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La Cappella Palatina di Palermo:

Fatti, personaggi e movimenti artistici connessi


alla realizzazione di questo manufatto

Introduzione
Dedicata già nel 1132 a S. Pietro Apostolo, la Cappella Palatina si trova da
sempre “incastonata” nel Palazzo Reale di Palermo e di quest’ultimo, pertanto,
ha seguito le diverse vicende storiche.
Difficile ad oggi riferirci a precise datazioni in merito alla progettazione e
realizzazione di questo edificio religioso: pochissimi i documenti scritti
pervenutici dal medioevo, rara la critica elaborata da cronachisti e viaggiatori
del tempo e scarsa e imprecisa, ancora, la bibliografia moderna.
Il primo documento è datato 1132: dietro sollecitazione di Re Ruggero II, la
Cappella Palatina di Palermo venne elevata al rango di Parrocchia
dall’Arcivescovo Pietro: “Cappellam vestram in honore beati Petri,
Apostolorum principis, intra Castellum superius panormitanum fundatam…
parochiali dignitate… munire decernimus” (B. Rocco, La Cappella Palatina di
Palermo: lettura teologica, in “BCA Sicilia, Anno IV (1983)” pp. 21-74).
Del 28 aprile 1140 è il documento che reca la testimonianza della celebrazione
del giorno della dedicazione a San Pietro, durante il decimo anno del regno di
Ruggero II (che era stato incoronato il 24 dicembre del 1130) e la dotazione da
parte del Re di benefici e contributi alla chiesa. Già nel 1143 erano stati portati

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a termine i lavori di realizzazione dell’impianto architettonico e musivo nella
zona del presbiterio, come ci riferisce una data leggibile lungo la fascia musiva
alla base della Cupola.
Del 29 giugno 1143 è, inoltre, l’omelia pronunciata dall’arcivescovo di
Taormina Filagato da Cerami nel corso della cerimonia di inaugurazione per la
festa dei santi Pietro e Paolo, all’interno della stessa Cappella. Filagato rimane
stupefatto e meravigliosamente impressionato in particolare dal soffitto della
chiesa, tanto che ne descrive la bellezza della decorazione con particolare
riferimento alla volta policroma. Le sue parole: il tetto infatti non si può certo
saziare di guardarlo, e desta meraviglia a vederlo e sentirne parlare, essendo
adornato di certi finissimi intagli variamente lavorati a forma di piccoli
canestri, e rifulgendo d’oro da tutte le parti imita il cielo quando nell’aria
serena risplende per il coro delle stelle (G. DI MARZO, Delle Belle Arti in Sicilia,
Palermo 1859).

Il Soffitto della Cappella


Già allo sguardo dei primi studiosi isolani la presenza di un soffitto ad alveoli
(Muqarnas) si è tinta di particolare sapore e si è aperta a molteplici e
suggestive considerazioni. Nonostante la straordinaria lavorazione del soffitto,
però, fu solo nella prima metà del XIX secolo che se ne riconobbe
scientificamente la paternità a maestranze musulmane. Fu Gioacchino di Marzo,
infatti, il primo ad attribuire l’esecuzione del manufatto a carpentieri islamici,

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che nella Cappella Palatina lavorarono fianco a fianco con i mosaicisti bizantini
che ne decoravano le pareti. Altri prima di lui avevano parlato di artisti cristiani
profondamente influenzati dalle locali tradizioni decorative musulmane, poiché
era inimmaginabile che maestranze islamiche avessero lavorato all’interno di
una chiesa. E invece era proprio fuori dal mondo cristiano che Ruggero,
volendo per ogni angolo della sua Cappella privata il meglio che al suo tempo si
potesse realizzare, dovette cercare gli artefici per il soffitto; così chiamò gli
abili artisti musulmani che gli donarono un capolavoro.
Sulle tavole del soffitto si sviluppa un grande ciclo pittorico medievale che, con
un disegno netto e nitido e con uno stile grafico raffinato, restituisce immagini
vivide e lucenti della corte normanna di una Palermo ricca e cosmopolita. Sono
scene di vita, anche quotidiana, che non rinuncia ai piaceri mondani e ad un
gusto edonistico dell’esistenza. Prendono forma così figure di musici, bevitori,
animali, cavalieri, lottatori e danzatori, nella più splendida policromia un tempo
arricchita e resa più preziosa dall’uso della foglia d’oro, le cui tracce sono state
individuate dal recente restauro della superficie pittorica. Dopo un’attenta e
delicata pulitura, infatti, è oggi possibile apprezzare certe tonalità che, seppur
lontane dalla loro brillantezza originaria, colorano di ocra, verde e vermiglio
abiti e personaggi. La massima parte dei soggetti rappresentati nel soffitto della
Cappella Palatina rientra in un patrimonio che non è solamente proprio al
mondo fatimida ma che è anche, più generalmente, mesopotamico. Esso ci è
noto non tanto attraverso la grande pittura monumentale, purtroppo oggi quasi
del tutto perduta, quanto per mezzo delle arti minori: legni intagliati, avori,

