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Il primo Novecento: l’età del “male di vivere”

All’inizio del 1900 ci


sono dei cambiamenti nella vita dell’uomo che sconvolgono la nozione stessa di velocità e il
rapporto fra spazio e tempo: l’uso di massa del telefono e della radio, infatti, permettono
comunicazioni in tempo reale su scala planetaria; le automobili e gli aerei consentono spostamenti
più rapidi. La percezione collettiva della realtà cambia radicalmente: io posso parlare con chi vive
a migliaia di km. da casa mia; nello stesso giorno posso essere in una città e contemporaneamente
in un’altra molto lontana. L’ uomo vive in una dimensione potremmo dire MULTIPLA,
ACCELERATA e DECENTRATA.

Nietzsche, alla fine dell’Ottocento, scardina tutte le certezze fornite dalla scienza e dalla religione .
Mentre il Positivismo partiva dai fatti materiali considerandoli oggettivi e veri, Nietzsche afferma
che non esistono i fatti in sé ma esiste solo la loro interpretazione, sempre relativa, parziale,
caduca. Egli considera decisivo il momento dell’interpretazione che, essendo sempre soggettiva e
storicamente condizionata, non può essere mai oggettiva e vera. Secondo lui, inoltre la storia non
possiede alcuna finalità né alcuna legge che la indirizzi: le cose “preferiscono danzare sui piedi del
caso”. La vita è fatta di attimi che non rinviano ad alcun disegno globale. Il filosofo critica tutti i
valori della tradizione ebraico – cristiana, che mortifica la corporalità e la vita terrena, impedendo
la piena realizzazione delle potenzialità umane; valorizza gli aspetti intuitivi e irrazionali dell’
uomo.

Sul piano scientifico la teoria della relatività elaborata da Einstein e la teoria dei “quanti” elaborata
da Planck pongono in crisi la fisica newtoniana e una concezione unitaria e oggettiva dell’
universo.
Secondo la teoria della relatività di Einstein, anche le scienze “esatte” (matematica, fisica,
geometria) si fondano su presupposti convenzionali e relativi: quindi grandezze fondamentali
come lo spazio e il tempo, nella sua teoria della relatività, cessano di essere idee assolute, ma
diventano dipendenti dalle condizioni di chi le osserva.
Secondo i principi della fisica classica, la materia era costituita da particelle microscopiche, non
ulteriormente divisibili mentre l’energia era interpretata come un’ onda, un flusso continuo
infinitamente divisibile; Planck (premio Nobel per la fisica nel 1918) ritiene invece che anche l’
energia sia formata da particelle elementari di materia, quantità separate, cioè non continue,
dette “quanti”. Poiché i “quanti” sono discontinui e si comportano secondo leggi che variano, il
ricercatore deve rinunciare a formulare leggi della materia e può fare solo ipotesi basate sul
calcolo delle probabilità.
Con Einstein e Planck, quindi,viene introdotta la consapevolezza che anche nel campo della fisica
la conoscenza della realtà è relativa e affidata alla probabilità più che alla certezza.

C’è quindi una crisi totale dell’ oggettività: la realtà è inafferrabile nella sua parcellizzazione,
frantumazione; viene smantellata del tutto l’ idea positivistica di una realtà deterministicamente
organizzata e perciò perfettamente conoscibile; viene anche smantellata l’ idea decadente di
realtà come dimensione capace di lanciare segnali di significato a chi, attraverso un’ empatia
irrazionale, saltuariamente riesca a coglierli (vengono meno, quindi, quelle “corrispondenze”
irrazionali tra uomo e realtà, in cui ancora D’Annunzio o Pascoli credevano).

