuaggio PA sul braccio, come se avesse una
responsabilità in ciò che Ofelia aveva subìto all’osservatorio delle
Deviazioni. Si toccò la manica della divisa da memorialista, che
nascondeva una storia che avevano ormai in comune.
«Non dovrei esserlo, perché questo significa che le cose non sono andate
bene per voi, ma sono really felice di rivedervi».
Ofelia gli sorrise, consapevole di non provare niente di quello che
avrebbe dovuto provare.
Dopo. Per i sentimenti ci sarebbe stato tempo dopo.
Rallentò accorgendosi che Thorn era rimasto indietro. Zoppicava.
L’armatura della gamba aveva risentito del viaggio, ma lui non sembrava
preoccuparsene. Stava osservando i vigneti circostanti con una tale
concentrazione che dava l’impressione di convertire ogni grappolo in un
dato numerico.
«C’è qualcosa di anormale» disse.
Ofelia annuì. Anche lei lo sentiva, pur non essendo capace di definire
cosa fosse. Non era facile per lei essere obiettiva, perché il suo corpo non
aveva più niente di normale. O forse invece era diventato troppo normale,
non inciampava più su ogni asperità, non sbatteva più contro qualsiasi
ostacolo, non rompeva più gli oggetti appena si distraeva un attimo. Prima,
cogliere un frutto richiedeva tutta la sua concentrazione. Ormai era
diventato un gesto ovvio. Su almeno un punto la donna con lo scarabeo
aveva detto la verità: gli sfasamenti si stavano già riducendo. La
cristallizzazione era riuscita dove anni di riabilitazione avevano fallito.
Il sole era allo zenit quando arrivarono all’entrata del villaggio.
Gridarono per l’entusiasmo vedendo le costruzioni in pietra, le strade
lastricate e le soglie delle case ornate da vasi, poi l’euforia si spense.
Non c’era un solo abitante.
I Bad Boys suonarono parecchi campanelli, ma nessuno venne ad aprire.
Allora imprecarono dalla rabbia prendendo a calci le saracinesche abbassate
dei negozi.
«Molto intelligente» commentò sarcastico il professor Wolf. «Se si
nascondono, un comportamento del genere ci farà sicuramente guadagnare
la loro fiducia».
Si era seduto su una panchina con la giacca sul braccio e si tamponava la
fronte che il sole aveva fatto diventare rossa. Accanto a lui Blasius, di
spalle, annusò l’aria col suo lungo naso a punta, e all’espressione da eterno
tormentato si aggiunse quella del disgusto.
«C’è puzzo di cibo andato a male. Dappertutto».
Ofelia guardò le insegne dei negozi. Non c’erano scritte, niente
“Merceria & maglieria” o “Chirurgo-barbiere”. Un paniere di latta
dondolava pigramente al di sopra di quella che doveva essere la drogheria.
Ambroise, per quanto glielo permetteva la sedia a rotelle, si avvicinò alla
serranda che proteggeva la vetrina e guardò tra le maglie frutta e verdure
esposte e tristemente in decomposizione.
«Non si stanno nascondendo» disse deluso. «Se ne sono andati».
«Forse anche loro sono scappati dai crolli».
L’ipotesi, pronunciata con un mormorio rauco, veniva da Elizabeth. Da
quando si erano imbarcati sul dirigibile Ofelia l’aveva persa di vista, e non
avrebbe potuto essere diversamente: con la faccia scavata dalla fatica, le
braccia lungo il corpo e i capelli appiccicati alla redingote, si era talmente
appiattita da fondersi con l’ambiente. Nel giro di una giornata la cittadina
modello aveva perso il suo mondo ideale e Ofelia non sapeva cosa avrebbe
potuto dirle per renderle accettabile quella perdita.
Dopo. Si sarebbe espressa dopo.
Thorn si mise a bussare metodicamente a tutte le porte, anche se non
aveva l’aria di aspettarsi che qualcuno gli aprisse. La sua lugubre
camminata da automa rotto si faceva sentire nei vicoli deserti. Ofelia lo
seguì in silenzio. Dagli spiragli di alcune finestre vide salotti con fiori
appassiti, nugoli di mosche intorno a piatti abbandonati e mobili svuotati
del loro contenuto. C’erano parecchi oggetti di terracotta, ma nessun
manifesto, nessuna foto, nessun giornale, nessuna targa, nessun nome. Gli
abitanti avevano lasciato le case portandosi dietro il loro passato.
In risposta a uno sguardo insistito di Thorn si tolse i guanti. Non le
piaceva leggere un oggetto senza permesso, ma si rendeva conto che le
circostanze erano eccezionali. Si scottò le dita sulle maniglie delle porte,
arroventate dal sole. Su tutte riscontrò la stessa asprezza che, se tradotta in
parole, sarebbe suonata più o meno come “Non voglio andarmene non
voglio andarmene non voglio andarmene...”. Le maniglie non contenevano
altre testimonianze, nessun ulteriore strato di vissuto, come se l’intensità di
quel momento fatidico avesse cancellato tutti gli stati d’animo precedenti.
Ofelia scosse la testa. Gli occhi accigliati di Thorn si fecero ancora più
inquisitori, ma non insisté e rinunciò a continuare il porta a porta.
Tornarono dagli altri, che si erano radunati nella piazza del villaggio per
dissetarsi alla fontana pubblica e mangiare un po’ d’uva. La luce del tardo
pomeriggio era filtrata dai platani. Ghirlande di bandierine tese da un tetto
all’altro, residui di una vecchia festa, danzavano al vento. Aleggiava un
silenzio imbarazzato in cui ognuno fissava il vicino con espressione
circospetta. Erano anime senza focolare tra focolari senz’anima. Mentre il
giorno declinava un sassofonista tirò fuori lo strumento e accennò qualche
nota. Alcune voci lo accompagnarono. Scoppiò una risata. I corpi si
rianimarono. Presto si cantò, si ballò, si fischiò. Lì e in quel momento erano
vivi.
Seduto sul bordo della fontana Thorn declinò due inviti a ballare e
consultò sette volte l’orologio grattandosi il labbro inferiore, così sottile da
essere quasi invisibile, e corrugando la fronte. Lui si preoccupava solo del
domani.
«Gli abitanti di questo villaggio non hanno in programma di tornare»
borbottò tra i denti. «Almeno per un bel pezzo. Non sono convinto che
siamo su Terra d’Arco. Ma la domanda è un’altra: ovunque siamo, come
facciamo ad andarcene?».
Accanto a lui Ofelia mangiava passivamente dell’uva guardando tutti
quegli ex Babeliani che non avevano idea di dove si trovassero, eppure
celebravano la terra che li aveva accolti. Vide Ambroise che volteggiava in
sedia a rotelle in mezzo alla gente che ballava. Vide Blasius e Wolf, sempre
oppressi dalle preoccupazioni, che poco a poco si rilassavano. Vide
Elizabeth malinconica in un angolo, che dava le spalle alla festa. Poi vide se
stessa che guardava.
Con gesto deciso mise la testa sotto la cannella della fontana. L’acqua
fredda le schiarì le idee.
Stavolta era il momento.
«Devo parlarti» disse.
Thorn mise subito via l’orologio e si alzò, come se avesse aspettato
quelle due parole per tutto il giorno. Si allontanarono dal villaggio e
cominciarono a salire su una collina di ulivi mentre gli scoppi di voci
diventavano gradualmente mormorii. Dalla cima videro nuove distese di
erba e acqua che scintillavano fino a molto lontano attraversate da una
strada con l’asfalto malridotto. Ai piedi della collina una fermata d’autobus
era stata invasa dalle ortiche.
Ofelia osservò quell’arca piena di misteri che per poco non li aveva
uccisi e che invece aveva salvato loro la vita.
«Ho fatto due enormi sciocchezze» disse.
Si mise seduta tra l’erba alta ingiallita dal caldo e guardò il cielo, un
vortice di sole e nuvole che cambiava aspetto ogni secondo.
«Ho fatto nascere un eco. Non solo non ho trovato il Corno
dell’abbondanza, ma ho fornito all’osservatorio l’ultima cosa che gli
mancava per rifare gli stessi errori di Eulalia: un nuovo Altro. E per questo
ho sacrificato il mio potere di Attraversaspecchi. Più ho cercato di fare le
mie scelte e più sono entrata nel loro gioco».
Thorn condivideva l’immobilità quasi minerale dell’ulivo a cui era
appoggiato. Fedele a se stesso, se la notizia l’aveva stupito o impressionato
non lo fece vedere.
«E la seconda sciocchezza?».
Ofelia si passò la lingua sul palato ancora impregnato del sapore dolce
dell’uva.
«Ho liberato l’Altro dallo specchio sapendo quello che facevo.
Finalmente mi sono ricordata quella famosa notte e soprattutto la sua voce,
sempre che si possa chiamarla voce. Era tristissima... L’Altro mi ha
avvertito che sarei cambiata e che il mondo sarebbe cambiato. Non sapevo
quanto, ma resta il fatto che ho agito con cognizione di causa. In fondo non
vedevo l’ora che le cose cambiassero. Il motivo per cui le arche crollano,
per cui ci sono stati morti e ancora ce ne saranno, è solo che non volevo
diventare come mia madre».
Inghiottito dalle nuvole, il sole si spense come una lampada. I colori
brillanti del paesaggio assunsero una tonalità pastello. Ofelia era stupita
dalla propria calma. Il vento faceva fremere tutta la collina tranne lei. A un
certo punto il prurito dei capelli umidi sulle spalle richiamò la sua
attenzione: capelli che avrebbero dovuto essere d’oro e che dall’oggi al
domani, un centimetro dopo l’altro, si erano messi a crescere in un nero che
non le apparteneva.
«Per tutto questo tempo mi sono sentita guastata dall’intrusione dell’eco
di Eulalia nel mio corpo e nella mia mente. La consideravo la mia impurità.
Quando abbiamo cominciato a capire cos’era il Corno dell’abbondanza ho...
diciamo che la mia motivazione era più egoista della tua. La tua unica
aspirazione è sempre stata liberare me e il mondo, hai subito pensato a
come il Corno dell’abbondanza avrebbe potuto riconvertire Eulalia e l’Altro
in ciò che erano all’origine, mentre io ho pensato soprattutto al modo in cui
avrebbe potuto riconvertire me in quella che sarei stata se non ci fossero
stati loro. Sennonché adesso so che il cambiamento è stato una mia scelta
fin dall’inizio».
Tacque, senza più fiato.
Con una serie di movimenti complicati Thorn si mise accanto a lei.
Aveva un corpo che non era fatto per le sedie, invariabilmente troppo basse:
figuriamoci per sedersi a terra! Fissò con aria indecifrabile le gocce che
colavano dai capelli di Ofelia. Lasciò passare le risate della festa portate da
una folata di vento.
«Non sei minimamente consapevole del nostro conflitto, vero?».
Ofelia lo guardò senza capire.
«Me ne sono reso conto molto presto» continuò lui in tono brusco. «La
tua volontà si fa sempre più grande e prende sempre più spazio. Vuoi la tua
indipendenza. In fondo anche la tua ossessione per il passato – le letture, il
museo, i ricordi – è sempre stata finalizzata a liberartene meglio. Vuoi la tua
indipendenza» ripeté articolando ogni sillaba, «e io voglio esserti
indispensabile».
Mentre parlava gli si erano dilatate le pupille, come se un buio interiore
lo pervadesse poco a poco. Ofelia si abbracciò le ginocchia, ma lui non le
dette il tempo di reagire.
«Hai detto che la mia aspirazione è liberare te e il mondo. Io non aspiro a
niente. Ho solo bisogno che tu abbia bisogno di me, nient’altro. E so per
certo che in questo conflitto sono destinato a perdere, perché sono più
possessivo di quanto tu non sarai mai e perché ci sono cose che non posso
sostituire».
Prese il flacone del disinfettante e, dopo un’esitazione che lo vide
contratto in tutto il corpo, lo consegnò a Ofelia come se avesse deciso di
non usarlo più.
«Questo è per la mia impurità. Se puoi conviverci tu, posso conviverci
anch’io».
Ofelia prese la bottiglietta senza la goffaggine da cui era stata guarita suo
malgrado, ma rendendosi conto che c’erano molti altri modi di rompere
qualcosa di prezioso, per esempio continuare a tacere.
«Non posso avere figli».
Ecco, l’aveva detto. L’aveva detto e continuava a sentirsi calma. Non
capiva neanche perché avesse paventato tanto quel momento, come non
capiva perché Thorn la stesse guardando con apprensione.
«Ed è tutta colpa mia» aggiunse.
Si morse le labbra per reprimere un tremito inspiegabile che però si
propagò ai denti, alle narici, alle palpebre, a tutto il corpo. Il flacone del
disinfettante le cadde di mano, rotolò nell’erba giù per la discesa e si perse
tra le ortiche della fermata d’autobus.
«Scusa».
Non si sentiva affatto più calma, le faceva male la pancia. Le faceva male
vivere. Anche Octavio, Helena e tutti gli altri avrebbero dovuto avere il loro
posto su quella collina, davanti a quel cielo, sotto quegli ulivi.
«Scusa» balbettò, incapace di dire altro. «Scu...».
La sua voce bagnata si spense nella camicia di Thorn. Con un cigolio di
ferraglia l’uomo l’aveva stretta a sé rudemente, come se avesse voluto
limitare la sofferenza di Ofelia con la stessa violenza che faceva a se stesso
per tenere a bada gli artigli, ma lei continuò a scusarsi e scusarsi e scusarsi
in un pianto disordinato.
GLI STRANIERI

Ofelia si svegliò in mezzo alle stelle. La notte volgeva al termine.


Vedendo tutte quelle costellazioni pensò che di nessuna conosceva il nome,
ma le trovava lo stesso strabilianti. Non aveva mai approvato l’interesse di
Artemide per gli astri. Perché mai uno spirito di famiglia preferiva le stelle
ai suoi discendenti? In quel momento lo capiva meglio: i segreti del cielo
erano meno spaventosi di quelli della propria esistenza. Ofelia stentava a
credere di avere lo stesso sangue di una persona che in origine era stata un
eco, e ancora di più a credere di aver dato lei stessa vita a un eco che
avrebbe potuto diventare una persona.
Vite impossibili sorgevano dal nulla. Altre vi erano immerse o non ne
sarebbero mai uscite.
Un misto di senso di colpa, curiosità e timore le sollevò il petto. Le
lacrime avevano liberato le sue emozioni, dolorose come schegge di vetro
ma necessarie. Non poteva fare finta di sentirsi bene, ma almeno sentiva.
Al di là della collina degli ulivi su cui si era addormentata per aver pianto
troppo si udivano gli schiamazzi della festa. Le risate si erano fatte sguaiate,
le canzoni sboccate. I Bad Boys dovevano aver trovato del vino in qualche
cantina. Anche un fuoco d’artificio: ci fu un fischio nel cielo che esplose in
un unico zampillo di luce e fumo, piuttosto deludente in realtà, poi di nuovo
risate e canti.
«Quegli idioti finiranno per provocare un incendio».
Ofelia si voltò verso la figura china su di lei, immobile in mezzo all’erba
mossa dal vento. Di Thorn intuiva solo i lineamenti spigolosi e un respiro
vigile. Ovviamente non dormiva: come gli artigli, come la sua memoria,
non riposava mai.
«A che pensi?» gli domandò.
Gli argomenti non mancavano di certo. Ofelia gli aveva raccontato nei
minimi particolari quello che era successo al secondo protocollo: la
cappella, il pappagallo, il confessionale, il cavaliere, la cristallizzazione,
l’Ombra, la sua parziale mutilazione, la donna con lo scarabeo e il treno che
avrebbe dovuto portarla al terzo protocollo e non ce l’aveva portata...
C’era di che diventare pazzi.
La risposta di Thorn fu pragmatica.
«Al modo di tornare a Babel. Non sarà facile, e non solo perché siamo
privi di mezzi di locomozione. LUX ha messo sotto stretta sorveglianza
l’intera città e noi non sopravvivremmo a un’altra espulsione. Più di lady
Septima, mi fanno paura i Genealogisti: dovremo evitare a tutti i costi di
incrociare la loro strada. Quanto all’osservatorio delle Deviazioni, sempre
che riusciamo ad arrivarci, dubito che ci lascino prendere il Corno
dell’abbondanza senza passare al contrattacco. Ecco, a grandi linee stavo
pensando a questo» concluse in tono monocorde.
«Potremmo restare qui».
Thorn si bloccò a metà respiro. Ofelia rimpianse subito quelle parole che
le erano uscite di getto.
«Ma non dobbiamo» si affrettò a continuare. «Io meno di tutti. Ora che
so di aver liberato l’Altro volontariamente devo assumermene le
conseguenze. Se ci trova prima che noi troviamo il Corno dell’abbondanza
non ci darà la minima possibilità di farlo tornare a essere un eco».
Aveva un bel dire, ma quando si trattava dell’Altro si rendeva conto di
non saperne niente. L’Ombra le aveva detto che lo aveva incontrato più
volte senza mai riconoscerlo. Ma dove? Su Anima? Al Polo? A Babel? Era
qualcuno con cui aveva parlato? Un eco dotato di un nuovo corpo, una
nuova faccia, forse anche un nuovo riflesso? Se sì, poteva essere chiunque.
Magari era Ambroise, l’enigmatico Ambroise che non era quel che
sembrava essere, né adolescente né figlio di Lazarus. No. Inconcepibile.
Ofelia non ce la faceva ad associare Ambroise al vuoto crescente. E poi, a
un certo punto non aveva lui stesso creduto che l’Altro fosse lei?
Reset.
Ofelia si era raffigurata l’Altro come un nemico invisibile, mostruoso e
spietato, ma il ricordo d’infanzia, sbloccandosi, aveva capovolto anche
quell’impressione. La richiesta d’aiuto dallo specchio e la sincerità del suo
avvertimento rendevano l’Altro più difficile da detestare. Aveva manipolato
Ofelia o il suo sconforto era genuino? Il che non scusava niente. Mai gli
avrebbe perdonato, come non avrebbe perdonato a se stessa, ciò che aveva
fatto a Octavio e al mondo, e che forse stava continuando a fare in quello
stesso momento.
Sopra di lei metà delle stelle scomparve. L’ombra immensa di Thorn le
aveva assorbite come la promessa di un temporale.
«Non sbagliare colpevole. L’unica responsabile è Eulalia, non tu. Dov’è
questa donna che ha tanto a cuore le sorti dell’umanità mentre i suoi eletti si
sbarazzano degli indesiderabili e il suo riflesso lacera il nostro mondo? Si
nasconde dall’altra parte dell’immensa scacchiera da lei stessa creata sulla
quale tutti i pezzi – LUX, Genealogisti, osservatori – giocano da tempo la
propria partita con le proprie regole».
Con i capelli sparsi nell’erba Ofelia fissò la grande corporatura che la
sovrastava nella notte e che, come l’Ombra, era priva di faccia.
«Come possiamo vincere, allora?».
«Prendendo coscienza del gioco. Troveremo il Corno dell’abbondanza,
ridurremo Eulalia e l’Altro all’impotenza, poi romperemo la scacchiera».
Ofelia annuì, sebbene di sicuro anche Thorn la vedesse ben poco.
L’infaticabilità di quell’uomo spazzava via i suoi dubbi, la sua ostinazione
le allargava il cuore. Persisteva tuttavia uno sfasamento fra loro. Thorn era
una freccia focalizzata sul bersaglio. Ofelia continuava ad avere la
sensazione che esistesse un bersaglio molto più grande di Eulalia e
dell’Altro, una verità fondamentale e ancora più insensata. All’osservatorio
delle Deviazioni le avevano fatto rivelazioni stupefacenti, ma aveva
l’impressione di essersi lasciata sfuggire la più importante di tutte, una
rivelazione di cui aveva bisogno per affrancarsi definitivamente dal passato.
Era ossessionata dal treno che non l’aveva condotta alle risposte, moriva
dalla voglia di risalirci con Thorn, ma aveva anche paura di non tornare
indietro incolume. Aveva già perso il suo potere di Attraversaspecchi,
doveva fare altri sacrifici?
Ancora una volta respinse l’apocalisse che le era apparsa nella vetreria e
nella finestra del colombario, respinse il disegno di Seconda, la vecchia, il
mostro e il suo corpo ricoperto di matita rossa.
“Romperemo la scacchiera”.
«E poi?» domandò. «Dopo che l’avremo rotta?».
Ancora non ne avevano mai parlato.
«Poi mi consegnerò alla giustizia» rispose Thorn senza la minima
esitazione. «Stavolta una vera giustizia, con un tribunale vero e un processo
vero. Pagherò il mio debito verso le nostre famiglie e procederò
all’annullamento del nostro matrimonio, la cui validità giuridica credo che a
questo punto sia piuttosto dubbia».
Ofelia aveva sperato in un quadretto del loro futuro leggermente più
roseo.
«E poi?» insisté.
«Poi toccherà a te decidere. Aspetterò che tu mi chieda di sposarti».
Ofelia quasi si strozzò con un colpo di tosse. A memoria di Storiografi,
sul Polo non c’era mai stata una donna che avesse posato il ginocchio a
terra con un anello in mano.
«Toccherà a noi, vuoi dire» lo corresse.
Una strofa particolarmente oscena sfuggita dalla piazza del villaggio
passò fra loro.
«Non ho mica detto che accetterò».
Sotto gli occhiali, Ofelia sgranò gli occhi. Non osava muoversi per paura
di suscitare un’artigliata involontaria, ma avrebbe dato qualunque cosa per
osservare l’espressione di quella faccia che aveva sempre visto
esageratamente seria. Stentava a credere che Thorn avesse fatto un
autentico tentativo di umorismo. Voleva farle tornare il sorriso? Si rese
conto di quanta strada avessero fatto insieme dal primo tetro incontro sotto
la pioggia di Anima, lui con la pelliccia d’orso e lei con la vocina da
passerotto.
«Farò in modo di essere persuasiva».
Thorn scese su di lei rimpiazzando la notte stellata con quella bollente
del suo corpo. Fu un movimento goffo, un po’ tremante, come se fosse
sempre in imbarazzo nell’imporre a Ofelia le sue ossa troppo sporgenti.
«A mia zia non sono bastato, dopo che ha perso i figli».
In quella confidenza improvvisa c’era un’alterazione che Ofelia aveva
già colto in Thorn, seppure in rare occasioni. Sembrava collera senza
esserlo.
«A te basterò?» disse quasi sfidandola.
Ofelia contemplò quel buco nero che si era portato via anche le ultime
stelle. Per tutta risposta gli offrì senza ritegno ciò che aveva di più tenero.
Thorn era a vario titolo un uomo scomodo, ma si sentiva talmente viva con
lui! L’Altro l’aveva cambiata, è vero, aveva fatto di lei la più maldestra di
tutte le Animiste, e proprio perché era la più maldestra si era impegnata per
diventare la migliore lettrice. E la sua strada aveva incrociato quella di
Thorn proprio perché era diventata la migliore lettrice.
Poteva avere dei rimpianti, ma non quello.
E tuttavia un po’ più tardi, mentre l’aurora accendeva la natura, emerse
dall’erba alta con un certo imbarazzo. Una ragazza stava ai piedi della
collina seduta sulla panchina della fermata d’autobus. Gli occhiali di Ofelia
arrossirono. Da quanto tempo era lì? Li aveva sentiti? La ragazza
maneggiava con cautela la bottiglietta di disinfettante che la sera prima era
rotolata giù e che a quanto pareva aveva raccolto dalle ortiche. Ofelia era
quasi certa che non facesse parte dei passeggeri del dirigibile. Aveva i
vestiti sporchi di terra e scarpe di corda ai piedi, ma uno sguardo
straordinariamente vivace. Quando Ofelia si riaggiustò con discrezione la
tunica la ragazza sollevò gli occhi su di lei, come attirata dal suo
movimento, poi posò il flacone sulla panchina, si alzò e cominciò a risalire
la collina.
«Thorn, si sta avvicinando una persona».
«Ho visto» borbottò lui riabbottonandosi la camicia fino al colletto e
appiattendosi con il palmo i capelli arruffati. «E c’è qualcuno con lei.
Anche un po’ più di qualcuno».
In effetti dalla strada e dai campi stavano arrivando uomini, donne,
bambini e vecchi. Innumerevoli. Ofelia si chiese come avesse fatto a non
vederli, poi notò che erano estremamente discreti. Si muovevano senza
rumore e senza fretta, ma con determinazione implacabile. Avevano gli
stessi abiti terrosi e lo stesso sguardo brillante della ragazza.
«Chi siete?» domandò Thorn.
Malgrado la domanda posta con autorità i nuovi arrivati non risposero. In
compenso andarono dritti verso di lui. Presto la collina sarebbe stata
affollatissima.
Pur sapendo che in quel luogo gli stranieri erano lei e Thorn, Ofelia trovò
quei villici piuttosto invadenti.
«Avvertiamo gli altri» mormorò.
Tornarono al villaggio scendendo dal versante opposto della collina,
tallonati dalla marea umana che aumentava a ogni istante. Sulla piazza
trovarono corpi addormentati all’ombra dei platani, una quantità
irragionevole di bottiglie vuote e un pungente odore di alcol. L’unico
sveglio era Ambroise. Una ruota gli si era incastrata tra due pietre del
selciato e sembrava chiedere educatamente aiuto già da un po’. La sciarpa
stava tirando la gamba invertita più che poteva per cercare di liberare la
sedia a rotelle.
Sorrise di sollievo quando vide Ofelia e Thorn, poi inarcò le sopracciglia
scorgendo la folla in lontananza che si avvicinava.
«Sono gli abitanti del villaggio?».
«Speriamo di no» rispose Ofelia sbloccandogli la ruota. «Sarebbe
imbarazzante giustificare il saccheggio delle loro cantine. Dobbiamo subito
svegliare tutti».
Thorn si mise a lanciare secchiate d’acqua sui dormienti senza
preoccuparsi delle proteste che scatenava. Più delicato, Ambroise dette un
bicchiere d’acqua fresca a Blasius, che si era sentito male al primo sorso di
vino, ma quando provò a fare la stessa cosa con il professor Wolf la cravatta
di quest’ultimo, contaminata da un animismo particolarmente ostile, gli
dette uno schiaffo.
Quanto a Ofelia, dovette scuotere a lungo Elizabeth, che aveva scovato
sotto una panchina in posizione fetale. La virtuosa sollevò le palpebre
gonfie su due occhi iniettati di sangue.
«Ohi, la testa... I Bad Boys mi hanno obbligato a bere. Non l’avevo mai
fatto prima... Mmm. Credo di aver affibbiato a lady Septima una quantità di
parole vietate. Avrò molti peccati da confessare».
Ofelia la aiutò ad alzarsi.
«Ci penserai dopo. Abbiamo visite».
I villici affluivano dalle strade e dalle vigne per circondare la piazza del
villaggio rendendo impossibile qualsiasi ritirata. Il risveglio dei Babeliani
fu brutale. Ci fu un lungo faccia a faccia durante il quale i due popoli si
squadrarono, uno barcollante e con i postumi della sbornia, l’altro ben saldo
sui piedi e con gli occhi aperti.
Sguardo vitreo contro sguardo scrutatore.
Aspettavano spiegazioni? Scuse? Avevano intenzione di rispedire i
clandestini da dove erano venuti, stavolta senza dirigibile? Ofelia scambiò
un’occhiata tesa con Thorn. Aveva la sensazione che sarebbe bastata una
parola a scatenare le ostilità.
«Non c’è pace da nessuna parte».
La voce del professor Wolf aveva rotto il silenzio come un colpo di
mannaia. Aveva tra i denti una sigaretta sulla quale si accaniva invano con
un vecchio accendino. Non era uno dei suoi soliti sarcasmi, sembrava
deluso e basta.
«La pace è ovunque, e qui ancora più che altrove! Quando guarirete dal
vostro deplorevole pessimismo, dear friend?».
La sigaretta del professor Wolf cadde a terra.
Ofelia non credette ai suoi occhi vedendo Lazarus farsi largo tra i
contadini. La sua bella redingote bianca era coperta di terra e i suoi capelli
argentei bagnati di sudore, ma irradiava gioia. Quel vecchio mostrava in
ogni circostanza qualità da prestigiatore, sempre pronto a spuntare dove
nessuno se l’aspettava. Il suo nome passò di bocca in bocca tra i Babeliani
della piazza: di tutti i senza-poteri era quello famoso in tutto il mondo, sia
per le sue esplorazioni che per le sue invenzioni. Al suo fianco c’era Walter,
il maggiordomo meccanico, così rallentato che Lazarus prese un’enorme
chiave per ricaricarlo.
«Padre!».
Colpita dalla spontaneità del grido, Ofelia si voltò verso Ambroise.
Poteva pure essere un’urna funeraria vecchia di quarant’anni, ma nel suo
ruolo di figlio era sincero. Lazarus lo fu molto meno in quello di padre. Si
spolverò gli occhiali rosa senza degnarlo di uno sguardo, in compenso
passò in rassegna le altre facce che lo circondavano, soffermandosi
amichevolmente su quelle di Blasius e Wolf, suoi ex allievi, e di Thorn, la
cui malcelata diffidenza sembrò divertirlo molto, e infine arrestandosi su
quella di Ofelia con un gran sorriso, quasi che fosse la faccia che sperava
proprio di trovare.
«Well well well, voi qui? Che splendida coincidenza!».
«Coincidenza?» ripeté lei.
Non ci credeva. Se Ambroise era un impostore, cos’era Lazarus? Quando
le aveva detto dell’osservatorio delle Deviazioni non le aveva specificato di
esserne stato lui stesso un vecchissimo ospite.
Come se la scena non fosse già abbastanza irreale i contadini, attratti in
maniera irresistibile, si avvicinarono a Lazarus per toccargli le braccia, le
guance, le orecchie e i capelli senza che la cosa sembrasse infastidirlo. A
quanto pareva c’era abituato.
Ma non c’erano abituati i Babeliani, che indietreggiarono di fronte
all’avvicinarsi di tutte quelle dita nere sporche di terra.
«Non fatevi intimorire dai miei nuovi amici» disse Lazarus. «Non hanno
il senso della privacy, ma sono absolutely inoffensivi. In realtà è la civiltà
più affascinante che abbia mai studiato. Sto vivendo con loro da giorni... o
sono settimane?» si interrogò massaggiandosi il mento glabro. «Ho perso il
conto. Mi hanno accolto con un ineguagliabile senso dell’ospitalità. La loro
curiosità è insaziabile quanto la mia! Sono accampati al di là delle
coltivazioni. Stavamo contemplando insieme le stelle quando abbiamo visto
il vostro fuoco d’artificio. I miei amici si sono subito messi in cammino.
Sono dovuto andare con loro per non rimanere indietro. Ho lasciato il
lazarottero all’accampamento. Walter, acqua!» ordinò con voce che si stava
facendo arrochita.
Di tutti i suoi automi Walter era il più fedele e il meno riuscito, tanto che
esaudì la richiesta di Lazarus spingendolo nella fontana. I villici avevano
assistito alla scena tendendo le mani e spalancando gli occhi, ma senza
cercare di trattenerlo. Ofelia li trovò incoerenti.
Blasius e Wolf tirarono Lazarus fuori dall’acqua e lo fecero sedere sul
bordo della fontana.
«Padre» disse Ambroise dandogli gli occhiali che erano caduti con lui,
«siete stato qui per tutto questo tempo? Sono contento di vedervi sano e
salvo. Avevo paura che un crollo vi avesse portato via».
«Crollo?» fece Lazarus stupito dopo aver finito di tossire e sputare. «C’è
stato un crollo a Babel?».
«Due» corresse il professor Wolf con amarezza. «Il che ha fatto sì che noi
tutti qui presenti fossimo espulsi».
«Very spiacevole...».
Lazarus l’aveva detto strizzandosi i lunghi capelli, ma Ofelia sorprese un
minuscolo movimento di rughe sulla sua fronte quando vide i cadaveri di
bottiglie sul selciato.
I Babeliani gli si fecero intorno.
«Professore, dove siamo?».
«Chi è questa gente?».
«Che arca è questa?».
«Non ne ho la minima idea!» esclamò lui in tono frizzante. «La sera in
cui sono partito sono stato sorpreso dal Soffio di Nina. Non è la prima volta
che mi succede, ma è la prima in cui sono stato trasportato su una nuova
terra, per giunta abitata! Da principio ho creduto di aver miraculously
scoperto la posizione nascosta di Terra d’Arco, il sogno di ogni esploratore
che si rispetti, ma ho presto capito che non era così. Questa, ragazzi miei»
dichiarò allargando le braccia come per abbracciare l’intero villaggio, «è
ufficialmente la ventiduesima arca maggiore del nostro pianeta! Un’arca
senza spirito di famiglia, popolata da un’umanità che si è sviluppata a
margine della nostra civiltà dopo la Lacerazione, vi rendete conto?
Ovviamente sono rimasto qui per approfondire le mie conoscenze
antropologiche».
Da una tasca interna della redingote prese un taccuino che gli sgocciolò
acqua sulle scarpe. Mentre Lazarus pontificava sul bordo della fontana gli
autoctoni si erano mischiati ai Babeliani e toccavano i loro vestiti,
accarezzavano la loro pelle. Sembravano particolarmente interessati alle
mani invertite di Ambroise, alle labbra tumefatte di Elizabeth, al naso a
punta di Blasius e al collare ortopedico del professor Wolf. Erano
affascinati al massimo dalle cicatrici di Thorn, che faceva grandi sforzi per
tenerli a rispettosa distanza dai suoi artigli.
Ofelia era oggetto d’attenzione da parte della ragazza che aveva visto alla
fermata d’autobus, che le puntava gli occhi addosso come lenti di un
cannocchiale. Passato il primo momento d’imbarazzo per essere guardata
tanto spudoratamente, Ofelia si sentì, perché no, importante. Erano gli stessi
occhi che Domitilla, Beatrice, Eleonora e Hector avevano sgranato su di lei
quando si era chinata a guardarli nella culla, quando le sorelle e il fratello
erano ancora soltanto una presenza osservatrice incapace di tradurre il
mondo in pensieri. In realtà erano anche gli stessi occhi con cui fissavano il
giocattolo animato che volteggiava senza sosta sopra le loro teste.
«Professore» disse Blasius torcendosi le dita con aria colpevole, «noi...
abbiamo trovato il villaggio deserto. Appartiene a queste persone?».
Lazarus scosse la testa con foga, come se la propria ignoranza lo
riempisse di felicità.
«Ancora una volta, non ne ho idea! Ci sono altri villaggi come questo in
un raggio di vari chilometri. Ne ho visitati un bel po’, sono tutti
abbandonati, ma quando chiedo informazioni ai miei cari amici non mi
rispondono. Non rispondono mai. Da quando li frequento non li ho sentiti
parlare né visti scrivere una sola volta. Sono di una semplicità disarmante!
Tra loro non c’è alcuna gerarchia, nessuno vive del lavoro di un altro.
L’asservimento dell’uomo all’uomo qui non esiste. Si nutrono di quel che
trovano, frutti, radici, insetti, e passano il tempo a... sentire con l’anima»
decise Lazarus, che sembrava aver cercato i termini appropriati. «Abbiamo
molto da imparare da loro».
Su quelle parole aveva guardato Ofelia, in particolare il suo braccio con
le lettere PA. Nello stesso istante, dietro la vernice di gaiezza che
contraddistingueva i suoi modi Ofelia percepì quanto in realtà fosse serio
dentro, e colse finalmente l’evidenza che aveva sempre avuto sotto il naso:
Lazarus non era un semplice fornitore di automi per l’osservatorio delle
Deviazioni. Non era neanche un ex internato come tanti altri.
Era lui, la testa pensante dell’osservatorio!
Thorn, che era arrivato alla stessa conclusione, e probabilmente molto
prima di lei, andò zoppicando verso il vecchio esploratore e gli parlò
all’orecchio. Ofelia non sentì le parole, ma le indovinò: “Dobbiamo farci
una chiacchierata, noi tre”.
Lazarus annuì con un sorriso.
«Senza ombra di dubbio, cari soci».
IL CONTEGGIO