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tappeti e stoffe. Proprio i tessuti costituivano un veicolo di diffusione di
elementi iconografici in quanto oggetto di floridi scambi commerciali, tanto da
parte dei musulmani, tanto dei cristiani. Di stoffe in seta figurate, arricchite da
grandi iscrizioni in cui veniva applicato lo stesso principio decorativo, si hanno,
infatti, abbondanti notizie già negli antichi inventari dei tesori ecclesiastici
soprattutto italiani. Va ricordato, inoltre, che nel XII secolo erano intensi i
rapporti fra i Normanni stanziati in Sicilia e gli stati crociati della Siria
settentrionale, da ciò la possibilità di una rilevante importazione nell’isola di
manufatti e, forse, anche degli stessi artefici introdotti probabilmente sotto
forma di schiavi.
Molte delle nicchie che compongono il perimetro del soffitto presentano anche
delle iscrizioni a carattere cufico (stile calligrafico della lingua araba) di
difficile interpretazione. Le uniche che si riescono a decifrare contengono
parole di augurio, come ricchezza e felicità, come già aveva riportato Michele
Amari, studioso palermitano della Sicilia musulmana, che le aveva ricondotte a
quelle presenti nel soffitto dipinto della chiesa della Magione fondata a Palermo
nel 1150. Più complessa risulta la disposizione delle iscrizioni intorno alle stelle
ad otto punte che si trovano nella parte piana del soffitto. Tali iscrizioni, in un
elegante cufico a caratteri bianchi, mostrano la stessa mano in tutti i sedici
cassoni e verosimilmente sono da attribuire ad un abile calligrafo, diverso
dall’autore delle iscrizioni nelle nicchie, la cui origine si pone certamente
all’estremità orientale del mondo islamico. Quanto al significato, dice ancora

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Amari, si tratta di parole sciolte che significano gloria, dignità, onore e che
fanno riferimento alla potenza del sovrano e alla ricchezza del suo regno.
I sovrani normanni apprezzavano particolarmente le decorazioni di stampo
islamico. Lo stesso Ruggero aveva commissionato ad artisti probabilmente
provenienti dalla stessa area culturale un altro splendido gioiello di carpenteria,
che doveva essere il tetto della maestosa Cattedrale che avrebbe dovuto ospitare
la sua famiglia dopo la morte: il duomo di Cefalù (vi è qui rappresentato un
ciclo composto da una lunga teoria di medaglioni in cui vengono raffigurati
personaggi abbigliati in maniera pressoché esotica con un tangibile richiamo
all’Oriente, oltre che nell’esecuzione anche nella fattura delle tavole stesse.
Anche i pigmenti utilizzati non sembrano essere usuali ma fanno pensare ad una
bottega reale, in particolare il lapislazzuli, tanto raro da rendere questo ciclo
pittorico un gioiello nel vero senso del termine, scintillante e prezioso come un
mosaico, cfr. M. G. AURIGEMMA, Il cielo stellato di Ruggero II. Il soffitto dipinto della
cattedrale di Cefalù, Milano 2004).
Le muqarnas sono una soluzione decorativa in uso presso l’architettura
musulmana. Esse sono originate dalla suddivisione a più livelli di una superficie
piana; ne risultano, così, svariate nicchie angolari che raccordano un piano
d'imposta con quello orizzontale di una copertura. In realtà, l’uso di questa
tecnica nasce soprattutto per raccordare un piano d’imposta circolare (la base di
una cupola) con il quadrato sottostante. La resa è quella alveolare, a nido d’ape,
ma la variante più affascinante è probabilmente quella recante un effetto a
stalattiti. Usate, allora, come elementi architettonici per ornare cupole, volte e

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portali, in grado di armonizzare i punti di contatto tra pareti e cornici, vennero
realizzate in svariati materiali quali lo stucco, soprattutto, o il legno. Strepitoso
è l’avere scoperto, in seguito all’ultimo intervento di restauro, che la struttura,
composta da tanti listelli lignei, fu realizzata con l’abies nebrodensis (abete
dei Nebrodi), oggi rarissima specie, di cui sopravvivono pochissimi
esemplari in Sicilia (nelle odierne Madonie) e non con il cedro del Libano. Si
è altresì compreso che il soffitto, del tutto modulare, fu quasi interamente
dipinto al suolo per poi venire montato dove oggi è possibile ammirarlo.

