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5.1 l’Italia centrale e Roma nei secoli x-v a.C.

Roma divenne un crogiolo di esperienze e artisti di varia origine ed è impossibile separare con
nettezza influenze. Dopo l’età del bronzo finale (1100-1020 a.C.) e a partire dal X secolo,
emergono le specificità della cultura laziale con la produzione di ceramica e bronzi nota dai
corredi funerari (necropoli dell’osteria dell’Osa sulla via Prenestina antica presso Gabii con circa
600 tombe a inumazione e cremazione).

 Dalla fine del IX-VIII secolo abbiamo un miglioramento tecnologico nella ceramica con l’uso del
tornio veloce e dell’ argilla depurata.

 La bronzistica derivata da modelli etruschi invece produsse beni di prestigio per le tombe di
principi e della nobiltà. I nuclei sepolcrali più importanti sono a Tivoli, gabii , lavinium, Roma.
Si richiedono bronzi laminati a sbalzo, vasi di nuove forme per il vino nei banchetti e Roma spicca
per vasellame inciso e dipinto con pittura bianca e rossa.

ETA’ REGIA (753- 509 a. C.) 


La prima organizzazione di artigiani si fa risalire a Numa Pompilio (715-672 a.C.) e anche la
bronzistica dei dodici Ancilia, 11 scudi realizzati secondo la leggenda per nascondere l’originale
caduto dal cielo.

VIENE INVESTITO SULLA STRUTTURA DELLA CITTA’ Non mancano le firme nei vasi; con
la dinastia dei Tarquini nascono le strutture statali che consolidano la città:
- bonifica di acquitrini,
- regolamentazione delle acque dei fossi,
- prime strade con fondo artificiale,
- foro romano livellato,
- erezione della cinta muraria (mura serviane),
- investimenti nella costruzione di edifici pubblici come regia, curia e circo,
- scomparsa del lusso privato con tombe e corredi funerari molto piu sobri,
- primi documenti incisi su bronzo e pietra
- introduzione di forme greche nelle architetture sacre e nell’ iconografia degli dei.

TEMPIO Nel VI a.C. Secolo il tempio si definì, si chiamano:


- “tuscanici” quelli a 3 celle ( ES: TEMPIO SUL CAMPIDOGLIO)
- ed “etrusco-italici” quelli più larghi con podio elevato che isola l’edificio dall’area
circostante, accesso frontale con gradinata assiale, orientamento verso sud, colonne rade
con larghi intercolunni.

Tra questi:
 quelli ad “alae” cioè con cella affiancata da due corridoi aperti
 oppure il periptero sine postico con colonne solo sulla facciata e sui lati.
ES: Il tempio di Giove capitolino è il maggior esempio di tempio a 3 celle, avviato da
Tarquinio Prisco è completato da Tarquinio il superbo, fu poi ridedicato a queste tre
divinità nel primo anno della repubblica.

CAPITOLIUM
Il tempio di Giove capitolino è un tempio tuscanico della triade capitolina (Giove,
Giunone e Minerva).

Leggenda Durante i lavori fu trovato il capo di un uomo sgozzato da poco,


interpretato come segno della futura grandezza di Roma.  Vero: Nell’area esistevano
varie sepolture dal IX secolo, era considerato un luogo sacro e luogo di sepolture.

Dell’edificio resta la griglia delle fondazioni in blocchi di cappellaccio di circa 62 x 54


metri in un’area di 3340 mq.

STRUTTURA:
- Aveva 3 file di colonne sulla fronte e una sui lati,
- 3 celle dotate di pronao con al centro quella dedicata a Giove creata da Vulca.
- Era un tempio areostilo cioè con ampi intercolunni e quindi forse con architravi in legno.
- I muri delle celle erano forse decorati con lastre di argilla dipinta e il tetto aveva timpano
aperto.
- La statua del dio era in terracotta seduta con un fulmine sulla mano destra (artigiano
etrusco Vulca)

Il tempio ebbe vari rifacimenti che NON modificarono la pianta e l’ordine tuscanico.
Nel 69 a.C.  Dopo un incendio il tempio fu riconsacrato con materiali preziosi, tegole di
bronzo dorato, una statua di Giove in oro e avorio (crisoelefantina) realizzata da Apollonio
e, in seguito, dopo altri incendi, il tempio fu sottoposto a una doratura totale.
Ammirato come una delle meraviglie del mondo, all’inizio del V secolo d.C. Le lamine d’oro
furono staccate così come altre decorazioni dal re dei vandali Genserico.

Gli edifici inizialmente sia tuscanici che etrusco-italici avevano


- PRIMA: frontone aperto senza timpano
- DOPO: a partire dal IV a.C. secolo diventa chiuso decorato con soggetti mitologici.

TEMPIO DI MATER MATUTA Nell’area sacra di S. Omobono però un tempio ad alae del 580 a.C.
Dedicato a Mater Matuta gia vanta un frontone greco di tipo chiuso decorato con due felini ai
lati di una gorgone in corsa (prototipo frontone del tempio di Artemide a Corfù).

Dal VII a.C. I tetti in paglia vengono rimpiazzati con tegole, i fregi figurati raffigurano processioni di
carri trionfali, corse di cavalieri armati e di bighe e banchetti con temi mitici.
L’architettura in pietra si diffuse in ambito domestico dal 650 a.C. Circa in strutture articolate in
vani con sviluppo laterale precedute da un vestibolo esterno sotto l’influenza della casa greca “ a
pastàs”. Un nuovo modello residenziale signorile invece comparve alla fine del VI a.C. Secolo con
ambienti disposti secondo un asse longitudinale con corte centrale affiancata da ali, 3 sale sul
fondo con quella centrale aperta.
Tra gli artisti dell’epoca i piu importanti Vulca, il maestro di S. Omobono che realizzò l’acroterio del
tempio di mater matuta, il maestro d’apollo con l’acroterio del tempio nel santuario di
portonaccio.
A prova dell’ ellenizzazione del Lazio arcaico alla fine del VI secolo a.C. Le iscrizioni latine
diventarono di direzione destrorsa come avvenne nel mondo greco invece in quelle etrusche si
usava la direzione sinistrorsa. Dal 509 circa a.C. Roma segnò un trattato di amicizia con Cartagine e
vi furono vari mercanti fenicio-punici in Etruria e a Roma come suggerito da placchette in avorio
rinvenute con doppio nome, uno nuovo etrusco e uno derivato dall’originale nome fenicio. Allo
stesso periodo risale un monumento pubblico a celebrazione della saga delle origini, la lupa
capitolina, una scultura in bronzo di influenza artistica persiana, forse una copia medievale
riprodotta da calchi originali etrusco-italici.
Circa intorno al 474 a.C. Inizia un periodo di crisi che diminuì l’esibizione di ricchezze. Vi fu un
attardamento nell’assorbimento delle novità di origine greca e uno dei fattori fu l’infiaccamento
delle committenze pubbliche che impedì alle officine di aggiornarsi. Le cose cambiarono alla fine
del V secolo con la presenza della ceramica a figure rosse e di maestranze greche.
Lupa capitolina
La Lupa capitolina è una scultura di bronzo, 75x114 cm di incerta datazione, custodita ai Musei
Capitolini, a dimensioni approssimativamente naturali[3]. I gemelli sottostanti furono aggiunti nel
XV secolo e sono attribuiti allo scultore Antonio Pollaiolo[4]. Viene tradizionalmente considerata di
fattura etrusca, si ritiene che sia stata fusa nella bassa valle tiberina[5] e che si trovi a Roma sin
dall'antichità (S. Giovanni in Laterano).

A parte qualche piccolo danno e lacuna prontamente restaurati, la statua della Lupa è integra. Il
modellato è in linea di massima scarno e rigido, ma impreziosito da un decorativismo minuto,
chiaro ed essenziale, soprattutto nel disegno del pelo, che è reso sul collo con un motivo
calligrafico di ciocche "a fiamma", che prosegue nelle linee oltre la spalla e sulla sommità del
dorso, fino alla coda.

L'animale è posto di profilo, con la testa girata verso lo spettatore di novanta gradi. Le fauci sono
semiaperte e i denti aguzzi. Il corpo dell'animale è magro, mettendo in mostra tutto il costato. Le
mammelle sul ventre sono ben evidenti. Anche le zampe presentano un aspetto asciutto e ruvido,
e sono modellate in posizione di guardia.

La datazione tradizionale parlava dell'epoca arcaica della storia romana, oscillante tra il V secolo
a.C. (secondo alcuni agli inizi, secondo altri alla fine) e il III secolo a.C.
Tra le due possibili statue antiche della lupa, si ipotizzava che quella superstite fosse quella
capitolina, perché giunta a noi priva di gemelli e con tracce di un guasto sulle zampe posteriori,
che venivano messe in relazione con il fulmine citato da Cicerone. I raffronti iconografici e stilistici
venivano fatti con alcuni rari materiali di area etrusca e latina: una stele felsina del V secolo a.C.,
dove la lupa appare in atteggiamento simile a quella della statua e quindi diversa dalle
raffigurazioni tradizionali romane dove la lupa ha la testa volta verso i piccoli anziché lo spettatore;
altre pochissime opere superstiti della bronzistica etrusca del V secolo a.C., che mostrano
un'analoga scarnezza di forme unita a un certo decorativismo.

Nel 2006 erano già stati sollevati dei dubbi sulla datazione dell'opera. L'ipotesi di Anna Maria
Carruba, restauratrice e storica dell'arte che ha curato il restauro della statua, era che, in base alla
tecnica di fusione, l'opera potesse risalire all'epoca altomedievale (ipotesi sostenuta anche
dall'autorità di Adriano La Regina, ex soprintendente ai Beni archeologici di Roma e docente di
Etruscologia all'Università di Roma - La Sapienza)[9]. La datazione delle terre di fusione con il
radiocarbonio (C14 AMS) data l'attribuzione dell'opera al XIII secolo[10], ma se dunque oggi si
tende a considerarla un calco medievale su un'origine etrusco, resta aperta la possibilità che il
nucleo della statua sia autenticamente antico e che vi siano stati interventi e rifacimenti di parti di
essa nel pieno Medioevo.

5.2 Artigianato e monumenti onorari a Roma


e in Italia centrale nei secoli IV-III a.C.
Circa a metà del IV secolo a.C. Risale la “cista Ficoroni” scoperta a Pranestee alta piu di 70 cm. Il contenitore
di forma cilindrica destinato a contenere un corredo femminile ha un’iscrizione che la dice eseguita a Roma
da un certo Novios Plautios, il proprietario dell’ officina su ordinazione di una dama che donò l’oggetto alla
figlia. La decorazione a bulino di grande qualità ricalca i motivi della pittura greca e anche il soggetto (un
episodio della saga degli argonauti). Sul coperchio satiri e statuette di Libero che rivelano la popolarità dei
soggetti bacchici in Italia centrale. Realizzata a praneste, luogo tramite per la diffusione di modelli italioti.Le
officine laziali nella prima metà del IV secolo a.C. E nel III secolo a.C. Diffusero le nuove tendenze anche
grazie all’espansionismo che agì da unificante della penisola sul piano culturale e figurativo.
Cista ficoroni
La Cista Ficoroni è un cofanetto portagioielli, di rame e impropriamente detto in bronzo,[1] decorato di
forma cilindrica, finemente cesellato e sormontato da un coperchio ornato da tre sculture, per un'altezza di
77 centimetri. È il migliore reperto conosciuto, per dimensioni, qualità, ricchezza decorativa e stato di
conservazione, di cista etrusco-italica.
La cista, di forma cilindrica, è decorata da finissime incisioni sul corpo e sul coperchio, con parti di bronzo
fuso applicate, quali i tre piedi (uno è rifatto in epoca moderna) con elementi cesellati (Ercole, Iolao e Eros,
ripetuto identico). Tre statuette in bronzo, collegate fra di loro tramite le braccia allargate, decorano la
cima del coperchio e hanno la funzione di manico.

Coperchio
Il coperchio è decorato da tre fregi concentrici: al centro un'infiorescenza cruciforme, nella fascia media
due scene di assalto di animali (una con protagonista un leone e l'altra con un grifo) e in quella esterna una
scena di caccia, forse quella mitologica del cinghiale calidonio. Le tre figurette a tutto tondo sul coperchio,
che ritraggono Dioniso e due satiri, fanno da manico. Queste parti applicate non tengono conto della
decorazione incisa, per cui non rientrano in un disegno decorativo unitario.

Corpo
Le incisioni sul corpo si dispongono su una grande fascia centrale, con figure mitologiche, e due alte fasce
decorative ai bordi: quella superiore con una doppia serie (dritta e rovescia) di palmette e fiori di loto che
inquadrano una piccola testa di Gorgone (gorgoneion); quello inferiore con sfingi alternate a palmette e
fiori di loto, con un doppio bordo, uno con kyma lesbio e uno con kyma ionico.

La scena mitologica ritrae una scena del mito degli Argonauti, con la vittoria di Polluce sul re dei Bebrici
(popolo della Bitinia), Amico. Gli Argonauti, sbarcati in cerca di approvvigionamenti, sono sfidati dal re, che
aveva l'abitudine di attaccare gli stranieri colpendoli a morte coi suoi pugni. Il gigante è però sconfitto dal
dioscuro Polluce che, risparmiandogli la vita, gli fa tuttavia promettere di rispettare d'ora in avanti chiunque
approdi sull'isola.

La composizione si articola in tre parti principali, che non sono del tutto unite, anche se lo sfondo roccioso
del terreno è comune.

Stile e datazione
La scelta delle scene non è completamente chiarita: la prima mostra un episodio concluso, da mettere in
relazione alle analoghe raffigurazioni su specchi, mentre le altre due sembrano solo riempitive, per di più
senza il senso logico che vedrebbe prima la nave (simboleggiante l'arrivo). Nonostante queste debolezze le
figure sono costruite con notevole abilità, con scorci realistici e con un minuto tratteggio che indica alcune
ombreggiature.

Da un'analisi complessiva emerge la coesistenza di diverse influenze artistiche: alla forma dell'oggetto,
tipicamente prenestina, si affiancano decorazioni non originarie di Preneste, con alcuni dettagli legati al
mondo etrusco-italico (i gioielli di Atena, le bullae su braccio di un Argonauta o il barilotto e il vaso "a
gabbia"). Alcuni hanno ipotizzato un'origine letteraria delle scene in un dramma satiresco perduto di
Sofocle (come farebbe pensare la presenza del Papposileno), mentre si esclude la derivazione dal perduto
Ritorno degli Argonauti di Micone. Lo stile generale delle scene fa pensare infatti a un modello greco del IV
secolo a.C., confrontabile anche con il Cratere degli Argonauti al museo archeologico nazionale di Firenze
(370 a.C. circa). Altre analogie sono con le lotte tra animali della Tomba François, con sarcofagi di Tarquinia
e di Praeneste. La datazione in ultima analisi viene fatta in genere risalire attorno al 340 a.C.
Dalla seconda metà del IV a.C. Secolo ci sono grandi novità qualitative e quantitative nei monumenti ufficiali
e nell’ artigianato a seguito della conquista della Sabina nel 290 a.C. Grazie alla quale i romani ottennero
una grande ricchezza terriera che portò a una crescita demografica ed economica, apparizione della
moneta, afflusso di manodopera schiavistica. In quegli anni l’urbe crebbe con le vittorie su etruschi,latini e
sanniti che la portarono a diretto contatto con varie aree geografiche e versioni culturali di grecità. Roma
diventata padrona d’Italia si dotò di strutture di servizio, riorganizzò gli spazi come col foro romano,
nell’area del comizio lo spazio per assemble politiche e cerimonie religiose assunse forma circolare su
modelli greci. Il foro romano, luogo di rappresentanza civile e politica sul modello dell’agorà greca, ottenne
splendore quando le botteghe di macellai vennero sostituite con taverne di banchieri e in seguito con la
costruzione di basiliche (184 a.C. Circa). Tuttavia a confronto con gli impianti ellenistici di Alessandria e
pergamo, l’aspetto di Roma non era conforme alla sua potenza avendo un tessuto urbano confuso. L’urbe
divenne anche un centro produttivo per la ceramica con le officine del “ gruppo dei piccoli Stampigli”.
L’artigianato in Italia centrale pur con differenze “dialettali” fu qualitativamente eccellente; lo conferma la
coroplastica votiva perche nei secoli IV-III a.C. Il boom di religiosità popolare italica e latina portò a un
aumento della pratica di dedicare nei santuari doni in terracotta, ex voto anatomici raffiguranti parti del
corpo umano, teste ricavate da matrici e piu raramente statue e busti dei dedicanti. Le tante teste
rielaborano semplificando i motivi prassitelici e lisippe. Per quanto riguarda gli affreschi, nella necropoli di
spinazzo a Paestum nel 268 a.C. Vi sono figure con linea di contorno e tecniche greche nella riproduzione
degli effetti di luce, come nell’uso di segnare l’ombra dietro gli oggetti appesi alle pareti. Altra prova dei
riflessi della pittura greca nell’arte dell’Italia centrale sono i sepolcri di Tarquinia come il sepolcro delle
“amazzoni” e la tomba “Francois” di Vulci. Nei secoli IV e III a.C. L’arte fu per i romani il mezzo piu
vantaggioso per celebrare il potere e la religione statale, un esempio la gigantesca statua di Giove del 293
a.C. Realizzata dopo la vittoria sui Sanniti e ricavata da corazze e armature dei nemici sconfitti. Sempre in
quel periodo il popolo e l’elite politica si impegnarono a formare una memoria monumentale negli spazi
pubblici, per esempio con le statue onorarie in bronzo concesse da senato e popolo, celebrative di vittorie
militari. Anche due personaggi greci, Alcibiade e Pitagora ricevettero delle statue dopo che l’oracolo di
Apollo disse ai romani di onorare il piu saggio dei greci e il piu valoroso.
Sarcofago scipione barbato
Il sarcofago, originariamente nella tomba degli Scipioni sulla via Appia era in peperino, databile con relativa
esattezza al 280 a.C. Era l'unico ad avere un'elaborata decorazione di ispirazione architettonica. È infatti
concepito a forma di altare, con una cassa sensibilmente rastremata, con modanature in basso e, nella
parte superiore, con un fregio dorico con dentelli, triglifi e metope decorate da rosette una diversa
dall'altra. Il coperchio termina con due pulvini laterali che assomigliano di lato alle volute dell'ordine ionico.
Inoltre sul fianco superiore si trova scolpito un oggetto cilindrico, terminante alle due estremità con foglie
di acanto.
La grande raffinatezza artistica del pezzo, con il gusto di mescolare gli stili (dorico, ionico e corinzio) deriva
da modelli della Magna Grecia o della Sicilia ed è una straordinaria testimonianza della precoce apertura
all'ellenismo nel circolo degli Scipioni.

Oltre all'elogio scolpito sulla cassa, il coperchio presenta sulla fronte un'iscrizione dipinta con il patronimico
del defunto ([L(UCIOS) CORNELI]O(S) CN(EI) F(ILIOS) SCIPIO).

È discussa la cronologia relativa delle tre iscrizioni (quella erasa sulla cassa, l'"elogium" ancora leggibile sulla
cassa ed il patronimico dipinto sul coperchio). Secondo il Wölfflin, si dovrebbe riconoscere una triplice
successione: l'iscrizione dipinta sarebbe quella originaria (databile al 270 a.C. ca.) a cui se ne sarebbe
aggiunta una contenente i soli dati onomastici e le cariche (incisa sulla cassa intorno al 200 a.C.), erasa per
far posto all'elogio (intorno al 190). Del tutto differente la ricostruzione proposta da Coarelli, secondo il
quale la più antica iscrizione (270 a.C. ca.) sarebbe quella scalpellata, trascritta sul coperchio intorno al 190
a.C. per far posto all'elogio: questo intervento potrebbe essere stato commissionato da Scipione l'Africano.
È probabile che nel corso di una delle trascrizioni si sia incorsi nell'errore di attribuire a Scipione il trionfo
sui Lucani, mentre Livio parla dell'assegnazione allo stesso dell'incarico provinciale in Etruria.[5] La fonte
archeologica insieme a quella storico artistica e epigrafica sembra contraddire quella letteraria.
Dalla tomba degli Scipioni tra la via Appia e la via Latina deriva il sarcofago in peperino (roccia magmatica) a
forma di ara con metope figurate del 298 a.C. Di cornelio scipione barbato con elogio che lo celebra come
uomo forte e sapiente, le due virtù incarnate proprio da Pitagora e Alcibiade.

Bruto capitolino
Delle statue onorarie in bronzo superstiti rimane poco, il “bruto capitolino” datato alla fine del IV secolo,
prodotto da un artefice in contatto con le forme del ritratto greco individuale (pensatori e oratori)
mescolate al bagaglio figurativo centro-italico come la chioma appiattita e la barba a ciocche a fiammella.
Data 300-275 a.C. circa
Materiale bronzo
Altezza 69 cm
Ubicazione Musei Capitolini, Roma
Il cosiddetto Bruto capitolino è una statua bronzea con occhi in avorio e pasta vitrea, conservata nei Musei
Capitolini a Roma. Solo la testa è antica.
La statua è conosciuta fin dal Cinquecento e l'identificazione con Lucio Giunio Bruto, il mitico fondatore
della Repubblica romana, venne condotta tramite i confronti con i ritratti sulle monete del 59 e 43 a.C. fatte
coniare dal presunto suo discendente Marco Giunio Bruto, l'assassino di Cesare.

La parte originaria doveva far parte di una statua più grande andata perduta. La testa, a parte una
risarcitura nella calotta, ci è giunta integra, ed è uno straordinario esempio di ritrattistica romana di epoca
medio repubblicana.
La raffigurazione del personaggio è caratterizzata dalla barba, resa in ciocchette diseguali, e da una
capigliatura che ricade senza un ordine stereotipato sulla fronte.

Profilo artistico e ipotesi di datazione[modifica | modifica wikitesto]


I caratteri indicano una ricerca fisiognomica verso un ritratto, con connotazioni psicologiche come la
gravitas e l'ideale tensione tipica del patriziato romano.

Il ritratto, se confrontabile davvero con quello sulle monete, è però ideale, non eseguito al tempo della
persona, quindi più che altro si tratta di una ricostruzione dell'aspetto e delle qualità psicologiche del
personaggio.

Messo in confronto con altre teste statuarie di produzione medio-italica (come la testa fiesolana al Louvre o
l'Arringatore di Firenze), si nota in comune una certa sensibilità alle proporzioni e all'anatomia generale. È
diversa invece la resa dei particolari, che nel caso del Bruto, sono un elemento tutt'altro che accessorio,
anzi la loro resa minuta e secca indica un rapporto con la ritrattistica ellenistica dell'inizio del III secolo a.C.

Da questi paragoni si è giunti a ipotizzare una datazione risalente al primo quarto del III secolo a.C., che
coincide nella storia romana con un momento di grande espansione culturale e politica. In quello stesso
periodo, quando la città si era avviata ormai al predominio di tutta la penisola, si è infatti riscontrato anche
un particolare entusiasmo nella spinta alla ricerca di documenti del passato a sostegno della politica
imperialista ormai avviata.

Nel 264 a.C. Mutò il rapporto tra Roma e Etruria perche Roma era diventata il centro da cui dipendevano le
città etrusche.

5.3 Il sacco di Siracusa e l’età delle conquiste


nel secolo II a.C.
Anno 212 a.C. Dopo la presa della città che da tempo fungeva tra cerniera tra oriente e occidente M.
Claudio Marcello trasferì nell’urbe statue e quadri in grande quantità, cosi tante da provocare sgomento tra
i piu conservatori. Ai tempi la prassi era di abbellire le città con le armi sottratte ai nemici ma dopo
quell’evento ogni trionfatore si sentì in dovere di superare il predecessore per esaltare il proprio successo
abbellendo la città con argenteria, vasi di Corinto, pietre preziose e perle, vasi di murra e quadri vari
durante tutto il II secolo a.C. A ogni bottino si accompagnava pure il linguaggio figurativo e architettonico
greco tramite le opere razziate e le maestranze che giungevano. Con le vittorie in Asia minore e sui Galati vi
fu un periodo di ricchezze per Roma. Si diffusero anche le tematiche asiatiche come le celtomachie, i
modelli figurativi pergameni nella statuaria di pietra.
Giunone cesi
Fu allora che venne scolpita una statua in marmo di 2 metri detta Giunone cesi dall’influenza asiatica per le
pieghe del chitone e mantello, per le proporzioni e la presenza di un setto verticale sulla nuca.

Statua femminile di dimensioni superiori al vero. La figura è impostata sulla gamba sinistra arretrata mentre
la destra è avanzata; la testa è volta verso sinistra. La dea indossa una tunica (chitone) smanicata legata
subito sotto il seno e un mantello (himation) che corre in due larghi e pesanti risvolti dai bordi frangiati a
coprire la metà inferiore della figura. Entrambe le braccia sono di restauro.

Dubbi originari sulla reale pertinenza della testa alla statua sono ormai superati in quanto si è visto che fu
ottenuta dallo stesso blocco in cui venne scolpito parte del chitone.
Ancora si discute, invece, sull’identità della figura: Amazzone, Melpomene o Persefone fino
all’identificazione con Hera/Giunone avanzata già agli inizi del Settecento, interpretazione che, in realtà,
non risulta provata da nessun dato certo.

L’altissima qualità dell’opera e una serie di confronti con altre statue femminili provenienti da Pergamo,
suggeriscono che si tratti di un originale da attribuire a scuola pergamena. Piuttosto che ipotizzare un
bottino di guerra, si potrebbe pensare ad una immagine di divinità scolpita su commissione da un artista
microasiatico.
Si può datare al secondo quarto del II sec. a.C. , per confronti con altre statue femminili pergamente
panneggiate e per il volume più disteso delle vesti e dei panneggi.
Roma partecipò a un orientamento volto alla rivalorizzazione della Grecia e di Atene come centro culturale.
Sul piano figurativo Roma seguì un movimento classicistico che invase il mediterraneo e smorzò le
precedenti esuberanze barocche. Tra le committente del tempo varie teste non identificabili e una testa
colossale (60 cm ) forse di Ercole.

Principe delle terme


Spesso nella committenza del tempo non si riesce a distinguere tra identità greca o romana, Il principe delle
terme dal nudo possente e con lancia nella mano sinistra ma senza diadema regale ( tipico dei sovrani
ellenistici) forse rappresenta Attalo II o un generale romano. Trovato nel 1885 in profondità tra i muri di
fondazione di un complesso vicino a un altro bronzo, il pugilatore. Si pensa che le due statue fossero state
deposte con cura per sottrarle a un pericolo dopo aver ornato le terme di Costantino ma secondi alcuni gia
deposte nel II secolo d. C.

Il cosiddetto principe ellenistico è una statua in bronzo conservata presso il Palazzo Massimo alle Terme
(una delle sedi del Museo nazionale romano)[1]. Fu ritrovata, insieme al Pugilatore in riposo, su un versante
del Quirinale, probabilmente nei resti delle Terme di Costantino nel 1885, durante i lavori di costruzione del
Teatro Drammatico Nazionale; le due sculture, che a quanto pare furono seppellite in antichità con cura,
non sono comunque correlate tra loro, appartenendo a due periodi differenti di esecuzione.

La scultura fu realizzata in bronzo con la tecnica detta "a cera persa". Gli occhi, ora perduti, erano inseriti
separatamente. Probabilmente recava sul capo una corona o un diadema che si è perduto.

