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Due opere giovanili di Kafka

Preparativi di nozze in provincia, o, se si preferisce, “in campagna”, del 1907,


è un testo relativamente lineare, a parte la perdita di alcune pagine. Un certo
Raban si accinge a trascorrere le ferie in una cittadina, dove già si trova la
fidanzata, Betty. Non è affatto convinto della bontà della propria intenzione,
né pare trascinato dal desiderio di sposarsi. Comunque bene o male sale in
treno e perviene alla meta. Il testo non è concluso. Interessante è l'immagine
che Raban, in treno, si rappresenta di sé stesso, fermo a letto sotto le
coperte, come un insetto fuor di misura, mentre solo il suo corpo umano è in
viaggio. L'insetto si riposa, il corpo umano socialmente accettabile si reca
invece dalla fidanzata. Naturalmente l'immagine rimanda al celebre racconto
noto come La metamorfosi (Die Verwandlung).
Ho tradotto solo una delle versioni di Preparativi di nozze in provincia.

Descrizione di un combattimento, o, se si preferisce, “di una battaglia” (di una


“lotta”) scritto e riscritto da Kafka tra il 1903 e il 1907, consta di due versioni.
Ho tradotto per intero la prima, in parte soltanto la seconda. Qualora ci si
aspettasse qualcosa di bellico e militare si resterebbe delusi. A un primo
livello, direi banalizzante, il “combattimento” o “battaglia” si svolge tra il
narratore e un suo probabile coetaneo da poco conosciuto durante un
ricevimento dove il secondo ha conseguito, pare, dei successi erotici con una
certa Annetta, di cui è, piuttosto conflittualmente, innamorato. L'avverbio
rimanda alla suddetta battaglia, forse, e già la comprensione del racconto si
arricchisce. Comunque sia i due giovani escono dal ricevimento e
camminano nella notte facendo conoscenza in modo meno salottiero di
quanto avessero fatto poco prima. Forse sono ebbri, certo nevrotici.
A un livello diverso potremmo suggerire invece che la “battaglia” in questione
ha a che vedere con il lavorio dell'autore nella sua materia narrativa. Direi
che l'autore esce sconfitto, infatti il tutto, specie nella versione A, la prima,
non sta insieme. “Impazzisce”, come si dice o si diceva a proposito di una
preparazione – fallimentare - della maionese. Chi avrà la pazienza di leggere
questo “racconto” troverà fughe per la tangente di per sé degne di nota, ma
nel contesto compositivo astruse. A tratti si ha l'impressione che il narratore si
trovi sotto l'effetto di qualche sostanza allucinogena. Allucinazioni e nevrosi
sono in definitiva la materia del testo.

Nicola Spinosi
Nozze in provincia. Preparativi.

Eduard Raban attraversò l'atrio e dal vano del portone vide che pioveva.
Un po'. Proprio davanti a lui sul marciapiede c'erano molte persone che
procedevano variamente. Qualcuno s'avvicinava e attraversava la
carreggiata. Una fanciullina reggeva sulle mani un cagnolino stanco.
Due signori si scambiavano informazioni, uno di loro teneva le mani
con i palmi sollevati e le muoveva in modo simmetrico quasi tenesse in
sospeso un carico. Poi si vide una signora il cui cappello era assai
carico di nastri, nastrini e fiori. E un giovane con bastoncello
s'avvicinava in fretta, la sinistra come schiacciata sul petto. Andavano e
venivano uomini che fumando soffiavano nuvolette oblunghe e dritte.
Tre signori – due tenevano i soprabiti leggeri ripiegati sull'avambraccio
– tendevano a muoversi dalla parete dell'edificio fino al margine del
marciapiede, osservavano ciò che vi succedeva, e, continuando a
parlare, ritornavano indietro.
Attraverso gli varchi tra i passanti si vedevano le pietre ben commesse
del selciato, su cui carrozze dalle ruote alte e sottili erano tirate da
cavalli con il collo teso. La gente che sedeva sui sedili imbottiti
guardava in silenzio chi andava a piedi, i negozi, i balconi e il cielo.
Dovendo una carrozza sorpassarne un'altra i cavalli si sforzarono
accostandosi, i loro finimenti ballarono, dettero strappi contro il timone,
la carrozza corse oscillando fin quando non ebbe completato il
sorpasso ellittico dell'altra carrozza, e i cavalli si separarono di nuovo
l'un dall'altro, ravvicinate solo le strette teste impassibili.
Alcune persone si fecero rapidamente avanti sul portone dell'edificio,
restarono sopra il mosaico, all'asciutto, e si girarono attorno con
lentezza guardando la pioggia che cadeva strozzata in quella stretta
viuzza.
Raban si sentiva stanco. Aveva labbra pallide come il rosso scolorito
della sua larga cravatta a disegni moreschi. La signora che si trovava al
di là del vano della porta ora guardava verso di lui con indifferenza, o
forse guardava solo la pioggia che cadeva davanti a lui, o i manifesti
commerciali che erano fissati, al di sopra dei capelli di lui, sulla porta.
Raban la credette meravigliata. “Ora”, pensò, “se io potessi farle un
resoconto, non sarebbe stupita. Si lavora in ufficio con tal foga che poi
si è perfino troppo stanchi per godersi le ferie. Tuttavia, con tutto che si
lavora, ancora non si arriva ad aver alcun diritto di esser trattati per
bene da tutti, anzi, a tutti si è estranei. Fintanto poi che tu dici 'si' invece
che 'io' passi, e si può raccontarla, questa storia, ma non appena tu
ammetti che in questione sei tu stesso, allora ti trafiggono, e tu
spaventato trasecoli”.
Piegando le ginocchia mise giù la valigia foderata di stoffa. L'acqua
piovana intanto scorreva sui lati della carreggiata a fiotti allargantisi
fino alle fognature.
“Se però io distinguo tra 'si' e 'io' come posso poi lamentarmi degli
altri? Probabilmente loro non hanno torto, ma io sono troppo stanco per
capire tutto quanto. Sono perfino troppo stanco per far la strada verso
la stazione senza sforzo, eppure è breve. Perché dunque non resto in
città durante queste brevi ferie, per rimettermi? Sono davvero
irrazionale. Questo viaggio mi nuocerà, lo so. La mia camera non sarà
abbastanza confortevole, in provincia non può essere che così. Siamo
appena alla prima metà di giugno, l'aria di campagna spesso è ancora
parecchio fredda. Certamente sono vestito in modo appropriato, ma
dovrò accompagnarmi con gente che la sera tardi va a passeggio. Ci
sono laghetti, si andrà a camminare lungo le rive. E io certo prenderò
freddo. In compenso mi segnalerò poco nelle conversazioni. Non saprò
mettere a confronto uno di quei laghetti con altri laghetti lontani, infatti
non ho mai viaggiato né saprò, parlando della luna, provar beatitudine,
né saprò salire entusiasta su mucchi di ruderi, sono troppo vecchio per
non venir deriso”.

Vennero verso di me delle persone con le teste un po' abbassate


reggendo ombrelli scuri aperti. S'avvicinò anche un carro, sul cui sedile
impagliato un uomo teneva le gambe larghe in modo tanto trasandato
che un piede gli toccava quasi terra, mentre l'altro stava sulla paglia e i
brandelli del sedile. Pareva che, come durante una bella giornata, se ne
stesse seduto in un prato. Eppure teneva vigile le redini, per cui il carro,
su cui sbattevano tra loro sbarre di ferro, se la cavava bene nella calca.
Per terra si vide nel bagnato il riflesso del ferro scivolare da una fila di
pietre all'altra, sinuoso e lento.

Il bambino vicino alla signora era vestito come un viticoltore all'antica. Il


suo abito a pieghe in basso faceva un gran cerchio, mentre era stretto
sotto le ascelle da una cintura di cuoio. Il suo berretto semisferico
arrivava fino alle sopracciglia e dalla cima pendeva un fiocco giù fino
all'orecchio sinistro. La pioggia rallegrava il bambino. Corse fuori dal
portone e a occhi aperti scrutò il cielo allo scopo di prenderne di più.
Continuò a saltar su, tanto che l'acqua schizzò abbondante, e chi
arrivava lo rimproverò vivacemente. Allora la signora lo chiamò e da
quel momento lo tenne per la mano; eppure lui non pianse.
Raban si spaventò. Non era già tardi? Dato che portava soprabito e
giacca aperti cavò alla svelta l'orologio. Era fermo. Di malumore a uno
che era lì vicino, ma un po' più all'interno dell'atrio, chiese l'ora. Costui
stava conversando e disse, ancora impegnato a ridere di qualcosa: “ma
prego, son le quattro passate”, e si girò.
Raban aprì rapidamente l'ombrello e prese la valigia in mano. Quando
però stava per uscire in strada fu ostacolato da alcune donne frettolose
che lui fece passare. Nel far ciò abbassò lo sguardo sul cappello d'una
ragazza bassa, che aveva una coroncina verde sulla tesa ondulata di
paglia color rosso.
Ancora se ne ricordava, quando si trovò nella strada che saliva nella
direzione che lui intendeva prendere. Poi se ne dimenticò, dato che ora
aveva da sforzarsi un poco; la valigetta non gli risultava leggera, e il
vento gli soffiava contro facendo sventolare la giacca e rovesciare le
stecche dell'ombrello.
Fu costretto a prender fiato; un orologio in una piazza vicina suonò con
gravità le cinque meno un quarto; da sotto l'ombrello vide i passettini
della gente che gli veniva incontro, ruote di carrozza scricchiolarono
frenando, rallentarono, i cavalli tesero le loro scure zampe anteriori,
baldi come camosci in montagna.
A quel punto a Raban fu chiaro che avrebbe passato per tutti i prossimi
quattordici giorni un brutto periodo, solo quattordici giorni, dunque un
tempo limitato, e, anche se le spiacevolezze diventano sempre
maggiori, scema anche il tempo durante il quale si devono sopportare.
Per cui il coraggio senza dubbio cresce.

Tutti quelli che sono intenzionati a tormentarmi, e che ora hanno


occupato tutto lo spazio che mi circonda, sono respinti pian piano
indietro per mezzo del benigno scorrere di questi giorni, e senza che io
debba collaborarvi nemmeno minimamente. E posso, dal momento che
ciò si produce come cosa naturale, esser mite e tranquillo e far riuscire
tutto a mio pro' - tutto deve però diventar buono soltanto per mezzo
dello scorrer via dei giorni.
E non sono in grado di farlo, come sempre facevo da bambino nel caso
di impegni rischiosi? Non ho affatto bisogno di andare in provincia, non
serve. Ci mando solo il mio corpo vestito. Che traballa fuori dall'uscio di
camera mia - traballare non significa timore, ma vacuità. Né significa
emozione, se il mio corpo incespica sulle scale, se singhiozzando va da
qualche parte in campagna e, piangendo, cena. Io, io, frattanto, giaccio
nel mio letto ben riparato dalla coperta giallo/marrone, a parte l'aria che
spira dalla finestra semichiusa.
Giacendo a letto sembro un grosso scarafaggio, un cervo volante o un
maggiolino, credo”. <Si consideri la suggestione, sviluppata poi con La
metamorfosi – n.d.t.>

Dinnanzi a un negozio dentro cui, al loro bastoncino, stavano appesi


piccoli cappelli da uomo dietro una vetrina bagnata, lui restò a
guardare, le labbra riunite a punta. “Orbene, il mio cappello per le ferie
basterà”, pensò passando oltre, “e se nessuno riesce a sopportarmi per
via del mio cappello, tanto meglio”.

Grossa figura di scarafaggio, certo. La mettevo come in letargo e mi


stringevo le gambette al tronco panciuto. Sibilo una modica quantità di
parole, sono disposizioni per il mio corpo afflitto, che presso di me
fatica a starci, rassegnato. Presto son pronto, lui s'inchina, se ne va
svelto, e farà tutto per bene, intanto che io riposo.

Raggiunse una solitaria porta urbana dalla volta tonda che, in cima alla
ripida viuzza, portava in una piazzetta circondata da botteghe già
illuminate. Nel centro della piazza, oltre la luce un po' attenuata, si
trovava la bassa statua d'un uomo seduto, cogitante. Davanti alle luci le
persone si muovevano come fossero smilze saracinesche e, poiché le
pozzanghere ampliavano in larghezza e profondità il riflesso, l'aspetto
della piazza mutava di continuo.
Raban avanzò alquanto nella piazza, tuttavia schivando con un guizzo la
carrozza che spuntava saltò dall'isolata pietra asciutta all'altra asciutta
reggendo in alto l'ombrello aperto per vedere ogni cosa all'intorno. Fino
a fermarsi vicino all'asta d'una lanterna – una fermata del tram elettrico
– piazzata in un basamento cubico di mattoni.
Eppure in provincia mi si attende. Già si fan supposizioni? In una
settimana, da quando lei è in provincia, non le ho scritto, solo stamani
presto. Dopotutto mi s'immagina diverso. Si crede forse che mi precipiti
a rivolgere la parola a uno, eppure non è mia abitudine, o che io
l'abbracci, all'arrivo, cosa anche questa che non faccio volentieri. Se
cercherò di rabbonirli li farò irritare. Se davvero potessi farli irritare
tentando di rabbonirli!

In quel momento venne avanti una carrozza aperta, non veloce, dietro le
cui due lampade accese c'erano due signore sedute su scuri sedili di
pelle. Una era appoggiata indietro e aveva il volto nascosto da un velo e
dall'ombra del cappello. Ma il corpo dell'altra era eretto; il cappello era
piccolo, penne scure lo circondavano. Tutti potevano vederla. Il suo
labbro inferiore era un po' ritirato nella bocca.
Mentre la carrozza era davanti a Raban un palo coprì la vista dell'altro
cavallo, poi un cocchiere – indossava un gran cappello a cilindro – su
un'insolitamente alta cassetta apparve davanti alle signore – ch'erano
già molto lontane – quindi la carrozza girò l'angolo d'una piccola casa,
cosa che parve come strana, e sparì alla vista.
Gli guardò dietro a testa china, Raban, appoggiandosi il manico
dell'ombrello alla spalla per vedere meglio. S'era ficcato il pollice destro
in bocca e ci sfregava i denti sopra. La valigia gli stava vicino per terra
posata su un lato.
Carrozze andavano da strada a strada sulla piazza, il tronco dei cavalli
volava a balzi equilibrati, come lanciato, la loro testa faceva sì sì
segnalando il brio e però anche lo sforzo del movimento.
A tutti e tre gli angoli delle strade che sfociavano nella piazza stavano
sul marciapiede molti sfaccendati che picchiettavano coi loro
bastoncelli il pavimento. Tra i loro gruppi v'erano banchi presso cui
ragazze mescevano limonata, orologi stradali su pali sottili, uomini con
sul petto e le spalle grandi cartelli che a caratteri multicolori
segnalavano intrattenimenti, poi facchini su sedie giallognole con <...>
della sera

(manca un foglio)

una combriccola. Due carrozze padronali che attraverso la piazza


imboccavano la stradina in discesa tennero indietro alcuni signori di
tale combriccola, ma dopo la il passaggio della seconda carrozza – già
dopo la prima, cauti assai, ci avevano provato – si ricompattarono, quei
signori, con gli altri, insieme ai quali poi in lunga fila presero il
marciapiede ed entrarono in un caffè, attirati in fretta dentro dalla luce
delle lampade elettriche che pendevano al di sopra dell'ingresso.
Ingombranti, certe vetture del tram elettrico si avvicinarono, altre
rimasero indistinte, silenti in strade lontane.

“Com'è curva”, pensò Raban guardando ora la foto, “mai una volta che
stia diritta, e magari ce l'ha tonda, la schiena. Dovrò porci molta
attenzione. E la bocca così larga, e il labbro inferiore sporgente senza
dubbio in fuori, qui nella foto; ma certo, ora me ne ricordo. E l'abito.
Non ci capisco niente, è naturale, di abiti, ma queste maniche strette
son davvero brutte, fanno l'effetto d'una fasciatura. E il cappello con la
tesa ch'è sollevata in ogni punto, rispetto al viso, da una nuova piega
all'insù. Gli occhi però li ha belli, marroni se non sbaglio. Lo dicono
tutti, che ha gli occhi belli”.

Quando poi una vettura si fermò davanti a Raban, attorno a lui


passarono molte persone dirette agli scalini d'accesso con gli ombrelli
appuntiti semichiusi tenuti diritti nelle mani aderenti alla spalla. Raban,
che teneva sotto braccio la valigia, venne sospinto fuori dal
marciapiede e si cacciò in una pozzanghera che non aveva visto. Nella
vettura su una panca stava inginocchiato un bambino, portò alle labbra
le punte delle dita di entrambe le mani come se prendesse congedo da
qualcuno che se ne andava di lì. Alcuni passeggeri scesero e furono
costretti a fare alcuni passi lungo la vettura, per venir fuori dalla calca.
Poi salì sul primo gradino una signora il cui strascico tenuto con
entrambe le mani le si strinse sulle gambe. Un signore tenendosi stretto
a una sbarra d'ottone della vettura le raccontava qualcosa, eretto il
capo. Tutti volevano entrare impazienti. Il conducente gridò.
Raban, che ora si trovava al margine del gruppo in attesa, dal momento
che qualcuno lo aveva chiamato per nome, si girò.
“Ah, Lement”, disse senza fretta porgendo il mignolo al giovane che si
avvicinava, infatti con la mano teneva l'ombrello.
“Ecco dunque il fidanzato che se ne va dalla fidanzata. Pare
paurosamente innamorato”, disse Lement ridendo a bocca chiusa.
“Devi scusarmi, se vado oggi”, disse Raban. “T'ho anche scritto, nel
pomeriggio. Sarei naturalmente partito molto volentieri con te domani,
ma domani è sabato, ci sarà il pienone, il viaggio è lungo.”
“Fa niente. Sì, me l'hai promesso; ma quando si è innamorati – e io
dovrò viaggiare da solo.” Lement aveva un piede sul marciapiede, l'altro
sul selciato, e teneva ora la parte superiore del corpo su una gamba, ora
sull'altra. “Tu stavi salendo sul tram elettrico; sta per partire. Andiamo a
piedi, ti accompagno. C'è ancora abbastanza tempo.”
“Non è già troppo tardi? Ti prego.”
“Nulla di strano che tu abbia paura di far tardi, ma ancora ne hai, di
tempo. Io sono a posto, dato che proprio proprio ora ho mancato un
appuntamento con Gillemann.”
“Gillemann? Non abiterà anche lui laggiù?”
“Certo, con sua moglie, la prossima settimana vogliono andarci, perciò
ho appunto promesso oggi a Gillemann di incontrarlo quando esce
dall'ufficio. Mi voleva dare informazioni sul mobilio di casa sua, per
questo lo dovevo incontrare. Ora però più o meno ho fatto tardi, avevo
da fare. E proprio mentre riflettevo se dovevo andarci, t'ho visto,
dapprima sorpreso per la valigia, e t'ho chiamato. Ora però è già sera
troppo inoltrata per far visite, insomma è impossibile andarci ora, dai
Gillemann.”
“Certo, si tratta comunque di conoscenti che avrò là. D'altra parte la
signora Gillemann non l'ho mai vista.”
“Ed è assai bella. E' bionda e ora, dopo che è stata ammalata, pallida.
Ha gli occhi più belli che io abbia mai visto.”
“Prego, come si vede che gli occhi sono belli? Non è vero che l'occhio
di per sé non può esser bello? E' lo sguardo? Mai che io abbia trovato
occhi belli.”
“Vabbè, forse ho esagerato un po'. E' comunque una donna carina.”
Oltre la porta a vetri d'un caffè si vedevano accanto alla finestra signori
che leggevano e mangiavano attorno a un tavolo triangolare; uno aveva
abbassato un giornale sul tavolo, teneva sollevata una tazzina e
guardava di lato, con occhi ben aperti, in direzione della via. Dietro
questo tavolo presso la finestra nel salone mobili e oggetti erano
nascosti dagli avventori seduti in piccoli circoli. Sedevano anche, curvi,
in fondo alla sala, dove

(manca un foglio)

“... comunque non è affatto un affare sgradevole, nevvero? Molti se lo


prenderebbero sulle spalle, tale peso, credo.”
Arrivarono in una piazza piuttosto buia che cominciava dalla via che
loro due percorrevano, mentre si faceva stretta dall'altra parte. Sul lato
della piazza lungo il quale essi procedevano c'era un blocco ininterrotto
di edifici agli angoli del quale due file di case tra loro distanti
retrocedevano nell'ignota lontananza in cui esse parevano riunirsi. Il
marciapiede degli edifici, in maggioranza piccoli, era stretto, non si
vedeva alcun negozio, né passava una carrozza. Un piedistallo di ferro
decorato con cariatidi ed erba, sotto, e foglie, sopra, vicino al termine
della via da cui essi venivano sosteneva alcune lampade fissate in due
cerchi paralleli. La fiamma di forma trapezoidale ardeva tra lastre di
vetro disposte specularmente tra loro sotto un largo paralume
turriforme, come in una cameretta, e pochi passi oltre lasciava
sussistere il buio.
“Ora di sicuro è già troppo tardi, tu non me lo hai detto, e io perdo il
treno. Perché?”

