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Jean-Pierre Caillet:

L’arredo dell’altare

La legittimazione del cristianesimo in “religio licita”, sancita dall’Editto di Milano, dell’imperatore


Costantino nel 313, decretò l’assoluta libertà di culto all’interno dell’impero. Al riconoscimento ufficiale
della religione, alla protezione imperiale dimostrata con privilegi e donazioni di straordinaria religiosità,
all’integrazione dei vertici ecclesiastici nell’amministrazione dell’impero, fa da pendant una portentosa
attività edilizia, dispiegata tra Roma, Treviri, Costantinopoli e Gerusalemme che detta modi e forme
dell’architettura ecclesiastica successiva.

L’oggetto del saggio è l’arredo dell’altare e la sua evoluzione nel corso della storia, per cui non
affronteremo l’architettura chiesastica, bensì la suppellettile posta a decorazione del punto focale
dell’ecclesia, ossia l’altare. Tutto questo dal 313 in poi, quando si assistette all’arricchimento della liturgia,
le funzioni si fecero regali e solenni che trovano la sua sintesi nell’altare, posto al centro della navata.
Costantino, quindi, provvide agli arredi necessari all’uso cultuale. Il Liber Pontificalis, raccolta diacronica di
biografie dei pontefici a partire da San Pietro, della Chiesa di Roma menziona gli altari e recipienti
assimilabili a calici e patene adibiti alla celebrazione eucaristica. L’impiego del materiale prezioso non era
circoscritto ai soli oggetti liturgici, ma riguardava anche il rivestimento della mensa e dell’elemento verticale
su cui si poggiava. La medesima fonte riporta anche altri elementi, non investiti da un valore sacrale, ma
utili per lo svolgimento della funzione religiosa: così i candelabri, che diffondono luce, connotata in maniera
fortemente simbolica. Nel punto focale dell’edificio si dispone il ciborio, a protezione dell’altare: esempio
senza precedenti è il Baldacchino a colonne tortili che Costantino fece allestire in San Pietro, il cui aspetto ci
viene restituito dalla rappresentazione della “capsella eburnea di Samagher”, lipsanoteca – ossia
cofanetto- in avorio con rinforzi angolari e accessori in argento, probabilmente di manifattura romana.

Nei primi decenni del IV secolo sono già posti elementi fondamentali:

1- La stretta associazione all’altare di ciò che in seguito che sarà denominato vasa sacra (che
accolgono le specie del corpo e del sangue del Salvatore).
2- L’aggiunta di tutto ciò che contribuisce ad elevare la dignità dell’arredo.
3- Si noterà il ricorso alla natura suntuaria dell’insieme: ricorso all’oro o all’argento per i diversi
oggetti, marmo translucido per le colonne del baldacchino. Ciò si riallaccia alle donazioni
imperiali.

I rapporti con il mondo pagano:

Caillet individua, in questi caratteri, una chiara e netta prosecuzione della tradizione del mondo pagano,
secondo cui le divinità si onoravano attraverso la concentrazione di arredi in metallo prezioso all’interno dei
templi.

Nel contesto paleocristiano e medievale avviene l’esatto opposto: si predilige la modestia e la misura per la
realizzazione di certi oggetti provenienti da chiese di comunità di secondo piano.

Nel corso dell’epoca romanica, si cercherà di far privilegiare il fasto: l’abate di Saint Denis Suger esordì
dicendo che “se dei vasi per libagioni, delle coppe e dei mortai in oro servivano […] a raccogliere il sangue
dei caproni, dei vitelli o di una giovenca rossa, tanto più i vasi d’oro, le pietre preziose e quanto vi è di più
prezioso fra le cose create devono essere destinati a ricevere il sangue di Gesù Cristo” […] Sosteniamo
inoltre Lo si debba onorare gli ornamenti esteriori dei vasi sacri, e più di ogni altra cosa durante la
celebrazione del santo sacrificio , con la massima purezza interiore, con la massima libertà esteriore”[…].
Suger dichiara “lo splendore delle gemme multicolore mi sottraevano alla cura delle cose esteriori e […]
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attraverso un’elevazione delle cose materiali a quelle immateriali, credevo di poter essere trasportato in
maniera anagogica da questa regione inferiore alla regione superiore della bontà divina”. Il processo
anagogico evocato dall’abate Suger trova la sua fonte nel neoplatonismo cristiano della fine dell’Antichità,
in particolar modo nella Gerarchia celeste dello Pseudo Dionigi Areopagita. Queste concezioni verranno
ripresa in epoca carolingia da Giovanni Scoto Eriugena, nel XII secolo da Ugo di San Vittore in accezione più
agostiniana: va da considerarsi come una sorta di sintesi fra la formulazione iniziale e questa propensione
che si verifica in Suger e che dopo di lui segnerà profondamente l’Occidente nella fase centrale del
Medioevo.

L’accento posto sulle capacità trascendentali degli oggetti cultuali in materiali preziosi motiva il costante
applicarsi allo sviluppo delle tecniche relative alla loro produzione. L’arte suntuaria medievale condensa in
sé i migliori risultati sia tecnici che stilistici ottenuti nel campo delle arti applicate attraverso lavorazioni
estremamente complesse favorite dalla continua osmosi dei principi decorativi tra Oriente, Occidente e
mondo islamico. L’estetica del lusso e del potere ha nel Medioevo una matrice culturale sostanzialmente
mista. Riflette il fasto delle corti, il lusso dell’aristocrazia e la solenne cerimonialità dei costumi liturgici. Gli
aspetti tecnici venivano raccolti nelle summae delle conoscenze- delle vere e proprie enciclopedie-
compilate da autori antichi, che si prefiggevano di descrivere minuziosamente le tecniche e procedimenti.
Caillet ne cita alcuni:

1- Isidoro da Siviglia nella Spagna Visigota


2- Rabano Mauro all’apogeo dell’impero carolingio

Nessuna di queste trattazioni però offre la completezza e la specificità del trattato intitolato “De diversis
artibus”, composto verso il 1100 da Teofilo. Secondo diverse congetture, oggi si è d’accordo
nell’individuare nello pseudonimo greco l’orafo Ruggero di Helmarshausen, attivo a Colonia e a Stavelot
nella regione mosana ( di cui sembrerebbe essere originario). Il successo di questo trattato è attestato dalle
innumerevoli copie e adattamenti, di cui se ne conservano 24 esemplari. Il Manuale delle tecniche artistiche
medievali è scritto in prosa, in stile cattedratico salvo nella prefazione al primo libro. L’opera enciclopedica
è divisa in tre libri, di varia lunghezza, preceduti da un prolugus. Nelle introduzioni, Teofilo espone gli
argomenti, aggiungendo precetti morali e religiosi. Nel primo libro affronta la pittura su tavola, parete e
pergamena. Propone il ricettario per la preparazione del colore e pigmenti, spiega come preparare
l’inchiostro, come ridurlo in polvere e in foglia ed infine la sua applicazione.

Il secondo si apre con la costruzione delle fornaci e descrive la fabbricazione del vetro, come realizzare i
manufatti, indica inoltre le tecniche di produzione delle vetrate: dalla costruzione al montaggio, tutto nei
minimi particolari.

Il terzo, notevolmente più lungo, comprende 96 capitoli, contente informazioni circa le tecniche
metallurgiche, dalla fusione dei metalli alla loro lavorazione. Il laboratorio dell’orafo viene completamente
descritto, dalle fornaci a tutti gli attrezzi occorrenti. Vengono analizzate le tecniche di lavorazione fino alle
rifiniture dell’oro, dell’argento e delle leghe del rame, dall’ottone al bronzo. Teofilo descrive
minuziosamente, quasi a voler coinvolgere il lettore, nella realizzazione di una campana e alla costruzione
di un piccolo organo. Non trascura le tecniche di incisione su avorio, le azioni di pulitura delle gemme e la
foratura delle perle.

Caillet non si sofferma sui primi due libri, bensì sul terzo, in quanto ci interesserà maggiormente. E’ la parte
più sviluppata, quella della lavorazione dei metalli, in cui è possibile rintracciare i procedimenti di
fabbricazione di arredi d’altare, testimoniando la perizia di un vero addetto ai lavori. Egli descrive punto per
punto le fasi successive della realizzazione di un CALICE D’ARGENTO, secondo la tecnica dello sbalzo:
assottigliamento della foglia per martellatura e ottenimento della forma desiderata con la stessa
operazione, concentrando però la battitura su zone ben definite, con martelli a testa più o meno

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arrotondata e più o meno pesanti secondo l’effetto desiderato. Levigatura e lucidatura con l’aiuto di un
ferro ben smussato, di un pezzo di stoffa e del gesso. I motivi a cesello\a punzone verranno ribattuti con un
martello. Teofilo descrive con dovizia anche il montaggio dei cabochons- pietre dure con taglio a superficie
liscia e convessa- nei castoni e la loro saldatura sulle bande che, bordando l’oggetto o seguendone gli assi
principali, devono beneficiare di questa particolare ornamentazione. Menziona la smaltatura di certe zone
alternate ai cabochons, con lo smalto cloisonné: un procedimento secondo il quale la pasta di smalto è
posta in alveoli determinati da una rete di paratie (cloisons) precedentemente saldate sul fondo della
superficie da decorare. Questa tecnica, attestata alla fine dell’Antichità è magistralmente adoperata
nell’ALTARE DI S.AMBROGIO , della metà del IX secolo e nella prima Croce della badessa MATILDE DI ESSEN,
degli anni 975-80. Attorno all’anno Mille il ricorso a questo metodo è stimolato dall’esempio di modelli
bizantini, importati in ambito ottoniano.

Un’altra grande tecnica di smaltatura è la champlevée, praticata nel mondo romano antico e nel contesto
irlandese dell’alto Medioevo, Teofilo non poteva esserne a conoscenza, perché dopo una fase di stallo, è
solamente nel XII secolo che essa si diffonde nuovamente in Occidente, principalmente al nord della
penisola Iberica e in Aquitania- a Conques e Limoges- così come nella regione mosana e in Sassonia. Il
successo di questo procedimento si spiega, in un contesto di forte domanda di arredi liturgici per santuari
in piena rivalorizzazione delle reliquie e delli apprestamenti eucaristici, con il costo di produzione
relativamente basso: gli alveoli destinati a ricevere la pasta di smalto erano scavati a bulino in una placca di
rame , non più d’oro come per la tecnica di cloisonnée. Grazie alla doratura del rame, gli oggetti offrivano
un aspetto ancora sontuoso, in accordo con il significato: lo testimonia il DOSSALE DI STAVELOT e il piede di
croce (mosana- Mosa- Belgio) di Saint- Bertin a Saint- Omer; oppure tra i pezzi d’origine meridionale: la
COLOMBA DI SALISBURGO e il TABERNACOLO DI CHERVES.

Quanto ai materiali, si deve menzionare l’avorio, il cui lustro e levigatezza erano stati apprezzati sin dai
tempi più remoti nelle civiltà del mondo classico come nell’Oriente antico. In epoca carolingia l’avorio è
soprattutto impiegato per legature di manoscritti di lusso, come il SACRAMENTARIO DEL VESCOVO
DRAGONE DI METZ. L’interruzione dei canali di approvvigionamento, seguita all’espansione islamica del VII
secolo, fino alla loro riapertura con le Crociate dei secoli XII e XIII, l’Occidente subì una vera e propria
penuria di materia prima: le dimensioni delle placche furono ridotte, si procedette con i reimpieghi di
elementi antichi riscolpiti sul verso e il periodo romanico, il frequente impiego dell’osso o dell’avorio di
tricheco come succedaneo dell’avorio di elefante.