Rappresenta un giovane nudo, con un lieve velo di barba, in posa eroica; è appoggiato enfaticamente con la
mano sinistra su una lunga asta, sul modello dell'Eracle del greco Lisippo. Il soggetto è di difficile
attribuzione. Taluni studiosi hanno ritenuto che sia il ritratto di un principe ellenistico (Attalo II), altri di un
generale romano. Sulla base di nuove ricerche scientifiche e archeologiche, il Liebieghaus Polychromy
Research Project[5] ha creato una ricostruzione sperimentale che riproduce il cosiddetto “Principe
ellenistico” e il cosiddetto “Pugile in riposo“ come elementi di un gruppo statuario. Questo gruppo mostra
presumibilmente il Dioscuro Polluce e il re Amico, figlio di Poseidone, dopo il loro sanguinoso incontro di
combattimento.
Pugile in riposo

La statua bronzea del Pugile in riposo, conosciuta anche come Pugile delle Terme o Pugile del Quirinale, è
una scultura greca alta 128 cm, datata alla seconda metà del IV secolo a.C. e attribuita a Lisippo o alla sua
immediata cerchia[1]; rinvenuta a Roma alle pendici del Quirinale nel 1885, è conservata al Museo
Nazionale Romano (inv. 1055).

Il soggetto dell'opera è un pugile seduto, colto probabilmente in un momento di riposo dopo un incontro; le
mani sono protette dalla tipologia di "guantoni" indicati come Himantes Oxeis, grossi e complessi guanti da
combattimento introdotti nella pratica pugilistica dal IV secolo a.C.: le quattro dita sono infilate in un
pesante anello costituito da tre fasce di cuoio tenute insieme da borchie metalliche.

La statua è basata sul contrasto fra la quiete e il contenimento geometrico espressi dalle braccia appoggiate
sulle gambe, e l'improvviso scatto della testa che si volta verso destra aprendo all'estetica lisippea del
kairos. Gli inserti in rame, sulla spalla destra, sull'avambraccio, sui guanti e sulla coscia, rappresentano
gocce di sangue colate dalle ferite nell'atto del volgersi della testa.
Il corpo è muscoloso, reso con un trattamento non dissimile da quello riscontrabile nell'Eracle a riposo della
versione Pitti-Farnese (v. Ercole Farnese); il viso, di cui si notano la cura della barba e della pettinatura, è di
un uomo maturo e presenta i segni del tempo e dei numerosi incontri passati.

Le tumefazioni sulle orecchie (note anche come "orecchie a cavolfiore") dovute ai colpi con "guantoni"
pesanti, oggi riscontrabili negli atleti dediti alle discipline lottatorie o alle arti marziali miste (le MMA), non
necessariamente pregiudica le funzioni uditive, rimarcando le innumerevoli ore passate al combattimento e
che sembrano indicare in una sordità traumatica la ragione di quel volgersi repentino e teso della testa, in
contrasto con la spossatezza del corpo contribuendo all'impatto realistico dell'opera.

Alcune estremità della statua si presentano leggermente più lucide a causa dello sfregamento di antichi
ammiratori, ciò dimostra quanto l'opera fosse tenuta in considerazione. Il minuzioso realismo dell'opera ha
un palese intento di caratterizzazione tipologica, di raffigurare cioè una maschera di sofferenza.

L'estrema accuratezza dei dettagli corrisponde alle caratteristiche evidenziate da Plinio nell'arte del
maestro di Sicione (Nat. hist., XXXIV, 65), allo stesso tempo l'accentuato verismo del volto sembra
attagliarsi con più precisione a quanto l'autore riferisce di Lisistrato, fratello di Lisippo, (Nat. hist., XXXV,
153), così che l'opera appare come il lavoro di una scuola in cui ormai convivono differenti tendenze foriere
di importanti sviluppi.

Dalla scoperta della figura, sono state sviluppate numerose interpretazioni della persona raffigurata, ma il
personaggio rimane un mistero per la mancanza di prove fattuali.

Sulla base di nuove ricerche scientifiche e archeologiche, il Liebieghaus Polychromy Research Project[3] ha
creato una ricostruzione sperimentale che riproduce il cosiddetto “Principe ellenistico” e il cosiddetto
“Pugile in riposo“ come elementi di un gruppo statuario. Questo gruppo mostra presumibilmente il
Dioscuro Polluce e il re Amico, figlio di Poseidone, dopo il loro sanguinoso incontro di combattimento.
Questa proposta di ricostruzione era già stata sviluppata nel 1945 da Phyllis Lehman Williams[4] e Rhys
Carpenter [5].

Tecnica[modifica | modifica wikitesto]


Il restauro condotto tra il 1984 e il 1987 ha permesso di riconoscere nell'opera aspetti tecnici riconducibili
ad ambito classico. L'opera fu realizzata con la tecnica della fusione a cera persa e con il metodo indiretto.
La scultura è un insieme di otto segmenti. Le labbra, le ferite e le cicatrici del volto erano fuse
separatamente in una lega più scura o in rame massiccio. Separatamente erano fuse anche le dita centrali
dei piedi (un aspetto tecnico già riscontrato nei Bronzi di Riace) per permettere una più accurata
modellazione degli spazi interdigitali. Lo stesso si dica per la calotta cranica che doveva permettere
l'inserimento degli occhi policromi dall'interno.
Nel tempio di Giove capitolino una quadriga di terracotta fu sostituita da una in bronzo; dall’inizio del II
secolo a.C. Nelle dimore signorili venne introdotto il peristilio, un’area scoperta circondata da un
quadriportico perimetrale, adottato soprattutto nei palazzi dei regni ellenistici. Altri quadri portici
sorgevano nel circo Flaminio per la presentazione delle prede belliche come la porticus metelli e la porticus
octavia con capitelli in bronzo. Roma si stava dotando di strutture da capitale ellenistica e pure i tempi
stavano mutando. Dentro la porticus metelli, il tempio di Giove statore fu il primo interamente in marmo
eseguito da ermodoro di salamina, un architetto greco. A volte in ambiente romano però si crearono delle
differenze dal modello greco come nel caso dei thòlos sopraelevati su un podio.
Alla fine dopo ermodoro si riaffermarono schemi della tradizione italica come i tempi sine postico anche se
da architetti greci di origine. Tuttavia pure architetti romani potevano essere chiamati presso le corti
ellenistiche. Nei secoli II-I a.C. In Italia centrale nacquero santuari terrazzati con paralleli nel mondo
ellenistico, come il santuario di ascepio e Coo, accanto al tempio urbano di Magna mater sul palatino fu
costruito a praeneste nel 120 a.C. Quello della fortuna primigenia, con due centri sacrali distinti, un tempio
circolare al di sopra del portico e vicino all’esedra orientale della terrazza un pozzo sormontato da un thòlos
con colonnine corinzie, chiuse nella parte inferiore da una transenna lapidea, accanto una base
quadrangolare per una statua. Il pozzo è stato identificato con l’oracolo recintato come luogo di culto.
Inoltre l’edilizia tardorepubblicana adottò l’opera cementizia costituita da materiale legato da malta e
permise strutture senza limiti di dimensione in modo rapido ed economico con conseguenze
sull’organizzazione della forza lavoro.
5.4 Crisi della repubblica e <<guerre>> di
monumenti
Nel I secolo a.C. Le apparizioni dei capi fazione come cesare e pompeo, Ottaviano e marco Antonio,
indebolirono le istituzioni repubblicane. Il conflitto tra fazioni politiche e individui si combattè anche a
suono di monumenti in una lotta per il dominio dei centri simbolici dello stato, il Campidoglio, il palatino e il
foro romano. Nell’urgenza proliferavano le statue onorarie nei luoghi più frequentati e si puntava a rendere
Roma in grado di tener testa alle metropoli ellenistiche.

Foro di cesare
Il foro Iulium fu inaugurato nel 46 a.C. Alle pendici sud-orientali del Campidoglio e si articolava in una piazza
rettangolare circondata su tre lati da portici a due navate e sul muro di fondo del portico del lato sud vi
erano ambienti adibiti a uffici giuridici. Sul lato nord vi era il tempio di Venere genitrice, votato nel 48 a.C. A
Farsalo contro Pompeo, svettava su un podio alto 5 metri rispetto al piano della piazza, con facciata a 8
colonne e peristasi su 3 lati (sine pòstico), si accedeva da due scale laterali. La statua di culto di venere fu
realizzata dallo scultore Arcesilao. Davanti al tempio vi era una fontana monumentale. Accanto a varie
statue di cesare e della famiglia imperiale vi erano anche molte opere d’arte e 6 collezioni di gemme
consacrate al tempio di venere genitrice da cesare. In seguito fu integrata nel complesso la curia Iulia nel 42
a.C. E il foro fu reinaugurato da Ottaviano nel 29 a.C., piu lungo di 20 metri dall’originario. In età imperiale
abbiamo varie modifiche, il portico sud fu collegato con l’esedra del foro di traiano mediante la basilica
argentaria. E dopo un incendio vi furono restauri da parte di diocleziano e Massenzio.

Tra le teste ritrovate e identificate , appartenenti a statue, pompeo aveva una ciocca di capelli sollevata
sulla fronte, occhi piccoli, labbra sottili e la faccia carnosa di un uomo di mezza età con la fronte corrugata.
Cesare nel ritratto quando era in vita aveva i capelli piatti e il viso con rughe accentuate sul collo. Cicerone a
bocca appena aperta ha la fronte molto alta e solcata da pieghe.
Arringatore
L’arringatore è un bronzo integro di 170 cm pervenutoci dell’inizio del I secolo a.C. ritratto con un gesto di
allocuzione, con toga e scarpe chiuse, calcei con strisce di cuoio, dedicato in un santuario del Trasimeno
dopo l’ 89 a.C. Viso e chioma hanno le caratteristiche della ritrattistica del tempo di Delo. Era dedicata a un
nuovo nobile di nome Aule Meteli. Braccio sinistro rilassato mentre il destro teso verso l’alto con il palmo in
avanti. Il volto presenta rughe sulla fronte e sugli occhi, le guance appiattite, capigliatura con ciocche
regolari e aderenti al cranio.
L'Arringatore è una scultura bronzea alta 170 cm raffigurante un uomo togato, databile tra la fine del II e gli
inizi del I secolo a.C., realizzata con tecnica a cera persa in sette parti distinte a fusione cava, poi unite tra
loro[1]. È conservata nel Museo archeologico nazionale di Firenze. Si tratta dell'unica testimonianza integra
pervenutaci di una grande scultura in metallo dell'epoca tardo-etrusca[2]
L'uomo, vestito della toga exigua e di alti calzari, è rappresentato mentre compie un gesto volto a catturare
l'attenzione degli astanti ed accingersi a compiere l'arringa. L'artista non ha voluto fissarne il carattere
psicologico quanto piuttosto sottolinearne la volontà persuasiva mediante il braccio teso e la
partecipazione di tutto il corpo con la flessione del busto. Manca, pertanto, qualsiasi volontà celebrativa. Il
braccio sinistro è rilassato lungo il corpo e avvolto nel panneggio, mentre il destro è appunto teso verso
l'alto con il palmo della mano rivolto in avanti. La mano destra, che si spezzò nel momento in cui la statua
fu rinvenuta[1], è di dimensioni maggiori rispetto al resto del corpo per dare maggiore risalto al gesto.[3].
Tali accorgimenti generano una visuale preferenziale da una posizione leggermente sfasata verso destra,
verso la gamba flessa in avanti[2].

La resa del panneggio dimostra una certa abilità, sebbene sia presente qualche incertezza anatomica,
soprattutto nel raccordo della spalla destra al tronco. Il moto ascensionale delle pieghe e l'andamento
obliquo della posa indirizza tutta l'attenzione dello spettatore sul gesto e sul volto. Quest'ultimo è
appoggiato su un alto collo ed è mosso da lunghe rughe incavate sulla fronte e da incisioni più sottili ai lati
degli occhi, per rendere la senilità del soggetto. Le guance sono appiattite, le labbra ferme e disegnate
abilmente, le cavità degli occhi, un tempo riempite probabilmente da inserti di pasta vitrea, sono di
notevole espressività. La capigliatura, lavorata a ciocche regolari eseguite col cesello, è aderente al cranio, e
solo nella bassa frangia mostra un piccolo rialzo[2].
6,1 l’architettura a Roma da Augusto a
Domiziano
Quando augusto eredità la struttura urbanistica e architettonica di Roma questa non corrispondeva alla
grandezza dell’impero. Si dice che abbia detto di aver ricevuto una Roma di mattoni e di averla lasciata di
marmo ed è vero. Con l’aiuto di Agrippa creò varie istituzioni per ridurre i fattori di rischio di incendi e altre
catastrofi. I curator alvei per controllare il corso del Tevere e 7 coorti di vigili del fuoco. Egli rifondò la città
durante la pace dopo decenni di guerre civili e il suo programma di monumentalizzazione sottolineava il
confronto tra lui e Romolo. Restaurò vari edifici pubblici e templi ma senza stravolgere il tessuto urbanistico
ereditato. Il progetto principale fu il ridisegno globale del campo marzio settentrionale, allora area deserta.
Nei monumenti da lui restaurati o ricostruiti venivano posti i nomi dei suoi parenti, il suo nome o quello
degli amici piu intimi ai quali cambiava il compleanno per farlo coincidere col suo il 23 settembre.

MAUSOLEO DI AUGUSTO
Risalente al I secolo a.C., il mausoleo occupava una parte dell'area settentrionale dell'originario Campo
Marzio romano e vi erano tumulati, oltre ad Augusto stesso, diversi membri della dinastia giulio-claudia.
L'ultimo imperatore ad esservi seppellito fu Nerva.
I riferimenti all'ellenismo, oltre alle scelte politiche di Ottaviano, trovano conferma nella decisione di
erigere una sepoltura dinastica simile sia a quella di Alessandro Magno che al mausoleo di Alicarnasso.
Venne iniziato nel 28 a.c.
Il monumento, devastato da secoli di saccheggi e asportazione di materiali e definitivamente liberato dagli
scavi solo nel 1936, con il suo diametro di 300 piedi romani (circa m 87), è il più grande sepolcro circolare
che si conosca. La complessa struttura a piani sovrapposti è determinata da un basamento in travertino alto
12 metri e forse terminato in alto da un fregio dorico a metope e triglifi, sul quale poggia l'edificio circolare
composto da sette anelli concentrici. Vi era infine il primo ambiente praticabile, al termine del lungo
corridoio d'ingresso nel quale si aprivano due ingressi, siamo quindi di fronte ad una struttura complessa, a
piani sovrapposti. Al di là del muro un corridoio anulare praticabile reggeva la cella anch'essa circolare,
munita di un ingresso e di tre nicchie simmetriche. Al centro un grande pilastro conteneva una stanzetta
quadrata, che dovrebbe corrispondere alla tomba di Augusto, in significativa corrispondenza con la statua
bronzea dell'imperatore che sorgeva alla sommità del pilastro.

Davanti all'ingresso furono posti i due pilastri con affisse le tavole bronzee sulle quali era incisa
l'autobiografia ufficiale dell'imperatore (Res gestae divi Augusti)

I due obelischi in granito, portati dall'Egitto per ornare l'ingresso del mausoleo, sono stati successivamente
riutilizzati e si trovano tuttora nella piazza del Quirinale e in quella dell'Esquilino.
La tomba era ispirata a modelli orientali ed etruschi, che sulla sommità erano ricoperti di terra con piante
sempreverdi. Nella sua lunga storia è stato trasformato in fortezza, usato come cava di materiali, come
vigneto, come arena per la corrida dei tori, come teatro e nell'Ottocento anche come ospizio per vecchie
signore indigenti.

OROLOGIO SOLARE
L'orologio di Augusto, era in realtà una linea meridiana, la più grande del mondo antico, che si trovava in
Campo Marzio, nell'area antistante l'Ara Pacis.

Fu fatto edificare dall'imperatore Augusto con un decreto del Senato del 13 a.C. per celebrare le conquiste
della Gallia e della Spagna. Venne concluso nel 9 a.C.

Il monumento era formato da una vasta area pavimentale rettangolare di circa 4 metri x 75 metri,
pavimentata in travertino e sulla quale tracciate, con listelli di bronzo, le indicazioni dei giorni di calendario.
Utilizzava come gnomone un grande obelisco egiziano in granito rosso, dell'altezza di circa 30 metri,
prelevato dalla città di Eliopoli.

All'estremità vi era una sfera di bronzo che proiettava la sua ombra sulla Linea meridiana il mezzodì,
indicando la posizione del Sole sull'eclittica (la stagione giorno per giorno). Ogni anno il 23 settembre per il
compleanno di augusto l’ombra copriva l’ara pacis.
Nel Medioevo, forse nel IX secolo, l'obelisco crollò a terra, rompendosi in cinque pezzi. Riscoperto nel XV
secolo, fu rialzato durante il pontificato di papa Pio VI, divenendo l'obelisco di Montecitorio.

TEMPIO DI MARTE ULTORE


Il tempio di Marte Ultore è un antico tempio romano, che faceva da chiusura scenografica al lato di fondo
del foro di Augusto a Roma. Era dedicato al dio romano Marte "vendicatore", Mars Ultor,al quale Augusto
aveva promesso in voto un tempio prima della vittoria nella battaglia di Filippi.

La costruzione venne probabilmente iniziata, insieme a quella del foro, solo dopo che Augusto si fu di fatto
assicurato il potere, negli anni tra il 30 e il 27 a.C., e il tempio venne solennemente inaugurato quarant'anni
dopo la promessa nel 2 a.C.
Il tempio si trovava alla sommità di un alto podio (alto circa 3,55 m) e dominava la piazza del foro, definito
angustum (angusto, di limitata ampiezza) dalle fonti antiche. Queste, infatti, ricordano come i collaboratori
di Augusto ebbero difficoltà ad espropriare tutti i terreni necessari.

Si trattava di un tempio periptero sine postico (con colonne che circondano la cella su tre lati, ma non sul
lato di fondo), di ordine corinzio, ottastilo (con otto colonne sulla fronte). I colonnati laterali, anch'essi di
otto colonne, terminavano contro l'alto muro di recinzione del complesso, al quale il tempio si addossava,
con una lesena. Oltre ad alcuni elementi rialzati in seguito agli scavi, sono rimaste in piedi sul fianco
meridionale tre colonne e il pilastro terminale, con l'adiacente tratto del muro della cella. Ciascuna colonna
è alta circa 15 metri.
I colonnati e le pareti esterne della cella erano realizzati in marmo lunense, ed anche il podio era rivestito di
marmo. Vi si accedeva per mezzo di una scalinata frontale di 17 gradini in marmo, su fondazioni in
cementizio, interrotta al centro da un altare; due fontane ne decoravano le estremità.

La cella aveva le pareti interne decorate da uno o più probabilmente da due ordini di colonne
(probabilmente sette per lato), staccate dalla parete. I fusti erano in marmo colorato e i capitelli, dei quali ci
è pervenuto un esemplare intero di lesena, oggi esposto nel Museo dei Fori Imperiali, erano decorati da
figure di Pegasi (cavalli alati).

La pavimentazione presentava un disegno a grande modulo con lastre in marmo africano e pavonazzetto, di
cui resta qualche tratto

Sul fondo la cella terminava con un'abside, staccata mediante un'intercapedine dal muro di fondo,
occupata da un ulteriore piccolo podio per le statue di culto, preceduto da una scalinata rivestita in lastre di
alabastro. Su un podio lungo circa 9 metri erano ospitate probabilmente tre statue: di Marte, di Venere e
del Divus Iulius o, forse, sulla base di fonti storiografiche, del Genio di Nerone;

La raffigurazione che occupa il frontone ospitava (da sinistra): la personificazione del Palatino semisdraiata,
Romolo seduto che seguiva con lo sguardo il volo degli uccelli (come un augure), Venere con Eros, Marte
con la lancia (al centro), la Fortuna, la dea Roma e la personificazione del fiume Tevere.

Il tempio custodiva una sorta di sancta sanctorum, il penetrale, dove erano conservate la spada di Giulio
Cesare e le insegne perdute da Crasso durante la guerra contro i Parti e poi restituite ad Ottaviano Augusto
dal re partico in segno di sottomissione.

Foro di augusto
Le novità del foro di augusto votato nel 42 ma inaugurato nel 2 a.C. Sono le strutture degli interni non
visibili dalla piazza centrale, uno spazio porticato quadrangolare con alti attici e con tempio sul fondo
(Marte ultore). Il tempio aveva un pavimento in marmo e pavonazzetto, pareti con doppio ordine di
colonne, capitelli figurati con pegasi sporgenti da cespi di acanto che riproponevano il motivo dominante
della futura divinizzazione del principe. Fastosa pure la decorazione dei porticati con lesene sul fondo con
edicole che contenevano da un lato le statue dei re di Alba longa discendenti da enea e degli antenati della
famiglia Giulia, dall’altro le statue dei summi viri, i magistrati che avevano esaltato Roma con le loro
imprese a partire da Romolo. Le due esedre alle spalle dei porticati, invisibili dalla piazza erano visibili solo
dopo aver attraversato un ordine di pilastri in cipollino sormontate da pilastri d’africano. Il pavimento a
scacchiera in giallo antico e africano, alle pareti edicole contenenti altre statue di antenati della gens iulia e
summi viri, in un’edicola centrale sporgente dal fondo vi erano 2 gruppi principali: in uno Enea che conduce
il padre Anchise e il figlio Ascanio in salvo da troia, nell’altro Romolo con alle spalle il trofeo della vittoria sui
Ceninensi. Vi erano numerose altre statue oltre a quelle dei summi viri. Il portico settentrionale terminava
in un vasto ambiente alto 24 metri in marmi policromi chiamato “aula del colosso” ospitante la statua
colossale forse del genio di augusto, alle sue spalle lastre di marmo dipinte a imitazione di un velario in blu
con motivi a palmette, rosette e fiori di loto.

Ottaviano scelse il palatino come sede abitativa, la sua Domus era il risultato dell’acquisizione di piu case
senza assetto unitario e a esse collegato il santuario di Apollo palatino, dio protettore del principe al quale
doveva la vittoria di azio. Spostata nell’area pure una succursale del culto di Vesta dal foro romano resa
necessaria perche augusto come pontefice non poteva abitare lontano dalla dea.
Con Nerone dopo l’incendio del 64 d.C. Si diede al complesso un primo assetto unitario avviando i lavori
della Domus Aurea ma solo Domiziano interrando tutti gli edifici precedenti riuscì a costruire una sede
imperiale a carattere unitario sul palatino. Al complesso di augusto facevano parte la casa di Ottaviano, la
casa di Livia e l’aula Isiaca. Si tratta di case modeste, niente sfoggio di ricchezze ma elegante semplicità.
Quando nel 28 a.C. Viene costruito il tempio di Apollo palatino, i terreni circostanti e le case erano stati
interrati e livellati e alla stessa altezza del podio del tempio venne costruita la nuova casa di augusto di cui
abbiamo pochissime tracce. Si può immaginare ci fossero spazi di rappresentanza privati ai lati del tempio,
un piazzale con due biblioteche, greca e latina, una delle quali adoperata come sede alternativa del senato.

Pantheon
Il Pantheon è un edificio della Roma antica situato nel rione Pigna nel centro storico, costruito come tempio
dedicato a tutte le divinità passate, presenti e future. Fu fondato nel 27 a.C. Da Marco Vipsanio Agrippa,
genero di Augusto. Fu fatto ricostruire dall'imperatore Adriano presumibilmente dal 112-115 fino al 124
d.C. circa, dopo che gli incendi dell'80 e del 110 d.C. avevano danneggiato la costruzione precedente di età
augustea.

È composto da una struttura circolare unita a un pronao in colonne corinzie (otto frontali e due gruppi di
quattro in seconda e terza fila) che sorreggono un frontone e dividono in 3 navate, le due laterali portano a
2 nicchie che un tempo contenevano le statue forse di Agrippa e augusto. La grande cella circolare, detta
rotonda, è cinta da spesse pareti in muratura e da otto grandi piloni su cui è ripartito il peso della
caratteristica cupola emisferica in calcestruzzo che ospita al suo apice un'apertura circolare detta oculo, che
permette l'illuminazione dell'ambiente interno. L'altezza dell'edificio calcolata all'oculo è pari al diametro
della rotonda, caratteristica che rispecchia i criteri classici di architettura equilibrata e armoniosa. A quasi
due millenni dalla sua costruzione, la cupola intradossata del Pantheon è ancora oggi una delle cupole più
grandi di tutto il mondo, e nello specifico la più grande costruita in calcestruzzo romano.

All'inizio del VII secolo il Pantheon è stato convertito in basilica cristiana chiamata Santa Maria della
Rotonda o Santa Maria ad Martyres, il che gli ha consentito di sopravvivere quasi integro alle spoliazioni
inflitte dai papi agli edifici della Roma classica.

Il primo Pantheon fu fatto costruire nel 27-25 a.C. da Marco Vipsanio Agrippa, amico e genero di Augusto,
nel quadro della monumentalizzazione del Campo Marzio, affidandone la realizzazione a Lucio Cocceio
Aucto. Esso sorgeva infatti fra i Saepta Iulia e la basilica di Nettuno, fatti erigere a spese dello stesso Agrippa
su un'area di sua proprietà, in cui si allineavano da sud a nord le terme di Agrippa, la basilica di Nettuno e il
Pantheon stesso.

Adriano non ha riedificato ma effettuato soltanto dei piccoli ritocchi. Ecco le altre versioni riguardo la
riedificazione del Pantheon, sempre errate. Secondo alcuni il progetto, redatto subito dopo la distruzione
dell'edificio precedente in epoca traianea, sarebbe attribuibile all'architetto Apollodoro di Damasco. È
anche possibile, stando a considerazioni sulle irregolarità e le peculiarità della costruzione, che
l'edificazione sia stata iniziata sotto Traiano, ripresa alla morte di questi da Adriano, interrotta per qualche
tempo, poi completata con alcune variazioni al progetto iniziale.

Sulla facciata il fregio riporta l'iscrizione di Agrippa in lettere di bronzo, mentre una seconda iscrizione, in
caratteri più piccoli, relativa a un modesto restauro compiuto nel 202 d.C. da Settimio Severo e Caracalla, fu
incisa sull'architrave sotto alla prima. Il frontone doveva essere decorato con figure in bronzo, fissate sul
fondo con perni di cui si vedono le sedi nel marmo del frontone.

Al livello inferiore si aprono sei ampie nicchie dìstile (ossia con due colonne sul fronte), più la nicchia
dell'ingresso e l'abside alternate ad edicole contenenti statue.

La cupola all'interno è decorata da cinque ordini di ventotto cassettoni. I cassettoni sono di misura
decrescente procedendo verso l'alto, e sono assenti nell'ampia fascia liscia vicina all'oculo zenitale, che
misura 9 m di diametro. Una tradizione romana vuole che nel Pantheon non penetri la pioggia per il
cosiddetto "effetto camino": in realtà è una leggenda legata al passato, quando la miriade di candele che
venivano accese nella chiesa produceva una corrente d'aria calda che saliva verso l'alto e che incontrandosi
con la pioggia la nebulizzava, annullando pertanto la percezione dell'entrata dell'acqua.

La realizzazione fu resa possibile grazie a una serie di espedienti che contribuiscono all'alleggerimento della
struttura: dall'utilizzo dei cassettoni all'uso di materiali via via sempre più leggeri verso l'alto. Nello strato
più vicino al tamburo cilindrico si trovano strati di calcestruzzo con scaglie di mattoni, salendo si trova
calcestruzzo con scaglie di tufo, mentre nella parte superiore, nei pressi dell'oculo, si trova calcestruzzo
miscelato a lapilli vulcanici. La cupola fu realizzata in unico getto sopra una enorme centina in legno
All'esterno, la cupola è nascosta inferiormente da una sopraelevazione del muro della rotonda, ed è quindi
articolata in sette anelli sovrapposti, l'inferiore dei quali conserva tuttora il rivestimento in lastre di marmo.
La parte restante era coperta da tegole in bronzo dorato, asportate.