(Mancano due fogli)

“….Il Pirkershofer al massimo, e quell'altro ...”


“Il nome appare, credo, nelle lettere della Betty, non è aspirante
applicato alle ferrovie?”
“Sì, aspirante applicato alle ferrovie e persona spiacevole. Mi darai
ragione quando avrai visto quel suo nasetto grasso. Non ti dico quando
si va a passeggio con lui in quelle uggiose lande. Del resto è già
promosso e se ne va via, credo e spero, la prossima settimana.”
“Aspetta, hai detto prima che mi tu consigli di restar qui stanotte. Ci ho
pensato, non sarebbe opportuno. Ho scritto che arrivo stasera, mi
aspetteranno.”
“E' semplice, telegrafi.”
“Certo, si potrebbe – non sarebbe però carino se non andassi – anche
se sono stanco, ci andrò – se arrivasse un telegramma, si
spaventerebbero – e poi a che scopo? Dov'è che andremmo, noi?”
“Allora è davvero meglio se vai – pensavo soltanto – potrei anche non
accompagnarti, ho sonno, mi son dimenticato di dirtelo. Mi congederò
ora, dato che non voglio attraversare con te il parco, che è umido, e
potrei ancora cercar di andare da Gillemann. Manca un quarto alle sei, a
uno che si conosce bene si può far visita. Allora addio <it. nel testo>,
buon viaggio e saluti a tutti.”
Lement si voltò a destra e porse la mano per congedarsi, così che per
un momento camminò in direzione contraria rispetto al suo braccio
proteso.
“Adieu”, disse Raban.
A una certa distanza Lement gridò ancora: “Eduard, ascolta, chiudi
l'ombrello, è un bel po' che non piove più. Non ho fatto in tempo a
dirtelo.”
Raban non rispose, iniziò a richiudere l'ombrello e il cielo gli si parò
sopra livido, oscurandosi.

“Almeno”, pensò, “salissi su un treno sbagliato; allora mi sembrerebbe


come se fosse iniziato il viaggio, e più tardi, chiarito l'errore, tornerei a
questa fermata; per me sarebbe già molto meglio. In fondo però se il
posto là è noioso, come dice Lement, non sarà questo gran guaio. Ci si
tratterrà magari in stanza senza saper dove tutti gli altri siano, se non
c'è un rudere nei dintorni e si fa una passeggiata in compagnia come di
sicuro è stabilito da tempo. In tal caso bisogna farsene una ragione, che
non si possa mancare. Se tuttavia non c'è alcun rudere che meriti
d'esser visto, non c'è da discutere, si aspetta, tutti facilmente saranno
d'accordo se d'improvviso, contrariamente a ogni abitudine, si valuta
l'ipotesi di un'escursione, basta mandare la ragazza di servizio
nell'appartamento degli altri, dove essi siedono davanti a una lettera o
davanti a un libro, e restano incantati a tal notizia. Ora, da tali inviti non
è difficile difendersi. Eppure non so se potrò farlo, infatti non è così
facile come sembra pensandoci, eccomi ancora solo, e posso ancora
fare tutto, ancora posso tornare indietro quando voglio. Infatti là non
avrò nessuno cui potrei far visita quando voglio, e nessuno con cui
poter fare noiose escursioni, che mi indichi lo stato delle sue granaglie
o della cava di pietre che lui manda avanti. Nemmeno d'un vecchio
conoscente si è affatto sicuri. Lement non è stato, oggi, gentile con me?
Mi ha spiegato qualcosa e ha illustrato tutto come mi apparirà. Mi ha
rivolto la parola e poi accompagnato, ciò nonostante da me non voleva
saper nulla e aveva anche altro da fare. Ora però se ne è andato
all'improvviso, eppure non è che lo abbia seccato dicendo qualcosa.
Certo, mi sono rifiutato di passar la sera in città, ma ciò era naturale,
non può essergli dispiaciuto, lui è una persona ragionevole”.

L'orologio della stazione suonò, erano le sei meno un quarto. Raban si


fermò, sentiva il cuore palpitare, rapido camminò lungo il laghetto nel
parco, arrivò in un sentiero stretto, male illuminato, tra grandi cespugli,
sbucò di colpo in uno spiazzo con molte panchine vuote addossate a
certi alberelli, rallentando attraversò un varco della cancellata verso la
strada, l'attraversò, e in un balzo fu nell'ingresso della stazione, trovò
quasi subito uno sportello e fu costretto a bussare un po' sull'imposta
che lo barrava. Apparve l'impiegato, disse che non era tardi, prese la
banconota e buttò rumorosamente pochi soldi di resto, e il biglietto, sul
piano. Ora, Raban aveva intenzione di rifare in fretta il calcolo, riteneva
di dover avere più soldi di resto, ma un facchino che passava lì vicino lo
spinse, attraverso una porta a vetri, sulla banchina. Raban si guardò
intorno, intanto che al facchino gridava “grazie, grazie”, e poiché non
trovava alcun conduttore salì su un vagone da solo per la più vicina
scaletta, operazione che svolse tramite lo spostamento della valigia sul
gradino più alto, poi seguendola, una mano appoggiata all'ombrello,
l'altra alla maniglia della valigia. Il vagone in cui mise piede era
rischiarato dalle molte luci della hall della stazione dov'esso era fermo;
davanti a numerosi vetri tutti chiusi fino in cima pendeva, visibile a
poco distanza, una fumante lampada ad arco, le molte gocce bianche di
pioggia tendevano a muoversi una a una sopra il vetro. A Raban arrivò il
frastuono della banchina anche quando ebbe chiuso la porta del vagone
e si fu seduto nell'ultimo angolino rimasto libero d'una panca di legno
marrone chiaro. Vide molte schiene e nuche e tra loro volti girati
indietro, sulla panca davanti. Da certi posti volteggiava fumo di pipa e di
sigaro, in un caso lentamente finendo sulla faccia d'una ragazza. I
passeggeri tendevano a cambiar di posto discutendo tra loro, oppure
spostavano il loro bagaglio da una stretta rete blu in un'altra rete. Se
sporgeva in fuori un bastone o l'angolo rinforzato d'una valigia, ciò
veniva fatto notare al suo proprietario che allora andava a rimetterlo a
posto. Anche Raban ne tenne conto e fece scivolare la valigia sopra il
posto dove sedeva.
Accanto a lui presso il finestrino sedevano uno davanti all'altro due
signori che parlavano di prezzi e di merci. “Commessi viaggiatori”,
pensò Raban, e respirando regolarmente li guardò. “Il capo della ditta li
manda in provincia, essi obbediscono, viaggiano con il treno e in ogni
paese vanno di negozio in negozio. Spesso viaggiano in carrozza tra i
paesani. In nessun luogo si devono trattenere a lungo, infatti tutto deve
andar di fretta e loro sono obbligati a parlare solo delle merci. Con qual
gioia ci si può impegnare in un impiego tanto ameno!”< v. ancora La
metamorfosi – n.d.t.>
Quello più giovane aveva estratto d'un tratto dalla tasca dei calzoni un
taccuino, lo sfogliava con l'indice umettato di fretta sulla lingua e poi
leggeva una pagina, mentre scendeva con il dorso dell'unghia lungo
essa. Guardava Raban, quando alzava gli occhi e, menzionando ora i
prezzi dei filati, non distoglieva il viso da Raban, come si guarda fisso
verso un qualche punto allo scopo di non dimenticare nulla di quanto si
vuol dire. Abbassò poi le palpebre. Tenne nella sinistra il taccuino
semichiuso, il pollice sopra la pagina letta per poterci tornar sopra
facilmente, se gli fosse servito. Il taccuino tremolava, infatti costui non
appoggiava il braccio da nessuna parte e il vagone in marcia urtava le
rotaie come un martello.
L'altro viaggiatore aveva appoggiato la schiena, stava a sentire e
annuiva a intervalli ineguali. Si vedeva che non era affatto d'accordo su
tutto, e che dopo avrebbe detto la sua.
Raban si prese con i palmi incrociati le ginocchia e sporgendosi vide tra
le teste dei viaggiatori il finestrino attraverso il quale luci correvano in
avanti e altre fuggivano lontano. Di quel che dicevano i viaggiatori non
capiva nulla, nemmeno la risposta dell'altro avrebbe compreso. Sarebbe
servita una gran preparazione, dato che s'aveva a che fare con gente
che fin da giovani aveva avuto a che fare con le merci. Se si è avuto in
mano tanto spesso un rocchetto di filo e tanto spesso lo si è porto al
cliente, allora si sa il prezzo e se ne può parlare. Se ne può parlare
mentre i paesi arrivano verso di noi e passano via, mentre scappano nel
profondo della campagna, dove ci diventano invisibili. Eppur tuttavia
tali paesi sono abitati e i commessi viaggiatori magari ci vanno, di
negozio in negozio.
Dall'altra parte del vagone in un angolo si levò un omone che in mano
aveva carte da gioco; disse ad alta voce: “Marie, le hai messe in valigia
anche le camicie di zephir <è un tipo di cotone>?” - “Ma certo”, disse la
donna seduta davanti a Raban. Aveva dormito un po', e, quando la
domanda la svegliò, rispose rivolta a Raban, come se l'avesse fatta lui.
“Andate a Jungbunzlau <nome tedesco di Moleslav – città boema che si
trova a nord est di Praga - a cinquanta km di distanza – n.d.t.> per il
mercato, eh?”, le chiese vivace il commesso viaggiatore . “Sì, a
Jungbunzlau.” - “Stavolta è di quelli grandi, vero?” - “Sì, grande.” Era
assonnata, appoggiava il gomito sinistro su un fagotto blu e la testa le
pesava sulla mano che premeva, dentro la carne della guancia, sullo
zigomo. “Com'è giovane”, disse il viaggiatore.
Raban prese dalla tasca del panciotto i soldi che aveva avuto dal
cassiere, e li ricontò. Tenne a lungo stretta e dritta ogni moneta tra
pollice e indice, con il quale continuò a muoverla avanti e indietro sopra
l'interno del pollice. A lungo guardò l'immagine dell'imperatore, poi la
sua attenzione fu attirata dalla corona d'alloro e dal modo come era
attaccata, con i lacci e i nodi d'un nastro, all'occipite. Infine trovò che la
somma era corretta e mise i soldi in un grosso portamonete nero.
Quando stava per dire al viaggiatore di commercio: “Si tratta di una
coppia di coniugi, credete?”, il treno si fermò, il frastuono della marcia
cessò, conduttori gridarono il nome d'una località e Raban non disse
nulla.
Il treno si rimise in movimento così piano che ci si potevano figurare le
ruote mentre giravano, però subito superò una pendenza e di colpo
davanti al finestrino le lunghe sbarre della balaustra di un ponte parvero
come strappate l'una dall'altra, e l'una sull'altra pressate.
Piaceva a Raban, ora, che il treno corresse tanto, infatti nell'ultima
località non avrebbe voluto restare. Se v'è tanto scuro, se non vi si
conosce nessuno, se si è tanto lontani da casa. E poi di giorno
dev'essere spaventosa. E alla prossima fermata è diverso? O in quella
prima, o in quella dopo, o dove vado io?
Il commesso viaggiatore d'improvviso alzò la voce. “Eccoci”, pensò
Raban. ”Signore, certo lo sapete bene quanto me, fate che questi
industriali vadano nei più miseri paesucoli - eccoli strisciare fin dai
merciai più luridi, e credete che facciano loro prezzi diversi da quelli che
facciamo noi grossisti? Signore, lasciate che lo dica, gli stessissimi
prezzi, proprio ieri l'ho visto, nero su bianco. Questa io la chiamo una
cosa da furfanti. Ci strangolano, alle condizioni di oggi per noi è
semplicemente, totalmente impossibile lavorare; ci strangolano.”
Guardò di nuovo Raban; non si vergognava delle lacrime che aveva agli
occhi; si portò le nocche della mano sinistra alla bocca, poiché gli
tremavano le labbra. Raban si appoggiò indietro e con la sinistra si tirò
debolmente i baffi.
La merciaia di fronte si svegliò e sorridente si strofinò la fronte. Il
commesso abbassò la voce. Di nuovo la donna si aggiustò come per
dormire, si appoggiò semidistesa sul suo fagotto e sospirò. Sopra il suo
fianco destro le si allargò il soprabito.
Dietro sedeva un signore con un berretto da viaggio in testa che
leggeva un ingombrante giornale. La ragazza davanti a lui, che
probabilmente era sua parente, lo pregò – piegando la testa verso la
spalla destra – di voler aprire il finestrino, perché faceva molto caldo.
Lui disse senza guardarla che lo avrebbe fatto subito, doveva soltanto
leggere ancora un paragrafo fino alla fine, e indicò quale.
La merciaia non riusciva più a riaddormentarsi, si tirò su e guardò fuori
dal finestrino, poi a lungo la lampada a petrolio che ardeva gialla al
soffitto del vagone. Raban per un poco chiuse gli occhi.
Quando li riaprì la merciaia stava mangiando un pezzo di dolce coperto
di marmellata marrone. Il fagotto vicino a lei era aperto. In silenzio il
commesso viaggiatore fumava una sigaretta, continuando a scuoterne
la cenere. L'altro muoveva qua e là la punta di un coltello tra le rotelline
di un orologio da tasca, al punto che lo si udiva.
Quasi a occhi chiusi Raban vide inoltre, confusamente, che il signore
con il berretto da viaggio tirava la cinghia del finestrino. Entrò aria
fredda, un cappello di paglia cadde da un gancio. Raban credeva di
svegliarsi, ecco perché sentiva le guance tutte rinfrescate, o che si
aprisse la porta e lo si tirasse dentro la camera, e, comunque
s'ingannasse, alla svelta si addormentò.