((La costituzione degli arredi d’altare della Roma paleocristiana si deve alla liberalità di Costantino. I sovrani
dei secoli successivi non hanno mancato di inserirsi in questa scia: è il caso dei sontuosi antependia offerti
da Carlo il Calvo a Saint-Denis, da Enrico II alla cattedrale di Basilea , o dal doge Ordelaffo Falier a San Marco
a Venezia.)) Caillet non si limita ad evocare l’esempio del vescovo Bernward, promotore di materia
dell’architettura monumentale e di apprestamenti liturgici a Hildesheim, all’inizio del XI secolo. Il biografo
del vescovo, Thangar, menziona espressamente gli interessi per le diverse tecniche di produzione richieste
per la realizzazione dei suoi progetti: Bernard è presentato come un esperto nella pratica di queste arti
questo sottolinea quindi l’investimento-coinvolgimento degli uomini di chiesa in questo tipo di attività.
Rispetto alle arti liberali, quelle meccaniche di solito venivano svalutate, perché concernenti l’intelletto.
Pochi sono i nomi degli artisti, esperti nella lavorazione dell’avorio e nell’oreficeria, così cita:

- Tuotilo, anche pittore e musicista a san Gallo verso il 900.

- Vuolvino, che appare nella metà del IX secolo a fianco dell’abate dedicatore Angiberto II sull’altare di S.
Ambrogio a Milano. Nell’iscrizione viene designato come magister phaber, resta pur sempre un monaco.
Senz’altro in ragione del loro stato di religiosi che personaggi come Vuolvino sono rimasti nella memoria
dei loro pari o hanno beneficiato del privilegio di una firma, mentre gli interventi dei laici passavano per lo
più sottobanco. Ma a prescindere da tutto, la fabbricazione degli oggetti dipendeva dall’autorità religiosa. Si
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pensi alla famosa pianta di San Gallo: lo scriptorium e la biblioteca si trovano proprio accanto alla chiesa in
posizione assiale si trova un atelier d’oreficeria.

L’ALTARE E IL SUO ORNAMENTO: TOVAGLIA, ANTEPENDIUM, DOSSALE, CIBORIO

Caillet per affrontare il tema dell’altare, utilizza il termine al plurale, in quanto nei secoli V e VI secolo
all’altare maggiore, posto nel punto focale, se ne aggiungeranno altri secondari, posti alle sue adiacenze o
negli spazi periferici. Per la prima volta nel IX secolo la pianta di San Gallo ne testimonia la moltiplicazione
eccessiva. Nel tardo medioevo non si rinuncerà agli altari addossati alla faccia anteriore dello jubé- indicava
la tribuna\parete su archi per isolare il coro – e soprattutto con quelli disseminati nelle cappelle aperte sulle
navate laterali, nei bracci del transetto o nel deambulatorio dell’abside. Tutti questi altari compresi quelli
portatili, l’utilizzo si estende almeno dall’alto medioevo al periodo romanico- erano soggetti ad ornamento.
Un aspetto non meno fondamentale, che caratterizza già l’epoca paleocristiana è il nesso obbligatorio tra
l’altare e reliquie , che può crearsi in diversi modi:

1- Mediante un loculus ricavato sotto la base o lo zoccolo


2- Mediante l’inserzione delle reliquie nel piede o nel corpo stesso dell’altare, con eventuale
fenestella che permetta di intravedere le reliquie
3- Nella mensa, l’unica soluzione del resto per gli altari portatili costruiti solo da questo elemento
4- Infine in ricettacoli di diverso tipo – reliquiari di varie forme-
5- Oppure nel dossale ( retable) che nel basso Medioevo si impianta nella parte posteriore della
mensa.

Pertanto la necessità di associare l’altare alle reliquie ne condiziona fortemente la struttura e gli arredi
e molto spesso l’iconografia dipende da questa associazione.

FORMATO E ARTICOLAZIONE:

Se dall’Antichità e nell’alto Medioevo coesistono le MENSE CIRCOLARI-SEMICIRCOLARI rettangolari su


STIPES- pilastro quadrangolare unico o colonne multiple: la formula con l’altare-cassa quadrangolare
s’impone rapidamente, favorendo lo sviluppo di un decoro sul prospetto anteriore, ma anche nelle
facce verticali, sia sullo stesso blocco di pietra o sul suo rivestimento. ALLA FINE DEL XII SECOLO si torna
al tipo di MENSA SU PIU’ COLONNE.

LE MODALITA’ DI RIVESTIMENTO più agevole prevede il dispiegamento sulla mensa di un drappo. In un


avorio post-carolingio offre una fedele rappresentazione della messa, in cui la tovaglia eccede di poco le
dimensioni della mensa.

Al contrario, si estende fino al suolo la tovaglia- eccellente ricamo di fili d’oro di VI secolo- che ricopre
l’altare della scena delle offerte di ABELE E MELCHISEDECH nel presbiterio di san Vitale a Ravenna. (Ai
lati del presbiterio si aprono due coppie di trifore, su ciascuna delle quali è presente una lunetta: su
quella di destra, riuniti in un’unica composizione, sono raffigurati, anacronisticamente, i sacrifici di
Abele e Melchisedec. Al centro capeggia un altare con velo purpureo e tovaglia bianca ricamati in oro,
sul quale sono posti due pani e un calice. L’altare rappresenta il punto centrale attorno al quale ruota
tutta la scena: a sinistra si trova Abele, vestito con abiti pastorali, a cui fa sfondo una capanna, mentre
porge verso il cielo un agnello; a destra Melchisedec, in ricchi abiti sacerdotali, dietro al quale si trova
un tempio, mentre innalza un pane. In cielo, dalle nubi rosse e blu, compare la dextera Dei, che
accoglie entrambe le offerte. Lo sfondo è molto naturalistico e ricercato anche nei particolari. Nei
peducci sotto la lunetta si trovano canestri di frutta con uccelli policromi ai lati. Il sacrificio di Abele è

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visto come archetipo di quello di Cristo mentre quello di Melchisedech come prefigurazione del
sacrificio eucaristico).