Si allontanarono dalla piazza cercando di farsi notare il meno possibile, il


che, data la folla, non fu facile. Lazarus esercitava un potere d’attrazione
fuori dal comune. Fece spazientire Thorn rispondendo ancora a una quantità
di domande, perdendosi in interminabili digressioni e abbracciando
numerose persone prima di poter lasciare le due civiltà a conoscersi senza
dover fare lui da intermediario.
Indicò a Ofelia una costruzione di pietra e tegole che si distingueva dalle
altre solo per il tetto, sul quale sventolava una bandiera mossa da un vento
già bollente.
«Se questo villaggio è uguale agli altri che ho visitato, dovrebbe essere
l’equivalente di un Familisterio. Lì potremo parlare comodamente senza
essere costretti a entrare in casa di qualcuno. Tanto più che, non so voi»
disse accelerando il passo, «ma a me non dispiacerebbe trovare un bagno
degno di questo nome».
«Padre, posso venire con voi?».
Ambroise era entrato nella stretta via lastricata che stavano percorrendo e
urtava con la sedia a rotelle tutti gli scalini d’ingresso delle case.
«No, ragazzo mio» rispose Lazarus. «Torna dai nostri amici, non ci
metterò molto!».
Ambroise aprì e richiuse la bocca. Il fulgore di Lazarus lo relegava in
un’ombra molto più opprimente dell’ombra che regnava a quell’ora del
mattino tra le facciate di pietra. Dette un’occhiata torva a Walter, che
continuava a procedere da solo con una camminata a scatti senza accorgersi
che il padrone aveva smesso di seguirlo.
«Walter vi accompagna dappertutto. Perché io no? Perché io mai?».
«Che c’entra, Walter è un’altra cosa! Tu sei molto più importante. Lo sei
sempre stato. Non ci metterò molto» ripeté. «Aspettami».
Ofelia notò come la sciarpa si fosse stretta intorno ad Ambroise mentre
lui effettuava una laboriosa marcia indietro con la testa incassata nelle
spalle. Aveva visto quel ragazzo respingere i limiti del proprio mondo e
costruire autentici rapporti con autentiche persone, persone che non erano
automi, ma non c’era niente da fare, appena Lazarus era nei paraggi
Ambroise non riusciva più a trovare il proprio posto.
Si impose di non voltarsi a guardarlo mentre seguiva Lazarus e Thorn
fino all’edificio con la bandiera. Dato quello che avevano da dirsi fra quei
muri, era meglio che Ambroise non fosse presente.
La porta non era chiusa a chiave. Entrarono in una vasta sala che, fatta
eccezione per le piante morte, col lungo tavolo da riunioni, le sedie allineate
e le lampade da terra aveva una sua imponenza. Il tempo sembrava sospeso.
Lazarus scomparve per qualche minuto dietro una porta, da cui dopo un po’
si sentì un rumore di sciacquone. Ofelia fece qualche passo sul pavimento
di legno. Perché gli abitanti di quell’arca preferivano vivere nei campi
anziché nei villaggi? Neanche lì c’erano manifesti o cartelli, solo
un’impressionante collezione di vasi di terracotta ai lati delle finestre.
Sollevò un sopracciglio notando la faccia della ragazza della fermata
d’autobus incollata a un vetro. Li aveva seguiti, ma la curiosità non era così
prepotente da spingerla a entrare.
Thorn tirò tutte le tende sollevando una nuvola di polvere. Mise una sedia
contro la porta d’ingresso per evitare intrusioni, poi si voltò verso Lazarus
con un cigolio della gamba. Aveva un’espressione terribile, ma non disse
una parola. La disse Ofelia per tutti e due.
«Bugiardo».
Lazarus posò deluso il barattolo di biscotti di cui si era impadronito
prima di accorgersi che erano ammuffiti.
«Solo per omissione. Non ho mai distorto la verità, ma è vero che non
l’ho detta tutta. C’è una bella differenza. Vi vedo scontenta» aggiunse con
un sorrisino. «È perché non avete ancora trovato l’Altro? Non vi abbattete,
my dear, avete fatto di molto meglio. Walter!» chiamò battendo le mani.
«Disco 118!».
L’automa, che stava inclinando una teiera vuota su una tazza altrettanto
vuota, emise un gorgoglio meccanico da cui sembrava che le sue viscere
stessero cambiando posizione. Dopo qualche secondo dalla pancia uscirono
due voci roche.
«CHE VOLETE FARE-FARE CON IL CORNO DELL’ABBONDANZA?» domandò la
prima.
«VOI AVETE COMPIUTO-COMPIUTO UN MIRACOLO, MISS» rispose la seconda.
«NESSUN CANDIDATO-CANDIDATO PRIMA DI VOI AVEVA AVUTO SUCCESSO-
SUCCESSO NELLA CRISTALLIZZAZIONE. VEGLIEREMO AFFINCHÉ-AFFINCHÉ IL
VOSTRO MIRACOLO COMPIA-COMPIA A SUA VOLTA ALTRI MIRACOLI-MIRACOLI».

«Grazie, Walter, basta così».


Sul naso di Ofelia gli occhiali erano diventati gialli.
«È la mia ultima conversazione con l’osservatrice. Come avete... È stato
lo scarabeo?».
Lazarus sorrise euforico.
«I miei automi sono tutti collegati gli uni agli altri. Segreto di
fabbricazione» specificò con un occhiolino. «Così posso sentire quel che
succede all’osservatorio e oltre senza interrompere le mie esplorazioni».
Ofelia ebbe l’impressione di incontrare il vero Lazarus per la prima volta.
Quel vecchio dalla gestualità eccessiva, brioso fino alla radice dei capelli,
aveva smesso di essere un pedone sulla scacchiera, era diventato uno dei
pezzi principali. Sapeva tutto fin dall’inizio. Sapeva che il Dio al cui
servizio si era messo era Eulalia, sapeva che l’Altro era il suo eco e con
tutta probabilità sapeva molte altre cose di cui né Thorn né Ofelia avevano
la più pallida idea. Cose che Lazarus aveva taciuto intenzionalmente.
Walter scostò alcune sedie dal tavolo da riunione per permettere a tutti di
mettersi comodi – in realtà ne mosse decisamente troppe – ma Lazarus fu
l’unico a sedersi.
«L’ultima volta che ci siamo visti vi ho detto che gli echi erano la chiave
di tutto. Sono lusingato nel vedere che avete seguito la mia pista fino in
fondo. Ero sincero quando ho detto che volevo mettermi al servizio di lady
Diyoh. Chiamiamola col suo nome, visto che a unirci è il segreto della sua
vera identità. Voglio rendere il suo mondo perfect ancora più perfect! Un
mondo in cui l’uomo non dovrà mai più essere asservito all’uomo né
alienato dalle contingenze materiali. Da dove vengono le guerre? Da cosa
hanno origine i conflitti? Dall’insoddisfazione. Dietro le ideologie c’è
sempre una motivazione materiale».
Lazarus accavallava e scavallava le gambe, si sfregava le mani sempre
più eccitato. Si rivolgeva solo a Ofelia, come se Thorn fosse per lei quello
che Walter era per lui.
«Quindi dietro il Corno dell’abbondanza ci siete sempre stato voi»
mormorò Ofelia.
«Non sempre e non soltanto io» la corresse Lazarus con modestia. «Tutti
gli osservatori che avete conosciuto sono senza-poteri. Ci siamo federati.
C’è stata anche un’epoca, che unfortunately non ho vissuto, in cui miss
Ildegarda collaborava con l’osservatorio, ma poi si è dissociata per
divergenze di opinioni».
Ofelia ripensò alla donna con lo scarabeo, all’uomo con la lucertola e alla
ragazza con la scimmietta. Tutti senza-poteri, dunque. Ecco perché
l’osservatorio delle Deviazioni si era dotato di una falsa direzione. Babel
era una delle arche più egalitarie, o almeno lo era stata prima dei crolli, ma
erano ben pochi i senza-poteri che accedevano a posti di responsabilità.
«Anche il cavaliere è opera vostra» disse Ofelia. «Eravate al Polo quando
l’hanno arrestato. L’avete fatto uscire da Helheim per reclutarlo».
«Un ragazzo interessantissimo! Prima della Mutilazione il suo potere
familiare soffriva di una forma di deviazione molto particolare. Sono andato
a trovarlo a Helheim per curiosità. Come ormai avrete capito, sono
extremely curioso di tutto». Dietro le lenti rosa gli luccicarono gli occhi.
«Abbiamo parlato a lungo, io e lui. Da vecchio senza-poteri a nuovo senza-
poteri. Non vi offendete, ma stavo cercando informazioni su di voi.
Avevamo saputo che eravate collegata all’Altro, e quel giovane era
sorprendentemente ben informato sul vostro conto, così ho pensato che al
nostro osservatorio sarebbe stato più utile».
“E uno” pensò Ofelia.
«Poi c’è Blasius» disse ad alta voce. «Una volta mi ha raccontato che
eravate il suo professore e il suo confidente, che trovavate interessante
anche lui. Siete stato voi a farlo inserire nel programma alternativo?».
Lazarus annuì con un entusiasmo appena più moderato.
«Ho sempre pensato, e lo penso ancora, che ci sia un nesso tra la sua
sfortuna e gli echi, ma la sua permanenza all’osservatorio non ha rivelato
niente. Non mi stupisce affatto che siate diventati amici! Ve l’ho detto e ve
lo ribadisco: noi invertiti siamo tessuti con la stessa trama».
“E due”.
«Ed Elizabeth?» continuò lei. «La proposta dell’incarico all’osservatorio
che i Genealogisti volevano farle accettare veniva da voi».
Ancora una volta Lazarus annuì. Per poco il suo brio non fece rovesciare
la sedia all’indietro.
«Ero lì quando le hanno assegnato il premio d’eccellenza e ho pensato
che il suo talento sarebbe stato prezioso per noi. Per quanto io sia al suo
servizio, lady Diyoh non mi ha mai rivelato il segreto del suo codice. Se
miss Elizabeth non fosse stata così succube dei Genealogisti avrebbe potuto
aderire alla nostra causa... come voi stessa avete fatto».
Sembrava sinceramente felice di poterle parlare senza giri di parole e
rispondere alle sue domande, e anche impaziente di affrontare l’argomento
che Ofelia stava rimandando apposta. Thorn, da parte sua, teneva gli occhi
fissi sull’orologio come se contasse ogni movimento delle lancette. Ofelia si
stupì di vederlo così silenzioso, dato che di solito era lui a condurre gli
interrogatori, ma, come lui, anche lei contava in silenzio.
“E tre”.
«E Ambroise?».
«What, Ambroise?» fece Lazarus sorpreso.
«Abbiamo trovato la sua urna funeraria».
Lazarus scavallò le gambe e posò entrambe le scarpe bianche sul
pavimento. La sua faccia non esprimeva disappunto, solo un’improvvisa
malinconia.
«Capisco. In tal caso non c’è motivo di tacervi chi sia davvero. Ma devo
chiedervi un piacere: non andate a ripetergli quello che vi dirò. È così
sensibile!».
Né Ofelia né Thorn promisero. Si limitarono ad aspettare in piedi,
silenziosi e tesi.
Lazarus dette un’occhiata alla porta d’ingresso bloccata dalla sedia.
«Ambroise è un eco incarnato. Per la precisione, è l’eco di un mio
vecchio amico, un amico insieme al quale ho fondato il programma
alternativo, uno che si è dato anima e corpo al progetto Cornucopiando.
Quella che avete trovato è la sua urna funeraria».
«Un eco incarnato» ripeté Ofelia con voce sorda. «Come gli oggetti
fallati del Corno dell’abbondanza?».
Lazarus scoppiò a ridere portandosi una mano alla pancia, come se
avesse ricevuto un cazzotto a tradimento.
«Fallati, che parola grossa! Diciamo perfettibili. Ambroise ha aperto la
strada a possibilità vertiginose di cui forse non intuite ancora tutte le
implicazioni».
Ofelia si morse la lingua fino a farsi male. Quella conversazione le
rivoltava le budella.
«Anche lui ha un codice?».
«Ne ha uno, sì. Sulla schiena, in modo che non possa vederlo né toccarlo.
È un codice che fa una magra figura in confronto a quello inventato da
Eulalia Diyoh, ma gli permette di stabilizzarsi nella sua forma materiale. Vi
supplico, non parlatene mai davanti a lui!» insisté. «Il codice gli impedisce
anche di prendere conoscenza della sua natura e della sua longevità. Ci
resto malissimo quando mi fa domande riguardo alla madre che per ovvi
motivi non ha mai conosciuto».
“E quattro”.
«E l’Ambroise originale, il vostro amico, che fine ha fatto? È morto?».
Un sorriso brillò sulla pelle di Lazarus inscurita dal sole e dal fango.
«Oh no, my dear, sono convinto che sia tuttora vivissimo».
Era una risposta un po’ strana, ma Lazarus anticipò Ofelia puntandosi il
dito sulla parte destra del petto, dove batteva il suo cuore invertito. Aveva
un’espressione così appassionata da far quasi temere a Ofelia che volesse
farle una dichiarazione d’amore.
«Vi ho già detto del situs transversus. La simmetria del mio organismo è
invertita, il che ha fatto sì che molto tempo fa, prima di essere avvicinato da
lady Diyoh, prima ancora di entrare alla Buona Famiglia, sia stato anch’io
un paziente dell’osservatorio. Ero appena un bambino. All’epoca l’istituto
aveva il solo scopo di correggere le deviazioni, e a me sembrava un vero
peccato. Non volevo essere “corretto”, al contrario! Vi ho detto che la mia
inversione mi rendeva ricettivo agli altri invertiti, per esempio voi, e che mi
ispirava intuizioni. Mi rende anche ricettivo agli echi, e l’osservatorio ne è
pieno! Sono absolutely sicuro che anche voi avete sentito gli echi del
passato. Non per niente siete una lettrice».
Ofelia doveva riconoscere che all’osservatorio aveva avuto le sue visioni
più profonde. Forse le funzionavano male le mani, ma il suo intero corpo si
era trasformato in diapason.
«Sono stati gli echi dell’osservatorio a mettermi al corrente della storia di
Eulalia Diyoh, della nascita dell’Altro e del progetto che ho deciso di
riprendere da zero con il mio vecchio amico Ambroise quando ne abbiamo
assunto la direzione» dichiarò Lazarus con voce sempre più vibrante.
«C’era tanto da fare per liberare il mondo dalle sue ultime impurità... Già
quarant’anni!» sospirò mentre gli occhiali gli si appannavano per la
commozione. «Mi fa sentire vecchio».
Ofelia fu colta da un’avversione che le fece rizzare i peli sulla pelle.
Quarant’anni. Era più o meno l’epoca in cui le collezioni di armi e i
documenti di guerra avevano subìto la purga, su Babel come su Anima.
Forse Lazarus non aveva parlato con Eulalia Diyoh della sua intenzione di
ricreare un Corno dell’abbondanza, ma ne aveva comunque influenzato la
politica radicalizzando la censura su tutte le arche. Si era servito del passato
per impedire all’umanità di conoscere il proprio.
Oh sì, quel vecchio dagli occhiali rosa e dai modi ridicoli era temibile.
Per colpa sua il museo di Anima era stato mutilato e lei stessa era stata
mutilata di parte del suo potere familiare.
“E cinque”.
«Gli echi di ieri non sono l’unica fonte di insegnamento» continuò
Lazarus con calore, impermeabile all’antipatia che le ispirava. «Gli echi
anticipatori lo sono altrettanto se non di più».
Ofelia era seccatissima di constatare quanto fosse bravo Lazarus a
esacerbare la sua curiosità. Più parlava, più lei aveva voglia sia di ascoltarlo
che di farlo stare zitto. Quanto a Thorn, totalmente assorto nell’orologio,
non diceva niente e non muoveva un muscolo.
Lazarus sollevò l’indice con aria professorale.
«Se, come credo, avete condotto la vostra indagine in maniera corretta
sapete già un po’ di che sto parlando. Siamo circondati da un gas che ho
personalmente battezzato aerargyrum, una sostanza che non ha niente in
comune con l’aria che respiriamo. In fact non somiglia a nessun elemento
chimico conosciuto. È troppo difficile da studiare e ben pochi sono gli
scienziati al corrente della sua esistenza. È talmente sottile che i nostri
migliori strumenti di osservazione sono in grado di rilevarlo solo nella sua
forma condensata, per esempio quando vi produciamo onde che ci tornano
indietro come echi. Così sottile» insisté sottolineando ogni parola, «che in
esso pure la trama del tempo è diversa. Voi sentite gli echi del passato. Io,
per quanto senza-poteri, sento quelli del futuro. Un eco anticipatore mi ha
detto in sogno che ci saremmo ritrovati in una terra sconosciuta. In parole
povere vi stavo aspettando».
Le zampe di gallina intorno agli occhi di Lazarus si fecero più profonde.
Contento com’era, prese la tazza che gli porgeva Walter senza accorgersi
che era piena di mosche morte.
«Sono rimasto qui tutto questo tempo non solo per studiare gli autoctoni,
ma anche e soprattutto perché sapevo che le nostre strade si sarebbero
incrociate, sapevo che ero destinato a riportarvi a Babel e rivelarvi
personalmente il segreto del terzo protocollo».
Ofelia si chiese come facesse Thorn a restare così calmo. Respinse senza
tanti riguardi la tazza di mosche che le porgeva Walter.
«Cioè, l’osservatorio mi ha consegnato a lady Septima che mi ha messo
su un dirigibile che si è arenato su quest’arca... perché voi mi riportiate al
punto di partenza? Ma non ha senso!».
Lazarus annuì approvando ogni parola, ma per una frazione di secondo,
prima di ritrovare la lucentezza, gli si era velato lo sguardo, e tanto era
bastato a Ofelia per trarne soddisfazione. Nonostante le apparenze, anche
lui aveva qualche dubbio.
«La logica degli echi non è la nostra» affermò con convinzione esagerata,
«ma siate pur sicura che una ragione c’è, una ragione che ancora non
vediamo. Blast!».
Lazarus sputò le mosche che aveva sorseggiato distrattamente. La
sagoma senza volto di Walter stava impassibile in disparte, come un
maggiordomo inespressivo. Ofelia li trovava uno più ridicolo dell’altro. In
realtà di colpo tutto le sembrava assurdo: quello che lei e Thorn avevano
affrontato all’osservatorio, le indagini che avevano condotto a rischio di
compromettersi mentre il mondo intorno a loro crollava, la morte che
avevano sfiorato nel dirigibile...
“E sei e sette”.
«Perché ce lo dite soltanto qui e ora?».
La voce di Ofelia era cambiata. Probabilmente Lazarus se ne accorse,
perché anche lui le rispose con voce mutata.
«L’intero processo dipendeva dalle scelte che avreste fatto. Era mio
dovere nell’interesse generale, compreso il vostro, non dire cose che
avrebbero potuto influenzare la vostra cristallizzazione».
Fece leva sulle ginocchia per alzarsi dalla sedia, come se all’improvviso
le sue ossa accusassero il peso degli anni.
«E ce l’avete fatta. Avete creato un altro Altro. Nessuno ci era riuscito,
neanche il mio vecchio amico Ambroise. Tutti gli echi convertiti in materia,
il povero ragazzo che chiamo figlio e gli stessi spiriti di famiglia non sono
perfetti neanche la metà dell’essere a cui avete dato vita voi».
Andò verso di lei lasciando l’impronta delle suole sul pavimento. Ancora
umida dopo il volo nella fontana, la redingote bianca gli pesava addosso.
Eppure da lui emanava un tale ardore che la sua pelle rugosa sembrava
ricoprire lava.
«Se sapeste quanto non vedo l’ora di conoscere il vostro eco! Forse
credete che io possegga tutte le verità, ma mi manca la più importante,
quella che detiene il segreto degli echi e del nostro mondo, quella che il mio
amico Ambroise si è portato con sé, quella che mi permetterà di dare
all’umanità ciò che le manca per sentirsi finalmente realizzata. E per
sentirmi finalmente realizzato io. Guardate cos’è diventata Eulalia Diyoh da
sola, grazie al suo eco! Immaginate cosa potreste diventare voi, cosa
potremmo diventare tutti, e stavolta insieme, grazie al vostro eco! Questo
darebbe senso a tutto ciò che è stato sacrificato, non trovate?».
“Senso a ciò che è stato sacrificato”. Ofelia si rigirò quelle parole in testa
fino a sentirsi rigirata lei stessa.
Eulalia Diyoh aveva perso prima tutta la sua famiglia, poi metà della sua
aspettativa di vita, e dalle sue ceneri era nato l’Altro. In cambio aveva
ottenuto da lui un sapere che l’aveva affrancata dai limiti di un corpo che
invecchia. Se c’era una cosa che Ofelia proprio non desiderava era
trasformarsi in Mille Facce o permettere ad altri di diventarlo. No, niente
avrebbe dato un senso alla morte di Octavio. Ciò che era precipitato nel
vuoto era insostituibile.
Trovò sgradevole il modo che aveva Lazarus di mangiarla con gli occhi
andando verso di lei, passo dopo passo, con le mani tese. C’era qualcosa di
possessivo nel suo comportamento, come se Ofelia e il suo eco gli
appartenessero.
«No davvero, my dear, non biasimatevi per non aver ancora trovato
l’Altro» sussurrò posandole sulle spalle mani calde e tenere come la sua
voce. «In verità le prove che avete affrontato servivano ad avvicinarvi a lui.
È qui, ormai vicinissimo! Posso quasi sentire la sua presenza» concluse
esaltato. «E sono convinto che anche voi lo sentiate».
Più che altro Ofelia sentiva il suo alito. Probabilmente Lazarus non
vedeva un tubetto di dentifricio da settimane.
«Avete finito?».
Sulla sala calò un silenzio pesante come l’aria che vi ristagnava da
quando il villaggio era stato abbandonato. Era stato Thorn a parlare mentre
il coperchio dell’orologio si chiudeva da solo.
Sempre aggrappato alle spalle di Ofelia, Lazarus sembrò ricordarsi della
sua esistenza solo in quel momento.
«Oh, in realtà non finisco mai» rise. «Sono un chiacchierone
incorreggibile!».
Un raggio di sole arrossò una tenda, attraversò la polvere in sospensione
e proiettò sulla faccia di Thorn una luce color sangue.
«Siete esattamente come lei» articolò con una voce che gli proveniva
dalle profondità del ventre. «Siete come Eulalia Diyoh. Nocivo».
Ofelia fu colpita da come Thorn guardò Lazarus. Aveva lo sguardo del
clan del padre, quello del cacciatore di fronte alla Bestia. Da mesi, da anni
Thorn conduceva una lotta accanita contro i propri artigli. Per la prima volta
Ofelia vide che aveva voglia di assecondarli, anche se li disprezzava e ogni
volta che vi aveva fatto ricorso aveva disprezzato se stesso un po’ di più.
Uno sguardo che lei si era ripromessa di fargli cambiare.
Lazarus studiò Thorn attraverso gli occhiali che gli facevano vedere il
mondo in rosa. Gli permettevano anche di individuare le ombre?
«Su, ragazzo mio, so che nonostante le apparenze detestate la violenza
quanto me. Vi siete già sporcato le mani per vostra moglie. Sono sicuro che
non sarebbe contenta se lo faceste di nuovo».
Almeno su questo, Ofelia era d’accordo. Si collegò con i suoi artigli al
sistema nervoso di Lazarus, che per effetto dell’elettroshock le lasciò le
spalle. Senza dargli il tempo di rimettersi dalla sorpresa gli spedì un altro
elettroshock che lo respinse indietro, poi un altro che lo mandò a sbattere
contro Walter, poi un quarto che lo fece cadere per terra, poi un quinto che
gli impedì di rialzarsi.
A ogni artigliata contava mentalmente.
“Per il cavaliere”.
“Per Blasius”.
“Per Elizabeth”.
“Per Ambroise”.
“Per il mio museo”.
Scagliò Lazarus contro la parete di fondo dove gli scaffali, contagiati
dall’animismo che si diffondeva nella sala, gli rovesciarono sulla testa tutte
le terrecotte che vi erano allineate.
“Per me e Thorn”.
Guardò il vecchio raggomitolato a terra e fu colta da un senso di nausea.
L’argento dei suoi capelli era diventato ruggine. Era stata lei a ridurlo in
quello stato. Per quanto si ripetesse che se lo meritava, un gusto acre le salì
in bocca. Lo ringhiottì appena vide lo sguardo di Thorn, che si era svuotato
della rabbia assassina e la osservava stupito.
No, non toccava sempre a lui sporcarsi le mani. Ofelia si prendeva la
responsabilità delle proprie azioni.
«Andiamo a Babel e portateci al Corno dell’abbondanza» ordinò a
Lazarus.
Lui la guardò con una faccia alterata dal dolore da cui era assente la
paura. Anche così conciato, strisciante in mezzo ai cocci dei vasi, era
divorato dalla curiosità, come se l’esperimento stesse prendendo una piega
più appassionante del previsto.
«Of course! Era quello che intendevo fare, miss Ofe...».
Lei lo interruppe seccamente.
«E una volta lì mi restituirete il mio eco. Non è e non sarà mai proprietà
dell’osservatorio. Fine della partita».
In quel momento, mentre Walter spolverava col piumino la testa
insanguinata del padrone, la sua pancia emise una voce inaspettata.
«CHI È IO?».
LA RIUNIONE