Continuarono a vibrare un po', i gradini del vagone, dopo che Raban li


ebbe discesi. Sul suo viso, che veniva dall'aria chiusa, batté la pioggia,
e lui chiuse gli occhi. Sulla tettoia di lamiera dell'edificio dello scalo
ferroviario pioveva rumorosamente, ma oltre, nella campagna, la
pioggia cadeva in modo da far credere che si sentisse solo un vento
che soffiava con regolarità. Un ragazzo scalzo venne di corsa – Raban
non aveva visto da dove – e senza fiato pregò Raban di fargli portare la
valigia, perché pioveva, ma Raban disse: “certo che piove, perciò andrò
con l'omnibus”. Non aveva bisogno di lui. Il ragazzo di conseguenza
fece una smorfia, come se considerasse più distinto camminare nella
pioggia e farsi portare la valigia che andare in omnibus, si girò subito e
corse via. E fu troppo tardi, quando Raban volle chiamarlo.
Due lanterne si videro ardere, e un impiegato dello scalo ferroviario uscì
da una porta. Senza esitazione attraversò la pioggia fino alla
locomotiva, stette lì fermo a braccia conserte fino a quando il
conducente della locomotiva si piegò sopra il parapetto e parlò con lui.
Fu chiamato un facchino, arrivò e fu mandato indietro. A diversi
finestrini del treno c'erano passeggeri e, dato che si trovavano a vedere
solo il solito edificio di uno scalo ferroviario, il loro sguardo era opaco,
le palpebre socchiuse come durante il viaggio. Una ragazza, che con un
ombrello parasole a fiori veniva in fretta dalla strada principale alla
banchina, appoggiò l'ombrello aperto al suolo e si mise a muovere le
gambe alternatamente perché il soprabito le si asciugasse meglio,
aperto, facendoci passar sopra la punta delle dita. Due sole lampade
ardevano, il viso di lei era indistinguibile. Il facchino, quello di prima,
protestò che sotto l'ombrello si formavano pozzanghere, con le braccia
fece davanti a sé un cerchio per indicare la grandezza di queste
pozzanghere e poi mosse le mani nell'aria una dietro l'altra, come pesci
che si tuffano nell'acqua fonda, per spiegare che a causa di
quest'ombrello il passaggio veniva ostacolato.
Il treno partì, sparì come una lunga porta scorrevole, e dietro i pioppi, al
di là delle rotaie, la massiccia fisicità della contrada fu tale da togliere il
respiro. Si trattasse di una prospettiva di buio o di una foresta, d'un
laghetto o di un edificio entro cui le persone già dormivano, del
campanile d'una chiesa o di un avvallamento tra le colline, nessuno
poteva azzardarsi in quella direzione, ma chi ne era capace se ne teneva
indietro.
Quando Raban di nuovo vide l'impiegato – già era davanti ai gradini del
suo ufficio – corse da lui e lo trattenne: “Per favore, il paese è distante?
- ho intenzione di andarci.”
“No, un quarto d'ora, ma con l'omnibus – dato che piove – ci siete in
cinque minuti. Prego.”
“Piove. Non è per niente una bella primavera”, disse Raban di rimando.
L'impiegato aveva la destra appoggiata al fianco, e, attraverso il
triangolo formato tra il braccio e il corpo, Raban vide la ragazza, che
aveva già chiuso l'ombrello, sulla sua panca.
“Se si fa villeggiatura ora sono dolori. In effetti pensavo che mi si
sarebbe aspettato. “ E si guardò intorno per sostanziare ciò che aveva
detto.
“Perderete l'omnibus, temo. Non sta ad aspettare. Non ringraziatemi. E'
dietro l'angolo.”
Davanti alla stazione la strada non era illuminata, solo da tre finestre a
piano terra dell'edificio veniva un bagliore fioco che non si spandeva
lontano. Raban in punta di piedi attraversò la fanghiglia gridando
ripetutamente “cocchiere”, “ehilà”, “omnibus” e “sono qui”, ma quando
sul margine scuro della strada incappò in pozzanghere quasi
ininterrotte fu costretto a riprendere la marcia non più in punta di piedi,
finché non arrivò con la fronte a rinfrescante contatto con il muso d'un
cavallo. L'omnibus era lì, svelto salì in vettura, si mise seduto vicino al
vetro, alle spalle del sedile del cocchiere, e in quell'angolo appoggiò la
schiena, poiché aveva fatto tutto quello che era necessario. “Se il
cocchiere dorme, prima di domani si sveglierà, se è morto verrà un
nuovo cocchiere, o il gestore, altrimenti con il primo treno verranno
passeggeri, gente che ha fretta e fa chiasso. Comunque sia si può star
tranquilli, si può anche tirar la tenda sul finestrino e aspettare la scossa
della partenza di questa vettura”.
“E' sicurissimo che, dopo le tante che ho fatto, domani sarò dalla Betty
e da Mamma, nessuno può impedirlo. Solo che, è logico, la mia lettera
arriverà solo domani, c'era da pensarci prima, avrei benissimo potuto
restare in città e trascorrere una notte piacevole con Elvy, senza dover
temere la fatica del giorno seguente, ciò che mi guasta ogni piacere. Ma
guarda, ho i piedi bagnati”.
Accese il pezzo di candela tirato fuori dalla tasca del panciotto e se lo
mise davanti sulla panca. Era abbastanza chiaro, il buio all'esterno
aveva come conseguenza che non si vedessero i vetri dell'omnibus, di
colore scuro. Figuriamoci le ruote sottostanti, e il cavallo, attaccato
davanti.
Raban si strofinò con cura i piedi sulla panca, si cambiò i calzini e si tirò
su. Allora udì qualcuno che dalla stazione gridava. “Ehi!”, se
nell'omnibus c'era un passeggero, che si facesse sentire.
“Sì sì, e gli piacerebbe essere già in viaggio”, rispose Raban, sportosi
dalla portiera aperta, la mano destra stretta allo stipite, la sinistra aperta
a fianco della bocca. L'acqua piovana gli scrosciò tra il colletto e il
collo.
Paludato nella tela di due sacchi stracciati, il cocchiere si fece avanti, il
riflesso della sua lanterna saltellava sotto di lui lungo le pozzanghere.
Irritato, iniziò a spiegare. Era assorbito dalle carte con il Lebeda, proprio
sul più bello del gioco era arrivato il treno. In pratica gli sarebbe stato
impossibile venire a vedere, tuttavia non intendeva essere offensivo
con chi non fosse capace di capire la sua situazione. D'altra parte quella
era una località semplicemente spregevole, e non si capiva cosa
potesse aver da farci un signore siffatto, mai avrebbe potuto venirci
troppo tardi, ragion per cui il signore non aveva motivo di protestare.
Era venuto subito, quasi, il signor Pirkershofer – “mi spiego, scusate, è
il signor applicato” – e aveva detto che un biondino, sembrava
intenzionato a servirsi dell'omnibus. E lui s'era informato subito - o no?
La lanterna fu assicurata alla punta del timone, il cavallo,
cavernosamente richiamato, si mosse e l'acqua, furiosa sull'omnibus,
ora gocciolò lentamente nella vettura, da una fessura.
Percorso forse scosceso - certo il fango schizzava nei raggi, ventagli di
acqua dalle pozzanghere fumando si formavano dietro al girare delle
ruote - il cocchiere teneva il cavallo a briglie sempre più sciolte. Non si
poteva intendere tutto ciò come rimprovero a Raban? Pozzanghere in
quantità vennero di colpo rischiarate dalla lanterna che tremolava dal
timone, subirono l'urto degli zoccoli del cavallo, onde si dispersero fin
sotto le ruote. Ciò solo perché Raban si recasse dalla sua fidanzata,
Betty, una graziosa ragazza non giovanissima. Nell'ipotesi di trattar
dell'argomento, chi avrebbe potuto valutare i torti di Raban? Anche nel
caso che lui sopportasse rimproveri che per altro nessuno poteva fargli
apertamente. Naturale, lui ci andava volentieri, Betty era la sua
fidanzata, le voleva bene, sarebbe stato disgustoso se lei per questo lo
avesse ringraziato, eppur tuttavia... Senza volere continuò a batter la
testa sulla parete cui stava appoggiato, poi per un poco guardò in
direzione del soffitto. In un caso la mano destra gli scivolò giù dal
femore cui la aveva appoggiata. Tuttavia il gomito rimase lì, tra la gamba
e il bacino.
L'omnibus transitava già tra le case, a tratti l'interno della vettura
prendeva luce da una stanza illuminata, ecco una scalinata costruita per
una chiesa, per vederne i primi gradini Raban avrebbe dovuto alzarsi;
ecco una lanterna con una bella fiamma davanti al cancello d'un parco,
mentre risaltava, nera, la statua di un santo, a contrasto con
l'illuminazione d'una merceria, e Raban ne vide la candela consumata,
la cera sgocciolata s'era seccata in un rivolo dalla sottostante panca.
Quando la vettura si fermò davanti alla locanda la pioggia si fece sentire
forte insieme alle voci degli ospiti - una finestra forse era aperta; allora
Raban si chiese se fosse meglio scendere subito oppure aspettare che
venisse il locandiere. Gli usi di quella cittadina lui non li conosceva, ma
di sicuro Betty aveva parlato del suo fidanzato e, secondo la baldanza o
la fiacchezza della di lui entrata in scena, la reputazione di lei sarebbe
cresciuta, in loco, o diminuita, e di rimbalzo con ciò anche quella di lui.
Ora, lui non sapeva né qual reputazione lei avesse sul momento né che
cosa avesse detto in giro di lui, ciò che era tanto meno piacevole e tanto
più arduo. “Bella la città, più bello ancora tornare a casa. Piove e si va a
casa con la tranvia elettrica sul selciato bagnato, qui invece ci
s'impantana in un carro e si approda a una locanda. La città è lontana,
se ora morissi di nostalgia nessuno potrebbe più accompagnarmici,
oggi. Ora, non morirò, invece avrò pronta sul tavolo la pietanza fissata
per stasera, a destra dietro il piatto il giornale, a sinistra la lampada, mi
si darà un cibo insolitamente grasso - non si sa che ho uno stomaco
debole, e se lo si sapesse – un giornale insolito, ci saranno molte
persone, già le sento, e per tutti sarò accesa una lampada sola. Che
razza di luce può fare, per giocare a carte, magari, ma per leggere il
giornale?”
“Il locandiere non viene, non gl'importa nulla degli ospiti, magari è uno
scorbutico. Oppure sa che sono il fidanzato di Betty e questo non gli dà
motivo di venire da me; che il cocchiere alla stazione mi abbia fatto
aspettare tanto potrebbe anche passare. Betty diverse volte ha
raccontato quanto abbia avuto da patire da uomini libidinosi e come ne
abbia dovuto respingere l'insistenza, forse anche qui

<non conclude> N.B. Si propone solo la traduzione della prima stesura


del racconto; anche le altre due, più brevi, sono incomplete.
(Hochzeitvorbereitungen auf dem Land, 1907). Traduzione di N. Spinosi.

Descrizione di un combattimento - Stesura A

In abiti colmi di vento gli uomini


Camminano sul pietrisco
Sotto questo gran cielo
Che di collina in collina
S’allarga lontano.

Già verso mezzanotte alcuni cominciarono ad alzarsi, s’inchinarono, si


porsero reciprocamente la mano, dissero che era stato molto bello e poi
andarono a vestirsi, attraversata una gran porta incorniciata di legno, in
anticamera. La padrona di casa stava nel centro della stanza ed
eseguiva agili inchini imprimendo leziose oscillazioni al suo abito
pieghettato.

Io sedevo a un tavolinetto con tre gambe sottili sorseggiando il terzo


bicchierino di Benediktiner non senza osservare la piccola scorta di
pasticcini da me scelti e accumulati a motivo del loro delizioso sapore.
In quella il mio nuovo conoscente, un po’ alterato e in disordine, venne
verso di me e, leggermente divertito da quel che stavo facendo, con
voce fervida disse: Perdonatemi se vengo qui da voi, finora sono stato
da solo con la mia ragazza in una stanza qui vicina. Dalle undici e
mezzo, neppure tanto tempo. Perdonatemi, se ve lo dico. Certo ci
conosciamo appena. No? Ci siamo incontrati per le scale stasera e
abbiamo scambiato poche parole di cortesia, e ora già vi parlo della mia
ragazza, ma ora dovete – ve ne prego - perdonarmi, la felicità è
insostenibile, non potevo reggerla da solo. Del resto qui non ho nessun
conoscente di cui fidarmi.
Parlò così. Lo guardai con mestizia – dato che il pasticcino alla frutta di
cui avevo in bocca un pezzetto non aveva un buon sapore – e dissi a
quella faccia gradevole e arrossata: Sono lieto di sembrarvi degno di
fiducia, ma mi rattrista che mi abbiate raccontato il fatto. E anche voi -
se non foste così turbato - vi rendereste conto di quant’è fuori luogo
raccontare, a uno che sta seduto da solo a bere acquavite, di una
ragazza che fa l’amore.
Avevo appena detto queste parole che lui si mise a sedere di botto, si
appoggiò alla spalliera e lasciò penzolare le braccia. Poi le ritirò su
facendo leva sui gomiti e cominciò a vaneggiare a voce piuttosto alta
parlando a sé stesso: Là, tutti soli nella stanza – seduti - con l’Annetta,
e io l’ho baciata – baciata sulla bocca, sulle orecchie, sulle spalle...
Alcuni signori lì vicino supponendo che fosse in corso un qualche
vivace scambio, si avvicinarono sbadigliando. Perciò mi alzai e dissi a
voce alta: Bene, se volete ci vengo, ma è assurdo andare adesso sul
Laurenziberg, fa freddo ed è un po' nevicato, le strade sono come piste
di pattinaggio. Ma se volete, ci vengo.
Prima lui mi guardò stupefatto e aprì quella bocca dalle labbra grandi,
rosse e umide. Ma poi, quando vide quei signori che già ci erano vicini,
rise, si alzò e disse: Suvvia, il fresco ci farà bene, abbiamo gli abiti pieni
di calore e di fumo, sono anche un po’ brillo, pur senza aver bevuto
molto, ecco, saluteremo e poi ce ne andremo.
Così andammo dalla padrona di casa e, quando lui le baciò la mano, lei
disse: Sono davvero lieta che oggi abbiate un’espressione tanto felice,
mentre di solito è tanto seria e annoiata.
La benignità di tali parole lo commosse e di nuovo le baciò la mano; lei
ne sorrise.
In anticamera c’era una cameriera, la vedevamo ora per la prima volta.
Ci aiutò con i soprabiti e poi prese una piccola lanterna per farci luce
lungo le scale. Certo era bella. Il collo era nudo e, sotto il mento, serrato
solo da una sottile striscia di velluto nera; mentre scendeva le scale
davanti a noi sorreggendo la lanterna il suo busto morbidamente
abbigliato continuava a inclinarsi e a raddrizzarsi con grazia. Le guance
erano arrossate dal vino che aveva bevuto, le labbra dischiuse.
In fondo alle scale appoggiò la lanterna su un gradino, andò un poco
barcollando verso il mio conoscente, lo abbracciò e baciò senza
staccarsi. Dopo che le ebbi messo una moneta in mano sciolse
torpidamente le braccia da lui, aprì con lentezza il portoncino di casa e
c’immise nella notte.
Una gran luna nel cielo appena nuvoloso e perciò quasi illimitato
rischiarava uniformemente la strada vuota. Neve sottile copriva il
terreno. Si scivolava, quindi bisognava procedere a passetti.
Eravamo appena usciti, che fui preso una poderosa allegria.
Baldanzoso alzai le gambe e con gusto feci scrocchiare le giunture,
urlai un nome in direzione della strada come se un amico mi fosse
sfuggito dietro l’angolo, lanciai in aria il cappello e lo riacchiappai con
baldanza.
Il mio conoscente senza curarsene mi veniva dietro. Teneva la testa
china. E non parlava.
La cosa mi stupì, perché mi ero aspettato che la gioia lo avrebbe reso
frenetico, senza più la presenza degli altri invitati; mi calmai. Stavo già
per dargli un colpetto d’incoraggiamento sulle spalle, ma me ne
vergognai e rimisi la mano in tasca; non serviva.
Quindi procedemmo in silenzio. Notai come risuonavano i nostri passi e
non riuscivo a capire perché mi era impossibile restare al passo con il
mio conoscente. Mi arrabbiai un po’. La luna era chiara, la visibilità
buona. Qua e là c’era chi si faceva alla finestra e ci osservava.
Quando fummo in Ferdinandstrasse notai che il mio conoscente
canticchiava una melodia, molto piano, ma udibile. Trovai la cosa
offensiva. Perché non mi parlava? Se non gli servivo, perché non mi
aveva lasciato in pace? Irritato mi rammentai le buone cose che avevo
lasciato per amor suo sopra il mio tavolinetto. Anche del Benediktiner
mi ricordavo, e questo mi rese più allegro, quasi altezzoso, si può dire.
Con le mani sui fianchi, mi immaginai di andare a passeggio da solo.
Ero stato in compagnia, avevo salvato dallo svergognamento un
giovane ingrato, e ora andavo a passeggio al chiar di luna. Un modo di
vivere illimitatamente naturale. Al lavoro di giorno, a un ricevimento la
sera, e di notte, per una volta, in strada.
Comunque il mio conoscente mi camminava ancora dietro, affrettava
addirittura il suo passo, perché si rendeva conto di essere rimasto
indietro, e lo faceva con naturalezza. Ma io valutai se fosse o no giusto
svoltare a un angolo della strada, dato che non avevo certo l’obbligo di
passeggiare in compagnia. Potevo andarmene a casa da solo e nessuno
avrebbe potuto impedirmelo. Nella mia stanza avrei acceso la lampada
a stelo con il piedistallo di ferro che sta sul tavolo e mi sarei seduto sul
seggiolone sul tappeto orientale che non ne può più.
A questo punto mi colse il solito svuotamento d’energia che mi prende
non appena sono costretto a pensare al ritorno nel mio appartamento e
alle ore di solitudine da passare tra le pareti dipinte, con il pavimento
che pare andar di sbieco, riflesso nello specchio incorniciato d’oro che
si trova appeso sulla parete alle mie spalle. Le gambe mi
s’infiacchivano, ero già deciso comunque ad andarmene a casa e a
sdraiarmi nel mio letto, allorché mi venne il dubbio: ora, andandomene
a casa, dovevo salutare o no il mio conoscente? Ero troppo timido per
andarmene senza salutare, e troppo debole per salutarlo chiamandolo
ad alta voce, perciò mi fermai, appoggiato a un muro rischiarato dalla
luna, e attesi.
Il mio conoscente mi raggiunse festoso e anche un po’ preoccupato.
Faceva ampi cenni, ammiccava, stese le braccia in aria, sollevò con
forza verso di me la testa coperta da un cappello nero, insomma con
tutto ciò sembrava mostrarmi di capire e apprezzare molto bene lo
scherzo che avevo fin lì portato avanti per il suo divertimento.
Perplesso dissi a bassa voce: E’ una serata piacevole. E feci un solitario
tentativo fallito di risata. Lui replicò: avete visto? Anche la cameriera mi
ha baciato!
Io non riuscivo a parlare, avevo la gola colma di lacrime, allora per non
restare zitto tentai di emettere il suono della trombetta del postiglione.
Lui si tappò le orecchie, poi con gentilezza mi strinse la mano destra
ringraziando. Dové sembrargli fredda, perché la lasciò e disse: Avete la
mano freddissima, le labbra della cameriera erano più calde, eh sì!
Annuii con aria d’intelligenza, e dissi, mentre pregavo il buon Dio di
rendermi imperturbabile: Sì, avete ragione, andremo a casa, è tardi e
domani presto ho l’ufficio; va bene che si può dormire anche lì, ma non
è una cosa giusta da fare. Avete ragione, andremo a casa. Con il che gli
porsi la mano come se la pratica fosse definitivamente sbrigata. Invece
lui rise a crepapelle delle mie parole: ma no, una serata simile mica si
passa a letto a dormire. Considerate quanti pensieri gai si riescono a
reprimere sotto le coperte del letto, se si dorme da soli, e quanti sogni
infelici si riscaldano con loro. Felice di questa trovata mi si attaccò al
soprabito, all’altezza del torace – più in alto non arrivava – e mi scosse
allegramente; poi strinse gli occhi e confidenzialmente disse: Sapete
come siete voi? Comico. E ricominciò a camminare; senza rendermene
conto lo seguii, infatti la sua uscita mi stava dando da pensare.
Tanto per cominciare mi allietava, perché sembrava significare che lui
supponeva qualcosa in me, qualcosa che certo non c’era, ma che lui
supponesse qualcosa attirava la mia attenzione su di lui. Una cosa così
mi rende felice. Ero contento di non essere andato a casa, il mio
conoscente stava diventandomi prezioso, mi attribuiva un valore al
cospetto degli uomini senza che io dovessi prima guadagnarmelo! Lo
guardavo con occhi pieni di affetto. Nel pensiero lo proteggevo dai
pericoli, in particolare da rivali e uomini gelosi. La sua vita mi diventava
più cara della mia stessa. Trovavo bello il suo viso, ero fiero della sua
fortuna con le cameriere e partecipavo ai baci che aveva ricevuto
stasera dalle due ragazze. Oh, era una serata piacevole! Domani lui
avrebbe parlato con la signorina Anna, prima delle solite cose, è
naturale, ma poi d’improvviso: Ieri notte ero con un uomo come, cara
Annetta, di certo non ne hai mai visti. Ha l’aspetto – come descriverlo –
d’una stanga oscillante su cui è infilato un po’ goffamente un cranio
giallo di pelle e nero di chioma. Il suo corpo è decorato con molti piccoli
vivaci pezzi di materia giallastra - ieri lo coprivano completamente,
mancando il vento gli aderivano senza difficoltà. Con timidezza
procedeva accanto a me. Tu, mia cara Annetta, che sei capace di
baciare così bene, so che avresti riso un po’ e un po’ avresti avuto
paura, ma io, che ho tutta l’anima evaporata per amor tuo, della sua
presenza mi rallegravo. Forse è infelice e non ne parla, vicini a lui si sta
in continua agitazione, ma a cuor leggero. Ieri soccombevo alla felicità,
è vero, eppure quasi ti ho dimenticata. Era come se la gran volta del
cielo stellato si sollevasse insieme ai respiri del piatto torace di lui.
L’orizzonte si dischiudeva, e sotto le nuvole accese i paesaggi
divenivano visibilmente infiniti come ci piacciono – santo cielo come ti
amo, Annetta, e il tuo bacio mi è più caro di un paesaggio. Ma basta
parlar di lui, amiamoci l’un l’altra.
Quando a passi lenti percorremmo il lungofiume, invidiai il mio
conoscente per i baci, ma felicemente provai l’intima vergogna che lui,
per come gli apparivo, ben doveva sentire al mio cospetto.
Pensavo questo. Ma i miei pensieri in quel momento si confusero,
perché la Moldava e il quartiere sull’altra riva si confondevano in
un’unica tenebra. Brillavano solo alcune luci che giocavano con gli
occhi in contemplazione. Eravamo al parapetto. Tirai fuori i guanti,
dall’acqua saliva freddo; sospirai senza motivo come è lecito fare di
fronte a un fiume nella notte, e mi accinsi a camminare ancora. Il mio
conoscente invece guardava verso l’acqua e non si muoveva. Poi si
accostò di più al parapetto, appoggiò i gomiti sul ferro e si mise la
fronte tra le mani. Mi sembrò una scemenza. Gelavo, tirai su il bavero
del cappotto. Lui si tirò su e mise la parte superiore del corpo, che ora
si reggeva sulle sue braccia allargate, sul parapetto. Confuso iniziai a
parlare per reprimere gli sbadigli: E’ ben degno di nota che veramente
solo la notte sia capace d’immergerci nei ricordi, nevvero? Ora per
esempio ripensavo a questo: una volta stavo allungato su una panchina
sulla riva di un fiume, era sera. Stavo di sghembo. Con la testa
appoggiata sulle braccia posate sullo schienale di legno, vidi le
montagne nuvolose dall’altra parte del fiume e udii un violino che
qualcuno con delicatezza suonava nell’albergo sulla riva. Di qua e di là
transitavano a momenti dei treni il cui fumo risaltava.
Parlai così, mentre tentavo faticosamente di escogitare, parlando,
qualche storia amorosa, situazioni memorabili; un po’ di grossolanità e
pura brutalità carnale ci voleva.
Dopo queste mie prime parole, lui, sorpreso di vedermi ancora lì - così
mi parve - con indifferenza si girò dalla mia parte e disse: Vedete, è
sempre così. Quando oggi scendevo le scale per fare una passeggiata
prima del ricevimento, delle mie mani arrossate mi ha colpito il modo
come si dimenavano nel bianco dei polsini e l’allegria insolita con cui lo
facevano. Mi sono aspettato un’avventura amorosa, in quel momento.
Capita sempre così. Disse queste cose, nell’incamminarsi, così per
caso, a mo’ di osservazione senza pretese.
Io invece trovavo pensosa l’ipotesi che la mia lunga figura, in confronto
alla quale lui forse appariva troppo piccolo, potesse risultargli
incresciosa. Il dettaglio mi tormentava, nonostante che fosse notte e
non incontrassimo quasi nessuno, al punto che abbassai le spalle fino a
sfiorarmi, nel camminare, le ginocchia con le mani. Perché non se ne
accorgesse modificai la mia postura in modo assolutamente graduale,
cauto, tentando di sviare la sua attenzione da me tramite osservazioni
su gli alberi dell’Isola dei Tiratori e sul riflesso dei lampioni del ponte
nel fiume. Ma improvvisamente girandosi e guardandomi lui disse con
aria paziente: Ma perché camminate in quel modo? Siete tutto ripiegato
e quasi basso come me.
L’aveva detto con benevolenza, così risposi: Può essere. Ma questa
postura mi piace. Sono piuttosto debole, sapete, e il mio corpo mi
risulta troppo pesante da tener dritto. Non è che sia una stupidaggine;
sono troppo alto.
Con diffidenza lui disse: Di sicuro è solo un capriccio. Prima
camminavate dritto, credo, e anche durante il ricevimento stavate su in
modo passabile. Avete perfino ballato, o no? No? Comunque
camminavate dritto e ancora lo potete fare.
Risposi ostinato agitando la mano: Sì, sì, camminavo dritto. Ma voi mi
sottovalutate. So che cos’è la buona educazione e per questo cammino
chinato.
Non gli sembrò comprensibile, abbastanza confuso dalla sua felicità
non capiva il senso delle mie parole e disse soltanto: Mah, come vi
pare, e guardò in direzione dell’orologio della torre del mulino che
segnava già quasi la una.
Mi dissi: Com’è spietato, quest’uomo! Com’è chiara e precisa la sua
indifferenza alle mie umili parole! E’ felice davvero, e la natura delle
persone felici consiste nel trovar naturale tutto quel che accade intorno
a loro. La felicità crea una splendida coerenza. E se ora saltassi in
acqua oppure se i crampi mi dilaniassero qui per terra davanti a lui,
sotto quest’arco, mi troverei sempre a far parte della sua felicità. Anzi,
se gliene venisse il capriccio – una persona felice è senza dubbio un
pericolo – mi colpirebbe a morte come un assassino di strada. E’ certo,
e dato che sono un vile non oserei neanche urlare, terrorizzato: per
l’amor di Dio! – Mi guardai intorno impaurito. Davanti a un caffè
distante, dotato di vetrine nere rettangolari un agente di polizia
scivolava a bella posta sul manto stradale. Lo ostacolava un po’ la
sciabola, per cui la resse con una mano e iniziò a procedere con grazia.
Poiché nonostante la gran distanza ne udii l’hurrà, mi convinsi che non
mi avrebbe salvato nel caso che il mio conoscente avesse l’intenzione
di colpirmi a morte.
Ora però sapevo che cosa fare, infatti è proprio davanti a eventi terribili
che una gran fermezza decisionale mi prende. Dovevo correr via.
Facilissimo. Potevo, nello svoltare verso il ponte Carlo, balzare nella
Carlstrasse sia a sinistra che a destra: una via tortuosa e non solo -
c’erano portoni scuri e taverne ancora aperte; non dovevo disperare.
Quando sotto l’arco fummo arrivati al termine del lungofiume, corsi
nella via, ma davvero; però all’altezza di una porticina della chiesa
caddi, c’era uno scalino che non avevo visto. Una botta. Il lampione
successivo era distante, rimasi disteso nel buio. Da una taverna uscì
una donna grassa con una piccola lanterna fumante a controllare che
cos'era accaduto in strada. Si sentiva un pianoforte, un uomo spalancò
la porta fin lì aperta a metà. Costui sputò grandiosamente su un gradino
e nel solleticare le mammelle alla cameriera disse che quel che era
successo non aveva importanza. Si voltarono e la porta fu richiusa.
Quando tentai di rialzarmi ricaddi. Si sdrucciola, dissi, e sentii male al
ginocchio. Ma ero compiaciuto per il fatto che quelli della taverna non
erano riusciti a vedermi, e mi sembrò la cosa più comoda restar lì
disteso fino all’alba.
Il mio conoscente aveva camminato da solo fino al ponte senza aver
visto che io me n’ero andato, ma dopo un po’ venne da me. Non lo vidi
stupito, quando si chinò compassionevolmente su di me e mi accarezzò
con dolcezza. Percorse in su e in giù le mie guance ossute e appoggiò
due dita carnose sulla mia bassa fronte: Vi siete fatto male, vero ? Si
sdrucciola e bisogna esser prudenti – la testa vi duole? No? Ah, è il
ginocchio. Parlava con voce cantilenante come se raccontasse una
storia, per di più una storia piacevole su un remotissimo male al
ginocchio. Muoveva anche le braccia, ma non pensava di tirarmi su.
Appoggiai la testa alla mano destra – il gomito su una pietra del
pavimento stradale – e dissi svelto, perché non mi passasse di mente:
Davvero non so perché sono corso verso destra. Ah ecco, sotto il
portico di questa chiesa – non so come si chiama, vi prego, scusate –
ho visto una gatta correre. Una gattina con la pelliccia chiara. Ci avevo
fatto caso. – No, non è andata così, scusatemi, ma è abbastanza una
pena cavarsela. Si dormirebbe proprio per darsi forza in vista di tale
pena, invece non si dorme, poi ci succedono spesso cose futili, ma
sarebbe scortese, da parte di chi ci accompagna, esprimere stupore.
Lui teneva le mani in tasca e guardava in direzione del ponte vuoto, poi
verso la chiesa dei Crociati, infine al cielo, che era chiaro. Poiché non
mi aveva udito disse preoccupato: Ma perché non parlate, mio caro? Vi
fa male – certo, ma perché non vi alzate e basta? Si gela, vi
raffredderete, e poi volevamo andare sul Laurenziberg.
Come no? - dissi, scusate, e mi alzai da solo, ma sentivo molto male.
Barcollavo e fui costretto a guardare fermamente la statua di Carlo IV,
per essere sicuro della mia posizione. Però anche la luce lunare era
malferma e muoveva anche Carlo IV. Mi assestai meglio e i piedi
acquistarono in saldezza; Carlo IV avrebbe potuto crollare, impaurito, se
non fossi stato in una posizione più sicura. In seguito il mio sforzo mi
parve vano, infatti Carlo IV cadde giù, proprio mentre mi veniva in
mente che io sarei stato amato da una fanciulla stupendamente vestita
di bianco. Faccio cose inutili e trascuro il più. Com’era felice questa
trovata riguardante la fanciulla! – E amabile che la luna illuminasse
anche me; volli per modestia mettermi sotto la volta del ponte, ma vidi
che era naturalissimo che la luna illuminasse tutto. Allora spalancai le
braccia con gioia per godermela completamente. Mi vennero in mente i
versi:

Balzai attraverso le vie / come un ebbro corridore / a passi pesanti


attraverso l’aria

e mi fu facile, avanzavo facendo movimenti delle braccia da nuotatore


sfinito, senza dolore e pena. L’aria mi faceva bene alla testa e l’amore
della fanciulla vestita di bianco mi recava tristi incanti, perché mi
sembrava come se mi allontanassi a nuoto dall’amata e dalle montagne
nuvolose della sua contrada. – E mi rammentai che avevo odiato un
conoscente felice, forse camminava ancora vicino a me, e mi rallegrò
che la mia memoria fosse tanto buona da serbare da sola cose di
importanza così secondaria. Perché la memoria ha molto carico da
sostenere. Così seppi d’un tratto il nome di ogni stella, anche se non
l’avevo mai imparato a memoria. Erano nomi certamente strani, difficili
da ricordare, ma li sapevo tutti e con gran precisione. Alzai l’indice e li
pronunciai uno per uno a voce alta. – Smisi, infatti dovevo nuotare oltre,
non volevo troppo immergermi. Dopo però, perché non mi si potesse
dire che chiunque saprebbe nuotare sul pavimento stradale e che ciò
non merita un racconto, veloce mi issai sul parapetto e girai attorno a
ogni statua di santo che incontravo. – Alla quinta, quando con un
meditato salto mi fermai sul pavimento stradale, il mio conoscente mi
prese la mano. Allora di nuovo stetti sul pavimento e sentii male al
ginocchio. Avevo dimenticato i nomi delle stelle, e della cara fanciulla
sapevo solo che aveva indossato un abito bianco, ma non riuscivo
quasi più a ricordare quale motivo avevo avuto di credere al suo amore.
Sorse in me una gran rabbia e una paura del fatto che io potessi
perderla. E non facevo che ricapitolare spossato „abito bianco, abito
bianco“, per trattenerla con me almeno con questo simbolo. Ma era
inutile. Il mio conoscente si strinse sempre di più a me e, nel momento
in cui iniziavo a comprendere le sue parole, un bianca aggraziata
luminescenza transitò lungo il parapetto del ponte, attraversò la torre e
balzò nella strada buia.
Ho sempre amato, disse il conoscente indicando la statua della santa
Ludmilla, le mani di quest’angelo, a sinistra. La loro tenerezza è
sconfinata e le dita, nell’aprirsi, tremano. Ma da stasera mi sono
indifferenti, posso ben dirlo, perché ho baciato delle mani. E mi
abbracciò, baciò il mio abito e mi si gettò con la testa sull’addome.
Dissi: Certo, certo, ci credo. Non ho dubbi, e insieme gli detti dei
pizzichi. Ma non se ne accorse. E mi dissi: Perché vai con quest’uomo?
Non lo ami e neppure lo odii, la sua felicità consiste in una certa ragazza
che non è sicuro neanche che porti un abito bianco. Costui dunque ti è
indifferente – ripetilo – indifferente. E anche innocuo, come si è
dimostrato. Dunque va’ con lui sul Laurenziberg, visto che già sei in
cammino in una splendida notte, ma lascia che parli e distraiti a tuo
piacimento, non senza – dillo piano – proteggerti meglio che puoi.
II
Divertimenti, ovvero
dimostrazione che vivere è impossibile.

1
Cavalcata

Saltai con notevole disinvoltura sulle spalle del mio conoscente,


colpendolo con pugni sulla schiena in modo da imprimergli un moto
leggero. Dal momento però che lui procedeva con una certa riluttanza e
a tratti continuava perfino a star fermo, lo pizzicai sul ventre svariate
volte con gli stivali per vivacizzarlo. Ciò ebbe buon esito e noi
entrammo con migliore velocità sempre più all’interno di una estesa ma
ancora incompiuta contrada in cui regnava la sera.

La strada di campagna su cui cavalcavo era pietrosa e saliva


notevolmente, ma proprio questo mi andava a genio e la resi ancor più
pietrosa e ripida. Non appena il mio conoscente incespicava, lo tiravo
per i capelli, e non appena gemeva gli davo pugni in testa. Frattanto
sentivo com’era salutare questa cavalcata serale e allegra, per cui al
fine di renderla più selvaggia detti luogo a un vento che ci soffiava
contro con prolungate raffiche. Ora aumentai ancora sulle larghe spalle
del mio conoscente gli sbalzi del cavalcare, e mentre con le mani mi
tenevo stretto al suo collo rovesciai indietro la testa e contemplai le
nuvole multiformi che, più deboli di me, goffamente fuggivano con il
vento. Ridevo e fremevo di coraggio. La giacca mi si spalancava e mi
dava forza. In più strinsi le mani e feci come se non sapessi con ciò di
strangolare il mio conoscente.
Al cielo, che mi veniva coperto gradualmente dai rami ricurvi degli
alberi che facevo crescere ai bordi della strada, gridai nell’eccitato moto
del cavalcare: Ben altro che star a sentire sempre chiacchiere da
innamorato, ho da fare. Perché è venuto da me, questo ciarliero
innamorato? Son tutti felici e di più lo diventano se altri lo sanno.
Ritengono di avere una serata piacevole e già per questo si rallegrano
della vita futura.
A quel punto il mio conoscente cadde, e quando lo esaminai vidi che
era ferito seriamente al ginocchio. Dato che non poteva più servirmi lo
lasciai sulle pietre e richiamai giù fischiando un certo numero di
avvoltoi, che umili gli si misero addosso, serioso il becco, per fargli la
guardia.

2
Passeggiata

Spensierato andai oltre. Dato però che ero un camminatore timoroso


dello sforzo della strada di montagna, spianai il percorso sempre di
più e infine lo feci finire lontano in una valle.
Le pietre, secondo il mio volere, sparirono, e il vento si calmò
perdendosi nella sera. Camminavo di buon passo e poiché andavo in
discesa tenevo la testa e il corpo rigido, le braccia incrociate dietro la
testa. Amo i boschi di abeti rossi, quindi procedevo attraverso boschi di
abeti rossi; volentieri guardo in silenzio verso il cielo stellato, quindi
sbocciavano lente e calme stelle, come di solito fanno, in un cielo assai
allargato. Vedevo solo poche nuvole sfilacciate che un vento spirante
alla loro specifica altezza trascinava nell’aria. Molto oltre la mia strada,
verosimilmente separata ad opera mia da un fiume, feci sorgere un’alta
montagna la cui vetta ricoperta di boscaglia sfiorava il cielo. Riuscivo
anche a vedere distintamente le mosse diramazioni dei rami più alti.
Una tale vista, come può anche essere normale, mi rallegrava tanto che
io, come un uccellino sulla cui coda dondoli un cespuglio arruffato, mi
dimenticai di far sorgere la luna che già si trovava dietro la montagna,
forse in collera a causa del ritardo.
Ora tuttavia si allargò la luminosità che precede il sorgere della luna, e
sulla montagna d’un tratto si levò la luna stessa dietro uno degli inquieti
cespugli. Avendo guardato in altra direzione, quando ora guardai
davanti a me, la vidi, come luceva già quasi pienamente rotonda, e
restai con gli occhi perturbati, infatti la mia scoscesa strada sembrava
portare verso questa spaventevole luna.
Mi ci abituai poco a poco, tuttavia, e valutai con accuratezza come
saliva a fatica, finché da ultimo, dopo che lei e io per un bel pezzo ci
eravamo mossi reciprocamente incontro, provai una piacevole
sonnolenza causatami, come credevo, dalle fatiche della giornata,
indubbiamente ardue da ricordare. Camminai per un pochino con gli
occhi chiusi mantenendomi sveglio solo per il fatto che battevo le mani
una con l’altra, forte e regolare.
Dopo capitò che il cammino mi si sviluppasse sotto i piedi in modo
troppo sdrucciolevole e il tutto, con fiacchezza pari alla mia,
cominciasse a sparire, allora mi sbrigai a inerpicarmi con movimenti
inquieti sul pendio che si trovava a destra della strada, per arrivare in
tempo all’alto bosco di abeti rossi dove avevo intenzione di dormire la
notte. Era necessario fare in fretta. Le stelle stavano già oscurandosi e
in cielo la luna sprofondava come in un’acqua mossa. La montagna
faceva già parte della notte, allarmantemente la strada terminava lì dove
avevo svoltato per il pendio, mentre da dentro la foresta udivo
approssimarsi gli schianti dei tronchi cadenti. Certo avrei potuto
buttarmi a dormire ugualmente sul muschio, ma avevo paura delle
formiche, quindi salii, le gambe attorcigliate al tronco, su un albero che
già, pur senza vento, oscillava, mi sistemai su un ramo, la testa
appoggiata al tronco, e mi addormentai alla svelta mentre uno
scoiattolo di umore uguale al mio si metteva a coda ritta sopra il termine
tremulo del ramo, e si cullava.
Il fiume era largo e le sue rumorose ondine rilucevano. Anche sull’altra
riva c’erano prati che salivano nel fitto, dietro cui si vedevano in lunga
prospettiva autentici viali di alberi da frutta recanti verso colline verdi.
Rinfrancato da tale vista scesi considerando, nel tapparmi le orecchie in
opposizione al timore di piangere, che qui avrei potuto esser contento.
E' solitario e piacevole. Non serve coraggio, per viverci. Ci si dovrà
magari tormentare come da un’altra parte, ma almeno non ci si dovrà
dar da fare sul serio. Sarà inutile. Ci sono infatti soltanto montagne e un
gran fiume, e io sono ancora abbastanza ragionevole da considerarli
privi di vita. Certo, se la sera arrancherò sui prati in salita, non sarò più
perduto di quanto lo sarà la montagna, ne avrò soltanto la sensazione.
Tuttavia credo che anche ciò avrà termine.
Così giocavo con la mia vita futura e cercavo ostinatamente di
dimenticare. Nel farlo guardavo, socchiudendo gli occhi, verso quel
cielo di colore insolitamente piacevole. Già da tempo non lo avevo
visto così, mi commossi e mi ricordai del giorno preciso nel quale
avevo creduto di vederlo. Tolsi le mani dalle orecchie, allargai le braccia
e le feci ricadere nell’erba. Udii qualcuno singhiozzare debolmente in
lontananza. Si alzava il vento e grandi quantità di foglie secche che
prima non avevo visto volavano rumorose. Dagli alberi da frutta
follemente cadevano sul terreno frutti ancora acerbi. Da dietro una
montagna vennero fuori brutte nuvole. Le onde del fiume a causa del
vento si ritiravano indietro fruscianti.
Rapidamente mi levai. Mi doleva il cuore perché ora sembrava
impossibile uscire dalle mie pene. Già avevo intenzione di tornare
indietro per dimenticare questa contrada e riprendere il mio modo di
vivere, quando ebbi quest’idea: E’ davvero degno di nota che ancora nel
nostro tempo delle persone come si deve siano spedite con tanta fatica
su di un fiume. Non c’è altra spiegazione se non che si tratti di una
vecchia usanza. Scossi la testa, ero stupito.

