Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Nicola Spinosi
Nozze in provincia. Preparativi.
Eduard Raban attraversò l'atrio e dal vano del portone vide che pioveva.
Un po'. Proprio davanti a lui sul marciapiede c'erano molte persone che
procedevano variamente. Qualcuno s'avvicinava e attraversava la
carreggiata. Una fanciullina reggeva sulle mani un cagnolino stanco.
Due signori si scambiavano informazioni, uno di loro teneva le mani
con i palmi sollevati e le muoveva in modo simmetrico quasi tenesse in
sospeso un carico. Poi si vide una signora il cui cappello era assai
carico di nastri, nastrini e fiori. E un giovane con bastoncello
s'avvicinava in fretta, la sinistra come schiacciata sul petto. Andavano e
venivano uomini che fumando soffiavano nuvolette oblunghe e dritte.
Tre signori – due tenevano i soprabiti leggeri ripiegati sull'avambraccio
– tendevano a muoversi dalla parete dell'edificio fino al margine del
marciapiede, osservavano ciò che vi succedeva, e, continuando a
parlare, ritornavano indietro.
Attraverso gli varchi tra i passanti si vedevano le pietre ben commesse
del selciato, su cui carrozze dalle ruote alte e sottili erano tirate da
cavalli con il collo teso. La gente che sedeva sui sedili imbottiti
guardava in silenzio chi andava a piedi, i negozi, i balconi e il cielo.
Dovendo una carrozza sorpassarne un'altra i cavalli si sforzarono
accostandosi, i loro finimenti ballarono, dettero strappi contro il timone,
la carrozza corse oscillando fin quando non ebbe completato il
sorpasso ellittico dell'altra carrozza, e i cavalli si separarono di nuovo
l'un dall'altro, ravvicinate solo le strette teste impassibili.
Alcune persone si fecero rapidamente avanti sul portone dell'edificio,
restarono sopra il mosaico, all'asciutto, e si girarono attorno con
lentezza guardando la pioggia che cadeva strozzata in quella stretta
viuzza.
Raban si sentiva stanco. Aveva labbra pallide come il rosso scolorito
della sua larga cravatta a disegni moreschi. La signora che si trovava al
di là del vano della porta ora guardava verso di lui con indifferenza, o
forse guardava solo la pioggia che cadeva davanti a lui, o i manifesti
commerciali che erano fissati, al di sopra dei capelli di lui, sulla porta.
Raban la credette meravigliata. “Ora”, pensò, “se io potessi farle un
resoconto, non sarebbe stupita. Si lavora in ufficio con tal foga che poi
si è perfino troppo stanchi per godersi le ferie. Tuttavia, con tutto che si
lavora, ancora non si arriva ad aver alcun diritto di esser trattati per
bene da tutti, anzi, a tutti si è estranei. Fintanto poi che tu dici 'si' invece
che 'io' passi, e si può raccontarla, questa storia, ma non appena tu
ammetti che in questione sei tu stesso, allora ti trafiggono, e tu
spaventato trasecoli”.
Piegando le ginocchia mise giù la valigia foderata di stoffa. L'acqua
piovana intanto scorreva sui lati della carreggiata a fiotti allargantisi
fino alle fognature.
“Se però io distinguo tra 'si' e 'io' come posso poi lamentarmi degli
altri? Probabilmente loro non hanno torto, ma io sono troppo stanco per
capire tutto quanto. Sono perfino troppo stanco per far la strada verso
la stazione senza sforzo, eppure è breve. Perché dunque non resto in
città durante queste brevi ferie, per rimettermi? Sono davvero
irrazionale. Questo viaggio mi nuocerà, lo so. La mia camera non sarà
abbastanza confortevole, in provincia non può essere che così. Siamo
appena alla prima metà di giugno, l'aria di campagna spesso è ancora
parecchio fredda. Certamente sono vestito in modo appropriato, ma
dovrò accompagnarmi con gente che la sera tardi va a passeggio. Ci
sono laghetti, si andrà a camminare lungo le rive. E io certo prenderò
freddo. In compenso mi segnalerò poco nelle conversazioni. Non saprò
mettere a confronto uno di quei laghetti con altri laghetti lontani, infatti
non ho mai viaggiato né saprò, parlando della luna, provar beatitudine,
né saprò salire entusiasta su mucchi di ruderi, sono troppo vecchio per
non venir deriso”.