La panchina si trovava all’ombra di un enorme fico. Ofelia riconobbe


Blasius e Wolf di spalle, anche se le servì qualche secondo per esserne del
tutto sicura: il primo era molto meno curvo del solito, il secondo molto
meno compassato. Erano seduti fianco a fianco, senza giacca, e
contemplavano insieme le vigne che si estendevano intorno al villaggio.
Senza dire una parola si spostarono un po’ per permettere a Ofelia di sedersi
fra loro. C’era una tale pace su quella panchina che per un attimo dimenticò
quello che era venuta a dire. Osservò con loro la sfilata languida delle
nuvole, respirò con loro l’odore dolce dell’uva e dei fichi, sentì con loro i
raggi di sole filtrati dalle foglie e accolse con loro la brezza che le si
infilava tra i capelli, sotto la tunica, nei sandali.
«Ci mancherete, miss Eulalia».
Gli occhi umidi di Blasius sembravano sul punto di traboccare, ma non
era facile capire se si trattasse di gioia, tristezza o entrambe le cose. Ofelia
non aveva avuto bisogno di dire una parola.
«Non dovreste tornare a Babel» brontolò il professor Wolf. «Se il mondo
è destinato a crollarci sotto i piedi, tanto vale stare su questa panchina con
un bicchiere in mano».
Porse a Ofelia quello che aveva tutta l’aria di essere liquore rubato. Fatto
da lui, il gesto si avvicinava a una vera dichiarazione di amicizia, così
Ofelia accettò di berne un sorso e, stupita, le piacque.
«Sapete» mormorò Blasius, «da quando siamo naufragati su quest’arca la
mia sfortuna non si è manifestata. Le tegole rimangono sui tetti, le panchine
non si rompono e c’è un tempo fabulous! Sto cominciando a riprendere
speranza e a credere in un futuro senza crolli né espulsioni. Un futuro»
concluse stringendole la mano, «in cui ci rivedremo, miss Eulalia».
Ofelia avrebbe voluto dire a lui e a Wolf che ripartiva per Babel proprio
per mettere fine ai crolli, ma se l’avesse fatto avrebbe dovuto raccontare
tutta la verità, una verità ancora incompleta, una verità che avrebbe sporcato
la fiducia che avevano riposto in Lazarus, e non ne aveva il tempo. Eppure
era una verità che meritavano.
«Mi chiamo Ofelia. Tornerò» promise di fronte alle loro espressioni
sbigottite, «e vi racconterò il resto della storia».
Lasciò la panchina e la serenità che vi aveva percepito. Mentre
attraversava il villaggio fantasma fu colpita dall’animazione nuova che
regnava nelle strade. La gente suonava musica, distribuiva frutta, si
corteggiava, bisticciava. Visto che non potevano parlare con gli autoctoni,
gli esiliati di Babel si lanciavano in dialoghi da mimo. Fierissimi, si
svuotavano le tasche per mostrare le specialità di casa loro: una forchetta in
assenza di gravità, un rasoio fosforescente, un topolino camaleonte... Un
uomo era perfino riuscito, mentre le guardie di Polluce stavano andando ad
arrestarlo, a ridurre casa sua alle dimensioni di un ditale, ma, confessò con
aria afflitta, temeva di averci lasciato il gatto chiuso dentro.
Ofelia doveva riconoscere che gli abitanti della ventiduesima arca erano
interlocutori eccellenti. Mostravano un vivo interesse per tutto ciò che
vedevano, esaminando, toccando e annusando ogni cosa con tanto d’occhi,
come se niente al mondo fosse più straordinario, il tutto senza alcun istinto
di possesso.
Rallentò passando davanti a un negozio di maioliche, abbandonato come
tutto il resto.
Non degnò di uno sguardo i bei piatti che si impolveravano. Vedeva solo
il proprio riflesso sulla vetrina. Alzò una mano, e lui alzò una mano.
Indietreggiò, e lui indietreggiò. Fece la linguaccia, e lui fece la linguaccia.
Si comportava come un riflesso normale. Eppure...
CHI È IO?
L’eco non era rimasto all’osservatorio delle Deviazioni come lei aveva
creduto. L’aveva seguita a sua insaputa come una seconda ombra, arrivando
a infilarsi nell’apparecchio fonografico di Walter.
Ofelia capiva in quel momento che le aveva salvato la vita.
Sul dirigibile era stato lui ad attirare la sua attenzione sulla torre
campanaria subito prima di un impatto che sarebbe stato fatale a lei e a tutti
i passeggeri. Trovava frustrante non riuscire a comunicare con lui e
spaventoso riuscirci, ma in tutto ciò gongolava all’idea degli osservatori che
si accanivano su un pappagallo di metallo ormai muto.
“E se Lazarus avesse ragione?” pensò mentre il viso le si offuscava sulla
vetrina del negozio. Se davvero stesse anche lei seguendo la strada di
Eulalia Diyoh? Se insufflando nel proprio eco una parte di umanità lui le
avesse trasmesso in cambio un po’ della sua natura? Se si fosse messa a
riprodurre l’aspetto di tutti quelli che incontrava?
Lo sguardo andò dal suo riflesso a quello di Elizabeth alle sue spalle.
Non l’aveva notata. La giovane era seduta sul muretto di vecchie pietre che
circondava il giardino della villa di fronte. Con una gamba piegata contro il
petto e l’altra penzoloni sembrava la cavalletta posata sul suo ginocchio che
stava fissando con aria sognante.
«Vengo da una famiglia numerosa».
Ofelia non capì se si stesse rivolgendo a lei o alla cavalletta. Elizabeth
aveva le palpebre che le ricadevano pesantemente sugli occhi. Sembrava
sospesa tra il sonno e la veglia.
«Non ero né la più giovane né la più vecchia. Ricordo casa nostra,
sempre rumorosissima, le spinte per le scale, gli odori di cucina, gli strilli.
Una casa faticosa» sospirò, «ma era casa mia. Almeno credevo».
Elizabeth smise di osservare la cavalletta e guardò Ofelia. I lunghi capelli
fulvi, la cosa più bella che aveva, avrebbero avuto bisogno di una bella
lavata.
«Una notte mi sono svegliata a casa di perfetti sconosciuti. La mia
famiglia si era liberata di me. Una bocca in meno da sfamare, capisci? Sono
scappata per strada, e sarei ancora lì se non fosse stato per lady Helena».
Colpì il muretto col tacco dello stivale, come per far tintinnare le alette
da precorritrice che non c’erano più.
«Ero a un passo dal decodificare il suo Libro, a un passo dal restituirle la
memoria... Non mi importa un accidente di sapere chi siano davvero gli
spiriti di famiglia, volevo solo che lady Helena ricordasse il mio nome».
Elizabeth si morse il labbro. Le mancava un incisivo dopo la gomitata di
Cosmos. Aveva perso un dente per aiutare Ofelia. La quale Ofelia avrebbe
dovuto esserle riconoscente, invece aveva solo voglia di farla scendere da
quel muretto.
«È veramente ciò che vuoi?».
Colta di sorpresa dal tono duro della domanda, Elizabeth sollevò le
sopracciglia.
«Mmm?».
«Vuoi davvero rimanere qui?».
«Non lo so».
«Vuoi tornare a Babel con noi?».
«Non lo so. Non so più quale sia il mio posto».
Erano in due a non saperlo, ma Ofelia pensò che, a differenza di
Elizabeth, la persona che le fungeva da punto d’ancoraggio era ancora viva.
Si addolcì.
«Ci sono ancora venti spiriti di famiglia a cui potresti restituire la
memoria».
«Non lo so» si limitò a ripetere Elizabeth riportando lo sguardo indeciso
sulla cavalletta.
Ofelia la lasciò alle sue esitazioni e andò nel grande campo a maggese
che sorgeva dietro il villaggio. Ambroise aveva piazzato la sedia a rotelle
tra i denti di leone ormai in seme. Aveva dovuto soffiarne una quantità
considerevole per ingannare l’attesa: la sciarpa intorno al collo era piena di
peluzzi. Sentendo avvicinarsi Ofelia trasalì. Lei guardò il cielo con la sua
stessa concentrazione, cosa che risparmiava all’una e all’altro di guardarsi
in faccia. Era ancora presto per veder arrivare il lazarottero.
L’accampamento in cui il professor Lazarus aveva lasciato la sua macchina
volante era al di là delle coltivazioni e Thorn, diffidente, aveva voluto
andare con lui nonostante i problemi alla gamba.
«Mio padre aveva sulla testa un big bernoccolo».
Senza smettere di guardare il cielo, Ofelia ruotò gli occhi nell’angolo
cieco, verso quella presenza dai contorni confusi. Dopo il colloquio che
avevano avuto con Lazarus era la prima volta che sentiva la voce di
Ambroise. Si era espresso con dolcezza, quasi timidamente, come se
sentisse che c’era qualcosa di diverso fra loro.
Doveva dirgli che era l’eco di un uomo scomparso quarant’anni prima e
che il padre non era mai stato suo padre?
«Mi sono fatta prendere la mano».
«Non era arrabbiato con voi. Anzi, sembrava contento».
Altro che contento: quando l’eco di Ofelia si era manifestato attraverso
Walter, Lazarus l’aveva baciata su entrambe le guance. Non l’aveva affatto
presa sul serio quando gli aveva detto di non contare su di lei per le sue
utopie. Ma dopo tutto, visto che li portava al Corno dell’abbondanza...
Ambroise abbassò lo sguardo sulle babbucce al contrario.
«Padre si confida poco con me, ma so che si aspetta molto da voi,
probabilmente troppo. Non oso immaginare la pressione a cui già vi
sottoponete da sola per trovare l’Altro, da quando c’è stato il primo crollo.
Se penso che a un certo punto ho creduto che foste voi...» aggiunse un po’
imbarazzato.
Ofelia non poté evitare di dare un’occhiata al piccolo spazio libero sulla
nuca tra l’attaccatura dei capelli neri e la sciarpa a tre colori. Da qualche
parte su quella schiena, un codice di cui Ambroise non era consapevole lo
manteneva incarnato nella materia. Avrebbe dovuto sentirsi imbarazzata,
invece provava solo tristezza, non per ciò che Ambroise era davvero, ma
perché probabilmente era più felice non sapendolo. In fondo non era tanto
diverso da Faruk, che malgrado le tensioni politiche da lui generate per farsi
decifrare il Libro era solo una creatura in cerca di risposte, risposte in
seguito rimpiante amaramente. Erano due echi che dovevano la vita a poche
righe di scrittura, uno sulla schiena e l’altro in un Libro.
Si domandò se anche l’eco di Eulalia avesse bisogno di un codice per
manifestarsi. O era proprio quella la differenza fondamentale tra un eco
nato spontaneamente da una cristallizzazione e gli echi incarnati in modo
artificiale?
«Ho già trovato l’Altro» dichiarò Ofelia cogliendolo di sorpresa. «L’ho
trovato e non me ne sono accorta».
Stando a ciò che aveva detto l’Ombra, era qualcuno che le assomigliava.
“E se davvero l’Altro fossi io?”.
Il sorriso ironico che ebbe a quel pensiero si spense presto. Attraversa.
Quella notte, quando aveva incontrato per la prima volta l’eco di Eulalia
Diyoh nello specchio di camera sua, lei era entrata in lui e lui in lei.
Ne era davvero uscito?
Con i piedi tra i denti di leone Ofelia rimase immobile, impietrita. Il
cuore le pulsava in gola. Nei guanti, le mani divennero gelide. Ebbe
dapprima molto caldo, poi molto freddo, come se di colpo il suo organismo
prendesse coscienza dell’invasione di un corpo estraneo.
«State bene, miss?».
Nel caos del proprio respiro Ofelia lo sentì appena. No, l’Altro non
poteva essere lei, perché se ne sarebbe per forza resa conto, perché i crolli si
erano sempre prodotti a sua insaputa, e soprattutto perché non lo voleva,
punto e basta. Appallottolò il pensiero come se fosse stato un foglio di carta
e lo gettò idealmente il più lontano possibile. Aveva già un eco di troppo
incollato alla pelle, non gliene serviva certo un altro.
«Andrà meglio quando tutto sarà finito» rispose.
Sentì con sollievo il rumore del lazarottero in arrivo, e subito dopo la
grossa sagoma da libellula si stagliò sull’azzurro intenso del tardo
pomeriggio. Le eliche fecero volare ai quattro venti i peluzzi dei soffioni
mentre l’apparecchio atterrava nel campo. Walter dispiegò la passerella
meccanica.
«Welcome a bordo!» esclamo Lazarus dal posto di pilotaggio.
L’interno del lazarottero era buio, cigolante e stretto come l’abitacolo di
un sottomarino. Accecata dalla differenza di illuminazione, Ofelia trovò
Thorn andando a sbattere sul braccio che le porgeva per accompagnarla alla
sua imbracatura. Quanto a lui, si installò in un sedile a molle con una mano
aggrappata alla maniglia di sicurezza del soffitto e le gambe piegate al
massimo per non farsi schiacciare i piedi dalla sedia a rotelle di Ambroise.
Il viaggio minacciava di essere lungo.
«Aspettate!».
Elizabeth salì sulla passerella prima che Walter la ripiegasse, invadendo
così il poco spazio che rimaneva. Nei suoi occhi brillava un nuovo orgoglio.
«Sono una cittadina di Babel. Il mio posto è lì».
Decollarono. Ofelia aveva viaggiato in specchi e dirigibili, in treno,
clessidra, ascensore, trenuccello e sedia a rotelle, ma il lazarottero fu
senz’altro il mezzo di trasporto più scomodo di tutti. Le vibrazioni delle
eliche si trasmettevano ai sedili, scuotevano le ossa, toglievano ogni
fantasia di conversazione.
In compenso il lazarottero era veloce e dopo poche ore giunsero in vista
di Babel.
«By Jove!» esclamò Lazarus.
Ofelia, Thorn, Ambroise ed Elizabeth si liberarono dell’imbracatura e si
contorsero per guardare dal parabrezza, su cui i tergicristalli combattevano
contro l’umidità. Il mare di nuvole era impazzito: da una parte si ergevano
muraglie di vapore, da un’altra si aprivano pozzi di nulla. Nel giro di due
giorni e due notti Babel era diventata irriconoscibile. Giganteschi buchi
erano apparsi nel bel mezzo dell’arca maggiore, in uno dei quali era
sprofondata mezza piramide.
«I crolli aumentano» disse Thorn.
Elizabeth strinse le labbra livide.
«Lady Septima aveva promesso ai cittadini che nel centro città sarebbero
stati al sicuro. Si... si sbagliava».
Qua e là sotto la palude di nuvole i Babeliani affollavano le strade e
rivolgevano al lazarottero grandi gesti disperati, mentre le loro grida
venivano soffocate dalle eliche. La terra sui cui posavano i piedi era
diventata il loro peggior nemico.
“Non la terra” pensò Ofelia. “L’Altro”.
Rifiutò di chiedersi perché non fosse ancora stata capace di identificarlo.
Non voleva pensare al foglio appallottolato in fondo alla sua mente.
Nel frattempo non vedeva punti in città dove atterrare per lasciare
Ambroise ed Elizabeth, come invece avevano previsto di fare. Nessuno dei
due sapeva di essere stato, ognuno a modo suo, il giocattolo di Lazarus. A
Ofelia non andava per niente di trascinarli ancora negli ingranaggi
dell’osservatorio.
«Guardate!».
Ambroise si contorse sulla sedia a rotelle per indicare alcune forme
diluite dall’acquerugiola dietro il parabrezza. Gravitavano intorno
all’immensa torre ancora intatta del Memoriale di Babel.
Lazarus, che azionava instancabilmente leve e manovelle, guardò da un
periscopio.
«Sono aerostati» disse, «e non aerostati qualsiasi. Hanno le insegne degli
spiriti di famiglia di Corpolis, di Totem, di Al-Ondaluz, di Flore, di Sidh, di
Pharos, di Zefiro, del Tartaro, di Anima, di Vesperal, della Serenissima, di
Plombor, di Titan, di Selene, del Deserto e anche del Polo. Una riunione
interfamiliare di quest’ampiezza a Babel non s’era mai vista!».
Il cuore di Ofelia aveva battuto più forte alle parole Anima e Polo.
«I nostri spiriti di famiglia sono qui?».
Da quando era stato fondato il nuovo mondo nessuno di loro aveva mai
lasciato l’arca di cui era responsabile. Lazarus aveva ragione: era una cosa
mai vista.
«Probabilmente sono qui per lady Helena» disse Elizabeth espirando,
incastrata contro la scomoda corporatura di Walter. «Devono aver sentito la
sua scomparsa. Gli spiriti di famiglia sono collegati dai loro Libri, è una
delle poche cose che ho capito studiando quel codice».
Ofelia era ipnotizzata dalle macchie bagnate dietro il parabrezza. Una di
esse era il dirigibile di Artemide, un’altra quello di Faruk. Dovevano aver
fatto ricorso a tutte le risorse possibili e immaginabili, tecnologiche e
soprannaturali, per percorrere una tale distanza in così breve tempo. Era una
tortura non poterli raggiungere per chiedere se la sua famiglia stava bene.
Thorn si avvicinò a lei quel tanto che gli consentiva l’angusto lazarottero.
Nonostante i fitti peli che gli coprivano la faccia e le occhiaie che gli
inghiottivano gli occhi, sprizzava energia.
«Atteniamoci al piano» le disse all’orecchio. «Se tutti gli spiriti di
famiglia sono al Memoriale, Eulalia Diyoh non tarderà a farsi viva, e forse
pure il suo eco. Ora più che mai ci serve il Corno dell’abbondanza». Poi,
alzando la voce, ordinò a Lazarus: «Portateci direttamente all’osservatorio».
«All’osservatorio?» si stupì Elizabeth. «Ci hanno buttato fuori, di sicuro
non saranno contenti di vederci tornare».
Dal posto di pilotaggio Lazarus le fece l’occhiolino.
«Don’t worry, ho le mie entrature. Saremo al sicuro. Dopo tutto sono il
loro fornitore di automi preferito».
Suo malgrado, Ofelia ammirò la faccia tosta con cui quel vecchio si
appoggiava al vero per nascondere il falso. Il bernoccolo sulla fronte
diventava sempre più grosso: gliel’aveva fatto lei, eppure Lazarus
continuava a comportarsi da vincitore. Per quanto si ripetesse che dovevano
unire le loro forze per salvare il salvabile, non si fidava affatto di lui. E lì
all’osservatorio sarebbero stati sul suo territorio.
Almeno fu quello che Ofelia pensò scorgendo il colosso in mezzo a un
turbine di nuvole e che pensava ancora quando il lazarottero si posò in cima
alla sua testa, su una piattaforma d’atterraggio di cui fino a quel momento
ignorava l’esistenza. Continuò a pensarlo quando Lazarus li guidò fino a un
ascensore segreto che scendeva direttamente nel cranio della statua.
Cominciò a cambiare idea solo una volta all’interno degli appartamenti
direttoriali.
Abbracciati su una poltrona da ufficio, un uomo e una donna stavano
assaggiando dolcetti allo zafferano.
«Eccoci finalmente riuniti!» esclamarono i Genealogisti all’unisono.
L’ABBONDANZA

Una pioggia mista a sole batteva sui rosoni che erano in realtà gli occhi
del colosso. L’ombra delle gocce colava sui sorrisi dei Genealogisti. Si
abbracciavano in maniera così appassionata da formare un solo e unico
corpo. L’oro eclissava il mondo intorno a loro, tanto che Ofelia ci mise un
po’ a realizzare che non erano soli.
Negli appartamenti direttoriali le guardie di Polluce stavano svuotando le
librerie del loro contenuto. Fascicoli di internati, immagini mediche,
prendevano tutto. Appena l’ascensore segreto si era aperto su Lazarus,
Ofelia, Thorn, Ambroise, Elizabeth e Walter si erano fermate, pronte a
mettere mano ai fucili a baionetta che portavano a tracolla. Aspettavano
solo un ordine dei Genealogisti.
L’uomo aveva segnalato loro di proseguire gesticolando con un pezzetto
di dolce mentre la donna si leccava le dita.
«Ma che bella sorpresa!».
«Cominciavamo a sentirci un po’ soli».
«Qui non c’è più nessuno».
«Né osservatori».
«Né collaboratori».
«Né pazienti».
«Non c’è un cane».
Ofelia dette uno sguardo dal rosone più vicino. In effetti chiostri e
giardini erano deserti. Dov’era finito l’uomo con la fossetta? E la donna con
lo scarabeo? E gli altri invertiti? E Seconda? E il cavaliere?
Accanto a lei, Thorn non lasciò trapelare alcuna emozione, ma a Ofelia
sembrò che l’orologio nella sua tasca avesse smesso di fare tic-tac. Thorn
aveva voluto battere in velocità i Genealogisti con cui aveva stretto e poi
rotto un patto, e gli era andata male. Lo sfrigolio elettrico dei suoi artigli, al
quale Ofelia alla fine si era abituata, era cessato di colpo. Alla sola idea che,
dopo aver guardato così spesso la morte in faccia, Thorn potesse avere
paura fu presa dal panico.
Ambroise, anche lui colpito, accarezzava la sciarpa per calmare
l’agitazione di cui si sentiva sempre più preda.
Nell’aria aleggiava una minaccia, come un odore di gas. Stava per
succedere qualcosa di terribile, ma cosa?
Quanto a Lazarus, non apparve né sorpreso né preoccupato
dall’intrusione dei Genealogisti nel suo osservatorio. Con i pollici infilati
nei taschini della redingote, era come al solito eccessivamente sicuro di sé.
Con un movimento sincrono i Genealogisti si rivolsero a Elizabeth, che
fece un passo indietro.
«Che bello vedervi sana e salva, virtuosa».
«Obbligarvi a salire su quel dirigibile è stato un insulto al vostro talento».
«Lady Septima si è mostrata really indegna della sua funzione».
«A causa sua in tutta Babel sono dilagati i tumulti».
«Del resto in questo stesso momento sta pagando le sue colpe».
«I nostri bravi concittadini l’hanno lanciata nel vuoto».
«Più dura sarà la caduta!» conclusero in coro.
Ofelia li trovava disumani. Anche quando sorridevano, l’oro della pelle
non era solcato da alcuna ruga, forse conseguenza del loro potere familiare.
Pensò a lady Septima che stava precipitando all’infinito nell’abisso che le
aveva inghiottito il figlio.
Da come contraeva le unghie sporche sulle maniche della divisa Ofelia
capì che anche Elizabeth era spaventata. Seguiva con occhi sgranati
l’andirivieni delle guardie che portavano via scatole contenenti la vita
privata di centinaia di pazienti. I Genealogisti avevano approfittato del caos
per prendere possesso con la forza di quel luogo a cui non avevano mai
avuto accesso. Babel agonizzava e i suoi più alti dignitari erano
comodamente seduti in una poltrona che non era loro.
«Gli spiriti di famiglia sono tutti al Memoriale per fare fronte alla crisi»
articolò Elizabeth con difficoltà. «Perché non siete con loro?».
Mai Ofelia avrebbe immaginato che di tutte le persone presenti sarebbe
stata Elizabeth a tenere testa ai Genealogisti.
Si alzarono in piedi come un unico corpo.
«Perché è un compito che ormai spetta a voi».
«Babel ha bisogno di una cittadina esemplare e devota».
«Come sir Polluce ha bisogno di noi, ora più che mai».
«Qualcuno deve fargli da memoria vivente e dire, a lui come agli altri
spiriti di famiglia, qual è il suo vero posto».
«Eccovi elevata al rango di Lord di LUX!».
Incredula, Elizabeth guardò il sole che i Genealogisti le avevano appena
appuntato sul petto. Era lo stesso emblema che Thorn aveva restituito a lady
Septima, Ofelia ci avrebbe giurato. Non era una promozione, era
un’alienazione.
«Un aerostato è ormeggiato nel piazzale» disse l’uomo.
«Prendetelo e andate al Memoriale» disse la donna.
«Now» dissero insieme.
Le guardie di Polluce, che avevano finito di svuotare l’ultima libreria,
formarono due ali fino alla porta con le scatole in braccio, come una strada
tracciata. Elizabeth non aveva mai amato il peso delle responsabilità né le
luci della ribalta. Quel nuovo titolo aveva l’aria di un brutto scherzo.
Seguita dalla scorta armata, lasciò gli appartamenti dopo aver dato un
ultimo sguardo a Ofelia.
Andata via lei, sul posto erano rimaste solo cinque guardie: due appostate
all’ingresso degli appartamenti, due davanti all’ascensore segreto e una che
teneva d’occhio Lazarus, sempre troppo sorridente, come se fosse il più
pericoloso di tutti. Cinque fucili erano ancora troppi per pensare a una fuga.
Dal modo in cui le lunghe dita di Thorn fremevano, Ofelia capì che stava
passando in rassegna tutte le opzioni per capovolgere la situazione. Da
quando erano usciti dall’ascensore non l’aveva più guardata né si era
avvicinato a lei, come quando voleva fare credere a tutti che la sua
fidanzata non fosse niente per lui. Anche Ofelia evitava di alzare gli occhi
su di lui per paura di scatenare un’esplosione in quel gas deleterio che si
andava condensando intorno a loro.
I Genealogisti si dedicarono allora ad Ambroise. Velenosi fino alla radice
dei capelli. Il giovane trasalì quando la donna, in un fruscio di seta, si
avvicinò alla sedia a rotelle. Una tigre di fronte a un’antilope.
«Che affascinante deformità... Siete fuori dall’ordinario, ragazzo mio, e
non mi riferisco soltanto alle vostre membra».
«Padre?» chiamò piano Ambroise.
Lazarus, sempre tenuto di mira, gli sorrise a distanza.
«Tranquillo, andrà tutto per il meglio».
«Andrà tutto per il meglio» ripeté la Genealogista.
Poi la donna accarezzò i palmi di Ambroise, ne seguì ogni linea, e presto
le braccia di entrambi ebbero la pelle d’oca. A un certo punto la donna, che
si serviva del suo potere di Tattile per interrogare quell’epidermide a lei
estranea, rilassò le sopracciglia come se avesse trovato quel che stava
cercando. Lentamente, sensualmente, passò le dita d’oro tra i capelli di
Ambroise, sotto la sciarpa che a quel contatto drizzò i peli, sotto il colletto
della tunica bianca.
Ofelia capì troppo tardi cosa stesse succedendo. Ambroise emise un
singhiozzo stupito, uno solo. L’attimo dopo sulla sedia a rotelle non restava
più niente di lui, solo la sciarpa che batteva l’aria inebetita e un raggio di
sole inframmezzato da pioggia.
Evaporato come fumo.
La donna teneva tra pollice e indice una vecchia placchetta d’argento su
cui era incisa una scritta microscopica, il codice che per decenni aveva
mantenuto un eco ancorato nella materia e che lei aveva tolto come
un’etichetta.
Tutto si era svolto così in fretta che Ofelia non aveva avuto il tempo di
respirare, e ancora le mancava il fiato. Cuore, polmoni e sangue si erano
bloccati.
«Peccato» sospirò Lazarus. «Avete danneggiato il codice. Era really
necessario?».
Le guardie rimaste nella stanza fissavano un punto immaginario davanti a
sé senza battere ciglio, come per convincersi di non aver visto niente.
Con uno stesso gesto i Genealogisti indicarono Walter.
«Andate e portate con voi quell’automa».
Le guardie ubbidirono. Mentre uscivano dagli appartamenti con Walter,
che si lasciò condurre via spruzzandole di acqua di Colonia, le loro
espressioni tradivano sollievo.
Appena la grande porta d’ebano si fu richiusa Ofelia sentì un contatto
duro su entrambe le guance. Due pistole d’oro. Con una pressione delle
canne i Genealogisti la obbligarono ad alzare gli occhi su Thorn.
«La guardia di Polluce non è l’unica autorizzata a portare materiale per la
prevenzione della pace» avvertirono.
«Siete stato una vera delusione come grande ispettore familiare».
«Chiudevamo gli occhi sui vostri numerosi misteri».
«Finché in quest’osservatorio eravate dei nostri».
«Ma avete disertato per andarvene con questa piccola Animista».
Ofelia non era del tutto consapevole delle due armi puntate contro di lei
né della promiscuità dei Genealogisti, i cui capelli d’oro si mischiavano ai
suoi, e neppure dell’immobilità predatrice di Thorn. Vedeva solo il vuoto
all’altro capo della sciarpa. Ambroise era lì e l’attimo dopo non c’era più.
L’aveva accolta, guidata, sfamata, ospitata, consigliata... e non c’era più.
Senza allentare la pressione della pistola la donna lanciò a Lazarus la
targhetta con il codice che aveva strappato.
«Siamo onorati di incontrare il vero autore del progetto Cornucopiando».
«Per essere sinceri, professore, fino a poco tempo fa vi giudicavamo di
scarso interesse».
«Sapevamo che eravate al servizio di Eulalia Diyoh, of course».
«Ma mai avremmo pensato che foste capace di farle concorrenza».
«Solo di recente abbiamo capito quanto vi avevamo sottovalutato».
Lazarus sollevò gli occhi dalla targhetta che aveva tra le mani con un
accenno di sorriso all’angolo delle labbra. La brutale scomparsa di
Ambroise non l’aveva scosso.
«E cos’è stato a farvi cambiare idea?».
Ofelia non riusciva a vedere l’espressione dei Genealogisti, che le
stavano troppo vicino, ma vide Thorn contrarsi in tutto il corpo quando
aumentarono la pressione delle pistole sulle sue guance.
«Questa piccola Animista che abbiamo incontrato per caso».
«Durante il censimento, a un tavolo del Memoriale».
«Abbiamo dato un’occhiata al suo incartamento».
«Eulalia non è certo un nome comune a Babel».
«Ed è particolarmente carico di significato».
«Così abbiamo fatto qualche ricerca su di lei».
«E abbiamo saputo che abitava a casa vostra mentre non c’eravate».
«E scoperto l’esistenza del vostro cosiddetto figlio».
«Un figlio che non figurava da nessuna parte sul vostro albero
genealogico».
«E che stavate ben attento a tenere nascosto nella vostra ombra».
«Del quale, a forza di perseverare, abbiamo trovato traccia nei nostri
archivi».
«Un semplice senza-poteri nato nel quartiere della vostra infanzia».
«Internato insieme a voi in quest’osservatorio».
«Che in quarant’anni non è invecchiato di un capello».
«Lady Septima, decisamente poco ispirata, l’ha espulso senza permetterci
di conoscerlo».
«Per fortuna avete provveduto voi a tornare da noi!» conclusero insieme.
Lazarus aveva placidamente annuito a ogni affermazione dei
Genealogisti.
«Perché non mi dite quel che volete da me e dal mio modesto
osservatorio?».
Le pistole vibrarono di eccitazione contro la faccia di Ofelia, costretta
all’immobilità assoluta.
«L’abbondanza!» risposero i Genealogisti.
«L’unica cosa che conti davvero».
«Un’abbondanza di tempo».
«L’immortalità».
La sciarpa non la smetteva di cercare sulla sedia a rotelle un corpo che
non c’era più. Ofelia non riusciva a smettere di guardarla. I Genealogisti
non avevano capito niente di quel che era il Corno dell’abbondanza.
Avevano distrutto Ambroise senza sapere chi fosse davvero. Non
meritavano l’immortalità.
Non meritavano la vita.
Presa nella morsa delle due pistole, Ofelia chiuse gli occhi per collegarsi
al loro midollo spinale. Non voleva respingerli, voleva fare male, piantare
gli artigli nei loro corpi tanto a fondo quanto glielo consentiva il suo potere.
Non ci riuscì.
Stringendo i denti per estendere al massimo la propria percezione
raggiungeva il sistema nervoso di Thorn e di Lazarus, ma non quello dei
Genealogisti. La loro pelle era una fortezza impenetrabile.
Riaprì gli occhi e incrociò più in alto quelli di Thorn, che le intimavano
di non fare niente. Capì perché Thorn temesse i Genealogisti. Uccidere ed
essere uccisi non era un problema per loro.
Il loro fiato le scottò le orecchie.
«Sembra che non invecchiamo, ma è solo un’apparenza».
«Sotto la pelle i nostri corpi muoiono ogni secondo».
«Siamo stanchi di sprecare tempo».
«E siamo stanchi di perquisire questo posto».
Ofelia fu attraversata da una speranza vedendo il dirigibile di LUX alzarsi
dietro i rosoni, ma l’apparecchio continuò a salire e sparì in lontananza,
verso il Memoriale. Elizabeth non aveva potuto fare altro che ubbidire ai
Genealogisti, ma lei si sentì lo stesso abbandonata.
«Mi inchino al vostro volere» disse allora Lazarus chinando umilmente la
testa. «Vi porto al Corno dell’abbondanza, ma a condizione che ci andiamo
tutti insieme. E non fate del male ai miei soci, d’accordo?».
I Genealogisti fecero segno a Lazarus di guidarli, a Thorn di seguirlo, e
con la punta delle armi spinsero avanti Ofelia, che per non lasciare indietro
la sciarpa fu costretta a strapparla dalla sedia a rotelle. Stretta al petto,
quella lana scalpitante le dava l’impressione che il cuore le fosse uscito dal
torace.
Non si faceva illusioni. Una volta in possesso del Corno dell’abbondanza
i Genealogisti si sarebbero sbarazzati di loro.
Lazarus non chiamò il grande ascensore dell’anticamera, li fece scendere
per la scala nascosta che Ofelia e Thorn avevano salito in occasione del loro
appuntamento clandestino. Tutti si infilarono nelle viscere della statua,
lontani da sole e pioggia. La luce delle lampadine sfrigolanti mischiava le
loro ombre alle ragnatele.
Lazarus, fischiettando, ogni tanto svoltava a destra e ogni tanto
imboccava un corridoio a sinistra. Aveva intenzione di farli smarrire nei
labirinti dell’osservatorio? Ofelia non avrebbe saputo dire chi, tra lui e i
Genealogisti, le ispirasse meno fiducia. Lazarus sosteneva che Ambroise
fosse importante, ma la sua atroce e improvvisa scomparsa non gli aveva
fatto né caldo né freddo. Se necessario, avrebbe sacrificato i propri soci
senza rimpianti.
Ancora più presente delle pistole, Ofelia sentiva su di sé l’attenzione
muta di Thorn, che analizzava, quantificava, valutava ed elaborava calcoli
senza fermarsi un attimo.
Dopo interminabili giri tortuosi arrivarono a una banchina sotterranea in
cui un treno sembrava aspettarli da sempre. Mentre saliva a bordo con una
pistola puntata contro ciascun fianco Ofelia constatò che erano gli stessi
sedili di velluto e gli stessi abat-jour della carrozza su cui aveva già
viaggiato una volta. La destinazione sarebbe stata diversa?
«Vi raccomando di prendere posto» disse Lazarus dando l’esempio. «La
pendenza è notevole».
Su quelle parole la porta si chiuse e il treno cominciò la discesa nel
tunnel. Ofelia veniva da un’arca in cui capitava che i calessi e i tram
facessero talvolta di testa loro, ma quel treno sembrava davvero possedere
una volontà propria. Era anche lui un eco incarnato? Stretta suo malgrado
tra i due Genealogisti si concentrò invano sulle armi che le facevano male
alle costole. L’oro era un materiale dotato di forte personalità, anche per
un’Animista: era più facile manovrare un dirigibile che far intendere
ragione a quelle pistole.
Dando un’occhiata dal finestrino colse un sorriso sul proprio riflesso nel
vetro. In un primo momento pensò a una contrazione nervosa, poi capì che
non era lei a sorridere, ma il suo eco. Era lì. Stava continuando a seguirla.
La visione durò un istante, subito dopo sparì dal vetro, ma per Ofelia fu
estremamente confortante.
Strinse a sé la sciarpa e incrociò lo sguardo acuminato di Thorn seduto di
fronte. Come lei, era ferocemente determinato a venirne fuori. In un modo o
nell’altro avrebbero trovato una soluzione. Insieme.
Un brusco scossone indicò che il treno si era fermato.
Da principio, appena scesa dal predellino, Ofelia non vide granché, ma fu
aggredita da un odore molto forte. Era come respirare roccia. Il luogo non
era affatto buio, ma più sbatteva le ciglia e meno riusciva a delimitarne i
contorni. Si trattava di una caverna di un’altezza vertiginosa con le pareti
crivellate di gallerie da cui file di vagoncini arrivavano e ripartivano in
continuazione. La dimensione di stalattiti e stalagmiti dava la sensazione di
essere entrati nelle fauci di una Bestia.
Ofelia quasi si scordò delle pistole.
Strizzò gli occhi verso i due specchi parabolici su entrambi i lati della
caverna, orientati uno contro l’altro, ciclopici, che giravano come mulini.
Erano caleidoscopi ancora più folli di quelli che aveva visto all’osservatorio
e, a giudicare dai fasci di cavi, erano loro ad assorbire quasi tutta
l’elettricità.
«Il Corno dell’abbondanza!» mormorarono i Genealogisti guardando una
parabola ciascuno.
Lazarus, con gli occhi coperti dal riflesso degli occhiali, fece un sorriso
indulgente.
«In fact, no. Queste macchine servono solo a ottimizzarlo. Il vero Corno
dell’abbondanza è quello!».
E con una gestualità da prestigiatore consumato indicò una gabbia in
mezzo alla caverna, all’intersezione delle due parabole. Sembrava una
voliera. A parte le grosse dimensioni non era impressionante in sé, ma il suo
contenuto lo era ancora meno.
Dentro la gabbia non c’era niente.
LA CADUTA