3
Il grassone.

a
Discorso al paesaggio

Dalla boscaglia situata sull’altra riva provenivano numerosi giganteschi


uomini nudi che reggevano sulle spalle una portantina di legno. Vi
sedeva un uomo enormemente grasso. Nonostante che venisse portato
lungo un percorso non battuto della boscaglia non scostava i rami
spinosi, ma urtava su di essi tranquillo con il suo corpo immobile. I
rotoli delle sue grasse carni erano così accuratamente estesi da
ricoprire con precisione l’intera portantina, inoltre penzolavano dalle
parti sugli orli di un tappeto giallognolo, senza tuttavia che lui ne fosse
disturbato. Il suo cranio calvo era piccolo e luccicava giallo. Il volto
esprimeva la semplicità di una persona che medita e non si sforza di
nasconderlo. A tratti chiudeva gli occhi; li riapriva, torceva il mento.
Il paesaggio disturba il mio pensiero, disse a bassa voce, indebolisce le
mie riflessioni come fossero ponti sospesi su una corrente rabbiosa.
Essa possiede una magnificenza che richiede di essere contemplata.
Chiudo gli occhi e dico: tu, verde montagna sul fiume, tu con le tue
rocce opposte all’acqua che scorre, sei splendida.
Eppure non le basta, vuole che io apra gli occhi verso di lei.
Se invece con gli occhi chiusi dico: montagna, non ti amo perché mi
rammenti le nuvole, la quiete serale e il cielo rampante, cose che quasi
mi inducono al pianto, perché sono sempre irraggiungibili quando ci si
faccia portare su una piccola lettiga. Invece tu me le indichi, perfida
montagna, celandomi per mezzo di splendide visioni la prospettiva di
quello che è invece raggiungibile e allietante. Ecco perché non ti amo,
montagna sull’acqua, non ti amo.
Questo discorso le sarebbe indifferente come quello precedente, se non
lo facessi con gli occhi aperti. Non è contenta che così.
E mica abbiamo l’obbligo di esserle amici, purché si sia sinceri con lei,
con lei che ha una predilezione tanto capricciosa per la nostra materia
grigia. Abbatterebbe le sue ombre frastagliate su di me, muta
sposterebbe orride pareti fredde su di me, e i miei portatori
inciamperebbero sul pietrisco.
Ma non solo la montagna è tanto vanesia, molesta e vendicativa, anche
tutto il resto lo è. Quindi io con gli occhi aperti intorno – ah, se fanno
male – devo sempre ripetere: Sì, montagna, sei splendida e le foreste
del tuo pendio occidentale mi rallegrano. – Anche di te, fiore, sono
contento, e il tuo rosa rende felice la mia anima. – Tu, erba del prato, sei
già alta e forte e dai refrigerio. – E tu, boscaglia inconsueta, pungi tanto
improvvisa, che i nostri pensieri procedono a salti. – Di te tuttavia,
fiume, ho così gran gusto che mi farò trascinare dalla tua arrendevole
acqua.
Gridato a voce altissima tale panegirico tra certi sottomessi scuotimenti
del suo corpo, lui fece ricadere la testa e con gli occhi chiusi disse:
Ora tuttavia prego Loro – montagna, fiore, boscaglia, fiume, di darmi un
poco di spazio perché io possa respirare.
Allora ci fu un precipitoso dislocarsi delle vicine montagne, che si
spinsero dietro la nebbia sospesa. I viali certo restarono saldi e
conservarono bene la loro larghezza, ma sparirono per primi: nel cielo
stava davanti al sole una nuvola carica d’acqua dall’orlo appena
tralucente, sotto la cui ombra sprofondò la landa, e tutte le cose persero
ciò che le distingueva nitidamente.
I passi dei portatori divennero udibili fino alla mia riva, ma nell’oscuro
quadrilatero composto dalle loro facce non riuscivo a distinguere niente
di preciso. Vidi solo come inclinavano da una parte la testa e come
incurvavano la schiena a causa del carico fuori del comune. Avevo
paura per loro perché si notava che erano provati. Agitato vidi che
camminavano nell’erba della riva, poi con passo regolare sulla sabbia
bagnata, finché non sprofondarono nel fango del canneto, dove i due
portatori di dietro si curvarono ancora di più per mantenere la lettiga in
posizione orizzontale. Io tenevo le mani serrate l’una all’altra. Ora
dovevano sollevare a ogni passo i piedi tanto che il loro corpo luccicava
di sudore nell’aria fredda di questo mutevole pomeriggio.
Il grassone sedeva tranquillo, le mani sulle cosce; le cime delle canne lo
sfioravano, quando scattavano in avanti dopo che i portatori erano
passati.
I movimenti dei portatori divennero irregolari quando si avvicinarono
all’acqua. A tratti la lettiga oscillava come se già si trovasse tra le onde.
Certe piccole pozzanghere dovevano essere aggirate od oltrepassate,
infatti forse erano profonde.
In un caso si levarono strepitando delle anatre selvatiche e salirono
rapidamente verso la nuvola piovosa. Vidi allora una contrazione sul
volto del grassone; era tutt’altro che tranquillo. Mi alzai e corsi a salti
maldestri sul pendio pietroso che mi separava dall’acqua. Non tenevo
conto che era pericoloso, pensavo solo ad aiutare il grassone nel caso
che i suoi servi non avessero più potuto trasportarlo. Corsi tanto
sconsideratamente che, in basso, non riuscii a fermarmi dov’era
l’acqua, invece fui costretto a correrci dentro per un pezzo tra gli schizzi
e rimasi, in un primo momento, dove mi arrivava alle ginocchia.
Dall’altra parte i servi avevano portato contorcendosi la lettiga
nell’acqua, e mentre con una mano facevano fronte al suo moto agitato,
le loro braccia pelose assai sollevavano la lettiga, tanto che si vedevano
i muscoli molto tesi.
L’acqua prima colpì loro il mento, poi la bocca, la testa dei portatori si
piegò all’indietro e i manici caddero dalle spalle. L’acqua già sfiorava
loro l’osso nasale e loro seguitavano a mantenere lo sforzo, per quanto
fossero appena a metà del fiume. A quel punto un’onda infame abbatté
le teste dei portatori che stavano davanti, e i quattro uomini annegarono
in silenzio, tirando violentemente giù con sé la lettiga. Come un
coperchio, l’acqua ci scorse sopra.
Allora la bassa luce del sole al tramonto fuoriuscì dagli orli della grande
nuvola e rischiarò la collina e le montagne all’orizzonte, mentre il fiume
e il paesaggio sotto la nuvola restarono indistintamente illuminati.
Il grassone con lentezza si girò in direzione della corrente e fu
trascinato a valle, sembrava un’icona sacra di legno chiaro divenuta
inutile e gettata nel fiume. Egli scorse via nell’area del riflesso della
nube piovosa - gli si allungava davanti e si raccoglieva dietro – e ne
risultò un notevole tumulto che si poteva notare anche dallo sciabordio
dell’acqua contro le mie ginocchia e contro le pietre della riva.
Strisciai in alto sulla scarpata per riuscire a far da testimone al percorso
del grassone, che in verità mi stava a cuore. Forse potevo anche
apprendere qualcosa sulla pericolosità di questa landa dall’apparenza
sicura. Percorsi una striscia di sabbia così fina che che prima
bisognava ambientarcisi, le mani in tasca e il viso girato ad angolo retto
verso il fiume tanto che avevo il mento quasi appoggiato sulla spalla.
Sulle pietre della riva stavano posate delicate rondini.
Il grassone disse: Caro signore a riva, non cercate di salvarmi. Si tratta
della vendetta dell’acqua e del vento, io sono perduto, ora. Sì, vendetta,
perché quante volte io e il mio amico, il baciapile, li abbiamo offesi con
il suono delle nostre spade, sotto lo sfavillare dei cembali che
accrescono la magnificenza dei tromboni, ed alla luce risaltante dei
timpani?
Un piccolo gabbiano ad ali distese gli volò sopra la pancia senza
diminuire in velocità.
Il grassone narrò di seguito:

Discorso iniziale del grassone e del baciapile.

Ci fu un tempo che ogni giorno andavo in una chiesa - una fanciulla di


cui mi ero innamorato pregava lì in ginocchio per una mezz’ora tutte le
sere, e io potevo contemplarla con calma.
Una volta che la fanciulla non era venuta e io, risentito, osservavo i
fedeli, un giovane colpì la mia attenzione – s'era gettato sul pavimento
con tutta la sua scarna persona. A tratti costui a tutta forza urtava il
cranio nel palmo delle sue mani appoggiate sulle pietre.
Nella chiesa c’erano solo alcune vecchie bacucche, e spesso voltavano
dalla parte del baciapile le loro testoline per guardarlo. Tale attenzione
sembrava farlo felice, infatti prima di ogni sua pia effusione girava gli
occhi intorno per valutare il numero delle persone che lo guardavano.
Trovai che era sconveniente e decisi di affrontarlo, quando fosse uscito
di chiesa, e di domandargli perché pregava in quel modo. Certo, ero
contrariato perché la mia fanciulla non era venuta.
Quello si alzò soltanto dopo un’ora, eseguì con cura un segno della
croce e camminò a scatti verso l’acquasantiera. Io mi piazzai tra questa
e il portone pensando che non l’avrei lasciato passare senza una
spiegazione. Strinsi la bocca come faccio sempre per prepararmi a
parlare con risolutezza. Posi in avanti la gamba destra e mi ci appoggiai,
mentre tenevo la sinistra con negligenza sulla punta del piede; anche
questo mi dona saldezza.
E’ possibile che quell’uomo già sbirciasse verso di me mentre si
spruzzava l’acqua santa sul viso, forse con inquietudine mi aveva già
notato prima, sta di fatto che corse improvvisamente verso il portone e
oltre. La porta a vetri si chiuse con fracasso, e quando anch’io fui uscito
non lo vidi più, dato che là fuori c’erano varie stradine dove il transito
era assai vario.
Nei giorni successivi lui non venne, venne invece la mia fanciulla. Aveva
un abito nero con trine sulle spalle al di sopra del bordo a mezzaluna
della camicia, il cui colletto ben tagliato spuntava da sotto le trine.
Venendo la fanciulla scordai il giovane e mi disinteressai di lui anche
quando in seguito regolarmente venne a pregare in quel suo modo.
Tuttavia camminava davanti a me con gran fretta, il viso girato. Sarà
stato perché riuscivo a pensarlo solo in movimento, ma anche quando
stava fermo mi faceva l’effetto che andasse di soppiatto.
Una volta feci tardi in casa, ciò nonostante andai nella chiesa, non ci
trovai più la fanciulla e avevo intenzione di rientrare. C’era quel giovane,
e la vecchia storia mi tornò in mente incuriosendomi.
In punta di piedi guizzai verso il portone, detti una moneta al
mendicante cieco lì seduto e mi infilai vicino a lui dietro il battente. Ci
restai per un’ora assumendo un’espressione maliziosa. Mi ci trovavo
bene, lì, e decisi di venirci più spesso. Passate due ore però trovai
stupido star lì per il baciapile. Nonostante questo rimasi lì a farmi
strisciare i ragni addosso mentre gli ultimi fedeli uscivano dalla chiesa
sospirando profondamente.
E venne il suo turno. Camminava con cautela, con i piedi saggiava il
terreno prima di procedere.
Mi alzai, feci un bel passo deciso e lo afferrai per il bavero. Buonasera,
dissi, e lo spinsi sotto i gradini trattenendolo dove c’era della luce.
Quando fummo scesi, lui disse con voce del tutto non difensiva:
Buonasera, caro, caro signore, siete mica in collera con il vostro
devotissimo servitore?
Sì, dissi io, voglio domandarvi qualcosa, signor mio, l’altra volta mi
siete sfuggito, ma oggi non vi riuscirà.
Abbiate la delicatezza, signore, di lasciarmi andare a casa. Merito
compassione, questa è la verità.
No, gridai nel fracasso del tram che avanzava, non vi lascio. Giusto
queste storie mi piacciono. Sono un colpo di fortuna. Mi compiaccio
con me stesso.
Allora disse: Oh, Dio, voi ci avete un cuore dinamico e una testa bella
dura. Mi menzionate un colpo di fortuna, beato voi! La mia sfortuna,
infatti, barcolla, è una sfortuna barcollante su di uno stretto piedistallo,
basta toccarla e ricade addosso a chi pone domande. Buonanotte,
signore.
Bene, dissi tenendogli strettamente la destra, se non mi rispondete,
comincerò a gridare qui in strada. Tutte le commesse che stanno
tornando dal lavoro e tutti i loro lietissimi innamorati si accalcheranno
credendo che sia caduto un cavallo o sia successo qualcosa del
genere. Dopodiché vi segnerò a dito.
A quel punto si mise a baciarmi le mani. Vi dirò quel che volete sapere,
ma ve ne prego, andiamo di là nella strada accanto. Feci un segno
affermativo e ci muovemmo.
Ma non gli bastò l’oscurità della viuzza con gialle lanterne lontane l’una
dall’altra, difatti mi condusse nel basso androne di una vecchia casa
sotto una lucerna che penzolava gocciolando dalle scale di legno.
Con aria d’importanza prese il fazzoletto e lo stese su uno scalino: Su,
sedetevi, caro signore, così potete far meglio le domande, io resto in
piedi, perché posso rispondere meglio. Ma non tormentatemi.
Mi misi seduto e dissi, mentre lo guardavo stringendo gli occhi: Siete
un bel soggetto da manicomio, ecco cosa siete! Come vi comportate in
chiesa! Quant’è ridicolo e sgradevole per i presenti! Come ci si può
raccogliere se si è costretti a vedere voi?
Stava attaccato alla parete, muoveva soltanto la testa. Non ve la
prendete – perché dovete prendervela per cose con cui non avete a che
fare? Mi dispiace di comportarmi in modo maldestro; ma se un altro si
comporta male, io me ne rallegro. Non vi arrabbiate, però, se dico che lo
scopo delle mie preghiere è venir notato dalla gente.
Che cosa dite? - data l’angustia dell’androne gridai troppo, ma temevo
di abbassare la voce - sul serio, che cosa state dicendo? Certo, me
l’aspettavo, me l’aspettavo già dalla prima volta che vi ho visto, lo stato
in cui vi trovate. Sono un esperto, e non è una supposizione fatta per
scherzo se dico che si tratta di un mal di mare in terra ferma, la cui
natura consiste nell’avere, voi, dimenticato il nome vero delle cose e
nello sparare in fretta nomi a caso. Rapido, rapido! Ma non appena ve
ne siete allontanato, di nuovo ne avete scordato il nome. Il pioppo
campestre da voi è chiamato „Torre di Babele“ perché non sapete o non
volete sapere che è un pioppo, di nuovo oscilla senza nome, e voi siete
costretto a chiamarlo „Noè l’ubriacone“.
Disse il baciapile: non mi dispiace di non aver capito quel che dite, ma
ne rimango sbigottito.
Inquieto dissi in fretta: E’ vero che sono stato sintetico, caro signore,
ma anche voi avete parlato in un modo strano.
Misi le mani su un gradino superiore, mi appoggiai indietro e dissi, forte
di tale postura quasi inattaccabile - scampo estremo del pugile sul ring:
Avete una maniera divertente di salvarvi, presupponendo nell’altro la
vostra condizione.
Ne trasse coraggio, mise una mano nell’altra allo scopo di darsi
coesione e disse a mo’ di delicata controreplica: No, non lo faccio con
tutti, per esempio non con voi, perché non posso. Ma sarei contento se
lo potessi, perché poi non mi servirebbe più l’attenzione della gente
nella chiesa. Lo sapete perché ne ho bisogno?
Questa domanda mi mise in difficoltà. Certo non lo sapevo e, credo, non
volevo saperlo. Certo non avevo avuto l’intenzione di venire in
quell'androne, mi dissi allora, ma il tizio mi ha costretto a starlo a
sentire. Dunque ora dovevo soltanto scuotere la testa per segnalargli
che non lo sapevo, ma non riuscivo a muovermi.
L'uomo che mi stava davanti sorrideva. Poi si piegò sulle ginocchia e
raccontò, facendo una torpida smorfia: Mai avuto convinzioni mie
personali circa la mia vita. In altre parole ho comprensione delle cose
che mi circondano solo tramite rappresentazioni così esauste da farmi
credere sempre che le cose siano esistite un tempo mentre ora sono
finite. Sempre, caro signore, mi diverto tormentosamente a vedere le
cose come possono darsi prima di mostrarsi a me. Stan lì tutte belle
tranquille. Dev’esser così, perché sento spesso la gente parlarne in
questo modo.
Poiché tacevo e mostravo solo nelle contrazioni involontarie del viso la
sgradevolezza provata, domandò: Non credete che la gente parli così?
Ero dell’opinione di dover annuire, ma non ci riuscivo.
Davvero non lo credete? Sentite, allora: da bambino una volta aprii gli
occhi dopo un sonnellino pomeridiano, e udii, ancora nella confusione
del sonno, mia madre sul balcone chiedere in tono normale: Cosa fate,
mia cara? Fa così caldo. Dal giardino sottostante una signora rispose:
Faccio merenda nel verde. Lo dissero senza pensarci e in modo
abbastanza indistinto, come se per tutti fosse scontato.
Credevo di essere oggetto di una domanda, perciò misi le mani nelle
tasche posteriori dei pantaloni come se cercassi qualcosa. Ma non
cercavo alcunché, piuttosto desideravo modificare il mio aspetto per
indicare con ciò la mia partecipazione al colloquio. Dopodiché dissi che
non comprendevo affatto in che modo quel caso fosse degno di nota.
Aggiunsi che non credevo fosse vero, ma che invece fosse inventato
con uno scopo a me ignoto. E chiusi gli occhi, perché mi dolevano.
Oh, va bene, davvero, che voi siate della mia opinione, ed era per
altruismo, che voi mi avete fermato per dirmelo.
Perché dovrei vergognarmi – o dovremmo vergognarci – del fatto che io
non cammino da persona seria e dotata di una direzione, non colpisco il
pavimento stradale con il bastone e non sfioro gli abiti della gente che
mi viene incontro rumorosa; no? Non dovrei avere molta più ragione di
lagnarmi ostinato del fatto che ingobbito barcollo come un’ombra lungo
gli edifici, talvolta infilandomi nella porta a vetri di un negozio?
Che razza di giornate passo! Perché tutto è costruito così male che
talvolta capita che case alte crollino senza che se ne possa trovare una
causa esterna? E io ad arrampicarmi sulle macerie e a domandare a tutti
quelli che incontro: Nella nostra città, come poteva succedere? – una
casa nuova – oggi è già la quinta – pensate. Nessuno sa rispondere.
Spesso cadono persone per la strada e ci restano, morte; allora tutti i
negozianti aprono le vetrine cariche di mercanzie, disinvolti escono,
trasportano il morto in una casa e tornano fuori con il viso sorridente;
dicono: Buongiorno - giornata grigia – vendo un assortimento di
fazzoletti – eh sì, la guerra.
Barcollando vado in quella casa, alzo timidamente la mano, piego un
dito, busso alla finestrella del portinaio. Caro, dico gentilmente, hanno
portato una persona morta qui da voi. Vi prego, fatemela vedere. E
siccome quello scuote la testa indeciso, io con determinazione dico:
Mio caro. Sono un agente del servizio segreto. Mostratemi subito il
morto. Un morto? - domanda lui quasi offeso. No, qui non abbiamo
nessun morto. E’ una casa per bene. Lo saluto e me ne vado.
Ma se ho da attraversare una grande piazza, mi dimentico tutto. La
difficoltà dell’impresa mi confonde e tra me penso: Se è solo per
spavalderia che si crea una piazza tanto grande, perché non si
costruisce anche una balaustrata di pietra che ci accompagni da una
parte all’altra? Oggi tira vento da sud ovest. L’aria in piazza è mossa. La
cima della torre del Municipio oscilla descrivendo piccoli cerchi. Perché
la ressa non si placa? Che razza di fracasso! Tutti i vetri delle finestre
fan rumore e i lampioni si piegano come bambù. Il manto della
Madonna, sulla colonna, si gonfia, l’aria tempestosa gli scorre sopra.
Nessuno lo vede? I signori e le signore, che dovrebbero camminare sul
selciato, ondeggiano. Quando il vento si placa costoro si fermano, si
dicono qualcosa l’un l’altro, si salutano inchinandosi, ma il vento
ricomincia, non ce la fanno a resistergli e sollevano i piedi
simultaneamente. Certo, devono tenersi stretti i cappelli, ma hanno uno
sguardo divertito, come fosse bel tempo. Soltanto io ne ho timore
Nel tormento in cui mi trovavo, dissi: La storia che prima avete
raccontato su vostra madre e sulla signora in giardino non la trovo per
niente significativa. Non solo di storie simili ne ho udite e viste molte, ci
ho perfino preso parte spesso. E’ qualcosa di assolutamente naturale.
Fossi stato io al balcone, non pensate che avrei potuto parlare nello
stesso modo, e dal giardino nello stesso modo rispondere? E’ un caso
semplicissimo.
Quando ebbi detto così, lui parve molto lieto. Disse che ero vestito in
modo grazioso, che gli piaceva molto la mia cravatta. E che pelle
delicata, avevo. Queste parole si sarebbero trasformate in dichiarazioni
della massima chiarezza, se io le avessi smentite.