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Freud scopre che l’uomo è diviso tra una zona inconscia e una zona conscia, in cui valgono la
ragione e la volontà, che sono di fatto limitate e condizionate dalla zona inconscia. Sebbene non
sia possibile entrare in contatto diretto con l’ inconscio, è possibile indagarne il funzionamento
attraverso i suoi cosiddetti “derivati”: i sogni, i ricordi, i lapsus (cioè le dimenticanze, gli errori di
memoria, gli scambi di nomi).Sfuggendo al controllo della coscienza, “i derivati” rivelano
informazioni sull’ inconscio, nel quale risiedono passioni inconfessate, emozioni inquietanti,
desideri e reminiscenze dell’ infanzia che, giudicati scomodi o peccaminosi, l’ individuo tende a
ignorare, ma che riaffiorano di continuo alla coscienza in forme mascherate, condizionando
potentemente la sua vita quotidiana. La vita psichica dell’uomo è quindi un campo aperto di
tensioni. I comportamenti umani incoerenti, irrazionali e istintivi non possono più quindi essere
ricondotti a cause oggettive, come il milieu, il moment o la race: crolla la certezza positivistica di
poter conoscere perfettamente l’uomo. Si comincia invece a pensare che l’ origine della nevrosi e
dei malesseri psichici risieda in zone rimosse della coscienza, parti sommerse dell’ io che la ragione
non controlla.

Il filosofo francese Bergson distingue il tempo della scienza dal tempo della coscienza o “durata” .
Il tempo della scienza è quello della fisica classica, cioè una successione di istanti identici in un
ordine progressivo e rettilineo, che possono essere misurati secondo criteri matematici. Il tempo
della coscienza è un continuum, nel quale i diversi momenti hanno durata variabile, secondo la
valenza emotiva che acquistano nella vita dell’individuo; visto che la coscienza dispone di
memoria, un evento passato non è mai completamente superato ma entra a far parte della nostra
esperienza e condiziona il modo di vivere gli eventi successivi. Il tempo come durata quindi è
fluidità indefinibile, simultaneità che annulla le differenze fra passato, presente e futuro.
Bergson, inoltre, contro ogni concezione deterministica, interpreta la vita come “slancio vitale”,
cioè dimensione dinamica, caratterizzata dall’ imprevedibilità e dall’ originalità. Entrando in
relazione con la materia, però, il flusso inarrestabile assume forme determinate; lo slancio vitale
può solo realizzarsi nelle forme della materia ma in questo modo si cristallizza, perdendo il proprio
impulso.

La I guerra mondiale è un conflitto combattuto con le armi della tecnologia (telefono, radio, aerei,
autocarri) e che quindi perde ogni carattere eroico e individuale: è guerra di masse anonime,
costrette a vivere inchiodate per mesi nel fango delle trincee.

Nella città moderna dei tram, delle automobili e degli uffici, l’individuo conduce una vita anonima
e ripetitiva nonché artificiale, lontana dalla natura: si sente trasformato in cosa, in oggetto cioè
viene reificato; vive quindi alienato ovvero si guarda vivere.
Nel dipinto dell’espressionista tedesco Kirchner, intitolato Persone nude che giocano, del 1910, ci
sono uomini nudi e liberi nel paesaggio, colti da rapide pennellate, che confondono i corpi nudi
con gli elementi della natura. Il colore acceso e violento, la semplificazione immediata delle
immagini esprimono la ribellione a tutte le regole e le costrizioni sociali e l’aspirazione a una felice
e armonica relazione con la natura.

C’ è quindi una crisi totale della soggettività: l’ uomo non solo non conosce più la realtà ma è
estraneo anche a se stesso. L’ uomo volitivo, dinamico, attivo, battagliero dell’Ottocento
romantico e positivista è diventato un soggetto paralizzato, impotente, smarrito, disorientato,
angosciato, privo di identità e di “qualità” (L’uomo senza qualità è il titolo di un romanzo di Musil).
Eliot, poeta americano premio Nobel, parla degli hollow- men, degli uomini vuoti, di paglia, sfiniti
dopo gli shock subiti; sono stati svuotati dell’ anima. Lo scrittore portoghese Pessoa ne Il libro

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dell’inquietudine ci presenta Bernardo Soares, un impiegato che in una stanza d’ ufficio o in una
camera d’ affitto trascorre la sua vita guardando da una finestra: egli manifesta il desassossego
cioè la mancanza di tranquillità, il disagio, l’inadeguatezza e l’incompetenza verso la vita.