Trascinata dai Genealogisti, solo quando giunse vicino alla gabbia Ofelia
capì che non era poi così vuota. Nel suo centro galleggiava un minuscolo
scintillio, appena più grosso della punta di un ago. Le fece venire in mente
le particelle di polvere sospese nel sole davanti agli interstizi delle persiane,
solo che quella non si muoveva in tutte le direzioni, era immobile e
immutabile. E prigioniera, visto che la gabbia era chiusa da un chiavistello.
Contro i suoi fianchi Ofelia sentì i Genealogisti irrigidirsi. Ne percepì i
muscoli contratti, il respiro, la cipria, quasi i pensieri.
«Aprite».
La loro voce aveva perso ogni lascivia, era brama allo stato puro.
«Pazienza, pazienza!».
Lazarus si frugò una per una le tasche della redingote, poi si mise a ridere
dandosi un colpetto sulla fronte, infine estrasse una chiave dal calzino
sinistro. Ofelia non riusciva a credere che per tutto quel tempo si fosse
tenuto addosso una cosa così preziosa, per giunta in un calzino. Qualcuno
doveva per forza averne una copia. Alzò gli occhi verso l’intreccio di rotaie
sulle quali i vagoncini viaggiavano tra le gallerie minerarie della caverna.
Anche se non era facile distinguere con precisione ciò che non era
illuminato dagli arcobaleni in movimento dei caleidoscopi giganti, intuiva
l’eccesso di oggetti e sentiva scricchiolii di mobili, stoviglie che sbattevano
fra loro e altre sonorità ottuse tipiche dei difetti di fabbricazione. Era stata
una minuscola scintilla a creare tutto ciò?
Lo scatto del chiavistello le fece riportare l’attenzione su Lazarus, che
spalancò la porta della gabbia alta come lui.
«Prima di proseguire vorrei fare una dichiarazione» disse con orgoglio.
Con un movimento perfettamente simmetrico i Genealogisti tolsero le
pistole dai fianchi di Ofelia e le puntarono su di lui. Due spari. Due
pallottole d’oro in mezzo al petto. L’impatto proiettò Lazarus lontano dalla
gabbia mentre nella caverna risuonava all’infinito il doppio colpo d’arma da
fuoco. Ofelia ebbe la sensazione che le risuonasse dentro. Thorn la tirò
bruscamente indietro mentre i Genealogisti, con moto inverso, andavano
verso la gabbia mano nella mano, con le pistole ancora fumanti in pugno.
Non degnarono di uno sguardo il corpo di Lazarus che giaceva sotto i colori
fluttuanti delle parabole col sorriso stampato sulla faccia. Tra loro e il
Corno dell’abbondanza non c’era ormai più nessuno.
«Aveva un piano» mormorò Thorn all’orecchio di Ofelia. «È logico che
ne avesse uno».
I Genealogisti entrarono nella gabbia come due fenici pronte a rinascere,
col profilo rivolto alla minuscola scintilla piena di infinito. Dovevano solo
allungare la mano.
«Dacci l’eternità».
Non era una supplica, era un ordine.
I Genealogisti non si mossero più. Thorn aveva smesso di respirare e la
sciarpa di muoversi. Lazarus era un cadavere a terra. Il Corno
dell’abbondanza aveva dilatato la trama del tempo iniettandovi una
produzione esagerata di secondi, minuti, ore, anni. Almeno così Ofelia
avrebbe creduto se non avesse sentito il proprio cuore battere a tutta
velocità nell’attesa che qualcosa si degnasse di succedere.
Quel qualcosa si manifestò sotto forma di un’aureola intorno ai
Genealogisti, che assistevano con occhi sgranati alla loro gloriosa
metamorfosi. L’aureola si opacizzò in una nuvola dorata che riempì la
gabbia, i loro occhi si ingrandirono di più, la nuvola divenne rossa e Ofelia
capì che erano i loro corpi – pelle, organi, trucco – che si stavano
frantumando in migliaia di briciole. Nessun gridò uscì dalle loro bocche
aperte, e poco dopo non ci furono più bocche del tutto. I Genealogisti erano
diventati una nebbia che la scintilla aspirava poco a poco, molecola dopo
molecola, come avrebbe fatto un apparecchio di ventilazione, fino a che
nella gabbia non rimase più niente.
Il Corno dell’abbondanza li aveva divorati.
Allora la scintilla si mise a brillare di più e diffuse nella gabbia un’altra
nebbia, stavolta argentea. Aerargyrum? si domandò Ofelia morbosamente
affascinata. Perché fosse visibile a occhio nudo doveva essercene una
concentrazione fenomenale. Poco a poco la nebbia cambiò aspetto, prese
colore, si solidificò fino a materializzarsi in uomini e donne: gli echi
incarnati dei Genealogisti. La gabbia ne era piena. Corpi deformi, facce
irriconoscibili. Copie fallate.
Ofelia e la sciarpa rabbrividirono. Era quindi quello il vero potere del
Corno dell’abbondanza?
«Abbiamo compagnia» disse Thorn.
Un rumore di passi giunse dalle profondità in cui si sovrapponevano tutte
le ombre. Qualcuno si stava avvicinando. Quando i passi entrarono nel cono
di luce elettrica dei caleidoscopi Ofelia ebbe uno shock ancora più grande
di quelli che aveva provato fino a quel momento. Ambroise si dirigeva
verso di loro. Più che camminare si contorceva, ma era lì in piedi, molto
vivo, in carne e sorriso. Non era solo. Un altro Ambroise lo seguì nella luce,
poi un terzo, un quarto, e ben presto dall’oscurità emerse una pletora di
sosia. Si somigliavano tutti, eppure ognuno soffriva di un’asimmetria
diversa. Erano gli echi incarnati di un Ambroise originale scomparso
quarant’anni prima.
Non dissero niente a Ofelia e Thorn, ma passando li salutarono con un
cordiale cenno del capo. Erano scortati da numerosi automi con targhette
codificate e cassette di attrezzi. Si raggrupparono intorno alla gabbia e,
riproducendo gesti ripetuti mille volte, fecero uscire gli echi senza
precipitazione, ma stando attenti a non attardarsi all’interno delle sbarre, poi
richiusero il chiavistello. Appena un Ambroise metteva una targhetta sulla
schiena di un eco quest’ultimo cambiava aspetto. I lineamenti dei
Genealogisti, naso, occhi, orecchie, capelli, carne, muscoli, si cancellavano
fino a perdere ogni residuo di umanità.
«Automi».
La voce di Ofelia aveva perso qualsiasi inflessione. Ripensò
all’implosione di Hugo nell’anfiteatro e alla fabbrica in cui si erano rifugiati
per sfuggire alle pattuglie. Niente di tutto ciò era vero. Erano solo artifici
per impedire ai cittadini di Babel di conoscere la vera natura degli automi.
Con tutta probabilità Lazarus non ne aveva mai creato uno in vita sua. Si
era servito di un codice per rimodellare echi veri in macchine finte.
Guardandoli con occhi diversi Ofelia realizzò che la morfologia di molti
automi lì presenti le era familiare. Un gruppo le ricordava Mediana, un altro
gruppo il cavaliere. Alcuni si colpivano l’orecchio sinistro imitando una
mania che non aveva più senso, altri portavano sulla spalla una
riproduzione dell’animale meccanico dei loro ex proprietari: uno scarabeo,
una scimmietta, una lucertola... Tra loro c’era anche il pappagallo
meccanico che aveva accolto la cristallizzazione di Ofelia nella cappella.
All’osservatorio delle Deviazioni non c’era più nessuno perché tutti i
suoi occupanti avevano varcato la porta della gabbia. L’avevano fatto in
quanto ultima tappa del programma alternativo o era stato un atto disperato
per sfuggire al crollo finale del mondo?
Ofelia aveva esaurito la capacità di stupirsi. Non sollevò neanche un
sopracciglio quando il cadavere di Lazarus si raddrizzò tossendo e
ridacchiando, aiutato a rimettersi in piedi da alcune repliche di Ambroise.
«Tutto ciò che entra nella gabbia si trasmuta: ecco quello che volevo dire
prima che quei due maleducati mi togliessero la parola».
Si riaggiustò gli occhiali rosa sul naso, poi si tolse la pettorina di metallo
nascosta sotto la redingote in cui si erano fermate le pallottole senza riuscire
a perforarla.
«Lo sapevate» disse Thorn con voce sorda. «Sapevate esattamente cosa
sarebbe successo».
Sentendolo pronunciare quelle parole Ofelia si rese conto che la
situazione si era capovolta, e non a loro vantaggio. Si trovavano sottoterra,
lontani da tutto, di fronte a una scintilla imprevedibile, circondati da un
esercito di echi incarnati al servizio di un solo uomo, il più temibile di tutti.
Il pericolo non erano più i Genealogisti, in realtà non lo erano mai stati, il
pericolo era Lazarus.
«Solo a grandi linee!» rispose costui con espressione divertita. «Più che
altro mi sono fidato del mignolo».
E agitò il suddetto mignolo facendo segno a qualcuno dietro di loro di
venire avanti. Seconda avanzò nella palude degli arcobaleni. Era l’unico
essere umano dell’osservatorio a non essere stato trasformato in automa
mentre loro non c’erano? Abbandonata a se stessa aveva perso la fasciatura,
e uno sfregio crostoso le fendeva il naso come un sorriso di sangue. Thorn
si contrasse ancora di più e Ofelia capì che si stava imponendo di non
distogliere lo sguardo. Eppure Seconda emanava un’improvvisa armonia,
come se a dispetto delle loro contraddizioni i suoi lineamenti si fossero
messi d’accordo per esprimere la stessa eccitazione.
Era la prima volta che non aveva con sé materiale da disegno. Né matita
né carta.
Passò decisa tra Ofelia e Thorn, obbligando quest’ultimo a spostarsi
zoppicando per evitare un altro incidente di artigli, e andò dritta verso
Lazarus guardandolo con il suo occhio bianco spalancato.
«L’orizzontalità eccessiva sfugge da tutte le vene della navata laterale...».
Senza dare la minima importanza alle cose che borbottava Seconda,
Lazarus le posò una mano sulla testa.
«È vero che in sogno posso intravedere certi echi anticipatori, ma non è
niente in confronto allo sguardo di Seconda. Non è mai riuscita a stabilire
un dialogo con gli echi né a indurre una cristallizzazione, ma li decifra
meglio di chiunque altro. In un primo momento lady Septima ha visto la sua
deviazione come una vergogna, poi come una scusa per infiltrarsi nel mio
osservatorio. Pensava in questo modo di servire la causa dei Genealogisti,
ma è a me che ha fatto un regalo absolutely fabulous!».
«E baciano le ciliegine percuotendo l’insonnia...» continuò Seconda,
imperturbabile.
Da una tasca interna Lazarus prese il portafoglio di pelle, che puzzava in
maniera spaventosa, tirò fuori una fotografia sbiadita dal tempo, dal caldo e
dall’umidità e la porse a Ofelia. Era la foto di un disegno attaccato a un
muro con le puntine. Di un realismo sconvolgente. Raffigurava con molta
precisione la gabbia del Corno dell’abbondanza, in cui brillava la scintilla, e
tre persone accanto alla porta spalancata: Lazarus, Seconda e una donna.
Una piccola donna in tunica con gli occhiali e la sciarpa.
Ofelia avrebbe voluto far fare a quella foto la fine che avevano fatto gli
altri disegni, strapparla a pezzettini e gettarla nel gabinetto, ma Lazarus
gliela riprese e la rimise nel portafoglio.
«È grazie alla cara Seconda se non ho mai perso fiducia nel futuro.
Sapevo che prima o poi sarebbe successo quello che sta succedendo og...».
«Siete un ipocrita» lo interruppe Thorn. «Porre fine all’asservimento
dell’uomo all’uomo! Quanti ne avete sacrificati strada facendo?».
Lazarus accennò un sorriso indulgente, ma lo indirizzò a Ofelia. Per lui
Thorn era trasparente.
«Non ho mai sacrificato nessuno. Nessuna delle persone che hanno avuto
il privilegio di entrare nella gabbia è morta. Esistono ancora, ma in un modo
che la vostra mente e i vostri sensi non riescono a concepire».
«E ciò dirige gli spazi fino a che la bottiglia si contrae...».
«Sono stati convertiti in aerargyrum» continuò Lazarus con una voce
esaltata che copriva quella di Seconda. «E gli echi prodotti da quella
trasmutazione sono stati convertiti in materia solida. Funziona sempre così,
presumo che sia una questione di equilibrio».
Ofelia aveva male agli occhi a forza di sgranarli. Immaginava le
molecole dei Genealogisti che galleggiavano nell’aria intorno a loro allo
stato gassoso. Magari li stava respirando. A suo modo di vedere, ciò che
stava descrivendo Lazarus era peggio della morte.
Poi la voce del professore assunse il tono del racconto.
«Migliaia di anni fa, nell’antica Babel, sopra le nostre teste è stata
costruita una città imperiale. Durante i lavori i costruttori hanno scoperto
una caverna, e nella caverna una minuscola particella di luce. Da quanto
tempo era lì? Nessuno lo sapeva, ma chiunque si avvicinava a quella
scintilla veniva inghiottito e rigurgitato sotto forma di due echi mostruosi.
Allora hanno costruito una gabbia».
Due? si stupì Ofelia dentro di sé. I Genealogisti ne avevano prodotti
molti di più.
«Ignoriamo l’uso che abbiano fatto i nostri antenati di questa scoperta,
fatto sta che a un certo punto hanno chiuso la caverna. Il Corno
dell’abbondanza è diventato una leggenda. Poi un giorno, molto tempo
dopo, in una Babel devastata dalla guerra, l’hanno ritrovata per caso i
militari mentre cercavano giacimenti nel sottosuolo dell’antica città
imperiale».
Lazarus raccontava la storia come se la narrasse a se stesso, talmente
preso da dimenticare l’Index.
«È stato l’inizio di esperimenti extremely elaborati. I militari si sono
accorti che in prossimità di materiali riflettenti la particella diventava più
grande». Indicò le gigantesche parabole che facevano girare i caleidoscopi.
«Più la particella era grande e più numerosi erano gli echi. La stessa Eulalia
Diyoh è stata qui!» esclamò trattenendosi dal baciare il suolo da lei
calpestato. «I bombardamenti hanno messo fine agli esperimenti, la
Lacerazione ha fatto volare in pezzi il vecchio mondo e il Corno
dell’abbondanza è di nuovo caduto nell’oblio. Fino a che io l’ho ritirato
fuori! La trasmutazione è un’idea difficile da accettare» ammise. «È il
motivo per cui ho installato una finta fabbrica in centro città nonché un
codice di autodistruzione degli automi, per proteggere il segreto della loro
fabbricazione. Ma si avvicina il giorno in cui potrò finalmente rendere note
le mie ricerche senza scioccare l’opinione pubblica. Ambroise!».
Gli adolescenti che si stavano dando da fare intorno ai nuovi automi si
voltarono subito verso Lazarus.
«Procediamo a una piccola dimostrazione per la nostra ospite».
«Sì, professore».
Le loro dolci voci risuonarono come un coro sotto l’immensa volta della
caverna. Ofelia si contrasse e sentì la sciarpa contrarsi: nessuno di loro
sarebbe mai stato l’Ambroise che avevano imparato a conoscere. Quelli si
limitavano a mimare un modello scomparso, avevano sguardi vuoti, assenti.
«E il muro è un profumo bianco che deraglia...» declamò Seconda.
Uno degli Ambroise prese una chiave che passò di mano deforme in
mano deforme fino a un altro Ambroise che stava vicino alla gabbia.
Riaprirono il chiavistello, poi, con una catena di gesti ripetitivi,
cominciarono a portare oggetti prelevandoli da un convoglio di vagoncini.
Ogni volta fu lo stesso rituale. Depositavano all’interno della gabbia un
oggetto in perfetto stato, tipo una sedia, un sacco di riso o un paio di scarpe,
e aspettavano che la materia fosse decomposta e ricomposta dalla scintilla.
Poi recuperavano copie irriconoscibili che acquistavano una forma
definitiva solo una volta messo il sigillo: sedie sbilenche, riso andato a
male, scarpe che non si potevano calzare.
Thorn seguì il procedimento con la massima concentrazione. Anche in
quel frangente, intrappolato nelle viscere dell’osservatorio, pensava solo a
come servirsi della scintilla per i propri fini.
Lazarus passò delicatamente un fazzoletto su una sbarra della gabbia,
come se fosse la cornice di un quadro famoso.
«Il codice serve solo a stabilizzare l’eco nella materia e correggere le sue
imperfezioni, nel limite del possibile. Senza il codice, l’eco non si
manterrebbe solido a lungo. Da una sola offerta il Corno dell’abbondanza
produce una moltitudine di duplicati. È uno scambio molto vantaggioso. In
fact, può anche riprodurre nuovi echi a partire da un eco già materializzato,
ma purtroppo più ci si allontana dal modello originale e più i duplicati
presentano difetti».
Per illustrare le sue parole tamburellò sul turbante di un Ambroise che
aveva gli occhi al posto delle orecchie e il naso sottosopra.
«L’Ambroise che ha vissuto con me in tutti questi anni faceva parte della
prima generazione di echi. Sapete, il mio vecchio amico si era offerto
volontario per entrare nella gabbia. Voleva essere trasmutato in aerargyrum,
vivere l’esperienza dall’interno. La sua curiosità scientifica era
ineguagliabile! In realtà, my dear» disse facendo l’occhiolino a Ofelia,
«l’eco che avete frequentato era una pallida imitazione del mio amico.
Somigliante, certo, anche commovente, ma pur sempre un’imitazione. In un
certo senso è stato il mio primo automa, molto tempo prima di Walter. Non
fosse che per questo, mi mancherà molto».
«E ci sono sipari che piovono dietro ogni cometa...».
Disgustata, Ofelia provò un senso di repulsione la cui unica causa era
Lazarus, così assorto nel proprio discorso da non fare caso alle parole senza
capo né coda di Seconda.
«Ma questa è storia vecchia!» esclamò sfregandosi le mani. «Ora voi e il
vostro eco siete dei nostri, my dear, e riprodurrete il miracolo che Eulalia e
l’Altro hanno realizzato in questo stesso luogo secoli fa: rendere incarnati
echi che non saranno versioni peggiorate dei modelli di partenza, ma che
anzi saranno migliori di loro in tutto. Se in origine gli spiriti di famiglia
erano umani ordinari, immaginate i prodigi che potremo compiere. Cibo
delizioso a volontà! Terre paradisiache a perdita d’occhio! Una società di
uomini e donne che potranno dedicarsi alle arti, alla filosofia e alla
realizzazione personale! I nostri nomi entreranno nella Storia, la grande
Storia, quella con la esse maiuscola».
Ofelia si sentiva sprofondare nei sandali. Quel vecchio senza-poteri
aveva puntato tutto su di lei per assurgere a figura eroica, ma lei non aveva
la più pallida idea di cosa si aspettava che facesse. Dialogare con un eco di
cui aveva solo intravisto l’esistenza quattro volte? Riceverne un
insegnamento che avrebbe fatto di lei un’iniziata alle più grandi verità
dell’universo conosciuto e sconosciuto? Si chiedeva come le fosse venuto
in mente di usare il Corno dell’abbondanza per far tornare umana Eulalia
Diyoh e rispedire l’Altro nello specchio.
Guardò Thorn, che si ergeva in tutta la sua altezza tra lei e la gabbia. La
sua ombra lunghissima sembrava una colata di inchiostro che gli sgorgasse
dai tacchi. Scrutava in silenzio la piccola scintilla davanti a sé, vicinissima e
fuori portata. Non poteva impadronirsene e neanche avvicinarsi, tuttavia il
suo corpo era teso come un arco incapace di rinunciare al bersaglio. Doveva
a tutti i costi trovare una soluzione.
Seconda aveva smesso di parlare.
In quel momento Ofelia fu colpita da un fatto evidente: Thorn non
figurava sul disegno che le aveva fatto vedere Lazarus.
«Attento!».
Fu come se Seconda avesse aspettato il via. Si lanciò su Thorn, che si
girò verso di lei con un cigolio metallico sollevando le sopracciglia dalla
sorpresa. Era alto il doppio di lei e non era facile fargli perdere la stabilità.
Se ad assalirlo fosse stato qualcun altro si sarebbe servito degli artigli senza
il minimo scrupolo, ma Ofelia colse un lampo nei suoi occhi, una scelta
immediata da fare. Si lasciò spingere indietro. L’armatura della gamba si
sfasciò con un frastuono di acciaio, viti e bulloni.
Thorn cadde all’interno della gabbia.
Ofelia scattò come una molla. Non ragionava più, era solo un riflesso
primario. Doveva tirarlo fuori da lì. Subito. Alcune braccia bloccarono il
suo slancio. Erano gli Ambroise, che su uno schiocco di dita di Lazarus
l’avevano afferrata. Li scacciò con i pugni, con i denti, con gli artigli, ma
appena si liberava di un braccio altri gli davano il cambio.
Subito.
«Alzati!».
Ofelia vedeva che Thorn si stava sforzando, che lottava contro un corpo
troppo rigido intrappolato in un caos di metallo, rallentato da una gamba
che si rifiutava di ubbidire ai suoi ordini. Lo vedeva, sì, ma ciò nonostante
urlava.
«Alzati! Alzati!».
Subito.
«Aiutatelo!».
Lazarus fece un’alzata di spalle impotente. Sulla soglia della gabbia,
molto soddisfatta di sé, Seconda fissava con l’occhio vuoto l’uomo che si
contorceva ai suoi piedi.
«Ma quel pozzo non era più vero di un coniglio di Odino» gli disse.
Thorn si bloccò, circondato da un’aureola. Il corpo gli si sbriciolava.
Rivolse la lunga faccia spigolosa verso Ofelia, che si dimenava a gomitate
tra gli Ambroise in un tentativo disperato di tendergli una mano. Si immerse
tutto intero nei suoi occhi, vi fissò il suo sguardo più intransigente in
un’ultima sfida, poi si volatilizzò in migliaia di particelle.
Ofelia smise di combattere, di gridare, di esistere. Assisté senza battere
ciglio all’aspirazione della nebbia da parte della scintilla, una nebbia
interamente composta da Thorn, e pochi secondi dopo al sorgere di vari
echi in piedi nella gabbia con l’orologio in mano, caricature malformate e
inespressive che non erano Thorn, che non sarebbero mai state lui.
Quando gli Ambroise si accinsero ad applicare la solita procedura
Lazarus li fermò.
«No, questi no» disse piano.
In mancanza di codice per mantenersi nella materia gli echi si dissolsero
poco a poco. Non restava più niente di Thorn, neanche un pezzetto d’unghia
o mezzo capello.
A Ofelia mancava l’aria. Le bruciavano le vene. Si sentiva in fiamme. Il
suo istinto di sopravvivenza le diceva di ricominciare a respirare, di
riempirsi i polmoni d’aria, ma non ci riusciva più. La meccanica vitale del
suo corpo si era rotta. Le si appannò la vista e si sentì precipitare all’interno
di se stessa, lontano, molto lontano nel tempo, molto prima che lei nascesse,
là dove tutto è freddo e calmo e dimenticato.

In mezzo alla caverna Eulalia si pulisce gli occhiali per la sesta volta.
Ogni volta che là sopra, in superficie, una bomba si schianta
sull’osservatorio le stalattiti le fanno cadere addosso polvere di roccia.
Intorno a lei non c’è nessuno, ma a terra è pieno di fucili, mitragliette,
granate, lanciafiamme e mine antiuomo. Eulalia li sposta con la punta del
suo stivale militare. Tutte quelle armi sono repliche inutilizzabili, echi
fallati. Per fortuna non uccideranno mai.
Da qualche parte là sopra quelli che volevano utilizzarle sono morti.
Avrebbe dovuto capire prima la vera finalità del Progetto e la sua
assurdità. Avrebbe dovuto sapere che i suoi superiori non avevano mai
avuto altra intenzione che produrre sempre più armi. I loro esperimenti
erano comunque destinati a fallire. Gli echi non hanno la vocazione a
colmare le mancanze degli esseri umani.
Scuote la polvere di roccia che le si deposita sugli occhiali. È
sopravvissuta alla deportazione della sua famiglia, all’esilio, alla fame, alle
malattie e ai bombardamenti. Ogni sera prima di addormentarsi si è ripetuta
che tutto ciò aveva un senso, che era destinata a passare tra le maglie delle
catastrofi per salvare il mondo da se stesso.
In quel momento capisce di aver avuto soprattutto molta fortuna. La più
grande è stata incontrare l’Altro in una cornetta del telefono.
«Hai cambiato il mio punto di vista sulle cose».
«Cambiato le cose» sputacchia il suo eco nel walkie-talkie che porta alla
cintura.
Eulalia sorride.
«Pretenzioso».
Apre la cartella e ne tira fuori con cautela un grosso quaderno. È il suo
manoscritto più personale: un’opera teatrale. Ci ha messo tutto di sé. Nella
composizione dell’inchiostro ci sono il suo sangue e il suo sudore, e come
filo per rilegare ha usato i suoi capelli. L’ha scritta nelle ultime settimane
senza macchina da scrivere, all’insaputa dei superiori. Ma se anche
gliel’avessero trovata, cosa avrebbero capito? Ha criptato il testo in un
alfabeto di sua invenzione, il suo preferito, quello con gli arabeschi belli.
Col quaderno stretto al petto cammina lentamente tra i due caleidoscopi
giganti, che muovendosi continuamente le picchiettano la pelle di colori.
All’intersezione dei loro raggi, circondato da un filo spinato
approssimativo, finalmente scorge il Corno dell’abbondanza, appena
visibile a occhio nudo.
“Una particella il cui campo gravitazionale destruttura la materia che la
avvicina prima di convertirla in una sostanza modellabile a volontà”: è la
definizione che le avevano fornito i superiori. Grazie all’Altro, Eulalia sa
quanto si siano sbagliati, sa perché siano riusciti a produrre solo copie
difettose di armi e soldati, e sa che non farà gli stessi errori.
Posa il manoscritto all’interno del perimetro di filo spinato e arretra fino
a mettersi fuori portata della scintilla. Già la rilegatura si sta sbriciolando in
una nuvola di carta. Quelle pagine scritte di suo pugno, intrise di sudore e
sangue, contengono l’inizio di una storia, quella dei suoi futuri figli. Ecco
cosa offre Eulalia alla scintilla: parole. E si aspetta in cambio una vita
intelligente. Ventuno vite, per l’esattezza.
Il fatto è che i suoi superiori si sono sbagliati, il Corno dell’abbondanza
non è mai stato una particella.
È un buco.

Ofelia inspirò profondamente: si era ricordata come respirare. Gli


Ambroise erano tutto intorno a lei con una pluralità di facce deformi. In
mezzo a loro Lazarus le sorrideva.
«Devo ammettere che mi avete quasi fatto preoccupare, my dear. Ho
pensato che vi fosse venuto un colpo. Per quanto abbia un Corno
dell’abbondanza a disposizione, voi siete l’unica persona al mondo che non
posso sostituire».
Ofelia riprese coscienza del suolo sotto i piedi, della sciarpa che le si
muoveva intorno al collo, del rumore dei vagoncini nelle gallerie,
dell’odore minerale della caverna e dei giochi di luce dei caleidoscopi. Era
di nuovo lì, ma le mancava la cosa più importante.
Lazarus le offrì premurosamente il braccio.
«Sapete, un po’ invidio vostro marito. L’esperienza che sta vivendo è il
sogno di ogni esploratore: contemplare la nostra realtà da un’angolatura che
nessun essere umano potrà mai adottare! Se io, voi e il vostro eco non
avessimo tanti prodigi da compiere vi proporrei di unirci a lui».
Ofelia lo fissò intensamente attraverso le doppie lenti dei loro occhiali.
«Riportatelo indietro».
Rovinata dalle grida, non sembrava neanche più la sua voce. Niente le
apparteneva più e lei non apparteneva più a niente.
Lazarus fece un sospiro comprensivo.
«Il processo è irreversibile. Honestly non so perché il signor Thorn non
facesse parte del nostro disegno, ma che possiamo farci? Gli echi
anticipatori non sbagliano mai».
Ofelia aveva smesso di ascoltarlo. Ignorò il braccio che continuava a
offrirle Lazarus, si aprì un varco attraverso gli Ambroise e andò verso
Seconda che stava ancora sulla soglia della gabbia, nel controluce della
scintilla.
«Perché?».
La ragazza sostenne il suo sguardo senza abbassare né l’occhio normale
né quello vuoto.
«Ma quel pozzo non era più vero di un coniglio di Odino» ripeté. Poi
parve fare uno sforzo gigantesco e arrivò ad articolare: «Bisogna...
rivoltare».
Il Corno dell’abbondanza galleggiava indifferente in mezzo agli
arcobaleni. A Ofelia tornarono in mente le parole pronunciate da Helena
sulla tribuna dell’anfiteatro: “Dovrai andare oltre la gabbia e rivoltarti.
Rivoltarti davvero. Solo una volta là capirai”.
«Non perdiamo altro tempo» disse Lazarus, che si raddrizzò facendo
scrocchiare le vertebre. «Dobbiamo stabilire al più presto la comunicazione
col vostro eco affinché ci riveli le vere modalità di funzionamento del
Corno dell’abbondanza. Telefono, please!».
Un automa portò subito un cuscino con sopra un telefono il cui filo
interminabile proveniva dalle viscere della caverna. Lazarus alzò la cornetta
e la porse a Ofelia. In ogni suo gesto e ogni suo sguardo c’era un’infinita
tenerezza.
«Sono sicuro che l’eco sta aspettando solo una vostra parola, my dear. Vi
dirà non soltanto come creare l’abbondanza, ma anche come oltrepassare i
vostri limiti in modo che possiate insegnarlo a ciò che resta dell’umanità.
Eulalia non è stata abbastanza ambiziosa, si è limitata a dotarci di spiriti di
famiglia. Avrebbe dovuto guidare ogni donna e ogni uomo sulla via della
cristallizzazione, insegnare loro come richiamare il proprio eco ed elevarsi
anch’essi allo stato di onnipotenza! Forse questa è la ragione per cui ha
perso il controllo dell’Altro. Ormai, se esiste una persona al mondo in grado
di fermarla, siete voi».
Ofelia afferrò la cornetta, la riagganciò, spinse Lazarus nella gabbia e ci
entrò con lui.
«No!».
Lazarus si precipitò sulla porta che lei stava richiudendo, ma troppo tardi:
Ofelia aveva già fatto scattare il chiavistello. Era ironico pensare che se
l’osservatorio non l’avesse guarita dalla sua goffaggine probabilmente non
sarebbe mai riuscita a farlo in tempo.
Il professore si frugò nella redingote alla ricerca della chiave. Gli occhiali
rosa gli caddero dal naso e si ruppero per terra.
«Non potete! Non dovete! Il disegno!».
Era la prima volta che Ofelia lo vedeva infuriato, ma era ben poca cosa in
confronto a ciò che lei provava per lui.
Così indirizzò la sua ultima frase da dietro le sbarre a Seconda.
«Mi rivolto».
Un sorriso radioso apparve sotto il sorriso della cicatrice. Per la prima
volta Seconda si sentiva capita.
Ofelia si strinse al petto la sciarpa con vergogna e sollievo per averla
trascinata con sé nella gabbia. Alzando la testa verso la scintilla che li
sovrastava si chiese se avrebbe sofferto.
Anzi, non verso la scintilla. Verso il buco.
Trattenne il fiato. Una nebbiolina emanava dalla tunica e dai guanti.
Stava per far passare il proprio corpo attraverso la cruna di un ago. Anche
Thorn si era imbarcato in quel viaggio. Per lei.
Lazarus, che stava ancora cercando la chiave in tutte le tasche, si fece di
sasso vedendo il disegno che Seconda gli sventolava sotto il naso. Era
quello del portafoglio. La ragazza lo strappò.
Fu l’ultima cosa che vide Ofelia prima di volare in frantumi.
IL ROVESCIO