Il Velo di Classe databile al terzo quarto dell’ VIII secolo e proveniente da un santuario di Verona,
conservato nel Monastero di Classe, raccoglie frammenti di una di queste tovaglie a ornamentazione di
carattere suntuari; i ricami sono fili di seta e oro e comprendono una serie di medaglioni figurati in cui la
successione dei personaggi si rivela profondamente carica di significato: si tratta di protomartiri e di vescovi
locali, dalle origini cristiane delle città fino al 765. Questo dimostra il radicarsi di una chiesa veronese nel
suo glorioso passato, che accresce in proporzione la carica del prelato in carica. ((Nell’anno 1589 l’illustre
archeologo e storico ravennate Girolamo De Rossi diede notizia d’una pianeta di massimo interesse, che si
trovava tra le reliquie dei santi nel monastero dei camaldolesi di Classe presso Ravenna. L’importanza stava
soprattutto in questo, che quella pianeta nelle tenie o fasce (altri le dicono lacinie o lacerti), che
l’adornavano, presentava alcune immagini ricamate, e sotto od a lato di ciascuna alcuni nomi pur fatti a
ricamo. Egli pubblicò quei nomi, come li potè rilevare: espresse l’opinione che essi dovessero indicare la
lista dittica di qualche chiesa, molto più che quei nomi per la massima parte avevano aggiunta la voce « eps
»; ma non andò più oltre nelle sue congetture.

Dopo quasi due secoli dalla scoperta il dottissimo camaldolese padre Mauro Sarti ripigliò I ‘investigazione di
quel prezioso monumento, del quale non restavano che tre sole fascie con numero più limitato di immagini
e di nomi: confrontò i nomi, che ancora sussistevano, con quelli registrati nell’opera del De Rossi; indi,
ricercate le serie dei vescovi di alcune chiese d’Italia, trovò che i nomi del De Rossi corrispondevano quasi
perfettamente ai nomi altronde già conosciuti dei vescovi di Verona, dalle prime origini di questa chiesa sin
verso la metà del secolo VIII: l’opera del p. Sarti fu pubblicata a Faenza l’anno 1753.

Le immagini ed i nomi relativi erano lavorati «opere frigio », con fili d’oro intessuti con fili di seta « ex auro
… et sericis filis »; ed erano ricamati, non sul fondo o sulla stoffa della pianeta, ma sopra fasce o bende
larghe poco più di nove centimetri, le quali scendevano verticalmente nel mezzo della pianeta, sia nella
parte anteriore, sia nella posteriore, e giravano pure intorno all’apertura del collo. Nel punto centrale della
parte posteriore stava una mano forata in posizione orizzontale; sotto e sopra di essa erano immagini,
poste esse pure orizzontalmente. Sotto la mano era l’immagine di un angelo con la scritta Michael; le
singole lettere tenevano la direzione dell’effigie dal capo verso i piedi)).

Verso la metà del IX secolo, il desiderio di accrescere il prestigio e prerogative mediante la filiazione dei
martiri anima Angilberto II, impegnato nella concezione dell’Altare di S. Ambrogio a Milano. E’ l’arredo più
ricco che si sia conservato, fatto costruire appunto da Angilberto II, vescovo di Milano, tra gli anni del 824 e
859.

La sontuosità di questo prezioso altare -reliquiario sciorina la sua preziosa funzionalità: venne realizzato
per custodire le spoglie del santo eponimo, accanto a quelli dei martiri Gervasio e Protasio, fratelli gemelli
morti durante le persecuzioni cristiane di Decio, Valeriano o Diocleziano- secondo la tradizione furono i figli
di San Vitale e Santa Valeria.

L’altare ligneo è rivestito da lamine d’oro, d’argento e argento dorato, separate da cornici in filigrana
adorne di gemme incastonate con smalti cloisonné policromi, per le bordature i cui colori creano un forte
contrasto con i metalli; alcuni motivi, perle e gemme in alloggiamenti sovente circoscritti da filigrane e
un’iconografia estremamente elaborata che si avvale di una lavorazione a sbalzo ad alta precisione.

Caillet individua una LOGICA organizzativa nell’esecuzione:

1- Il prospetto anteriore, verso la navata che illustra i valori del dogma con al centro Cristo in gloria
entro una composizione cruciforme, che ingloba i quattro simboli evangelici e 12 apostoli.
2- Le formelle da una parte e dall’altra accolgono gli episodi del Nuovo Testamento.
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SI HA UN VERO E PROPRIO TRITTICO- che segue la tradizione paleocristiana, secondo cui l’abside
presentava una teofania a carattere sintetico, mentre i muri laterali della navata si sviluppano serie
narrative- I due LATI MINORI dell’altare costituiscono le “glosse”- annotazioni interlineari o marginali ad un
testo biblico- del centro del prospetto anteriore, perché esalta il trionfo di Cristo; ma avviene allo stesso
tempo una sottile transizione verso il discorso della faccia posteriore nella misura in cui gli angeli della corte
celeste si mescolano ai santi- martiri locali fra cui Gervasio e Protasio, ma anche ai vescovi del passato,
primo fra tutti Ambrogio. Si tratterebbero degli “ascendenti spirituali” cui si richiama il committente
Angilberto II e suoi corpi giacciono riuniti sotto l’altare.

Caillet ravvede nei due prospetti, anteriore e posteriore, una composizione a trittico proprio in virtù della
disposizione tripartita delle scene auree. La fronte anteriore ospita le storie tratte dalla Vita di Cristo ,
secondo una narrazione che si svolge in ordine ascensionale ( dal basso verso l’alto) e dall’esterno verso
l’interno. La porzione

Il prospetto posteriore può discendere dal registro dell’agiografia – ed è lì che l’erede di Ambrogio ,colui
che aveva quasi eclissato la fama dei martiri, ossia Angilberto. Ai lati vengono disposti episodi della Vita di
Ambrogio: mostrano il santo-vescovo durante la celebrazione di una messa – in accordo con l’uso
eucaristico dell’altare. Nella fenestrella confessionis, entro tondi sono collocati i due Arcangeli Michele e
Gabriele, nel registro superiore, in quello inferiore ritroviamo S. Ambrogio che incorona Angilberto nell’atto
di offrire il modello dell’altare e cosa eccezionale, nell’altro tondo S. Ambrogio che incorona Vuolvinio
Magister Phaber. In tal modo, Angilberto mette in evidenza l’importanza cruciale del suo ruolo:
promuovere la realizzazione di un oggetto cultuale il cui splendore glorifichi il santo dedicatario del
santuario e assicuri la commemorazione del Sacrificio del Salvatore.