IL MODERNISMO
Giorgio De Chirico, Le Muse inquietanti, 1917-1918
Collezione privata, Milano

Nella prima metà del 1900, gli scrittori modernisti lottano contro L’INSENSATEZZA DELLA VITA
ovvero cercano di reagire agli shock storici ed epistemologici di inizio secolo: essi, infatti, si
accaniscono ad interrogare la realtà che nega ogni risposta sensata. In loro c’è un BISOGNO
PERSISTENTE DI SENSO, UN DESIDERIO DI SIGNIFICATO, LO SFORZO DI CAPIRE il caos e l’assurdo
dell’esistenza. Essi mirano ad una POSSIBILE ma PROBLEMATICA RICOSTRUZIONE del SENSO
ESISTENZIALE. Il Modernismo, quindi, è la prospettiva , lo SGUARDO da cui alcuni scrittori europei
osservano le trasformazioni in atto della società all’inizio del 1900; dagli scrittori modernisti il
lettore capisce che deve riconfigurare la sua esistenza rispetto ad una realtà “terribile” (dice il
Mattia Pascal pirandelliano), la quale non è una sequenza lineare ma un insieme di dimensioni
impalpabili e non prevedibili, che devono essere guardate “in faccia”, per citare ancora Pirandello.
Quella modernista è un’interpretazione che parte da un’istanza di senso, un senso comunque
cercato in quella realtà, che è groviglio complesso, contradditorio di coscienza e inconscio, tempo
cronologico e tempo soggettivo, molteplicità dei punti di vista, distonia tra l’individuo e la società
che, imponendo regole e maschere, frustra questo; i Modernisti quindi recuperano in forma
straniante la tradizione, senza annullarla (le Avanguardie, invece, distruggono la tradizione per
creare qualcosa di nuovo).
I romanzieri e i poeti che possono essere definiti modernisti sono i seguenti, sebbene il
Modernismo, come orientamento culturale, identifichi nello specifico quegli autori che scrivono
tra il 1904 (Il fu Mattia Pascal) e la fine degli anni ’20:
 Giuseppe Ungaretti
 Umberto Saba
 Eugenio Montale
 Luigi Pirandello
 Italo Svevo
 Carlo Emilio Gadda
 Marcel Proust
 James Joyce
 Virginia Woolf
 Franz Kafka
 Ezra Pound
 Thomas S.Eliot

LE AVANGUARDIE STORICHE

Umberto Boccioni, Dinamismo di un ciclista, 1913


Peggy Guggenheim Collection, Venezia

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Gli scrittori d’AVANGUARDIA, invece, distruggono e SPERIMENTANO; scardinano la tradizione con
scelte estetiche audaci, provocatorie. All’omologante civiltà capitalistica che disconosce il valore
della creatività oppongono il primato della POTENZA DELLE IDEE, della FORZA ESPRESSIVA
INDIVIDUALE, adottando linguaggi nuovi e rivoluzionari, quindi sperimentali, per STUPIRE e
SCANDALIZZARE.
L’arte delle avanguardie primonovecentesche (Espressionismo, Futurismo, Dadaismo e
Surrealismo) si caratterizza per la rinuncia ai criteri dell’armonia e del bello.
Nella nuova arte tendono a prevalere la deformazione grottesca, l’alterazione delle normali
gerarchie, la simultaneità di prospettive diverse, l’elemento onirico e visionario.

Anticipato già alla fine del 1800 dai dipinti di Munch e Van Gogh, l’ESPRESSIONISMO è la prima
Avanguardia del Novecento.
L’Espressionismo non rispetta più le gerarchie della rappresentazione e privilegia la visionarietà
soggettiva: il singolo elemento è sciolto dall’ intero; le proporzioni non sono più rispettate; un
particolare minimo può occupare tutta l’opera d’arte e diventare gigantesco. La realtà oggettiva,
quindi, non esiste più: esiste solo il frammento, il dettaglio isolato in modo icastico dall’ insieme e
che, una volta “zoomato”, diventa mostruoso o perturbante.