La Cupola
La cupola della Cappella Palatina, essendo la sezione architettonica che
sormonta il presbiterio, è il principio iconografico della chiesa di Ruggero II. Il
Pantocrator (Pantokràtor: dal greco tutto possente) al centro, è una finissima
realizzazione di scuola bizantina, caratterizzato da una spiccata ieraticità e da
una linearità esecutiva che rende leggera ed elegante la figura mosaicata. Nella
mano sinistra un libro chiuso indica che la rivelazione non è ancora
avvenuta. La benedizione con la mano destra rimanda a canoni bizantini che
palesano la sintesi fra la natura umana e quella divina di Cristo, attorno una
frase d’Isaia recita: “il cielo è il mio trono, la terra sgabello ai miei piedi”.
Periferici alla figura principale quattro angeli e quattro arcangeli; se poco
possiamo dire sui primi, è invece possibile soffermarsi sui nomi espressi in
greco dei secondi che li identificano in modo tuttora perfettamente

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riconoscibile: Raffaele, Michele, Gabriele ed Uriele. Testimonianza del loro
status sono: il globo crucigero (sfera con all’interno una croce, simbolo del
dominio di Dio sul mondo) ed il labaro (bastone porta vessillo) di derivazione
costantiniana. Abbigliati secondo i canoni bizantini, unici per raffinatezza ed
opulenza, Raffaele e Gabriele indossano le vesti da principi militari; Michele ed
Uriele gli sfarzosi paludamenti da imperatori orientali. Scendendo verso il
basso i profeti: Ezechiele, Geremia, Giona, Mosé, Eliseo, Daniele, Elia, Isaia,
Zaccaria, Davide, Salomone e Giovanni Battista; all’interno delle nicchie
angolari i quattro evangelisti (Matteo, Luca, Marco e Giovanni) a figura intera,
riprodotti secondo canoni orientali nell’atto di redigere i loro vangeli. Una data,
che utilizza riferimenti bizantini, indica l’anno 1143 d. C., quello in cui
presumibilmente venne completato il presbiterio. Nella zona della Prothesis
(abside minore alla sinistra dei fedeli), si evidenzia la presenza di alcuni Santi
martiri militari, quali Demetrio, Mercurio e dei Santi dottori della chiesa
orientale: San Basilio il Grande, San Gregorio Nazanzieno, San Gregorio di
Nissa, San Giovanni Crisostomo, San Nicola (venerato in tutto il regno
meridionale ed in particolare a Bari).

Le principali scene delle navate


L’edificio palatino reca una pianta che è frutto della giustapposizione di due
tipologie differenti di edifici religiosi: la basilica latina a tre navate (simbolo

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della chiesa di Roma) e l’impianto greco a cubola (un sistema centrico a forma
di cubo sormontato da una cupola).
Protagonista incontrastato di quello che oggi, a ragione, può definirsi uno dei
monumenti simbolo della cristianità occidentale è il famoso Cristo realizzato
secondo l’iconografia del Pantocrator (dal greco tutto possente). All’interno
della Cappella Palatina se ne contano tre: il più antico è senz’altro quello della
cupola, seguono quello realizzato nel catino absidale e quello nell’abside
minore di destra (detta del Diaconico in quanto in origine, nelle prime basiliche
paleocristiane e poi bizantine, era destinata alla vestizione dei Diaconi). Il
grande busto di Cristo del catino absidale reca il titolo greco “Gesù Cristo” e
regge nella mano sinistra il libro aperto sulle cui pagine si legge: Io sono la luce
del mondo. Chi segue me non cammina sulle tenebre, ma avrà la luce della
vita, in testo bilingue: greco a sinistra, latino a destra. La mano destra,
purtroppo pesantemente restaurata, è in atto di benedire. All’interno dell’arco
adiacente l’abside centrale, sono i due Arcangeli: Michele a destra, Gabriele a
sinistra, pronti a servire la Maestà divina. Sul punto più alto dello stesso, al
centro l’etimasia (dal greco preparazione del trono: l’iconografia prevede un
trono vuoto adornato dalle insegne di Cristo - cuscino, mantello da giudice,
libro dei sette sigilli, croce e strumenti della passione - in attesa del suo ritorno
sulla terra per il giudizio finale). Così, l’immagine di Cristo Pantocratore nel
catino absidale è insieme principio (colui che ha creato il mondo) e fine
(Giudizio universale). Ai lati dell’Etimasia i Santi Gregorio Papa e Silvestro
Papa.