Una tale ricchezza semantica deriva evidentemente dalla possibilità di dispiegare il programma sui quattro
lati dell’altare sebbene nell’uso comune è solo il prospetto anteriore ossia la fronte dell’altare a ricevere
una decorazione di questo tipo. La fronte dell’altare è detta antependium o paliotto di cui l’epoca carolingia
ci ha lasciato esempi prestigiosi:

- quello che Carlo il Calvo fece realizzare per l’altare maggiore dell’abbazia di Saint Denis e di cui una
rappresentazione pittorica del XV secolo restituisce abbastanza fedelmente l’aspetto. ANTEPENDIUM SAINT
DENIS MAESTRO GILLES.
E’ quanto documentato nel XV secolo nel dipinto fiammingo “La messa di S. Gilles“ - National Gallery (Londra) - del
cosiddetto Maestro di S. Gilles, nella quale viene illustrata una messa celebrata entro l’abbazia di S. Denis a Parigi:
sopra l’altare è raffigurato il celebre paliotto in oro e argento donato all’abbazia da Carlo il Calvo alla metà del IX
secolo (andato distrutto nella Rivoluzione Francese) originariamente destinato al frontale dell’altare.

- dell’anno Mille si sono conservati due esempi di alta fattura:

1. quello della AIX –LA- CHAPELLE 1-2\ Aquisgrana La pala d'oro è composta da dieci rilievi attorno ad un
undicesimo motivo centrale a forma di mandorla . Il motivo centrale mostra Cristo in maestà ; gli altri rilievi
delle scene della Passione di Cristo e della Resurrezione ; nella mandorla Maria a sinistra e l' Arcangelo
Michele a destra – al posto del solito discepolo Giovanni – di Cristo, circondato da quattro medaglioni con i
simboli degli Evangelisti . I piatti sono fatti di sottili lastre d'oro a 999,98‰ e sono ora fissati su sottili lastre
di legno con un composto di riempimento che è stato successivamente applicato. Nel tempo, la
disposizione delle diverse parti della pala è stata modificata più volte e adattata alle sue funzioni. È
possibile che i rilievi oggi conservati rappresentino solo i resti di una più completa decorazione d'altare

La Deisis ( l’intercessione-TEMA RICORRENTE nell’iconografia bizantina con Gesù assiso in trono con in
mano un libro, accompagnato dalla Vergine e S. Giovanni Battista) è incorniciata da dieci rilievi raffiguranti
scene della Passione di Cristo . I pannelli dorati sono lunghi circa 25,5–26 cm e alti 22,5–23 cm e ciascuno

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ha una rientranza su un angolo per consentire l'inserimento di un medaglione di evangelisti. La Passione è
così rappresentata:

 Riga in alto: l' ingresso a Gerusalemme , l' Ultima Cena , la lavanda dei piedi , i discepoli che
dormono nell'orto del Getsemani ;
 Riga centrale: Il tradimento di Giuda , La flagellazione ;
 Riga in basso: il coronamento di spine , l'ascesa al Golgota , la crocifissione e la risurrezione .

2. quello della CATTEDRALE DI BASILEA – che conserva ancora gli elementi di incorniciatura. Stando
all’iconografia con san Benedetto accanto a Cristo e ai tre arcangeli suggerisce un contesto benedettino-
dovette essere destinato ad un altro santuario. La formula impiegata , con i personaggi in piedi sotto le
arcate riprende a pieno titolo le diverse realizzazioni dell’Antichità in particolare i sarcofagi scolpiti nel IV
secolo. ANTEPENDIUM DI BASILEA - è un paliotto d'altare (un pannello usato per decorare il lato di un
altare rivolto verso i fedeli) in legno ricoperto d'oro, pietre preziose, e perle, fabbricato prima del 1024 e
della misura di 175 x 120 cm. È conservato nel Museo di Cluny a Parigi.

Chiaramente l’impatto degli schemi bizantini post-iconoclasti è ricorrente nella scena della proskynesis
dell’imperatore Enrico II e la sposa Cunegonda, nell’ atto di prosternarsi ai piedi del Cristo. I modelli
bizantini sono evidenti nel ricorso al:

- modellato classico dei soggetti

- i dettagli delle fisionomie: ovale regolare del viso, armoniose arcate sopraccigliari, linea del naso lunga e
fine, bocca sottile- rinviano alle contemporanee creazioni costantinopolitane, come l’icona di san Michele
del Tesoro di San Marco a Venezia, laddove il forte rilievo consente alle figure di emergere – ottenuto
mediante la lavorazione a sbalzo- ha imposto il riempimento del verso della foglia d’oro con una massa atta
a impedirne la deformazione.

Questi antependia in metallo prezioso erano per lo più ornati di perle e pietre incastonate – si vedano i
nimbi dei personaggi di quello di Basilea- e all’occasione anche di smalti – è segnatamente il caso di citare la
Pala d’oro di San Marco a Venezia, un grande paliotto in oro, argento e smalti che restituiscono l’eleganza
del disegno di gran virtuosismo tecnico del cloisonné, restituisce la grandiosa opera di oreficeria bizantina
per la basilica di X secolo e arricchita fino al XIV secolo.

((La Pala d'Oro si trova sull'altare maggiore della Basilica di San Marco. Si tratta di una tavola coperta di
immagini sacre, in oro, argento, e centinaia di pietre preziose. Funge da reliquiario per le spoglie di San
Marco Evangelista. Nella sua forma attuale misura cm. 334x212.Sostanzialmente la si può dividere in due
parti, dove nella parte sottostante l'attenzione viene attirata da Cristo, circondato dagli Evangelisti e da
angeli, accompagnati dagli altri Apostoli e dai Profeti. Nella parte più alta, l'immagine dell'Arcangelo
Michele con i punti salienti della vita di Cristo.))