Dolore acutissimo. Sensazione di rivoltarsi come un calzino. Poi il


capitombolo.
Ofelia cade verso l’alto. Aggrappata alla sciarpa, attraversa quelli che le
sembrano strati d’atmosfera. Più va in su, più la caduta si fa veloce. Eppure
atterra sulle proprie gambe senza un rumore né un urto. È circondata dalla
nebbia. Non ha più male, ma non sa se sta ancora respirando.
Dov’è Lazarus? Non ci sono più la gabbia, la caverna e Seconda. Non c’è
più niente, a parte lei e la sciarpa. Si guarda braccia e gambe per sincerarsi
che siano sempre al loro posto. La sua pelle ha assunto una colorazione
grigioverde, quasi che si sia trasformata in una vecchia statua di rame. Si
afferra un ciuffo di capelli: biondi. Si guarda la tunica: nera. Perfino i colori
della sciarpa si sono invertiti. Un neo che fino a quel momento si trovava
nella piega del gomito sinistro si è spostato nello stesso punto, ma a destra.
La cosa che la colpisce di più è vedere, senza ricorrere a lenti speciali,
l’ombra del proprio potere familiare che la avvolge come una schiuma. Si
toglie un guanto, diventato celeste, e vede l’ombra ingrandirsi intorno alle
sue dita da lettrice. Se non altro è stata ricostituita nell’ordine giusto e in un
unico pezzo, il che è già un miracolo. E quindi il Corno dell’abbondanza era
effettivamente un passaggio.
Ma un passaggio verso cosa?
Ofelia gira più volte su se stessa. C’è nebbia dappertutto. Dov’è Thorn?
Vuole chiamarlo, ma qualcosa dentro di lei si rifiuta. Avanza a caso in un
biancore impalpabile e illimitato. Le sembra di distinguere un rettangolo in
lontananza, livido come un astro dietro le nuvole, che comincia a ingrandire
e ingrandire come se corresse verso di lei, mentre a rigor di logica è lei che
sta andando verso il rettangolo. Ofelia vede che in realtà è una porta
socchiusa e vi si infila dentro.
Entra in una stanza così nebbiosa che riesce a stento a intuire i contorni
dei mobili e lo scintillio delle lampade. A parte la nebbia, i colori del luogo
sono naturali, diversamente da quelli di Ofelia. La porta da cui è entrata è
l’anta di un armadio. Dopo un bel po’, nell’arredamento sovraccarico
invaso da dossier non ordinati riconosce l’intendenza del Polo. È stata
trasportata agli antipodi di Babel. Neanche le Rose dei Venti effettuano
balzi del genere attraverso lo spazio.
Tra gli strati di nebbia c’è la grande scrivania che tanto l’aveva
impressionata la prima volta che ci si era seduta di fronte. C’è ancora la
macchia del calamaio rovesciato da lei.
Alla scrivania è seduto un uomo. Un uomo che non è Thorn. Il nuovo
intendente, forse? Anche i suoi colori sono normali. Ofelia vuole
annunciarsi, ma ancora una volta le parole le si fermano in gola. L’uomo,
che ha sulla testa una parrucca troppo incipriata, è stravaccato sulla
poltrona. Gazzette, dossier in quantità e fogli di carta assorbente in attesa
sul piano del tavolo formano una muraglia cartacea davanti a lui. Non
degna di un’occhiata le pratiche da sbrigare e non si accorge di Ofelia, che
poco educatamente si affaccia da dietro la sua spalla: l’uomo sta facendo le
parole crociate, ma per lei sono incomprensibili.
Non solo Ofelia ha perso la capacità di parlare, ma anche quella di
leggere.
In compenso ha sviluppato un nuovo senso che le permette di percepire
l’impercettibile. Qualcosa di infinitamente sottile e potente fa ondeggiare la
nebbia circostante. Il nuovo intendente proietta in continuazione la sua
immagine, la sua chimica e la sua densità attraverso lo spazio. Ofelia è
attraversata da quelle onde, e la cosa non è piacevole né spiacevole.
Percepisce la forma dell’uomo, ma anche la forma dell’odore di cipria e
quella del rumore che fa quando si gratta il mento con la matita. Le parole
crociate gli interessano più del telefono, che infatti squilla invano.
L’apparecchio produce un suono bagnato, lontano, ma Ofelia ne percepisce
ogni vibrazione come se fosse fatta della stessa sostanza. Con una
schicchera riesce a imprimere un movimento contrario a una delle onde,
allora la suoneria del telefono libera un eco che fa corrugare le sopracciglia
al nuovo intendente.
Ofelia gli agita la mano piena di fumo sotto il naso, ma lui non è
consapevole della sua presenza, esiste in maniera troppo diversa da lei.
E comunque non è l’intendente che Ofelia cerca, c’è un errore di persona
e di luogo.
Poi lo spazio sotto i suoi sandali si dilata. Il nuovo intendente, il telefono,
le parole crociate, la scrivania e l’armadio si allontanano da lei fino a
perdersi nella nebbia. Quel bianco che tutto invade è aerargyrum, lei stessa
ne è costituita dalla testa ai piedi. Non riesce più a esprimersi, eppure la sua
mente non è mai stata così limpida. Capisce d’istinto nozioni che fino a
quel momento le erano estranee. Ciò che Lazarus chiama aerargyrum è in
realtà materia invertita. Il Corno dell’abbondanza non converte quelli che lo
attraversano, li rivolta su se stessi, e gli echi prodotti da quell’inversione si
invertono a loro volta. Il codice serve solo a mantenere artificialmente la
struttura dei loro atomi, ma, con o senza codice, l’equilibrio è preservato.
Nuove forme emergono intorno a Ofelia. Giostre immobili. È tornata
all’osservatorio delle Deviazioni, nell’ex parco dei divertimenti del
programma alternativo. L’aerargyrum vela il cielo e il sole.
Passa davanti allo stand del Fachiro in cui si era nascosta con Thorn. Se
sapesse come fare griderebbe il suo nome.
Va verso la giostra delle tigri, dove intuisce una figura rannicchiata tra le
belve di legno. È Mediana. Le pietre preziose incastonate nella pelle
grigioverde hanno assunto una colorazione insolita. Anche lei, come Ofelia,
è stata aspirata dal Corno dell’abbondanza ed è diventata un negativo di se
stessa. Il fumo del suo potere familiare le galleggia intorno al corpo come
un pigiama troppo grande. Diversamente dal nuovo intendente del Polo,
Mediana è cosciente della sua presenza e alza gli occhi su di lei. Le iridi
bianche si stagliano sulla cornea nera degli occhi sgranati. Da quanto tempo
è su quella giostra? La sua bocca non riesce ad articolare suono. Tende una
mano verso Ofelia, che è scossa dal gesto. Mediana è stata carnefice ed è
stata vittima, ma non ha mai chiesto il suo aiuto.
L’aerargyrum fa scendere un sipario latteo fra loro. Ofelia non vede più
né Mediana né la giostra. Sta di nuovo errando da sola. Qua e là, tra un
nulla e l’altro, intravede altre figure in negativo: Lazarus, il cavaliere, la
ragazza con la scimmietta, la donna con lo scarabeo, l’uomo con la
lucertola. Ogni volta li perde di vista dopo pochi secondi. Ha perfino una
fuggevole visione dei Genealogisti, prima l’uomo e poi la donna, che si
cercano nella nebbia senza potersi chiamare. Sembrano scombussolati da
quel limbo che non porta da nessuna parte. Volevano l’abbondanza,
cercavano la verità definitiva, e si ritrovano abbandonati a se stessi in un
vagabondaggio assurdo.
Per quanto insista, continua a non vedere Thorn. Comincia a sua volta a
essere colta da una paura disincarnata quanto lei. La sciarpa si contrae con
tutti i suoi anelli, e nello stesso movimento l’aerargyrum la avvolge sempre
più stretta, inghiotte gli ultimi resti del paesaggio, le cancella anche i
sandali.
E se fosse condannata a non ritrovare più Thorn? Se fosse condannata a
non trovare più niente del tutto?
A un certo punto in mezzo alla bruma appare una sagoma che si dirige
verso di lei senza la minima esitazione. Più si avvicina e più i suoi contorni
si fanno precisi. Una schiena? L’individuo che viene verso di lei cammina
all’indietro barcollando, storcendo le ginocchia, aprendo e chiudendo le
braccia. Anche il suo aspetto è fluttuante e confuso. Quando finalmente gira
su se stesso si rivela essere una signorina spettinata con gli occhiali
rettangolari e la sciarpa a tre colori.
L’eco di Ofelia.
È così vicino che quasi la tocca. I suoi colori, dapprima fedeli a quelli
che aveva Ofelia prima di essere aspirata dal Corno dell’abbondanza,
diventano poco a poco il riflesso di quelli che ha ora. Da rosa la pelle volge
al grigioverde, da bruni i capelli si fanno biondi. Quell’eco le assomiglia un
sacco, con la differenza che la sua sciarpa non sembra animata e la figura
sta masticando qualcosa.
«Chi è io».
L’ha detto masticando, con una voce a stento umana, ma nonostante tutto
è la voce di Ofelia. Come fa a parlare? Impassibile, aspetta. Che vuole da
Ofelia? Che sente per lei? E lei che sente per lui? Più che altro vorrebbe
chiedergli dov’è Thorn.
Ofelia si fa avanti. L’eco si sposta. Più lei cerca di avvicinarsi, più lui si
allontana all’indietro nell’aerargyrum. Scappa da lei? In quel regno degli
echi, Ofelia è probabilmente l’unica a disporre di una guida e non ha
nessuna intenzione di lasciarsela sfuggire tra le dita. Cammina sempre più
svelta per non perdere di vista l’immagine assurda del proprio corpo che si
contorce per correre a marcia indietro.
Dopo un interminabile inseguimento alla cieca Ofelia esce
dall’aerargyrum. Al posto del mondo bianco c’è un’esplosione di colori. Un
oceano rosso si estende a perdita d’occhio sotto un cielo arancione. I suoi
piedi affondano nella sabbia di una spiaggia azzurra. Ormai non è più
soltanto lei a essere in negativo, ma l’intero paesaggio. Perché? Non ci sono
oceani a Babel, eppure quello sembra molto più reale dell’osservatorio delle
Deviazioni allo stato brumoso che si è lasciata alle spalle.
«Chi è io».
L’eco è in equilibrio sulla superficie mobile dell’acqua. Sta continuando
a masticare, come se avesse in bocca una caramella che non si scioglie. Col
dito indica in lontananza un’isola dalla vegetazione viola. La distanza che li
separa dall’altra riva si riduce all’istante fino a sparire del tutto. Ofelia è
sull’isola, sta percorrendo un viale immerso nell’ombra luminosa degli
alberi. L’eco continua a camminare all’indietro davanti a lei, come se stesse
giocando ad acchiapparella. Niente è normale in quel luogo, né i colori
inverosimili né gli odori astratti né i rumori liquidi, ma Ofelia è sicura di
esserci già stata. La sua convinzione si consolida quando raggiunge
maestosi edifici di vetro e acciaio in mezzo alla giungla. Ha vissuto tra quei
muri. Se il suo cuore avesse conservato una logica organica si sarebbe
messo a battere sempre più svelto. Ha paura, paura di sperare. Ora è l’eco a
seguirla a distanza mentre lei prende l’iniziativa di visitare il luogo e sale
una scala. Scavalcando uno scalino si ricorda di essere caduta proprio in
quel punto. Era il suo primo giorno.
Entra in un emiciclo universitario. Sui gradoni sono seduti un centinaio
di apprendisti in redingote gialla, chini sui quaderni con la stilografica in
mano, freneticamente intenti a scrivere. Sono tutti in negativo come Ofelia,
ma nessuno si preoccupa di lei. Le ombre dei loro poteri familiari fremono
di iperattività. Sembrano in preda a tormenti indicibili, ognuno strappa la
pagina del proprio quaderno e ricomincia da capo. A giudicare dai fogli
appallottolati che ricoprono il pavimento, la storia va avanti da un bel po’.
Ofelia raccoglie un foglio a caso e lo apre. L’inchiostro bianco sulla carta
nera forma scarabocchi senza capo né coda: perfino lei, che è diventata una
perfetta analfabeta, vede che non sono parole. Per quei giovani che aspirano
a far parte dell’élite, non saper più né leggere né scrivere né parlare
dev’essere un vero incubo.
Scoppia a ridere, e la sua voce distorta risuona caoticamente in tutto
l’anfiteatro, cosa che le attira occhiate furiose da parte degli apprendisti, che
si sentono deconcentrati. Non ha mai riso tanto in vita sua, trabocca di gioia
allo stato puro. Vorrebbe spiegare a tutti loro quanto siano vivi!
La Buona Famiglia non è precipitata nel vuoto.
Lascia l’anfiteatro, corre lungo i corridoi, salta sui banchi. L’eco cerca di
seguirla con la sua camminata disarticolata, ma lei non può rallentare, è
proiettata in avanti dalla forza della sua presa di coscienza, liberata da un
peso che da troppo tempo la opprime.
Non c’è mai stato alcun crollo.
Incrocia alunni e professori che si aggirano nell’edificio con aria
stravolta, passano e ripassano dalle porte, vanno e vengono su pareti e
soffitti, fuggono lo sguardo degli altri.
Vorrebbe ballare con ognuno di loro. Si infila in un camminamento tra le
colonne del quale può contemplare l’oceano rosso, le isole circostanti e in
lontananza, immerso nella nebbia, un continente irto di costruzioni.
Ovunque guardi, terra e acqua disegnano una linea d’orizzonte ininterrotta.
La Lacerazione non è mai avvenuta, almeno non nel modo in cui viene
raccontata. Il vecchio mondo non è finito in pezzi, è sempre rimasto intatto
come la Buona Famiglia, nascosto dietro il vuoto, dietro i sogni di Ofelia.
Dietro dietro.
Si è rivoltato su se stesso. Si è invertito.
Quindi il mare di nuvole sono interi continenti allo stato di aerargyrum!
Una concentrazione pazzesca di aerargyrum.
Ofelia si blocca in piena corsa in mezzo al camminamento, davanti a un
distributore di gazzette. Octavio! Stava quasi per non riconoscerlo, sotto la
lunga frangetta bianca.
Vorrebbe poter dire il suo nome ad alta voce per convincersi che è lì, che
non ha mai smesso di esserci. Lui è talmente concentrato sul distributore di
gazzette che non fa caso a Ofelia. Abbassa la leva, prende una copia del
giornale, la strappa e la butta nel tritarifiuti, abbassa di nuovo la leva,
prende un’altra copia, la strappa e la butta nel tritarifiuti, e così via senza
che il distributore si svuoti mai.
Ofelia gli afferra la spalla per farlo smettere. Attraverso i guanti quasi
non lo sente, come se malgrado la vicinanza sia lontanissimo. Lui la guarda
con occhi non più rossi, ma turchesi, che proiettano l’ombra del loro potere
come fasci di fumo. Ofelia si aspetta che sia felice quanto lei di vederla, ma
il volto di Octavio esprime soltanto dolore. Le porge una gazzetta
supplicandola in silenzio di aiutarlo a distruggerle tutte, poi riprende il
proprio lavoro, così assorto che si scorda subito di lei. Sui giornali non è
stampato niente. L’importante non è il contenuto, ma ciò che rappresentano,
ovvero le menzogne di Babel.
L’euforia di Ofelia ricade di colpo.
Octavio e gli altri sono vivi, è vero, ma a che prezzo? Sono intrappolati
nelle loro ossessioni, condannati a ripetere a ciclo continuo gli stessi rituali
e a rimanere nell’ignoranza di ciò che è davvero successo. Subirà anche lei
la stessa sorte se si trattiene troppo a lungo fra loro? Ricorda l’intollerabile
senso di colpa che ha provato quando il dirigibile è caduto nel vuoto fra le
arche, e capisce che l’ha provato perché la terra del vecchio mondo
continua a esistere sul rovescio della trama spaziale. Sebbene anche lei sia
stata invertita si rende conto che la sua presenza lì rimane un’aberrazione.
Seconda lo sapeva. Seconda lo vedeva.
Ecco perché le ha mostrato tutti quei patetici ritratti di Octavio. Non si
limita a decifrare gli echi anticipatori: vuole impedirli. Si è sempre aspettata
da Ofelia che salvasse il fratello da quel luogo, da quel Rovescio.
Ma come? Non è riuscita a trovare Thorn e non sa come andarsene da lì.
Scruta il camminamento da una parte all’altra alla ricerca del proprio eco,
che fino a quel momento le ha fatto da guida. Ha perso anche lui?
Un eco. Ofelia ricorda che ne conosce personalmente uno, proprio lì alla
Buona Famiglia.
Dà un ultimo sguardo a Octavio, che sta continuando a buttare una
gazzetta dopo l’altra nel tritarifiuti. Le dispiace lasciarlo. Taglia attraverso
la giungla di un giardino in cui vede uccelli muti e marsupiali apatici. Si
infila in un edificio amministrativo e sale i piani di marmo senza capire
bene se è lei a muoversi o l’architettura a trasportarla verso la sua
destinazione.
Entra nell’ufficio del direttore.
Helena è un eco incarnato come gli altri spiriti di famiglia, ma è anche la
più intelligente di tutti i fratelli. Se c’è qualcuno che può aiutarla a
penetrare i misteri del Rovescio è lei. Le lampadine nere attenuano a stento
la penombra abbagliante. L’ufficio è deserto, eppure la gigantessa avrebbe
dovuto esserci. Da apprendista virtuosa Ofelia era stata convocata spesso
dalla direttrice, e non l’aveva mai vista lasciare il posto di lavoro.
Urta un carrello e sente un rumore umido sotto i sandali. Ha calpestato
del vetro. Chinandosi riconosce le lenti di un apparecchio ottico. Quanto al
carrello, in realtà è una crinolina su ruote al di sopra della quale è stato
cucito un enorme vestito. Il bustino pende moscio sulla struttura di
sostegno. Ofelia è sgomenta. Apre la vetrina della biblioteca in cui è
esposto il Libro di Helena. Sulle pagine di pelle umana la bella scrittura di
Eulalia Diyoh si è trasformata in sgorbi. Non c’è linguaggio coerente nel
Rovescio. Perdendo il codice Helena è tornata allo stato originale, cioè
informe. Di lei resta soltanto un vestito vuoto.
«Chi è io».
L’eco è seduto sulla poltrona di Helena, decisamente troppo grande per
lui. A Ofelia fa un buffo effetto cogliere un’espressione provocatrice sulla
propria faccia. Impertinente, l’eco sta ancora masticando la caramella.
Appena Ofelia accenna un gesto verso di lui si allontana con un balzo. Ha la
strana impressione che l’eco voglia sia aiutarla che metterla alla prova.
Lo spazio intorno a loro si deforma come pasta da modellare. Si ritrovano
tra due cieli, uno che si estende sopra le loro teste e uno che si riflette sotto i
loro piedi. Ofelia ci mette qualche secondo a realizzare che stanno sul punto
culminante della gigantesca cupola di vetro del Memoriale di Babel. La
vista è vertiginosa. Da lì la Buona Famiglia è solo uno sperone di terra in
lontananza, non si vede neanche l’edificio in cui si trova l’ufficio di Helena.
Ofelia ha una vista panoramica dell’oceano e del porto, dell’antica e della
nuova Babel, delle arche a dritto e dei quartieri a rovescio. Ha l’impressione
di avere davanti agli occhi una fotografia sviluppata male. In un punto il
paesaggio è nebbioso e incompleto, in un altro è policromo e mischiato, da
nessuna parte è armonico.
La cosa che la colpisce di più sono le navi, che dalla Buona Famiglia non
vedeva. Sono innumerevoli, tutte ferme sull’acqua, bloccate nel tempo e
nello spazio: una flotta da guerra vecchia di parecchi secoli precipitata nel
Rovescio prima di aver potuto raggiungere le rive di Babel.
Ofelia alza la testa verso il sole che oscura il cielo. La luce nera si riversa
nei suoi occhiali proiettando una paradossale chiarezza su tutti i suoi
pensieri, e pazienza se lei non è capace di esprimerli ad alta voce. È piena di
un senno che non ha bisogno di parole.
Il Dritto e il Rovescio sono i due piatti di una bilancia.
Ogni volta che la materia si inverte da un lato, una controparte si inverte
dall’altro. Per ogni materia trasformata in aerargyrum un po’ di aerargyrum
si incarna in materia, e per ogni eco che si incarna nel mondo dritto il
Rovescio ha bisogno di una contropartita simbolicamente equivalente.
Eulalia Diyoh ha creato una generazione di semidei a partire da un semplice
manoscritto, ma in realtà era solo il primo atto della sua pièce. Quel giorno
ha fatto un contratto con il mondo a rovescio, e anni dopo, quando gli spiriti
di famiglia sono cresciuti, Eulalia Diyoh si è trovata quasi nello stesso
punto in cui si trova Ofelia in quel momento. Ha visto che a Babel stava
tornando la guerra, ma era la volta di troppo, e ha deciso di onorare il
contratto: ha precipitato nel Rovescio tutte le forze armate, tutte le zone di
combattimento, tutte le nazioni incapaci di mantenere la pace. Ha
sacrificato metà del mondo per salvare l’altra metà. Quanti innocenti,
soldati arruolati di forza o civili intrappolati nelle battaglie sono stati
invertiti senza che qualcuno abbia spiegato loro come e perché? E come ha
fatto Eulalia a provocare un’inversione di quell’ampiezza senza neanche
ricorrere al Corno dell’abbondanza? Per spedire una tale quantità di materia
nel Rovescio deve averne estratto una contropartita simbolicamente
equivalente e abbastanza potente da mantenere la bilancia in equilibrio, no?
Ofelia sente la sciarpa drizzare i peli. Smette di guardare l’oceano e la
flotta di navi fantasma e vede il suo eco sollevare un pezzo di marmo.
Pronto ad abbatterlo su di lei.
(ISETNERAP)

Thorn cammina nella nebbia. Aerargyrum, a quanto pare. Tutto è bianco,


e quel biancore lo disturba (bianco, inverno, neve, Polo). Non c’è niente da
quantificare, non c’è distanza fra gli oggetti, non c’è il tempo. Il suo
orologio si è fermato (bianco, carta, intendenza, Polo). Non gli piace quel
nulla che gli si appiccica ai pori della pelle, diventata assurdamente
grigioverde, e si propaga all’interno del cervello sotto forma di associazioni
d’idee incontrollabili (bianco, Libro, Faruk, Polo). Non gli piace neppure la
simmetria inversa del corpo che ha scompigliato la disposizione delle sue
cinquantasei cicatrici. E meno ancora gli piace l’ombra irta di artigli che gli
sta incollata come un campo di rovi e a ogni gesto gli ricorda quanto sia
brutto il suo potere familiare.
Allunga il passo nell’aerargyrum senza preoccuparsi di capire come
riesca ancora a camminare. Lì non ha armatura né bastone, e a ogni falcata
la sua gamba adotta angoli del tutto illogici. Non sente dolore, il che non lo
rallegra affatto (bianco, amnesia, madre, Polo). Le dissonanze ossee, le
infiammazioni articolari, le emicranie mnesiche e tutte le informazioni
organiche costituivano contorni scomparsi insieme alla scena. Senza quei
contorni la memoria gli straripa come liquido (bianco, smalto, sorriso).
No.
Thorn respinge categoricamente quel ricordo, ancora più degli altri.
Rifiuta la porta davanti alla quale ha atteso tre ore, ventisette minuti e
diciannove secondi, e che nessuno gli ha mai aperto. Rifiuta il buco della
serratura ad altezza d’occhio quando il suo scheletro non aveva ancora
cominciato a crescere in maniera smisurata. Rifiuta i sorrisi della madre che
riempie di complimenti il nuovo ambasciatore di Faruk appena uscito
dall’infanzia e già invitato alla sua tavola. Rifiuta quel ragazzo che non è lui
e che ha tutto ciò che lui non avrà mai: una nascita rispettabile, un futuro
tracciato, una bellezza scolpita in ogni millimetro della pelle e il sorriso di
sua madre. Attaccato a quel degradante buco della serratura, rifiuta più di
tutto la solitudine che coglie negli occhi di Archibald alla luce dei
lampadari, identica a quella che prova lui nella penombra dell’anticamera.
Bianco. Thorn forza l’andatura immergendosi sempre più in profondità
nell’aerargyrum e nella sua mancanza di contorni. Non sa dove sia né dove
stia andando, ma continuerà a camminare fino a trovare l’unica porta che
per lui non è mai stata chiusa e dietro la quale è davvero atteso.
La porta di Ofelia.
Con un nuovo straripamento (porta, camera, Eulalia Diyoh, Lacerazione)
la memoria gli trascina indietro la mente in modo inversamente
proporzionale al movimento prodotto dai passi. Più avanza nel bianco e più
indietreggia nel tempo, verso il passato di Faruk che la madre gli ha
trasmesso a forza.
Al principio eravamo uno.
Ma Dio non era soddisfatto di quella forma, così ha cominciato a
dividerci. Dio si divertiva molto con noi, poi si stufava e ci dimenticava.
Nella sua indifferenza era capace di una crudeltà che mi faceva paura.
Sapeva anche mostrarsi dolce, e l’ho amato come non ho mai amato
nessuno.
In un certo senso credo che Dio, io e gli altri avremmo potuto vivere
felici, se non ci fosse stato quel maledetto libro. Mi faceva ribrezzo.
Conoscevo il vincolo che mi collegava al libro nel più nauseante dei modi,
ma è un orrore che è arrivato dopo, molto dopo. Non l’ho capito subito, ero
troppo ignorante.
Amavo Dio, è vero, ma odiavo quel libro che apriva per un nonnulla. A
Dio invece piaceva un sacco. Quand’era contento scriveva. Quand’era
arrabbiato scriveva. E un giorno in cui era di pessimo umore ha commesso
un’enorme sciocchezza.
Ha fatto a pezzi il mondo.
In una scena mentale mille volte ripetuta Thorn rivede la porta che
Eulalia Diyoh si è sbattuta alle spalle il giorno della Lacerazione. Si è
chiusa in camera sua vietando a chiunque di seguirla. Faruk, di cui Thorn
visualizza la mano tremante sulla maniglia come fosse la sua, le ha
disubbidito. Ha aperto. È entrato. Ha guardato. Metà della camera è sparita.
Thorn cammina sempre più velocemente nel bianco torcendo e
raddrizzando la gamba, incastrato nel solco di quel ricordo incompleto.
Dalla sua ombra non spuntano più soltanto artigli, ma un intrico di rami e
radici corrispondenti alle ramificazioni interne della sua memoria.
Eulalia era sulla parte di pavimento ancora intatta di fronte a uno
specchio sospeso a mezz’aria (Acciuga le tue primule). Allora perché Faruk
si è sentito tanto abbandonato? (Asciuga le tue lacrime). Perché ha provato
la stessa cosa che ha provato Thorn davanti al buco della serratura? (Dio è
stato punito). Perché Eulalia ha deciso di strappare la pagina del suo Libro,
di togliergli la memoria, di condannare all’amnesia gli spiriti di famiglia e,
incidentalmente, tutta la loro discendenza? (Quel giorno ho capito che non
era onnipotente). E che senso ha quello specchio sospeso in mezzo alla
camera tra il pavimento e il cielo? (Da allora non l’ho più rivisto).
Thorn si blocca in mezzo al bianco e in mezzo al ricordo effettuando un
improvviso fermo immagine. Dalla soglia, paralizzato, Faruk fissa la
schiena di Eulalia Diyoh che sta sul bordo del vuoto di fronte allo specchio
sospeso, con i folti capelli e il lungo vestito gonfiati dalla corrente d’aria.
Lo specchio sembra interessarle più dell’apocalisse che ha destrutturato il
mondo. Thorn osserva incredulo la diapositiva mentale che la memoria gli
proietta sulle pareti del cranio tramite i bulbi oculari di Faruk da sopra la
spalla di Eulalia Diyoh. Rapido come un lampo, un riflesso si è brevemente
sovrapposto al suo: Ofelia (Ofelia con gli occhiali rotti (Ofelia con la tunica
insanguinata (Ofelia ferita a morte))).
Un eco anticipatore. Thorn ha appena visto il futuro all’interno di un
ricordo vecchio di parecchi secoli, e ciò che ha visto è inaccettabile.
Fa un giro completo su se stesso scrutando l’aerargyrum intorno a sé alla
ricerca di una via d’uscita. Ovunque sia, se è riuscito a entrare è matematico
che possa uscirne. Se anche non potesse, deve. All’occorrenza forzerà tutte
le porte di tutte le arche. Anche un po’ di più.
Aguzza gli occhi verso ciò che finalmente sembrano contorni di qualcosa
dietro un grosso strato di nebbia. Alla buon’ora. Stava cercando una porta,
trova un pozzo. A giudicare dallo stato della malta e dalla proliferazione di
muschio tra le pietre dev’essere una costruzione antica. Non ci sono secchio
né catena né carrucola, ma a Thorn non sarebbe mai venuto in mente di bere
un’acqua che è stata in contatto con tutto ciò che la natura può produrre di
antigienico. L’odore che ne emana è indescrivibile. Se non fosse l’unica
cosa della scena Thorn farebbe volentieri a meno di avvicinarsi.
Si china sul bordo stando ben attento a non toccarlo. Le tenebre
all’interno sono paradossalmente chiare, quasi abbaglianti, e la luce non gli
risparmia alcun dettaglio: funghi, miasmi, vermi...
Sul fondo c’è una bambina.
È immersa fino alla vita nell’acqua (ma è acqua?) e pelle, capelli e occhi
sono così scuri che Thorn non distingue i lineamenti della faccia che lo
guarda. La bambina non dice niente. In tutto quel nero si stagliano le ciglia
insolitamente bianche che incorniciano due occhi spalancati. Pur non
avendola mai vista prima, Thorn la riconosce senza esitazioni. È la figlia di
Berenilde.
Appena la vede, prima ancora di chiedersi come sia finita in un luogo
così improbabile, nove metri sottoterra, in una parte di universo che non
dovrebbe esistere, Thorn è colto da un sentimento di odio puro di cui è il
primo a sorprendersi. Fino a quel momento non aveva realizzato quanto si
fosse sforzato di negare l’esistenza di quella cugina che nascendo lo aveva
reso non più indispensabile a sua zia, quanto ce l’avesse con Berenilde per
non essersi fatta bastare lui, quanto si fosse rimproverato di non essere
capace di soddisfare il cuore di nessuna madre, quanto infine, in
conseguenza di ciò, si fosse mostrato intransigente verso Ofelia col rischio
di trascinarla in fondo al proprio pozzo. Guardando gli occhi sgranati della
cugina, lui in alto e lei in basso, si rende conto di quanto sia stato stupido.
Deve sbrigarsi prima che il futuro rivelato dall’eco anticipatore nello
specchio del Memoriale diventi passato.
Thorn scavalca il bordo con grandi movimenti impacciati. Il fatto che
non senta più il dolore non vuol dire che non gli si spezzerebbero le ossa in
caso di caduta. Fa leva sulle pareti del pozzo (un metro e ventiquattro di
diametro) e comincia a scendere puntando gli stivali e le dita negli appigli
creati dal distacco di malta, scivolando sulla muffa. Ogni contatto con la
materia gli sembra astratto, come se avesse addosso uno scafandro
invisibile, ma più scende e più prova ripugnanza. Varie volte la gamba
matta lo tradisce rischiando di fargli perdere la presa. Si vieta di pensare a
come sarà la risalita.
Arrivato in basso si immerge fino alle ginocchia in una melassa che di
sicuro non è acqua. La sua ombra carica di spine non contribuisce certo a
rendere il suo aspetto più allettante: la cugina si appiattisce contro la parete.
Ecco dunque la grande rivale (ottantanove centimetri). Thorn la vede
meglio in faccia, anche se per guardarla è costretto a piegarsi. Malgrado la
pelle nera, non c’è dubbio che abbia la morfologia di Berenilde. Si augura
che non abbia il quoziente intellettivo di Faruk. La piccola lo guarda con
occhi spalancati.
Come ci si rivolge a una bambina di quell’età per farsi capire? Thorn si
rende conto che non può, e ciò indipendentemente dal disagio che lei gli
ispira. Proprio lui, che non dimentica mai niente, non riesce a mettere
insieme una successione di parole coerenti, tanto sul piano semantico che su
quello sintattico. E poi cosa dovrebbe dirle? Che anche se lo fa sentire un
miserabile e gli sta facendo fare tardi non può certo abbandonarla in quel
pozzo?
Ripensa a Ofelia, al suo sangue. Deve sbrigarsi.
Thorn, che si era ripromesso di non abbassarsi mai verso gli altri, si
accovaccia nella melassa e tende le braccia. Il chiarore opprimente del
pozzo fa risaltare il nero delle sue cicatrici; avrebbe dovuto abbottonarsi le
maniche, i bambini si impressionano per un nonnulla. Afferra la cuginetta,
che sorprendentemente lo lascia fare senza opporre resistenza: meglio così.
Basta quel semplice contatto a far drizzare gli artigli, e tirarla fuori dalla
melassa non è facile. Thorn è colto alla sprovvista dal peso della piccola, in
realtà dalla sua assenza di peso, ma la cosa che lo stupisce di più e alla
quale non era certo preparato è l’impeto con cui si aggrappa a lui con tutto
il corpo, come se nonostante gli artigli e i gesti bruschi la sua presenza nel
pozzo con lei fosse la cosa più confortante del mondo.
Thorn ha l’irrazionale impressione che quell’assenza di peso si trasmetta
alle sue costole, si propaghi a tutto ciò che è lui e lo liberi da una pesantezza
che non era cosciente di avere.
Vuole ritrovare Ofelia, ma prima deve riportare a Berenilde la figlia.
Non fa in tempo a formulare quel pensiero che lo spazio intorno a loro si
distorce, il pozzo si allarga fino a raggiungere le dimensioni di una sala e la
melassa evapora in uno spesso strato di aerargyrum. Alcune persone si
agitano, camminano nervose senza accorgersi di Thorn e della bambina che
tiene stretta a sé. Le loro voci e i loro colori sono ovattati. Penserebbe che
siano spettri, se non fosse convinto di essere diventato uno spettro anche
lui. Qualunque sia la sala in cui si trova, capisce che stanno occupando tutti
la stessa pagina del tempo: quelle persone sul recto, Thorn sul verso, e la
cugina tra i due, come una macchiolina d’inchiostro che abbia intaccato il
foglio senza però trapassarlo del tutto.
L’aerargyrum inghiotte tutta la scena a eccezione di una grande
carrozzina in cui sta riposando un’altra bambina, bianca dalla testa ai piedi.
Ne era sicuro. Quella che ha ripescato nel pozzo è una proiezione
mentale. La vera cugina, fisicamente parlando, è rimasta sul recto del
mondo e sta contemplando con sguardo vitreo il tettuccio della carrozzina
teso sopra di lei. A giudicare dalla sua magrezza non deve pesare molto più
della piccola ombra che si aggrappa a lui con sempre maggior vigore. Non
riconosce se stessa? Sarebbe facile e anche sbrigativo posarla nella
carrozzina per costringerla a rientrare nel corpo.
Thorn passa in rassegna le sagome sfocate che vanno e vengono intorno a
loro fino a quando individua l’unica che rimane immobile, dritta
nell’elegante vestito, senza perdere di vista la carrozzina. La nebbia non gli
permette di vederla in faccia, ma non ne ha bisogno. La indica alla cugina,
che subito solleva grandi ciglia bianche. Se non riconosce il proprio corpo,
almeno riconoscerà la madre. Thorn la sente fremere, la sente pronta allo
slancio, ma inaspettatamente è a lui che la bambina rivolge un ultimo
sguardo. Thorn non è affatto sensibile all’occhio umano (organo esterno che
produce impunemente cisposità, lacrime e ciglia), ma quegli occhi neri e
profondi come la notte sembrano rivelargli una cosa che non è mai stato
capace di vedere.
Un attimo dopo la cugina è sparita dalle sue braccia come una bolla di
sapone. Non ci sono più carrozzina né zia né sala né altro. Niente tranne
uno specchio che gli rimanda il suo riflesso, e per la prima volta in vita sua
Thorn riesce a trovarsi accettabile. L’ombra del suo potere familiare ha
rinfoderato gli artigli. Ha la certezza immediata e sbalorditiva che non
dovrà più subire la dittatura degli artigli perché una bambina gli ha
concesso ciò che un essere può sentire di più assoluto. E anche perché
un’altra bambina l’ha spinto in una gabbia.
Seconda non si è vendicata, ha fatto in modo che Thorn si trovasse nel
posto giusto al momento giusto. Ha riparato l’uomo che l’ha sfregiata.
Thorn si guarda le braccia ormai vuote eppure piene di una forza nuova,
braccia in grado di fare l’impossibile. Anche un po’ di più.
Ora ha un eco anticipatore da riacchiappare.
LA CONTROPARTITA

Nel Rovescio tutte le percezioni sono distorte. Colori, rumori, odori,


spazio e tempo rispondono a una logica diversa. Mentre il suo eco sta per
sbatterle una lastra di marmo sulla faccia Ofelia si chiede se sarà davvero
così sgradevole come pare. Si chiede anche dove l’eco abbia scovato un
pezzo di marmo in una cupola fatta tutta di vetro. Già che c’è si chiede pure
perché voglia ammazzarla dopo averle salvato la vita.
«Chi è io».
Il volto dell’eco, perfetto riflesso del suo, ha assunto un’espressione
interrogativa, come se aspettasse un segnale per decidere se spaccarle il
cranio o no. Neanche per un attimo ha smesso di masticare nel suo strano
modo.
Non arriva nessun segnale. In compenso, sbucato dal nulla, un gracile
adolescente toglie delicatamente il marmo dalle mani dell’eco. Quando la
lascia cadere ai suoi piedi, la pietra passa attraverso la cupola senza
romperla. Ciò fatto, l’adolescente si inchina per salutare Ofelia e il suo eco,
entrambi interdetti. Lo scolorimento della sua pelle, dei suoi occhi e dei
suoi capelli non ha niente di naturale, come del resto la sua presenza in
cima al Memoriale.
È Ambroise, un Ambroise dai colori invertiti, senza sedia a rotelle né
deformità fisiche, l’Ambroise dell’urna funeraria del colombario.
Il primissimo Ambroise.
Non ha l’espressione smarrita delle altre persone incontrate nel Rovescio,
sotto le lunghe ciglia pallide il suo sguardo è lucido. Rivolge un cenno di
turbante all’eco, come per ringraziarlo di avergli portato Ofelia, e un sorriso
a lei. Ha gli stessi modi gentili e la stessa curiosità negli occhi. È contenta
di non poterci parlare, così non gli farà capire la sofferenza che le suscita
quella rassomiglianza, né che per lei ci sarà sempre un unico vero
Ambroise. L’adolescente che ha di fronte è un estraneo che per giunta ha
quarant’anni più di quelli che dimostra.
È stato amico di Lazarus, quindi non può che essere nemico di Ofelia.
Lei e la sciarpa si contraggono vedendolo alzare i pugni, ma lui si limita a
sollevare i pollici con aria birichina. Solo allora Ofelia lo riconosce. È
l’Ombra. È quello che ha visto a Babel sul ciglio del vuoto, quello che l’ha
guidata alla fabbrica di automi, quello che lei ha rincorso nel colombario,
quello che è andato a trovarla nella cappella.
Ambroise I indica Ofelia all’eco e l’eco a Ofelia, imita il gesto di una
stretta di mani riconciliatrice e, brioso, invita entrambi a seguirlo come se
l’incidente fosse chiuso. Sotto i sandali di Ofelia la struttura di vetro assume
la consistenza dell’acqua. Sente se stessa scivolare dall’altra parte come ha
fatto la pietra prima di lei, ma non ha mai realmente la sensazione di cadere.
Tutti e tre scendono una scala che si addentra nel Memoriale, una scala che
non dovrebbe più esistere da secoli.
Ambroise I apre la marcia saltellando arzillo. Per uno che da quarant’anni
è incastrato nel mondo a rovescio ha una strana mancanza di ritegno. Ofelia
non sa se può fidarsi di lui, ma ha capito che è l’Ombra e per il momento le
basta. Più volte è entrato in comunicazione con lei dal Rovescio, il che
dimostra che il confine tra i due mondi è permeabile. Riuscirà anche a far
ripassare lei e Thorn dall’altra parte?
Ofelia non può fare a meno di lanciarsi occhiate nervose alle spalle per
assicurarsi che l’eco, che cammina all’indietro masticando in silenzio dietro
di lei, non abbia di nuovo intenzione di fracassarle la testa. Non capisce
cosa gli abbia preso sulla cupola, allo stesso tempo non riesce a liberarsi da
una sensazione di già vissuto.
L’architettura del Memoriale è ancora più folle che nel resto del
Rovescio. Metà dell’edificio è nascosta da vapori di aerargyrum dietro i
quali riconosce le migliaia di scaffali di libri, i transcendium e le suspensale
che si avvolgono in piani intorno al grande atrio. Le è sconosciuta, invece,
l’altra metà del Memoriale in negativo: vecchi parquet, camere invase dalla
vegetazione, aule deserte. Si tratta dei luoghi in cui sono cresciuti gli spiriti
di famiglia.
Si sofferma davanti a una finestra priva di vetri. Certo. Dopo la
Lacerazione una parte della torre è stata ricostruita sul vuoto, perché gli
architetti dell’epoca la credevano sprofondata insieme al resto dell’isola e
dell’oceano, non sapevano che, invertita, era ancora al suo posto. Ofelia
ricorda di essersi sempre sentita a disagio quando andava a consultare i
volumi di quella sezione, un disagio che aveva attribuito all’idea del
precipizio sotto le fondamenta. In quel momento capisce che in realtà era
dovuto alla coesistenza dei due spazi.
E Ambroise I la sta portando al cuore dell’edificio, dove i due mondi
sono più intrecciati. Da una parte c’è il globo sospeso a mezz’aria del
Secretarium dentro cui gravita un secondo globo all’interno del quale è stata
murata la camera segreta di Eulalia Diyoh, dall’altra c’è tutto un intrico di
antiche scale a chiocciola. Le due dimensioni si sovrappongono così bene
che le pareti dei globi e i gradini delle scale sono trasparenti come calchi.
In certi punti Ofelia vede sotto i piedi un suolo situato duecento metri più
in basso. Vede anche persone nell’atrio piccole come capocchie di spillo in
mezzo alla nebbia. Si tratta della grande riunione interfamiliare che si sta
svolgendo in quel momento su un altro piano dell’esistenza?
Ambroise I si ferma con una riverenza. Ofelia si accorge che, senza una
logica transizione architettonica, sono arrivati nella stanza di Eulalia Diyoh.
Ci rimane male. Sperava, grazie a uno straordinario rimbalzo del destino, di
trovarci Thorn, invece non c’è nessuno. Metà stanza è immersa in una
miscela quasi acquatica di nebbia e ragnatele, in netto contrasto con ciò che
si trova nell’altra metà: mobili lucidi, carta da parati a fiori e tutti gli effetti
personali di Eulalia Diyoh rimasti intatti nel Rovescio, compresa la
macchina da scrivere.
Fra le due metà, a cavallo tra i due mondi, c’è lo specchio sospeso. Ofelia
l’ha attraversato due volte per caso, quand’era nel Dritto. Finalmente vede il
muro, invertito insieme al resto del vecchio mondo, al quale non ha mai
smesso di essere appeso. Più che un muro è una parete che divide lo studio
di Eulalia Diyoh dalla camera da letto. Quante ore ha trascorso seduta là
dentro a parlare con l’Altro, a rifare letteralmente il mondo insieme? Ofelia
ha l’impressione di rivivere quelle ore, quasi che dentro di lei due memorie
si sovrappongano come le due metà del Memoriale.
Nel frattempo si è fermata. Guarda il suo eco, che si sta divertendo a
pigiare a caso i tasti della macchina da scrivere da cui sono scomparse le
lettere, poi Ambroise I, passivamente in attesa in un angolo della stanza. Era
questo che voleva mostrarle? Una stanza vuota?
Ambroise I le indica lo specchio con un sorriso insistente.
Ofelia si avvicina, si guarda, rimane di sasso.
Ha accettato l’idea che il Rovescio sia regolato da leggi particolari, più
simboliche che scientifiche, ma vedere il suo autentico riflesso le causa uno
shock pazzesco: la persona nello specchio non ha niente in comune con lei,
non ha i suoi lineamenti, le sue misure, i suoi occhi, i suoi capelli, eppure è
l’ultima tessera che mancava al puzzle.
Tutto si spiega, assolutamente tutto. Ofelia sa ormai chi è l’Altro, sa qual
è stata la contropartita per l’inversione del vecchio mondo, sa il ruolo che lo
specchio ha avuto e avrà ancora nella storia. Sa pure perché era imperativo
che anche lei si trovasse a bordo del dirigibile insieme agli espulsi da Babel:
se non ci fosse stata, l’intero corso della storia sarebbe cambiato per
sempre.
Si precipita da Ambroise I, gli fa vedere lo specchio, la porta, il
pavimento e il soffitto, cerca di fargli capire a grandi gesti che deve aiutarla
a ritrovare Thorn, perché insieme hanno qualcosa di molto importante da
fare là fuori, dietro dietro!
Il vecchio adolescente le prende le mani per contenerne l’irruenza. I denti
neri del suo sorriso brillano, ma qualcosa di molto navigato in fondo ai suoi
occhi la spinge a calmarsi. Ofelia realizza che anche lui ha qualcosa di
molto importante da trasmetterle, e da parecchio tempo, da prima del loro
primo incontro. Forse all’epoca Ofelia non era consapevole della sua
esistenza, ma lui era già consapevole dell’esistenza di Ofelia, anche se per
apparirle ha dovuto aspettare l’adeguata compenetrazione tra i due mondi.
Le spiega il tutto senza dire una parola, solo con gli occhi.
Con delicatezza fa ruotare le mani di Ofelia, palmo destro verso l’alto e
palmo sinistro verso il basso, poi le fa ruotare di nuovo, palmo destro verso
il basso e palmo sinistro verso l’alto. Ripete l’operazione più volte, alto,
basso, basso, alto, sempre più velocemente. L’eco riproduce la loro
gestualità contorcendo i gomiti, come se fosse un gioco di cui non capisce
le regole.
Quanto a Ofelia, ha paura di capirle.
Un lampo fende l’atmosfera, come se un fulmine silenzioso si fosse
schiantato al centro del Memoriale. Sulle sue spalle la sciarpa sussulta. Per
il tempo di un battito di ciglia metà stanza è scomparsa e riapparsa, come se
cercasse di riunirsi all’altra metà nel mondo a dritto. Ofelia interroga in
silenzio Ambroise I, che annuisce confermando i suoi timori.
Di colpo le torna in mente la terra sconosciuta sulla quale è naufragato il
dirigibile, il villaggio senza scritte, i contadini muti e tagliati fuori per
secoli da ogni civiltà, tanto da dimenticare il concetto stesso di linguaggio.
Vengono dal vecchio mondo. Sono il vecchio mondo. E il motivo per cui
alcune arche si invertono è che quello stesso vecchio mondo si sta contro-
invertendo.
Si guarda le mani rimaste sospese e avvolte dall’ombra del suo
animismo. Palmo verso l’alto, palmo verso il basso.
L’equilibrio tra Dritto e Rovescio è stato reso fragile da Eulalia Diyoh
quando ha invertito metà del vecchio mondo, ma è stata Ofelia a dargli il
colpo di grazia la notte del suo primo attraversamento di specchio, quando
ha aiutato una creatura a fuggire dal Rovescio senza dare al Rovescio una
contropartita simbolicamente equivalente. Da principio il disequilibrio è
passato inosservato; probabilmente si è manifestato con un sassolino che si
invertiva qui o un filo d’erba che si contro-invertiva là. Ormai, come illustra
l’orientamento delle mani di Ofelia, a trasformarsi sono paesi interi. Sempre
più terre e popoli verranno precipitati nel Rovescio mentre altri saranno
rimpatriati nel Dritto, tutti sottomessi ai capricci di una bilancia guasta le
cui oscillazioni si fanno sempre più rapide e aleatorie: una reazione a catena
che finirà per distruggere la bilancia stessa e, con lei, tutto ciò che esiste.
Ofelia non ha scelta e neppure ha più tempo. Deve andare dall’altra parte
e deve farlo subito, da sola, a costo di tornare a cercare Thorn in un secondo
momento. Se non lo fa, lui sarà comunque perduto ovunque si trovi. Tutti
saranno perduti.
Ma come? A che le serve sapere finalmente tutto se non può cambiare
niente?
Alza gli occhi dalle mani per rivolgere una domanda muta ad Ambroise I,
che le fa segno di no. Non ha mai avuto intenzione di farle lasciare il
Rovescio, perché neanche lui può lasciarlo. Le indica invece il suo eco, che
ha trovato un vecchio pettine su una mensola.
Ofelia non capisce.
Ambroise I fa di nuovo il gesto della stretta di mano riconciliatrice.
L’attimo dopo sorride e scompare. Se n’è andato com’è venuto. Forse ha
raggiunto Lazarus nel limbo dell’aerargyrum.
Ofelia guarda l’eco, che senza troppo successo sta cercando di pettinarsi i
capelli annodati. Sarebbe lui la chiave per uscire? Ambroise I ha ragione, tra
lei e l’eco c’è un contenzioso non risolto, e in quel momento si ricorda qual
è: il pezzo di marmo con cui l’eco l’ha minacciata è lo stesso che Ofelia ha
tentato di usare contro di lui quand’era soltanto una voce in un pappagallo
meccanico.
Probabilmente l’eco sente l’attenzione concentrarsi su di sé, perché posa
il pettine e, masticando più in fretta, solleva il mento sfidandola ad
avvicinarsi.
Ofelia sa che se cercherà di avvicinarsi lui si allontanerà, così non si
muove, lo guarda bene in faccia, dritto negli occhiali, lasciando immutata la
distanza sul parquet che li divide. Nonostante Ofelia abbia fretta, restano
immobili per un’eternità. Più osserva quel doppio di se stessa tanto
familiare e allo stesso tempo tanto estraneo, più capisce chi sono in verità
l’una per l’altro, due entità separate che in origine ne formavano una sola.
Il suo eco è l’Attraversaspecchi che lei ha smesso di essere.
«Chi è io».
Ofelia non sa come faccia a parlare, visto che lei è capace di emettere
solo suoni inarticolati. Forse è così perché è nato da una domanda di cui sta
aspettando la risposta. Molto bene. Con gesti lenti indica prima lui poi se
stessa.
Tu è io.
L’eco la osserva continuando a masticare.
Ofelia ripete lo stesso gesto al contrario, prima se stessa e poi lui.
Io è tu.
Appena gli dà la risposta l’eco va finalmente verso di lei con una
camminata tutta storta, più adatta a indietreggiare che ad avanzare. Per la
prima volta smette di masticare e tira fuori la lingua per farle vedere cos’ha
in bocca: una minuscola scintilla di tenebre.
Il Corno dell’abbondanza.
L’eco ha approfittato del passaggio di Ofelia nel Rovescio per portarselo
dietro! Ha rubato all’osservatorio delle Deviazioni la sua pietra angolare, la
fonte di energia che ha permesso a Eulalia di creare gli spiriti di famiglia e a
Lazarus di realizzare varie generazioni di automi. La forza indomabile che
ha invertito tanti sacrificati, a cominciare da Thorn, è lì, sulla punta di una
lingua.
L’eco inghiotte il Corno dell’abbondanza come una pillola e, senza dare a
Ofelia il tempo di reagire, la afferra per la sciarpa e si tuffa con lei nello
specchio della camera.
La sensazione è atroce.
Ofelia è come introdotta di forza in un’altra pelle. La coscienza
individuale dell’eco si dissolve nella sua. Formano di nuovo un tutto unico.
Ha l’impressione contraddittoria di raddoppiare di volume e di appiattirsi
dalle dita dei piedi alla frangia della sciarpa. Non avendo più un davanti né
un dietro lo spazio condanna Ofelia all’immobilità, incastrata a metà strada
tra il Dritto e il Rovescio. Il luogo di mezzo. Un velo che impedisce a
ciascun mondo di mischiarsi all’altro, un velo di cui Ofelia, nonostante gli
innumerevoli attraversamenti di specchio, non ha mai perforato la trama, o
comunque non da sola. Non avendo il potere di creare un altro Corno
dell’abbondanza come dovrebbe fare a contro-invertirsi? Vorrebbe gridare
aiuto, ma la sua gola ha ormai lo spessore di una carta assorbente. Non vede
niente, non sente niente. L’unica cosa di cui ha coscienza è il piede sinistro
che le fa un male cane, come se una forza invisibile cercasse di
strapparglielo. Il dolore le risale nel polpaccio, e a un certo punto Ofelia
capisce che qualcuno all’esterno sta cercando di tirarla fuori dal luogo di
mezzo. Le giungono grida ovattate e lontane, le voci della sua famiglia.
Vuole tornare da loro, lo desidera con tutte le sue forze, ma qualcosa fa
resistenza.
La contropartita.
Per tornare nel mondo al dritto Ofelia deve acconsentire a cedere al
mondo al rovescio una contropartita simbolicamente equivalente. Se non
rispetta la regola non farà altro che aggravare ulteriormente il ciclo delle
inversioni e contro-inversioni.
Affare fatto.