Raggiunse una solitaria porta urbana dalla volta tonda che, in cima alla
ripida viuzza, portava in una piazzetta circondata da botteghe già
illuminate. Nel centro della piazza, oltre la luce un po' attenuata, si
trovava la bassa statua d'un uomo seduto, cogitante. Davanti alle luci le
persone si muovevano come fossero smilze saracinesche e, poiché le
pozzanghere ampliavano in larghezza e profondità il riflesso, l'aspetto
della piazza mutava di continuo.
Raban avanzò alquanto nella piazza, tuttavia schivando con un guizzo la
carrozza che spuntava saltò dall'isolata pietra asciutta all'altra asciutta
reggendo in alto l'ombrello aperto per vedere ogni cosa all'intorno. Fino
a fermarsi vicino all'asta d'una lanterna – una fermata del tram elettrico
– piazzata in un basamento cubico di mattoni.
Eppure in provincia mi si attende. Già si fan supposizioni? In una
settimana, da quando lei è in provincia, non le ho scritto, solo stamani
presto. Dopotutto mi s'immagina diverso. Si crede forse che mi precipiti
a rivolgere la parola a uno, eppure non è mia abitudine, o che io
l'abbracci, all'arrivo, cosa anche questa che non faccio volentieri. Se
cercherò di rabbonirli li farò irritare. Se davvero potessi farli irritare
tentando di rabbonirli!
In quel momento venne avanti una carrozza aperta, non veloce, dietro le
cui due lampade accese c'erano due signore sedute su scuri sedili di
pelle. Una era appoggiata indietro e aveva il volto nascosto da un velo e
dall'ombra del cappello. Ma il corpo dell'altra era eretto; il cappello era
piccolo, penne scure lo circondavano. Tutti potevano vederla. Il suo
labbro inferiore era un po' ritirato nella bocca.
Mentre la carrozza era davanti a Raban un palo coprì la vista dell'altro
cavallo, poi un cocchiere – indossava un gran cappello a cilindro – su
un'insolitamente alta cassetta apparve davanti alle signore – ch'erano
già molto lontane – quindi la carrozza girò l'angolo d'una piccola casa,
cosa che parve come strana, e sparì alla vista.
Gli guardò dietro a testa china, Raban, appoggiandosi il manico
dell'ombrello alla spalla per vedere meglio. S'era ficcato il pollice destro
in bocca e ci sfregava i denti sopra. La valigia gli stava vicino per terra
posata su un lato.
Carrozze andavano da strada a strada sulla piazza, il tronco dei cavalli
volava a balzi equilibrati, come lanciato, la loro testa faceva sì sì
segnalando il brio e però anche lo sforzo del movimento.
A tutti e tre gli angoli delle strade che sfociavano nella piazza stavano
sul marciapiede molti sfaccendati che picchiettavano coi loro
bastoncelli il pavimento. Tra i loro gruppi v'erano banchi presso cui
ragazze mescevano limonata, orologi stradali su pali sottili, uomini con
sul petto e le spalle grandi cartelli che a caratteri multicolori
segnalavano intrattenimenti, poi facchini su sedie giallognole con <...>
della sera
(manca un foglio)
“Com'è curva”, pensò Raban guardando ora la foto, “mai una volta che
stia diritta, e magari ce l'ha tonda, la schiena. Dovrò porci molta
attenzione. E la bocca così larga, e il labbro inferiore sporgente senza
dubbio in fuori, qui nella foto; ma certo, ora me ne ricordo. E l'abito.
Non ci capisco niente, è naturale, di abiti, ma queste maniche strette
son davvero brutte, fanno l'effetto d'una fasciatura. E il cappello con la
tesa ch'è sollevata in ogni punto, rispetto al viso, da una nuova piega
all'insù. Gli occhi però li ha belli, marroni se non sbaglio. Lo dicono
tutti, che ha gli occhi belli”.
(manca un foglio)
1
Cavalcata
2
Passeggiata
3
Il grassone.
a
Discorso al paesaggio
Poi si mise seduto vicino a me, che timidamente gli avevo fatto posto
con un cenno della testa. Non mi sfuggì d’altra parte che anche lui fosse
un poco imbarazzato, nel sedersi; cercando di restare a una certa
distanza da me, faticosamente disse:
Che razza di giornate, che passo!