Gita al faro di Virginia Woolf


Edward Hopper, La lunga gamba, 1930
Huntington Library and Art Gallery, San Marino, California

In Gita al faro (1927) – o Al faro, a seconda delle traduzioni italiane- la trama è esile perché al
centro della narrazione ci sono i legami complessi tra i personaggi, la cui vita interiore il lettore
deve essere disposto a seguire, per ricostruire un senso frantumato (POLIPROSPETTIVISMO).
E’ un intreccio di voci che affiorano in dialoghi apparentemente banali oppure, più spesso, in
monologhi interiori, in cui c’è il flusso dei ricordi o dei sogni ad occhi aperti. La realtà esterna,
quindi, è soltanto un movente occasionale che diventa importante solo se suscita UN
MOVIMENTO, UNO SQUARCIO nell’interiorità dei personaggi.
La voce narrante, perciò, trasmigra da un personaggio all’altro: non esiste più un narratore che
tiene le fila del discorso.
La storia è ambientata in una delle isole Ebridi, sull’Atlantico, al largo della costa scozzese, luogo di
villeggiatura della famiglia Ramsay.
Il primo capitolo si intitola LA FINESTRA, con allusione alla finestra da cui il piccolo James, il figlio
di sei anni della signora Ramsay, scruta speranzoso il cielo.

Il romanzo comincia così: “Sì, certo, se domani fa bel tempo” disse la signora Ramsay. “Però dovrai
essere in piedi con l’allodola” aggiunse. A suo figlio queste parole comunicarono una gioia
straordinaria, come se fosse stabilito che la spedizione avrebbe avuto luogo senz’altro (…). “Ma”
disse suo padre, fermandosi davanti alla finestra del salotto “non sarà bello”.
Se avesse avuto a portato di mano un’accetta, un attizzatoio, o qualsiasi arma in grado di
squarciare il petto a suo padre e di ucciderlo, lì, subito, James l’avrebbe afferrata”.

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Compare subito in primo piano un tema fondamentale nella letteratura modernista europea di
autori come Kafka, Musil, Joyce e Svevo: l’aggressività potenziale del figlio, nei confronti del padre.
Nel dibattito culturale novecentesco è infatti Freud che riporta al centro il mito di Edipo e il
complesso edipico che nel romanzo è evidente nell’atteggiamento di James: il bambino, prima, e
ragazzo, poi, è affettivamente proteso verso la madre e potenzialmente rabbioso verso il padre, la
cui parola è percepita come un ostacolo alla sua realizzazione.

Attorno alla famiglia Ramsay si muovono diversi personaggi tra cui Lily Briscoe (alter ego di Virginia
Woolf), una giovane pittrice, che dal giardino di casa Ramsay cerca di dipingere la signora Ramsay
alla finestra, che legge un libro di fiabe al piccolo James.
Dagli accenni interni al libro, il lettore capirà, più avanti, che si tratta di un giorno del settembre
1914.In questo primo capitolo, il più lungo, è narrato lo svolgersi di un’unica giornata.

Il secondo capitolo si intitola IL TEMPO PASSA e, nonostante sia il più breve, copre lo spazio di
dieci anni ed è tutto incentrato sulle modificazioni che il tempo ha portato alla casa, agli oggetti,
alla famiglia Ramsay: la guerra (la Prima guerra mondiale) tiene lontani i Ramsay dalla casa, che va
in rovina; alcuni componenti della famiglia non ci sono più, perché sono andati lontano o sono
morti (è morta anche la signora Ramsay).Al centro del capitolo c’è la casa vuota e il tempo diventa
l’unico personaggio, come personificato, a muoversi fra le sue mura desolate. La casa delle
vacanze, ormai abbandonata dalle voci umane, è descritta attraverso alcuni aspetti della natura,
come correnti d’aria, fenomeni atmosferici, luci e ombre. E’ attraverso la trasformazione degli
oggetti e deli luoghi che viene misurato il tempo, non più dall’interiorità dei personaggi.
Il tempo che passa è quindi testimoniato dagli oggetti rimasti nella casa, ormai trasformati dall’
irruzione degli “aliti dispersi, avanguardia di grandi eserciti”: “(…) Entrarono con furia, spazzando
le assi spoglie; mordevano e soffiavano, senza incontrare nelle camere e nei salotti nulla che
resistesse loro, se non della carta da parti scollata che sbatteva, del legno he scricchiolava, le
gambe nude dei tavoli, le pentole e le porcellane ormai incrostate di calcio, annerite, incrinate. Ciò
che s’erano tolti e avevano lasciato lì – un paio di scarpe, un berretto da cacciatore, delle gonne
sbiadite e delle giacche negli armadi- serbava ancora l’impronta umana e in quel vuoto indicava
che una volta quelle forme erano state piene, animate (…)”.