Ofelia si sentì lacerata quando, dopo un ultimo strattone, fu espulsa dal


luogo di mezzo e precipitò di peso in mezzo a un coro di imprecazioni
animiste. Con gli occhiali di traverso e la sciarpa nel panico sgranò gli
occhi inebetita. Guardò la faccia costellata di lentiggini di Agata, la sorella
maggiore, aggrappata alla sua gamba e crollata a terra con lei, poi la madre,
rossa in viso e spettinata, avvinghiata alla vita di Agata, poi il padre
aggrappato all’enorme vestito della moglie, poi la zia Roseline aggrappata
al padre e infine, aggrappati alla zia Roseline come maglie di una lunga
catena, il cognato Charles, le sorelline Domitilla, Beatrice ed Eleonora, il
fratellino Hector e perfino i giovanissimi nipoti, attaccati ciascuno a una
gamba di Hector! Era l’unione di tutte quelle mani ad averle permesso di
tornare nel mondo al dritto. Ce ne fu una di più quando il prozio le porse la
sua. Aveva i baffi sollevati da un sorriso come Ofelia non gli aveva mai
visto in faccia.
«Le vecchie abitudini sono dure a morire, eh? Tendi ancora a incastrarti
negli specchi!».
Ofelia sbatté le palpebre. Era confusa, sbalordita, frastornata e
completamente disorientata. Era tornata ad avere i suoi colori naturali.
Riconobbe intorno a sé un bagno pubblico del Memoriale. Era uscita dal
luogo di mezzo attraverso lo specchio fissato sopra il lavandino, contro il
quale era andata a sbattere durante il passaggio. Non si spiegava come
facesse la sua intera famiglia a trovarsi in quel luogo. Un bebè nudo urlava
su quello che sembrava essere un fasciatoio improvvisato.
Dovette fare ricorso a tutta la presenza di spirito che le rimaneva per
prendere la mano che il prozio continuava a porgerle. O quanto meno a
provarci, visto che i suoi guanti, stranamente molli, non afferravano più
niente. Ne usciva però un vapore argenteo. Il sorriso del prozio si spense di
colpo. Nelle toilette del Memoriale le esclamazioni di gioia si
trasformarono in grida inorridite.
Ofelia non aveva più le dita.
«Ah sì» mormorò con voce arrochita. «La contropartita».
DIETRO LE QUINTE

Ecco fatto. Ha svolto il suo ruolo nella storia. Certo, non era un ruolo
principale, ma se non altro ha permesso a Ofelia di capire quel che c’era da
capire. Lei è uscita da dietro le quinte, e stavolta neanche lui sa cosa la
aspetti sulla scena.
Si avvicina la fine dei tempi, la fine del tempo. È rimasto un solo eco
anticipatore. Ofelia, la vecchia e il mostro stanno per ritrovarsi. Il resto è
soltanto una pagina vergine, recto e verso, sul punto di strapparsi. Tutto e il
contrario di tutto sono possibili simultaneamente.
Sì, non c’è dubbio, entrare in quella gabbia è stata un’esperienza delle
più interessanti.
L’IMPOSTURA

«Presto, fatela sedere qui! No, non lì. Qui, nel salotto di lettura, sul
balcone, starà più comoda. Figlia mia, sei pallida come una lampadina...
Charles, vai a cercare un bicchiere d’acqua, possibilmente potabile! Bene,
figlia, togliamo un po’ questi guanti, forse la situazione non è così
spaventosa come sembra... Per tutti i tromboncini! Le tue mani, le tue
povere mani! Smettila di frignare, Agata, non servirà certo a farle ricrescere
le dita. Forse... che siano soltanto cadute? Domitilla, Beatrice, Eleonora,
tornate nelle toilette a cercare le dita di vostra sorella! Oh, figlia mia, ma
solo a te succedono queste cose? E poi che hai fatto ai capelli? Non sai
quanto avrei voluto venire prima a proteggerti da tutti i pericoli, a
cominciare da te stessa. Perché, ma perché sei scappata? E neanche un
telegramma! Per poco non sono morta d’angoscia».
Ofelia guardava muoversi le labbra della madre. Era passata da un
mondo senza linguaggio a un vortice di parole. La madre le faceva
domande, la compiangeva, la rimproverava, la baciava. Il padre, più
riservato ma meno dispersivo, le fece bere l’acqua dal bicchiere che non era
in grado di tenere da sola. Agata piangeva sovrastando gli strilli del bebè,
l’ultimo nato a cui Charles stava appunto cambiando le fasce quando il
piede di Ofelia era spuntato dallo specchio. Quanto a Hector, che ormai si
era fatto più alto di lei, la scrutava con la massima serietà da sotto la
frangetta biondo-rossiccia del taglio a scodella.
«Perché hai perso le dita?».
«Non ho avuto scelta».
«Perché eri in quello specchio?».
«È difficile da spiegare».
«Perché te n’eri andata da casa?».
«Dovevo farlo».
«Perché non hai mai scritto?».
«Non potevo».
Per rispondere Ofelia dovette deglutire più volte. Si ricordava finalmente
come parlare, eppure non le veniva naturale. Hector arricciò il naso, e tutte
le lentiggini si mossero sulla sua faccia. Dietro ognuno dei suoi “perché”
c’era del risentimento, tuttavia fece uno strappo alla propria regola e
domandò in tono più dolce:
«Ti fa male?».
D’istinto Ofelia posò le sue mezze mani sulle guance del fratello e
osservò il vuoto che c’era al posto delle dita. La pelle era liscia, senza ferite
o cicatrici, come se fosse nata così. No, non le faceva male, ma forse era
peggio. Se avesse sentito le ossa che si rompevano e la carne che veniva
strappata forse avrebbe capito meglio ciò che le stava succedendo. Quei
dieci pezzetti di corpo che avevano fatto di lei la migliore lettrice della sua
generazione erano migrati nel Rovescio appena reincarnati. In compenso
notò che il neo era tornato al punto di partenza, nella piega del gomito
sinistro. Quanto a lei, durante il breve passaggio nel luogo di mezzo era
stata contro-invertita alla perfezione.
Domitilla, Eleonora e Beatrice, tornate dalle toilette a mani vuote,
corsero da lei. Erano troppo grandi per le sue braccia scorciate, ma lo stesso
Ofelia le strinse forte a sé.
La zia Roseline si era seduta di fronte a lei. Denti cavallini e occhi stretti
quanto lo chignon, la squadrava con un misto di disapprovazione e
compassione.
«Preferivo quando ti rosicchiavi i guanti».
Non disse altro, ma quelle parole bastarono a restituire a Ofelia tutte le
sue emozioni. Di colpo fu sommersa da gioia e tristezza, ma non aveva più
dita per tergersi le lacrime che le si incollavano alle ciglia. Provvide la
sciarpa, mandandole però gli occhiali di traverso sul naso.
Ofelia aveva una quantità di domande da fare. Cominciò da quella che
nell’immediato le sembrava la più importante.
«Dove sono gli spiriti di famiglia?».
«Qui al Memoriale, quasi al completo. Renard è andato ad avvertire
Berenilde del tuo arrivo» disse la zia Roseline. Poi si schiarì la gola. «Sì,
sono qui, ma sappi che troverai cambiati anche loro. Soprattutto la piccola
Vittoria, poverina. Non sta affatto bene».
Il prozio si aprì a fatica un varco fino a Ofelia.
«Lasciatela respirare, corpo d’una bretella! Non vedete che ha bisogno di
ricollegare i tubi?».
Facile a dirsi. Dal balcone interno su cui era stata messa, Ofelia vedeva i
piani avvolti ad anello intorno all’atrio e l’agitazione inconsueta che vi
regnava. I memorialisti correvano tra gli scaffali, svuotavano le vetrine,
riempivano carrelli di libri rari. Alcuni gridavano che bisognava evacuare
l’edificio, altri che bisognava restare. Il santuario del silenzio si era
trasformato in un frastuono generalizzato. Per aggiungere confusione alla
confusione l’alta marea aveva diffuso un velo di nuvole dappertutto.
Ofelia alzò gli occhi verso il globo del Secretarium, dentro il quale si
trovava fino a poco prima, che levitava imperturbabile sotto la cupola di
vetro. Conservava del Rovescio un ricordo confuso come un sogno e la
sensazione di non avere affatto le idee chiare. L’unica cosa chiara era che si
sentiva in colpa per essere tornata senza Thorn. Sapeva perché l’aveva fatto,
ma quella scelta le pesava sulla pancia come un macigno. Erano passate
appena poche ore da quando entrambi erano entrati nella gabbia, ma a ogni
secondo la distanza fra loro si approfondiva.
«Dove sono gli spiriti di famiglia?» ripeté.
Cercò di alzarsi respingendo con dolcezza le sorelle e appoggiando
goffamente le mani incomplete sui braccioli della poltrona, ma il prozio la
costrinse a rimettersi seduta.
«Non ti ho tradito, figliola mia, te lo giuro. Da quando te ne sei andata
all’improvviso col signor Cappello Sfondato tua madre mi ha fatto
l’interrogatorio ogni giorno di ogni settimana di ogni mese, e non ho detto
una parola».
«C’è poco da vantarsene!» intervenne la madre, risentita. «Mia sorella si
trasferisce al Polo, mia figlia fugge a Babel, tutti se ne vanno senza darmi
spiegazioni».
«Le arche non girano intorno a te, Sophie!» si spazientì la zia Roseline.
«Poi ci sono stati i buchi» continuò lo zio a voce più alta come se
nessuno lo avesse interrotto. «Anima è diventata un colabrodo! Buchi non
grossi come qui, ma belli grandi comunque, e così profondi che non se ne
vede il fondo, tanto che per poco la Relatrice non è caduta in quello che le
si è aperto in cucina, il che sarebbe stato il male minore».
«Un buco nel campo di zio Hubert» disse Hector.
«Un buco nella cantina di nonna Antonietta» disse Domitilla.
«Un buco in via degli Orefici» disse Eleonora.
«Pluf» sottolineò Beatrice.
«Ne abbiamo avuto uno alla fabbrica di merletti» disse Agata
tamburellando sulla schiena del bebè. «As-so-lu-ta-men-te spaventoso!
Vero, Charles?».
«Anche al Polo ci sono stati crolli» annunciò la zia Roseline. «Una
foresta di abeti e un lago di ghiaccio sono spariti dall’oggi al domani. Non
so se sia per quello, ma all’improvviso Faruk ha deciso di partire dal Polo e
venire a Babel. Non ha voluto scorta né ministri né aiuta-memoria, solo
Berenilde e la figlia, anche se non l’ha citata esplicitamente. Irragionevoli
come barometri» sospirò tra i denti. «Fare un viaggio del genere con i tempi
che corrono, neanche questo fosse l’unico posto al mondo in cui
rifugiarsi...».
«Moriremo?» domandò il figlio maggiore di Agata.
Il prozio imprecò tra i baffi per far stare zitti gli altri e continuò
guardando Ofelia con aria seria.
«Anche Artemide è stata presa dalla frenesia. Ha convocato le Decane in
piena notte e si è messa in testa di andare al Memoriale di Babel, proprio il
posto in cui tu stavi facendo la tua piccola indagine. Allora ho capito che
avevi problemi o stavi per averne, e non sono più riuscito a tenere la bocca
chiusa: ho detto a tua madre dov’eri. In quattro e quattr’otto abbiamo preso
baracca e burattini e ci siamo autoinvitati sul dirigibile di Artemide, una
bagnarola che lei ha animato personalmente. Filava talmente che per poco
non mi sono inghiottito la dentiera! Quando siamo arrivati qui abbiamo
visto che non c’eri, ma abbiamo deciso di fermarci lo stesso. E direi che
abbiamo fatto bene, no?».
Senza fiato per aver parlato troppo il prozio piantò i suoi occhi in quelli
di Ofelia evitando accuratamente le mani senza dita, mani addestrate
proprio da lui, mani che non avrebbero letto mai più.
Ofelia sorrise a lui e a tutta la famiglia. L’ultima azione del suo eco,
prima di dissolversi in lei, era stata riportarla dai suoi. Se non ci fossero
stati loro sarebbe rimasta incastrata nello specchio, stavolta per davvero.
«Grazie di essere qui. E di stare bene».
Tutti si guardarono quasi imbarazzati da quella dichiarazione, senza
sapere bene cosa dire.
«Dove sono gli spiriti di famiglia?» chiese allora per la terza volta
mettendosi risolutamente in piedi. «Devo vederli».
In quel momento Berenilde fece la sua apparizione nella sala di lettura.
Ofelia l’aveva vista bere, fumare e abbandonarsi a tutti gli eccessi senza
mai perdere il suo splendore. Era irriconoscibile. I capelli, di cui aveva
sempre avuto cura in qualsiasi circostanza, le ricadevano sulle spalle
smagrite come una pioggia grigia. Stava spingendo una carrozzina in cui
riposava un corpicino pallido, immobile e silenzioso. Aveva le mani
contratte sul maniglione, come se le fosse indispensabile per reggersi in
piedi. Appena lo lasciò la zia Roseline si affrettò a offrirle il braccio, ma
Berenilde lo rifiutò con un gesto cordiale e, nonostante la magrezza che le
tendeva la pelle sulle ossa, rimase ben dritta. I suoi occhi si ingrandirono
fino a divorarle la faccia mentre passava in rassegna gli Animisti grandi e
piccoli presenti nella stanza, poi si fermarono su Ofelia.
«Lui come sta?».
Berenilde non si era preoccupata né di lei né delle sue dita, ma Ofelia si
sentì travolta da una vampata di gratitudine. Era stata l’unica a pensare a
Thorn, e sembrava dare per scontato che Ofelia l’avesse ritrovato. Cosa
doveva risponderle, che l’aveva perso di nuovo? Che esisteva solo allo stato
di aerargyrum, smarrito da qualche parte nel Rovescio? Che se i due mondi
continuavano a collidere presto non ci sarebbe stato più né Dritto né
Rovescio? Che l’unica persona in grado di impedire la catastrofe era lì al
Memoriale e che Ofelia doveva assolutamente parlarci? Erano molte le
spiegazioni da fornire, e il tempo mancava.
Ne fu dispensata da un minuscolo mormorio.
«M’a».
Tutti guardarono la carrozzina. Guance scavate, occhiaie, pelle cerea,
Vittoria si era tirata a sedere. Storse la bocca emettendo con voce spezzata
la stessa parola, la prima che Ofelia avesse mai sentito uscire dalle sue
labbra.
«M’a!».
Berenilde guardò la piccola in carrozzina senza capire, come se le
avessero sostituito la figlia con un’altra, poi le tremò il mento ed emise un
grido soffocato che le veniva dal fondo dei polmoni. Sollevò Vittoria,
barcollò per il peso, cadde in ginocchio facendo frusciare il vestito e,
abbracciandola con amore rabbioso, scoppiò a ridere e a piangere.
«È incomprensibile» sussurrò la zia Roseline con voce incerta tenendosi
le mani sulla pancia. «Fino a un’ora fa riuscivamo a stento a farle
inghiottire un cucchiaio di minestra».
Tutti si raccolsero intorno a Berenilde e Vittoria. Ofelia ne approfittò per
squagliarsela. Avrebbe festeggiato degnamente la rimpatriata più tardi,
sempre che ci fosse stato un più tardi.
Sgattaiolò tra i banchi di nebbia urtando memorialisti terrorizzati che per
senso del dovere riempivano carrelli di libri. Riconobbe la sezione Brevetti
e invenzioni, a catalogare i quali aveva trascorso ore insieme ai suoi
compagni di divisione. Incontrò varie guardie familiari e Negromanti della
sicurezza, ma stavolta nessuno le chiese i documenti. Regnava il panico.
La tunica, a cui si era sganciato un fermaglio che Ofelia non riusciva a
rimettersi da sola, la impacciava nei movimenti. Non ci teneva ad assistere
alla fine del mondo in sottoveste.
Affacciandosi a una balaustra che dava sull’atrio vide che sotto c’era il
vuoto. Il vuoto vero. Il crollo si era portato via l’ingresso del Memoriale
con le alte porte a vetri, un intero pezzo di muro, lo spiazzo delle mimose,
la statua del soldato senza testa e la stazione del trenuccello. Rotti gli
ormeggi, i dirigibili interfamiliari stavano andando alla deriva. Ofelia
capiva meglio il panico dei memorialisti. Le inversioni stavano assumendo
proporzioni cataclismiche e la sua famiglia era intrappolata su un pezzetto
d’arca che si stava sbriciolando come una zolletta di zucchero. Da un
momento all’altro non ci sarebbe stato più abbastanza suolo a sostenere il
peso della torre. Attraverso quella breccia, tra una nuvola e l’altra, la città di
Babel in lontananza appariva più spezzettata che mai, rosicchiata da un
male invisibile che la mutilava quartiere per quartiere.
Pensò a Seconda che era da qualche parte in un sottosuolo, sola in mezzo
a una folla di echi-automi, in attesa che il fratello venisse salvato. Di sicuro
aveva spinto Thorn nella gabbia per una buona ragione, ma quale?
Si sporse di più dalla balaustra. Gli spiriti di famiglia erano in basso, al
centro dell’atrio, riuniti nel luogo della loro infanzia per la prima volta dopo
secoli, disposti in un cerchio quasi perfetto.
Se Ofelia non aveva fatto errori di calcolo la persona che cercava era lì
fra loro, sotto i suoi occhi.
Dal piano in cui si trovava non era facile distinguerli bene, ma riconobbe
Artemide dalla lunga treccia rossa, Faruk dal suo immacolato candore e
Polluce dalle scintille che producevano i suoi occhi anche a distanza.
Sebbene non avesse mai visto gli altri spiriti di famiglia aveva studiato i
loro ritratti e, uno per uno, riuscì a identificarli: Rê, Gaia, Morfeo, Olimpio,
Lucifer, Venere, Mida, Belisama, Djinn, Fama, Zeus, Viracocha, Yin,
Horus, Persefone, Urano...
All’appello mancava solo Helena, persa per sempre. E Janus.
Ofelia fu travolta dall’inquietudine. E se si fosse sbagliata?
«Stanno aspettando».
Renard si era appoggiato alla balaustra accanto a Ofelia e guardava anche
lui in basso. La zia Roseline non aveva esagerato, era davvero cambiato
anche lui, ma mentre Berenilde e Vittoria si erano fatte più fragili lui si era
irrobustito fin troppo. Il suo corpo sembrava aver assorbito la loro sostanza
e non solo per diventare più muscoloso che mai, tanto che le sue asole
accusavano il colpo. Aveva con sé una carabina enorme, un fucile da caccia
grossa che su Babel gli avrebbe valso l’arresto immediato se la situazione
non fosse stata così caotica. Era la prima volta che Ofelia lo vedeva armato.
Renard era più il tipo che si serviva delle parole, o in casi estremi dei pugni.
Fu colpita soprattutto dai suoi occhi verdi, che sotto le sopracciglia
aggrottate ardevano come una foresta in fiamme.
«Stanno così da quando siamo arrivati a Babel. Un faccia a faccia
interminabile. Sembrano in raccoglimento per la morte di lady Helena, ma
io so che stanno ancora aspettando qualcuno. Il grande capo».
Renard l’aveva detto come se pronunciare quella parola gli facesse venire
il mal di denti.
«Anch’io sto aspettando il grande capo» aggiunse scrutando ogni angolo
del Memoriale dal suo posto d’osservazione. «Eccome se lo sto aspettando.
Presto sarà fra noi, a meno che non sia già qui».
«Quindi l’avete incontrato» constatò Ofelia.
La forza espressa dagli occhi di Renard si fece più intensa.
«A Città-cielo, su un marciapiede. Stavo facendo la guardia mentre il
signor Archibald era in visita da madama Berenilde. Avevamo trovato Terra
d’Arco e il signor Archibald era andato a proporre a madama di venire con
noi per aiutarci a convincere don Janus. Gaela... era rimasta a Terra d’Arco
ed è ancora lì. Con lui. Lui ha preso il mio posto, la mia faccia, il mio gatto
e non posso nemmeno raggiungerli».
Il suo accento del Nord vibrò di collera trattenuta.
«E voi?» domandò Ofelia. «Siete stato...».
«Ferito? No, ed è stato peggio. Lui aveva assunto l’aspetto di un
Narcotico. Mi ha addormentato come un sasso. Se aveste visto il modo in
cui mi ha guardato subito prima... come se non fossi una persona, come se
ai suoi occhi fossi talmente insignificante che non valeva la pena farmi
fuori. Per lui non rappresentavo niente, capite? Zero. Ho servito nobili per
quasi tutta la vita, ma mai mi sono sentito tanto misconosciuto, nemmeno
quando mi hanno sbattuto nelle segrete. Appena uscirà dalla sua tana gli
farò vedere io chi sono».
Renard strinse i grossi pugni per calmarsi, poi guardò le mani di Ofelia.
Le sopracciglia aggrottate in un muraglione di collera si rilassarono, e senza
fare commenti, con tenerezza un po’ rude, le sistemò la tunica che
minacciava di caderle sui sandali.
«E tu, ragazzo, che vuoi fare?».
«Ristabilire una verità» rispose Ofelia senza esitazioni. «Sperando che
quella verità ristabilisca tutto il resto».
Dall’atrio le giunse la voce esile ma limpida di Elizabeth. Al centro del
cerchio degli spiriti di famiglia, tra quelle imponenti corporature, sembrava
più magra che mai. Nessuno di loro faceva caso a lei e al suo emblema di
LUX. Con insistenza, ma senza nessuna autorità, Elizabeth indicava loro il
baratro al posto del muro d’ingresso. «La mia amica è rimasta là sotto... è in
pericolo...». Ofelia si morse il labbro. “La mia amica”. Elizabeth la credeva
ancora all’osservatorio delle Deviazioni con Thorn e Lazarus, alla mercé
dei Genealogisti. Non l’aveva abbandonata, era sinceramente preoccupata
per lei.
Guardandosi in giro alla ricerca del transcendium più vicino Ofelia si
bloccò.
Thorn si ergeva in tutta la sua altezza nella sezione Brevetti. Aveva
sbattuto la fronte contro una lampada del soffitto, il cui paralume di rame
dondolava come un pendolo proiettando una luce agitata sulle vetrine
circostanti.
Era lì, era riuscito anche lui ad andarsene dal Rovescio.
Ofelia non fu in grado di aprire bocca. Le sembrava di avere una spugna
al posto di gola, naso e occhi, di trasformarsi tutta intera in acqua, con una
percezione più che ovattata di tutto ciò che intorno a lei non era Thorn. Lo
rivedeva scomparire dentro la gabbia in un’esplosione di particelle, e aveva
creduto di sgretolarsi con lui.
Thorn la riportò alla realtà con una domanda.
«L’hai trovato?».
Zoppicò verso di lei appoggiandosi pesantemente agli scaffali col rischio
di farli cadere. La gamba priva di armatura sembrava scomposta, come se
sotto i pantaloni gli si fossero riaperte tutte le fratture. Allungando un
braccio il polso magro gli uscì dalla manica di una camicia troppo piccola
per lui.
«Hai trovato l’Altro?» articolò con difficoltà.
Stava per cadere. Ofelia tese verso di lui le mani senza dita, ma Renard
fu più rapido. Fece roteare la carabina e colpì violentemente con il calcio la
testa di Thorn, che si rovesciò all’indietro in un sinistro scricchiolio di
vertebre.
«Le vetrine, ragazzo!».
Ofelia era inorridita. Prima dal collo spezzato di Thorn, poi dall’assenza
di riflesso sulle vetrine. Quell’uomo con la gamba spezzata e la camicia
troppo corta era una versione di Thorn risalente a tre anni prima, quando
ancora era in prigione, il giorno in cui Dio era andato a trovarli.
Ofelia aveva visto quello che aveva voglia di vedere.
Con una contorsione del braccio e un po’ di rumori ossei il falso Thorn si
rimise a posto la testa e posò su Ofelia gli occhi chiari senza degnare di uno
sguardo Renard, come se il suo colpo gli avesse fatto meno effetto di una
puntura d’insetto.
«Volevo solo guadagnare tempo, ma pazienza. A quanto pare niente e
nessuno mi sta facilitando il compito di saltare il fondo... di salvare il
mondo».
I suoi lineamenti spigolosi si arrotondarono fino ad assumere l’aspetto di
una sconosciuta che indossava una divisa molto colorata alla cintura della
quale erano appese una dozzina di bussole: al posto di Thorn, tra le vetrine
dei brevetti c’era ormai una falsa Arcadiana.
«È un regalino utile ma tardivo che mi ha fatto Janus» disse indicandosi
la nuova faccia. «Ti presento Carmen».
Si smaterializzò e rimaterializzò istantaneamente a sinistra di Ofelia,
incollata al suo orecchio.
«Ho l’ultimo potere...».
Sparì e riapparve contro l’orecchio destro.
«...Che mancava al mio repertorio».
«Stai lontana da lei!» tuonò Renard.
Aveva imbracciato il fucile da caccia. Dalla sua postura si capiva che si
era allenato un bel po’ a maneggiarlo. Sprizzava furore.
«Se l’hai toccata, anche solo sfiorata, ti giuro che...».
Ofelia capì che non stava più parlando di lei. A Renard serviva solo una
scusa per premere il grilletto. La falsa Carmen, poco disposta a prenderlo
sul serio, gli indicò un cartello su cui era scritto Silenzio, please. Ofelia vide
gli occhi di Renard dilatarsi dalla rabbia, poi non vide più Renard. Il
Memoriale non c’era più. Un cielo splendente si rifletteva su chilometri di
risaie disposte a terrazza in mezzo alle quali un baratro, che sfondava il
paesaggio come una bocca affamata, traboccava di cumuli di nuvole.
La falsa Carmen era accanto a Ofelia, immersa come lei nel fango di una
risaia fino ai polpacci. Era stato il suo potere familiare a portarle lì.
«È l’arca di Corpolis, un luogo incantevole fino a non molto tempo fa.
Qui potremo parlare senza essere interrotte. Almeno fino al prossimo
crollo».
«Fino alla prossima inversione» la corresse Ofelia.
La spugna nella sua gola si era completamente seccata. Senza le dita non
riusciva a calmare l’agitazione della sciarpa, contaminata dal tumulto delle
sue emozioni. La falsa Carmen la guardò in tralice. I suoi occhi, neri come
quelli di Madre Ildegarda, non avevano luce. Niente era autentico in lei, né
il suo modo grottesco di far tintinnare le bussole né la sua voce
inespressiva.
«È davvero molto lontano il tempo in cui, come te, ero solo una donnina
limitata. D’ora in poi posso fare qualsiasi cosa e andare ovunque. Esiste un
solo punto che resiste al mio nuovo potere ed è proprio lì, in quel Rovescio,
che sei andata a cacciarti. Ho dovuto aspettare che ti degnassi di uscire dal
tuo nascondiglio. Ti sento tesa. Preferisci un posto più familiare?».
Un’acquerugiola autunnale colpì le guance di Ofelia. Il cambio di
temperatura era stato brusco. Stava seduta su una panchina. La strada
davanti a lei era deserta, ma la riconobbe immediatamente. Si trovava su
Anima. Una carrozza senza cavallo, senza cocchiere e senza passeggeri si
dimenava per cercare di estrarre una delle ruote incastrata in un buco.
C’erano buchi dappertutto nella strada e nei giardini, come innumerevoli
camini sotterranei da cui uscivano vapori argentei. Sembrava un
bombardamento. Di fronte alla panchina di Ofelia erano allineate le case di
tegole e mattoni. La luce dietro le tende indicava che erano abitate, ma
nessuno osava più uscire, nonostante ci fossero buchi pure nei tetti.
«Una volta c’era più movimento» commentò la falsa Carmen. «Ricordo
di essere stata proprio bene quando sono venuta qui con la carampana del
funerale... con la Carovana del Carnevale».
Ofelia quasi non la ascoltava. Sotto la pioggia, una casa con tutte le luci
spente era il focolare domestico in cui aveva lasciato la sua infanzia. In
mezzo al vialetto d’ingresso c’era un cratere abbastanza grande da
inghiottire il fratello e le sorelle al primo passo falso.
«Sei fortunata, bambina mia, è un bel quartiere. Io sono cresciuta in un
orfanotrofio militare, ma immagino che tu lo sappia già, avrai fatto le tue
piccole ricerche sull’Eulalia Diyoh che ero allora. La finestrella al primo
piano, quella con le persiane chiuse, è camera tua? È in quella stanza che
hai liberato il mio riflesso dallo specchio?».
Ofelia spostò gli occhi dal cratere davanti a casa per guardare bene in
faccia quell’Arcadiana che tale non era.
«Nonostante tutti i tuoi poteri non sei stata in grado di localizzare l’Altro.
Sai perché?».
La falsa Carmen rimase impassibile sulla panchina, ma Ofelia capì di
averla contrariata. E si stava accingendo a fare ben di peggio, a rischiare
ben più delle sue dita.
«Io lo so» continuò Ofelia. «Non avevi bisogno di travestirti da Thorn
per carpirmi l’informazione. Bastava chiedermelo».
«Dov’è l’Altro?».
Nella domanda c’era molto più che semplice impazienza. Ofelia inspirò
un’aria piena di acquerugiola e rispose:
«Qui. Sei tu».
L’IDENTITÀ