Storia del baciapile

Poi si mise seduto vicino a me, che timidamente gli avevo fatto posto
con un cenno della testa. Non mi sfuggì d’altra parte che anche lui fosse
un poco imbarazzato, nel sedersi; cercando di restare a una certa
distanza da me, faticosamente disse:
Che razza di giornate, che passo!
Ieri sera mi trovavo a un ricevimento. Sotto la luce di una lampada a
gas, stavo per inchinarmi davanti a una ragazza dicendo: Ci avviamo
verso l’inverno, davvero me ne rallegro, queste le mie parole, ma nel
piegarmi mi sono mio malgrado accorto di una disarticolazione del mio
femore destro. Anche della rotula, un po’ fuori posto.
Così mi misi seduto e, dato che miro sempre alla lungimiranza nelle
cose che dico, aggiunsi: L’inverno, infatti, è molto più agevole; ci si
può comportare con più leggerezza, non serve faticare con le parole.
Spero di aver ragione su questa faccenda, nevvero, cara signorina?
Intanto la gamba destra mi dava molto fastidio. Sembrava rotta, sul
principio, ma un po’ alla volta, muovendola e premendoci sopra a mo' di
prova, quasi la recuperai.
A quel punto udii la ragazza, che compassionevolmente si era seduta
anche lei, dire a bassa voce: No, non mi fate impressione per niente ...
Guardate, dissi tra il lieto e l’impaziente, che neanche cinque minuti
dovete perderci a chiacchierare con me. Su, ve ne prego, mangiate
mentre parliamo.
E allungai un braccio, presi un grappolo d’uva che fuoriusciva pesante
da un piatto sostenuto da un bronzeo fanciullo alato, lo tenni un attimo
in aria e poi lo appoggiai su un piattino bordato d’azzurro che porsi
forse non senza grazia alla ragazza.
Non mi fate impressione per niente, disse lei, tutto quel che dite è
noioso e incomprensibile, e neanche vero. In altri termini credo, signor
mio, - perché mi chiamate sempre cara signorina? – credo che voi non
vi occupiate della verità solo perché essa è troppo faticosa.
Dio, se non mi fece piacere! Sì, signorina, signorina, quasi gridai, come
avete ragione! Cara signorina, lo capite, è una gioia da restare a bocca
aperta esser così capiti senza averci puntato.
La verità vi costa troppa fatica, signor mio, e infatti che aspetto avete!
Siete ritagliato, per quanto siete lungo, nella carta velina, carta velina
gialla, una bella silhouette, e se camminate si deve sentire il fruscio. Per
cui non è neanche giusto prendersela per come vi comportate o per le
vostre opinioni, infatti voi siete costretto a piegarvi alla corrente d’aria
che c’è nella stanza.
Ecco cosa non capisco, risposi. Ci son bene delle persone qui nella
stanza. Allungano un braccio sullo schienale della sedia, o si
appoggiano al pianoforte, o si portano lentamente alla bocca un
bicchiere, oppure con circospezione vanno di là, e, dopo che nel buio si
sono fatti male alla spalla destra urtando su un armadio, pensano,
respirando davanti alla finestra aperta: lì c’è Venere, la stella della sera.
E invece io sono qui in compagnia. Se questo ha una coerenza, io non
la capisco. Ma non so neppure se ha coerenza. E vedete, cara signorina,
tra tutte queste persone che in conformità alla loro mancanza di
chiarezza si comportano in modo così incerto e ridicolo, solo io sembro
degno di sentirmi dire cose chiare e tonde su di me. Mi si sfotte con
gran soddisfazione, ma in modo che resti in piedi un qualcosa, come
avviene dei muri maestri di una casa che dentro è bruciata. La vista
risulta appena occlusa, di giorno si vedono attraverso le grandi aperture
delle finestre le nuvole nel cielo, e di notte le stelle. Tuttavia le nuvole
sono ritagliate da pietre grige, e le stelle danno forma a immagini
innaturali. Signorina, se vi confidassi, come ringraziamento, che tutte le
persone che desiderano vivere avranno prima o poi il mio aspetto di
carta velina gialla, ritagliata in una bella silhouette – come notavate – e
nel camminare le si sentiranno frusciare? Non saranno diverse da ora,
ma sembreranno fatte di carta velina. Anche voi, cara...
Mi accorsi a quel punto che la ragazza non sedeva più vicino a me.
Doveva essere già andata via dopo le ultime parole che aveva detto,
infatti ora si trovava lontano da me a una finestra, circondata da tre
giovani dagli alti colletti bianchi che ridendo parlavano.
Lieto, bevvi un bicchiere di vino e mi avvicinai al pianista, che tutto solo
stava suonando un pezzo malinconico. Per non allarmarlo, cautamente
mi chinai e a bassa voce, internamente alla melodia, gli dissi
all’orecchio:
Abbiate la bontà, stimato signore, di far suonare me, adesso, perché sto
per avere un buon momento.
Dato che non mi sentiva, rimasi un po’ in imbarazzo, poi tuttavia passai,
reprimendo la mia timidezza, da ognuno degli invitati, come per caso
dicendo: Oggi suonerò il piano. Sì.
Sembrava che tutti sapessero che non ne ero capace, ma risero con
benevolenza della simpatica interruzione dei loro conversari. Si fecero
molto attenti però quando a voce molto alta dissi al pianista: Abbiate la
bontà, stimato signore, di far suonare me, adesso, perché sto per avere
un buon momento. Un trionfo.
Certamente il pianista sentì, ma non lasciò libero il suo sgabello
marrone né mi sembrò che avesse compreso. Sospirò, e con le sue
lunghe dita si coprì il viso.
Stavo già sentendo una certa compassione e volevo incoraggiarlo a
suonare ancora, quando la padrona di casa insieme ad altri invitati si
avvicinò.
E’ comico, dissero, e risero forte, come se io volessi far qualcosa
d’innaturale.
Anche la ragazza venne, mi guardò sprezzante e disse: Prego, gentile
signora, lasciatelo suonare. Forse vuol farlo per scherzo. Bisogna dargli
spago. Per favore, gentile signora.
Tutti, anch’io, credendo che ciò fosse ironico, si divertivano. Solo il
pianista era ammutolito. A testa china sfiorava con l’indice della sinistra
il legno del suo sgabello, come se disegnasse nella sabbia. Io tremavo,
le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. Inoltre non mi riusciva più di
parlare in modo distinguibile, tutto il mio viso sembrava stesse per
piangere. Dovevo scegliere talmente le parole da dire, che il pensiero
che io stessi per piangere dové sembrare ridicolo agli astanti. Gentile
signora, dissi, ora devo suonare perché … ma avevo dimenticato la
motivazione, e d’improvviso mi sedetti al piano. Allora di nuovo seppi
cosa fare. Il pianista con tatto si alzò dallo sgabello, dato che io gli
stavo chiudendo la strada. Spegnete la luce, prego, perché posso
suonare solo al buio. Mi stavo rinfrancando.
Allora due signori afferrarono lo sgabello e mi trasportarono molto
distante rispetto al piano, indietro, verso il tavolo dei rinfreschi,
fischiando una canzone e dondolandomi un poco.
Tutti sembrarono approvare, la signorina disse: Vedete, gentile signora,
ha suonato proprio bene. Lo sapevo. E voi che eravate tanto allarmata!
Compresi, e ringraziai con un elegante inchino.
Mi fu versata una limonata e una signora dalle labbra rosse mi tenne il
bicchiere perché bevessi. La padrona di casa mi porse una meringa su
un piatto d’argento e una ragazza tutta in bianco me la infilò in bocca.
Una formosa signorina dall’abbondante chioma bionda resse sopra di
me un grappolo d’uva, avevo solo da spiccarne i chicchi, mentre lei mi
guardava gli occhi rovesciati indietro.
Tanto bene mi trattavano tutti, che io mi meravigliai del fatto che di
comune accordo mi trattenessero quando di nuovo volli andare al
piano.
Ora però basta, disse il padrone di casa, che fin qui non avevo notato.
Uscì e rientro con un enorme cappello a cilindro e un soprabito a
fiorami color rame scuro. Ecco la vostre cose.
Non si trattava certo delle mie cose, ma non volevo causargli di nuovo
la fatica di andare a vedere. Lui stesso mi mise il soprabito che mi
andava stretto, aderendo al mio corpo sottile. Una signora dal volto
indulgente mi abbottonò la giacca, abbassandosi poco a poco, in tutta
la sua lunghezza.
Dunque, auguri, disse la padrona di casa, tornate presto. Vi vediamo
sempre volentieri, lo sapete. L’intera compagnia s’inchinò come per
necessità. Anch’io ci provai, ma il soprabito era troppo stretto. Allora
presi il cappello ed attraversai la porta in modo davvero troppo goffo.

A pochi passi fuori dal portone della casa il cielo stellato, la luna e la
sua gran volta, la piazza circostante con il Municipio, la statua di Maria e
la chiesa, mi colsero di sorpresa.
Con calma mi staccai dall’ombra verso la luce della luna, abbottonai il
soprabito e ripresi calore; quindi misi a tacere il brusio notturno
levando in alto le mani, e iniziai a riflettere: Che cosa fate, voi, come se
foste reali? Volete farmi credere che sono irreale io, comicamente in
piedi allo scoperto su questo selciato. Ma è passato molto tempo da
quando eravate reali, tu, cielo, tu piazza, mai siete stati reali.
E’ pur vero che mi siete superiori, ma soltanto dopo che vi ho lasciato in
pace.
Grazie a Dio, luna, tu non sei più luna, tuttavia forse è privo di
accuratezza da parte mia che io ti chiami ancora luna. Perché non sei
più tanto baldanzosa, se ti chiamo “derelitta lanterna di carta di strano
colore”? E perché tu quasi ti tiri indietro, se dico “statua di Maria” e non
riconosco più la tua maestà, statua di Maria, se ti chiamo “luna giallo
lucente”? Pare davvero che voi non funzioniate più, se si riflette su di
voi; perdete in coraggio e in salute.
Dio come deve giovarvi imparare a riflettere da un ubriaco!
Perché tutto questo silenzio? Credo che non tiri più vento. E i
baracconi, spesso in movimento su rotelle nella piazza, sono tutti fermi
– Silenzio – silenziosi – non si vede più la sottile striscia nera che li
stacca dal suolo.
Mi misi a correre. Girai di corsa senza intralci tre volte intorno alla
grande piazza e non incontrai nessun ubriaco, corsi senza interrompere
la mia velocità, e senza sentire lo sforzo, verso via Carlo. La mia ombra
mi correva vicino, spesso più piccola di me, sulla parete, come se
facesse un percorso incassato tra il muro e il piano stradale.
Giunto alla sede dei vigili del fuoco sentii il rumore del campanello, e
quando svoltai sul posto vidi un ubriaco appoggiato al graticcio del
pozzo, le braccia in posizione orizzontale, i piedi piantati in terra a
distanza, con gli zoccoli.
Prima mi fermai per calmare l’affanno, poi mi avvicinai all’ubriaco, mi
levai il cilindro dalla testa e mi presentai:
Buonasera, nobiluomo, io ho ventitré anni, ma ancora non possiedo
alcun titolo. Voi certamente, possessore di un nome rimarchevole, di
sicuro melodioso, venite dalla grande Parigi. L’odore tutto artificiale
dell'insidiosa corte di Francia vi circonda.
Certamente i vostri occhi truccati hanno visto quelle gran dame che
stanno sull’alta e luminosa terrazza e ironiche ruotano i loro vitini
mentre il termine del loro variopinto strascico giace, dispiegato lungo la
scalinata, nella ghiaia del giardino sottostante. Su lunghi pali disposti
dappertutto salgono servi che indossano frac grigi e calzoni bianchi dal
taglio sfacciato, sui pali attorcigliano le gambe, il busto all’indietro e
proteso di lato, per sollevare da terra, con grosse corde, enormi teli di
lino grigio, secondo la voglia delle gran dame di avere un mattino
nebbioso - non è vero?
L’ubriaco fece un rutto, io quasi spaventato dissi: Davvero, signore, voi
venite dalla nostra Parigi, dalla turbolenta Parigi, da quell’esilarante
calamità?
Come lui fece un nuovo rutto, imbarazzato dissi: Lo so, mi è toccato un
grande onore.
E mi abbottonai con dita svelte il soprabito, quindi fervido e timoroso
parlai:
So che non mi ritenete degno di risposta, ma dovrei trascorrere una vita
intera di pianto, se oggi non ve lo domandassi: ve ne prego, signore che
siete così elegante, è vero quel che mi è stato detto? Che a Parigi ci
sono persone che esistono solo quando hanno decorazioni sull’abito,
che ci sono case che dispongono di autentici portali? E' vero che nei
giorni d’estate il cielo in fuga sopra la città è azzurro, tuttavia abbellito
da una folla di nuvolette a forma di cuore? E che c’è un panottico assai
frequentato dove si trovano comuni alberi che portano, su tavolette
fissatevi, il nome dei più celebri eroi, criminali e innamorati? E poi
questa, questa notizia ovviamente falsa: non è vero che le strade di
Parigi si ramificano all’improvviso; che sono piene di agitazione, non è
vero? Mai tutto è in ordine, e come potrebbe? Se capita un incidente la
gente si raduna arrivando dalle strade vicine con quel passo tipico della
grande città, che sfiora appena il lastrico; tutti sono incuriositi, ma
temono anche la delusione; respirando in fretta allungano le loro
testoline. Ma se si sfiorano l’un con l’altro s’inchinano profondamente e
chiedono scusa: Molto spiacente – è capitato senza intenzione – la
calca è grande, perdonate, ve ne prego – sono stato davvero goffo – lo
ammetto. Mi chiamo – mi chiamo Jerome Faroche, faccio il rivenditore
di spezie in Rue de Cabotin – permettete che vi inviti per domani a
pranzo – anche mia moglie ne sarebbe molto lieta. Parlano in questo
modo, intanto la via è assordante e il fumo dei camini cala tra le case.
Certamente è così. E potrebbe essere che talvolta in un animato
boulevard di un quartiere distinto si fermino due carrozze. I servitori
aprono subito le portiere. Otto nobili cani lupo siberiani saltano giù e a
balzi corrono sulla carreggiata abbaiando. Si dice pure che ci si
travesta, i giovani parigini sono dei gagà.
L’ubriaco aveva gli occhi socchiusi. Quando tacqui s’infilò tutte e due le
mani in bocca e spinse la mascella in giù. Il suo abito era tutto sporco.
Forse lo avevano cacciato da una taverna e non aveva ancora
riacquistato lucidità.
Era credo quella breve pausa di calma totale tra la notte e il giorno,
quando il capo inaspettatamente ci oscilla, quando tutto
inavvertitamente tace, e, poiché non lo prendiamo in considerazione,
scompare. Mentre restiamo soli con il busto piegato, ci guardiamo
intorno, ma senza vedere più niente, e nemmeno sentiamo più alcuna
resistenza dell’aria, ma intimamente ci ricordiamo che a una certa
distanza da noi si trovano case dotate di tetti e, meno male, di comignoli
spigolosi dai quali l’oscurità fluisce nelle case, nelle varie stanze,
attraverso le soffitte. Ed è una fortuna che domani sarà un giorno in cui,
è incredibile davvero, si potrà rivedere tutto.
L’ubriaco alzò tanto le sopracciglia che tra quelle e gli occhi sorse una
lucentezza: E’ così, cioè – cioè, ho sonno, perciò andrò a dormire – cioè,
ho un cognato in via Venceslao – vado lì, perché ci abito, perché ci ho il
letto – allora io vado – cioè, solo che non lo so come si chiama e dove
abita – mi sembra di averlo dimenticato – ma non fa niente, perché non
so neanche, davvero, se un cognato ce l’ho – cioè, ora vado – credete
che lo troverò?
Senza pensarci, dissi: Certo. Ma voi venite dall’estero e per l’appunto la
vostra servitù non è con voi. Lasciate che vi porti io.
Non rispose. Gli offrii il braccio, perché si reggesse.

d
Seguito del colloquio tra il grassone e il baciapile.