Il terzo capitolo si intitola AL FARO e sono raccontati gli eventi di poche ore di una giornata, cioè la
gita al faro, finalmente: la gita, però, non è narrata attraverso i fatti ma piuttosto attraverso la
registrazione dei pensieri dei superstiti della famiglia.
James, ormai un perfetto marinaio, fa attraccare la piccola barca sullo scoglio roccioso. (“…Ecco
com’era, pensò James, il Faro, che per tutti quegli anni avevano visto attraverso la baia: era una
torre nuda su una roccia deserta. Era soddisfatto...”).
Il faro è il simbolo di ciò che si desidera, ciò a cui si aspira e che, alla fine, diventa “conquista”; allo
stesso modo anche il rapporto padre –figlio, che per tutto il romanzo è perturbato, ritrova
un’armonia proprio nel momento in cui James guida la barca che trasporta i personaggi
all’agognato faro.

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Intanto la pittrice Lily Briscoe, di nuovo ospite dei Ramsay come dieci anni prima, è rimasta sulla
spiaggia a dipingere: mentre guarda la finestra dietro alla quale osservava di solito la signora
Ramsay, le sembra ancora di vederla e quindi la ritrae come le appare nella sua immaginazione,
finendo il quadro iniziato allora: passato e presente si ricongiungono quindi, alla fine, in una luce
che ne rivela il significato profondo.(“…In fretta, come se qualcosa la chiamasse là, si volse verso la
sua tela. Eccolo lì- il suo quadro. Sì, con tutti i verdi e blu, le linee che correvano in alto e da una
parte all’altra, il tentativo di qualcosa. L’avrebbero appeso in soffitta, pensò; sarebbe stato
distrutto. Ma che cosa importava? Si chiese, riprendendo il pennello. Guardò i gradini; erano vuoti;
guardò la tela; era una macchia indistinta. Con intensità improvvisa, come se vedesse chiaro per
un attimo, tracciò una linea là, al centro. Era fatto; era finito. Sì, pensò, posando il pennello sfinita,
ho avuto la mia visione.”)
La linea del quadro, che unisce gli elementi del dipinto, è una metafora della scrittura della
Woolf, che prima dissolve ma poi cerca comunque di ricomporre: l’opera è coerente perché è
conclusa ( c’è il claudo latino che significa “chiudo”).