Domus aurea
Nerone attribuì il progetto della Domus aurea agli architetti Severo e Celere, una residenza imperiale
impostata come un insieme di edifici sparsi entro un vasto parco con i giardini che imitavano la campagna
coltivata a vigne, boschi e foreste, zone lacustri. Nerone voleva creare un’enorme villa suburbana nel cuore
di Roma, portare la campagna in città. La Domus aveva una strada principale d’accesso corrispondente a un
tratto della sacra via circondata da porticati e vani, un enorme vestibolo nel quale vi era la statua del
colosso di nerone/sol, un edificio palaziale lungo le pendici del colle oppio affacciato su un lago rettangolare
circondato da porticati e terrazze, un ninfeo che fungeva da terrazza del Celio.
Una delle sale principali su colle oppio era ottagonale con una volta a cupola in opera cementizia con al
centro un oculus da cui entrava la luce. Ai due architetti era attribuita pure l’invenzione di un meccanismo
azionato da schiavi che permetteva di far ruotare il soffitto di un vano cupolato secondo le ore del giorno
mentre dall’alto cadevano petali di rose. Il vano cupolato si pensa appartenesse a una torre affacciata dal
palatino con tracce di strutture meccaniche all’interno, un pilone di 4 metri da cui partono 8 arcate a
raggiera disegnando un ambiente circolare di 16 metri di diametro.

La Domus Aurea era la villa urbana costruita dall'imperatore romano Nerone dopo il grande incendio che
devastò Roma nel 64 d.C.[3] La distruzione di buona parte del centro urbano permise al princeps di
espropriare un'area complessiva di circa 80 ettari e costruirvi un palazzo che si estendeva tra il Palatino,
l'Esquilino e il Celio.[4]

La villa, probabilmente mai portata a termine,[2] fu distrutta dopo la morte di Nerone a seguito della
restituzione al popolo romano del terreno su cui sorgeva.
si trattava non di una sola grande residenza, ma di un insieme di edifici e spazi verdi, che in seguito
ispirarono la grande villa Adriana alla periferia di Tivoli.

La maggior parte della superficie era occupata da giardini, con padiglioni per feste o di soggiorno. Al centro
dei giardini, che comprendevano boschi e vigne, nella piccola valle tra i tre colli, esisteva un laghetto, in
parte artificiale, sul sito del quale sorse più tardi il Colosseo. La vera residenza di Nerone rimase comunque
quella dei palazzi imperiali del Palatino, mentre l'edificio sull'Oppio fu adibito a dimora quando prediligeva
rimanere negli horti, e gli edifici con vestibulum e stagnum erano utilizzati per le feste, dove riceveva il
popolo di Roma.
Nerone s'interessò in ogni dettaglio del progetto, secondo gli Annali di Tacito, e supervisionava
direttamente gli architetti Celere e Severo. La domus Aurea fu detestata dalla popolazione, poiché era stata
costruita grazie alle spogliazioni dei cittadini più abbienti di Roma e dell'intero impero, depredando i templi
di Roma.
Già a partire da Vespasiano si avviò il processo di distruzione della Domus.[35] In circa un decennio la
dimora neroniana venne spogliata dei suoi rivestimenti preziosi: Vespasiano utilizzò lo spazio in cui era
stato scavato il lago artificiale, drenando le acque e prosciugandolo, oltre a distruggere gli edifici che
collegavano il vestibulum con lo stagnum, rasandoli e riempiendoli di macerie per innalzare il terreno per
costruire l'Anfiteatro Flavio.
L'accesso principale alla villa avveniva dal Foro romano, in prossimità dell'Atrium Vestae; l'accesso avveniva
tramite un enorme Vestibulum, dominato dalla statua colossale raffigurante Nerone posta sulla sommità
della Velia, il Colosso, una colossale statua in bronzo di 119-120 piedi (pari a circa 35 metri), raffigurante se
stesso, vestito con l'abito del dio-sole romano Apollo, il Colossus Neronis, che fu posto al centro del
Vestibulum. Fu commissionato, secondo quanto ci tramanda Plinio il Vecchio, allo scultore greco Zenodoro.

La statua bronzea si ispirava probabilmente al Colosso di Rodi, e rappresentava Nerone come il dio Sole,
con il braccio destro in avanti (appoggiato, in epoca commodiana ad una clava, e successivamente ad un
timone[37]), il braccio sinistro piegato per reggere un globo terrestre. Sulla testa portava come copricapo
una corona composta da sette raggi, lunghi ciascuno 6 metri.

Nell'avvallamento compreso fra Velia, Celio e Oppio probabilmente già esisteva uno stagno naturale
alimentato da un piccolo corso d'acqua che scorreva tra Celio e Oppio. Nerone monumentalizzò il bacino,
circondandolo di edifici, tanto che Svetonio lo comparava a un mare circondato da una città.[56] Inoltre,
incrementò l'afflusso di acqua facendovi giungere acqua dell'Aqua Claudia tramite il ninfeo posto sul fianco
del podio del tempio del Divo Claudio, sul Celio.[35][62]

Era al centro della Domus Aurea e sicuramente ne era uno degli elementi più caratteristici.[48] Sembra che
fu la prima parte della Domus Aurea ad essere distrutta da Vespasiano probabilmente per ridestinare
l'acqua dell'acquedotto di Claudio all'uso pubblico[66]. Vespasiano drenò il bacino e sul suo sito edificò
l'Anfiteatro Flavio.

Gli architetti disegnarono due delle sale da pranzo principali, in modo che fiancheggiassero un cortile
ottagonale, sormontato da una cupola con un gigantesco abbaino centrale che lasciava entrare la luce del
giorno.[24] La cupola era completamente costruita in cementizio ed impostata su un ottagono di base; la
prima parte della cupola segue un andamento a spicchi ottagonali (come la cupola del Brunelleschi di
S.Maria del Fiore a Firenze), mentre la seconda parte assume una forma circolare. La parte centrale
sormontata dalla cupola svolge funzione di un triclino romano, dove l'imperatore si manifestava come
divino, tramite gli effetti di luce che l'abbaino della cupola filtrava, assimilandosi al dio Apollo.

Questa domus, costruita in mattoni e in pietra nei pochi anni tra l'incendio e la morte di Nerone nel 68, era
celebre non solo per gli estesi rivestimenti in oro colato che le diedero il suo nome, ma anche per i soffitti
stuccati incrostati di pietre semi-preziose e lamine d'avorio. Plinio il Vecchio assistette alla sua
costruzione[25]

Si trattava di uno dei primi esempi di quarto stile pompeiano. La direzione venne affidata ad un pittore di
grande talento come Fabullus.[1][26] La tecnica dell'affresco, applicata al gesso fresco, richiede un tocco
veloce e sicuro: Fabullo e i suoi collaboratori ricoprirono una percentuale impressionante dell'area. Plinio,
nella sua Storia Naturale, racconta come Fabullo si recasse solo per poche ore al giorno alla Domus, per
lavorare solo quando la luce era adatta. La rapidità dell'esecuzione di Fabullo donava un'unità straordinaria
alla sua composizione, una delicatezza sorprendente alla sua esecuzione, e il suo stile era definito «floridus
(per i colori utilizzati come l'azzurro, il rosso sangue, il verde erba, l'indaco o il giallo oro) et humidus (per la
pastosità del tocco)».[27]

Queste decorazioni, seppure giunte a noi in ridotti frammenti di pittura, possono essere integrate con i
disegni degli artisti rinascimentali che scendevano ad ispirarsi in queste «grotte» (ribattezzate poi
«grotresche»).[23]

Un'altra innovazione destinata ad avere una grande influenza sull'arte futura, fu che Nerone pose i mosaici,
precedentemente riservati ai pavimenti, sui soffitti a volta. Ne sopravvivono soltanto dei frammenti, ma
questa tecnica sarebbe stata imitata costantemente, per diventare un elemento fondamentale dell'arte
cristiana: i mosaici che decorano innumerevoli chiese a Roma, Ravenna, Costantinopoli e in Sicilia.

Addossato alla parete nord-orientale del podio del tempio del Divo Claudio sul Celio, Nerone fece edificare
un grande ninfeo scenografico, che poteva essere visto dall'ala del palazzo sull'Esquilino.[1][48][69][70]

Il Ninfeo era costruito in calcestruzzo e rivestito di marmo. Per tutta la lunghezza (misurava 167 metri in
lunghezza e 11 metri in altezza), il Ninfeo era decorato con colonne, nicchie e numerose fontane.

Ovunque erano presenti sculture di artisti famosi, tra cui alcune di Prassitele o i famosi gruppi pergameni
come quello dei Galati (dei quali ci sono pervenute le copie in marmo: il «Galata suicida» e il «Galata
morente»),[12] depredati da Nerone durante il suo viaggio in Grecia ed Asia.[13][20] Le stanze poi erano
affrescate dal pittore Fabullo,[46] i cui colori erano vivaci e luminosi, dove il bianco era il colore dominante.
L'oro, le pietre preziose, i marmi e i mosaici attribuivano all'edificio una ricchezza di decorazioni accecante.
Erano quindi rappresentati sulle pareti e sui soffitti a volta, paesaggi, animali, trofei e scene mitologiche.
[63]

La famosa statua della Venere kallipige (da kalòs = bello; e pyghè = sedere) è una replica romana di un
originale ellenistico di II secolo a.C., rinvenuta a Roma nella Domus Aurea, facente parte della Collezione
Farnese, oggi esposta nel Museo archeologico nazionale di Napoli (inv. 6020). Il nome attribuito
erroneamente a questa statua, si riferiva invece in antico ad un'altra statua esposta in un tempio a Siracusa.
Questa opera, per il suo carattere malizioso e leggero, viene inquadrata nel cd. "rococò ellenistico". La dea,
in procinto di bagnarsi, solleva la pesante veste e si volge indietro per guardare la sua splendida nudità
posteriore che si rispecchia nell'acqua.
La statua del gruppo del Laocoonte fu trovata il 14 gennaio del 1506[83] scavando in una vigna sul colle
Oppio di proprietà di Felice de Fredis, nelle vicinanze della Domus Aurea di Nerone.

Colosseo
Il Colosseo fu realizzato durante il principato di vespasiano e completato dal figlio Tito mentre a Domiziano
si deve la costruzione dei vani di servizio sotto l’arena che impedirono lo svolgimento delle naumachie.
Costruito in travertino all’esterno e foderato di marmo all’interno, il Colosseo si distingue per le dimensioni,
la facciata esterna presenta ordini sovrapposti di arcate sui cui pilastri di sostegno vi sono semicolonne. 3
arcate con semicolonne tuscaniche, ioniche e corinzie, l’attico è scandito con capitelli corinzi a foglie lisce
tra le quali si alternano finestre. Nelle arcate vi sono centinaia di statue di dei ed eroi. Gli spettatori
entravano nell’anfiteatro Flavio attraverso arcate assegnate a seconda del ceto, da esse si accedeva a scale
incrociate che portavano a corridoi anulari coperti con volte stuccate. La cavea era distinta in 5 settori dei
quali il superiore, l’unico con sedili in legno era all’interno di un portico colonnato.
Il Colosseo, originariamente conosciuto come Anfiteatro Flavio situato nel centro della città di Roma, è il più
grande anfiteatro romano del mondo (in grado di contenere un numero di spettatori stimato tra 50 000 e
87 000). È il più importante anfiteatro romano, nonché il più imponente monumento dell'antica Roma che
sia giunto fino a noi.[2]
L'anfiteatro fu edificato in epoca Flavia su un'area al limite orientale del Foro Romano. La sua costruzione,
iniziata da Vespasiano nel 70 d.C., fu conclusa da Tito, che lo inaugurò il 21 Aprile nell'80 d.C. Ulteriori
modifiche vennero apportate durante l'impero di Domiziano, nel 90.
L'area scelta era una vallata tra la Velia, il colle Oppio e il Celio, in cui si trovava un lago artificiale (lo
stagnum citato dal poeta Marziale), fatto scavare da Nerone per la propria Domus Aurea.
Vespasiano vide la costruzione dei primi due piani e riuscì a dedicare l'edificio prima di morire nel 79[10].
Tito aggiunse il terzo e quarto ordine di posti e inaugurò l'anfiteatro con cento giorni di giochi nell'80[12].

La facciata esterna (alta fino a 48,50 m) è in travertino e si articola in quattro ordini, secondo uno schema
tipico di tutti gli edifici da spettacolo del mondo romano: i tre registri inferiori con 80 arcate numerate,
rette da pilastri ai quali si addossano semicolonne, mentre il quarto livello (attico) è costituito da una parete
piena, scandita da lesene in corrispondenza dei pilastri delle arcate. Gli ordini per ogni piano sono dorico,
ionico e corinzio. L'ultimo piano è pure definito in stile corinzio.

Il Colosseo aveva una copertura in tessuto (velarium in latino) formata da molti teli che coprivano gli spalti
degli spettatori ma lasciavano scoperta l'arena centrale. Il velarium era usato per proteggere le persone dal
sole. I teli erano fissati con un complesso sistema di funi.

Sui gradini sotto il colonnato prendevano posto le donne, alle quali, da Augusto in poi, fu sempre vietato di
mescolarsi ad altri spettatori. Il posto peggiore era sul terrazzo sopra il colonnato, solo con posti in piedi,
destinato alle classi infime della plebe.

Gli spettatori raggiungevano il loro posto entrando dalle arcate loro riservate. Gli imperatori e le autorità
raggiungevano i loro posti fruendo del privilegio di entrare da ingressi riservati, posti sull'asse minore
dell'ovale, mentre gli ingressi collocati al centro dell'asse maggiore erano riservati agli attori e ai
protagonisti degli spettacoli. Ma il resto del pubblico doveva mettersi in coda sotto l'arcata che mostrava il
numero corrispondente alla tessera assegnata. Ciascuna delle arcate per il pubblico era quindi
contraddistinta da un numerale, inciso sulla chiave di volta, per consentire agli spettatori di raggiungere
rapidamente e ordinatamente il proprio posto. I numeri incisi sulle arcate del Colosseo erano colorati di
rosso per essere visibili anche da lontano.

L'arena ellittica (86 × 54 m) presentava una pavimentazione parte in muratura e parte in tavolato di legno, e
veniva ricoperta da sabbia, costantemente pulita, per assorbire il sangue delle uccisioni. L'arena aveva varie
trappole e montacarichi che comunicavano con i sotterranei e che potevano essere utilizzati durante lo
spettacolo.

Sotto l'arena erano stati realizzati ambienti di servizio (ipogeo). Qui si trovavano i montacarichi che
permettevano di far salire nell'arena i macchinari o gli animali impiegati nei giochi e che, in numero di 80, si
distribuivano su quattro dei corridoi.

FORO DELLA PACE


Il tempio della Pace (templum Pacis) era un antico edificio di culto a Roma, eretto per volere
dell'imperatore Vespasiano tra il 71 e il 75. Dal IV secolo d.C. in poi ricevette la denominazione di foro della
Pace (forum Pacis), il terzo in ordine cronologico dei cinque Fori Imperiali.
Si trovava accanto al foro di Augusto, separato solo dalla strada dell'Argileto, l'antica strada tra Foro
Romano e Esquilino
Il foro era costituito da un vasto complesso di edifici per una superficie complessiva di circa 135x100 metri.

I resti di questo foro sono oggi molto scarsi, situati sul lato del Foro Romano (tracce di un ingresso
monumentale) oltre via dei Fori Imperiali e incorporati nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano.
La pianta del complesso ci è comunque nota grazie alla Forma Urbis Severiana, che era conservata proprio
in questo complesso: la grande lastra marmorea rappresentante la pianta di Roma (agli inizi del III secolo) si
trovava affissa su una parete di uno degli ambienti del foro della Pace. I fori delle grappe usate per il
fissaggio delle lastre sono ancora visibili sulla parete esterna del convento dei Santi Cosma e Damiano.

Il Foro della Pace consisteva in una grande piazza quadrata sistemata a giardino, con portici su tre lati
(laterali, decorati anche da nicchie, e posteriore), mentre il lato frontale era decorato da colonne in marmo
africano lungo la parete, ricordando comunque un peristilio. Come di consueto, il lato opposto all'entrata
principale era centrato tempio vero e proprio (aedes Pacis), circondato da una serie di aule simmetriche.
Qui erano ospitate una biblioteca, le spoglie del sacco di Gerusalemme (col famoso tesoro del tempio di
Salomone) e un vero e proprio museo pubblico, con una ricchissima serie di opere d'arte greche fatte
trasportare qui da Vespasiano in seguito all'obliterazione della Domus Aurea dovuta alla damnatio
memoriae di Nerone.

La zona centrale era sistemata a giardino, con aiuole, podi decorati con fontane e statue (prima "rinchiuse"
nella Domus Aurea neroniana).

Il tempio (aedes), con una sorta di pronao esastilo, un'aula absidata e l'altare nella piazza antistante, era di
fatto inglobato nel portico, tranne la specie di avancorpo del pronao. Questo elemento, assieme alla
presenza del giardino nella piazza, fu un elemento inconsueto per l'architettura cittadina, se non il primo
sicuramente uno dei primi, ispirato forse a prototipi ellenistici orientali. In definitiva quindi la piazza veniva
a configurarsi come un elemento del tempio stesso, "abbracciata" dai colonnati che da esso si dipanavano.
In questo senso va spiegata la denominazione originaria di "tempio" anziché "foro".

FORO TRANSITORIO DOMIZIANO


Il Foro di Nerva o Foro Transitorio è uno dei cinque fori imperiali di Roma, il penultimo ad essere edificato
prima del Foro di Traiano.
Il complesso venne costruito dall'imperatore Domiziano. Da una citazione di Marziale si deduce che doveva
essere già stato ideato negli anni 85-86, ma insieme al tempio di Minerva che vi sorgeva, fu inaugurato
ufficialmente nel tardo 97, dopo l'assassinio di Domiziano, dal suo successore Nerva, dal quale riprese il suo
nome ufficiale. Nelle fonti è spesso ricordato anche con il nome di "Transitorio", che si riferisce alla sua
funzione di passaggio tra la Suburra ed il Foro Romano, svolta in precedenza dalla via dell'Argileto, di cui
occupò un tratto, ma anche alla funzione di raccordo, che venne ad assumere grazie alla sua posizione
topografica, tra i fori imperiali precedenti (di Augusto e di Cesare), il complesso del foro della Pace ed il
Foro Romano.

La pianta del complesso fu condizionata dallo spazio disponibile tra i complessi preesistenti: la piazza è di
forma stretta ed allungata, con colonne aggettanti che decorano i muri perimetrali in sostituzione dei
consueti portici. Il tempio di Minerva ne dominava l'estremità occidentale e alle spalle di questo si trova la
"porticus absidata", un monumentale ingresso a pianta semicircolare creato alle spalle del tempio per
l'accesso dalla Suburra.

L'area era stata in precedenza occupata dal macellum (mercato alimentare) di epoca repubblicana,
distrutto nell'incendio del 64, e da strutture abitative. Vi sono state inoltre rinvenute, precedenti al
quartiere repubblicano, due tombe ad incinerazione datate al IX-VIII secolo a.C.

Secondo le fonti antiche, l'imperatore Alessandro Severo avrebbe collocato nel foro statue colossali degli
imperatori precedenti divinizzati, di cui non resta traccia.

In epoca post-antica il complesso venne abbandonato: ai lati di un nuovo percorso che riprese l'antico
Argileto, nel IX secolo si insediarono sull'area della piazza una serie di strutture abitative private e di
carattere aristocratico, di cui restano due edifici a due piani, quello inferiore in blocchi di tufo ricavati dal
muro perimetrale del foro. Le case vennero abbandonate nel XII secolo, quando nell'area si ebbe un
notevole rialzamento del terreno.

Il tempio, parzialmente occupato da strutture abitative, rimase in piedi fino alla sua demolizione agli inizi
del XVII secolo ad opera di papa Paolo V.

L'estremità orientale del complesso venne scavata tra il 1926 e il 1940, in occasione dello scoprimento dei
fori imperiali per l'apertura di via dell'Impero (via dei Fori Imperiali). Saggi minori in corrispondenza
dell'angolo sud-ovest, presso la Curia furono effettuati nel 1952 (Pierre Grimal, in parte ripresi da Nino
Lamboglia negli anni sessanta). Nel 1995 furono avviati nuovi scavi all'estremità occidentale, a contatto con
il Foro romano, estesi poi nel 1998-2000 a tutto il settore da questo lato di via dei Fori Imperiali.
Il fregio reca la raffigurazione del mito di Aracne e altre scene di incerta interpretazione, comunque da
ricondurre alla figura di Minerva. Al di sopra delle colonne segue lo stesso andamento spezzato della
trabeazione un attico decorato con rilievi che raffigurano probabilmente le personificazioni delle province
romane e che doveva essere coronato da statue in bronzo.
Oggi sono visibili solo due porzioni del foro, separate da via dei Fori Imperiali: quella che parte alle spalle
della basilica Emilia fino all'incirca al centro della piazza, e l'estremità occidentale, con il podio del tempio,
tagliato in corrispondenza del pronao sporgente dal recinto moderno, e le fondazioni della porticus
absidata: in questa parte si conservano inoltre, un tratto del muro perimetrale e due delle colonne
aggettanti con la loro trabeazione e il relativo attico, note con il soprannome di "Colonnacce".
Diocleziano provò a offrire un assetto unitario della Domus augustana sul palatino con una partizione
precisa tra ambienti di rappresentanza e di residenza grazie all’architetto Rabirio. La novità è data dalla
misura eccezionale degli ambienti di rappresentanza a partire dall’aula regia alta 30 metri avente pareti con
trabeazioni e colonne a risalti in marmo con capitelli corinzi e grandiosa edicole anch’esse su due ordini
contenenti sculture colossali in basanite, pietra simile al bronzo. La copertura era in legno nascosta da un
soffitto a cassettoni di stucco. La bravura di rabirio si vede anche nell’aula ottagonale, un ingresso alla parte
detta Domus Flavia con pareti scandite da doppia fila alternata di esedre rettangolari e semicircolari e
copertura con volta a cupola.

6.2 la classicità augustea


Ara pacis
Il monumento decretato dal senato nel 13 a.C. In occasione del ritorno di augusto dal viaggio nelle province
occidentali e dedicato nel 9 a.C. È formato da un recinto perimetrale che racchiude l’altare su cui
magistrati, sacerdoti e le vestali sacrificavano ogni anno. All’interno nella parte inferiore del recinto vi è la
raffigurazione del tavolato ligneo a delimitazione dello spazio dei “templa minora”. Nel registro superiore
abbiamo festoni e bucrani intervallati da coppe. All’esterno il recinto è separato da una fascia a svastica, nel
registro superiore a nord e sud vi è un corteo di personaggi storici, magistrati, sacerdoti, membri della
famiglia di augusto, che rappresenta un’unica processione, forse l’adventus a Roma di augusto del 13 a.C.
(che in realtà non fu festeggiato perche l’imperatore arrivo a Roma di notte). Abbiamo figurazioni mitiche a
est Roma vittoriosa seduta su armi e la figura denominata “Tellus” che rimanda alla fecondità dell’epoca, a
ovest il sacrificio di enea a Lavinio alla presenza dei penati e l’allattamento di Romolo e remo nel lupercale
sotto lo sguardo di Marte e del pastore Faustolo con al entro l’albero della ficus ruminalis. Per lungo tempo
è stato comune considerare classici i rilievi della fascia superiore come la grande processione nella quale si
è voluto vedere un rapporto con il partenone. In realtà se vanno cercati dei rapporti sarebbero meglio
quelli con la tomba etrusca del convegno a Tarquinia. Anche se sia tomba che ara pacis non sono immuni
alle influenze greche, esse rispondono a esigenze diverse. Nel caso dell’area pacis ci sono differenze tra il
grande fregio con processione, il piccolo fregio con pompa sacrificale dell’altare (nel quale ci sono elementi
dell’arte romana popolare) e i pannelli simbolico-religiosi di derivazione ellenistica. Ogni soggetto è
impostato diversamente secondo schemi dell’arte greca e non esclusivamente classici. Le immagini ne
risultano pacate e serene ma lo stile amalgama vari generi e crea un nuovo linguaggio. Il nuovo linguaggio si
avverte di piu nei pannelli simbolico-mitologici e nel fregio con girali d’acanto della fascia inferiore del
recinto. All’amante si intrecciano viticci di altre piante simbolo della forza generatrice della natura sotto la
guida di augusto, in una nuova età dell’oro di pace e prosperità.
Altro esempio sono i pannelli di un ninfeo nel foro di Praeneste con la rappresentazione di femmine di
animali, domestici e selvaggi con la prole, realizzati forse a 15 anni dai pannelli dell’area pacis,
rappresentano l’amore materno in un ambiente idilliaco-sacrale con riferimenti alla pace e fertilità. Anche
in questo caso sebbene con una derivazione dai modelli greci si vede la apacità degli artisti di età augustea
di utilizzare la tradizione per arrivare a soluzioni innovative.

L'Ara Pacis Augustae (Altare della pace di Augusto) è un altare fatto costruire da Augusto nel 9 a.C. alla
Pace[1] nell'accezione di divinità.
Originariamente posto in una zona del Campo Marzio consacrata alla celebrazione delle vittorie, il luogo era
emblematico perché posto a un miglio romano (1.472 m) dal pomerium, limite della città dove il console di
ritorno da una spedizione militare perdeva i poteri ad essa relativi (imperium militiae) e rientrava in
possesso dei propri poteri civili (imperium domi).

Questo monumento rappresenta una delle più significative testimonianze pervenuteci dell'arte augustea e
intende simboleggiare la pace e la prosperità raggiunte come risultato della Pax Romana.

Il Senato decise di costruire un altare dedicato a tale raggiungimento in occasione del ritorno di Augusto da
una spedizione pacificatrice di tre anni in Spagna e nella Gallia meridionale.

Il monumento era collocato con un'entrata sull'antica via Flaminia e una verso il Campo Marzio.

Essendo stata edificata a poche centinaia di metri dal fiume Tevere l'Ara Pacis fu fin da subito, già nel II
secolo d.C., soggetta a danni causati dall'acqua e dall'umidità, tanto che ben presto molte sue parti ne
risultarono rotte o separate dal corpo principale; il livello del terreno nella zona si alzò notevolmente a
causa dell'apporto di materiale da parte del vicino fiume, e l'ara dovette essere circondata da un muro di
mattoni per proteggerla dall'assalto del limo e della sabbia, poiché ormai già sporgeva dal terreno solo a
partire dai fregi figurati.

L'aspetto dell'Ara Pacis è stato ricostruito grazie alla testimonianza delle fonti, agli studi durante gli scavi e
alle raffigurazioni su alcune monete romane.

L'Ara Pacis è costituita da un recinto quasi quadrato in marmo (m 11,65 x 10,62 x h 3.68), elevato su basso
podio, nei lati minori del quale si aprivano due porte, larghe 3,60 metri; a quella anteriore si accede da una
rampa di nove gradini; all'interno, sopra una gradinata, si erge l'altare vero e proprio. La superficie del
recinto presenta una raffinata decorazione a rilievo, esterno e interno. Nelle scene la profondità dello
spazio è ottenuta mediante differenti spessori delle figure.

L'Ara Pacis è un monumento chiave nell'arte pubblica augustea, con motivi di origine diversa: l'arte greca
classica (nei fregi delle processioni), l'arte ellenistica (nel fregio e nei pannelli), l'arte più strettamente
"romana" (nel fregio dell'altare). L'aspetto era quindi eclettico e la realizzazione fu certamente opera di
botteghe greche.
L'aspetto politico-propagandistico è notevole, Inoltre è esplicito il collegamento tra Enea, mitico
progenitore della Gens Iulia, e Augusto stesso, secondo quella propaganda di continuità storica che voleva
inquadrare la presa di potere dell'imperatore come un provvidenziale ricollegamento tra la storia di Roma e
la storia del mondo allora conosciuto. Non a caso i Cesari Gaio e Lucio sono abbigliati come giovanetti
troiani, così come è illuminante l'accostamento tra il trionfo di Roma e la Saturnia Tellus, l'età dell'oro.

L'esterno dell'altare è decorato da un fregio figurato in alto e da elaborati girali d'acanto in basso; i due
ordini sono separati da una fascia a meandro; queste fasce decorate si interrompono quando incontrano i
pilastri per poi proseguire sugli altri lati.