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Nella fascia inferiore del catino absidale campeggia al centro una “moderna” e
possente immagine della Vergine circondata da un lato da S. Pietro (che reca
in mano le due chiavi) e Maria Maddalena (che reca in mano il vasetto degli
unguenti imbalsamatori) e dall’altro da S. Giovanni e S. Giacomo.
Le navate laterali mostrano alcuni episodi del Nuovo Testamento tratti dagli
“Atti degli Apostoli”. Gli avvenimenti, non sempre ordinati cronologicamente,
ruotano attorno alle due figure cardine di tutta la rappresentazione: S. Pietro e
S. Paolo. Questi ultimi erano effigiati rispettivamente nelle due absidiole della
Prothesis e del Diaconicon (oggi l’effigie di S. Pietro non è più visibile essendo
stata sostituita, in data non perfettamente precisata, dal volto del fratello, S.
Andrea, il cui culto era celebrato, verosimilmente, non lontano dalla nostra
Chiesa di Palazzo).
Vissuto nel I secolo d.C. Saulo (poi S. Paolo) - la cui vicenda inizia ad essere
rappresentata a partire dal primo riquadro della navata di destra - persegue i
cristiani fino all’incontro, avvenuto sulla via per Damasco, con Cristo, da poco
risorto. Si prosegue, poi, con la maestosa scena del battesimo del Santo, la
disputa di S. Paolo con i Giudei di Damasco e la fuga per mezzo di una cesta di
paglia dalla città nella quale era stata decretata la sua condanna a morte. Con
l’ultima scena della fascia musiva meridionale, tratta dagli “Atti di Pietro” e
raffigurante la liberazione di Pietro dal carcere, si è voluto certamente
sottolineare la forza della provvidenza divina e quindi la relazione tra la messa
in salvo dei due principi degli Apostoli di Cristo, Paolo e Pietro.

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Passando alla parete nord (opposta all’ingresso della cappella), la prima figura
che ci viene presentata è l’Apostolo Giovanni nella scena in cui Pietro guarisce
uno storpio all’ingresso del tempio di Gerusalemme. Si prosegue con la
guarigione di Enea nella città di Lidda e, ancora oltre, la resurrezione della
defunta Tabita presso la sua abitazione nella città di Ioppe (circa un terzo di
questa scena è stato restaurato nella seconda metà del XV secolo e pare essere
proprio un dichiarato tributo di un allievo - Domenico Gagini, attivo a Palermo
- al suo maestro - Filippo Brunelleschi - autore della celebre cupola fiorentina
di S. Maria del Fiore che si vede, infatti, svettare proprio alle spalle delle
tre vedove che assistono al miracolo). Si prosegue con la scena dell’abbraccio
tra S. Pietro e S. Paolo alle porte di Roma e con la disputa tra i due santi e
Simon Mago, alla presenza di Nerone. Con la caduta nel baratro e la morte di
Simon Mago si conclude definitivamente il ciclo che omette, però, di
rappresentare, così come per Cristo (non esistono infatti all’interno della
Cappella raffigurazioni della Crocifissione, della morte o della Resurrezione) la
morte dei due Apostoli; la scena conclusiva, infatti, indica come “fine” il
trionfo della verità apostolica sulla falsità dell’eresia di Simone il mago.
Gli eventi della navata centrale narrano alcuni particolari dell’Antico
Testamento. Dio, quando viene rappresentato, ha un immagine simile a quella
di Cristo ma nel nimbo (aureola, cerchio di luce che avvolge la testa) manca la
croce perché egli non si è ancora incarnato. Tali mosaici possono così essere
sintetizzati: Principio e creazione della luce, costituzione degli astri e divisione
della terra ferma dai mari (con un interessante osservazione legata alla presenza

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dei soli tre continenti conosciuti al tempo: l’Africa, l’Europa e l’Asia; la
tripartizione a forma di Y ricorda, di proposito, un concetto Trinitario),
creazione delle piante, del Sole, della luna e delle stelle, creazione dei pesci e
degli uccelli, creazione degli animali terrestri, creazione dell’uomo (con un
volto che ricorda quello di Dio) ed il settimo giorno: quello del riposo, che
mostra Dio appagato e compiaciuto per tutto ciò che ha realizzato. Si prosegue
con le scene narranti la creazione di Eva, il Peccato Originale, la punizione
conseguenza del peccato, la cacciata dal Paradiso, gli uomini che iniziano a
praticare il lavoro, il sacrificio di Caino ed Abele, la morte di Abele, Lamech
che dopo aver parlato con le due sue mogli decide di uccidere un uomo, Enoch
preso dal cielo nell’atto di compiere il sacrificio di un agnello, la famiglia di
Noé, la realizzazione dell’Arca, il ritorno della colomba con il ramo d’ulivo,
l’uscita dall’Arca, l’ebbrezza di Noè, Rebecca che disseta i cammelli dei servi
di Abramo, l’edificazione di Babele e della torre, l’ospitalità di Abramo,
Rebecca che parte per Canaan, la benedizione di Giacobbe per mano di Isacco,
il sogno di Giacobbe, la lotta di Giacobbe con l’angelo.