Un mutamento decisivo avviene con lo sviluppo di una lunga polemica sul carattere dell’Eucarestia, insorta
nel IX secolo e che sembra concludersi nel XIII secolo, in particolare con la generalizzazione dell’ostia
durante la celebrazione della messa. La valorizzazione della specie eucaristica implicava il rifiuto della
devianza secondo la quale non vi sarebbe reale presenza di Cristo nell’ostia. Da quel momento in poi
l’officiante non starà più dietro l’altare e si poneva più frequentemente davanti ad esso, rivolto verso
l’abside – verso la sorgente stessa della luce divina ad Oriente. Di conseguenza, l’antependium restava
nascosto , si fece strada la tendenza a SPOSTARE SOPRA L’ALTARE , nella sua parte posteriore, il programma

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iconografico che prima occupava la fronte in basso, verrà arricchito con la pala d’altare o dossale,
dapprima di dimensioni limitate in altezza, in seguito monumentali.

E’ difficile stabilire il momento in cui compaiono i primi arredi di questo genere. Nell’anno 1140 Suger
menziona l’incomparabile ornamento, comunemente denominato “crista” che si eleva sull’altare d’oro di
Saint Denis- si trattava dell’Escrain de Charlemagne , la cui parte bassa, modificata verso il 1400
adottandola a un reliquiario, era sormontata da una sorta di portico a tre piani di circa un metro d’altezza;
l’insieme riuniva una quantità eccezionale di perle e di pietre preziose. Privo di immagini figurative si
incentrava sull’ insistenza, indotta dall’organizzazione architettonica, su numeri di connotazione sacrale
quali tre e quattro.

Il terzo quarto del dodicesimo secolo è contrassegnato da ornamenti d’altare specifici ricorrenti, ossia il
dossale. Un caso eloquente è il dossale dell’ abbazia di Stavelot nella Mosa( dipartimento francese
appartenente al Grand est). Dossale dalla forma rettangolare, unicamente rilevata da un arco nella parte
centrale, si rivela adatta al posizionamento sulla mensa d’altare. Viene rappresentata la Pentecoste con
Cristo in posizione eminente e i dodici apostoli circondati dalle lingue di fuoco. L’illustrazione della
Pentecoste non è consona al contesto dell’altare , poiché lo Spirito Santo deve manifestarsi al momento
della consacrazione delle specie eucaristiche.

LA FATTURA DEL DOSSALE

Il rivestimento in rame dorato e risalti di vernice bruna e smalti champlevés si inseriscono a pieno nella
grande tradizione delle arti preziose.

Verso la fine del XIII secolo il dossale della cappella di san Giacomo nella cattedrale di Pistoia -Una
monumentale opera di oreficeria sacra medievale composta da oltre quaranta pannelli in argento sbalzato
e cesellato, viene realizzato in un arco di tempo molto lungo, tra il 1287 e il 1456. L’opera viene
commissionata in onore di San Jacopo (Giacomo il Maggiore) del quale si conserva in Cattedrale una
preziosa reliquia dal 1145. La reliquia giunse a Pistoia grazie ad una lunga trattativa dell’allora Vescovo
pistoiese Atto con Santiago de Compostela. L’altare si compone di due “sezioni” principali: il paliotto
(ovvero la “parte inferiore”) e il dossale (l’apparato decorativo soprastante).Il paliotto è composto da una
sezione frontale e due laterali. Esse raccontano, partendo dal lato sinistro e procedendo verso destra, le
vicende della vita di San Jacopo, il Nuovo Testamento ed il Vecchio Testamento.

Il dossale invece riporta, al centro, la grande statua raffigurante San Giacomo in trono. La statua fu
realizzata da Giglio Pisano nel 1353 ed è una statua “processuale”, poiché estraibile dal resto della
composizione per poter essere trasportata durante le processioni. Al di sopra è collocata la figura di Dio
Padre Benedicente, racchiuso in una mandorla; ai suoi lati, una schiera di angeli musicanti e di Santi
inquadrati entro archi trilobati.

Dopo la metà del XIV secolo , un altro esemplare è l’altare maggiore della cattedrale di Gerona , si
procedette trasformando in dossali antichi antependia, come quello offerto a Saint Denis da Carlo il Calvo-
come mostra il dipinto del Maestro Gilles- che rivela il nuovo uso nel XV secolo. Ma la tendenza allo
sviluppo del programma iconografico sull’altare favorirà il diffondersi di dossali scolpiti in pietra o in legno-
maggiormente diffusi nei Paesi Bassi e in Germania e più ancora il diffondersi di dossali dipinti –
innanzitutto in Italia dove l’importazione di icone bizantine stimola fortemente la produzione nella seconda
metà del XIII secolo, poi nella Penisola Iberica e infine in tutto l’Occidente.

CIBORIO- BALDACCHINO

A decoro dell’altare viene collocato un altro elemento, il ciborio o baldacchino, al quale si ricorre
frequentemente per elevare la dignità dello spazio eucaristico. In età paleocristiana il ciborio valorizzava

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anche la sepoltura venerata: è il caso di S. Pietro a Roma, il monumentale baldacchino a colonne tortili
venne eretto grazie alle donazioni di Costantino, sopra la tomba apostolica. Allo stesso modo, anche s.
Ambrogio si doterà di un ciborio a protezione delle spoglie dei martiri Gervasio e Protasio, oltre a quella del
vescovo eponimo, il cui coronamento è stato ampliamente rimaneggiato fino alla metà del IX secolo e
soprattutto all’approssimarsi dell’anno Mille, quando si dispiega sui 4 frontoni un programma figurato
dedicato alla gloria della Chiesa locale e realizzato in stucco policromo. Se i cibori di s. Pietro e s. Ambrogio
si distinguono per l’impiego di colonne di marmo, numerosi esempi fanno ricorso all’uso della pietra: se ne
conservano molti, realizzati tra il VIII e il IX secolo in Italia e in Croazia e presentano un decoro con una forte
connotazione simbolica : pavoni, leoni e animali fantastici, posti agli angoli di coronamento piramidale o
conico. Anche per i cibori si sceglie di ricorrere al materiale prezioso: un esempio eloquente è il ciborio che
sovrasta l’altare maggiore della cattedrale di Gerona in Catalogna- d’argento parzialmente dorato, dispiega
un programma iconografico a sbalzo con angeli, santi e personaggi contemporanei, tra cui il donatore,
gravitanti attorno all’incoronazione della Vergine. Il programma iconografico analogo viene replicato anche
nei dossali.