Ieri sera mi trovavo a un ricevimento. Sotto la luce di una lampada a
gas, stavo per inchinarmi davanti a una ragazza dicendo: Ci avviamo
verso l’inverno, davvero me ne rallegro, queste le mie parole, ma nel
piegarmi mi sono mio malgrado accorto di una disarticolazione del mio
femore destro. Anche della rotula, un po’ fuori posto.
Così mi misi seduto e, dato che miro sempre alla lungimiranza nelle
cose che dico, aggiunsi: L’inverno, infatti, è molto più agevole; ci si
può comportare con più leggerezza, non serve faticare con le parole.
Spero di aver ragione su questa faccenda, nevvero, cara signorina?
Intanto la gamba destra mi dava molto fastidio. Sembrava rotta, sul
principio, ma un po’ alla volta, muovendola e premendoci sopra a mo' di
prova, quasi la recuperai.
A quel punto udii la ragazza, che compassionevolmente si era seduta
anche lei, dire a bassa voce: No, non mi fate impressione per niente ...
Guardate, dissi tra il lieto e l’impaziente, che neanche cinque minuti
dovete perderci a chiacchierare con me. Su, ve ne prego, mangiate
mentre parliamo.
E allungai un braccio, presi un grappolo d’uva che fuoriusciva pesante
da un piatto sostenuto da un bronzeo fanciullo alato, lo tenni un attimo
in aria e poi lo appoggiai su un piattino bordato d’azzurro che porsi
forse non senza grazia alla ragazza.
Non mi fate impressione per niente, disse lei, tutto quel che dite è
noioso e incomprensibile, e neanche vero. In altri termini credo, signor
mio, - perché mi chiamate sempre cara signorina? – credo che voi non
vi occupiate della verità solo perché essa è troppo faticosa.
Dio, se non mi fece piacere! Sì, signorina, signorina, quasi gridai, come
avete ragione! Cara signorina, lo capite, è una gioia da restare a bocca
aperta esser così capiti senza averci puntato.
La verità vi costa troppa fatica, signor mio, e infatti che aspetto avete!
Siete ritagliato, per quanto siete lungo, nella carta velina, carta velina
gialla, una bella silhouette, e se camminate si deve sentire il fruscio. Per
cui non è neanche giusto prendersela per come vi comportate o per le
vostre opinioni, infatti voi siete costretto a piegarvi alla corrente d’aria
che c’è nella stanza.
Ecco cosa non capisco, risposi. Ci son bene delle persone qui nella
stanza. Allungano un braccio sullo schienale della sedia, o si
appoggiano al pianoforte, o si portano lentamente alla bocca un
bicchiere, oppure con circospezione vanno di là, e, dopo che nel buio si
sono fatti male alla spalla destra urtando su un armadio, pensano,
respirando davanti alla finestra aperta: lì c’è Venere, la stella della sera.
E invece io sono qui in compagnia. Se questo ha una coerenza, io non
la capisco. Ma non so neppure se ha coerenza. E vedete, cara signorina,
tra tutte queste persone che in conformità alla loro mancanza di
chiarezza si comportano in modo così incerto e ridicolo, solo io sembro
degno di sentirmi dire cose chiare e tonde su di me. Mi si sfotte con
gran soddisfazione, ma in modo che resti in piedi un qualcosa, come
avviene dei muri maestri di una casa che dentro è bruciata. La vista
risulta appena occlusa, di giorno si vedono attraverso le grandi aperture
delle finestre le nuvole nel cielo, e di notte le stelle. Tuttavia le nuvole
sono ritagliate da pietre grige, e le stelle danno forma a immagini
innaturali. Signorina, se vi confidassi, come ringraziamento, che tutte le
persone che desiderano vivere avranno prima o poi il mio aspetto di
carta velina gialla, ritagliata in una bella silhouette – come notavate – e
nel camminare le si sentiranno frusciare? Non saranno diverse da ora,
ma sembreranno fatte di carta velina. Anche voi, cara...
Mi accorsi a quel punto che la ragazza non sedeva più vicino a me.