Nella parte bassa si ha un'ornamentazione naturalistica di girali d'acanto e, tra essi, piccoli animali (per
esempio lucertole e serpenti). I girali si dipartono in maniera simmetrica da un unico cespo che si trova al
centro di ogni pannello. Possiamo notare un'eleganza e una finezza d'esecuzione che riconducono all'arte
alessandrina.
I due pannelli figurati del lato principale, dal quale si accedeva all'altare, rappresentano il Lupercale e il
Sacrificio di Enea ai Penati.

Il Lupercale
Di questa scena (posta a sinistra) restano solo pochi frammenti, ma che comunque permettono di
ricostruire la mitica fondazione di Roma: vi si riconosce il dio Marte armato, padre dei gemelli Romolo e
Remo e divinità protettrice dell'Urbe, e il pastore Faustolo; essi assistono, presso il Ficus ruminalis,
all'allattamento dei gemelli da parte della lupa, tra i resti di piante palustri che caratterizzano lo sfondo.

Il Sacrificio di Enea ai Penati


A destra si trova il Sacrificio di Enea ai Penati. Vi si riconosce Enea, in quanto figlio di Venere col figlio
Ascanio o Augusto (ritenuto discendente di Venere) presso un altare rustico. L'altare è avvolto da festoni e
vi vengono sacrificati primizie e la scrofa bianca di Laurento. Il sacrificio è destinato ai Penati (protettori) di
Lavinio, che presenziano alla scena affacciandosi da un tempietto sulla roccia, posto sullo sfondo in alto a
sinistra. Enea ha il capo velato e veste un mantello che gli lascia scoperto parte del busto atletico. In mano
reca lo sceptrum. Ascanio è dietro di lui (secondo alcuni potrebbe essere anche Acate) e ci è pervenuto solo
nel frammento della mano destra appoggiata a una lancia e di una parte delle vesti, all'orientale.

Sull'altro lato si trovano i rilievi della Personificazione di Roma, quasi completamente perduto, e della
Saturnia tellus.

La Personificazione di Roma
Questo rilievo, pervenutoci in resti molto scarsi, permette di riconoscere sulla destra solo una
personificazione di Roma in abito, amazzonico, seduta su una catasta d'armi.

La Saturnia tellus
Questo pannello è uno dei meglio conservati, pervenutoci praticamente integro. Si tratta di una complessa
allegoria di una mitica terra dell'Età dell'oro. Il rilievo rappresenta una grande figura matronale seduta con
in grembo due putti e alcune primizie. Ai lati si trovano due ninfe seminude, una seduta su un cigno in volo,
simbolo dell'aria, e l'altra su un drago marino, simbolo del mare; questi due animali predominanti
riecheggerebbero la serenità della pace, in terra e in mare. Anche il paesaggio ha elementi allegorici: a
sinistra è fluviale, con canne e un'oinochoe dal quale fluisce l'acqua, al centro è roccioso con fiori e animali
(una giovenca accasciata e una pecora che pascola), mentre a destra è marino.
Fregio della processione
Sui lati lunghi è raffigurata la processione per il voto dell'Ara, divisa in due parti: una ufficiale, coi sacerdoti,
e l'altra semiufficiale con la famiglia di Augusto.
Sebbene l'identificazione dei personaggi non sia indiscutibilmente certa, è ormai generalmente accettata. In
ogni caso la scena non va interpretata come un reale corteo, si tratta quindi di una raffigurazione politica
ideale.
La scena più importante e meglio conservata è sul fianco meridionale, con personaggi della famiglia
imperiale coi personaggi disposti secondo la linea dinastica all'epoca della costruzione dell'altare.
Per primo si trova Agrippa, morto nel 12 a.C., pure col capo coperto, posto di profilo; seguono il piccolo
Gaio Cesare (nipote e figlio adottivo di Augusto), Giulia maggiore, figlia di Augusto, o Livia, sua moglie,
prima di Tiberio, suo figlio;
Il lato nord è peggio conservato e ha quasi tutte le teste dei personaggi rifatte nel XVI secolo.
La superficie interna del monumento reca nel registro inferiore scanalature verticali simulanti una palizzata.
In quello superiore si trovano festoni sorretti da crani di buoi con ghirlande.

La cultura augustea quindi non è classicista ma ripropone una nuova forma classica rispondendo al concetto
di dignità (decor). I romani fanno largo uso di copie di opere greche per innestarlo in un differente contesto,
l’imitazione diventa emulazione, volontà di realizzare qualcosa di pari livello se non superiore. Un esempio
l’afrodite nel tipo Louvre-napoli copia di una statua di bronzo di uno scultore che fuse la ponderazione
policletea con la trasparenza del chitone degli schemi post fidiaci fu emulata da uno scultore anonimo per
realizzare la “Charis” del palatino nella quale la ponderazione è rovesciata a specchio e la figura si piega con
un movimento che rifà alle opere ellenistiche. L’autore ha quindi voluto dimostrare di saper realizzare
un’opera in marmo dello stesso livello di una classica in bronzo migliorandone l’aspetto secondo un gusto
non piu classico.
Gli artisti in età romana attinsero da tutto il repertorio figurativo greco, dall’età arcaica fino alla piena età
ellenistica e come i greci dal V a.C. Secolo in poi che rimasero affascinati dalle forme arcaiche anche i
romani in determinati casi pensarono che la forma arcaica fosse la piu idonea per rappresentare dei
dell’Olimpo. Nelle figure l’arcaico appare come un eco, riprodotto insieme ad elementi differenti, forse
nascendo dalle scuole di Pasitele e Arcesilao. Stefano ha firmato una statua di giovane efebo a lungo
considerata copia di un originale greco di stile severo ma ormai interpretata come un’emulazione dei
modelli greci. L’opera si rifà all’impianto chiastico policleteo con un’immagine all’apparenza di modello
severo ma che per l’allungamento degli arti e la morbidezza anatomica è innovativa. La statua sebbene
firmata da Stefano, allievo di Pasitele potrebbe essere una replica da un originale visto il suo utilizzo anche
con altre figure come nel gruppo Oreste ed Elettra della stessa officina. In questo gruppo il lavoro non è
finito, alcune parti del chitone non sono rifinite, la figura femminile nel viso e nella chioma ricorda modelli
severi mentre il panneggio del chitone trasparente si ispira la tardo V secolo a.C., datata forse alla seconda
metà del I secolo a.C. Anche quando si tratta di copie perfette nei dettagli come le due cariatidi centrali
della l’oggetto dell’ Eretteo di Atene usate per decorare l’attico dei porticati del foro di augusto il risultato
non coincide con l’originale anche per il contesto diverso in questo caso con l’inserimento della testa di
Giove ammone di tradizione patetica ellenistica. Le copie assumono perciò un differente significato e danno
alla piazza del foro un senso di sacralità e di pace e si è supposto rappresentassero, le fanciulle le provincie
romane entrate a far parte dell’impero in contrapposizione con la testa di Giove che minaccia chi ostacola
l’opera di pacificazione di roma. L’arte augustea quindi è il risultato di un impasto di molte componenti di
matrice greca. Negli horti di Pollione nei pressi delle future terme di caracalla vi erano sculture colossali di
artisti di rodi tra cui il supplizio di Dirce di Apollonio e Taurisco di Tralles in Asia minore forse identificabile
con il toro Farnese, un unico blocco di marmo di 3,70 metri che nelle figure associa elementi della
tradizione patetica con altri di tradizione classica e altri ancora della tradizione idilliaco sacrale. A destra
siede un giovane con rami di pino e una ghirlanda che rappresenta la personificazione del Citerone, alle
spalle del gruppo si erge Antiope madre di Anfione e Zeto che riprende un tipo statuario di tradizione
pasitelica, seconda metà del secolo I a.C. Qualche tempo dopo Tiberio, dopo essere stato designato
successore di augusto inizio i lavori di ampliamento della villa di sua madre a Sperlonga, assegnando ad
artisti di rodi la realizzazione di scene mitiche con protagonista Ulisse. Dentro una grotta affacciata sul mare
al centro vi era un bacino d’acqua col gruppo di Scilla che divora i compagni di Ulisse strappandoli dalla
nave, opera firmata da Agesandro, Atanadoro e Polidoro, ai lati il gruppo del Pasquino,il gruppo
dell’accecamento di Polifemo, il gruppo con Ulisse e Diomede e infine in alto ganimede.

6.3 Rilievi statali a Roma dalla dinastica


Claudia alla dinastia Flavia
ARCO DI TITO
L'arco di Tito è un arco trionfale fornice (ossia con una sola arcata), posto sulle pendici settentrionali del
Palatino, nella parte orientale del Foro di Roma. Capolavoro dell'arte romana, si tratta del monumento-
simbolo dell'epoca flavia, grazie alle sostanziali innovazioni sia in campo architettonico-strutturale, sia in
campo artistico-scultoreo.

L'arco è stato eretto a memoria della guerra giudaica combattuta da Tito in Galilea. Nel 69, l'anno dei
quattro imperatori, Vespasiano rientrò a Roma per reclamare il trono, lasciando Tito in Giudea a porre fine
alla rivolta, cosa che Tito fece l'anno successivo: Gerusalemme fu saccheggiata, il Tempio fu distrutto. Nel
ricco bottino era compreso il candelabro a sette braccia e le trombe d'argento. Gran parte della
popolazione fu uccisa o costretta a fuggire dalla città. Al suo ritorno a Roma nel 71 fu accolto in trionfo.
L'arco di Tito si discosta dagli archi dell'epoca augustea per la mole più compatta e robusta con un distacco
ormai netto dai modelli dell'architettura ellenistica. Qui compare il primo esempio sicuramente datato nella
città di Roma di capitello composito.
Sulle due facciate è inquadrato da semicolonne con fusti scanalati e capitelli compositi, che sorreggono una
trabeazione, con fregio.
Il fregio sulla trabeazione, con figure piuttosto tozze e ad altissimo rilievo, rappresenta una scena di
sacrificio, raffigurata secondo quello stile più tipicamente romano (scevro cioè da influenze greche), che si
ritrova anche nel piccolo fregio sull'altare dell'Ara Pacis. Si tratta di una precoce introduzione di stilemi
dell'arte plebea nell'arte romana ufficiale, con elementi irreali e disorganici, quali le figure
sproporzionatamente grandi degli animali condotti al sacrificio rispetto agli addetti che li conducono: si può
quindi intravedere in questa rappresentazione un interesse predominante verso la componente simbolica
della rappresentazione, piuttosto che verso la verosimiglianza generale dell'episodio.
Il fronte superiore dell'arco è decorato da due Vittorie alate affrontate che porgono i vessilli verso il centro.
All'apice dell'arco sporge in rilievo a tutto tondo una figura femminile centrale, da identificare con la dea
Roma in costume amazzonico.
La volta interna del passaggio conserva una ricca decorazione a cassettoni: al centro è raffigurato in una
formella Tito portato in cielo da un'aquila, allusione alla sua apoteosi (divinizzazione dopo la morte). Un
piccolo fregio sull'architrave poi raffigura la pompa triumphalis, processione del Trionfo.
I rilievi più interessanti sono i due pannelli che decorano i lati dell’arco, che commemorano due fasi del
trionfo di Tito dopo la cattura di Gerusalemme del 70, durante la prima guerra giudaica.
Il pannello destro (lato nord) mostra l'imperatore Tito sulla quadriga trionfale, incoronato dalla Vittoria. La
quadriga è condotta dalla personificazione della Virtus a piedi, mentre le altre due figure allegoriche a
fianco del carro sono forse Roma e il Genio del popolo romano, o il Senato il popolo romano. Sullo sfondo si
affollano le teste e i fasci dei littori.
Sul lato sinistro (sud) è raffigurato l'ingresso del corteo nella Porta Triumphalis, che è raffigurata all'estrema
destra in prospettiva scorciata. Nella scena si vedono gli inservienti che avanzano coi fercula (portantine per
oggetti), recando gli arredi saccheggiati al tempio di Gerusalemme (uno dei candelabri a sette braccia, la
tavola per il pane di proposizione con i vasi sacri, le trombe d'argento) e le tabelle ansate con iscrizioni
esplicative degli oggetti presi e delle città vinte.
In questi due rilievi, nonostante alcuni convenzionalismi, come la ritmica raffigurazione di profilo dei cavalli,
si osservano alcune fondamentali innovazioni stilistiche: intanto un maggiore affollamento delle scene, ma
soprattutto la straordinaria spazialità data dalla variazione del rilievo secondo una precisa disposizione delle
figure nell'atmosfera e il superamento dell'andamento rettilineo del corteo.
Andando oltre i traguardi dell'ellenismo, nei due rilievi si nota una differenziazione del rilievo
coerentemente con la collocazione delle figure nello spazio, come se si muovessero in un ambiente libero,
invece dei soliti due o tre piani di rappresentazione. Nel fregio della quadriga si va per esempio dalle teste
dei cavalli a tutto tondo ai littori e le lance appena sagomate sullo sfondo. Ma soprattutto nella scena della
Porta Trionfale il movimentato disporsi delle figure e degli oggetti sopra le teste riesce a dare l'impressione
della circolazione dell'atmosfera attorno ad essi, come se assistessimo in diretta all'oscillante movimento
della processione.
In secondo luogo le figure non si muovono su una linea retta, ma la lettura procede su una grandiosa curva
prospettica convessa, ben visibile nel rilievo della processione, dove a sinistra le figure sono viste di tre
quarti e di faccia, e all'estrema destra di dorso. Lo spettatore ha così la sensazione di essere circondato e
quasi sfiorato dal corteo, secondo una tendenza che verrà ulteriormente sviluppata nel "barocco"
antoniniano dal III secolo in poi.

6.4 Ritrattistica da Ottaviano a Domiziano


I primi ritratti di Ottaviano , i tipi beziers/Spoleto realizzati negli anni immediatamente successivi al suo
arrivo a roma mostrano un viso magro e ossuto, occhi piccoli e infossati, collo piegato di lato e verso l’alto e
capigliatura agitata con ciocche a fiammelle disposte in ordine disordinato, uno schema di derivazione da
Alessandro magno. Anche il terzo tipo ritrattistico, il piu diffuso tra i ritratti giovanili e noto come Alcudia
presenta caratteristiche analoghe ma coi tratti facciali un po’ piu distesi. Dopo la battaglia di Anzio la
rappresentazione cambia passando alle variazioni iconografiche non per il passaggio del tempo ma per
eventi particolarmente importanti come celebrazioni di trionfo o anniversari di principato. Al 30 ac è stato
attribuito il tipo LOUVRE MA 1280 nel quale manca la forte tensione del collo dei ritratti precedenti. La
datazione deriva dalla particolare acconciatura di moda nel decennio 30-20 ac e la corona d’alloro
gemmata. Vi sono gli elementi distintivi del volto di un uomo maturo ma con una pacata pensosità, un
equilibro accentuato dalla chioma non piu ribelle ma con una frangia ordinata a ciocche regolari.
L’ultimo ritratto quando Ottaviano diventa augusto mostra di nuovo un viso giovanile coi tratti attutiti e
ammorbiditi, la capigliatura è piu vivace del tipo LOUVRE ma meno agitata dei tipi precedenti con schema a
tenaglia o forbice sulla fronte. Spesso su questo ritratto si vede un richiamo al Doriforo di policleto,
contribuisce all’idea la statua di augusto di villa di Livia a prima porta che mostra augusto loricato sollevare
il braccio in procinto di parlare ai soldati. La corazza è finemente decorata con la raffigurazione della
riconsegna ai romani dei vessilli perduti da crasso nel 53 ac contro i parti. I ritratti del tipo augusto di prima
porta presentano però variazioni nelle varie raffigurazioni e non essendo uniformi tra loro la possibile
derivazione dal Doriforo rimane un mistero. Da augusto in poi iniziò la tendenza a creare ritratti dipendenti
da quelli dell’imperatore tanto che a volte vennero attribuiti ad Ottaviano dei ritratti dei suoi nipoti. Nella
ritrattistica privata del 1 secolo d.c. Invece persiste una tradizione realistica tardorepubblicana ma con
forme piu ammorbidite.
Augusto di prima porta loricato
Augusto di via labicana

L'Augusto di via Labicana è una statua marmorea che ritrae Augusto a figura intera, a tutto tondo, nelle
vesti di pontefice massimo. Alta 207 cm, deve il suo nome alla zona dove venne scavata alle pendici del
colle Oppio, in via Labicana.

La statua è conservata al Museo Nazionale Romano di palazzo Massimo a Roma.


La statua è in realtà una copia di età tiberiana di un ritratto dell'imperatore eseguito alla fine del I secolo
a.C. o all'inizio del I secolo d.C.: i tratti somatici piuttosto emaciati infatti suggerirebbero la realizzazione
negli ultimi anni di vita, con i segni già visibili della malattia e della stanchezza. Si tratta del più importante
ritratto augusteo di questo periodo «finale», tra i pochi trovati a Roma[1].

Il capite velato è dovuto alla funzione di pontifex maximus dell'imperatore: il braccio destro, spezzato,
aveva probabilmente in mano una patera, piatto rituale per lo spargimento di vino durante un sacrificio. La
testa venne scolpita a parte, da uno specialista.

Stile
Come in altre opere dell'arte augustea la realizzazione è piuttosto fredda e «accademica»: l'effetto di
stanchezza e lontananza psicologica di Augusto è per lo più dovuto all'opera di sublimazione verso la
compassata arte greca classica, che ha come effetto un'immagine studiata di distacco e spiritualità del
princeps. La freddezza del volto ben si svela nel trattamento «metallico» dei capelli. Tuttavia il volto è
composto con sapienza, con superfici lisce ampie, ma sufficientemente mosse per evitare uno sgradevole
appiattimento.

Gli ampi sinus della toga sono molto curati, ma penalizzano la resa volumetrica del corpo, che appare in più
punti svuotato a favore del mero effetto di superficie.
Dopo augusto gli altri imperatori claudi (Tiberio,Caligola,Claudio e nerone) vollero staccarsi dalla
precedente rappresentazione. La chioma sempre a tenaglia o forbice sulla fronte si presenta piu regolare e
piatta e i tratti facciali sono piu personalizzati secondo il ritratto privato dell’epoca e mantenendo dei ritratti
piu idealizzati solo post mortem. Nerone parte da un taglio di capelli a calotta con frangia derivato dalla
famiglia Giulio-claudia e passa a ritratti con elementi specifici del volto accentuati come la sua rotondità,
collo pronunciato e grassoccio, volontà dell’imperatore di staccarsi dal passato e libero dalla madre di voler
costruire un’immagine personalizzata con una nuova chioma con frangia a falcetto detta “chioma piegata a
forma di gradini” avviando una moda durata fino ad adriano.

Vespasiano si distinse dal ritratto di nerone accentuando il realismo dei tratti quasi a rasentare la rozzezza
in molti suoi ritratti anche se vi sono suoi ritratti piu addolciti e giovanili, anche Tito e Domiziano seguono lo
schema del padre ma in modo meno marcato.

Vespasiano. Tito. Domiziano


6.5 La decorazione parietale
La storia della pittura di età imperiale e successiva equivale alla storia della decorazione di Domus e ville
romane. Dopo il I STILE diffuso nel mediterraneo nel II ac, si passò all’avvio del II STILE che sviluppa la
costruzione sulle pareti di architetture scenografiche simili a scene teatrali che partendo da modelli greco-
ellenistici si evolvono verso le esigenze romane di ambito privato. Nel II STILE gli dei non sono presenti al
vero ma tramite loro simboli in modo che la scenografia parietale assuma connotazioni religiose. I romani
volevano nelle loro dimore un’atmosfera quasi sacrale proponendo illusori ingressi a giardini celesti in
un’epoca in cui dirigersi nelle lussuose residenze significava avere uno stacco dalla realtà drammatica e il
rifugio in un mondo di sogno. Verso la fine del II stile intorno al 36 ac come si vede dalla casa di Ottaviano
sul palatino lo stile perde sempre piu il rapporto con le reali strutture architettoniche a favore di capricci di
fantasia verso forme prive di concretezza strutturale(edicole composte da fragili colonnine trasformate in
elementi vegetali). Al posto di rifarsi alla realtà si utilizzano elementi di fantasia, come nella villa della
Farnesina circa 30 a.c. Qui le architetture parietali perdono struttura per diventare pura decorazione
bidimensionale intervallata da pannelli con rappresentazioni mitologiche e paesaggistiche. I paesaggi
comprendono boschi sacri, montagne, fiumi,sorgenti, popolati da greggi e pastori. Sono paesaggi dilisco-
sacrali che fanno riferimento alla topothesia cioè alla rappresentazione di fantasia (al contrario della
topographia). La gamma cromatica non è estesa, abbiamo toni di bruno, verde, azzurro chiaro e giallo fusi
col bianco crema appena rosato nel fondo che crea una sorta di velo nel quale le figure umane e animali e il
paesaggio si fondono come in mezzo a una sottile nebbia. Un altro tratto tipicamente romano è la
distribuzione degli elementi in lunghezza e altezza piuttosto che in profondità. Non c’è una disposizione
spaziale proporzionale e il velo nebbioso assimila le figure confondendo l’occhio che non percepisce il loro
rapporto nello spazio. L’effetto è accentuato in una stanza con pannelli con fondo nero dove tutti gli
elementi spiccano come fiammelle.
Il III STILE si data circa al 20 a.c. E conduce agli estremi la distruzione dell’effetto illusorio di strutture
monumentali dipinte sulle pareti. Come si vede dalla villa di Agrippa a Boscotrecase, le pareti assomigliano
a quinte teatrali tripartite con due elementi laterali simili a esili padiglioni a torre con cornice superiore che
delimitano uno spazio centrale dominato da un’edicola. Ogni elemento è schiacciato alla parete in modo
che gli effetti illusionistici siano del tutto annullati tranne per l’edicola dove rimane un minimo di profondità
spaziale.

Nella sala rossa della villa le edicole centrali sono composte da fragili colonnine ricoperte da motivi floreali
con capitello ionico e inquadrano vedute idilliaco-sacrali su fondo bianco crema delimitate da una spessa
fascia nera. In questo periodo nasce anche un sistema decorativo costituito dalla rappresentazione di
giardini dietro basse staccionate. Un esempio lo offre la sala sotterranea di villa Livia a prima porta dove
una fila di alberi carichi di frutti si pone davanti a una barriera di piante di un verde piu chiaro e a un cielo
azzurro. L’effetto è quello di dilatare lo spazio verso il fondo ma la barriera di piante impedisce di scrutare
l’orizzonte e quindi nega la profondità spaziale. Nell’arte augustea nulla esprime meglio del III stile la
concezione di nuova classicità dell’epoca.
Il IV STILE rispetto ai precedenti manca di omogeneità negli schemi figurativi e risulta difficile descriverne le
componenti essenziali. Le architetture di solito come nel III STILE hanno carattere bidimensionale con fragili
edicole, con gli spazi intermedi ricoperti da pannelli dipinti ed elementi decorativi come nastri, festoni
vegetali con figurine mitologiche. L’effetto di quinta teatrale è pero senza solidità e le strutture sembrano
friabili. È una pittura che da il meglio di se nel dettaglio ornamentale come i festoni vegetali della casa dei
Vettii a Pompei.

Motivi simili si trovano pure nel padiglione della Domus aurea sul colle Oppio.

In altri esempi le pareti sembrano ricoperte di arazzi monocromi gonfiati dal vento ornati ai bordi con nastri
di merletti e con una piccola scena figurata al centro. Uno stile che riprende varie caratteristiche dagli stili
precedenti e che gia risalente all’epoca di Claudio ha il suo massimo nella Domus aurea e nelle case
pompeiane precedenti al 79 d.c. Dove nei piccoli giardini si dipinsero pareti con vedute idilliaco-sacrali, un
ulteriore tentativo di sfondare la parete ma privo di portata illusionistica. Significativi sono gli affreschi
rinvenuti nel settore del colle oppio sotto le terme di traiano e contiguo al padiglione d’oro. In uno di questi
vediamo una città spopolata nella quale si scorgono le mura, il porto, un’acropoli sul mare, un tempio di
Apollo, il teatro. È un raro esempio di pittura che rappresenta la realtà con la tecnica topographica. Pochi
documenti dell’arte antica mostrano infatti una città romana dandone un’immagine cosi precisa e con
dettagli come l’inserimento di edifici nuovi in un contesto piu vecchio o il sovraffollamento urbano.
7.1 Traiano e il << Maestro della colonna
Traiana>>
Introduzione
Uno dei periodi piu prosperi e felici della storia romana andò dalla morte di Domiziano all’ascesa al trono di
Commodo. Grazie ai buoni imperatori, Traiano, Antonino Pio e Marco Aurelio. Dai sussidi alimentari iniziati
con Nerva e continuati da Traiano, il padre di tutti, ad Adriano e Marco Aurelio che si interessarono di
filosofia e cultura.un secolo di fioritura architettonica e figurativa, ovunque sorgevano
ginnasi,fontane,templi,scuole. Tra le opere piu emblematiche Il tempio di Venere a roma, il piu grande mai
realizzato fu dedicato in summa sacra via forse nel 135 d.C. (Forse iniziato nel 121 d.C.) a unire la
progenitrice della gens Giulio-Claudia alla personificazione della città. Il tempio con una lunghezza di 105
metri e una larghezza di 44 metri fu innalzato su una piattaforma porticata sui lati lunghi mentre le due
celle erano poste all’interno in tre navate da due file di 8 colonne, dal secolo IV all’ VIII l’edificio è ricordato
nei documenti come tempio di roma o templum Urbis. Altrettanto significativa la decorazione
dell’Hadrianeum, dedicato nel 145 d.C. Da Antonino Pio in campo marzio per i divi adriano e sabina e
identificato come il periptero ottastilo con due file di colonne allineate sui muri della cella del pronao a
piazza di Pietra. Le figure femminili sono a forte rilievo, rappresentano le nationes dell’impero,
appartenevano forse all’attivo del portico, plinto raffigurato con chitone amazzonico, ascia bipenne e
berretto frigio, 19 rilievi del genere in marmo dell’area intorno a piazza di pietra sono conservati in vari
musei.

Traiano (98-117 d.C.) fu soprannominato erba parietale per aver apposto il suo nome su ogni edificio, ex
novo o restaurato. Ampliò il circo massimo, potenziò la rete stradale e i porti. Traiano fu anche un
imperatore soldato e avviò la campagna contro i Daci, due guerre, che finanziarono la politica interna con
l’enorme bottino in oro riportato e grazie al quale costruì il suo foro e la colonna al suo interno.
FORO DI TRAIANO
Il Foro di Traiano, ricordato anche come Forum Ulpium in alcune fonti[1], è il più esteso e monumentale dei
Fori Imperiali di Roma, l'ultimo in ordine cronologico.

Costruito dall'imperatore Traiano con il bottino di guerra ricavato dalla conquista della Dacia[2] e
inaugurato, secondo i Fasti ostiensi[3], nel 112, il foro si disponeva parallelamente al Foro di Cesare e
perpendicolarmente a quello di Augusto. Il progetto della struttura è attribuito all'architetto Apollodoro di
Damasco[4].

Il complesso, che misurava 300 m di lunghezza e 185 di larghezza[5], comprendeva la piazza forense, la
Basilica Ulpia, un cortile porticato con la Colonna Traiana[6] e due biblioteche.
Contemporaneamente al foro, anche per contenere il taglio delle pendici del Quirinale, vennero innalzati i
Mercati di Traiano, un complesso di edifici con funzioni prevalentemente amministrative e di archivio,
collegato alle attività che si svolgevano nel foro; fu inoltre rimaneggiato il Foro di Cesare, dove si eresse la
Basilica Argentaria, e si ricostruì il tempio di Venere Genitrice[19].