Alla ricerca del tempo perduto-La strada di Swann di Marcel Proust

Alla ricerca del tempo perduto è l’opera nodale del Novecento: una multiforme e densa narrazione
composta di sette romanzi, il primo dei quali è La strada di Swann – o Dalla parte di Swann (1913),
a seconda delle traduzioni italiane.
Proust ritiene che l’incontro con un oggetto possa provocare la resurrezione del passato, rendendo
questo attuale ed evidente (les intermittences du coeur): si considerino gli episodi esemplari della
madeleine inzuppata nel tè; i campanili di Martinville; il petit pavillon treillissè de vert degli
Champs- Elysées; i tre alberi e poi la siepe di biancospini presso Balbec; l’episodio degli stivaletti a
Balbec; i pavés assez mal équarris del cortile dei Guermantes.
LA RICOSTRUZIONE DEL PASSATO, quindi, NON coincide con la POSSIBILITA’ DI RICORDARLO ma
con la CAPACITA’ DI FARLO RISORGERE, attraverso SENSAZIONI ed EMOZIONI INNESCATE DALLA
REALTA’ ESTERNA.
E’ una sensazione in cui si fondono, per miracolo (per un simple hasard), materia e memoria,
indipendentemente da ogni determinazione volontaria. Questa “intermittenza del cuore” rivela la
sola felicità possibile, che coincide con il ritrovamento, fuori del tempo, di se stessi, negli esseri,
nelle cose, nei luoghi.
Proust è il primo grande romanziere che abbia applicato i principi del Simbolismo alla narrativa:
leggendo la sua opera si varca una soglia oltre la quale ci attende l’eternité, le bleuités, per dirla
con Rimbaud, che non è un tempo illimitato, infinito ma UN TEMPO INTRECCIATO.
Attraverso le illuminazioni improvvise il passato sepolto, sommerso, non solo riaffiora ma è
percepito con un’emozione nuova, un piacere e un appagamento che solo la memoria involontaria
può garantire. In questo modo non c’è il semplice recupero del ricordo ma il tentativo di farlo
“parlare” in un presente che si riempie di passato e che permette di ipotizzare un futuro. E’ come
se il passato, riscoperto CASUALMENTE, INASPETTATAMENTE al presente, si liberasse di una
scorza, di una supeficie esteriore e mostrasse un’essenza segreta e fuori dal tempo.
La memoria volontaria, quindi, riesce a catturare solo la superficie delle cose, mentre quella
involontaria, accesa da moventi esterni e occasionali, disseppellisce sensazioni depositate negli
strati più profondi della psiche che sembrano restituire, per un attimo, un senso pieno all’
esistenza.

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La strada di Swann si apre con il narratore, Marcel che, a letto, insonne, cerca di recuperare le
immagini della propria infanzia trascorsa in campagna a Combray, dove tutta la famiglia si riuniva
in vacanza.
Il narratore si sofferma sulle sensazioni di felicità che le passeggiate nelle campagne di Combray gli
procuravano. Dalla casa era possibile seguire due percorsi: il primo portava dalla parte in cui si
trovava la proprietà di Swann, vecchio amico del nonno del protagonista; l’altra strada conduceva
invece alla tenuta dei duchi di Guermantes. Nella volontà di ricordare, Marcel è consapevole di
AVER PERDUTO L’ESSENZA PROFONDA DI QUEL MONDO ORMAI PASSATO. I genitori, la nonna e il
nonno, le zie sono ormai figure indistinte, che si stanno cancellando dalla memoria, per cui il
narratore capisce che quel mondo non gli appartiene più e che è inutile cercare di recuperare il
passato come è stato.
Tuttavia una sera, rientrato infreddolito in casa di sua madre, il Marcel adulto, mentre intinge “un
pezzettino di madeleine” in una tazza di tè, è attraversato da una sensazione che lo illumina
all’improvviso.
Quel gesto così trascurabile ha risvegliato in lui una MEMORIA INVOLONTARIA, attraverso cui è
possibile cogliere CON OCCHI NUOVI L’ESSENZA DEL PASSATO.
“(…)Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse
il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una
deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua causa. Di colpo mi
aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità,
agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza
non era dentro di me, io ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente,
mortale. Da dove era potuta giungere una gioia così potente? (…)Bevo una seconda sorsata nella
quale non trovo nulla di più che nella prima, una terza che mi dà un po’ meno della seconda. E’
chiaro che la verità che cerco non è lì dentro, ma in me. La bevanda l’ha risvegliata, ma non la
conosce (…). E tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me. Il sapore era quello del pezzetto di
madeleine che la domenica mattina a Combray (perché nei giorni di festa non uscivo di casa prima
dell’ora della messa), quando andavo a dirle buongiorno nella sua camera da letto, zia Léonie mi
offriva dopo averlo intinto nel suo infuso di tè o di tiglio (…) così ,ora, tutti i fiori del nostro giardino
e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro
piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta
prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè”.

La Metamorfosi di Franz Kafka

La statua di Franz Kafka è una scultura dell'artista Jaroslav Róna installata nel dicembre 2003 nella via Vězeňská nel
quartiere ebraico di Praga.