I VASA SACRA:

Con il termine vasa sacra si designano gli oggetti liturgici utilizzati durante la celebrazione eucaristica
dall’officiante, per la conservazione delle specie eucaristiche. Si tratta di recipienti atti a contenere:

- la pisside: le ostie - Vaso sacro in forma di coppa con coperchio (che ulteriormente si copre con un velo),
generalmente di metallo prezioso, e comunque sempre dorato all’interno, destinato a contenere le ostie
consacrate.

- il calice: il vino- vaso liturgico in cui si consacra l’Eucaristia sotto le specie del vino.

- la patena: piattello di metallo (per lo più prezioso), a largo orlo, usato per coprire il calice e per contenere
l'ostia, prima e dopo la consacrazione.

Questi elementi, come la stessa mensa d’altare, derivano da ciò che era in uso corrente anche nell’Antichità
classica. Durante l’Alto Medioevo, calici e patene, dall’aspetto più o meno suntuario, non venivano
associate alla loro esplicita destinazione cultuale: è il caso del calice di Eloi, consigliere alla corte del re
franco Dagoberto nella metà del VII secolo: il disegno di questo pezzo mostra un semplice decoro a
cabochons- pietre dure con taglio a superficie liscia e convessa- e zone di cloisonné, con una netta
predominanza di granati , cioè una caratterizzazione aniconica che non differisce molto da quella offerta da
certi paramenti privi di connotazione religiosa. Si rimanderà al calice in avorio, d’epoca carolingia, di
Deventer ( attuali Paesi Bassi), dalla decorazione vegetale.

Alla metà del Vi secolo si preferisce rimarcare la specificità degli oggetti inclusi nell’arredo liturgico:
incidendovi una croce o un simbolo cristiano e\o un’iscrizione di dedica menzionante, oltre al nome del
donatore, quello del santo a cui è dedicato il santuario. Oltre a Cristo e la croce, si possono ritrovare teorie
di santi entro una sequenza di archi per un calice o la rappresentazione della comunione degli apostoli per
una patena: queste raffigurazioni erano ricorrenti sia nell’ Oriente-paleocristiano che in Occidente. Per la
Gallia del VI secolo si sentirà l’esigenza di recuperare il metallo per realizzare calici e patene, si ricorrerà
anche al riutilizzo di vasi per crearne altri, come quello già offerto dal re Clodoveo usato per fabbricare un
calice a decoro figurato.

Non si può non menzionare il celebre calice destinato verso il 777 dal duca di Baviera Tassilone all’abbazia
di Kremsmunster (attuale Austria): oggetto argenteo, ornato da dorature a niello ( superficie incisa, quindi),
vi si trova “incorporato” un vero e proprio programma absidale da chiesa, che presenta che presenta due
registri corrispondenti alla coppa e al piede, le figure del Cristo e degli evangelisti che sormontano quelle
della Vergine, del Battista e altri santi.
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Si tratta di casi isolati , in quanto calici e patene in Occidente non hanno conosciuto una vera e propria
fioritura nella seconda metà del XII secolo, quando certi temi verranno ripresi dal mondo bizantino post-
iconoclasta. Così la Crocifissione della patena proveniente da Trzemeszno (Polonia) fa pensare alla patena
di X secolo e di origine costantinopolitana del tesoro della Cattedrale di Halberstadt , di cui sono riuscita a
ravvedere il medesimo tema iconografico in un ancona di manifattura veneziana, una crocifissione databile
alla prima metà del XVI secolo, custodita presso la Mearini Fine Art – galleria nata a Perugia nel 1984.
L’ancona è un dipinto su tavola o rilievo in marmo o legno, di soggetto religioso, collocato sull’altare,
generalmente entro un’inquadratura architettonica (pala d’altare)).

Il severo soggetto della Crocifissione è ottenuto da una matrice bizantina di grande prestigio, senz'altro
creata a Bisanzio e probabilmente da una bottega attiva presso la corte imperiale fra il 1050 e 1190. Lo
dimostra una patena in argento dorato conservata presso il Museo del Tesoro della Cattedrale di
Halberstadt, che sfoggia una Crocifissione del tutto identica alla nostra e la cui provenienza è documentata
al 16 agosto del 1205.

Tuttavia sussiste all’occidentalizzazione del soggetto poiché la Chiesa e la Sinagoga sostituiscono le


tradizionali figure della Vergine e di san Giovanni. Ma a rafforzare il legame fra il sacrificio del Redentore e
gli antecedenti relativi al vecchio testamento in una prospettiva tipologica allora sistematica , a
condizionare la scelta dei soggetti e il loro ordinamento.

CALICE E PATENA DI TRZEMESNO:

Sulla patena, attorno alla Crocifissione, si trova una teoria di nove prefigurazioni che rinviano ai dogmi
fondamentali del Nuovo Testamento:

- l’incarnazione divina ( episodio del velo di Gedeone e seconda offerta di Gedeone)

- l’ istituzione dell’Eucarestia – Melchisedech

- il supplizio di Cristo ( sacrificio di Isacco, Mosè e il serpente di bronzo, Mosé colpisce la roccia di Horeb,
Giosué e Caleb con il grappolo di Canaan, Elia e la vedova di Sarepta).

- l’ascensione del Salvatore resuscitato ( Scala di Giobbe).