Doveva essere già andata via dopo le ultime parole che aveva detto,
infatti ora si trovava lontano da me a una finestra, circondata da tre
giovani dagli alti colletti bianchi che ridendo parlavano.
Lieto, bevvi un bicchiere di vino e mi avvicinai al pianista, che tutto solo
stava suonando un pezzo malinconico. Per non allarmarlo, cautamente
mi chinai e a bassa voce, internamente alla melodia, gli dissi
all’orecchio:
Abbiate la bontà, stimato signore, di far suonare me, adesso, perché sto
per avere un buon momento.
Dato che non mi sentiva, rimasi un po’ in imbarazzo, poi tuttavia passai,
reprimendo la mia timidezza, da ognuno degli invitati, come per caso
dicendo: Oggi suonerò il piano. Sì.
Sembrava che tutti sapessero che non ne ero capace, ma risero con
benevolenza della simpatica interruzione dei loro conversari. Si fecero
molto attenti però quando a voce molto alta dissi al pianista: Abbiate la
bontà, stimato signore, di far suonare me, adesso, perché sto per avere
un buon momento. Un trionfo.
Certamente il pianista sentì, ma non lasciò libero il suo sgabello
marrone né mi sembrò che avesse compreso. Sospirò, e con le sue
lunghe dita si coprì il viso.
Stavo già sentendo una certa compassione e volevo incoraggiarlo a
suonare ancora, quando la padrona di casa insieme ad altri invitati si
avvicinò.
E’ comico, dissero, e risero forte, come se io volessi far qualcosa
d’innaturale.
Anche la ragazza venne, mi guardò sprezzante e disse: Prego, gentile
signora, lasciatelo suonare. Forse vuol farlo per scherzo. Bisogna dargli
spago. Per favore, gentile signora.
Tutti, anch’io, credendo che ciò fosse ironico, si divertivano. Solo il
pianista era ammutolito. A testa china sfiorava con l’indice della sinistra
il legno del suo sgabello, come se disegnasse nella sabbia. Io tremavo,
le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. Inoltre non mi riusciva più di
parlare in modo distinguibile, tutto il mio viso sembrava stesse per
piangere. Dovevo scegliere talmente le parole da dire, che il pensiero
che io stessi per piangere dové sembrare ridicolo agli astanti. Gentile
signora, dissi, ora devo suonare perché … ma avevo dimenticato la
motivazione, e d’improvviso mi sedetti al piano. Allora di nuovo seppi
cosa fare. Il pianista con tatto si alzò dallo sgabello, dato che io gli
stavo chiudendo la strada. Spegnete la luce, prego, perché posso
suonare solo al buio. Mi stavo rinfrancando.
Allora due signori afferrarono lo sgabello e mi trasportarono molto
distante rispetto al piano, indietro, verso il tavolo dei rinfreschi,
fischiando una canzone e dondolandomi un poco.
Tutti sembrarono approvare, la signorina disse: Vedete, gentile signora,
ha suonato proprio bene. Lo sapevo. E voi che eravate tanto allarmata!
Compresi, e ringraziai con un elegante inchino.
Mi fu versata una limonata e una signora dalle labbra rosse mi tenne il
bicchiere perché bevessi. La padrona di casa mi porse una meringa su
un piatto d’argento e una ragazza tutta in bianco me la infilò in bocca.
Una formosa signorina dall’abbondante chioma bionda resse sopra di
me un grappolo d’uva, avevo solo da spiccarne i chicchi, mentre lei mi
guardava gli occhi rovesciati indietro.
Tanto bene mi trattavano tutti, che io mi meravigliai del fatto che di
comune accordo mi trattenessero quando di nuovo volli andare al
piano.
Ora però basta, disse il padrone di casa, che fin qui non avevo notato.
Uscì e rientro con un enorme cappello a cilindro e un soprabito a
fiorami color rame scuro. Ecco la vostre cose.
Non si trattava certo delle mie cose, ma non volevo causargli di nuovo
la fatica di andare a vedere. Lui stesso mi mise il soprabito che mi
andava stretto, aderendo al mio corpo sottile. Una signora dal volto
indulgente mi abbottonò la giacca, abbassandosi poco a poco, in tutta
la sua lunghezza.