Il progetto del nuovo complesso è attribuito nelle fonti antiche ad Apollodoro di Damasco[4], che aveva
accompagnato Traiano nelle campagne daciche mettendo a servizio dell'imperatore le sue competenze di
architetto nelle attività di supporto tecnico alle operazioni militari (come il ponte di Traiano sul Danubio). I
Fasti ostiensi ci informano che il foro venne inaugurato nel 112 e la Colonna di Traiano nel 113.[3]
la decorazione del complesso è una celebrazione dell'esercito vittorioso e soprattutto delle virtù del suo
comandante, lo stesso imperatore, protagonista delle scene di guerra rappresentate nei rilievi scultorei e
raffigurato nelle statue, quella posta in cima alla Colonna Traiana (sostituita nel 1588 da quella di san
Pietro) e quella equestre più grande del vero collocata al centro della piazza. Anche alcuni indizi
epigrafici[23] suggeriscono una glorificazione di Traiano legata al suo ruolo di vittorioso generale. Vi sono
tuttavia anche elementi che sottolineano più la pacificazione ottenuta con la vittoria (pax romana) che la
pura e semplice gloria militare (virtus).

Alla glorificazione e futura apoteosi dell'imperatore, determinata dalle sue virtù, alludono anche i diversi
fregi figurati degli edifici del complesso, con grifoni, sfingi, vittorie e amorini[24]. La sepoltura di Traiano nel
basamento della colonna onoraria rappresenta il culmine di questo intento celebrativo.

Il complesso comprendeva, nell'ordine:

un ingresso formato da un'aula quadrata con quadriportico centrale[51];


la piazza forense vera e propria (m 116 x 95), con il lato d'ingresso convesso, ornata dalla grande statua
equestre dell'imperatore, spostata verso il lato di ingresso;
due esedre semicircolari ai lati della piazza;
la Basilica Ulpia, un cortile porticato con la famosa Colonna Traiana e le due biblioteche, greca e latina.
IL foro vero e proprio era costituito da una vasta piazza rettangolare con portici sui due lati, chiusa sul
fondo dalla Basilica Ulpia e ornata dalla colossale statua equestre di Traiano. La piazza era pavimentata con
circa tremila lastre rettangolari di marmo bianco[22].
Sul lato del foro di augusto Il colonnato recava una trabeazione sporgente sulle colonne con il noto fregio
con amorini sorgenti da cespi d'acanto che versano da bere a grifoni[57].

È possibile che questa monumentale facciata scenografica, facente sfondo alla statua equestre
dell'imperatore, fosse sormontata da un attico con prigionieri daci, molto simile a quello della basilica sul
lato opposto della piazza: a questo attico potrebbero appartenere le due statue acefale e la testa di dace in
marmo bianco ritrovate negli scavi.

I portici laterali, rialzati da due gradini rispetto alla quota della piazza, avevano una considerevole
ampiezza[61]. Vi si aprivano due ampie esedre semicircolari coperte[62], che riprendono la pianta del Foro
di Augusto.
il motivo riprendeva abbastanza da vicino il modello del fregio dei portici del Foro di Augusto e la galleria di
ritratti probabilmente proseguiva idealmente la serie degli uomini illustri della storia romana rappresentati
nelle statue dei portici di quel complesso[51][68].

Negli intercolumni dei portici, e forse qua e là nella piazza, Traiano ed i suoi successori sistemarono
numerose statue di uomini di stato e generali che si erano particolarmente distinti nella vita pubblica o
militare.

La Basilica Ulpia, il cui nome deriva dal gentilizio dell'imperatore, chiudeva il lato nord-occidentale della
piazza con il suo lato lungo, rialzato per mezzo di tre gradini. Si trattava della più grande basilica mai
costruita a Roma. Misurava 170 metri lungo l'asse maggiore e quasi 60 lungo quello minore[24]. La facciata
era articolata da tre avancorpi sporgenti, come mostra bene la monetazione di quegli anni[80], ed era
sormontata anch'essa da un attico con sculture di prigionieri daci in marmo bianco lunense (alte circa 2,5
metri, con retro poco lavorato per essere ancorate alla parete), che in questo caso si alternavano a pannelli
decorati in rilievo con cataste di armi[24][81].

Il coronamento sporgente sopra i Daci recava iscrizioni in onore delle legioni dell'esercito che avevano
preso parte, anche solo con vexillationes, alla conquista della Dacia[24].

All'interno la basilica era divisa in cinque navate, fra le quali la più ampia risultava quella centrale,
circondata sui quattro lati dalle navate laterali, separate per mezzo di colonne con fusti in granito[24]. Della
ricca decorazione del fregio restano solo dei frammenti, su cui sono rappresentate Vittorie che sacrificano
tori o che adornano candelabri con ghirlande[24]. La navata centrale presentava un secondo piano, con un
colonnato, e forse anche un terzo simile, con fusti lisci in marmo cipollino. Sui lati corti, dietro lo schermo di
una terza fila di colonne, si aprivano due absidi[62].

Alle spalle della Basilica Ulpia si trovavano due ambienti disposti simmetricamente ai lati del cortile in cui
sorge la Colonna Traiana; si tratta di due ampie sale con pareti ornate da due ordini di colonne, nelle quali
si aprivano nicchie accessibili mediante alcuni gradini, La presenza delle nicchie sulle pareti ha fatto
interpretare gli ambienti come biblioteche[86]; si tratterebbe della Biblioteca Ulpia, citata dalle fonti.
Nello stretto cortile tra le due biblioteche, chiuso dal muro di fondo della basilica e fiancheggiato dai portici
con fusti in marmo pavonazzetto che precedevano la facciata dei due ambienti, si trovava la Colonna
Traiana, l'unico elemento giunto pressoché intatto del complesso del foro.

COLONNA TRAIANA
La Colonna Traiana è un monumento innalzato a Roma per celebrare la conquista della Dacia (attuale
Romania) da parte dell'imperatore Traiano; rievoca infatti tutti i momenti salienti di quella espansione
territoriale. La cella alla base aveva la funzione di sepolcro per le ceneri dell'imperatore. Si tratta della
prima colonna coclide mai innalzata. Era collocata nel Foro di Traiano, in un ristretto cortile alle spalle della
Basilica Ulpia fra due (presunte) biblioteche, dove un doppio loggiato ai lati ne facilitava la lettura.

È possibile che una visione più ravvicinata si potesse avere salendo sulle terrazze di copertura della navata
laterale della Basilica Ulpia o su quelle che probabilmente coprivano anche i portici antistanti le due
biblioteche. Una lettura "abbreviata" era anche possibile senza la necessità di girare intorno al fusto della
colonna per seguire l'intero racconto, seguendo le scene secondo un ordine verticale, dato che la loro
sovrapposizione nelle diverse spire sembra seguire una logica coerente.
La colonna coclide fu inaugurata nel 113, con un lungo fregio spiraliforme che si avvolge, dal basso verso
l'alto, su tutto il fusto della colonna e descrive le guerre di Dacia (101-106), forse basandosi sui perduti
Commentarii di Traiano e forse anche sull'esperienza diretta d ell'artista.

La colonna è del tipo "centenario", cioè alta 100 piedi romani (pari a 29,78 metri, 39,86 metri circa se si
include l'alto piedistallo alla base e la statua alla sommità). L'ordine della colonna è quello dorico riadattato.
La colonna è costituita da colossali blocchi in Marmo di Carrara ed ha un diametro di 3,83 metri. Essi vanno
a comporre i 23 giri, la base, il capitello e l'abaco. In origine sulla sommità era collocata una statua bronzea
di Traiano.

Basamento e interni
L'alto basamento è ornato su tre lati da cataste d'armi a bassissimo rilievo. Sul fronte verso la basilica Ulpia
è presente un'epigrafe che commemora l'offerta della colonna da parte del senato e del popolo romano.
Agli angoli del piedistallo sono disposte quattro aquile, che sorreggono una ghirlanda di alloro. Al di sotto
dell'epigrafe si trova la porta che conduce alla cella interna al basamento, dove vennero collocate le ceneri
di Traiano e della consorte Plotina e dove comincia una scala a chiocciola di 185 scalini per raggiungere la
sommità. La scala venne illuminata da 43 feritoie a intervalli regolari, aperte sul fregio ma non concepite
all'epoca della costruzione.
I 200 metri del fregio istoriato continuo si arrotolano intorno al fusto per 23 volte, come se fosse un rotolo
di papiro o di stoffa, e recano circa 100-150 scene (a seconda di come si intervallano) animate da circa 2500
figure. L'altezza del fregio cresce con l'altezza, da 0,89 a 1,25 metri, in maniera da correggere la
deformazione prospettica verso l'alto.[9]

La narrazione è organizzata rigorosamente, con intenti cronistici. Seguendo la tradizione della pittura
trionfale vengono rappresentate non solo le scene "salienti" delle battaglie, ma esse sono intervallate dalle
scene di marcia e trasferimenti di truppe e da quelle di costruzione degli accampamenti e delle
infrastrutture. In questa scansione degli eventi compaiono poi gli avvenimenti significativi dal punto di vista
politico; a queste vanno aggiunte alcune scene più specificatamente propagandistiche, come le torture dei
prigionieri romani da parte dei Daci, il discorso di Decebalo , il suicidio dei capi daci col veleno, la
presentazione della testa di Decebalo a Traiano, l'asportazione del tesoro reale .

Le scene sono ambientate in contesti ben caratterizzati, con rocce, alberi e costruzioni: per questo
sembrano riferirsi ad episodi specifici ben presenti nella mente dell'artefice, piuttosto che a generiche
rappresentazioni idealizzate.

Non mancano notazioni più puramente temporali, come la mietitura del grano per alludere all'estate
quando si svolsero gli avvenimenti della seconda campagna dell'ultima guerra: importante ruolo hanno tutti
quei dettagli capaci di chiarire allo spettatore il momento e il luogo di ciascun avvenimento rappresentato,
secondo uno schema il più chiaro e didascalico possibile.

Completava il rilievo un'abbondantissima policromia, spesso più espressiva che naturalistica,


probabilmente con nomi di luoghi e personaggi, oltre a varie armi in miniatura in bronzo messe qua e là in
mano ai personaggi (spade e lance non sono infatti quasi mai scolpite), e ora del tutto perdute.

La figura di Traiano è raffigurata 59/60 volte e la sua presenza è spesso sottolineata dal convergere della
scena e dello sguardo degli altri personaggi su di lui; è alla testa delle colonne in marcia, rappresentato di
profilo e con il mantello gonfiato dal vento; sorveglia la costruzione degli accampamenti; sacrifica agli dei;
parla ai soldati; li guida negli scontri; riceve la sottomissione dei barbari; assiste alle esecuzioni.
Un ritmo incalzante, d'azione, collega fra loro le diverse immagini il cui vero protagonista è il valore, la
virtus dell'esercito romano. Note drammatiche, patetiche, festose, solenni, dinamiche e cerimoniali
s'alternano in una gamma variata di toni e raggiungono accenti di particolare intensità nella scena della
tortura inflitta dalle donne dei Daci ai prigionieri romani dai nudi corpi vigorosi, nella presentazione a
Traiano delle teste mozze dei Daci, nella fuga dei Sarmati dalle pesanti armature squamate, nel ricevimento
degli ambasciatori barbari dai lunghi e fastosi costumi esotici, fino al grandioso respiro della scena di
sottomissione dei Daci alla fine della prima campagna, tutta impostata sul contrasto fra le linee verticali e la
calma solenne del gruppo di Traiano seduto, circondato dagli ufficiali con le insegne, e le linee oblique e la
massa confusa dei Daci inginocchiati con gli scudi a terra e le braccia protese ad invocare la clemenza
imperiale.

La Colonna Traiana è la prima espressione dell'arte romana nata in maniera completamente autonoma in
ogni sua parte (sebbene si ponga in continuazione con le esperienze del passato). Con i rilievi della colonna
l'arte romana sviluppò ulteriormente le innovazioni dell'epoca flavia, arrivando a staccarsi definitivamente
dal solco ellenistico, fino a una produzione autonoma, e raggiungendo vertici assoluti, non solo della civiltà
romana, ma dell'arte antica in generale. In un certo senso vi confluirono organicamente la tradizione
artistica dell'arte ellenistica (e quindi classica) e la solennità tutta romana dell'esaltazione dell'Impero.
La grande qualità del rilievo ha fatto attribuire le sculture ad un ignoto "Maestro delle Imprese di Traiano",
al quale forse si deve anche il cosiddetto "Grande fregio di Traiano" le cui lastre sono reimpiegate sull'Arco
di Costantino. La ricchezza di dettagli e accenti narrativi fu probabilmente dovuta a un'esperienza diretta
negli avvenimenti.

Le figure di caduti abbandonati, privi dell'organica connessione anatomica delle varie parti del corpo, quali
oggetti ormai inanimati, sono prese dal "barocco" pergameneo e dimostra come l'artista del fregio della
colonna avesse appieno assimilato l'arte ellenistica sviluppandola ulteriormente.

Già nella tarda epoca flavia, superato il neoatticismo augusteo, si era andata formando un'arte romana
abbastanza autonoma, derivata dal convergere di rinnovate influenze con l'ellenismo delle città dell'Asia
Minore e della tradizione locale (arte plebea già presente nell'Ara Pacis o nella base dei Vicomagistri).
Mancava però ancora una personalità artistica che da questo amalgama sapesse comporre forme dotate di
valori culturali e formali, di inventiva e di espressione, superando la routine "artigiana" media, per quanto
abilissima. Fu solo con l'anonimo artista che diresse i lavori della Colonna Traiana che si raggiunsero questi
traguardi.

Artifici e convenzioni rappresentative che permettono lo scandire del continuum delle scene sono talvolta
le prospettive ribaltate o a volo d'uccello, l'uso di utilizzare una scala diversa per i paesaggi e costruzioni,
rispetto a quella delle figure, ecc. Un bordo irregolare e mosso e un bassissimo rilievo alludono alle stoffe, e
inoltre le figure sono evidenziate da un profondo solco a trapano corrente sui bordi, secondo un artificio
ellenistico già riscontrato nell'arte romana del I secolo in Gallia Narbonense.
Ma la valenza dei rilievi della Colonna non si limita al mero aspetto tecnico e formale, ma investe
profondamente anche il contenuto, segnando uno dei capolavori della scultura di tutti i tempi.

Le figure nei rilievi storici romani, dalla pittura repubblicana nella necropoli dell'Esquilino ai rilievi dell'Ara
Pacis, sono formalmente corrette e dignitose, ma prive di quella vitalità che le rende inevitabilmente
compassate. Nemmeno il vivissimo plasticismo dei rilievi nell'arco di Tito si era tradotto in un superamento
della freddezza interiore delle raffigurazioni.

La Colonna Traiana è invece percorsa da una tensione del racconto continua e densa di valori narrativi, che
rendono le scene di sacrificio "calde", le battaglie veementi, gli assalti impetuosi, i Daci fieri e disperati, la
dignità di guerriero di Decebalo. I nemici appaiono eroicamente soccombenti alla superiorità militare di
Roma (un elemento anche legato alla propaganda del vincitore). Scene dure, come i suicidi di massa o la
deportazione di intere famiglie, sono rappresentati con drammatica e pietosa partecipazione. Il senso di
rispetto umano per il nemico battuto è un retaggio della cultura greca, che si troverà fino ai ricordi di Marco
Aurelio a proposito dei Sarmati.

7.2 Arriva il <<Graeculus>>: Adriano


Con apollodoro ebbe contrasti il successore adriano (117-138 d.C.) gia prima di diventare imperatore, cosi
appena eletto imperatore lo esiliò. I contrasti si acuirono poi per la realizzazione del tempio di venere a
roma nell’area del vestibolo della Domus aurea. Adriano inviò all’architetto una pianta del tempio fatta da
lui mostrandogli come anche senza il suo aiuto potesse essere realizzato ma chiedendone comunque un
parere. Apollodoro suggerì delle modifiche e adriano arrabbiato lo mandò a morte. Aldilà della veridicità
della faccenda, adriano fece costruire molte opere grazie alle sue capacità grafiche e progettuali, senza mai
far iscrivere il suo nome a eccezione del tempio dedicato al padre traiano. Restaurò il pantheon, ripristinò la
basilica di Nettuno, il foro di augusto, le terme di Agrippa, tutte opere consacrate coi nomi degli antichi
fondatori astenendosi dall’’apporre sui iscrizioni.
TEMPIO DI VENERE
Il tempio di Venere e di Roma (templum Veneris et Romae; nella tarda antichità noto come templum urbis)
era il più grande tempio conosciuto dell'antica Roma. Situato nella parte orientale del Foro romano,
occupava tutto lo spazio tra la basilica di Massenzio e il Colosseo. Era dedicato alle dee Venus Felix (Venere
portatrice di buona sorte) e Roma Aeterna.
Precedentemente si trovava in questo sito l'atrio della Domus Aurea di Nerone, dov 'era collocato il colosso
dell'imperatore, un'enorme statua bronzea alta 35 metri più la base. Quando Adriano decise la costruzione
del tempio, procedette a ridedicare la statua al dio Sole e la fece spostare, con l'aiuto di ventiquattro
elefanti. I saggi archeologici al di sotto del tempio hanno trovato i resti di una ricca casa di età repubblicana.

L'architetto del tempio fu lo stesso imperatore Adriano. La costruzione, iniziata nel 121, fu inaugurata
ufficialmente da Adriano nel 135 e finita nel 141 sotto Antonino Pio. L'opera venne aspramente criticata
dall'architetto imperiale Apollodoro di Damasco, che pagò con la vita la sua audacia.

Danneggiato dal fuoco nel 307, fu restaurato dall'imperatore Massenzio


Posto su un podio che misurava 145 metri in lunghezza e 100 metri in larghezza, il peristilio misurava 110 x
53 metri ed era formato da 10 x 21 colonne. Due doppi colonnati sui lati lunghi cingevano poi l'area sacra,
con dei propilei al centro. Alcune delle colonne in granito della prima fase adrianea tuttora esistenti
facevano parte di questi portici.
La peristasi del tempio è scomparsa e ne resta solo traccia in pianta, dove sono state collocate siepi e
comprendeva originariamente dieci colonne sui lati brevi (tempio decastilo) e ventuno sui lati lunghi
seguendo lo schema dei templi dipteri e quattro davanti ai pronai.

Lo stilobate con gradini seguiva uno stile tipicamente greco, come in auge al tempo di Adriano. Il tempio
consisteva in due celle adiacenti. Originariamente non avevano abside ed avevano una copertura piana a
travi lignee: le attuali absidi e le volte furono aggiunte dal restauro di Massenzio. Ognuna delle celle
ospitava la statua di una dea: Venere, la dea dell'amore e fondatrice della gens Iulia, in quanto madre
mitologica di Enea, e Roma, la dea che personificava lo Stato romano, ambedue sedute su un trono.

La cella occidentale, dove si trovava la statua di Roma, venne inglobata nell'ex convento di Santa Francesca
Romana, che oggi ospita l'Antiquarium Forense. Grandi colonne in porfido ne scandiscono le pareti e
fiancheggiano l'abside. È visibile un tratto di pavimento originale e una parte del basamento in laterizio
della statua. Altre colonnine in porfido poste su mensole inquadrano le nicchie dove erano collocate altre
statue, secondo uno schema decorativo tipico dell'epoca imperiale che si trova anche nella basilica di
Massenzio.
La cella orientale, visibile dall'esterno, è peggio conservata, ma resta una parte degli stucchi del catino
absidale. Tra il 1815 e il 2000 furono eseguiti vari restauri: nel 2003 il tempio fu aperto al pubblico.
Mausoleo di adriano
Castel Sant'Angelo, detto anche Mausoleo di Adriano, è un monumento di Roma, situato sulla sponda
destra del Tevere di fronte al pons Aelius (attuale ponte Sant'Angelo), a poca distanza dal Vaticano, tra il
rione di Borgo e quello di Prati; è collegato allo Stato del Vaticano attraverso il corridoio fortificato del
"passetto". Il castello è stato radicalmente modificato più volte in epoca medievale e rinascimentale.
Tutto ha inizio nel 135 d.C. quando l'imperatore Adriano chiede all'architetto Demetriano di costruire un
mausoleo funebre per sé e i suoi familiari, ispirandosi al modello del mausoleo di Augusto, ma con
dimensioni gigantesche. I lavori durarono diversi anni e furono ultimati da Antonino Pio nel 139. Venne
costruito di fronte al Campo Marzio, al quale fu unito da un ponte appositamente costruito, il Ponte Elio. Il
mausoleo era composto da una base cubica, rivestita in marmo lunense, avente un fregio decorativo a teste
di buoi (Bucrani) e lesene angolari. Nel fregio si leggevano i nomi degli imperatori sepolti all'interno.
Sempre su questo lato si presentava l'arco d'ingresso intitolato ad Adriano; il dromos (passaggio d'accesso)
era interamente rivestito di marmo giallo antico.

Al di sopra del cubo di base era posato un tamburo realizzato in opera cementizia (opus caementicium)
tutto rivestito di travertino e lesene scanalate. Al di sopra di esso sorgeva un tumulo di terra alberato
circondato da statue marmoree, che ornavano il perimetro del monumento; di esse si conservano dei
frammenti rinvenuti in loco. La statua rinvenuta più integra è il famoso Fauno Barberini. Il tumulo era infine
sormontato da una gigantesca quadriga in bronzo guidata dall'imperatore Adriano, raffigurato come il sole
posto su un alto basamento o, secondo altri, su una tholos circolare. Attorno al mausoleo correva un muro
di cinta con cancellata in bronzo decorata da pavoni di bronzo dorato, due dei quali sono conservati al
Vaticano.

All'interno, pozzi di luce illuminavano la rampa elicoidale in laterizio rivestita in marmo che con una lenta
salita collegava l'ingresso o dromos alla cella funeraria, posta al centro del tumulo. Quest'ultima, quadrata e
interamente rivestita di marmi policromi, era sormontata da altre due sale, forse anch'esse utilizzate come
celle sepolcrali.

Il Mausoleo ospitò i resti dell'imperatore Adriano e di sua moglie Vibia Sabina, dell'imperatore Antonino
Pio, di sua moglie Faustina maggiore e di tre dei loro figli, di Lucio Elio Cesare, di Commodo, dell'imperatore
Marco Aurelio e di altri tre dei suoi figli, dell'imperatore Settimio Severo, di sua moglie Giulia Domna e dei
loro figli e imperatori Geta e Caracalla.
Il mausoleo perse in parte la sua funzione quando fu collegato alle Mura Aureliane, diventando parte del
sistema difensivo cittadino.

Nel 403 l'imperatore d'Occidente Onorio incluse l'edificio nelle Mura aureliane: da quel momento l'edificio
perse la sua funzione originaria di sepolcro, diventando un fortilizio, baluardo avanzato oltre il Tevere a
difesa di Roma.

Adriano impresse il proprio timbro su roma pur tenendosene distante per i continui viaggi tra occidente e
oriente per metà del suo regno. Egli amò particolarmente Atene tanto da recarvisi piu volte e gli fu
concesso il privilegio di una sua statua nel partenone a fianco di quella Fidiaca di Atena parthenos. Ad
Atene completò l’Olympieion, costruì la biblioteca al centro della città vicino all’agorà romana. 3 esempi
illustrano la fusione politico-culturale di componenti elleniche e romane, i programmi figurativi delle statua
loricate dell’imperatore, l’arco di adriano ad Atene che combina la formula romana con il sistema trilitico
dell’architettura ellenica e la sua barba che nella ritrattistica segnò una rivoluzione per la presentazione
dell’uomo di potere che durò fino ad alcune versioni di ritratti dei tetrarchi. Per alcuni la barba lunga serviva
a coprire le cicatrici che aveva in viso dalla nascita ma per i critici la barba è un’elegante nota di grecità e di
valorizzazione della tradizione culturale da parte di un imperatore filoelleno, i capelli erano arricciati con il
pettine.

ARCO DI ADRIANO AD ATENE


L'arco di Adriano è un arco monumentale simile, per alcuni aspetti, ad un arco trionfale romano. Si trova su
un'antica via che collega il centro di Atene, in Grecia, al complesso di strutture poste sul lato orientale della
città, tra cui il Tempio di Zeus Olimpio.

È stato ipotizzato che l'arco fu costruito per celebrare l'adventus (arrivo) dell'imperatore romano Adriano, e
per rendergli onore per quello che aveva fatto per la città, in occasione dell'inaugurazione del vicino tempio
nel 131 o nel 132. Non è certo chi commissionò la costruzione dell'arco, anche se furono probabilmente i
cittadini di Atene o un altro gruppo greco. Sull'arco si trovano due iscrizioni, poste in direzioni opposte, che
citano Teseo e Adriano come fondatori di Atene. Mentre è chiaro che l'iscrizione renda onore ad Adriano,
non si sa se il riferimento alla città sia da intendere nella sua interezza o ad una sola parte, quella nuova.

Il livello superiore dell'arco presenta tre aperture architravate, suddivise da quattro pilastri lisci più piccoli
di quelli del piano inferiore. L'apertura centrale è inquadrata da un'edicola sporgente con colonne dai fusti
scanalati, sormontata da un piccolo frontone. Capitelli di pilastri e colonne sono di ordine corinzio. La
trabeazione è ionica liscia come quella dell'ordine inferiore. L'apertura centrale del livello superiore era
originariamente chiusa da un sottile schermo di pietra spesso circa 7 centimetri.È stato ipotizzato che vi
fossero statue poste sul livello superiore, nelle aperture laterali o nella nicchia del livello superiore, come
era solito in questo genere di architetture. Teseo e Adriano sono i probabili candidati ad essersi visti
dedicare una tale statua, a giudicare dalle iscrizioni.

VILLA ADRIANA
Villa Adriana fu una residenza imperiale extraurbana, fatta realizzare presso Tivoli dall'imperatore Adriano
(117-138).

La struttura appare come un ricco complesso di edifici realizzati gradualmente ed estesi su una vasta area,
che doveva coprire circa 120 ettari, in una zona ricca di fonti d'acqua a pochi chilometri dal centro abitato di
Tibur e 17 miglia romane dall'Urbs
La complessità della residenza, più che alle numerose sfaccettature della personalità di Adriano, fu dovuta
alla necessità di soddisfare esigenze e funzioni diverse (residenziali, di rappresentanza, di servizio), oltre che
all'andamento frastagliato del terreno; la magnificenza e l'articolazione delle costruzioni rispecchiano le
idee innovative dell'imperatore in campo architettonico. Si afferma comunemente che egli volle riprodurre
nella sua villa i luoghi e i monumenti che più lo avevano colpito durante i suoi viaggi nelle province
dell'impero.
La villa fu realizzata in tre fasi successive dal 121 al 137 d.C. Si tratta di una vera e propria città, estesa su di
un'area di circa 300 ha, nella quale il grandioso complesso si presenta diviso in quattro nuclei diversamente
caratterizzati.

L’uso della Villa è confermato fino almeno al III secolo come residenza imperiale: dopo i tumultuosi anni
dell’anarchia militare gli imperatori non si stabilirono più a Roma per lunghi periodi, ed è probabile che la
Villa Adriana fosse in stato di abbandono già prima del 476. Le rovine della Villa furono in seguito depredate
dalla classe dirigente della Roma pontificia, anche se un interesse storico nell’area si sviluppò già dal primo
Rinascimento.
Il Pecìle è una ricostruzione della Stoà Pecile (stoà poikìle, "portico dipinto") nell'agorà di Atene, centro
politico e culturale della città di Atene, la prediletta da Adriano durante i suoi numerosi viaggi.

Il Pecile, un'immensa piazza colonnata di forma quadrangolare, decorata al centro da un bacino e


circondata da un portico, si innalzava su poderose costruzioni artificiali. Attraverso una serie di edifici
termali poi si giungeva al Canopo. Sulla piazza centrale, si affacciavano gli alloggi delle guardie, del
personale amministrativo e di servizio.

Canòpo
Questa struttura evoca un braccio del fiume Nilo con il suo delta, che congiungeva l'omonima città di
Canopo, sede di un celebre tempio dedicato a Serapide, con Alessandria, sul delta del Nilo. È la rievocazione
simbolica del viaggio di Adriano in Egitto, da cui l'imperatore ricondusse numerosi materiali e statue, e
durante il quale trovò la morte il suo celebre amante Antinoo.

Attorno alla piscina-canale correva un elegante colonnato, con copie di famose statue greche, come le
statue delle cariatidi, copie romane di quelle dell'Eretteo, che sono rivolte verso la piscina e non verso i
visitatori, creando così un riflesso incantevole sulla superficie dell'acqua.