Sul calice accoppiato si dispiega il programma iconografico, anch’esso molto ricco:

Sulla parte principale della coppa sono evocati, attraverso 8 episodi vetero e neotestamentari, i dogmi della
Cristofania – battesimo di Gesù, dell’istituzione dell’Eucarestia ( Cena) e soprattutto l’Incarnazione ( Mosé
nel roveto ardente, Aronne e la verga fiorita, Annunciazione e Natività-

Sulla parte inferiore della coppa: il nodo e l’attacco del piede definiscono una zona intermedia che riunisce
le 3 quaterne maggiori: i simboli evangelici, fiumi del paradiso, virtù cardinali. Il piede accoglie le
personificazioni delle otto beatitudini del Vangelo di Matteo. Leggendo l’oggetto liturgico dal basso verso
l’alto, mostra la diffusione nel mondo terrestre della grazia impartita venuta del Signore.

IL DOSSALE

Nel XIV secolo il dossale cristallizzerà le principali traduzioni figurative dei temi della messa: è il caso del
calice offerto alla Basilica di San Francesco ad Assisi da papa Niccolò IV e realizzato dall’orafo senese Guccio
di Mannaia verso la fine del XIII secolo. E’ un esemplare d’innovazione tecnica: appaiono per la prima volta
i medaglioni rialzati di smalti traslucidi su basso intaglio; grazie al gioco chiaroscurale creato dalle variazioni
del modellato delle incavature che ricevono lo strato di smalto. Guccio riuscì a conferire a questi piccoli
spazi quadrati un aspetto pittorico: L’OREFICERIA OCCIDENTALE recepirà e adotterà rapidamente questa
tecnica.

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LE PISSIDI del Louvre( solo una): assolsero alla funzione di ricettacolo- destinati alla conservazione dell’ostia.
Questi due pissidi , dotate di una nuova montatura in rame d’epoca gotica.

((Descrizione

Basso contenitore cilindrico con coperchio conico. Sul corpo corre un tralcio in rame dorato risparmiato
includente quattro medaglioni circolari con fondo in smalto champlevé turchese, contenenti al loro interno
astri a quattro petali in smalto bianco su fondo in rame guilloché; tra un medaglione e l’altro, quattro
elementi floreali gigliati in smalto entro medaglioni a cuore in rame reservé. Sul coperchio ricorrono gli
stessi motivi (tre medaglioni circolari alternati a tre elementi gigliati). Sembrano inserimenti moderni la
piccola piastra in rame dorato liscio della serratura, in forma di scudo; e l'umbone apicale del coperchio,
sempre in rame dorato liscio, fissato con tre viti probabilmente a seguito di una frattura della parte
superiore del coperchio originale.

Il modulo decorativo qui rappresentato, che prevede l’alternanza di astri in smalto bianco – solitamente a
sei petali, qui a quattro – su fondo guilloché e elementi floreali gigliati, è documentato in molte pissidi
limosine di metà Duecento. L’esemplare di Torino sembra avvicinarsi in modo particolare a due opere oggi
conservate a Parigi, Musée du Louvre (OA 1579) e al Museu Nacional d’Art de Catalunya di Barcellona (inv.
65543). Nonostante alcune leggere differenze – in entrambi il fleuron gigliato ha la punta rivolta in basso, e
a Barcellona gli astri bianchi sono racchiusi entro grandi semicerchi con bordo in smalto – i tre pezzi hanno
in comune diversi elementi: la tipologia degli astri a soli quattro petali, anche qui in smalto bianco e
lavanda, entro losanghe dal contorno irregolare in rame guilloché; l’andamento un po’ rigido del tralcio in
rame dorato che occupa i fondi; il carattere particolare dello smalto, molto poroso, granuloso e ricco di
impurità.)

Indipendentemente dall’avorio, l’oro e l’argento erano parimenti ritenuti adeguati alla realizzazione di tali
ricettacoli. Nel XIII secolo lo sviluppo della produzione limosina di arredi liturgici in smalto champlevé su
rame doveva coincidere con la solennizzazione della celebrazione liturgica: un sinodo riunitosi in
Winchester nel 1229 raccomanda espressamente tanto i metalli preziosi quanto l’opus lemovicense per la
conservazione dell’ostia consacrata. Questo determinò la moltiplicazione delle pissidi circolari con
coperchio conico sormontato da una croce, frequentemente adornate da racemi vegetali e da medaglioni
con busti d’angelo, motivi risparmiati su fondo smaltato.

Si realizzarono ricettacoli in forma di colomba a evocare direttamente lo Spirito Santo che si potevano
appendere ad una catenella pendente dalla volta del ciborio che sormontava l’altare.

IL TABERNACOLO:

Definizione: Nel culto cristiano, edicola o nicchia in cui sono contenute immagini sacre, situata sia
all’interno di chiese o luoghi di culto, sia all’aperto, lungo vie e sentieri, all’angolo di strade, sui muri di
edifici. In particolare, l’edicola chiusa, di varia ma sempre limitata grandezza, in cui si conserva l’Eucaristia
(chiamata a volte anche ciborio), situata nelle chiese in varî punti, ma dall’età moderna sempre sopra
l’altare.

Nel XIII secolo si sceglie di collocare l’ostia in un tabernacolo o “propiziatorio” nel quale le specie
consacrate possono stare accanto alle reliquie come precisa Guillaume Durand nel Rationale divinorum
officiorum. Questi tabernacoli assumono la forma di una statuetta come la Vergine con il Bambino su trono
apribile, protetta da un baldacchino, del tesoro della Santa Casa di Loreto, dei dintorni del 1300.

La scelta del tema mariano appare appropriato: il tabernacolo può essere realizzato a forma di cofanetto, la
cui apertura conduce allo sviluppo di un trittico o anche polittico come mostra l’esempio proveniente da
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Cherves realizzato da un atelier di limosini verso il 1235: attorno alla discesa della Croce si dispiega un ciclo
cristologico, per un programma nuovo concepito come la traduzione visiva del mistero eucaristico.

A questo punto, il ricettacolo per l’ostia giunge a confondersi con il dossale: di cui occupa la stessa
posizione, nella parte posteriore dell’altare.

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