Io già da un po’ facevo fatica a non addormentarmi. Mi detti una


strofinata e mi dissi: E’ arrivato il momento di parlare. Già sei confuso.
Ti senti afflitto? Sta’attento! Conosci di sicuro la situazione. Rifletti con
calma! Al ricevimento aspetteranno. E’ come nel gruppo di persone
della scorsa settimana. Qualcuno legge ad alta voce qualcosa di un
manoscritto. A sua richiesta, una parte del manoscritto è opera mia.
Quando vedo i brani scritti da lui, mi spavento. Sono inconsistenti. Gli
astanti si chinano dai tre lati del tavolo sullo scritto. Giuro piangendo
che non è mio.
Ma perché ciò dovrebbe assomigliare a quel che capita oggi? Soltanto a
te sta che risulti un discorso preciso. E’ tutto a posto. Fatti forza, mio
caro! Magari incontrerai un’obbiezione. Puoi dire: Ho sonno. Ho male
alla testa. Adieu. Svelto, dunque, svelto. Fa’attenzione! – Cos’è? Ancora
intoppi su intoppi? Di che cosa ti ricordi? – Mi ricordo di un altopiano
che sollevava la terra contro il grande cielo come uno scudo. Lo vidi da
una montagna e mi preparai ad attraversarlo. Cominciai a cantare.
Avevo le labbra secche e indocili, quando dissi:
Non si potrebbe vivere in un altro modo?
No, rispose lui sorridendo.
Ma perché la sera pregate in chiesa? - domandai, mentre tra me e lui
veniva meno tutto quello che come dormendo avevo sostenuto.
No, perché dovremmo parlarne? La sera nessuno che viva in solitudine
ha responsabilità. Molte cose si temono. Che magari si dilegui la
corporeità, che le persone davvero siano come sembrano nel
crepuscolo, che non si possa camminare senza il bastone, che magari
sarebbe bene andare in chiesa a pregare gridando, allo scopo di essere
osservati e di conseguire una corporeità.
Parlò in questo modo e poi tacque, perciò estrassi il fazzoletto rosso di
tasca e piansi chinato.
Si alzò, mi baciò e disse:
Perché piangi? Sei grosso, questo mi piace, hai mani lunghe che
agiscono secondo la tua volontà; perché non te ne rallegri? Porta
sempre i bordi delle maniche scuri, te lo consiglio. – No – io ti
vezzeggio, e tu piangi lo stesso? Questa difficoltà del vivere tu la reggi
con totale razionalità.
Costruiamo, è un fatto, inutili macchine da guerra, torri, mura, cortine di
seta, e potremmo assai stupircene, se ne avessimo il tempo. E restiamo
in equilibrio, non cadiamo, sfarfalliamo, per quanto brutti come dei
pipistrelli. Ed è difficile che qualcuno possa in una bella giornata
impedirci di dire: Ah, Dio, oggi è una bella giornata. Infatti siamo
installati sulla nostra terra e viviamo in base al nostro consenso. Siamo
in altre parole come tronchi d’albero nella neve che stanno appoggiati
apparentemente senza difficoltà e si potrebbe spingerli via con un
modesto urto. Ma no, non si può, perché essi sono strettamente
collegati al terreno. Ma vedi, spesso questa è solo apparenza.
Riflettere mi impedì di piangere: E’ notte, e nessuno domani mi
rinfaccerà che cosa potrei dire ora, dato che ciò può essere detto nel
sonno.
E dissi: Sì, è così, ma di che cosa parliamo, poi? Non potevamo parlare
alla luce del cielo, per cui ci troviamo nel fondo di un androne. No –
avremmo potuto parlare lì, perché nel nostro discorrere non siamo del
tutto liberi, infatti non vogliamo fondare né senso né verità, ma solo
burla e passatempo. Ma non potreste raccontarmi ancora una volta,
però, la storia della donna nel giardino? Com’è ammirevole, com’è
saggia! Dovremmo comportarci secondo il suo esempio. Come mi
piace, lei! Ed è bene che io vi abbia incontrato e che vi abbia fatto la
posta. E’ stato un gran divertimento per me aver parlato con voi. Ho
udito qualcosa che a me forse intenzionalmente finora era ignoto – me
ne rallegro.
Sembrò contento. Per quanto mi sia sempre penoso il contatto con un
corpo umano, dovetti abbracciarlo.
Poi uscimmo dall’androne sotto il cielo. Il mio amico soffiò via qualche
nuvoletta dispersa, così che ci si offrì l’ininterrotto luccichio delle stelle.
Il mio amico camminava a fatica.
4
Affondamento del grassone.

A quel punto tutto fu preso in velocità e si allontanò. L’acqua del fiume


si scaricò in una rapida, volle trattenersi, ancora si agitò sul margine di
rottura, ma poi cadde in un ammasso vaporoso.
Il grassone non riuscì a parlare oltre, invece fu costretto a rivoltarsi e
scomparire nella rapida rumorosa.
Io, che avevo appreso tante cose spassose, stetti sulla riva e guardai.
Che cosa non devono fare i nostri polmoni! - respirano svelti e
soffocano al loro interno nel veleno; respirano lenti e soffocano nell’aria
irrespirabile, tra cose oltraggiose. E se vogliono cercare il loro ritmo,
già vanno in rovina durante la ricerca.
Nello stesso tempo le rive del fiume si allargarono a dismisura, ciò
nonostante sfiorai con la palma della mano il ferro di una minuscola
indicazione stradale in lontananza. Non riuscivo del tutto a capire. Ero
piccolo, quasi più piccolo del solito, e un cespuglio di bacche bianche,
rapidissimamente agitato, mi sovrastava. Lo vidi perché in un attimo mi
era vicino.
Ma mi ero sbagliato, perché le mie braccia erano grandi come nuvoloni
di pioggia battente, solo più frettolose. Non so perché, volevano
schiacciare la mia povera testa.
Che era però piccola come un uovo di formica, solo un po’ sciupata,
quindi non più interamente rotonda. La spostai con moti d’implorazione,
perché l’espressione dei miei occhi non avrebbe potuto essere notata,
tanto erano piccoli.
Eppur tuttavia le mie gambe, le mie gambe impossibili si trovavano
sulla montagna boscosa e facevano ombra alle vallate rustiche.
Crescevano, crescevano! Già traboccavano dallo spazio disponibile di
ogni paesaggio, già da un pezzo erano tanto lunghe quanto non
bastava, a vederle, l’acutezza dei miei occhi.
Ma no, non è così – io sono sempre piccolo, provvisoriamente piccolo –
rotolo – rotolo – sono una valanga di montagna! Per favore, voi che
m’incontrate, ditemi come sono grande, prendete le misure di queste
braccia, di queste gambe.

III

Date le circostanze, disse il mio conoscente, che insieme a me era


venuto via dal ricevimento e tranquillamente era salito su un sentiero
del Laurenziberg, rimanete un poco, suvvia, perché io ci veda chiaro.
Sapete, ho una cosa da risolvere. E’ tanto faticoso – una notte
freddissima e luminosa, e un vento così fastidioso che pare perfino che
quell’acacia cambi di posto.
L’ombra lunare della casa del giardiniere si distendeva sul sentiero
appena bombato, decorata da un po’ di neve. Quando vidi la panchina
vicino alla porta l’indicai sollevando la destra da quella parte, la sinistra
sul petto, infatti mancavo d’audacia e mi aspettavo rimproveri.
Lui si sedette alla stanca e senza riguardi per il suo bell’abito, e mi stupì
con il suo appoggiar la fronte sulle dita, i gomiti premuti sulle anche.
Sì, ora voglio dire questo. Sapete, io vivo in modo regolato, non c’è
niente da ridire, succede tutto quello che legittimamente doveva
succedere. I rovesci cui si è avvezzi nella compagnia che frequento non
mi hanno risparmiato come abbiamo visto appieno io e il mio giro, e
anche questo comune benessere non si tiene per sé, ho potuto anzi
parlarne in circoli ristretti. Bene, io non mi ero mai veramente
innamorato. Talvolta me rammaricavo, ma approfittavo di quel parlarne,
se mi serviva. Ordunque, io devo dire: sì, sono innamorato e provo
molta emozione nell’esserlo. Sto sui carboni ardenti amorosi, come
piace alle ragazze. Eppure, non avrei avuto l’obbligo di pensare che
proprio questa precedente mancanza dava una svolta eccezionale e
lieta, soprattutto lieta, alle mie relazioni?
Sì, però, calma, calma! - dissi io con indifferenza e pensando solo a me:
La vostra amata è bella come avete detto?
Sì, è bella. Mentre sedevo accanto a lei pensavo sempre solo questo:
quest’impresa è rischiosa – e io così audace – comincio un viaggio per
mare – bevo vino a galloni. Ma se ride, lei non mostra i denti come ci si
dovrebbe aspettare, si vede solo la buia stretta apertura della bocca
incurvata. V’è della malizia e della senilità, quando lei ridendo butta
indietro la testa.
Non posso negarlo, dissi con un sospiro, forse l’ho visto anch’io, infatti
dev’essere un contrasto stridente. Ma non si tratta solo di quello, grazia
femminile, soprattutto! Spesso quando vedo abiti molto pieghettati,
increspati e ricchi di gale, che donano all’avvenenza dei corpi, penso
che essi non restano così a lungo, prendono delle grinze, non sono più
veramente lisci, le gale s’impolverano irrimediabilmente, e penso che
nessuno vorrebbe rendersi così ridicolo e tapino da indossare prima
abiti costosi, per poi toglierseli a sera. E invece vedo ragazze molto
belle che esibiscono l’eccitante generosa muscolatura tesa sotto la
pelle delle loro snelle caviglie, e la massa dei loro capelli fini, però si
mostrano tutti i giorni in quest’unica maschera naturale, e il loro
specchio riflette sempre lo stesso volto appoggiato sul palmo della
mano. Solo qualche volta, la sera, al ritorno da una festa, tardi, nello
specchio la maschera naturale appare logora, già vista da tutti e appena
degna di essere ancora indossata.
Comunque io durante il cammino vi ho domandato più di una volta se
voi trovate bella la ragazza, ma avete sempre cambiato discorso senza
rispondermi. Dite, v’è della malvagità? Perché non mi tranquillizzate?
Allungai i piedi nell’ombra e dissi: Non dovete essere tranquillizzato. Voi
siete innamorato. E misi davanti alla bocca, per non prendere freddo, il
mio foulard decorato di grappoli d’uva blu.
Ora lui si girò verso di me ed appoggiò la sua faccia grassa allo
schienale della panchina: Sapete, a parte tutto non c’è fretta, posso
sempre por fine a questo amore nascente con una porcata, o
un’infedeltà, o con la partenza per un paese lontano. Il fatto è che non
so davvero se devo espormi a un turbamento simile. Nulla è certo,
nessuno sa dove porti e quanto duri. Vado in una taverna con
l’intenzione di ubriacarmi, e so che sarò ubriaco quest’unica sera, ma
nel caso presente! Tra una settimana vogliamo fare un’escursione
insieme a una famiglia con cui abbiamo fatto amicizia, ciò non ci
provoca mica una tempesta nel cuore di quattordici giorni. I baci di
stasera mi rendono torpido, danno spazio a sogni indomiti. Oppongo
loro resistenza e faccio una passeggiata notturna, allora capita che io
mi trovi in un’incessante commozione, ho il viso come colpito da
raffiche di vento, freddo e caldo; che debba toccare di continuo in tasca
un nastro rosa; sono molto preoccupato per me, eppure non riesco a far
niente, e addirittura, signor mio, vi sopporto, mentre altrimenti di certo
non parlerei mai con voi.
Mi faceva molto freddo e il cielo già volgeva un poco al chiaro. Allora
non ci sarà bisogno di alcuna porcata, tradimento o partenza per un
paese lontano. Dovrete uccidervi, dissi con il sorriso sulle labbra.
Davanti a noi, dall’altra parte del viale, due cespugli dietro cui in basso
c’era la città. Ancora un poco illuminata.
Bene, esclamò lui, e colpì con il suo piccolo pugno chiuso la panchina,
lasciandocelo appoggiato, ma voi vivete. Non vi uccidete. Nessuno vi
ama. Zero successi. Potreste non dominare l’attimo che si approssima.
Allora mi parlate così, voi, uomo meschino. Non potreste amare,
soltanto la paura vi eccita. Guardatemi il torace, allora.
Si aprì rapidamente la giacca, il gilet e la camicia. Aveva un torace
davvero ampio e ben fatto.
Iniziò a raccontare: Sì, stati simili di arroganza di tanto in tanto ci
colgono. Quest’estate mi trovavo in un villaggio presso un fiume.
Ricordo tutto con precisione. Spesso sedevo sul lato lungo di una
panchina presso la riva. C’era anche un albergo, sul greto. Si sentiva
spesso un violino. Giovani pieni di salute parlavano di caccia e di
avventure, nel giardino, ai tavoli, davanti a una birra. Sull’altra riva
c’erano montagne nuvolose.
A quel punto mi alzai a bocca storta, stanca, andai nel prato dietro la
panchina, ruppi dei rametti innevati e poi dissi all’orecchio del mio
conoscente: Lo confesso, sono fidanzato.
Il mio conoscente non si stupì che mi fossi alzato: Lo siete? Si
accomodò fiaccamente, sostenuto solo dallo schienale. Poi si tolse il
cappello e ne vidi la chioma che racchiudeva la rotondità della sua
testa, sul collo carnoso, con una linea marcatamente stondata, com’era
di moda quest’inverno.
Mi rallegravo di avergli risposto con tale sagacia. Sì, mi dissi, ma come
vaga sciolto in pubblico, lui, con braccia e collo liberi. E’ capace di
accompagnare coi suoi bei discorsi una signora attraverso la sala, e se
fuori piove non perde la calma, né se lì c’è un timido, o se invece
accade qualcosa di penoso. No, lui s’inchina lo stesso con grazia
davanti alla signora. Ma ora resta seduto.
Si passò sulla fronte un fazzoletto di batista. Per favore, disse,
mettetemi un po’ la mano sulla fronte. Ve ne prego. Dato che non lo
facevo, si mise a mani giunte.
Come se i nostri crucci avessero oscurato tutto, sedevamo in cima alla
montagna come se fossimo in una stanzetta, per quanto già da prima
avessimo notato la luce e il vento mattutino. Eravamo insieme e vicini,
anche se non ci piacevamo, ma non potevamo allontanarci l’uno
dall’altro, perché le pareti erano veramente solide. Tuttavia avevamo la
possibilità di comportarci in modo ridicolo e senza dignità umana,
perché non dovevamo vergognarci di fronte al silenzio che stava sopra
di noi e di fronte agli alberi.
Allora, senza cerimonie, il mio conoscente estrasse da una tasca un
coltello, meditabondo lo aprì e, come per gioco, se lo piantò
nell’avambraccio sinistro, senza toglierlo. Subito il sangue sgorgò. Le
sue guance rotonde erano smorte. Tirai via il coltello, strappai la manica
del cappotto e del frac, tirai su la manica della camicia. Poi corsi
appena, su e giù, per vedere se non ci fosse qualcuno che potesse
aiutarmi. Ogni fronda era acutamente visibile e immota. Poi succhiai un
poco la ferita, che era profonda. Mi ricordai della casetta del giardiniere.
Di corsa feci la scala che conduceva su al prato vicino alla casa, in
fretta esaminai la finestra e la porta, di fretta, scalpitando, suonai, per
quanto subito avessi visto che la casa era disabitata. Poi guardai la
ferita che sanguinava con un flusso scuro. Bagnai il fazzoletto del ferito
nella neve e gli bendai alla buona il braccio.
Tu, caro, caro, dissi, ti sei ferito per causa mia. Sei così ben fatto, dotato
di gentilezza, di giorno puoi andare a passeggio, quando molte persone
ben vestite si vedono vicino o lontano tra i tavolini o nei sentieri della
collina. Pensa a questo, alla primavera, allora andremo in quel giardino
alberato, no, non ci andremo, purtroppo è vero, ci andrai correndo
insieme all’Annetta, con gioia. Oh sì, credimi, ti prego, e il sole attirerà
tutti al meglio verso di voi. Oh, c'è musica, si odono cavalli, nessuna
preoccupazione, sono grida, e organetti suonano nel viale.
Oh, Dio, disse lui, si alzò, si appoggiò a me, e andammo, questo non mi
aiuta affatto. Non potrebbe rallegrarmi. Perdonate. E’ già tardi? Forse
domattina presto dovrei far qualcosa. Oh, Dio.
Una lanterna vicina al muro ardeva e proiettava sul sentiero e sulla neve
l’ombra del fusto, mentre quella dei numerosi rami contorti, come rotti,
si posava sul pendio.
Stesura B (brani scelti)

(La stesura B, nell’edizione Fischer, è più breve di 37 pagine della A:


della A mancano le pagine riguardanti il Grassone, ma non quelle
riguardanti l’incontro con il Baciapile, rievocato e sviluppato qui dal
narratore come suo; al posto delle pagine sul Grassone troviamo invece
un ricordo d’infanzia del narratore.
La stesura B termina assai diversamente dalla A, con il narratore che si
reca, accompagnato dal Baciapile fino al portone, in una casa dove lo
aspetta un ricevimento.
Il paragrafo contraddistinto dal numero I nella stesura B termina con un
interessante appello che il narratore, malconcio, rivolge al suo
„conoscente“. Vogliamo riportarlo:
“(...) gridai: Basta storie! Non voglio sentire più nulla per frammenti.
Raccontatemi tutto dall’inizio alla fine. La parte non l’ascolto, vi dico
questo. Ma per il tutto io brucio.
Non appena lui mi guardò smisi di gridare. E sulla mia riservatezza
potete contare! Raccontate tutto quel che avete nel cuore e basta. Un
ascoltatore discreto come me non l’avete mai avuto, ancora.’
Piuttosto a bassa voce gli dissi all’orecchio: E non dovete temere,
inutile dirlo.
Lo sentii ridere.”
Questo finale conclude ciò che di per sé potrebbe costituire un
racconto compiuto. Incidentalmente: nelle due stesure si trovano brani
che altrove (Erzählungen, ed. Fischer) si leggono, isolati, come prose
brevi)
Veniamo ora al testo della Stesura B.