In realtà, tuttavia, come sembrano suggerire i bolli presenti sui laterizi, la costruzione del Canopo va
collocata in una data antecedente al 132, anno del soggiorno in Egitto dell'imperatore. L'edificio andrebbe
piuttosto interpretato come rappresentazione esotica di un ambiente nilotico, solo vagamente ricollegabile
al ramo canopico sul delta del fiume.

Palazzo Imperiale
Nasce dai resti della villa Repubblicana ereditata dalla moglie Vibia Sabina.

Era la residenza principale della villa essendo la residenza di Adriano e la sua corte.

Ad oggi non rimane molto se non che qualche colonna e qualche resto della struttura.

Piazza d'Oro
Era un complesso periptero con una vasca centrale rettangolare, che tagliava longitudinalmente la spianata
dei giardini, sul cui lato minore meridionale si staglia un grandioso edificio con pianta centrale ottagonale
dotata di cupola. Le colonne, disposte su un peristilio a quattro bracci circondato da un portico sono
realizzate in marmo cipollino e granito egiziano. Sui bracci est ed ovest si delineano due lunghi corridoi
(criptoportici). Da quello orientale si accede all'edificio principale. Qui gli ambienti disegnano andamenti
ora concavi ora convessi, rendendo un bellissimo gioco visivo. La curata disposizione degli ambienti
mistilinei consente di scorgere il ninfeo semicircolare che chiude la costruzione.

Alle spalle del portico sul lato nord vi sono i resti della Casa Colonica, una struttura di epoca precedente,
caratterizzato da pavimenti a mosaico di modesta qualità e destinata alla servitù. In quest'ala della villa
furono ritrovati i ritratti imperiali di Vibia Sabina, Marco Aurelio e Caracalla. La ricchezza degli ambienti e
del corredo architettonico, dedotta dall'alto numero di fori che sorreggevano le grappe cui erano appesi i
marmi, suggerisce l'ipotesi che questa zona fosse legata alle funzioni pubbliche del palazzo.

Il Teatro marittimo, definizione assegnata dai moderni, è una delle prime costruzioni della villa, tanto che è
stata interpretata come la primissima, provvisoria residenza di Adriano nel sito. Le sue caratteristiche di
separatezza rendono credibile l'ipotesi che il luogo costituisse la parte privata del palazzo.

La struttura, iniziata nel 118, fu edificata nei pressi della villa repubblicana. È un complesso assai singolare,
ad un solo piano, senza alcun rapporto con la forma abituale di un teatro romano, costituito da un pronao
di cui non resta più nulla, mentre sono riconoscibili la soglia dell'atrio e tracce di mosaici pavimentali.
All'interno consta di un portico circolare a colonne ioniche, voltato. Il portico si affaccia su un canale al
centro del quale sorge un isolotto di 45 m di diametro, composto anch'esso da un atrio e da un portico in
asse con l'ingresso, più un piccolo giardino, un complesso termale minore, alcuni ambienti e delle latrine. La
struttura non prevedeva alcun ponte in muratura che collegasse l'isolotto al mondo esterno, e per
accedervi era necessario protendere un breve ponte mobile.
In asse con la valle del Canopo si levano i resti di due stabilimenti termali detti, per le loro differenti
dimensioni, Grandi e Piccole Terme.

Degli altri edifici annessi a questo complesso, costituiti da una serie di ambienti, si ritiene fossero destinati
ad alloggio della guardia imperiale (sono detti infatti Pretorio) o del personale della Villa.

Antinoeion
Nel 2003 vengono alla luce lungo la strada di accesso al Grande Vestibolo e davanti al fronte delle Cento
Camerelle i resti di quello che verrà identificato come un luogo di culto dedicato ad Antinoo, amante
dell'imperatore e da esso divinizzato dopo la sua morte prematura. Secondo alcune fonti il giovane si
sarebbe annegato nel fiume Nilo per compiere un rito magico che avrebbe sommato i propri anni persi nel
sacrificio alla vita dell'imperatore; una improbabile versione invece lo vede gettato nel fiume per
scongiurare la sua candidatura come possibile successore di Adriano. La struttura presenta il basamento di
due templi affrontati all'interno di un recinto sacro con un'esedra sul fondo. Al centro, tra i due templi, il
basamento dell'obelisco che è stato identificato con l'Obelisco del Pincio. Datato al 134 d.C. si pensa fosse
anche luogo dell'inumazione del dio amante di Adriano.
All'interno del complesso sono stati rinvenuti frammenti di statue in marmo nero, relative a divinità egizie o
a figure di sacerdoti che confermerebbero che quello fosse il luogo di culto del dio Osiride-Antinoo.

La Sala dei Filosofi è la sala intermedia tra la Piazza del Pecile e il Teatro Marittimo. Questa sala era adibita
alle riunioni con i politici più importanti ed era ricoperta di marmo rosso che ricordava la potenza
dell'imperatore, come documentano le impronte delle lastre sulla malta di allettamento lungo le pareti e i
fori per le grappe di sostegno. Sul muro vi erano sette nicchie dove probabilmente erano rappresentati
sette filosofi o parenti.
Era il luogo dove soggiornavano i soldati romani di guardia. In ogni stanza c'è una pavimentazione diversa
ed in ogni stanza entravano 3 soldati. la camera era arredata con un armadio e probabilmente dei
cassettoni posti ai lati delle pareti. I pavimenti erano in mosaici e le pareti decorate con semplici stucchi.
Per mezzo di una scala si accedeva al piano superiore, dove si potevano trovare altre stanzette.

Teatro greco
Il cd. teatro greco è un teatro all'aperto che mantiene pochi resti dei gradini e della cavea. In origine doveva
essere ricoperto di marmi. In realtà ha le caratteristiche di un teatro romano, essendo circolare e non
ellittico; era destinato a spettacoli privati.

Tempio agli Dei egizi


Nell'area della "Palestra" nel 2006 è stata trovata una sfinge egizia e nel 2013 una statua del dio Horus in
forma di falco. Queste recenti scoperte, sommate a precedenti ritrovamenti di un busto colossale di Iside e
di busti di sacerdoti egizi, hanno fatto capire che il complesso era dedicato al culto delle divinità egizie.

La villa era dotata di un vasto sistema di percorsi sotterranei, destinati alla servitù, che poteva così spostarsi
da un ambiente all'altro o portare approvvigionamenti senza disturbare gli ozi dell'imperatore o gli svaghi
degli ospiti. Alcune delle vie erano percorribili anche con i carri.

7.3 Gli Antonini verso la <<crisi>>


Antonino Pio mai allontanatosi da roma durante il suo regno (138-161 d.C.) se non per spostarsi nelle
proprie ville, restò moderato nell’atttività edilizia. Restaurò il tempio del divo augusto sul palatino e
completò i cantieri adrianei del pantheon. Gli interventi degli antonini si concentrarono nel campo marzio
centrale, sono state rinvenute 3-4 strutture di forma quadrata in travertino e marmo probabilmente
indicanti il punto il cui furono cremati i membri della famiglia imperiale ed eretti dopo la combustione delle
spoglie. Le pire per il rituale dell’ apoteosi imperiale erano spettacolari apparati pieni di legna da ardere
dentro con all’esterno drappi intessuti a fili d’oro, sculture in avorio e quadri. Dalla sezione piu alta delle
torri piramidali veniva liberata un’aquila sacra a Giove e simbolo di immortalità che salendo insieme alle
fiamme portava al cielo l’anima dell’imperatore. Sempre in campo marzio poi una colonna monolitica in
granito egiziano dedicata dopo il 161 d.C. Ad Antonino pio dai figli adottivi Marco Aurelio e Lucio vero.
Antonino pio amante della pace aveva condotto alcune campagne militari ma tramite i suoi delegati ma nel
169 d.C. I Marcomanni riuscirono a oltrepassare il confine dell’Italia assediando Aquileia tanto che marco
Aurelio chiamò indovini da ogni parte per compiere rituali e purificare Roma con sacrifici. Con i due
contrattacchi nel 171-175 e nel 178 fino al 180 d.C. Anno della morte di Marco Aurelio, i romani ebbero la
meglio. Le imprese belliche furono celebrate sulla colonna in campo marzio con il probabile tempio dei divi
marco Aurelio e faustina minore. Non è da escludere che la lavorazione della colonna fosse iniziata gia nel
176 d.C. Per concludersi dopo la morte dell’imperatore.

COLONNA AURELIANA
La colonna di Marco Aurelio è un antico monumento di Roma, eretto tra il 176 e il 192 per celebrare, forse
dopo la sua morte, le vittorie dell'imperatore romano Marco Aurelio (161-180) ottenute sulle popolazioni
dei Marcomanni, dei Sarmati e dei Quadi, stanziate a nord del medio corso del Danubio, durante le guerre
marcomanniche.

La colonna, alta 29,617 metri (pari a 100 piedi romani; 42 metri se si considera anche la base), è ancora
nella sua collocazione originale e ha dato il nome alla piazza odierna nella quale sorge, piazza Colonna. Il
monumento, coperto di bassorilievi, è ispirato alla Colonna Traiana. Il fregio scultoreo che si arrotola a
spirale intorno al fusto, se fosse svolto, supererebbe i 110 metri in lunghezza.
La colonna fu fatta erigere dal figlio di Marco Aurelio, Commodo, durante il suo impero (180-192), insieme
agli otto pannelli che ornano l'attico dell'arco di Costantino ed ai tre conservati nei Musei Capitolini e che,
in realtà, erano originariamente destinati a qualche monumento ufficiale, forse un arco onorario.

Il basamento era ornato da una serie di bassorilievi che furono distrutti durante la ristrutturazione voluta da
papa Sisto V . Fu sostituito con un'iscrizione che riporta la errata dedica ad Antonino Pio. In cima alla
colonna era situata la statua di bronzo di Marco Aurelio, che fu distrutta nel Medioevo.

Fu innalzata sull'esempio della colonna di Traiano ma, al contrario di quest'ultima, le scene rappresentate
non sono poste in ordine cronologico. La cronologia degli avvenimenti è molto incerta, ma si ipotizza che
raffiguri le campagne militari che si svolsero dal 168 al 172, nella prima parte della colonna, fino alla
rappresentazione della Vittoria (con la Germania subacta, ovvero la Germania soggiogata), e dal 173 al 174
nella seconda parte.

Nei bassorilievi, considerati meno raffinati rispetto alla colonna di Traiano, viene frequentemente
rappresentata la figura dell'imperatore. Le rappresentazioni furono realizzate con lo stile plebeo o popolare
che si stava cominciando ad affermare in quegli anni, e che avrebbe soppiantato lo stile ufficiale più
classicistico.
La colonna di Marco Aurelio, una colonna coclide analoga strutturalmente alla colonna di Traiano e alta
29,6 metri (è una colonna centenaria; infatti essa misura in altezza 100 piedi romani), è formata da 27
enormi rocchi sovrapposti di marmo lunense, leggermente rastremati verso l'alto, con diametro che varia
da 3,80 a 3,65 metri. I rocchi sono scavati all'interno, così da formare una scala a chiocciola di 203 gradini
che sono illuminati da piccole feritoie e che portano al "terrazzino" che si trova in cima e che chiude il
capitello di ordine dorico. Il basamento parallelepipedo misura circa 11-12 metri e, in origine, la struttura si
trovava in posizione rialzata di circa 3 metri sul piano stradale della via Flaminia. Sulla sommità vi era la
statua in bronzo dorato di Marco Aurelio. Pertanto, l'intero complesso misurava quasi 50 metri.

Un fregio disposto a spirale, alto circa un metro e mezzo, si avvolge intorno al fusto per 21 volte (nella
colonna traiana i giri sono 23). Il rilievo mostra scene di battaglia e schiere di nemici vinti durante le guerre
combattute dai Romani contro i Germani Marcomanni e i Sarmati, popolazioni che si erano stanziate lungo
il Danubio sotto il dominio dell'imperatore, per un totale di 116 scene.

La colonna ripete intenzionalmente il modello traianeo, ma, malgrado il tentativo d'emulazione, vi sono
evidenti differenze fra le due: mentre nella prima vi è un morbido bassorilievo pittorico, nella seconda
troviamo un incisivo altorilievo; il modellato da morbido diventa più aspro, con bruschi passaggi di piano e
con il trapano che affonda nel marmo traforando barbe, chiome, corazze, segnando le rade pieghe dei
panneggi, i solchi di contorno delle figure, le sinusoidi delle onde dei fiumi. Il racconto si fa più schematico e
alla varietà dei motivi subentra la ripetitività, come nelle scene di marcia; i dettagli del paesaggio
diminuiscono, le prospettive divengono più convenzionali.

L'impostazione obliqua dello schieramento dei soldati nella colonna di Traiano diventa, nella colonna di
Marco Aurelio, rappresentazione frontale; la frontalità si estende anche alla figura della Vittoria e a quella
dell'imperatore. Mentre Traiano era visto in mezzo ai suoi soldati, Marco Aurelio è già su un piano più
distaccato che ne sottolinea la maestà; appare di fronte e inquadrato dal fido e valoroso genero Pompeiano
e da un altro ufficiale, che sono impostati di tre quarti, come ali per far risaltare il fuoco centrale
dell'imperatore.

Nelle scene di adlocutio ("discorso alle truppe") i soldati non si radunano più tutti su un lato, di fronte
all'imperatore seduto di profilo, ma formano un semicerchio che gira in basso intorno alla preminente
figura centrale e frontale di Marco Aurelio.

Sparisce quel senso d'umanità e di pietà verso i vinti che traspariva dalla colonna traianea e il racconto
bellico diviene crudele e spietato. I corpi dei barbari si stravolgono in ritmi angolosi e distorti, la struttura
naturalistica si disorganizza, forzata in modo espressionistico.

Le stesse caratteristiche stilistiche si ritrovano sugli otto pannelli aureliani dell'arco di Costantino, dove, ad
esempio, la scena di sacrificio si presenta molto più affollata e densa di figure rispetto alle scene di sacrificio
traianee, e questo dimostra una minore sensibilità verso la rappresentazione di Commodo.

Lo stile della colonna di Marco Aurelio non vuole rompere con la tradizione, anzi cerca palesemente di
aderire ad essa il più possibile. Giovanni Becatti spiega la differenza stilistica fra le due colonne coclidi con il
confluire nell'arte ufficiale, proprio a partire dall'età di Commodo, delle tendenze artistiche più popolari
(arte plebea), che erano sempre state vive nell'artigianato artistico.

Tuttavia i rilievi della colonna Antonina e quelli dei pannelli aureliani dell'arco di Costantino sono ancora
opera di maestri d'alto livello: sotto il regno degli imperatori della dinastia antonina, si erano infatti formate
a Roma delle botteghe in cui operavano scultori greci immigrati. Affievolitasi la presenza di maestranze
greche sotto il regno di Commodo, la realizzazione dei monumenti ufficiali venne affidata ad artisti romani
che avevano lavorato in passato sotto la guida di maestri greci e che facilitarono nell'età di Commodo
l'affioramento della tendenza alla disorganicità espressiva propria della cultura figurativa etrusca, latina e
italica, e che nel campo dell'arte ufficiale era stata sinora smorzata e nobilitata dal superiore naturalismo
classicheggiante.

A partire da Marco Aurelio vi è un piu diffuso uso del trapano per effetti ottici piuttosto che tattili, sia in
monumenti come nei rilievi reimpiegati per l’arco di Costantino celebrativi di marco Aurelio, sia in alcuni
sarcofagi come quello nei pressi di Portonaccio sulla via tiburtina dove abbiamo scene di combattimento tra
romani e barbari, sul coperchio scene ideali della coppia di defunti con teste non finite, la presentazione del
neonato alla madre, matrimonio e sottomissione di due barbari davanti a un generale loricato.
Lo stesso vale per le chiome e le barbe degli imperatori, celebre è un busto di Commodo dove i ricci
finemente cesellati contrastano con la levigatezza del viso, un lavoro degno di un imperatore di bell’aspetto
con i capelli naturalmente ricci e biondi. Dalla fine del 191 d.C. Volto a costruire un principato sempre piu
autocratico Commodo di fece chiamare Ercole figlio di Giove, depose il costume degli imperatori e indossò
la pelle di leone e la clava assumendo vari epiteti. Si proclamò ufficialmente come incarnazione di ercole,
un eccesso intollerabile per i senatori romani. Anche nel busto oggi ai musei capitolini, si mostra poggiato
su una pelta (scudo delle amazzoni) decorata con una gorgone e con alle estremità due teste di aquila,
indossa la pelle di leone, clava e pomi delle esperidi, completano la simbologia due cornucopie incrociate
simbolo di pace e abbondanza e il globo simbolo di potere ecumenico con diversi segni zodiacali tra cui
scorpione e capricorno.

Le lunghe guerre avevano finito i soldi pubblici , marco Aurelio nel foro ti traiano organizzò per due mesi
un’asta pubblica degli oggetti appartenenti alla famiglia imperiale, vi furono poi diverse carestie e
un’epidemia di peste cosi grande che portarono a gravi conseguenze economiche e sociali per l’impero.
Commodo sperperò specie alla fine del regno il patrimonio dle padre marco Aurelio e il secolo si chiuse con
un grande incendio nel 192 d.C. Che fece andare a fuoco il templum pacis e il tempio di vesta. Commodo fu
ucciso il 31 dicembre del 192 d.C. Ma roma non si riprese.
8 II secolo III secolo e la <<crisi>> dell’impero
La storiografia moderna considera il secolo III d.C. Come l’età della crisi e della decadenza dell’impero. Cosi
sono chiamati i 112 anni che vanno dall’inizio del regno di Settimio Severo (193d.C.) all’abdicazione di
Diocleziano (305 d.C.)
Molte furono le cause, indebolimento istituzionale, difficili rapporti col senato, enorme potere nelle mani
dell’esercito, svalutazione monetaria, pressione dei barbari ai confini, declino delle religioni tradizionali e
boom del cristianesimo, ondate di pestilenze e carestie. Un secolo in cui si succedettero oltre 50 imperatori,
iniziarono a cadere le frontiere dell’esercito e roma perse la sua centralità a favore di molte sedi imperiali
scelte come quartieri generali, Antiochia, Mediolanum, Sirmium, Salonicco. Fu anche un secolo di riforme,
la costituzione di Caracalla nel 212 d.C. Concesse la cittadinanza romana a tutti i cittadini nati liberi
dell’impero col principio di uguaglianza tra gli uomini che mise fine al concetto di nazioni vinte. Nel 285 d.C.
Diocleziano suddivise l’impero in quattro parti rette da due augusti e due cesari. Per comodità il secolo in
quanto non uniforme si può dividere in 3 periodi. Il primo di 40 anni coincide con la dinastia di Settimio
Severo (192-235 d.C.) e si presenta in forte continuità con il secolo precedente degli Antonini. I successivi
50 anni presentano una brusca interruzione e sono gli anni dell’ anarchia militare (235-284 d.C.)che
portarono a governare una lunga serie di imperatori-soldati elevati dalle proprie legioni. Infine gli ultimi 20
anni è l’età tetrarchica (285-305d.C.).
Le officine del periodo non sono affatto decadenti come si pensava in passato ma rigettano le forme
<<classiche>> per sperimentarne altre ad anticipazione dell’arte bizantina. Contrariamente ai secoli I-II d.C.
Dominati dalle produzioni italiche e galliche, nei secoli II-III d.C. È l’Africa proconsolare a fiorire e proprio li
infatti nacque il nuovo imperatore.

8.1 L’ultima dinastia : i Severi


Settimio Severo era originario di Leptis Magna in africa, acclamato imperatore a soli 39 anni, fu capostipite
dell’ultima dinastia dell’impero. Il suo regno durò 18 anni e fu il piu lungo del secolo, la dinastia resse per 40
anni, merito di una politica interna che tra i punti di forza annoverava la pretesa di continuità con la
famiglia degli antonini. La difficile situazione del 193 d.C. Anno in cui si scontrarono vari generali per la
carica di imperatore lo portò a iniziare una strategia di legittimazione dinastica culminata nella proclama di
filiazione adottiva da Marco Aurelio, nel suo secondo tipo ritrattistico infatti del 196 d.C. Mostra
un’accentuata assimilazione ai tratti del viso di marco Aurelio, barba e capelli riprendono il quarto tipo
ritrattistico di marco Aurelio.
Marco aurelio Settimio severo

L’innesco nella famiglia degli antonini si vede anche nel ritratto di tipo Serapide, dopo il viaggio in Egitto nel
199 d.C. Con masse di riccioli voluminosi e molto plastiche, spettinate sulla fronte con quattro boccoli che
ricordano la divinità egizia Serapide, l’erede degli antonini mescola cosi la propria immagine con quella dei
principi antoniniani e di un dio. Anche la moglie si fa ritratte con una parrucca a onde gia sfoggiata dalla
moglie di Commodo e Caracalla bambino è ritratto simile a Marco Aurelio da giovanissimo. Settimio severo
cambiò perfino il nome dei figli i quali divennero antonini a tutti gli effetti e scelse come sepoltura il
mausoleo di Adriano per lui e la sua famiglia.

Tipo serapide

Le legioni dislocate dell’impero detennero il maggior potere e imposero l’elezione dei propri comandanti
giungendo pure ad eliminarli quando non piu graditi. Settimio severo si affrettò a introdurre riforme ben
viste dall’esercito come lo scioglimento e la riforma della guardia pretoriana insieme all’incremento delle
unità nell’urbe. Furono erette imponenti caserme. Settimio severo approfittò degli incendi durante il regno
di Commodo per iniziare una campagna di restauri come quello del pantheon. Fece inaugurare nel foro
romano nel 203 d.C. Un arco a triplice fornice svettante per piu di 20 metri di altezza nel punto in cui la via
sacra saliva sul Campidoglio.

ARCO DI SETTIMIO SEVERO


L'arco di Settimio Severo è un arco trionfale a tre fornici (con un passaggio centrale affiancato da due
passaggi laterali più piccoli), situato a Roma, all'angolo nord-ovest del Foro Romano e sorge su uno zoccolo
in travertino, in origine accessibile solo per mezzo di scale.

Eretto tra il 202 e il 203, fu dedicato dal senato all'imperatore Settimio Severo e ai suoi due figli, Caracalla e
Geta per celebrare la vittoria sui Parti, ottenuta con due campagne militari concluse rispettivamente nel
195 e nel 197-198.

L'arco era posto nel Foro a fare da pendant ideale all'arco di Augusto, anch'esso dedicato a una vittoria
partica, e con l'arco di Tiberio e il portico di Gaio e Lucio Cesare costituiva uno dei quattro accessi
monumentali alla piazza forense storica non percorribile da carri: alcuni gradini sotto i fornici impedivano
infatti il passaggio delle ruote.
L'arco, all'epoca parzialmente interrato, venne completamente dissotterrato nel 1804 per iniziativa di Pio
VII.
L'iscrizione.
L'arco, alto 23 metri, largo 25 e profondo 12, è costruito in opera quadrata di marmo, con i tre fornici
inquadrati sul lato frontale da colonne sporgenti di ordine composito, su alti plinti, scolpiti con Vittorie e
figure di barbari. Si tratta del più antico arco a Roma, conservato, con colonne libere anziché addossate ai
piloni.

I fornici laterali sono messi in comunicazione con quello centrale per mezzo di due piccoli passaggi arcuati.
La quarta riga dell'iscrizione, dove compare patri patriae optimis fortissimisque principibus, sostituisce il
testo originario (cui si è potuto risalire tramite gli incavi ricavati per bloccare le lettere metalliche e che era:
ET P(ublio) SEPTIMIO L(uci) FIL(io) GETAE NOBILISS(imo) CAESARI) riportante la dedica a Geta e che venne
cancellato e sostituito dopo il suo assassinio e la seguente damnatio memoriae.

Sopra l'attico, come raffigurato nelle emissioni monetali, si trovava la quadriga imperiale in bronzo e gruppi
statuari.

I due lati principali dell'arco erano decorati da rilievi. Ai lati del fornice centrale si trovano le consuete
Vittorie con trofei, che volano sopra genietti che simboleggiano le quattro stagioni (due per faccia). Sui
fornici minori si trovano motivi analoghi, ma le personificazioni rappresentano dei fiumi. Nelle chiavi d'arco
sono scolpite varie divinità: Marte, Ercole, Libero, Virtus (forse) e Fortuna. Sui fornici minori corre un
piccolo fregio con la processione trionfale scolpita da altissimo rilievo. Sui plinti delle colonne
rappresentazioni di soldati romani con prigionieri parti (quattro sulla fronte e due sui lati minori).
La parte più interessante della decorazione sono comunque i quattro grandi pannelli che occupano lo
spazio sui fornici minori, dove è scolpita la narrazione delle campagne di Settimio Severo in Mesopotamia,
organizzate in fasce orizzontali da leggere dal basso verso l'alto, come consueto nella pittura trionfale e
nelle narrazioni da essa derivate (colonna Traiana, colonna di Marco Aurelio, ecc.)
La decorazione accessoria segue lo stile classico dell'arte ufficiale ed è tesa a esaltare con simboli e allegorie
l'eternità e l'universalità dell'Impero (le stagioni, i fiumi della Terra), oltre alla gloria degli imperatori
(Vittorie, prigionieri). Forte è la connotazione chiaroscurale.

Le scene scolpite vennero probabilmente create usando come modello le pitture che narravano i fatti della
guerra inviate dalla Mesopotamia al Senato in preparazione del trionfo, che poi venne rimandato
dall'imperatore e mai celebrato. I modelli più diretti per i rilievi furono sicuramente le due colonne coclidi,
cioè quella Traiana e quella Aureliana, in particolare la seconda per la tecnica narrativa molto essenziale,
qui ancora più riassuntiva e schematica.
L'ambientazione delle scene è unica, con un generico paesaggio roccioso (ottenuto bucherellando la
superficie del marmo), con accenni di fiumi (come il Tigri nel pannello di Nord-Ovest) e le schematiche
raffigurazioni di città. La narrazione in alcuni punti è continua, in altri mostra scene isolate, istantanee. La
comprensione dei fatti è spesso affidata a gesti eloquenti e situazioni facilmente intelligibili.

Da un punto di vista stilistico alcuni storici hanno individuato due maestri, anche se almeno tutti i pannelli e
il fregio sopra i fornici laterali sono opera unitaria, con stringenti affinità con la colonna di Marco Aurelio, di
pochi anni anteriore. Qui però si registra la tendenza ad isolare maggiormente le figure dallo sfondo tramite
netti sottosquadri a quella di preferire una rappresentazione piatta, pittorica.

Uno dei pannelli più significativi è quello dell'Assedio e presa di Ctesifonte, dove è particolarmente evidente
l'uso del trapano, che crea zone profonde con forti ombreggiature alternate a quelle in luce sulla superficie,
dando un effetto coloristico già visibile in alcune opere sin dall'età di Antonino Pio.

Ma una novità ancora più eclatante è la rappresentazione della figura umana, ormai appiattita in scene di
massa ben lontane dalla visione "greca" della rappresentazione dell'individuo isolato e plastico. Si tratta di
una testimonianza evidente della nascita di nuovi stilemi legati al filone dell'arte "provinciale e plebea" che
dominarono l'arte tardoantica sfociando poi nell'arte medievale. Funzionari, artisti e imperatori stessi
infatti provenendo dalle province portarono a Roma, con un'influenza sempre crescente, i caratteri dell'arte
tipici proprio dei loro territori d'origine (non è corretto quindi parlare di una "decadenza" dell'arte).

Un altro segno evidente di queste nuove tendenze è la figura dell'imperatore che, circondato dai suoi
generali, arringa la folla durante l'adlocutio: non siamo ancora agli ingigantimenti gerarchici tipici delle
raffigurazioni imperiali del IV secolo, ma già l'imperatore si trova su un piano rialzato, emergendo sulla
massa dei soldati come un'apparizione divina.

Queste tendenze furono ancora più evidenti nell'Arco di Costantino, del secolo successivo.