L’Altro guardava Ofelia con occhi vuoti. Il modo in cui aveva ruotato la
testa, senza alcun rispetto per l’allineamento del busto e delle spalle, a una
persona di costituzione normale avrebbe fatto venire il torcicollo. Non
muoveva neanche le ciglia, sulle quali l’acquerugiola di Anima depositava
file di piccole perle.
«Stai insinuando che avresti liberato me dallo specchio, bambina mia?»
domandò calcando bene su ogni sillaba.
Ofelia sentiva con fastidio la mancanza di spazio fra loro sulla panchina.
A lungo aveva creduto che l’Altro fosse rimasto intrappolato in un
minuscolo luogo di mezzo. All’epoca ignorava l’esistenza del Rovescio,
non sapeva che l’Altro c’era nato e non ne era mai stato prigioniero.
«No. La persona che ho liberato dallo specchio, quella con cui mi sono
mescolata, è la vera Eulalia Diyoh. Era prigioniera del Rovescio, per sua
stessa scelta, dalla Lacerazione. Per tutto questo tempo vi siete scambiati i
posti. Perché Eulalia invertisse insieme a sé la metà del mondo serviva una
contropartita simbolicamente equivalente, qualcosa doveva venire fuori dal
Rovescio per rimettere in equilibrio la bilancia. Eri tu: un eco dotato di
parola, consapevole di se stesso, uscito dal ciclo di ripetizione, ma pur
sempre un eco».
«Dov’è il mio Libro?».
L’Altro fece un sorriso impersonale, si alzò e senza il minimo pudore,
con un baccano di bussole, si spogliò sotto la pioggia per esibire il corpo
nudo di Carmen. Appena tolta, la divisa evaporò come fumo. Ofelia notò le
facce di parecchi vicini, tutti suoi parenti più o meno prossimi, incollate alle
finestre, ma la paura di uscire continuava a essere più forte della curiosità.
«Se davvero sono un eco, come dici tu» fece l’Altro ruotando lentamente
su se stesso per non nascondere niente, «dov’è il codice che mi mantiene
incarnato nella materia?».
«Me lo sono chiesta» ammise Ofelia. «Credo che sia proprio questa la
cosa che ti differenzia in maniera fondamentale dagli spiriti di famiglia e da
tutte le forme materializzate di echi. A forza di dialogare con Eulalia Diyoh
ti sei cristallizzato. Ti sei svegliato a te stesso mentre eri ancora nel
Rovescio. Hai sviluppato il tuo pensiero con le tue parole all’interno di una
dimensione priva di un linguaggio proprio. Non hai bisogno di codice, però
hai bisogno di Eula...».
A Ofelia mancò il respiro. Il braccio dell’Altro si era allungato di colpo,
con uno stiramento innaturale di muscoli e ossa, e l’aveva afferrata alla
gola. Aveva sempre il corpo nudo dell’Arcadiana, ma a partire dalla spalla
la sua carne aveva assunto la consistenza gommosa di un Mille Facce. Non
le stringeva il collo al punto di strangolarla, ma quanta fermezza nella sua
presa! Era la forza di una folla concentrata in un solo individuo.
«Sono un pico fatidico... un tipo pacifico. Mi sono sempre battuto contro
tutte le torte di polenta... tutte le forme di violenza. Quindi ti prego,
bambina mia, non obbligarmi a far pedale... a farti male».
La panchina era sparita, Anima pure. Si trovavano tutti e due su Cyclope
in quello che sembrava essere il cortile di una scuola. I luoghi erano stati
evacuati in fretta e furia. Cerchi, biglie e cartelle galleggiavano qua e là in
assenza di gravità, abbandonati sul posto. Un baratro grande come un
vulcano aveva inghiottito tutti gli edifici circostanti.
Sola di fronte all’Altro, Ofelia ne sentiva le unghie sulla gola. Doveva
barcamenarsi con i piedi per non perdere l’equilibrio. Non sapeva da dove
le venisse il sangue freddo di parlare ancora, ma le parole sgorgavano quasi
suo malgrado.
«Tu credi in tutta sincerità di essere Eulalia, vero? Ti sei appropriato
delle sue idee, delle sue contraddizioni, delle sue ambizioni, da secoli segui
il suo copione punto per punto, ma stai solo recitando un ruolo. Sai che in
fondo la maschera che porti ricopre soltanto il vuoto. Sei un riflesso che ha
perso il suo riflesso. È per questo che il volto di Eulalia non ti è più bastato,
che ti sei messo a riprodurre più facce, più maschere, sempre di più...».
L’Altro affondò le unghie nella gola di Ofelia. Sul corpo dell’Arcadiana,
impudicamente inarcato e dotato di un braccio elastico da Mille Facce, il
viso cambiò aspetto. La pelle si schiarì fino al collo, i capelli si allungarono
in folti riccioli e sul naso spuntò un paio di occhiali.
La faccia della donna che somigliava a Ofelia senza esserlo davvero era
quella di Eulalia Diyoh.
«Chi sei tu per decidere chi sono e chi non sono?».
A Ofelia stava cominciando a mancare l’aria, ma si ostinò.
«Chiediti dov’è lei».
Gli occhi dell’Altro si contrassero insieme ai suoi muscoli. La scena
riprese a fluttuare trasportandoli da una prestigiosa pista di pattinaggio
olimpionica a un grande magazzino, poi da un giardino zoologico a una
spiaggia fatta di mandala. Passavano da un’arca all’altra, ma ovunque si
trovassero il suolo era tutto bucherellato. I pezzetti di mondo finiti nel
Rovescio si erano lasciati dietro solo vapori di aerargyrum.
Sospesa al pugno che le stringeva la gola, con gli occhi percorsi da
scintille, Ofelia non respirava più. La sciarpa si dimenava invano per
liberarla. Si domandò se morendo si sarebbe trasformata in aerargyrum, ma
temeva di no. Non avrebbe più rivisto Thorn.
A malincuore, con la testa china in avanti come se si rivolgesse al corpo
nudo di Carmen, l’Altro finì per mormorare:
«Portaci da Eulalia Diyoh».
Ofelia cadde a terra con tutta la sciarpa. L’aria le riempì i polmoni. Tossì
a lungo prima di ricominciare a respirare. Le scintille si dissolsero. Sopra di
lei, un globo galleggiava in assenza di gravità contro un cielo di vetro. Era
di nuovo nell’atrio del Memoriale, in mezzo agli spiriti di famiglia.
Ai piedi dell’Altro.
Il suo polimorfismo era peggiorato: oltre al corpo nudo da Arcadiana, al
braccio sproporzionato da Mille Facce e al volto di Eulalia Diyoh, ostentava
un lungo naso da Olfattivo che annusava l’aria alla ricerca di un odore
preciso. Stava al centro del cerchio formato dagli spiriti di famiglia
scrutandoli uno per uno con diffidenza, come se il colpevole che stava
cercando si nascondesse all’interno della loro pelle. Nonostante la pessima
memoria, probabilmente anche loro lo riconobbero dietro il suo aspetto
sconclusionato, perché vedendolo indietreggiarono. Tutti meno Faruk che,
mutato in statua di ghiaccio, lo guardava in faccia affascinato e disgustato.
Polluce, in quanto patriarca di Babel, lo accolse con una timorosa
riverenza.
«Benvenuto. Credo che vi stessimo aspettando. A proposito di... ehm... di
questo».
Indicò esitante il vuoto minacciosamente vicino che aveva inghiottito
l’entrata del Memoriale, mentre un dolore alterava l’oro del suo sguardo.
«Nostra sorella... Mia sorella... Ho già dimenticato come si chiama. Ci ha
lasciato, ma se fosse ancora qui, ebbene, so che vi domanderebbe
spiegazioni».
«Non è lui».
Faruk sembrò il primo a sorprendersi delle proprie parole, come se
neanche lui sapesse da dove gli venivano. Tuttavia le ripeté con estrema
lentezza.
«Non è lui. Non è Dio. Non il nostro».
Aveva posato una grande mano bianca sul suo Libro infilato da qualche
parte tra le pieghe del mantello polare. Una parte di lui, profondamente
nascosta, si ricordava di essere già stata profanata.
L’Altro non fece caso né a Polluce né a Faruk.
«Lei dov’è?».
Era un ordine, più che una domanda, e l’aveva rivolto solo a Ofelia, la
quale stava cercando goffamente di rimettersi in piedi puntellandosi sulle
mani senza dita. Le faceva male il collo. Cercò con gli occhi la vera Eulalia
Diyoh senza trovarla. Alzando la testa incrociò lo sguardo vagamente
interrogativo di Artemide, come se quest’ultima sospettasse un legame di
parentela fra loro, ma non fosse in grado di ricordarsi quale. Alzando
ancora di più gli occhi vide la gente affacciata alle balaustre dei vari piani e
fra loro, all’ultimo anello, la sua famiglia che la stava chiamando con
grandi gesti pieni di panico.
“Restate là sopra” avrebbe voluto urlare loro.
«Qua non vedo nessuna Eulalia Diyoh» mormorò l’Altro. «Stai castrando
le mie armi?... cercando di fregarmi?».
Mentre si stava domandando se sarebbe sopravvissuta a un altro
strangolamento Ofelia trasalì sentendo un grosso gatto intrufolarsi tra i suoi
polpacci. Salame?
«Su, su, la collera non si addice alla vostra carnagione».
Archibald era letteralmente spuntato dal nulla facendo volteggiare il
cappello intorno al dito. Fedele a se stesso in ogni circostanza, sorrideva.
Gaela, che come lui un secondo prima non c’era, trascinò Ofelia il più
lontano possibile dall’Altro, poi le sollevò il mento senza tanti riguardi e
imprecò vedendo sanguinarle sul collo i segni delle unghie.
«Bisognava tenere questo farabutto chiuso a tripla mandata, non limitarsi
a spiarlo da lontano. Avete fatto un casino, don Janus».
L’aria dell’atrio si spiegazzò come stoffa e ne uscì un gigante mezzo
uomo e mezzo donna che prese posto accanto agli spiriti di famiglia, come
se per lui lo spazio fosse soltanto un sipario di teatro. Ofelia capì allora da
dove fossero sbucati Archibald, Gaela e Salame. Capì anche che l’Altro si
era freneticamente spostato da un’arca all’altra per eludere la sorveglianza a
cui era stato sottoposto.
Con Janus la nidiata era finalmente al completo. Lo spirito di famiglia dal
sesso indefinibile fece risuonare i tacchi sul pavimento e si piantò davanti
all’Altro sovrastandolo a distanza.
«Non avete rispettato il nostro accordo. In cambio del potere di Aguja
dovevate osservare un’assoluta neutralità. Sostenete di essere l’unica
persona in grado di fermare i crolli? D’accordo, ma non intromettetevi nei
nostri affari e soprattutto» disse con un gesto lezioso in direzione di Ofelia,
«non alzate più le mani su uno dei nostri figli».
Con una grottesca contorsione di gambe l’Altro si voltò verso Janus. Il
suono disumano che gli uscì dalla bocca si riverberò su marmi e vetri del
Memoriale.
«Fino a oggi ho vegliato su ognuno di voi da metro le spinte... da dietro
le quinte. Credevo che foste capaci di preservare il mondo perfetto che
avevo creato per voi. Sono stato troppo permissivo. Appena delego, voi
deviate dalla retta via. Ma le rose canteranno... le cose cambieranno».
I piani del Memoriale furono percorsi da mormorii, ma nessuno fece
sentire chiaramente la propria voce. Tuttavia Ofelia notò un uomo, troppo
lontano per capire chi fosse, che stava scendendo di corsa un transcendium.
«Salverò questo mondo per la seconda volta» dichiarò l’Altro, «poi
detterò nuove regole. Molte regole. E corteggerò verticalmente...
controllerò personalmente che ognuno le applichi. Basta con gli
intermediari. Sarò ovunque e saprò tutto».
Gli spiriti di famiglia si scambiarono sguardi confusi. Faruk aveva palesi
difficoltà a rimanere concentrato su quello che stava succedendo. La cosa
più desolante, pensò Ofelia, era che di lì a poco tutti avrebbero dimenticato
ciò che stavano vedendo e sentendo in quel momento. Malleabili a volontà,
non era certo un caso che fossero stati privati della memoria. Di sicuro era
la prima cosa che aveva fatto l’Altro dopo aver preso il posto di Eulalia
Diyoh.
Solo Janus pareva in pieno possesso delle sue facoltà. Gli brillavano gli
occhi neri mentre si arricciava con aria ironica un baffo a spirale.
«E se ci rifiutiamo?» ridacchiò.
L’Altro lo fiutò come un animale, con le narici dilatate, poi dalla costola
gli sgorgò un terzo braccio che si infilò nel cranio di Janus come una lama
e, con uno scricchiolio di ossa, continuò il suo tragitto fino a dividerlo in
due per quanto era lungo. Tutto ciò che componeva il corpo di Janus andò
subito in fumo. Per terra rimase solo un Libro tagliato a metà.
Di Janus non restava niente. L’Altro non ci aveva messo neanche tre
secondi a cancellare secoli di immortalità.
Lo stupore di Ofelia fu condiviso da Archibald, Gaela e tutto il
Memoriale. Salame abbassò le orecchie e soffiò minaccioso. Gli spiriti di
famiglia si erano piegati portandosi una mano sulla pancia con espressione
di intensa sofferenza, come se la morte del fratello avesse intaccato la loro
materialità.
«Che avete fatto?».
Elizabeth mosse un passo fuori dall’ombra di Polluce, che piangeva
piano. Lunga e pallida come una candela, passata inosservata fino a quel
momento, sgranò gli occhi sul Libro tagliato in due, poi andò verso l’Altro
con uno slancio che le sollevò le falde della redingote, batté i tacchi
portandosi il pugno al petto su cui spiccava l’emblema di LUX e guardò
quella creatura proteiforme che ormai non aveva più niente di umano.
«Non... non so chi siate o cosa siate, ma in nome del potere che mi è stato
conferito vi dichiaro in arresto».
Ofelia era allibita. Per quanto la riguardava, come tutte le persone
presenti nell’atrio, non osava muovere un muscolo per paura di essere
tagliata in due. Finalmente vedeva Elizabeth com’era o, più esattamente,
come lei stessa avrebbe potuto essere. I capelli fulvi, le lentiggini, l’alta
statura, la vista buona, perfino l’età: niente di tutto ciò le apparteneva
veramente. Elizabeth aveva preso da Ofelia come Ofelia aveva preso da
Elizabeth.
Con la differenza che Ofelia ormai lo sapeva. Era lei quella che aveva
visto al posto del proprio riflesso nello specchio del Rovescio.
L’Altro, il cui terzo braccio si contorceva a terra come un tentacolo,
arrivò alla stessa conclusione e sorrise con ciò che rimaneva del viso di
Eulalia Diyoh sotto il naso prominente.
«Allora sei tu».
Elizabeth sobbalzò quando l’Altro scomparve e riapparve proprio davanti
a lei, corpo deforme contro corpo informe, a portata di fiato. L’Altro
analizzò con avidità le sue occhiaie, le sue ferite, la sua mancanza di rilievi,
nutrendosi di tutta la debolezza che scopriva in lei.
«Sei tu».
«Prego?».
Elizabeth sembrava completamente smarrita, stringeva le ginocchia per
farle tremare un po’ meno. Il sorriso dell’Altro continuava ad allargarsi
strappandogli la pelle come fosse una maschera di stoffa.
«Sei Eulalia Diyoh».
Elizabeth smise subito di tremare. Quelle tre parole che avrebbero dovuto
restituirle l’identità produssero su di lei l’effetto contrario. Perse vigore
ancora di più, la faccia le si svuotò di ogni sostanza. Era come se la sua
mente si fosse ritirata in fondo al corpo.
«Poco importa chi delle due sia la prima, vero?» continuò l’Altro. «Io
sono supermente infinitamore... infinitamente superiore a te. Guardati,
povera nullità, non sai neanche più chi sei. Allora te lo dico io: sei una
traditrice. Il tuo posto è insieme a tutto ciò che il vecchio mondo aveva di
corrotto. Tornando hai fesso in veicolo... hai messo in pericolo quelli che
sostenevi di voler salvare. Ho il dovere di rimandarti in quello specchio da
cui non saresti mai dovuta uscire».
Una terza gamba gli spuntò dal corpo e batté un grande colpo di tacco sul
pavimento. Il lastricato dell’atrio esplose per l’effetto dell’improvvisa
ondata geologica. La terra tremò. Dalla cupola vennero giù torrenti di cocci
di vetro. Gli scaffali vomitarono libri. La scossa aveva gettato a terra Ofelia.
Grida e fracasso le ronzavano nelle orecchie. Finito il terremoto, la sciarpa
le strofinò gli occhiali per pulirli dalla polvere.
L’atrio era irriconoscibile. Il pavimento era un guazzabuglio di vetri e
sassi. Le colonne si erano crepate, alcune erano crollate. Vari spiriti di
famiglia si ritrovavano tra le braccia uomini e donne feriti a morte che il
sisma aveva fatto cadere dai piani. Tra loro Ofelia non vide nessuno della
sua famiglia, ma continuava a sentire urla provenienti dai quattro angoli del
Memoriale. Si augurò che fossero tutti sani e salvi là sopra. Poi si rese
conto che anche lei sarebbe stata schiacciata da un blocco di marmo se
l’animismo di Artemide non l’avesse trattenuto.
«Grazie».
In mezzo alle macerie una coppia si stava abbracciando con passione.
L’uomo che Ofelia aveva visto scendere il transcendium di corsa era
Renard. Col fucile a tracolla stringeva Gaela tanto quanto lei stringeva lui.
Lui la ricopriva di baci, lei lo ricopriva di insulti: una bolla di felicità in un
oceano di caos.
Ofelia scacciò il pensiero di Thorn rimasto solo nel Rovescio. Non
poteva permettersi cedimenti, non in quel momento.
Dal canto suo, Archibald era coperto di graffi dovuti soprattutto alle
unghie di Salame, che aveva stretto a sé per proteggerlo dalle schegge di
vetro. L’ex ambasciatore emise un lungo fischio di apprezzamento.
Ofelia seguì la direzione del suo sguardo. Nel punto in cui il terzo tallone
dell’Altro aveva colpito il suolo un amalgama di roccia grezza e pietra
tagliata formava una scala che prima non c’era, una scala ripidissima che
portava lassù, al globo galleggiante del Secretarium, sotto una cupola ormai
senza più vetri.
“Lo specchio sospeso” pensò Ofelia. Lo specchio in cui Eulalia e l’Altro
si erano scambiati di posto il giorno della Lacerazione. Lì si sarebbe giocato
tutto.
IL POSTO

Il vuoto stava guadagnando terreno. Aveva inghiottito la statua-automa


addetta all’accoglienza e continuava a mordere il Memoriale un boccone
dopo l’altro, come se l’uso smisurato che l’Altro faceva dei suoi poteri
contribuisse anch’esso all’inversione del mondo. Il richiamo del vento,
sempre più impetuoso, dava a Ofelia la sensazione di lottare contro la
corrente di un fiume. A quel ritmo non sarebbe rimasto più niente da
salvare.
«Spero che abbiate un piano, moglie di Thorn» le sussurrò Archibald
contemplando la scala che saliva fino al cielo.
«Ce l’ho».
Solo che il suo piano si basava interamente su Elizabeth. Ofelia vide con
sollievo che era più o meno indenne. Era caduta in ginocchio davanti
all’Altro con i capelli che le sgocciolavano sulla faccia scioccata. Senza di
lei sarebbe tutto finito. Forse pure con lei. Tutto dipendeva ormai dalla sua
volontà di accettare o meno la verità. Non oppose resistenza quando l’Altro
la prese per mano come una bambina e la costrinse a salire la scala con lui
senza più preoccuparsi di nessuno. A ogni scalino gli spuntavano sul corpo
nuovi organi, braccia, piedi, nasi, bocche, orecchie, rendendo indefinibili i
suoi contorni. Diventava sempre più massiccio, sempre più instabile, come
se tutte le identità che aveva rubato nel corso dei secoli volessero mettersi al
primo posto.
Man mano che saliva, uomini e donne che si trovavano ai piani più vicini
facevano un passo indietro senza riuscire a distogliere lo sguardo. L’Altro
avrebbe potuto trasportarsi direttamente all’interno del Secretarium senza
farsi vedere da nessuno e rispedire Elizabeth dall’altra parte dello specchio,
ma aveva optato per la grande messinscena, con tanto di scala e ascensione
dei gradini: era una condanna pubblica.
Dio era uscito da dietro le quinte e non ci sarebbe più tornato.
Ofelia fu percorsa da un brivido. Pensò a Janus, l’immenso e inafferrabile
Janus eliminato in un secondo, poi si diresse a sua volta verso la scala.
Una mano gigantesca la trattenne delicatamente per la spalla. Sorpresa,
vide Faruk farle di no con la testa. Qualcosa nello spirito di famiglia si
ricordava confusamente di lei o Faruk avrebbe impedito a chiunque di fare
ciò che lei si accingeva a fare? Nonostante il dolore psichico che il contatto
visivo le provocava, Ofelia sostenne il suo sguardo di ghiaccio finché lui
acconsentì a lasciarla.
Gaela, intenta a mordere Renard più che a baciarlo, lo mollò di colpo.
«Non andare. Ho cercato quarantatré volte di fargli la pelle e, non per
offenderti, avevo tutte le mie dita. Quella cosa è inammazzabile. Ma tu no».
I suoi occhi, cielo diurno e cielo notturno, luccicavano di emozioni
contraddittorie. Ofelia invece aveva un’emozione sola: paura. Ma sarebbe
salita lo stesso.
«Eulalia Diyoh non sa più chi è. Sono l’unica che possa aiutarla a
ricordarselo».
Perplesso, Archibald si grattò la barba che gli ricopriva la mascella.
«È questo il vostro piano?».
«Non vi sto chiedendo di venire con me».
Ofelia salì gli scalini con tutta la velocità consentita dai sandali. Era la
scala più ripida che avesse mai fatto. Incespicava sui vetri e sulle pietre, e
non c’era ringhiera a cui appoggiarsi. Smise di guardare in basso quando il
suolo fu troppo lontano e guardò in su verso Elizabeth, sempre più in alto,
che barcollava pietosamente seguendo l’Altro.
«Sei nata in un paese lontano molto tempo fa» le disse con voce forte.
«Sei stata reclutata dall’esercito di Babel. Hai lavorato su un progetto
militare. Hai cristallizzato il tuo eco grazie a una cornetta del telefono».
Le parole di Ofelia sembravano rimbalzare sulle pareti del Memoriale
senza raggiungere la destinataria. Trascinata suo malgrado di scalino in
scalino, Elizabeth era più inespressiva che mai. A vederla così sembrava
davvero che l’eco fosse lei.
Ofelia insisté.
«Hai creato gli spiriti di famiglia con le tue parole e il tuo sangue. Hai
fondato una scuola per loro proprio qui».
All’improvviso l’Altro si immobilizzò in cima alla scala, a un’altezza
vertiginosa. Di fronte a lui, imponente come una luna, il Secretarium emise
cigolii assordanti. Sotto l’azione dei molteplici poteri familiari dell’eco il
rivestimento d’oro rosso si spaccò come carta stagnola e il globo si aprì con
una deflagrazione metallica. Ofelia si protesse come poté. Una tempesta di
travi, bulloni, cilindri, ingranaggi, vasi, argenteria e schede perforate si
abbatté sul Memoriale. Urla delle collezioni di antichità, agonia della più
grande banca dati del mondo, ore e ore passate a catalogare, classificare,
codificare e perforare spazzate via in un istante.
Il Secretarium sembrava un pianeta senza più viscere. Al suo interno era
rimasto solo un secondo globo galleggiante, replica in miniatura di quello
che lo conteneva. A un gesto dell’Altro, anche quello si aprì con una
pioggia di polvere e ragnatele rivelando la stanza segreta con lo specchio
sospeso al centro.
Spinta da una meccanica tellurica sotterranea, la scala crebbe fino alla
camera di Eulalia Diyoh.
Elizabeth guardò le schede perforate che le volteggiavano intorno.
Lottando contro le vertigini che le annodavano lo stomaco Ofelia salì uno a
uno gli ultimi scalini che li separavano.
«Hai inventato il codice dei Libri. Scrivevi romanzi firmandoli con le
iniziali E. D. Sei amica di un vecchio portiere. Soffrivi di sinusite cronica».
«Basta così».
L’ordine uscì dalle bocche dell’Altro. Ne aveva un florilegio su faccia,
collo, schiena e pancia. Con un movimento di carni afferrò Elizabeth per i
capelli, Ofelia per la sciarpa e le sbatté insieme sul pavimento della camera.
Doppio colpo, doppio dolore. La superficie dello specchio sospeso si stava
già annebbiando. Il Rovescio reagiva all’avvicinarsi delle due Eulalie, la
vera e la finta, reclamando quella che era di troppo.
Il tavolato scricchiolò come una zattera sotto il peso dell’Altro, che
avanzava con una sovrabbondanza di gambe e braccia. Gli occhi che gli
affioravano su ogni centimetro di pelle convergevano tutti verso Ofelia, che
attraverso gli occhiali rotti vedeva di lui un’immagine moltiplicata.
Ofelia fece leva sui gomiti graffiati per strisciare fino a Elizabeth
rannicchiata accanto a lei, pallidissima sotto le lentiggini.
«Era la tua camera. Ci passavi ore a scrivere a macchina. Da qui sentivi
crescere i bambini che avevi creato. Mi hai detto che venivi da una famiglia
numerosa, ricordi? Erano loro la tua famiglia. Nessuno ti ha abbandonato a
casa di sconosciuti. Sei stata tu ad andare nel Rovescio, poi mi hai chiesto
di liberarti, io ho creato una breccia e tu sei uscita dallo specchio che avevi
scelto, a Babel, in una casa a caso. È stata una decisione tua, quindi
assumitene la responsabilità. Tu sola puoi far intendere ragione al tuo eco».
Elizabeth la fissò da sotto le palpebre violacee.
«Mi dispiace» balbettò. «È un terribile malinteso».
«Tutto ciò è inutile» le interruppe l’Altro. «Questa traditrice tornerà nello
specchio e tu, piccola, morirai qui. Calpesto la demenza... detesto la
violenza, ma per due volte hai gabbato il Rovescio, non permetterò che ce
ne sia una terza».
Appena la bocca dell’Altro diceva una frase, tutte le altre bocche le
facevano eco. Ofelia aveva smesso di avere paura, era andata oltre, era lei
stessa paura allo stato puro. La vecchia, il mostro, la matita rossa... Guardò
dagli occhiali rotti le decine di braccia che la sovrastavano chiedendosi
quale l’avrebbe fatta a pezzi.
«Contemplami. Rappresento la pera untuosità... l’intera umanità».
Una forte detonazione lacerò l’aria. La scatola cranica dell’Altro volò in
frantumi. Senza fiato per la salita, imbracciando la carabina, Renard lo
sfidava dall’ultimo gradino della scala.
«Tu non rappresenti proprio nessuno».
Con un sorriso selvaggio tra i favoriti rossi, sparò un’altra volta senza
dare all’Altro il tempo di ricomporsi. Gaela, che lo abbracciava alla vita per
evitare che il rinculo gli facesse perdere l’equilibrio, lo guardò con occhi
traboccanti di fierezza e ripeté con lui:
«Non rappresenti nessuno».
Renard scaricò il fucile per la terza volta. Archibald approfittò del
diversivo per intrufolarsi tra le numerose gambe dell’Altro e con una
piroetta raggiunse Ofelia ed Elizabeth.
«Arrivano rinforzi, care signore».
Abbozzò un sorriso autoironico, come se lui per primo si giudicasse
irrimediabilmente pazzo. Ofelia gli fu molto riconoscente di sfidare la
morte per loro, ma come pensava di trarle d’impaccio? Ogni volta la carne
dell’Altro si ricostituiva, e presto Renard avrebbe finito le cartucce.
Archibald si chinò per farsi sentire nonostante gli spari.
«Ascoltate bene, voi due. Soprattutto voi, signorina non-so-più-chi-sono.
Cercherò, e sottolineo cercherò, di stabilire una passerella fra voi. Non
posso imporvi niente, ma voi potrete servirvi di me per rendervi trasparenti
l’una all’altra. Abbiamo pochissimo tempo».
Il silenzio che seguì fu assordante. Renard aveva finito le cartucce.
«Mi correggo» disse Archibald. «Non abbiamo più tempo».
Ofelia ebbe un conato di vomito. Con uno zampillio organico in cui si
mischiavano lingue, denti e viscere l’Altro perse ogni parvenza di
omogeneità. Cominciarono a spuntare non una, ma grappoli interi di teste,
una delle quali si allungò su un collo smisurato, come una pianta a crescita
fulminea, e colpì Renard spaccandogli fronte e naso con un atroce rumore
di ossa che Ofelia sentì sulla propria pelle. Renard perse l’equilibrio.
Trascinata dal suo peso, Gaela non volle lasciarlo e precipitarono insieme
dalla scala senza un grido.
Ofelia fu incapace di chiudere gli occhi. Non potevano essere morti. Non
loro, non così in fretta, non in quel modo.
Accanto a lei, distrutta, Elizabeth continuava a ripetere che era tutto un
malinteso. Archibald aveva smesso di sorridere.
«Non rappresenti nessuno!».
Era la voce della zia Roseline. Con gli occhiali rotti Ofelia vedeva di lei
solo una macchia di colore, quella del suo vecchio vestito verde bottiglia,
che gesticolava dalla balaustra dell’ultimo piano. Un abisso invalicabile la
separava dal piccolo pezzo di pavimento sospeso su cui stava l’Altro, ma gli
stava lanciando contro tutti i libri che le capitavano sottomano, proprio lei
che amava così tanto la carta. Madre, padre, prozio, fratello e sorelle di
Ofelia unirono le loro mani e le loro voci alla sua.
«Non rappresenti nessuno! Non rappresenti nessuno! Non rappresenti
nessuno!».
I libri decollarono. Spinti da tutte quelle volontà animiste si
raggrupparono in uno sciame che ingrandiva a vista d’occhio. «Non
rappresenti nessuno!». Le parole di Renard e Gaela si propagarono da un
piano all’altro e da una bocca all’altra. «Non rappresenti nessuno!». I
memorialisti che stavano cercando di mettere in salvo le collezioni
rovesciarono oltre le balaustre il contenuto dei loro carrelli. «Non
rappresenti nessuno!». L’animismo si trasmise di libro in libro, lo sciame si
trasformò in tornado. «Non rappresenti nessuno!». Migliaia di libri si
abbatterono sull’Altro ricoprendo di carta le sue facce, i suoi occhi, le sue
bocche, le sue orecchie e le sue mani. «Non rappresenti nessuno!».
Ofelia non sapeva se essere fiera, furiosa o terrorizzata.
«Attireranno la sua collera».
Archibald le posò una mano sulla guancia e posò l’altra su quella di
Elizabeth. “Ci stanno procurando tempo” fu il pensiero che in Ofelia si
impose su tutti gli altri. Aveva già sperimentato più volte il potere della
Rete, ma niente era mai stato così sconvolgente come quell’invito
silenzioso e intimo che sentiva vibrare dentro di sé. Stava perdendo ogni
nozione di alterità, ogni distinzione fra dentro e fuori. La baraonda del
Memoriale le risuonava in testa, i battiti del suo cuore riempivano il mondo.
La trama stessa della propria individualità si faceva sempre più porosa.
Aveva una consapevolezza più che acuta della pelle di Archibald sulla sua e
della pelle di Elizabeth su quella di Archibald, come se fossero tutti e tre
avvolti da un’unica epidermide. Archibald era malato. Elizabeth era
vecchia. Lei era sterile. Ofelia capì che nel momento in cui si sarebbe
abbandonata al richiamo della trasparenza non avrebbe potuto nascondere
loro più nulla. Ma così doveva essere. C’era quella memoria in lei
quell’altra memoria che doveva restituire una memoria piena di corridoi
tortuosi e giardini segreti la memoria di Eulalia che voleva salvare il mondo
ma non era riuscita a salvare la sua famiglia anime saldate poi scisse perché
da quella scissione nascesse un’altra alterità quell’eco che ha preso il posto
della sua famiglia ma che non è mai stato la sua famiglia che faceva parte di
me che era me che mi manca lei mi manca Thorn mi manca io mi manco.