Dunque, auguri, disse la padrona di casa, tornate presto. Vi vediamo
sempre volentieri, lo sapete. L’intera compagnia s’inchinò come per
necessità. Anch’io ci provai, ma il soprabito era troppo stretto. Allora
presi il cappello ed attraversai la porta in modo davvero troppo goffo.
A pochi passi fuori dal portone della casa il cielo stellato, la luna e la
sua gran volta, la piazza circostante con il Municipio, la statua di Maria e
la chiesa, mi colsero di sorpresa.
Con calma mi staccai dall’ombra verso la luce della luna, abbottonai il
soprabito e ripresi calore; quindi misi a tacere il brusio notturno
levando in alto le mani, e iniziai a riflettere: Che cosa fate, voi, come se
foste reali? Volete farmi credere che sono irreale io, comicamente in
piedi allo scoperto su questo selciato. Ma è passato molto tempo da
quando eravate reali, tu, cielo, tu piazza, mai siete stati reali.
E’ pur vero che mi siete superiori, ma soltanto dopo che vi ho lasciato in
pace.
Grazie a Dio, luna, tu non sei più luna, tuttavia forse è privo di
accuratezza da parte mia che io ti chiami ancora luna. Perché non sei
più tanto baldanzosa, se ti chiamo “derelitta lanterna di carta di strano
colore”? E perché tu quasi ti tiri indietro, se dico “statua di Maria” e non
riconosco più la tua maestà, statua di Maria, se ti chiamo “luna giallo
lucente”? Pare davvero che voi non funzioniate più, se si riflette su di
voi; perdete in coraggio e in salute.
Dio come deve giovarvi imparare a riflettere da un ubriaco!
Perché tutto questo silenzio? Credo che non tiri più vento. E i
baracconi, spesso in movimento su rotelle nella piazza, sono tutti fermi
– Silenzio – silenziosi – non si vede più la sottile striscia nera che li
stacca dal suolo.
Mi misi a correre. Girai di corsa senza intralci tre volte intorno alla
grande piazza e non incontrai nessun ubriaco, corsi senza interrompere
la mia velocità, e senza sentire lo sforzo, verso via Carlo. La mia ombra
mi correva vicino, spesso più piccola di me, sulla parete, come se
facesse un percorso incassato tra il muro e il piano stradale.
Giunto alla sede dei vigili del fuoco sentii il rumore del campanello, e
quando svoltai sul posto vidi un ubriaco appoggiato al graticcio del
pozzo, le braccia in posizione orizzontale, i piedi piantati in terra a
distanza, con gli zoccoli.
Prima mi fermai per calmare l’affanno, poi mi avvicinai all’ubriaco, mi
levai il cilindro dalla testa e mi presentai:
Buonasera, nobiluomo, io ho ventitré anni, ma ancora non possiedo
alcun titolo. Voi certamente, possessore di un nome rimarchevole, di
sicuro melodioso, venite dalla grande Parigi. L’odore tutto artificiale
dell'insidiosa corte di Francia vi circonda.
Certamente i vostri occhi truccati hanno visto quelle gran dame che
stanno sull’alta e luminosa terrazza e ironiche ruotano i loro vitini
mentre il termine del loro variopinto strascico giace, dispiegato lungo la
scalinata, nella ghiaia del giardino sottostante. Su lunghi pali disposti
dappertutto salgono servi che indossano frac grigi e calzoni bianchi dal
taglio sfacciato, sui pali attorcigliano le gambe, il busto all’indietro e
proteso di lato, per sollevare da terra, con grosse corde, enormi teli di
lino grigio, secondo la voglia delle gran dame di avere un mattino
nebbioso - non è vero?
L’ubriaco fece un rutto, io quasi spaventato dissi: Davvero, signore, voi
venite dalla nostra Parigi, dalla turbolenta Parigi, da quell’esilarante
calamità?
Come lui fece un nuovo rutto, imbarazzato dissi: Lo so, mi è toccato un
grande onore.