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Il poeta italiano Franco Fortini definiva Kafka con queste parole: “Giudice e profeta di tutta la
prima metà del XX secolo dell’Occidente europeo”.
I protagonisti dei romanzi di Kafka (ad esempio de La metamorfosi, Il processo e Il castello) sono
“eroicamente” in lotta con il mondo perché possano strapppare da questo un senso, che appaghi il
bisogno esistenziale di risposte.
La dimensione più assurda è quella di voler capire ciò che non è più comprensibile.

Ne La metamorfosi si racconta la storia di Gregor Samsa che una mattina si sveglia e si ritrova
trasformato in un insetto mostruoso (in tedesco antico la parola che indica insetto è Ungeziefer,
“animale immondo”, cioè “impuro” che non può essere sacrificato agli dei). La reazione non è di
stupore ma piuttosto di preoccupazione per l’impossibilità di recarsi al lavoro.
In un passo della Lettera al padre, che Kafka scrisse spinto dall’esigenza di fare un bilancio della
propria vita condizionata dalla straripante volontà del padre, un energico commerciante, lo
scrittore descrive appunto la lotta del figlio con il padre come “la lotta dell’insetto che non soltanto
punge, ma al tempo stesso succhia il sangue per mantenersi in vita”.
La metamorfosi in un insetto ributtante, com’è un enorme coleottero, ha un doppio valore
metaforico: innanzitutto simboleggia il ruolo ormai depotenziato che ha l’uomo occidentale nella
società primonovecentesca; trasformandosi in insetto, però, il protagonista trova anche “una via
d’uscita,” senz’altro paradossale e tragica, quindi GROTTESCA, rispetto al DOMINIO che la famiglia
e l’ambiente di lavoro esercitano su di lui. La metamorfosi, infatti, LO LIBERA da coloro che lo
sfruttano, cioè il capo dell’ufficio in cui lavora e il padre che vive da parassita alle sue spalle. Kafka,
quindi, rifiuta radicalmente due capisaldi della società moderna occidentale: la famiglia e il lavoro.
Gregor, ormai trasformato, parla del suo lavoro di commesso viaggiatore in termini assolutamente
negativi: deve alzarsi ogni mattina alle quattro, sempre con l’ansia di fare tardi al treno, è un
lavoro che gli impone “pasti irregolari e cattivi” e contatti umani precari, “mai stabili, mai
cordiali”. Ma è soprattutto umiliante l’atteggiamento del principale “di parlare col dipendente
dall’alto in basso”, di scagliare fulmini e di circondarsi di scagnozzi ottusi e pronti a fare la spia.
Tuttavia, Gregor non può ribellarsi perché i suoi guadagni servono per pagare un debito di
famiglia. Eppure avrebbe un lavoro che gli piace, un lavoro non alienante: è quello dell’intaglio, un
lavoro da artigiano che ha messo in pratica per costruire “una graziosa cornice dorata”.
La stanza di Gregor-scarafaggio è lo specchio della sua solitudine ma anche della sua debolezza e
della sua vulnerabilità: infatti Gregor è continuamente esposto alle invasioni dei familiari che in
qualsiasi momento possono “attaccarlo” dalle tre porte che separano la camera dal resto della
casa.
A poco a poco, visto che nessuno dei familiari gli rivolge più la parola, Gregor è costretto a
rinchiudersi nella stanza divenuta davvero come una tana.
Il romanzo rappresenta la MANCANZA DI SENSO che caratterizza la realtà, nella fattispecie il
rapporto con gli altri e con le cose ci circondano.
La tragedia più grande degli “eroi” kafkiani, però, non è la scoperta dell’insensatezza del vivere,
l’essere oppressi da una realtà indecifrabile e assurda, ma LA VOLONTA’, LO SFORZO DI
INTERROGARE QUELLA REALTA’ CHE NEGA INVECE OGNI RISPOSTA.
Kafka giunge quindi ad una compiuta formulazione ed esemplificazione del concetto di ASSURDO,
come fondamento dei rapporti umani e come UNICA FORMA DI CONOSCENZA DELLA REALTA’ (per
quanto riguarda la letteratura successiva, la tematica filosofica dell’assurdo sarà sviluppata
narrativamente da Buzzati, con Il deserto dei Tartari, da Sartre e da Camus).

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