SEPTIZODIUM

L'edificio costruito da Settimio Severo, sorgeva nella valle tra Celio e Palatino, accanto al Circo Massimo,
lungo la via Appia.

Secondo molti era la nuova facciata monumentale del palazzo imperiale sul Palatino, col nuovo fronte sulla
Via Appia, un'ala aggiunta al palazzo imperiale di Domiziano da Settimio Severo, nella sistemazione delle
pendici sud est del colle, per completare degli edifici termali avviati un secolo prima da Domiziano.

Per breve tempo ospitò la tomba dell'imperatore Geta, figlio di Settimio, il che farebbe pensare a un
mausoleo, ma richiama anche una struttura a sette piani, anche se fin dalle stampe più antiche ne appaiono
sempre tre.

Secondo alcune fonti il Settizonio era una struttura idrica monumentale, contenente le sette divinità
planetarie: Saturno, Sole, Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere.

In effetti deriverebbe da "Sette soli" cioè sette astri, la simbologia astrale con riferimento ai sette pianeti,
per la passione di Settimio per l'astrologia e che probabilmente proveniva proprio da Leptis.

Infatti volle che il suo oroscopo venisse dipinto sul soffitto della sala delle udienze imperiali.

Crollata la sezione centrale, le due parti delle rovine erano dette Septem solia maior e Septem solia minor.
La distruzione e il prelievo di marmi pregiati, travertino, colonne e decori vari proseguirono nei secoli dalle
famiglie patrizie che dominarono attraverso i vari Papi che riuscirono a far nominare nei conclave,
attraverso pagamenti e alleanze. La demolizione definitiva si dovette a Sisto V.

L'edificio è noto dalla pianta sulla Forma Urbis severiana e da disegni rinascimentali, nonchè da il "Trattato
di Verona sulle rovine Romane" del 1610 da cui risulta che le colonne fossero corinzie "Tutte le colonne
sono di granito e marmo migliori, alcuni bianchi, alcuni colorati. Tra gli ultimi, il massimo della bellezza
mirabile

Di marmo insomma erano colonne, cornici e intercolumni per tutta la facciata, scanditi con rosoni sempre
in marmo, intagliati in forme diverse.
Il prospetto era lungo 89 m. e simile ai frontescena teatrali: vi si aprivano tre nicchioni semicircolari con ai
lati due avancorpi a base quadrata, movimentando con spigoli retti e ampie curvature il fronte di tre piani
colonnati di altezza decrescente verso l'alto.
Le tre nicchie ospitavano altrettante fontane a base circolare, con un'unica vasca che ne raccoglieva le
acque più in basso.

La costruzione sembrerebbe ispirata al gusto asiatico, ma non ci sono abbastanza frammenti architettonici
che lo dimostrino. Come modelli si possono citare il ninfeo di Mileto, di epoca traianea, e il ninfeo di
Aspendos, di epoca adrianea, che a loro volta si ispiravano alle scene degli edifici teatrali, già all'epoca
dotati di giochi d'acqua. Altri esemplari di settizonio sono tutti in Africa: Henschir Bedd, Lambaesis,
Lilybeum e Cincari. Del resto Settimio era di origine africana.
Tra il 203 e il 204 d.C. Banchieri e commercianti di capi bovini votarono l’elezione di un monumento
all’imperatore e alla sua famiglia. Venne cosi costruito l’arco degli argentari nell’area del foro boario.
ARCO DEGLI ARGENTARI
Il monumento fu eretto nel 204 nel punto in cui l'antica strada urbana del vicus Iugarius si immetteva nella
piazza del Foro Boario, nella zona dell'attuale piazza della Bocca della Verità. Come attesta l'epigrafe posta
sull'arco,[1] esso era una dedica privata degli argentarii et negotiantes boari huius loci ("i banchieri e i
commercianti boari di questo luogo") agli augusti Settimio Severo e Caracalla, al cesare Geta, a Giulia
Domna, moglie di Settimio Severo, e a Fulvia Plautilla, moglie di Caracalla. Dalle iscrizioni furono in seguito
abrasi i nomi di Plautilla (esiliata nel 205 e uccisa nel 211) e di Geta (ucciso nel 212), dei quali era stata
decretata la damnatio memoriae. In un primo momento la dedica riguardò forse anche il prefetto del
pretorio Gaio Fulvio Plauziano, padre di Plautilla anch'egli caduto nel 205.

Secondo recenti ricostruzioni, in cima all'arco erano poste cinque statue: al centro quella di Settimio
Severo, ai lati i figli Geta (sulla sinistra) e Caracalla (sulla destra); tra i due figli erano poste quelle di Giulia
Domna (sulla sinistra, tra Severo e Geta) e di Fulvia Plautilla (sulla destra, tra Severo e Caracalla).[2]
Il monumento è alto complessivamente 6,15 m e il passaggio ha una larghezza di 3,30 m. La porta è
costituita da un architrave sostenuto da due spessi pilastri, con lesene decorate agli angoli, di cui quello
orientale venne per metà inglobato nel VII secolo nella vicina chiesa di San Giorgio in Velabro. La struttura è
rivestita di lastre di marmo bianco, tranne il basamento in travertino.

Decorazione esterna dell'arco degli Argentari


La decorazione è ricchissima e riempie tutta la superficie disponibile: sulla fronte meridionale l'iscrizione
dedicatoria, che si sovrappone al fregio e all'architrave della trabeazione, è inquadrata da due bassorilievi
raffiguranti Ercole e un genio. I pannelli all'interno del passaggio presentano rilievi con scene di sacrificio,
con le figure simmetricamente contrapposte: sul lato destro (pilastro orientale) sono raffigurati Settimio
Severo e Giulia Domna, mentre una figura abrasa doveva rappresentare Geta, e sul lato opposto Caracalla,
che in origine aveva accanto Plautilla e Plauziano, anch'essi abrasi in seguito alla damnatio memoriae. Sul
lato esterno del pilastro occidentale, il pannello raffigura soldati e prigionieri barbari, mentre sul lato
frontale, tra le due lesene angolari del pilone, decorate da stendardi militari, si conserva una figura in tunica
corta, piuttosto rovinata. Completano l'insieme, sopra i rilievi maggiori, pannelli più p iccoli con Vittorie o
aquile sorreggenti ghirlande, e al di sotto, scene dell'immolazione delle vittime sacrificali. Interessante
notare la disposizione frontale delle figure imperiali che anticipano un modo che sarà tipico per Costantino.

Arco di leptis magna


Soluzioni iconografiche simili si ritrovano pure sull’arco dei severi eretto tra il 205 e il 209 d.C. A Leptis
Magna probabilmente dalla comunità cittadina. Ancora una volta non un arco trionfale ma un tetrapilo
onorario all’incrocio di strade trafficate. In calcare e marmo, con scene cerimoniali raffiguranti l’imperatore
e la sua famiglia fu eseguito da maestranza abili nell’uso del trapano con forti effetti chiaroscurali nella
lavorazione delle masse ricciute, nella definizione del contorno delle figure, nelle pieghe dei panneggi.
Sull’attivo nord la processione trionfale (come simbolo della vittoria eterna degli imperatori) era centrata
sulla quadriga con Settimio severo, Geta e caracalla. Anche qui un’inquadratura frontale che distorce la
prospettiva complessiva(i cavalli sono di profilo).
L'arco è costituito da quattro imponenti pilastri che sorreggono una copertura a cupola. Ciascuna delle
quattro facciate esterne dei pilastri era affiancata da due colonne corinzie, tra le quali erano scolpite
decorazioni in rilievo rappresentanti le saldissime virtù e le grandi imprese dell'epoca dei Severi.

Nel punto di intersezione tra la cupola e i pilastri si possono notare delle aquile con le ali piegate, simbolo
della Roma imperiale. Sopra le colonne si trovano due bei pannelli che riproducono nei dettagli processioni
trionfali, riti sacrificali e lo stesso Settimio Severo che tiene per mano il figlio Caracalla.

Sulla facciata interna delle colonne sono riportate scene di campagne militari, cerimonie religiose e
immagine della famiglia dell'imperatore.
La prematura morte di Settimio severo lascia l’impero nelle mani dei figli geta e caracalla. I loro ritratti degli
ultimi anni di regno del padre sono volutamente indistinguibili e inaugurano una nuova moda, barba e
capelli molto corti forse scaturita da consuetudini militari.

Una volta ucciso il fratello Caracalla operò un cambio di immagine, il suo ritratto piu diffuso dell’epoca lo
mostra energico, collo piegato a sinistra per creare una somiglianza con Alessandro magno. Governò per
soli 6 anni, restaurò il Colosseo e costruì le terme antoniniane, allora il piu grande complesso di terme mai
eretto a roma, completate nel 235 d.C. Che comportò il distacco di un ramo dall’acquedotto Marcio e di una
nuova strada di accesso, la via Nova, l’impianto è celebre per la decorazione statuaria e i pavimenti
marmorei. Eresse un nuovo tempio a Serapide.
In seguito le donne della dinastia fecero pressioni sulle truppe in Siria affinché eleggessero al trono un
giovane cugino di caracalla spacciato per suo figlio naturale e dal nome marco Aurelio Antonino, a noi noto
come Eliogabalo. Durante il viaggio dalla Siria a roma volendo abituare il senato e il popolo si fece dipingere
in veste di sacerdote dell’omonimo dio siriano. Al culto del dio fu riservato un complesso in un angolo del
palatino e unito all’area dei palazzi imperiali, il tempio a serapide avrebbe posto sotto la tutela del dio
siriano le piu ancestrali divinità romane ma il progetto durò poco, dopo pochi anni il tempio fu ridedicato da
Severo Alessandro a Giove vendicatore.
Il regno di severo Alessandro fu breve, nel quale restuarò vari edifici pubblici. Il suo busto presenta
elementi molto seguiti nei decenni a venire, l’uso della toga contabulata, una pettinatura a ciocche
finemente incise a solchi e graffi e una barba cortissima.
Anche nella produzione di sarcofagi ci furono novità, i miti greci prediletti per la decorazione subirono una
battuta d’arresto e si rappresentarono i defunti in persona, prima direttamente calati nelle storie mitiche e
poi nei panni di magistrati o intellettuali.
Eliogabalo
Severo Alessandro

8.2 Gli anni dell’ <<anarchia militare>>


Severo Alessandro fu ucciso nel 235 d.C. Insieme alla madre dalle sue stesse truppe. I 50 anni che seguirono
sono detti di anarchia militare, si susseguirono 11 imperatori, comandanti militari ascesi al trono grazie al
sostegno dell’esercito e della guardia pretoriana. Eppure gli anni tra il 244 e il 268 vedono una caduta delle
frontiere dell’impero che fu sconfitto dai Goti e dai persiani. Alcuni degli imperatori soldato ebbero cariche
cosi brevi che non riuscirono neanche a mettere piede a roma, di conseguenza molto difficili furono i
rapporti con il senato. In questo secolo si vedono numerosi usurpatori eletti dalle proprie truppe regnare su
importanti province avvilendosi di organi di senato locali.
Massimino il trace (235-238) inaugurò i ritratti del secolo con una chioma a penna, volto con formule
realistiche dai tratti irregolari, accentuata ossatura, marcata contrazione dei muscoli, barba che invade il
collo, espressione poco serena di un uomo al potere in un momento di grande instabilità.
Sulla stessa linea si muove Traiano decio, volto dai tratti duri, espressione ansiosa, rughe e orbite infossate
che gli valgono l’etichetta di dolore morale.

Nel III secolo specie tra il 230-240 diventano popolari le rappresentazioni dei defunti come intellettuali sui
sarcofagi, intenti alla lettura, seduti su sgabelli o cattedre, per lo piu membri della classe senatoria smaniosi
di presentarsi come uomini dotti.

Sarcofago di Plotino
Anche sul sarcofago di Plotino del 280 d.C. Il protagonista forse di rango equestre indossa una tunica sotto
la toga drappeggiata come un mantello greco mentre srotola un rotolo in posizione di lettura circondato da
donne della famiglia in veste di muse e da filosofi.

Il cosiddetto sarcofago di Plotino è un sarcofago romano custodito ai Musei vaticani e risalente al periodo
tra il 260 e il 280.

Storia e descrizione
Sebbene la destinazione del sarcofago a ospitare le spoglie del filosofo neoplatonico Plotino sia del tutto
congetturale, il rilievo che adorna il fronte (alto 1,50 metri) è un interessante esempio del tema della
dissertazione filosofica sui sarcofagi, che si diffuse nella classe senatoria romana al posto dei sarcofagi con
scene di battaglia quando Gallieno privò i senatori dei comandi militari.

La fronte mostra il defunto su un trono impegnato in attività intellettuale e nell'atto di srotolare un rotulo di
papiro e con una capsa ai piedi. Due figure femminili ai suoi lati si atteggiano a Muse e tra quella di sinistra
e il defunto si vede una testa maschile in secondo piano a rilievo più schiacciato. Ai lati infine si vedono due
filosofi barbuti che guardano simmetricamente verso l'esterno; il sarcofago proseguiva in larghezza
probabilmente con altre figure, che non ci sono pervenute. Lo sfondo è costituito da un tendaggio
(parapetasma) e un'ambientazione architettonica nella parte mancante, come sembrano suggerire i resti di
un pilastro corinzio sulla destra. Il lato posteriore mostra una caccia al leone (tema molto in voga, di
ascendenza orientale) a basissimo rilievo e di qualità più scarsa.

L'esecuzione è tipica dell'arte nell'età di Gallieno, con un'impostazione classica ma molto attenta al disegno
ritmato, come si evince dalle linee dei panneggi e nel forte chiaroscuro di barbe e capelli. L'enfasi lineare
accentua anche la perdita del volume delle figure, con un risultato molto disegnativo, e le linee orizzontali
del drappeggio sullo sfondo appiattiscono lo spazio. Ciò è comunque in linea con il tema intelluttuale del
sarcofago, che lascia intendere una preferenza verso l'astrazione simbolica, piuttosto che nella
rappresentazione naturalistica, come propugnava anche la scuola neoplatonica diffusa corte e nei circoli
colti di Roma.

Sarcofago di balbino
Nel sarcofago dell’imperatore balbino i due sposi sono raffigurati sia sul coperchio sia sulla fronte, l’uomo
offre un sacrifici su un altare incoronato da una vittoria e affiancato da Marte, in compagnia della moglie
che ricorda venere. Lo schema iconografico è innovato dalla lorica squamata dell’uomo. La coppia torna
anche sul margine della cassa in un quadretto di nozze con la donna avvolta in un mantello e l’uomo in toga
nell’atto di stringersi le mani.

Il corpo del sarcofago presenta una tipica decorazione a fregio continuo, con un rilievo che mette in scena
diverse situazioni che hanno per protagonisti i due coniugi destinatari dell’opera. Mostrare lo stesso
personaggio coinvolto in attività differenti ha obiettivo di fornire un’immagine sfaccettata delle qualità, dei
valori e della condotta di vita dell’effigiato, rendendo il sarcofago molto simile ad una classica iscrizione
onoraria. Il sarcofago vuole dunque esaltare la vita e la posizione sociale dei suoi committenti: all’estremità
destra della fronte si colloca una scena di Dextrarum iunctio, momento conclusivo del rito nuziale, in cui la
donna, con il capo velato, stringe la destra al personaggio maschile, in tunica e toga sacerdotale. Il tutto si
svolge sotto gli occhi di Iuno Pronuba o della personificazione della Concordia, e di un più piccolo
personaggio maschile, forse Imeneo o i pueri matrinus et patrinus, rappresentanti dell'abitazione fisica.

Il fronte centrale
Al centro del rilievo i due coniugi sono rappresentati nel momento solenne di un’offerta sacrificale: l’uomo,
accompagnato da Marte e con abiti militari (lorica squamata, paludamentum, cinctorium e calcei), viene
incoronato dalla dea Vittoria con una corona d’alloro; la consorte, raffigurata nei panni di Venere e
accompagnata da un amorino con lo specchio tra le mani, tiene in mano un lungo scettro. Più a sinistra
presiedono all’evento la Virtus e la dea Fortuna con la cornucopia. Supponendo che nel personaggio
principale possa davvero essere riconosciuto l’imperatore Balbino, la sua incoronazione da parte della
divinità alata potrebbe fare riferimento alla vittoria ottenuta su Massimino il Trace, imperatore al potere tra
il 235 e il 238 d.C.

I fianchi
Sul fianco sinistro, scolpito a rilievo più basso, è rappresentato un piccolo corteo di accompagnatrici con
offerte e suppellettili, mentre su quello destro sono rappresentati un suonatore di flauto ed una danzatrice.

Il coperchio
La coppia di defunti ricorre una terza volta sul coperchio, con i due distesi come su di un letto tricliniare e
un’espressione dei volti più serena e meditativa.Tematiche
Al di là della possibile individuazione di riferimenti ai reali avvenimenti storici che precedettero la
realizzazione dell’opera, gli episodi scelti sono inseribili nella categoria definita da molti studiosi scene di
“vita humana”: una serie di esperienze reali, come il banchetto, il matrimonio, la magistratura, il viaggio su
carro, la vita militare e il sacrificio, che, alla pari del mito, possono andare a rivestire significati più profondi,
e che, volendo glorificare la vita e la posizione sociale dei defunti, hanno come requisito fondamentale un
ampio uso del ritratto. Il frequente uso del ritratto sui monumenti di carattere funerario risponde ad un
marcato cambiamento nel gusto dei committenti che a cominciare dall’età severiana e in particolare
attorno al decennio 220-230.

Sarcofago grande ludovisi


Uno dei sarcofagi piu celebri, il grande ludovisi, scoperto nel 1621 fuori porta tiburtina e databile al 260
d.C., in un unico blocco di marmo lungo 2,70 metri è decorato in fronte con un combattimento tra romani
e barbari, forse goti, un ammasso aggrovigliato di figure ne occupa la superficie su quattro piani
sovrapposti. Senza partecipare alla battaglia, al centro emerge un cavaliere senza elmo con una x sulla
fronte.
La cassa, tratta ad altorilievo, è decorata da una grandiosa scena di battaglia tra Romani e barbari (forse i
Daci, a giudicare dall'abbigliamento). La convulsa scena è organizzata su quattro piani: i due inferiori sono
occupati da barbari a cavallo o a piedi, feriti, morenti o morti; i due superiori da soldati o cavalieri romani
impegnati a finire gli avversari o a combattere i nemici residui.

La superficie è animata da un groviglio di figure, tra le quali non si riesce a cogliere un vero e proprio duello
(una "monomachia", come nel sarcofago Amendola), ma un accatastarsi di guerrieri, tra i quali spicca al
centro la figura dal condottiero a cavallo, con un braccio alzato che fa cenno alla travolgente avanzata che
proviene dall'angolo destro e che indirizza su di lui l'attenzione dell'osservatore. Il personaggio è ritratto in
maniera precisa, con la testa barbuta ed espressiva e con un segno di croce a "X" sulla fronte
(riconoscimento dell'iniziazione mitraica) che ha permesso di identificarlo con uno dei figli di Decio,
Ostiliano (morto di peste, del quale si conoscono altri due ritratti con lo stesso segno di iniziazione e con
tratti somatici simili) o più probabilmente il maggiore, Erennio Etrusco, che morì in battaglia insieme al
padre ad Abrittus contro i Goti di Cniva (nel 251).
Stile
L'opera è caratterizzata da una sapiente composizione che si avvale di linee orizzontali e verticali, che si
intersecano su tutto il campo, senza "agglomerati" e zone vuote. Inoltre il rilievo delle figure crea un
fittissimo chiaroscuro, con variazioni di effetti a seconda dei materiali scolpiti (panneggi, capigliature,
criniere, corazze e cotta di maglia del soldato all'estrema destra), con un frequente uso del trapano.

Negli anni dell’ anarchia il cristianesimo venne represso con feroci persecuzioni, alcuni editti di Decio,
Valeriano, Diocleziano, obbligavano gli abitanti a compiere sacrifici agli dei, pena la morte. Nonostante
questo il cristianesimo spopolò come religione salvifica e monoteista e portò all’adesione di migliaia di
adepti. Nella piccola pace tra le persecuzioni di Valeriano e quelle di diocleziano nelle officine si ricorse a
soggetti cristiani come il battesimo, il ciclo di giona. Nonostante il fermento religioso nessuno dei primi
imperatori soldato sembra interessato alla costruzione di nuovi edifici sacri. Gallieno governò alla morte del
padre Valeriano per un quindicennio (253-268), con una riforma annunciò la fine delle persecuzioni contro i
cristiani, assegnò a prefetti di rango equestre la guida dell’esercito sottraendola al senato. Gallieno fu
influenzato dal neoplatonismo, la concezione dell’anima di origine divina e destinata a sopravvivere al
corpo per andare nell’aldilà ha influenzato alcuni sarcofagi. Torna in parte il classicismo con la materia di
nuovo plastica e morbida, piani levigati come nel secondo tipo ritrattistico di Gallieno.

Sotto Aureliano fu costruita una nuova cinta muraria dal 271 al 279 d.C. Lunga 19 km e alta quasi 8 metri,
nel disegno di una stella a 7 punte inglobò edifici preesistenti come la piramide Cestia. Dopo le mura fu
ampliato il pomerio. Dopo la vittoria su Zenobia fece costruire un tempio dedicato al Sole nel 275 d.C. Dove
venivano conservati tesori di guerra e una statua in argento di Aureliano. Attorno all’edificio, i portici
custodivano botti di vino che veniva distribuito gratuitamente a cadenza periodica alla plebe per volere
dello stesso Aureliano.

8.3 Verso un nuovo ordine: Diocleziano e


l’età tetrarchica
Nel 286 d.C. Salì al trono un dalmata di nome Diocle, comandante di cavalleria acclamato dalle proprie
truppe e che cambiò il nome in diocleziano, fu lui che chiuse il cinquantennio dell’ anarchia militare. Divise
l’impero in due metà grazia all’associazione di Massimiano come cesare e poi augusto, poi in quattro parti
con l’aggiunta dei due cesari, Costanzo cloro e galerio. Moltiplicò le province che divennero 100 per essere
controllate meglio. L’Italia fu divisa in 12 province, sopra le province vi erano dodici diocesi , roma perse
centralità. I ritratti di augusti e cesari si somigliano a coppie senza essere identici, espressione di un
governo congiunto. La prima tetrarchia è rappresentata con grandi occhi spalancati, pieghe nasolabiali
marcate e corte barbe delimitate sulle guance. Tutti i regnanti erano uomini maturi senza legami di sangue,
rappresentarli abbracciati fu pertanto una novità per l’arte statale a esprimere concordia nel governo. Una
colonna in porfido fu scolpita con coppie di tetrarchi che si abbracciano, da costantinopoli, forse dal
Philadelphion, le figure indossano la lorica e mantello e afferrano con una mano una spada con manico a
forma di testa d’aquila mentre con l’altra si abbracciano. Da poco è stato scoperto a Venezia nel chiostro di
S. Apollonia un frammento del fusto della stessa colonna (forse dopo il 305 d.C.).

Gruppo dei tetrarchi


Il monumento ai Tetrarchi è un doppio gruppo statuario in porfido rosso egiziano, costituito da quattro
figure in altorilievo, collocate all'angolo del tesoro di San Marco, nell'omonima piazza a Venezia. L'altezza
delle figure è di 1 metro e 36 cm.

Le figure ad altorilievo, l'anziano e il giovane, si abbracciano a due a due, simboleggiando così la concordia e
la fraternitas tra gli Augusti (Diocleziano e Massimiano) e i Cesari (Galerio e Costanzo Cloro), che doveva
garantire la successione nell'Impero dopo i tumultuosi scontri seguiti alla morte degli imperatori durante
l'ultimo secolo.

Le quattro figure di imperatore hanno lo stesso abito-corazza, in un atteggiamento rigido e impassibile che
ricorda le divinità orientali, come la triade palmirena di Baalshamin. Sono caratterizzate dal copricapo
pannonico, dal paludamentum e dalla corazza (lorìca) coi baltei gemmati; le corazze erano anticamente
abbellite da foglie d'oro; gli imperatori impugnano saldamente una spada riccamente adorna, la cui elsa è a
forma di testa d'aquila, secondo un modello probabilmente di origine sasanide. Nelle due coppie
l'imperatore che poggia la mano destra sulla spalla sinistra dell'altro è barbato, a voler probabilmente
segnalare l'età più anziana dell'Augusto rispetto ai Cesari. Le teste sono simili, con gli occhi scolpiti e
copricapi piatti che al centro ospitavano gemme o paste vitree; esse presentano comunque alcuni tratti di
individuazione fisiognomica, ma nonostante ciò non è possibile identificare con certezza quale figura
appartenga all'uno o all'altro tetrarca per la scarsità di confronti e l'astrattezza della rappresentazione.
Inoltre erano rappresentati come dei buoni amministratori.

Stile
L'opera viene attribuita a maestranze egiziane, anche per la loro specializzazione nel trattare la durissima
pietra del porfido, proveniente dalle cave del Mons Porphyreticus in Egitto[7]. Il gruppo è considerato, oltre
che il simbolo della tetrarchia stessa, un capolavoro della scultura tardoantica, dove sono evidenti le
caratteristiche di essenzialità, simbolismo e pittoricismo di quest'epoca di "rottura" nella tradizione
artistica, priva ormai quasi del tutto di richiami allo stile ellenistico. Altra tesi ritiene lo stile classico
sublimato in una corrente formale che riesce ad unire tre elementi culturali differenti: greco-romano,
barbaro-celtico e persiano-sasanide, ciò renderebbe il monumento non solo un simbolo di atemporalità e
profonda mistica del potere, ma anche un collante visivo e culturale fra oriente ed occidente, in un quadro
di solidificazione ideale dell'impero universale di Roma[8].

Nonostante la stilizzazione sia ben avanzata, le forme non arrivano a essere troppo essenziali, spoglie, e
mantengono un ricco volume. La loro fissità, l'assenza di dettagli immediati e veristici rendono l'insieme
particolarmente adatto a simboleggiare l'eternità e la solidità del nuovo assetto imperiale che la tetrarchia
si proponeva.

Nonostante la perdita di centralità di roma diocleziano fece interventi notevoli. Costruì un nuovo impianto
termale, il piu fastoso del modo romano che si estendevano tra Viminale e Quirinale, iniziato nel 296 d.C.
Fu completato nel 306d.C. E l’iscrizione di dedica nomina diocleziano e Massimiano. Risistemò l’area
centrale del foro romano. Per la decorazione dell’arcus novus furono usati frammenti di monumenti claudi
con adattamenti nei ritratti dei tetrarchi rilavorando barbe e capelli e l’aggiunta dell’iscrizione dei
decennalia forse compiuta dagli augusti. Sui piedistalli figurati da destra a sinistra creati ex novo per l’arco
oltre a vittorie e prigionieri barbari vi è la presenza dei Castori. Nel 303 d.C. Diocleziano emanò un editto
che fu l’ultima grande persecizione contro i cristiani che potevano essere messi a morte e torturati mentre
si procedette alla distruzione di chiese. Nel 305 d.C. Diocleziano decise di abdicare e scelse Spalato in
Dalmazia come sede del suo palazzo.

PALAZZO DI DIOCLEZIANO
Si tratta di un imponente complesso architettonico fatto edificare dall'imperatore Diocleziano, molto
probabilmente fra il 293 ed il 305 d.C., allo scopo di farne la propria dimora.
Dopo aver riformato l'Impero romano, con l'entrata in vigore del sistema della tetrarchia, Diocleziano si
ritirò a vita privata nel palazzo appositamente fattosi costruire dopo dieci anni dalla sua elezione come
Imperatore. Vi visse dal 305 fino alla morte, avvenuta nel 313.

Nel 614 gli Avari e gli Slavi distrussero la città romana di Salona, a pochi chilometri dal palazzo di
Diocleziano, ed iniziò il declino della città, quando gli abitanti si trasferirono nel palazzo fortificato.

Il palazzo, una sorta di grande villa fortificata, si presentava come una struttura autonoma, cittadella
dedicata alla figura sacra dell'imperatore, per il quale esisteva già un mausoleo, destinata quindi ad
ospitarlo in eterno.