E mi abbottonai con dita svelte il soprabito, quindi fervido e timoroso
parlai:
So che non mi ritenete degno di risposta, ma dovrei trascorrere una vita
intera di pianto, se oggi non ve lo domandassi: ve ne prego, signore che
siete così elegante, è vero quel che mi è stato detto? Che a Parigi ci
sono persone che esistono solo quando hanno decorazioni sull’abito,
che ci sono case che dispongono di autentici portali? E' vero che nei
giorni d’estate il cielo in fuga sopra la città è azzurro, tuttavia abbellito
da una folla di nuvolette a forma di cuore? E che c’è un panottico assai
frequentato dove si trovano comuni alberi che portano, su tavolette
fissatevi, il nome dei più celebri eroi, criminali e innamorati? E poi
questa, questa notizia ovviamente falsa: non è vero che le strade di
Parigi si ramificano all’improvviso; che sono piene di agitazione, non è
vero? Mai tutto è in ordine, e come potrebbe? Se capita un incidente la
gente si raduna arrivando dalle strade vicine con quel passo tipico della
grande città, che sfiora appena il lastrico; tutti sono incuriositi, ma
temono anche la delusione; respirando in fretta allungano le loro
testoline. Ma se si sfiorano l’un con l’altro s’inchinano profondamente e
chiedono scusa: Molto spiacente – è capitato senza intenzione – la
calca è grande, perdonate, ve ne prego – sono stato davvero goffo – lo
ammetto. Mi chiamo – mi chiamo Jerome Faroche, faccio il rivenditore
di spezie in Rue de Cabotin – permettete che vi inviti per domani a
pranzo – anche mia moglie ne sarebbe molto lieta. Parlano in questo
modo, intanto la via è assordante e il fumo dei camini cala tra le case.
Certamente è così. E potrebbe essere che talvolta in un animato
boulevard di un quartiere distinto si fermino due carrozze. I servitori
aprono subito le portiere. Otto nobili cani lupo siberiani saltano giù e a
balzi corrono sulla carreggiata abbaiando. Si dice pure che ci si
travesta, i giovani parigini sono dei gagà.
L’ubriaco aveva gli occhi socchiusi. Quando tacqui s’infilò tutte e due le
mani in bocca e spinse la mascella in giù. Il suo abito era tutto sporco.
Forse lo avevano cacciato da una taverna e non aveva ancora
riacquistato lucidità.
Era credo quella breve pausa di calma totale tra la notte e il giorno,
quando il capo inaspettatamente ci oscilla, quando tutto
inavvertitamente tace, e, poiché non lo prendiamo in considerazione,
scompare. Mentre restiamo soli con il busto piegato, ci guardiamo
intorno, ma senza vedere più niente, e nemmeno sentiamo più alcuna
resistenza dell’aria, ma intimamente ci ricordiamo che a una certa
distanza da noi si trovano case dotate di tetti e, meno male, di comignoli
spigolosi dai quali l’oscurità fluisce nelle case, nelle varie stanze,
attraverso le soffitte. Ed è una fortuna che domani sarà un giorno in cui,
è incredibile davvero, si potrà rivedere tutto.
L’ubriaco alzò tanto le sopracciglia che tra quelle e gli occhi sorse una
lucentezza: E’ così, cioè – cioè, ho sonno, perciò andrò a dormire – cioè,
ho un cognato in via Venceslao – vado lì, perché ci abito, perché ci ho il
letto – allora io vado – cioè, solo che non lo so come si chiama e dove
abita – mi sembra di averlo dimenticato – ma non fa niente, perché non
so neanche, davvero, se un cognato ce l’ho – cioè, ora vado – credete
che lo troverò?
Senza pensarci, dissi: Certo. Ma voi venite dall’estero e per l’appunto la
vostra servitù non è con voi. Lasciate che vi porti io.
Non rispose. Gli offrii il braccio, perché si reggesse.
d
Seguito del colloquio tra il grassone e il baciapile.
III
III
Dormendo sognai con tutto il mio essere, agitandomi a tal punto, tra
angoscia e pena, che il sogno principale non lo tollerò, ma non fu
capace neppure di svegliarmi, infatti continuai a dormire, poiché il
mondo circostante non c’era più. Così attraversai quel sogno
profondamente lacerandomi e feci ritorno, come avessi trovato scampo
– sfuggito sia al sonno sia al sogno – nel mio villaggio natìo. Sentivo
avanzare lungo la cancellata del giardino i carri, a tratti li vedevo
attraverso gli scarsi pertugi aperti nel fogliame. Come scricchiolava,
nel gran caldo dell’estate, il legno dei raggi e dei timoni! Lavoratori
venivano dai campi ridendo senza ritegno.