Il candelabro per il cero pasquale


L’ambone (tribuna in marmo, sopraelevata dalla quale vengono proclamate le
scritture) è costituito da due parti a forma di parallelepipedo integrate tra loro:
una ha un parapetto decorato con mosaici, l’altra una lastra in porfido. Le due
sculture che effigiano un leone (simbolo di San Marco) ed un aquila (simbolo di

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San Giovanni) fungono da supporto per i libri delle scritture. La struttura è
sorretta da colonne, tra le quali spiccano le due con motivi a “Zig-Zag”. Il
candelabro, posizionato nei pressi dell’ambone, è una tra le più pregiate opere
d’arte presenti nella Cappella Palatina. Si tratta di tre sezioni aggregate a
comporre un unicum di eccezionale valore: il basamento reca scene tratte da un
bestiario medievale tipicamente romanico, dove quattro leoni azzannano uomini
ed animali; la parte più alta reca, invece, dei telamoni (strutture maschili a tutto
tondo o a rilievo impiegate come sostegno architettonico o decorativo) che
reggono l’appoggio per il cero pasquale. La parte più rilevante del candelabro è
quella del fusto dove, oltre ad elementi vegetali ed animali, riscontriamo una
splendida scultura effigiante una mandorla con Cristo assiso in trono al cui
cospetto è inginocchiato un personaggio individuato spesso come Ruggero II
(con la mitra a due punte, possibile riferimento alla legatia apostolica, la delega
di nominare i propri vescovi concessa ai sovrani normanni già ai tempi del Gran
Conte Ruggero da Papa Urbano II). La raffigurazione in questione testimonia
una forte contaminazione di matrice settentrionale, perché ancorata ad una
cultura di transito tra il romanico ed il gotico, in Sicilia praticamente
inesistente.

Il trono
È una delle parti più controverse della Cappella Palatina. Sembrerebbe
protagonista di più interventi di restauro che vanno dal posizionamento dei

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plutei (transenne laterali), all’attuale foggia del quinto gradino. Misteriosa è la
modifica apportata sotto Ludovico D’Aragona intorno al 1345, giacché non è
mai stato chiarito se a quella fase possano appartenere le figure dominanti del
Cristo benedicente in trono e di San Pietro e San Paolo realizzate, in alto, a
mosaico. Altri ripristini, non del tutto identificati, vennero effettuati in tali zone
durante la seconda metà del XV secolo sotto Giovanni D’Aragona. Questi dati
cronologici, tra l’altro incompleti, indicano quanto sia difficile ricostruire
l’originaria struttura architettonica del “trono”. Rimane dunque in parte insoluta
la questione sul cerimoniale del re, che probabilmente utilizzava in fase
normanno-sveva tale luogo per il trono quando la chiesa diveniva una sorta di
sala per le udienze (secondo la moda europea), ma è ipotizzabile durante le più
importanti celebrazioni ritrovare il sovrano (legato apostolico) all’interno stesso
del presbiterio.

Il Vestibolo
Tale struttura anticipa l’ingresso alla Cappella Palatina, essa è sintesi di almeno
tre differenti interventi, ecco perché non è possibile effettuare una lettura
perfettamente scientifica della stessa. Privi d’informazioni sul primo impianto
decorativo (forse caratterizzato da lastre in marmo e qualche decorazione
musiva), certo è che tra il 1506 ed il 1514, sotto re Ferdinando II d’Aragona
di Trastamara (detto Ferdinando il Cattolico) fu mosaicata la parete
meridionale (quella del vestibolo), dando l’incarico a Pietro Oddo di raffigurare

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scene di caccia ed elementi vegetali. Il terzo intervento è quello storicamente a
noi più vicino e dunque meglio documentato. Il committente fu Ferdinando III
di Borbone (presente insieme alla moglie Maria Carolina nel medaglione
centrale del mosaico con il Genio di Palermo incoronato), ed i mosaici - opera,
tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, di Santi Cardini e Pietro
Casamassima - raffigurano la storia di Assalone, figlio ribelle di re David.
Nella parte sottostante, trenta Santi dal chiaro gusto neoclassico pompeiano.
Interessante è la decorazione di Casamassima, posta sulla parete ad ovest (a
sinistra dell’odierno accesso), dove viene mostrato Ruggiero II al cospetto di
Simone, primo Ciantro del Capitolo Palatino, cogliendo l’attimo della consegna
di un rotolo di pergamena nel 1140. Alla Cappella Palatina oggi si accede
tramite il seicentesco cortile fatto realizzare dal viceré Maqueda.
Un’iscrizione realizzata su di un pannello lapideo in latino, greco e arabo
(posta a celebrazione del famosissimo orologio idraulico fatto costruire da
Ruggero II nel 1142) è ulteriore prova della sintesi culturale della Palermo
normanna di quel periodo. Questa si trova nel secondo loggiato del Cortile
Maqueda del Palazzo Reale di Palermo, poco prima del vestibolo della Cappella
Palatina, in direzione della scala che conduce al Cortile della Fontana ed è così
tradotta nella sua versione bizantina “O meraviglia nuova! Il forte Signore
Ruggiero avendo avuto lo scettro da Dio, frena il corso della fluida sostanza, la
cognizione distribuendo scevra di errori delle ore del tempo. Nel mese di marzo
indizione quinta e di nostra salute l’anno 1142, e del suo felice regno l’anno
XIII”.