Strutturata con la pianta tipica degli accampamenti militari romani: due strade perpendicolari, il cardo ed il
decumanus, che si intersecano e dalle quali si dipartono numerose vie trasversali perpendicolari a
scacchiera, aveva una forma leggermente trapezoidale (il lato sud era leggermente irregolare per il declivio
del terreno verso il mare), con un lato affacciato sul mare e quattro poderose torri quadrate agli angoli e il
numero di colonne sono 50.

In origine, la sua cinta muraria in opus quadratum, alta 18 m e spessa 2 m, misurava 215,50 m per 175–181
m. In queste mura si aprono tuttora vari torrioni quadrati e quattro porte, affiancate da torri a base
ottagonale: la Porta Aurea (a nord), la Porta Argentea (ad est), la Porta Ferrea (ad ovest) e la Porta Aenea o
bronzea, sul mare a sud. Le poderose mura furono una sorta di novità rispetto alle ville romane dei secoli
precedenti e si resero necessarie per via degli eventi turbolenti della storia romana dell'epoca.
La Porta Aurea è inquadrata da edicolette pensili e sormontata da archetti su colonnine pensili (oggi delle
colonne restano solo le mensole di base e i capitelli). Le altre due porte (Argentea e Ferrea) hanno
decorazione più semplice. Ciascuna era dotata di controporta e cortile d'armi. Da qui partivano le vie
colonnate che dividevano il complesso in quattro riquadri principali: i due a nord ospitavano caserme,
servizi e giardini (poco conosciuti, organizzati su peristili centrali e con file di stanzette lungo le mura),
mentre la parte meridionale, ove si sono conservate più consistenti vestigia monumentali, ospitava il
quartiere imperiale.

Dalla prosecuzione colonnata della strada nord-sud si poteva giungere al portico detto "peristilio", con
quattro colonne sostenenti un archivolto a serliana. Attraverso il peristilio verso sud si accedeva a un vano a
base circolare coperto da cupola e poi ad un vano rettangolare con colonne che faceva da vestibolo
d'accesso agli appartamenti privati dell'imperatore, disposti sul lato lungo il mare, sul quale si affacciavano
con un loggiato a semicolonne che inquadravano gli archi; alle estremità e al centro si trovavano tre
serliane.

Il peristilio è uno degli ambienti meglio conservati tutt'oggi, e pare che avesse la funzione di scenografia per
le cerimonie ufficiali alle quali partecipava come protagonista l'imperatore. Dal peristilio infatti si accedeva
ad est e ad ovest ad ambienti di culto:

A ovest erano presenti due edifici rotondi, di uso sconosciuto, ed un tempio tetrastilo probabilmente
dedicato a Giove, del quale restano ancora oggi delle rovine, poi trasformato in battistero (il pronao è però
perduto);
A est si ergeva l'edificio a base ottagonale del mausoleo imperiale (tomba di eccezionale monumentalità
destinata all'imperatore), cinto da una serie di colonne (peristasi) e coperto a cupola, all'esterno protetta da
un tetto piramidale; in seguito il mausoleo venne trasformato in cattedrale, permettendone la
sopravvivenza.
L'appartamento privato era diviso in due metà simmetriche, divise dalla prosecuzione sotterranea della via
colonnata. Si conoscono nella parte occidentale le sostruzioni verso il mare e una basilica privata, affiancata
da una doppia fila di stanze a pianta centrale, oltre a un complesso termale. La metà orientale del palazzo è
conosciuta in maniera scarsa e lacunosa.
La villa, come alcuni altri esempi tardo-imperiali, è costruita a modello di un castrum, con le mura di cinta e
i torrioni, ma fece da ispirazione anche il complesso dei palazzi imperiali del Palatino.

L'edificio è l'antecedente più vicino ai castelli medievali, ma anche ai monasteri fortificati, con il peristilio
che funge da centro. Si ipotizza inoltre che la struttura ottagonale della cattedrale-mausoleo abbia
costituito un modello per la tipologia del battistero.

La tetrarchia però non era destinata a durare, dopo la morte di Costanzo Cloro nel 306 d.C. Si aprì il
problema della successione che Costantino e Massenzio(figli illegittimi di Costanzo cloro e Massimiano )
vollero reimpostare su base dinastica. Dopo 20 anni di guerre civili solo nel 324 d.C. Costantino ottenne la
supremazia e fu proclamato unico imperatore.

9.0 Introduzione
Col termine tardoantico si indica un periodo che si distingue dalla precedente ma anche dal successivo
medioevo. A seconda dei punti di vista degli studiosi si identifica con il trionfo del cristianesimo
nell’impero, lo sviluppo della burocrazia articolata, l’affermazione della cittadinanza universale,
l’affermazione del libro in forma di codice. La storiografia contemporanea fa coincidere il tardoantico con
l’età di Commodo e dei severi e prolunga la durata fino all’età di Maometto e Carlo magno fino al secolo X.
Per altri invece il tardoantico termina con l’invasione longobarda nel 568 d.C. Per l’occidente e con le
invasioni slave per l’oriente. Il tardoantico fu un periodo di continuità e trasformazioni delle strutture
politiche, sociali, amministrative,economiche e religiose. Un periodo in cui non sempre nell’arte tra mosaici
e statuaria era possibili svelare le appartenenze religiose dei fruitori.

9.1 Paesaggi urbani e suburbani


Dopo il programma di restauri e risistemazioni della piazza del foro voluti da Diocleziano per ridare
centralità a roma, Massenzio, acclamato imperatore a roma ma dichiarato usurpatore, continuò l’opera dei
predecessori per rivitalizzare una città che vedeva invece il trasferimento del potere in altre sedi imperiali.
Nel suo breve regno (306-312 d.C.) ricostruì il tempio di venere a roma con due celle absidate e fece
costruire la Basilica Nova, il tempio di Romolo sulla sacra via e le terme. A Massenzio si è collegato un
corredo di insegne imperiali sepolte e mai piu recuperate trovate alle pendici del palatino e formato da 3
scettri e 8 punte di lancia, realizzate in materiali preziosi. Costantino dopo averlo battuto a Ponte Milvio nel
312 d.C. Appose il proprio nome alle opere incompiute di Massenzio modificandone alcune, come la
colossale statua dentro la basilica nova (poi basilica Constantini)
Nell’architettura romana con Costantino abbiamo un alleggerimento delle masse murarie, ornamento con
mosaici, finestre piu grandi per avere piu luce. Incessante fu l’attività edilizia per la religione cristiana,
riconosciuta dall’Editto di Milano nel 313 d.C. E divenuta religione di stato a partire dall’imperatore
Teodorico I (379-395 d.C). La città era disseminata di tituli, ossia chiese parrocchiali urbane che prendono il
nome dai fondatori, costruite fino al V secolo d.C. Con un adattamento a chiesa di aule di rappresentanza,
spesso un triclinio absidato.
Fra le costruzioni imperiali, la basilica cristiana di S.Giovanni in Laterano, dedicata al Salvatore e costruita ex
novo tra il 312 e il 324 d.C. Da Costantino sul luogo dei castra nova degli equites demoliti per la loro fedeltà
a Massenzio. Le 5 navate richiamano il modello della basilica Ulpia, ma abbiamo numerose innovazioni
come l’enfasi posta all’abside di fondo, capitelli e colonne in granito rosso e verde antico, intarsi marmorei,
soffitto dorato e arredi liturgici dotati dall’imperatore tra cui 7 altari d’argento e un fastigio con l’aspetto di
un’architettura trionfale con cristo e i dodici apostoli sorretto da 4 colonne in bronzo dorato.

Costantino fece ereggere i grandi martyria, edifici di culto dedicati ai martiri, il piu grandioso è la basilica di
S. Pietro in vaticano completata nel 333 d.C. Sul luogo della sepoltura dell’apostolo. Anche questa era a 5
navate ma in aggiunta tra queste e l’abside vi era un’aula trasversale, il transetto, destinata ad accogliere
un monumento parallelepipedo realizzato sulla tomba di Pietro. I corredi decorativi originali sono perduti,
come il baldacchino a quattro colonne per cui furono riutilizzate sei colonne marmoree del II secolo
dall’Asia minore.
Accanto alle basiliche si diffuse anche un tipo noto come <<circiforme>> o a <<deambulatorio>> con una
planimetria uniformata a quella del circo in cui le navate avviluppano l’abside creando un ambulatorio
continuo. Vi erano infine anche basiliche funerarie lungo le vie consolari che formavano ampi cimiteri
comunitari coperti come S.Sebastiano sulla via Appia.
BASILICA DI MASSENZIO
La basilica di Massenzio, più propriamente di Costantino, è l'ultima e la più grande basilica civile del centro
monumentale di Roma, posta anticamente sul colle della Velia, che raccordava il Palatino con l'Esquilino.
Non fa parte del Foro Romano propriamente detto (pur rientrando oggi nell'area archeologica che lo
comprende, estesa fino alle pendici della Velia), ma era nelle immediate adiacenze di esso.
Nelle fonti antiche la basilica è ricordata come Basilica Nova[1], o Basilica Constantini[2], o Basilica
Constantiniana.

La basilica fu iniziata da Massenzio agli inizi del IV secolo (308-312), ma fu portata a termine con alcune
modifiche progettuali dal suo vittorioso rivale Costantino[4] in prossimità del tempio della Pace, già
probabilmente in abbandono, e del tempio di Venere e Roma, la cui ricostruzione fece parte degli interventi
massenziani. La sua funzione era prevalentemente di ospitare l'attività giudiziaria di pertinenza del
praefectus urbi.

Lo schema costruttivo del gigantesco edificio (100 x 65 m), di cui resta oggi soltanto il lato settentrionale,
presentava una navata centrale più larga e più alta (di base 80 x 25 m). Sulla navata centrale si aprivano,
invece che le tradizionali navate minori, separate da quella centrale tramite file di colonne, tre grandi
nicchie per lato, coperti da volta a botte con lacunari ottagonali ancora ben visibili nella parte superstite. Gli
ambienti erano collegati tra loro da piccole aperture ad arco.

La navata centrale era coperta da tre enormi volte a crociera in opus caementicium, alte circa 35 m che
poggiavano sui setti murari trasversali che separavano gli ambienti laterali e sulle colonne di marmo
proconnesio alte 14,5 m, ciascuna addossata alla loro terminazione. Le colonne sono tutte scomparse:
l'unica che ancora si conservava nel XVII secolo fu fatta collocare da papa Paolo V in piazza di Santa Maria
Maggiore nel 1613, dove tuttora si trova. Sorreggevano una trabeazione marmorea, di cui restano resti dei
blocchi parzialmente inseriti nella muratura. Le dimensioni e il sistema costruttivo degli spazi interni sono
del tutto compatibili con quelli delle grandi sale delle terme, che venivano di fatto chiamate pure
"basiliche". L'esempio più illuminante è la sala delle terme di Diocleziano, trasformata poi nella basilica di
Santa Maria degli Angeli.
Sul lato corto occidentale, alla testata della navata centrale si apriva un'abside preceduta da due colonne.
Nell'abside fu collocata la statua colossale di Costantino I, acrolito costruito parte in marmo e parte in
legname e bronzo dorato, alto 12 m. Alcune parti marmoree superstiti furono scoperte nel 1487 e sono ora
nel cortile del palazzo dei Conservatori sul Campidoglio (Musei capitolini). La sola testa misura 2,60 m e il
piede 2 m.

L'impianto originario subì in seguito alcune modifiche, tra cui l'apertura di un secondo ingresso sul lato
meridionale, lungo la via Sacra, scoperto in scavi ottocenteschi. Questo secondo ingresso era costituito da
un portico tetrastilo con fusti in porfido, al quale si accedeva con una scalinata, costruita per superare il
dislivello tra la via e la Velia.

L'edificio era dotato anche di numerosi collegamenti verticali: all'interno della muratura all'angolo nord-
occidentale era inserita una scala a chiocciola, di cui oggi restano cinque gradini; un'altra doveva trovarsi
nell'opposto angolo sud-orientale.
La Basilica rappresenta uno snodo nella storia dell’architettura, costituendo un traguardo per la costruzione
romana e uno dei punti di riferimento per quella successiva. Tra Quattro e Cinquecento, il monumento è
assunto tra i riferimenti progettuali di alcuni degli episodi architettonici, in maggioranza ecclesiastici, più
cruciali nel panorama architettonico, come, ad esempio, Sant’Andrea a Mantova, i progetti per San Pietro,
San Nicolò di Carpi, o le chiese palladiane.
A costantinopoli fece costruire l’Apostoleion, un edificio scomparso dedicato ai dodici apostoli e l ‘ heroon-
martyrion in cui furono deposte le sue spoglie. Con un incremento dal III secolo d.C. Erano ricomparsi i
sepolcri collettivi di tipo ipogeo a corridoio con loculi alle pareti, le catacombe, termine usato per
distinguere i grandi cimiteri cristiani ma che a volte inglobavano pure quelli pagani almeno fino al IV secolo
d.C. Decorate con lo <<stile lineare>> rosso-verde, temi degli affreschi con immagini bibliche, scene di
banchetto e riferimento alle professioni dei defunti. Le Domus del tempo sono prive di peristili e dotate
quando lussuose, di cortiletti e portici con fontane e ninfei, anche di terme negli edifici piu grandi. Si
moltiplicarono le strutture absidate come nella Domus di Amore e Psiche, impianta in un precedente
edificio laterizio a tabernae che si munì di un cortile-giardino con fontana e di una grande sala di
ricevimento. Nei secoli IV-V d.C. Roma mantenne l’autorità simbolica di centro dell’impero nonostante la
perdita di ruolo politico attivo. Il foro romano rimase vitale cosi come le terme, il Colosseo e altri edifici.
Anche i templi nonostante i divieti di culto pagano mantennero struttura e decorazioni perche considerate
dalla legge imperiale opere pubbliche da preservare. Nel 403 furono restaurate le mura Aureliane, ma a
seguito di saccheggi, terremoti e assedi roma aveva perso la sua invincibilità. I monumenti subirono danni e
nonostante furono inizialmente restaurati, dal secolo V si nota l’abbandono di alcuni di essi tanto da
apparire sepolture in aree urbane che invadevano settori pubblici, fori,terme. Quando nel VI secolo il re
degli Ostrogoti Teodorico occupò roma pacificamente pur risiedendo a ravenna volle preservare le
tradizionali strutture romane, restaurando opere segno di un passato ormai lontano. Nel 547 roma fu
conquistata dal re goto Totila che voleva renderla un pascolo di pecore, allora il generale Belisario su ordine
dell’imperatore giustiniano gli spedì una lettera dicendo quale oltraggio sarebbe stato e quale delitto
privare gli uomini di ogni tempo di una città costruita dai romani per secoli, avrebbe tolto a quelli del
passato la memoria del loro ingegno e a quelli del futuro la vista di quei capolavori. Fu cosi che Totila
cambiò idea e non danneggiò roma.

ARCO DI COSTANTINO
L'arco di Costantino è un arco trionfale a tre fornici (con un passaggio centrale affiancato da due passaggi
laterali più piccoli), situato a Roma, a breve distanza dal Colosseo. L'Arco può essere considerato come un
vero e proprio museo di scultura romana ufficiale, straordinario per ricchezza e importanza. Le dimensioni
generali del prospetto sono di 21 m di altezza, 25,9 metri di larghezza e 7,4 m di profondità.

L'arco fu dedicato dal senato per commemorare la vittoria di Costantino I contro Massenzio nella battaglia
di Ponte Milvio (28 ottobre 312) e inaugurato nel 315 in occasione dei decennalia (dieci anni di regno)
dell'imperatore;[2] la collocazione, tra il Palatino e il Celio, era sull'antico percorso dei trionfi.

L'arco è uno dei tre archi trionfali sopravvissuti a Roma: gli altri due sono l'arco di Tito (81–90 circa) e l'arco
di Settimio Severo (202–203).
L'arco è costruito in opera quadrata di marmo nei piloni, mentre l'attico, che ospita uno spazio accessibile,
è realizzato in muratura e in cementizio rivestita all'esterno di blocchi marmorei. Sono stati utilizzati
indifferentemente marmi bianchi di diverse qualità, reimpiegati da monumenti più antichi, e sono stati
riutilizzati anche buona parte degli elementi architettonici e delle sculture della sua decorazione. L'arco
misura 21 metri di altezza (con l'attico), 25,70 di larghezza e 7,40 di profondità. Il fornice centrale è largo
6,50 metri e alto 11,45.
La struttura architettonica riprende molto da vicino quella dell'arco di Settimio Severo nel Foro Romano,
con i tre fornici inquadrati da colonne sporgenti su alti plinti; anche alcuni temi decorativi, come le Vittorie
dei pennacchi del fornice centrale, sono ripresi dal medesimo modello.

La cornice dell'ordine principale è costituita da elementi rettilinei di reimpiego (datati all'età antonina o
primo-severiana), integrati da copie costantiniane per gli elementi sporgenti sopra le colonne, più
accuratamente scolpiti sulla fronte che sui fianchi. Ancora di reimpiego sono i capitelli corinzi (sempre di
epoca antonina), i fusti rudentati in marmo giallo antico e le basi delle colonne (capitelli e basi delle
retrostanti lesene sono invece copie costantiniane, mentre i fusti delle lesene, probabilmente di reimpiego,
sono stati quasi tutti sostituiti nei restauri settecenteschi). Di epoca domizianea, ma con rilavorazioni
successive, è anche il coronamento di imposta del fornice centrale.

Di epoca costantiniana sono invece gli archivolti del fornice centrale e gli elementi lisci (coronamenti e
zoccoli, fregio, architrave e basi dell'ordine principale, archivolti e coronamenti di imposta dei fornici
laterali), che presentano spesso modanature semplificate e con andamento non precisamente allineato.
Lo schema decorativo dei rilievi si può riassumere in breve così (per gli approfondimenti si rimanda ai
paragrafi successivi):

Nella parte più alta (l'"attico") al centro dei lati maggiori compare un'ampia iscrizione, affiancata da coppie
di rilievi dell'epoca di Marco Aurelio, mentre sui lati minori sono collocate lastre pertinenti ad un fregio di
epoca traianea (di cui altre lastre si trovano nel passaggio del fornice maggiore). In corrispondenza delle
sottostanti colonne sono presenti sculture a tutto tondo dei Daci, in marmo pavonazzetto, sempre di età
traianea.
Al livello inferiore, sui lati principali, sopra i due fornici minori, sono collocate coppie di tondi risalenti
all'epoca di Adriano, un tempo incorniciati da lastre di porfido. Sui lati minori allo stesso livello la serie dei
tondi adrianei è completata con altri due tondi realizzati in epoca costantiniana.
Al di sotto dei tondi, è presente un lungo fregio a bassorilievo, scolpito sui blocchi in epoca costantiniana,
che prosegue sia sui lati lunghi che su quelli corti.
Altri bassorilievi si trovano al di sopra degli archi (Vittorie e Fiumi) e sui plinti delle colonne.
I rilievi riutilizzati richiamano le figure dei "buoni imperatori" del II secolo (Traiano, Adriano e Marco
Aurelio), a cui viene così assimilata la figura di Costantino a fini propagandistici: all'imperatore, impegnato a
stabilire la legittimità della sua successione di fronte allo sconfitto Massenzio (tetrarca al pari di
Costantino). Massenzio era stato dopotutto ben voluto a Roma, perché aveva esercitato il suo potere
proprio dall'antica capitale, per questo Costantino si propose ideologicamente come il ripristinatore
dell'epoca felice del II secolo d.C.

L'uso di materiale di recupero di monumenti antichi, che divenne abituale a partire proprio da questi anni, è
probabile che fosse dettato, almeno nella scelta di cosa apporre sull'arco, secondo valori più simbolici che
pratici: si presero "citazioni" degli altri imperatori molto amati, le cui teste vennero rilavorate per dare loro
le sembianze di Costantino, che si proponeva quindi come loro diretto erede. Nello scolpire le nuove teste
(oggi in gran parte sostituite nei restauri settecenteschi, con alcune lacune come nei pannelli aureliani)
alcune vennero dotate del nimbus (l'antenato dell'aureola), come mostrano alcune tracce superstiti, a
simboleggiare l'enfasi posta sulla maiestas imperiale (più tardi sarebbe diventato un simbolo di santità
cristiana). Può darsi che nei quattro tondi adrianei con scene di sacrificio le teste raffigurassero anche
Licinio o Costanzo Cloro[4].

I rilievi si dispongono, insieme a quelli appositamente eseguiti all'epoca, in modo simmetrico sulle due
facciate (nord e sud) e sui due lati corti (est ed ovest) dell'arco. Come tipico negli archi romani decorati da
rilievi, sulla facciata esterna (a sud) prevalgono scene di guerra, mentre sulla facciata interna (a nord),
rivolta verso la città, scene di pace.
Sull'arco sono reimpiegate in tutto otto lastre di un unico grande fregio di circa 3 m di altezza con scene di
battaglia, in marmo pentelico (greco): coppie di lastre contigue compongono i quattro pannelli a rilievo,
collocati sulle pareti laterali del fornice centrale e sui lati corti dell'attico. Il fregio raffigurava le gesta
dell'imperatore Traiano durante le campagne di conquista della Dacia (102-107) e forse proveniva dal Foro
di Traiano.

Il fregio doveva essere completato da altre lastre in parte perdute in parte individuate da frammenti al
Louvre, all'Antiquarium Forense e al Museo Borghese: la ricostruzione della sua lunghezza complessiva e
l'individuazione della sua originaria collocazione sono tuttora discusse. Le teste dell'imperatore nelle lastre
reimpiegate sull'arco sono state tutte rilavorate come ritratti di Costantino. Calchi delle lastre sono
ricomposti nella loro originaria unità nel Museo della Civiltà Romana a Roma.
Sempre dal Foro di Traiano provengono le otto statue di prigionieri Daci in marmo pavonazzetto collocate
su basamenti in marmo cipollino come decorazione dell'attico (testa e mani delle sculture e una delle figure
per intero, in marmo bianco, sono dovute al restauro eseguito nel 1742 dallo scultore Pietro Bracci).
Otto rilievi circolari dell'epoca dell'imperatore Adriano di oltre 2 m di altezza sono collocati al di sopra dei
fornici laterali, sulle due facciate, inseriti a due a due in un campo rettangolare che in origine era ricoperto
da lastre di porfido. La ragione dell'attribuzione all'epoca adrianea è essenzialmente legata, oltre che per
fattori stilistici e nella scelta delle scene, alla presenza (almeno tre volte) della ben nota figura di Antinoo, il
ragazzo amato da Adriano.

La cronologia dell'opera è fissata tra il 130 e il 138[7].


Affiancano l'imperatore nelle scene due o tre personaggi, a cavallo in due dei rilievi di caccia, e a piedi negli
altri. Le composizioni sono attentamente studiate attorno alla figura imperiale e gli sfondi sono essenziali,
secondo le convenzioni dell'arte ellenistica (fronde di alberi, un arco che simboleggia la partenza, ecc.).
L'esecuzione è molto fine, come testimoniano i panneggi, le teste e la cura dei dettagli. Totalmente assente
è l'enfasi e la partecipazione narrativa del fregio traianeo, risolta qui in una misurata compostezza. Il tema
della caccia, che proprio Adriano riportò in voga, è connesso all'esaltazione eroica del sovrano secondo uno
schema risalente a Alessandro Magno e tipico delle antiche civiltà orientali. Più incerto è il motivo della
presenza dei quattro sacrifici campestri.

Le scene sono di tipo onorario, non trionfale, in quanto il Senato non stabilì il trionfo per l'imperatore al
ritorno delle campagne del 171-172; dall'analisi delle scene trattate i rilievi sono databili al 173 e si
spingono a descrivere eventi futuri, immaginati dai senatori, come la scena della Liberitas, che di fatto non
ebbe luogo.

Sono di restauro nei rilievi le otto teste dell'imperatore (Costantino), e altre teste mancanti dei personaggi,
eseguite nel 1742 dallo scultore Pietro Bracci.

Sono tutte, queste, caratteristiche dell'arte tardoantica, che anticipa le realizzazioni dell'arte medioevale e a
sua volta era in parte stata anticipata dalla corrente artistica "plebea" e "provinciale" che si intreccia con
l'arte ufficiale lungo tutta l'evoluzione dell'arte romana: in questo periodo storico questa forma di arte
giunge a Roma, perché la stessa classe dirigente (proprietari terrieri, ricchi mercanti ed ufficiali), compresi
gli stessi imperatori proviene dalle province.

L'allontanamento dalle ricerche naturalistiche dell'arte greca portava d'altro canto una lettura più
immediata ed una più facile interpretazione delle immagini. Per lungo tempo questo tipo di produzione
artistica venne vista come chiaro esempio di decadenza, anche se oggi studi più ad ampio raggio hanno
dimostrato come queste tendenze non fossero delle novità, ma fossero invece già presenti da secoli nei
territori delle province e che il loro emergere nell'arte ufficiale fu il rovescio di un processo di irradiazione
artistica dal centro verso la periferia con l'inevitabile ritorno anche in senso opposto delle tendenze dalle
periferie al centro (verificatorsi anche in altre epoche storiche).

Villa romana del casale di piazza armerina


La Villa è il centro di un importante latifondo, con funzione amministrativa, residenziale e di
rappresentanza. I suoi oltre 3000 metri quadri di mosaico rispondono ad un preciso programma sia di
rappresentanza, sia indicativo della cultura del padrone di casa. L’identificazione del proprietario della Villa
non è, ad oggi, certa; secondo i più recenti studi, è attribuita ad un alto esponente dell’aristocrazia
senatoria romana, forse un Praefectus Urbi (un responsabile dell’ordine pubblico della città di Roma).
DESCRIZIONE
La residenza tardo antica è costruita su diversi livelli e suddivisa in quattro grandi aree:
1. Ricevimento ufficiale;
2. Amministrazione, sale da banchetto non ufficiali, aule di culto;
3. Unità abitative con locali di servizio collegati;
4. Aree di passaggio e di servizio.
L’alto profilo del suo committente viene celebrato, in modo eloquente, attraverso un programma
iconografico, stilisticamente influenzato dall’arte dei mosaicisti africani che sono stati chiamati a realizzarlo
e che si dispiega, con ricchezza compositiva, in una moltitudine di ambienti a carattere pubblico e privato.
L’attuale impianto, la cui edificazione è riferibile alla prima metà del IV secolo d.C., con ampliamenti dopo il
terremoto del 361-363, sorge al di sopra di una precedente villa, datata tra la fine del I secolo ed il III secolo
d.C.

Nel corso del V e VI sec. d.C. le strutture della Villa si adattarono a finalità difensive in un preciso
programma di fortificazione rilevato, durante le campagne di scavo, dall’ispessimento in più parti dei muri
perimetrali e dalla chiusura delle arcate superstiti dell’acquedotto collegato alle terme. Si determinò, così,
un iniziale processo di abbandono e di trasformazioni funzionali delle stanze che vennero rioccupate, nei
secoli successivi, da nuove strutture abitative sovrapposte allo strato di distruzione dei muri preesistenti o
al di fuori del perimetro dell’edificio tardo imperiale. Il successivo insediamento medievale, durante la
dominazione islamica, prese il nome di ”Palàtia”, Blàtea o Iblâtasah, così definito da Ibn Idrisi, geografo
arabo del XII sec., fino ad assumere la denominazione di Plàtia.

L’abitato, da considerare tra i più estesi e articolati della Sicilia centro-meridionale, fu distrutto nel 1161,
durante il Regno di Guglielmo I. Nel 1163, venne fondata una nuova città fortificata, nell’attuale sede di
Piazza Armerina, popolata da coloni Lombardi giunti in Sicilia a seguito dei Normanni. La persistenza di
realtà insediative nella zona appartenente al sito, in cui sorgeva la Villa romana, fu rilevata, ancora, nel XV
secolo, con la presenza di un piccolo gruppo di case, conosciute con il nome di Antico Casale dei Saraceni,
da cui ha tratto il nome.

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