III

(Il narratore, penetrato nella contrada in parte da lui plasmata, dopo


essersi lasciato alle spalle la sua „cavalcatura“ e aver camminato, un
po’ in salita un po’ in discesa un po’ in pianura secondo convenienza,
comunque esposto al panorama, si accomoda infine sul ramo di un
albero e si addormenta).

Dormendo sognai con tutto il mio essere, agitandomi a tal punto, tra
angoscia e pena, che il sogno principale non lo tollerò, ma non fu
capace neppure di svegliarmi, infatti continuai a dormire, poiché il
mondo circostante non c’era più. Così attraversai quel sogno
profondamente lacerandomi e feci ritorno, come avessi trovato scampo
– sfuggito sia al sonno sia al sogno – nel mio villaggio natìo. Sentivo
avanzare lungo la cancellata del giardino i carri, a tratti li vedevo
attraverso gli scarsi pertugi aperti nel fogliame. Come scricchiolava,
nel gran caldo dell’estate, il legno dei raggi e dei timoni! Lavoratori
venivano dai campi ridendo senza ritegno.
Sedevo sulla nostra piccola altalena, mi riposavo tra gli alberi nel
giardino dei miei genitori.
Davanti alla cancellata non finivano di passare in un baleno fanciulli di
corsa; carri di grano, con sui covoni uomini e donne, oscuravano dietro
e intorno a sé le aiole fiorite; verso sera vedevo un signore con un
bastone passeggiare lento, e alcune ragazze che a braccetto gli
venivano incontro salutavano e si spostavano sull’erba di lato.
Uccelli spiccavano il volo come schizzando, li seguivo con lo sguardo,
vedevo come salivano nel tempo d’un respiro fino a dove non pensavo
che arrivassero, intanto avevo l’impressione di cadere e cominciavo a
dondolarmi un poco tenendomi saldo, a causa della mia debolezza, alle
corde. Presto dondolavo con più energia dell’aria fresca che spirava, e
gli uccelli in volo mi sembravano stelle tremanti.
Mi facevano cenare al lume di candela. Spesso tenevo entrambe le
braccia appoggiate al piano del tavolo e, già stanco, sbocconcellavo il
pane imburrato. Spalancate con forza, le cortine si gonfiavano nel vento
caldo e a tratti qualcuno di passaggio le teneva ferme con le mani da
fuori, quando desiderava vedermi meglio e parlare con me. Il più delle
volte la candela si consumava presto e nel suo oscuro fumo vagavano
ancora per un poco certe adunate bizzarrie. Dalla finestra qualcuno
m’intratteneva, così lo contemplavo come si trovasse sulla montagna o
davvero per aria, e neanche a lui premeva molto una risposta.
Spuntava quindi qualcuno al davanzale e annunciava che gli altri si
trovavano già davanti alla casa, così mi alzavo, tuttavia sospirando.
No, perché sospiri così? Ma cos’è successo? E’ un tipo speciale, mai
capace di smetterla con l’infelicità? Sapremo mai sollevarcene? E’
davvero tutto perduto?
Nulla era perduto. Correvamo davanti alla casa. Grazie a Dio, finalmente
ci siete! – Tu vieni sempre in ritardo! – Io? – Sì, proprio tu, resta a casa,
se non vuoi venire con noi – Siete spietati! – Che cosa? Spietati? Ma
come parli?
Non avevamo altro che la serata per la testa. Non c’era il giorno – e
neanche la notte. Presto i bottoni dei nostri gilè, come denti, si
sfregavano reciprocamente nel correre, presto correvamo senza mai
raggiungerci, le bocche brucianti, simili a belve tropicali. Come se
avessimo la corazza, da guerrieri antichi, scalpitando e a gran salti, ci
buttavamo in discesa per la corta stradina e, con lo slancio nelle gambe,
di nuovo in salita sulla strada maestra. Alcuni ne uscivano, bastava che
sparissero sullo sfondo scuro della scarpata per trasformarsi già in
estranei, e da lì scrutavano in basso.
Venite giù, forza! – Venite prima voi quassù! – Così poi ci buttate di
sotto, non ci pensiamo nemmeno, non siamo mica scemi. – Non ne
avete il coraggio, ecco cos’è. Venite, venite e basta! – Ma davvero? Voi?
Ci farete davvero volar giù? Pensate di esserne capaci?
Partivamo all’assalto, loro ci spintonavano e noi finivamo nell’erba
cadendovi volentieri. Tutta l’erba era uniformemente calda, non ne
sentivamo il calore, non ne sentivamo il freddo, eravamo soltanto
stanchi.
Se ci si girava sul fianco destro, e s’infilava la mano sotto l’orecchio,
veniva voglia di addormentarsi sul posto. C’era certo la voglia di balzare
su ancora fieramente, ma anche l’altra, di sprofondare. Si continuava
poi a saltare nell’aria, braccia in avanti, gambe indietro, e di nuovo a
cadere ancora più in basso. Né si aveva intenzione di smettere.
Non appena però si pensava a come ci saremmo, al limite estremo,
distesi nel fondo proprio a dormire in stato di particolare impotenza,
giacevamo sulla schiena come fossimo malati, sul punto di piangere. Si
ammiccava se, qualche volta, un giovane, le braccia piegate sui fianchi,
spuntava da sopra, con le sue suole scure, sopra di noi.
Si vedeva già ad una certa altezza la luna alla cui luce avanzava una
carrozza postale. Un vento delicato si alzava ovunque, lo si sentiva
anche giù in basso, e la foresta vicina cominciava a rumoreggiava.
Restare lì da soli non piaceva più tanto.
Dove siete? – Venite qui! – Tutti insieme! – Che cosa c’è sotto, basta
sciocchezze! – Non sapete che c’è già la posta? – Ma no! Già ? – Certo,
è passata mentre dormivi. – Ho dormito? Solo un pochino! – Taci, che ti
teniamo d’occhio. – Ma ti prego.- Venite!.
Si correva meno distanziati, alcuni tenendosi per la mano, poiché
andavamo in discesa non si poteva tenere la testa abbastanza alta.
Qualcuno lanciava un grido di guerra indiano, le gambe si mettevano
più che mai al galoppo, dai balzi che facevamo il vento sui fianchi si
rinforzava. Niente avrebbe potuto fermarci; eravamo tanto impegnati
nella gara che nel sorpassarci incrociavamo le braccia e potevamo
guardarci senza fatica.
Arrivati al ponte sul torrente ci fermavamo; quelli che erano corsi avanti
tornavano indietro. L’acqua sottostante urtava sulle pietre e le radici,
come se non fosse già tarda sera. Non ve n’era ragione, infatti nessuno
si sporgeva dal parapetto.
Oltre la boscaglia in lontananza transitava un convoglio ferroviario, tutti
gli scompartimenti illuminati, certamente i finestrini aperti. Uno di noi
cominciava a cantare una canzonetta alla moda, ma tutti ne avevamo
voglia. Cantavamo molto più svelti al passaggio del treno, facevamo
oscillare le braccia, perché le voci non bastavano, creavamo
un’intensità vocale in cui stavamo bene. Se la nostra voce si confonde
sotto un’altra, è come esser presi all’amo.
Cantavamo dunque dietro la foresta nelle orecchie dei viaggiatori
lontani. Gli adulti nel villaggio erano ancora svegli, le madri
preparavano i letti per la notte.
Era già il momento. Baciavo quello che mi era vicino, porgevo la mano
soltanto ai tre meno distanti, cominciavo a fare il percorso di ritorno
correndo, nessuno mi chiamava. Al primo incrocio, là dove non
potevano più vedermi, voltavo e correvo di nuovo sul viottolo verso la
foresta. La mia meta era la città a sud, di cui nel nostro villaggio si
diceva:
Là sì che c’è gente! Pensate, non dormono!
E perché non dormono?
Perché non si stancano.
E perché non si stancano?
Perché sono matti.
I matti non si stancano?
Come potrebbero stancarsi, i matti!
IV

(Il narratore riesce a bloccare il baciapile sul portone della chiesa;


quest’ultimo accetta di rispondere alla domanda circa il suo pregare
esagerato, ma a tal fine conduce il narratore dentro l’androne di una
vecchia casa che si trova in una viuzza piuttosto buia)

(…) Mi portate in questo buco come se fossimo cospiratori, mentre


siamo collegati, io solo dalla curiosità, e voi dalla paura. Come vi
comportate, là in chiesa! Da pazzo completo! Com’è ridicolo, com’è
spiacevole per chi guarda, e insopportabile per i fedeli!
Lui si teneva attaccato al muro, muovendo liberamente solo la testa: Si
tratta di un errore, di nient’altro, infatti i fedeli trovano il mio
comportamento normale, e gli altri lo trovano pio.
La mia irritazione confuta codesto ragionamento.
La vostra irritazione – ammesso che sia tale – dimostra soltanto che voi
non fate parte né dei fedeli né degli altri.
Avete ragione, dire che il vostro comportamento mi ha provocato
irritazione era un po’ troppo; no, mi ha incuriosito, come ho ben detto
prima. Ma voi di chi fate parte, dei fedeli o degli altri?
Oh, mi diverto a esser guardato dalla gente, tutto qui, e di tanto in tanto
a gettare un’ombra sull’altare.
Divertimento? - domandai mentre il mio viso si contraeva.
No, se volete saperlo. Non ve la prendete, se ho detto il falso. Non si
tratta di divertimento, per me si tratta di necessità, di bisogno di farmi
inchiodare per un’oretta da queste occhiate, con l’intera città che mi
circonda ...
Ma cosa dite? - gridai, un po’ troppo forte stando a quell’asserzione
insignificante e stando a quel basso androne, ma avevo timore di
ammutolire o di perdere la voce: davvero, ma cosa dite? (...)

(...)Sapete dunque perché prego in quel modo?


Stava mettendomi alla prova. No, non lo sapevo e neanche volevo
saperlo. Non avevo certo voluto venire in quel luogo, ma quest’uomo mi
aveva addirittura obbligato ad ascoltarlo. Andava benone che scuotessi
la testa e basta, ma ad un tratto proprio ciò non mi fu possibile.
Lui mi sorrise. Poi si abbassò sulle ginocchia e raccontò, con una
smorfia torpida: Ora finalmente posso anche rivelarvelo, perché mi
sono lasciato rivolgere la parola da voi. Per curiosità, per speranza. Il
vostro sguardo mi confortava già da parecchio tempo. E spero di
sapere da voi come stanno veramente le cose che mi cadono attorno
simili ad una nevicata, mentre per gli altri anche un bicchierino
d’acquavite sta sul tavolo saldo come un monumento. (...)

(...) Ora, in quell’androne faceva per di più molto caldo, il viso


cominciava a scottarmi. Per facilitarmi un poco le cose mi spinsi ancora
di più all’indietro, finché il cappello non mi cadde dalla testa. La volta
della scala stretta e ripida mi stava sopra con i suoi angeli e con gli
alberi rossicci dipinti. Li guardai e con una mano mi detersi il sudore
dalla fronte e dalle guance.
Volevo rialzarmi, spingere via con tutto il mio peso l’uomo che mi stava
davanti, aprire il portone e respirare all’esterno, come mi necessitava.
Mi alzai, battei con forza i tacchi sul pavimento, lui saltò un po' indietro
spinto dalle palme delle mie mani protese, poi afferrai la balaustra di
legno e per un momento mi ci destreggiai per abituarmi a stare in piedi,
ma lui quant'era lungo si coricò sulla scala, si piegò sulla schiena, poi si
distese di nuovo, allungò le gambe e allargò completamente le braccia
qualche gradino più in su, dimodoché le dita della sua sinistra
strusciavano sulla parete, quelle della destra bussavano sulla base
della scala.
Mi misi all’esterno della balaustra e mi portai le mani contratte sulla
bocca. Lui girò lentamente la testa sull’angolo di un gradino fino a
guardarmi proprio in faccia, quindi disse: Stai lì come un perdigiorno
sul lungofiume, e io allora sto disteso come un ubriaco.
Mica sarebbe male, pensai, alzai la testa e dissi: Ti sei messo proprio
comodo. Avevo le labbra secche da non credere, e me le toccai.
Scosse la testa, alla mia osservazione e disse: Prima era il contrario,
solo che io non sono rimasto freddo come te adesso.
Restai pensieroso: Dicevo che ti sei messo comodo, fui costretto a
sorridere.
Ti dispiace, per caso? - disse lui, e chiuse un poco gli occhi, se ti fa
soffrire, esci dal portone e respira all’aria, ne hai bisogno.
Tu! - gridai – era un rimprovero, il suo, corsi a piccoli passi intorno alla
balaustra, ottenebrato come durante un combattimento, caddi accanto a
lui e cominciai a piangere sul suo petto.
Ma! Ma! - disse lui, e mi accarezzò i capelli. Sei matto, non posso mica
alzarmi! Tu vuoi schiacciarmi a tutti i costi! No, per davvero sei matto!
Nella foga del pianto, però, non conoscevo nessun posto migliore per il
mio viso, così lo lasciai dov’era.
Possibile che non te sia accorto? - disse inoltre. Fin dall’inizio avevo
l’intenzione di portarti al pianto. Non ho detto nessuna parola che non
avesse questo scopo, finché alla fine avevo quasi perso la speranza di
poterci riuscire. Allora faccio un ultimo scherzo e davvero tu mi
accontenti e ti metti a piangere. Va’! Vergognati!
Non piango più, è sicuro, dissi io e lo guardai dal punto in cui avevo
appoggiato il mento, con un amico come te, certamente non piangerò.
Ma piangevo ancora, non riuscivo a smettere.
Per guardarmi torse il collo, mi prese il fazzoletto di mano e mi asciugò
gli occhi; Non sarebbe altro che una sciocchezza, disse, piangere senza
alcun motivo, dipenderebbe dalla scontentezza, ma dove lo trovi al
mondo un motivo di scontentezza? Le cose devono restare
precisamente come sono. Al limite, ti concederei il timore che possano
cambiare.
Guarda – te lo dico io – noi costruiamo macchinari bellici di speciale
inutilità, torri, muri, cortine seriche, e, se ne avessimo il tempo,
potremmo stupircene. Ci teniamo in equilibrio, non cadiamo, ci
agitiamo, anche se la nostra bruttezza quasi uguaglia quella dei
pipistrelli. Il che non toglie tuttavia che difficilmente qualcuno possa
impedirci, durante una bella giornata, di dire: Ma che bella giornata!
Perché siamo piazzati sulla nostra terra e fondamentalmente
acconsentiamo a vivere.
E mi dette un tale colpo sulle spalle che io, spaventato, mi sollevai, ma
preferivo restare chinato su di lui, le mie mani all’altezza delle sue
ascelle. Non distrarti, disse, rise e mi scosse. Non sai che siamo come
fusti d’albero nella neve? Sembra che stiano solo appoggiati e che con
una modesta spinta si potrebbe poterli spostare. Invece no, non si può,
infatti sono saldamente fissati nel suolo. Va bene, ma anche questo è
apparenza.
Ma pensa, dissi. Allora lui mi scostò di colpo le mani, io caddi con la
mia bocca sulla sua, e subito ebbi un bacio.
Ecco, e ora andiamo, disse, ed entrambi ci alzammo.
Ma tua madre! - dissi ancora. Dev’essere stata una signora coi fiocchi!
Ne avessi avuta una così!
A che cosa mi è servita? Dimenticati quella storia! - disse, e mi spolverò
la giacca con il mio fazzoletto.
Sì, impediscimi anche questo! - dissi facendo un passo oltre, così che
lui mi venne dietro con il fazzoletto.
Che vuoi? - disse. E’ una storia inventata. Si vede da lontano che è
inventata.
Sì, lo so, dissi.
Tu non sai niente! - disse. E il ricevimento dove stasera devi andare?
Davvero, il ricevimento! Pensa, me ne sarei completamente scordato!
Che sbadato! Tra parentesi questa sbadataggine è una novità assoluta,
per me.
Merito mio!
Può darsi! Mi accompagnerai, almeno? Non è lontano. Eh?
Ovvio.
E salirai insieme a me? Ti prego!
Questo no davvero.
Perché no? E se io veramente te ne prego? Allora sì, non è vero?
Intanto muoviti! E’ già tardi!
Davvero non so se ci vado senza di te.
Pensa a muoverti! Vieni! Questo posto sembra che ti piaccia
moltissimo, ma non fa al caso tuo.
Quasi, dissi, mi mordicchiai il labbro inferiore e lo guardai. Mi mise un
braccio sulle spalle, aprì il portone e mi spinse fuori.
Così uscimmo dall’androne sotto il cielo. Il mio amico soffiò via alcune
nuvolette sfilacciate, e ci si offrì l’ininterrotta luce delle stelle. Lui
faticava un po’ a camminare, ma senza fare alcuna impressione,
sembrava più che altro un contadino malato. Mi mise una mano sulla
spalla come per starmi tutto vicino, ma in realtà voleva appoggiarsi; io
non mi sottrassi, anzi, me la infilai per la punta delle dita sotto l’ascella.
Davanti alla casa dove ero invitato, rimasi in sua compagnia.
Allora adieu, dissi.
E’ qui?
Già, qui.
Non era lontano.
Te lo dicevo.
Tu, dissi.

Tu, dissi, e gli detti un colpetto con il ginocchio, non addormentarti.


Quando lui aprì gli occhi, i miei scivolarono via dal suo viso; anche se
mi sforzavo di tenerli alti, continuavo a vedergli solo il collo. Quasi ti
saresti addormentato, dissi, e, poiché non volevo dare alla mia faccia
confusa un’espressione in qualche modo stabile, sorrisi, e parve che
quel che avevo detto fosse stato uno scherzo. Me ne accorsi subito e mi
sentii gelare nel cappotto, pur senza smarrire la sensazione del gran
freddo notturno e del caldo del cappotto stesso. Il mondo circostante
stava per sparire, oppure per volarsene via sopra la mia testa, nell’attino
stesso in cui ne riebbi la consapevolezza, e fui costretto a pensare di
averlo risvegliato per mezzo di quel colpo del mio ginocchio.
Sei davvero brutale, disse, tese un poco il labbro inferiore sotto quello
di sopra, forse anche a causa del sonno, a svegliarmi con una
ginocchiata. E in particolare sei brutale nei miei confronti.
Però, sei irritabile! Ti ho forse fatto male? Ora ti metti a protestare in
pubblico contro di me. Allora io devo segnalarmi pubblicamente. Mi
volsi verso la via e mi tolsi il cappello al di lei cospetto.
Comunque non dovevi colpirmi.
Certo, non devo. Ma ti saresti addormentato, se non l’avessi fatto.
Ho dormito veramente, tu questo non riesci a capirlo.“

<Mi sono preso la libertà di eliminare le virgolette (“ e ') dai discorsi


diretti o dialoghi in quanto essi si trovano spesso l'uno dentro l'altro in
modo inestricabile – n.d.t>

(Beschreibung eines Kampfes, 1903-1907) Traduzione di N.Spinosi.

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