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Da Ruggero II D’Altavilla alla fine del regno normanno
Figlio del Gran Conte Ruggero I d’Houteville e della Contessa Adelasia (o
Adelaide) del Vasto, Ruggero (già conte all’età di soli 10 anni) viene
incoronato ufficialmente Re di Sicilia la notte di Natale del 1130 a Palermo,
nella “Loggetta delle Incoronazioni” della Cattedrale della stessa città. A lui -
come al figlio Guglielmo I e al nipote Guglielmo II - spetta la fama di fondatore
di una struttura politica autoritaria e centralizzata, unica nell’Europa occidentale
per la sua organizzazione burocratica d’avanguardia e per l’alto grado raggiunto
di progettualità. Ruggero fu investito a Re di Sicilia grazie all’avallo di
Anacleto II (anti Papa). Egli si nutrì di una cultura cosmopolita, venendo
formato da precettori arabi (il celebre geografo Edrisi), greci e latini tra i più
noti di tutto il medioevo. A lui si deve un fervore architettonico che mai fu
eguagliato nel futuro, i cui frutti non furono soltanto edifici religiosi come
chiese e cattedrali, ma presidi militari, civili e grandi aree verdi. Tra i
capolavori legati alla sua committenza (e, in piccola parte, a quella del padre):
le cattedrali di Catania, Troina, Mazzara e Messina, la chiesa di S. Maria a Mili
S. Pietro sempre a Messina, la Cappella Palatina di Palermo, S. Giovanni degli
eremiti, S. Maria dell’Ammiraglio (la Martorana), SS. Trinità di Deli a
Castelvetrano, la risistemazione del Palazzo Reale di Palermo, la Cattedrale di
Cefalù, il castello della Favara, il ponte dell’Ammiraglio. All’apologeta e
cronista Alessandro di Telese si deve la più nota biografia di Ruggero redatta
tra il 1127 e il 1136.

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Alla sua morte Guglielmo I governa sostenuto dal suo ministro Maione di Bari
fino al 1166. Gli successe il secondogenito, Guglielmo II che governò, data la
minore età, sostenuto dalla madre Margherita di Navarra. Guglielmo II muore
nel 1189. Il suo decesso senza eredi sancì, di fatto, la fine del regno normanno.
Al periodo compreso tra i due Gugliemo risale l’edificazione della grande
Cattedrale di Monreale e del castello della Zisa. Tancredi (un nipote di
Guglielmo I) diviene Re di Sicilia nel 1190, segue una breve parentesi di
reggenza con un Guglielmo III, figlio di Tancredi. La mancanza di un Re
sollecitava, però, gli appetiti di coloro i quali aspiravano alla corona del regno
di Sicilia. Enrico VI di Svevia, già sposo di Costanza d’Altavilla (figlia di
Ruggero II) dal 1186, occupa, rivendicandolo, il regno in nome della moglie.
Sarà successivamente al figlio di Costanza ed Enrico, il celebre Federico II di
Svevia, che spetterà il regno alla morte del padre.

Federico II di Svevia
(La vita e le imprese; la Scuola Poetica Siciliana, la Magna Curia; Pier
delle Vigne, il Liber Augustalis; “incontro” con San Francesco)

La vita e le imprese
Lo scenario politico in cui si attestò la figura di Federico II fu particolarmente
complesso. Egli nacque a Jesi il 26 dicembre del 1194 dal matrimonio tra
Costanza d’Altavilla (ultima erede normanna, figlia di Ruggero II Hautville) ed

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Enrico VI Hohenstaufen (figlio di Federico Barbarossa). Il suo nome, alla
nascita, fu quello di Costantino (legato alla tradizione imperiale) e venne poi
modificato in Federico-Ruggero così come si chiamavano i due nobili ed
importantissimi nonni. Nell’autunno del 1196 Costantino venne battezzato ad
Assisi come Federico-Ruggero, presso la chiesa di San Rufino (fra i tanti astanti
all’avvenimento pare ci fosse proprio il quattordicenne Francesco Bernardone,
poi San Francesco d’Assisi, battezzato anni prima nel medesimo fonte
battesimale).
Nel settembre del 1197 Enrico VI morì a Palermo e dunque, in seguito ad
articolate vicende storiche, la moglie Costanza riuscì ad ottenere il governo
dello stato. Il 17 maggio del 1198 il piccolo Federico, all’interno della
Cattedrale di Palermo, verrà incoronato re di Sicilia e duca di Puglia con il
cerimoniale bizantino, col motto di “Christus vincit, Christus regnat, Christus
imperat”. Alla morte di Costanza (novembre 1198) Papa Innocenzo III si
occupò della tutela di Federico, riscontrando nel fanciullo doti eccezionali che
si acuirono in un’esperienza di vita unica, svoltasi all’interno della cosmopolita
corte della città di Palermo, dove egli apprese la conoscenza di più lingue. Nel
Luglio del 1215, presso la Cappella di Aquisgrana, l’arcivescovo Sigfrido
(legato pontificio) lo incoronerà re dei Romani con la corona d’argento di
Germania.
Il 22 novembre del 1220 Federico venne incoronato imperatore a Roma, da
Papa Onorio III (ripercorrendo 420 anni dopo, il rituale di Carlo Magno). La
cerimonia sfarzosa si realizzò all’interno della Cappella di Santa Maria in