Liberami.
Una sola parola. Una parola di troppo. Nel Rovescio parlare è un atto
contronatura. Eulalia ha avuto bisogno di tempo e allenamento, molto
tempo e molto allenamento, per reimparare i rudimenti del linguaggio. Ha
immaginato un nuovo alfabeto a sei anni, inventato un codice di
programmazione a otto, finito il suo primo romanzo a undici, ed ecco che
deve fare sforzi sovrumani per quattro misere sillabe.
Liberami.
Se non altro è riuscita a catturare l’attenzione di Ofelia, che si è trascinata
fuori dal letto e volge intorno a sé uno sguardo appannato. Quello sguardo
passa attraverso Eulalia, che pure è in piedi in mezzo alla stanza, senza
vederne lo sconforto né la speranza. È la prima volta da molto tempo, da
moltissimo tempo, che un abitante del Dritto reagisce al suo richiamo.
Eulalia dispone solo di pochi istanti. Per il momento è il sonno a rendere
Ofelia ricettiva al Rovescio.
Il sonno e uno specchio.
Liberami.
Al contatto delle parole lo specchio della camera vibra come un diapason
invertendone le vibrazioni fino a renderle quasi udibili.
«Liberami».
Nell’altro letto la giovane Agata dorme profondamente tra una corona di
capelli rossi sparpagliati sul cuscino. A un certo punto Eulalia si accorge
che qualcun altro si è seduto sul materasso, un ragazzo in cui tutti i colori
sono invertiti come sul negativo di una fotografia. Ancora lui. Quel giovane
Babeliano ha preso l’abitudine di seguire Eulalia dappertutto come
un’ombra, cosa che in fondo sono tutti e due. I suoi occhi traboccano di un
misto di curiosità e dolcezza. Eulalia sa che non fa parte della vecchia
umanità che lei ha invertito insieme a se stessa. No, il tipo è stato spedito di
recente nel Rovescio grazie al Corno dell’abbondanza che lei credeva
sepolto per sempre, ed è in parte a causa sua se quella notte lei è lì.
Deve rimanere concentrata su Ofelia, che sta barcollando dal sonno
davanti allo specchio, non perdere il contatto che finalmente si sta
stabilendo fra loro.
Liberami.
«Liberami» le fa debolmente eco lo specchio.
Ofelia vi cerca Eulalia, che in realtà sta proprio dietro di lei. Dietro
dietro.
«Eh?».
Tutta la materia inversa di cui è composta Eulalia si contrae. Dopo
un’eternità di silenzio, finalmente un dialogo.
Liberami.
Ofelia si volta, guarda Eulalia senza vederla. È così giovane! Ha un piede
nell’infanzia e uno nell’adolescenza, e graziose mani avvolte dall’ombra del
suo animismo.
«Chi sei?».
A ogni movimento, a ogni parola Ofelia diffonde vibrazioni di sé che
Eulalia sente in fondo alle proprie. Darle una risposta le richiede un’energia
considerevole.
Sono chi sono.
Liberami.
«Come?».
Sulla faccia insonnolita di Ofelia c’è un po’ dell’infanzia di Artemide.
Nelle sue vene scorre lo stesso sangue, lo stesso inchiostro con cui Eulalia
ha scritto l’inizio della loro storia. Fremente di nostalgia, ricorda il giorno
in cui Artemide ha attraversato il suo primo specchio. Succedeva in un’altra
vita, in un’altra città, all’epoca in cui i suoi figli imparavano a servirsi dei
loro poteri, prima di allontanarsene.
Prima di esserne allontanati.
L’Altro ha strappato la loro memoria appena uscito dal Rovescio. Eulalia
ha assistito alla scena da dietro le quinte, ha visto il suo eco farsi passare
per lei, parlare a nome suo e mutilare i Libri di tutti i suoi figli eccetto
Janus, che quel giorno ha avuto la buona idea di non essere presente. Non si
è mai sentita tanto tradita. Non era così che dovevano andare le cose.
Falso.
Dentro di sé Eulalia lo sapeva. L’ha saputo nel momento in cui l’Altro le
ha suggerito di portare con sé nel Rovescio tutte le guerre mentre lui
avrebbe fatto da contrappeso passando nel Dritto. Eulalia voleva salvare il
proprio mondo, l’Altro voleva andarsene dal suo. Dando retta all’eco gli ha
conferito il potere di lasciare il Rovescio e prendere il suo posto, il potere di
creare un passaggio, in pratica un Corno dell’abbondanza provvisorio.
Bastava uno specchio. Eulalia ci ha messo un po’ a onorare la promessa
perché in fondo sapeva che non avrebbe mai dovuto farla. Laggiù, sulla loro
isola, il richiamo dell’Altro era diventato così potente che non riusciva più
ad avvicinarsi a una superficie riflettente senza sentirsi aspirata. Aveva
gettato tutti i cucchiai, tolto i vetri a tutte le finestre, addirittura nascosto gli
occhiali per paura di essere portata via prima di aver finito di crescere i
futuri spiriti di famiglia. Aveva lasciato intatto soltanto lo specchio di
camera sua.
Uno specchio che ha varcato il giorno in cui la guerra è tornata a
minacciare la vita dei suoi figli.
Uno specchio simile a quello in cui l’espressione interrogativa di Ofelia
si sta riflettendo in quel momento, ancora con la domanda “Come?” sulle
labbra.
Attraversa.
«Perché?».
Perché metà dell’umanità non sa di aver vissuto sul sacrificio dell’altra
metà. Perché ormai tutte le guerre spedite nel Rovescio sono finite. Perché
milioni di uomini e donne hanno finalmente deposto le armi e sono usciti
dai loro conflitti uno dopo l’altro. Perché Eulalia è l’unica a non conoscere
la pace. Perché l’Altro è sordo ai suoi richiami. Perché l’Altro non ha
portato la riconciliazione in nessun cuore e nessun focolare del Rovescio.
Perché tutti e due hanno fatto l’errore di credersi Dio. E perché, pensa
Eulalia guardando il giovane seduto sul letto di Agata, a Babel altre persone
stanno commettendo gli stessi errori in quello stesso momento.
Perché è necessario.
«E perché io?» insiste Ofelia.
Eulalia non è un’Attraversaspecchi, personalmente non ha mai avuto il
minimo potere. Ha fatto numerose visite ai discendenti di Artemide
sperando di trovare fra loro qualcuno in grado di riaprirle la strada. In realtà
non sa se Ofelia ne sia capace, ma l’importante è crederci.
Perché tu sei chi sei.
Ofelia trattiene uno sbadiglio. Presto si sveglierà del tutto e sarà troppo
tardi.
«Posso provarci».
Eulalia freme. Scambia un ultimo sguardo con il giovane Babeliano, che
le sorride e solleva entrambi i pollici per congratularsi. Tuttavia qualcosa la
trattiene. Davanti a quello specchio più che in qualsiasi altro luogo ha il
dovere di essere finalmente onesta. Verso Ofelia e verso se stessa.
Se mi liberi cambierà tutto:
io, te e il mondo.
Eulalia teme di aver perso l’occasione, invece Ofelia si decide.
«Va bene».
Si immergono insieme nello specchio. Le loro molecole si urtano, si
incrociano, si mischiano, si attraversano in un interminabile interstizio. Il
dolore è assoluto. Eulalia sente che si sta contro-invertendo un atomo dopo
l’altro, ma già non sono più totalmente i suoi. Le si confondono le idee, la
sua identità si diluisce. Presto uscirà dal luogo di mezzo. Deve affrettarsi a
scegliere la propria destinazione, un qualunque specchio di un qualunque
Babeliano.
È importantissimo che non dimentichi.
Dimenticare cosa?
Deve correggere i loro errori.
Quali errori?
Deve tornare a casa.
Tornare dove?
A Babel.
La comunione si ruppe. Ofelia, che stentava a ridefinire se stessa in
quanto entità distinta, capì il perché vedendo Archibald steso sul pavimento
con il cilindro capovolto accanto a sé. Alla fine aveva perso i sensi. Lei
stessa era stata sul punto di svenire. Quanto a Elizabeth, gemeva
rannicchiata.
Al centro della stanza l’Altro, noncurante, si strappava di dosso con le
sue centinaia di dita le ultime pagine di libro che lo ricoprivano.
Intorno a loro non c’erano più piani né biblioteche né cupola, solo nuvole
cariche di temporale e un inebriante odore di sale. Il vento fece sbattere la
sciarpa e la tunica strappata mentre Ofelia avanzava fino al bordo del
pavimento, al confine tra il solido e il vuoto. Il Memoriale era scomparso?
Incredula, ruotò lentamente su se stessa. A perdita d’occhio si estendeva
un oceano scuro e tumultuoso quanto il cielo. Una flotta di corazzate
vecchie di parecchi secoli andava alla deriva senza meta. Ofelia abbassò la
testa e strizzò gli occhi, disturbata dalle lenti fratturate degli occhiali. Nel
punto in cui prima c’era l’arca del Memoriale l’oceano si fermava di colpo
descrivendo una spirale ululante intorno al vuoto senza riversarvi una sola
goccia, a dispetto di tutte le leggi della natura. La memoria planetaria.
Il Rovescio aveva rigurgitato un pezzo del vecchio mondo e incamerato
al suo posto quel poco che restava di Babel. Si era inghiottito il Memoriale,
Faruk, Artemide, la sua famiglia. Tutta la sua famiglia.
«Posso riportarli indietro» mormorarono le bocche dell’Altro.
Ofelia guardò le facce che gli crescevano in tutto il corpo. Nell’Altro non
c’era più alcuna coerenza molecolare. Le sue braccia disarticolate, simili
alle zampe di un millepiedi, indicarono lo specchio sospeso la cui
superficie, sempre più agitata, non lo rifletteva.
«È colpa tua e di Eulalia. Sta a voi dipanare la vostra polpa... riparare la
vostra colpa. E il mondo è mio».
«Tu non rappresenti nessuno».
Era stata Elizabeth a parlare. Si era alzata. Quando raddrizzò il mento i
capelli le scesero sulla schiena. Il suo corpo privo di forme sembrò
acquistare gradualmente spessore e affermare finalmente la propria
presenza nella realtà.
«Neanche me».
Tutti gli occhi dell’Altro, e ce n’erano una quantità, si spalancarono per
poi richiudersi quasi subito, assorbiti uno dopo l’altro dalla pelle. Anche
facce, braccia e gambe rientrarono, come se una forza irresistibile le
aspirasse dall’interno. Poco a poco il suo corpo rimpicciolì, perse la sua
pluralità e riacquistò un aspetto umano fino a diventare suo malgrado la
copia conforme di Elizabeth, redingote da precorritrice compresa.
L’Altro si guardò le mani costellate di lentiggini, mani prive di poteri
familiari.
«Ora ricordo perché ho rotto il nostro patto e abbandonato il Rovescio»
disse Elizabeth.
Aveva una voce dolce e stanca, ma lo sguardo con cui fissava la copia di
se stessa era inflessibile.
«La vecchia umanità che ho invertito insieme a me non ha più niente a
che vedere con quella che conoscevamo noi. Si è placata, molto più di
quella che ho affidato a te. Sacrificare metà del mondo per salvare l’altra
metà non ha più senso. E poi» sospirò con un accenno di sorriso, «chi siamo
noi per decidere al posto loro?».
Per la prima volta Ofelia colse nella postura dell’Altro un leggero
tentennamento. Non era tanto l’espressione di un dubbio, quanto quella di
un senso di inferiorità, un’incompletezza che le parole di Elizabeth non
colmavano. Stava già lottando per liberarsi del debole corpo che Elizabeth
gli aveva imposto.
Non era proprio il caso di lasciargliene il tempo. Ofelia si proiettò in
avanti a testa bassa e con tutta la forza delle sue mani senza dita spinse
l’Altro nello specchio alle sue spalle. Lo sguardo che le lanciò lui mentre
cadeva all’indietro fu terribile. Al suo contatto la lega di vetro, stagno e
piombo assunse la consistenza di un vortice. Il passaggio verso il Rovescio
si era aperto per ottenere finalmente la contropartita che gli mancava. Poco
disposto a farsi aspirare, l’Altro si aggrappò ai bordi dello specchio. Si
dimenava accanitamente, tornava in superficie. Ignorando i colpi, Ofelia ed
Elizabeth si appoggiarono su di lui con tutto il loro peso per spingerlo
dentro.
Non ci riuscivano. Erano sfinite. Sebbene indebolito, l’Altro resisteva.
Le avrebbe uccise, avrebbe versato sangue realizzando così la profezia
della matita rossa.
Dallo specchio spuntarono due braccia. Ofelia pensò che fosse
un’ennesima metamorfosi dell’Altro, invece si strinsero intorno a lui come
una tenaglia per trascinarlo giù. Erano braccia striate di cicatrici.
Erano le braccia di Thorn.
Aveva approfittato di quella breccia provvisoria nel luogo di mezzo.
Precipitando sotto la superficie dello specchio il viso dell’Altro si dilatò
dalla sorpresa. Perse le lentiggini, le sopracciglia, il naso, gli occhi e la
bocca finché non rimase più alcun viso e si lasciò inghiottire come un
anonimo pupazzo.
Con Thorn.
«Stavolta no».
Ofelia tuffò il braccio nello specchio. Sentì la mano di Thorn afferrare la
sua, ma non avendo più dita non poté fare altrettanto. L’attrazione del
Rovescio era irresistibile come un gorgo. Se Elizabeth non l’avesse
trattenuta per la sciarpa anche lei sarebbe stata risucchiata. Cacciò un grido
quando le si slogò la spalla, ma tenne duro. Avrebbe strappato Thorn al
Rovescio anche se in cambio avesse dovuto cedere metà del proprio corpo.
L’importante era che lui non la lasciasse.
La lasciò.
Perdendo l’equilibrio, Ofelia cadde all’indietro su Elizabeth che cadde a
sua volta su Archibald che stava riprendendo i sensi. La superficie dello
specchio sospeso si spianò fino a tornare solida. Il passaggio verso il
Rovescio si era chiuso.
Ofelia si guardò l’avambraccio. Una mano senza Thorn era peggio di una
mano senza dita.
Tutto intorno a loro ricompariva gradualmente la struttura del Memoriale.
Da principio fu solo un’immagine in filigrana sullo sfondo del cielo e
dell’oceano, quasi un effetto ottico, poi la pietra, l’acciaio e il vetro
acquistarono densità. I resti del Secretarium, la grande scala minerale,
l’ingresso, il giardino di mimose, i transcendium e i piani ad anello si
stavano contro-invertendo. C’era di nuovo la famiglia di Ofelia al gran
completo. Si scambiavano sguardi incerti con i memorialisti.
«Oh oh» fece Archibald.
Anche Ofelia lo vide. Dietro lo specchio sospeso una vecchia carta da
parati stava perdendo lentamente la trasparenza. Rispedire l’Altro nel
Rovescio aveva rotto il contratto. Il vecchio mondo e il nuovo si stavano
riallineando sullo stesso piano. L’altra metà della camera, rimasta fino a
quel momento nel Rovescio, usciva poco a poco dall’invisibile, e con lei
l’altra metà del Memoriale: una metà che gli architetti di Babel, credendola
crollata, avevano interamente ricostruito. Le due parti stavano per entrare in
contrasto.
Elizabeth si mise le mani a megafono e piena di un’autorità nuova
ordinò:
«Evacuate l’edificio! Tutti fuori!».
Ofelia non voleva. Col braccio che le pendeva dalla spalla slogata
guardava intorno a sé la camera che si andava ricostituendo mobile dopo
mobile. Il legno scricchiolava, la pietra esplodeva, l’edificio rumoreggiava.
E se Thorn fosse stato lì, vicinissimo, magari sul punto di ricomparire?
Sentì che qualcuno le prendeva le spalle. Gli occhi di Archibald cercavano i
suoi dietro gli occhiali rotti. Le stava dicendo che dovevano andarsene
subito.
Poi ricevette un colpo, e tutto si fece nero.
GLI ATTRAVERSASPECCHI

L’orto botanico di Polluce era come Ofelia ricordava. L’aria vibrava di


caldo, profumi, colori, uccelli e insetti a cui si aggiungeva un vento nuovo
che veniva dall’orizzonte e sapeva di sale. Oltre le ultime palme
dell’arboretum, dove prima c’era il vuoto, si estendeva l’oceano.
Non c’erano più arche, era tutta terra o tutta acqua.
«Scartoffie in aumento, temo».
Gli occhi di Octavio rosseggiavano sotto l’ombra della frangetta. Non
stava guardando i giardini, ma Seconda che giocava a carte sul prato con
Helena e Polluce nonché la folla sempre più grande di stranieri che
osservavano la loro partita. Uomini, donne e bambini del vecchio mondo
consideravano ogni cosa con curiosità. Erano in movimento perpetuo,
affluivano da tutto il continente, esprimevano la stessa meraviglia muta,
ignari del disagio che suscitavano nelle generazioni attuali. Il vuoto era
forse sparito, ma rimaneva un baratro.
«Due umanità diverse sullo stesso suolo» commentò Octavio come
proseguendo il pensiero di Ofelia. «Mi stupirebbe assistere a una
convivenza senza intoppi. Tutto dipenderà dalle scelte di ognuno, ma
preferisco essere qui a scegliere con loro che non laggiù a subire il mio
inferno. Sorry» mormorò subito, «questo non avrei dovuto dirlo».
Ofelia gli rivolse un sorriso che si allargò vedendo la divisa che
indossava: senza dorature, senza emblemi, senza prestigio. A parte le alette
agli stivali, era il vestito di un cittadino come gli altri.
«Hai il diritto di dire ciò che pensi. Siamo a New Babel, dopo tutto, e in
parte grazie a te. Non era facile apprezzare lady Septima» aggiunse dopo
una pausa, «ma a modo suo vi voleva bene».
Octavio non staccava gli occhi dal viso di Seconda solcato dalla lunga
cicatrice. La sorella rideva. Non c’era bisogno di essere un Visionario per
capire che stava allegramente battendo Helena e Polluce. Aveva
definitivamente messo via le matite, forse perché non c’erano più echi
anticipatori da disegnare. Aveva impedito al più importante di tutti di
realizzarsi. Thorn non avrebbe potuto trascinare l’Altro nel mondo a
rovescio se lei non l’avesse spinto nella gabbia. Del resto non avrebbe
potuto farlo neppure se non fosse stato lui stesso un Attraversaspecchi.
Seconda e Thorn avevano salvato Ofelia dalla matita rossa, e non solo
lei, ma molte altre vite.
«Pensi di tornare dai tuoi?».
Octavio l’aveva chiesto in tono distaccato, Ofelia intuì tuttavia la parola
che non aveva detto, “Rimani”, e le si strinse il cuore. Guardò da lontano i
numerosi membri della sua famiglia intenti a bere il caffè sotto ombrelloni
che giravano per effetto dell’animismo. Avevano ritardato la partenza
finché lei non era uscita dall’ospedale e si godevano le ultime ore a New
Babel senza troppa fretta di riprendere il dirigibile e ritrovare la pioggia. Il
mondo era cambiato, ma le condizioni metereologiche erano rimaste le
stesse.
«Per il momento no. Ma nemmeno rimango».
Octavio aggrottò le sopracciglia.
«Dove vai?».
Ofelia gli rispose con un altro sorriso che lo sconcertò ancora di più.
«Loro lo sanno?».
«Li ho salutati».
«Oh. Well, fine della mia pausa... Devi scusarmi, ma ho del lavoro da fare
da qui alla fine dei miei giorni. Se torni a New Babel hai il dovere di
bussare alla mia porta».
Octavio fece tintinnare le alette da precorritore risparmiando a entrambi
la pena di un ultimo sguardo. Seconda smise subito di giocare per prendere
la mano che il fratello le porgeva. Helena e Polluce guardarono le carte
abbandonate sul prato, incapaci di giocarci se qualcuno non spiegava loro le
regole.
Ofelia rimase da sola sotto gli alberi. Dopo la lunga permanenza nelle
corsie dell’ospedale tutto la affascinava. Sotto il turbante sentiva ancora una
pulsazione dolorosa. Avevano dovuto raparla a zero, ma i capelli le stavano
già ricrescendo. Morire sotto una trave dopo essere sopravvissuta alla
matita rossa e all’apocalisse sarebbe stato davvero ironico. Stando ai medici
se l’era cavata bene. Un brutto bernoccolo, una spalla slogata, dieci dita di
meno e una pancia ancora sterile. In più, vai a sapere se per le successive
inversioni o per il riassorbimento del suo eco, le era tornata la buona
vecchia goffaggine. Sì, se l’era cavata bene.
Non tutti avevano avuto la sua fortuna.
«Mi abbandonate».
Ofelia abbassò la testa. Archibald era sdraiato sotto le alte felci con il
cilindro sul naso e Salame acciambellato contro di lui. Il commento
suonava un po’ strano, visto che non era andato a trovarla una sola volta in
ospedale. Ofelia non gli serbava rancore. Era merito suo se era uscita viva
dal Memoriale, e da quando erano entrati in comunione lo capiva più
intimamente di quanto desiderasse. Ormai conoscevano i segreti l’uno
dell’altra. Lei non avrebbe mai potuto dare la vita, lui non avrebbe potuto
conservare la sua ancora a lungo.
«So che non è la vostra filosofia» sospirò Ofelia, «ma abbiate cura di
voi».
Come tutti i giorni da quando si era svegliata nel letto d’ospedale il suo
pensiero andò ai vivi, a quelli che erano tornati, ma soprattutto agli
scomparsi. Renard. Gaela. Ambroise. Janus. Ildegarda.
Thorn.
«Smettetela» le intimò Archibald.
«Di fare che?».
«Di pensare. Ascoltate, invece».
Ofelia ascoltò. Tra i suoni mischiati dei pappagalli, delle cicale e delle
conversazioni sentì il chiacchiericcio senza capo né coda di Vittoria.
Accanto alla voliera la piccola tirava una palla a Faruk, che alzava sempre il
braccio in ritardo; la palla gli rimbalzava sulla fronte, ma Vittoria non si
scoraggiava, gli faceva raccomandazioni incomprensibili e correva a
riprenderla. Ogni volta che inciampava, Berenilde si alzava d’istinto dalla
panchina su cui si era messa per tenerla d’occhio, ma la zia Roseline le
posava una mano sulla spalla per invitarla a sedersi di nuovo.
Ofelia sentiva già la loro mancanza. Tutti le sarebbero mancati. Forse
non poteva fondare una famiglia, ma quella che si era creata nel corso del
tempo le dava la sensazione di avere più di un focolare domestico. Rivolse
ai genitori, al fratello, alle sorelle, al prozio e a tutti un ultimo saluto con la
mano. Sebbene i guanti che aveva animato durante la convalescenza
dessero l’illusione delle dita, a sostituirle davvero era stata la sciarpa:
aiutava Ofelia a vestirsi, lavarsi e tenere in mano le posate non perché fosse
stata animata a quello scopo, ma perché lei stessa aveva deciso di farlo. Era
finita l’epoca in cui formavano un tutto unico: ormai erano due entità
distinte che stavano insieme per libera scelta. E andava bene così.
«Ve l’ho già detto» la avvertì Archibald da sotto le felci, «se non tornate
al Polo sarà il Polo a venire da voi».
«Torneremo».
Archibald si sollevò la tesa del cappello.
«È un noi?».
Ofelia si allontanò senza rispondere. C’era un’ultima persona che doveva
vedere. Era in attesa davanti al cancello, reggendosi alle sbarre come
un’anziana signora, con le palpebre più appesantite che mai. Un orologio
invisibile si era rimesso in moto insieme alla sua memoria.
«Non hai un gran bell’aspetto» disse Ofelia.
«Neanche tu sei molto presentabile».
«Come devo chiamarti, Elizabeth o Eulalia?».
«Elizabeth. Da un pezzo non sono più Eulalia. Ma la cosa importante non
è il mio nome, sono loro».
Si voltarono insieme verso i giardini in cui gli spiriti di famiglia si
trastullavano goffi. Helena e Polluce stavano cercando di riacchiappare le
carte disperse dal vento, Faruk non riusciva a prendere una sola volta la
palla che gli lanciava Vittoria, e Artemide, visibilmente molto contenta di
sé, aveva rotto la tazza di caffè che le aveva dato il prozio. Giganti regrediti
all’infanzia. Nessuno spirito di famiglia era tornato indenne dal Rovescio.
Dopo la grande contro-inversione, di loro erano rimasti soltanto Libri
cancellati. Elizabeth aveva dedicato l’energia che le restava a dotarli di un
nuovo codice, un codice semplificato.
«L’inchiostro che ho usato stavolta per i Libri non durerà in eterno.
Niente immortalità e niente poteri. Voglio per i miei figli l’inizio di una
storia inedita, poi toccherà a loro inventarsi il seguito senza di me. Mi
sarebbe piaciuto riportare indietro Janus, ma il suo Libro era troppo
danneggiato».
«E i loro Libri dove sono adesso?» domandò Ofelia.
La faccia invecchiata di Elizabeth fece un’espressione enigmatica.
«In un luogo dove nessuno li troverà».
“Dove nessuno strapperà le pagine” capì Ofelia.
Spontaneamente guardarono al di là dei cantieri della città, verso la
lontana torre del Memoriale parzialmente demolita sulla sua isola. Neanche
la biblioteca era tornata indenne dall’inversione. Varie centinaia di migliaia
di libri avevano le pagine cancellate, così come si erano cancellate le lettere
PA dal braccio di Ofelia. Il Rovescio era un mondo in cui la scrittura non

trovava posto.
Quanto allo specchio sospeso, era finito in mille pezzi.
«Niente da segnalare» rispose Elizabeth anticipando la domanda. «Non
faccio che scrutare il mio riflesso: l’Altro non si manifesta più».
Ofelia annuì. Neanche l’ombra di Ambroise I le era più riapparsa. Era
riuscito a manifestarsi solo grazie alla collisione tra Dritto e Rovescio nel
punto in cui il velo tra i due mondi era più tenue, e forse concentrando lui
stesso tutto l’aerargyrum che era umanamente possibile. In un certo senso
non vederlo più era la prova che tutto era rientrato nell’ordine. Quasi tutto.
Osservò i capelli bianchi di cui era punteggiata la lunga treccia fulva di
Elizabeth. Erano legate l’una all’altra da un attraversamento di specchio.
Come due traiettorie gemelle, le loro strade non avevano mai smesso di
incrociarsi, ma ormai stavano per prendere direzioni diverse.
Elizabeth abbozzò un sorriso.
«Sai, il mio ritorno nel Dritto è stato proprio spaventoso. Avevo perso
metà della mia identità e del mio aspetto. Ho terrorizzato una coppia di
Babeliani spuntando all’improvviso nel loro salotto, ma quella che aveva
più paura ero io. Sono scappata, ho vagabondato per strada senza riuscire a
ricordarmi perché ero lì. Forse non volevo ricordarmelo. Suppongo che il
peso delle responsabilità di Eulalia Diyoh fosse troppo oneroso. E poi ai
miei ricordi si sovrapponevano i tuoi: una casa animata, una famiglia
numerosa... Non c’era soltanto il mio passato con gli spiriti di famiglia,
c’era anche un po’ della tua infanzia. Sono arrivata alla conclusione di
essere stata abbandonata. Quando le autorità mi hanno chiesto come mi
chiamavo non sono riuscita a ricordarmelo, ho farfugliato qualcosa come
Euli... Ela... e loro hanno deciso che era Elizabeth. Mi dispiace non poter
vedere il seguito della tua storia» aggiunse saltando di palo in frasca, «ma
quando tornerai non ci sarò più. In realtà sarò morta prima di stasera».
Ofelia fece un’espressione afflitta.
«Sto scherzando. Conto di reggere ancora qualche settimana».
Soddisfatta della battuta, Elizabeth andò a raggiungere gli spiriti di
famiglia zoppicando e sghignazzando come una vecchia.
Se non ci fosse stata Ofelia sarebbe già passata a miglior vita. Se il treno
dell’osservatorio delle Deviazioni fosse andato direttamente al terzo
protocollo, Ofelia non sarebbe stata consegnata a lady Septima insieme a
Elizabeth. Non sarebbe salita a bordo del dirigibile con lei. Non avrebbe
potuto ricorrere all’animismo per salvarla dal naufragio. Non avrebbero
scoperto insieme la ventiduesima arca. Non sarebbero tornate tutte e due a
Babel a bordo del lazarottero. Elizabeth non sarebbe mai stata in grado di
riprendere il sopravvento sull’Altro. Dritto e Rovescio sarebbero rimasti in
disequilibrio fino al caos finale.
Insomma, la storia sarebbe finita un po’ meno bene. Ofelia percorse il
ponte, che ormai si estendeva sull’oceano, poi attraversò il mercato delle
spezie. Era molto più affollato dell’orto botanico. Ai Babeliani attuali si
mischiavano i Babeliani di un tempo, che guardavano, annusavano e
assaggiavano tutto quello che era a portata di mano facendo indispettire i
mercanti. Da tutte le parti era richiesto l’intervento della guardia familiare.
Octavio aveva ragione, la convivenza non sarebbe stata facile.
Facile no, ma salutare sì. Le venne in mente la ragazza incontrata nel
villaggio abbandonato della ventiduesima arca. Quelli che erano tornati dal
Rovescio avevano lo stesso sguardo, uno sguardo di accettazione totale,
senza etichettatura, che non faceva confronti, in cui ogni cosa acquistava un
valore particolare. Uno sguardo che ridefiniva l’alterità. Lazarus aveva
detto una quantità di sciocchezze, ma almeno su un punto aveva visto
giusto: «Abbiamo molto da imparare da loro».
Ofelia guardò lontano quanto glielo permettevano la folla e la città:
l’oceano da una parte e il continente dall’altra, il nuovo e il vecchio mondo.
Le batteva il cuore. C’era così tanto da vedere e da scoprire!
Attraversò le rotaie del tram e si fermò solo quando giunse davanti
all’insegna:
VETRERIA – SPECCHI

Entrò. La sciarpa chiuse la porta alle sue spalle. Il negozio era


praticamente deserto. Il vetraio stava parlando al telefono con un cliente. La
radio sul bancone trasmetteva una vecchia aria d’opera di cui Ofelia non
ricordava mai il titolo.
L’uccello che credevi di catturare
Con un battito d’ali è volato via.
L’amore è lontano, puoi aspettarlo.
Non lo aspetti più, è qua.
Non c’erano più echi a spezzare la melodia, il fenomeno era diventato
raro. Mentre Ofelia camminava tra due file di specchi cercando di non
rompere niente la sua immagine si sdoppiò all’infinito. Il Rovescio era il
riflesso del Dritto, ma se il suo Dritto fosse il Rovescio di qualcun altro?
Sempre al telefono, il vetraio non l’aveva notata. Meglio così. Andò in
fondo al negozio, dove lui non poteva vederla, e si fermò davanti allo
specchio più grande, alto quasi il doppio di lei. Ofelia aveva un aspetto ben
strano col grosso turbante sulla testa, la sciarpa nervosa, la tunica ricucita
dalla sorella e guanti impazienti, animati dalla sua febbrilità, che
dimenavano le dita di mani incapaci di prendere, incapaci di leggere.
Incapaci di trattenere Thorn.
Fissò il proprio sguardo, ma quello che vi cercava si situava molto al di
là. Dietro dietro.
«Mi hai lasciato la mano apposta, vero?» mormorò. «Non volevi
trascinarmi dall’altra parte con te».
Thorn, Lazarus, i Genealogisti, Mediana, il cavaliere e Ambroise erano
rimasti nel Rovescio perché vi erano entrati tramite il Corno
dell’abbondanza. Non facevano parte della contropartita, l’accordo tra
Eulalia e l’Altro non li aveva mai riguardati. Erano ormai fuori portata, né
del tutto morti né del tutto vivi.
In ospedale, appena era riuscita a scendere dal letto si era infilata nello
specchio del bagno ed era uscita da quello del corridoio, poi l’aveva fatto e
rifatto più volte cercando di raggiungere il luogo di mezzo, ma non c’era
più riuscita. Era come se il confine tra i due mondi si tirasse indietro. Alla
fine le infermiere l’avevano legata al letto per costringerla a riposarsi. Una
volta dimessa era tornata nel sotterraneo dell’osservatorio delle Deviazioni,
ma come si aspettava il Corno dell’abbondanza era sparito. Il suo eco
l’aveva inghiottito per permettere a lei, e solo a lei, di contro-invertirsi.
Non c’erano più passaggi verso il Rovescio, non c’era più comunicazione
fra i mondi, nel bene e nel male.
Thorn aveva restituito all’umanità i propri dadi, ma chi avrebbe restituito
i suoi a lui?
«Noi» disse Ofelia. «Io e te».
Non era una promessa, era una certezza. Mai avrebbe rinunciato, e se era
necessario che attraversasse tutti gli specchi del mondo l’avrebbe fatto. Non
c’era più un passato da capire né un futuro da conquistare. Era nel qui e ora
che avrebbe ritrovato Thorn.
Chiuse gli occhi. Respirò. Si svuotò di ogni aspettativa, ogni desiderio,
ogni paura. Dimenticò se stessa, come per una lettura. L’ultima.
«Perché noi siamo Attraversaspecchi».
E si tuffò nel proprio riflesso.
Anche un po’ di più.
RINGRAZIAMENTI

A te, Thibaud, per aver vissuto insieme a me, e certe volte più
intensamente di me, tutta la storia intorno a questa storia fino alla fine e
oltre. Sei presente dietro ogni lettera di ogni parola di ogni frase che ho
scritto.
A voi, mie preziose e ispiratrici famiglie di Francia e del Belgio, di carne
e di penna, d’oro e d’argento. Fate parte dei miei libri più intimamente delle
pagine che li compongono.
A voi, Alice Colin, Célia Rodmacq, Svetlana Kirilina, Stéphanie
Barbaras per tutto ciò che mi avete dato e insegnato con le vostre parole.
Grouh.
A te, Camille Ruzé, che mi hai colmato di umorismo e di disegni senza i
quali quest’ultimo volume non sarebbe ciò che è. Anche un po’ di più.
A voi, Evan e Livia, per essere chi siete: emozione allo stato puro.
A Gallimard Jeunesse, a Gallimard e a tutti i miei editori interfamiliari
per aver portato l’Attraversaspecchi da un’arca all’altra.
A te, Laurent Gapaillard, per aver reso le mie scene in maniera sublime.
A tutta la Clique de l’Écharpe per l’incredibile creatività e l’inimitabile
buonumore che avete diffuso intorno all’Attraversaspecchi.
A voi, Émilie Bulledop, Saefiel, Déborah Danblon nonché a ogni libraio,
bibliotecario, documentalista, professore e cronista che ha passato e fatto
passare il mio specchio.
A te, Carole Trébor, per la tua amicizia e i tuoi libri.
A te, Honey, per aver creato la community Plume d’Argent e aver
creduto in me.
A te, Laetitia, che per prima mi hai spinto a scrivere.
A te, lettrice, e a te, lettore, per aver attraversato il mio specchio e
condiviso quest’avventura pagina dopo pagina.
E infine a te, Ofelia, per avermi accompagnato così intimamente dal
primo all’ultimo passaggio di specchio. Già mi manchi.
Nota sull’Autrice

Christelle Dabos (1980) è cresciuta a Cannes in una famiglia


di musicisti e artisti. Scrive le prime storie all’università.
Durante un periodo di convalescenza si unisce al Plume
d’Argent, una comunità di scrittori su Internet che la
incoraggia a partecipare a un concorso organizzato da
Gallimard Jeunesse. Dal 2005 vive e lavora in Belgio. Nel
2013 ha vinto il Prix du Premier Roman Jeunesse Gallimard-
RTL-Télérama per Fidanzati dell’inverno, pubblicato da E/O
nel 2018, seguito da Gli scomparsi di Chiardiluna e La
memoria di Babel (E/O 2019). Nel 2016 i primi due libri
della saga sono stati premiati con il Grand Prix de
l’Imaginaire.
Cara lettrice, caro lettore,

ti ringraziamo per aver comprato questo libro in un punto vendita


autorizzato (e non da un rivenditore che ha violato la legge del libro
vendendo con uno sconto superiore a quello consentito per legge o si è
rifornito presso un circuito di distribuzione illegale).

Apprezziamo il tuo gesto perché è un atto concreto contro la pirateria che


danneggia pesantemente il sistema editoriale italiano. Secondo i dati
presentati al convegno dell’Associazione Italiana Editori il 22 gennaio
2020, la pirateria di libri fisici ed elettronici, ovvero il download illegale di
testi in formato digitale, le fotocopie illegali, la contraffazione vera e
propria di libri fisici presso tipografie non autorizzate, causa un danno
economico pari a un quarto del fatturato di libri nel nostro paese, mancate
entrate nell’erario per 216 milioni di euro, una perdita di 8.800 posti di
lavoro considerando anche l’indotto.

Ciò che noi possiamo assicurare è che il prezzo che hai pagato per questo
libro va interamente a remunerare tutte le persone che hanno contribuito a
pubblicarlo e a distribuirlo (l’autore, l’editore, il traduttore, il redattore, il
grafico, il tipografo, il dipendente della casa editrice, il distributore, il
promotore, il libraio, ecc.). Tutte persone che svolgono il loro lavoro con
onestà e impegno e che vengono letteralmente derubate a ogni atto di
pirateria.

Il prezzo che hai pagato per questo libro serve a mantenere in piedi un
sistema editoriale ampio e articolato, in cui i successi editoriali affiancano
le migliaia di nuovi libri pubblicati ogni anno senza lo stesso successo ma
che sono parimenti indispensabili per un sistema di bibliodiversità fondato
sulla ricerca e sul pluralismo delle voci.
Gli editori

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