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Turribus, nell’antica basilica di San Pietro e dopo avere giurato fedeltà alla
Chiesa ed al Papato, Federico ricevette da Onorio III, la corona dell’Impero, la
spada, lo scettro, il globo crocifero e dal cardinale Ugolino dei Segni di Anagni
(dal 1227 più noto come Papa Gregorio IX) la croce, in promessa di una
crociata in Terra Santa.
Federico rimanderà più volte la sua presenza alle crociate, come nel caso
dell’agosto del 1227 dove, dopo un ritardo causato da una pestilenza e dalla
morte dell’ammiraglio della flotta, manderà solo a settembre un numero esiguo
di combattenti in Terra Santa. Trascorreranno pochi giorni da tale data per la
prima scomunica inflittagli da Papa Gregorio IX, (con tale bando Gregorio
accomunava le sorti dell’Imperatore a tutti coloro ed alle città che lo avrebbero
ospitato, aggiungendo e pubblicando un’enciclica che enunciava la non
subordinazione dei cavalieri crociati al sovrano svevo).
Federico II, sempre di più considerato una minaccia per la Chiesa, ottenne la
sua più prestigiosa vittoria militare a Cortenuova (Bergamo) nel novembre del
1237, sbaragliando le truppe della Lega Lombarda. Fu il momento più
importante della sua carriera da condottiero.
Nel marzo del 1239, Gregorio IX emanerà la seconda scomunica contro
Federico.
Più volte Innocenzo IV - salito sul soglio di Pietro nel giugno del 1243 -
muoverà il bando contro l’Imperatore, allargandolo pure ad i figli Manfredi ed
Enzo. Ma quanto di più grave sarebbe accaduto il 17 luglio del 1245, quando il
Papa depose Federico II dal rango d’imperatore durante il Concilio di Lione.

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Le accuse imputate a Federico furono spergiuro ed eresia, quest’ultima a causa
degli ottimi rapporti intessuti dall’imperatore con il mondo arabo.
Federico II, imperatore del Sacro Romano Impero ed illuminato sovrano
precursore medievale del rinascimento, morirà a Castel Fiorentino il 13
dicembre del 1250 (come aveva predetto Michele Scoto: “sub flore”), il
feretro venne poi traslato a Palermo dove fu tumulato nella Cattedrale in un
regale sarcofago in porfido.

La Scuola Poetica Siciliana


Sotto Federico II si sviluppò la “Scuola Poetica Siciliana”. Dante Alighieri nel
De Vulgari Eloquentia (1303-1305, omaggio alla lingua volgare) muove un
ringraziamento diretto all’Imperatore ed a suo figlio Manfredi, per avere
posto le basi della lingua italiana. La Scuola Poetica muoveva la sua strada
verso la sintesi tra la cultura provenzale, quella italiana ed il dialetto siculo-
pugliese.
Quasi tutti i membri della corte di Federico si cimentarono nell’arte della
poesia: Jacopo da Lentini (notaio della curia imperiale) venne citato da Dante
nel XXIV canto del Purgatorio come precursore del “Dolce Stil Novo”.
Federico stesso compose poesie (famosa “Poi che ti piace amore” dedicata alla
moglie Bianca Lancia D’Agliano), così come i figli Enzo, Manfredi, Federico
D’Antiochia e Corradino.
Federico II amò sempre circondarsi di dotti che potessero elevare il suo sapere,
la sua corte venne frequentata da viaggiatori colti e da un gruppo di uomini di
spessore che in pianta stabile erano al servizio dell’Imperatore. Michele Scoto

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fu il più importante scienziato di corte, contraddistinto com’era da una cultura
ecumenica acquisita fra Londra e Parigi e grande conoscitore dei testi arabi di
filosofia (tramite lo studio di Averroé riuscì ad inculcare la filosofia aristotelica
in Federico). Teodoro d’Antiochia scrisse un manuale d’igiene, Zaccaria un
trattato di oftalmologia (branca della medicina al servizio dell’imperatore che
soffriva di disturbi visivi). Si trattò di vere e proprie innovazioni, peculiarità
assolute di un impero troppo emancipato rispetto al periodo storico in cui si
attestò.

Pier delle Vigne, il Liber Augustalis


Pier delle Vigne, prima notaio (1220) poi giudice (1225) della Magna Corte,
ebbe un ruolo fondamentale nella stesura delle “Costituzioni di Melfi”. Nel
1247 fu protonotario e cancelliere imperiale (logoteta), fu anche citato nel XIII
canto della Divina Commedia da Dante Alighieri come suicida, dopo il
misterioso tradimento a Federico II.
Le Costitutiones Melphitanae, note pure come Liber Augustalis, furono
l’esempio più elevato in ambito giuridico del tempo: duecento leggi che
ordinavano qualunque materia in ambito economico-sociale ed amministrativo.
Lo scritto rappresentava, in sintesi, la sinergia tra più esperienze giuridiche:
quelle effettuate a Capua (1220), a Messina (1221), a Melfi (1224), a Siracusa
(1227) ed infine, a San Germano (1229), che i più abili giuristi del regno, tra cui
Pier delle Vigne (coordinatore dei lavori del gruppo), avevano teorizzato e poi
redatto.

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Tutti gli esperti in materia e gli storici decantano tale codice per la sua estrema
correttezza, i fondamenti si basavano sull’uguaglianza di tutti davanti alla
legge, così come sull’impossibilità di farsi giustizia da soli, lasciando al
governo la possibilità d’intervenire con la forza. Qui erano contenute le basi
fondanti, che Federico volle utilizzare per mutare la monarchia da feudale ad
assoluta.
Le Constitutiones sono divise in tre libri (255 titoli): il primo riguarda il diritto
pubblico (109 titoli); il secondo la procedura giudiziaria (52 titoli); il terzo si
occupa di diritto feudale, privato e penale (94 titoli). Per Federico l’Imperatore
è il rappresentante di Dio sulla terra, deve superare le discordie ed avvalersi
delle leggi per portare l’uomo sulla retta via.
Nella nuova organizzazione dello stato al comando si trovava un consiglio della
corona di cui erano membri sette ministri: il Gran Cancelliere (custode del
Sigillo Imperiale preposto ai più rilevanti atti pubblici), il Logoteta (dal greco:
"colui che conta, calcola o razionalizza"), il Gran Giustiziere (Ministro della
giustizia e Presidente del Tribunale Supremo), il gran Connestabile (Ministro
della guerra), il Gran Ciambellano: (Ministro delle Finanze), il Grande
Ammiraglio (Ministro della marina), il Gran Siniscalco (custode dei demani).
Il Regno doveva essere diviso in Sicilia e Apulia (affidate a due capitani) ed in
undici province, con alla testa di ciascuna un magistrato di nomina regia,
chiamato Giustiziere, con compiti di polizia e giustizia penale che aveva alle
sue dipendenze giudici e notai di nomina regia che dipendevano dal Gran
Giustiziere che era a capo di un tribunale supremo di appello, la Grande Corte.

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Tutta la giustizia civile e le finanze spettavano a funzionari provinciali chiamati
camerarii e lauti, dipendenti dal Gran Ciambellano. Le cariche duravano un
anno, ma erano riconfermabili qualora l’operato dei preposti fosse stato di buon
livello per la comunità. Tali leggi muovendo dalle basi del diritto romano,
furono di fatto antesignane dello stato di diritto moderno.

L’“incontro” con San Francesco d’Assisi


San Francesco d’Assisi, fondatore dell’ordine Francescano, Santa Chiara
d’Assisi, fondatrice delle Clarisse e Federico II di Svevia furono battezzati
nella grande cattedrale di Assisi (San Rufino).
Che San Francesco e Federico II si siano incontrati nel castello di Bari è stato
narrato più volte, datando al 1222 l’arrivo di Francesco in Puglia, ospitato di
ritorno dalla Terra Santa dal sovrano. Uno storico pugliese dell’Ottocento,
Giulio Petroni, racconta persino della prova a cui l’Imperatore avrebbe
sottoposto il Santo, ponendolo al cospetto di una stupenda fanciulla per tentarlo
(ovviamente Francesco rifiutò la donna ed anzi passò la notte sui carboni
ardenti). Il professore Licinio dell’università di Bari osserva: che non è
possibile che Federico II abbia incontrato Francesco nel castello di Bari per la
semplice ragione che l'imperatore in quel periodo non si trovava in città.
Peraltro il castello fu oggetto di restauri da parte del sovrano svevo, come del
resto dimostrano i documenti, tra il 1231 ed il 1233, cioè dopo la morte di
Francesco avvenuta nel 1226. Durante il presunto passaggio del Santo nel
capoluogo barese, il castello per giunta era pressoché distrutto e quindi

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verosimilmente non avrebbe potuto ospitare chicchessia, tanto meno un
personaggio già così illustre.

Breve Cronologia Normanno-Sveva:

Dinastia degli Houteville

Gran Conte Ruggero Roberto il Guiscardo

Ruggero II Federico Barbarossa Hohenstaufen

Ruggero Guglielmo I Costanza D’Altavilla + Enrico VI


Duca di Puglia
Guglielmo II Federico II di Svevia
Tancredi
Manfredi Corradino Enzo

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