Sedevo sulla nostra piccola altalena, mi riposavo tra gli alberi nel
giardino dei miei genitori.
Davanti alla cancellata non finivano di passare in un baleno fanciulli di
corsa; carri di grano, con sui covoni uomini e donne, oscuravano dietro
e intorno a sé le aiole fiorite; verso sera vedevo un signore con un
bastone passeggiare lento, e alcune ragazze che a braccetto gli
venivano incontro salutavano e si spostavano sull’erba di lato.
Uccelli spiccavano il volo come schizzando, li seguivo con lo sguardo,
vedevo come salivano nel tempo d’un respiro fino a dove non pensavo
che arrivassero, intanto avevo l’impressione di cadere e cominciavo a
dondolarmi un poco tenendomi saldo, a causa della mia debolezza, alle
corde. Presto dondolavo con più energia dell’aria fresca che spirava, e
gli uccelli in volo mi sembravano stelle tremanti.
Mi facevano cenare al lume di candela. Spesso tenevo entrambe le
braccia appoggiate al piano del tavolo e, già stanco, sbocconcellavo il
pane imburrato. Spalancate con forza, le cortine si gonfiavano nel vento
caldo e a tratti qualcuno di passaggio le teneva ferme con le mani da
fuori, quando desiderava vedermi meglio e parlare con me. Il più delle
volte la candela si consumava presto e nel suo oscuro fumo vagavano
ancora per un poco certe adunate bizzarrie. Dalla finestra qualcuno
m’intratteneva, così lo contemplavo come si trovasse sulla montagna o
davvero per aria, e neanche a lui premeva molto una risposta.
Spuntava quindi qualcuno al davanzale e annunciava che gli altri si
trovavano già davanti alla casa, così mi alzavo, tuttavia sospirando.
No, perché sospiri così? Ma cos’è successo? E’ un tipo speciale, mai
capace di smetterla con l’infelicità? Sapremo mai sollevarcene? E’
davvero tutto perduto?
Nulla era perduto. Correvamo davanti alla casa. Grazie a Dio, finalmente
ci siete! – Tu vieni sempre in ritardo! – Io? – Sì, proprio tu, resta a casa,
se non vuoi venire con noi – Siete spietati! – Che cosa? Spietati? Ma
come parli?
Non avevamo altro che la serata per la testa. Non c’era il giorno – e
neanche la notte. Presto i bottoni dei nostri gilè, come denti, si
sfregavano reciprocamente nel correre, presto correvamo senza mai
raggiungerci, le bocche brucianti, simili a belve tropicali. Come se
avessimo la corazza, da guerrieri antichi, scalpitando e a gran salti, ci
buttavamo in discesa per la corta stradina e, con lo slancio nelle gambe,
di nuovo in salita sulla strada maestra. Alcuni ne uscivano, bastava che
sparissero sullo sfondo scuro della scarpata per trasformarsi già in
estranei, e da lì scrutavano in basso.
Venite giù, forza! – Venite prima voi quassù! – Così poi ci buttate di
sotto, non ci pensiamo nemmeno, non siamo mica scemi. – Non ne
avete il coraggio, ecco cos’è. Venite, venite e basta! – Ma davvero? Voi?
Ci farete davvero volar giù? Pensate di esserne capaci?
Partivamo all’assalto, loro ci spintonavano e noi finivamo nell’erba
cadendovi volentieri. Tutta l’erba era uniformemente calda, non ne
sentivamo il calore, non ne sentivamo il freddo, eravamo soltanto
stanchi.
Se ci si girava sul fianco destro, e s’infilava la mano sotto l’orecchio,
veniva voglia di addormentarsi sul posto. C’era certo la voglia di balzare
su ancora fieramente, ma anche l’altra, di sprofondare. Si continuava
poi a saltare nell’aria, braccia in avanti, gambe indietro, e di nuovo a
cadere ancora più in basso. Né si aveva intenzione di smettere.
Non appena però si pensava a come ci saremmo, al limite estremo,
distesi nel fondo proprio a dormire in stato di particolare impotenza,
giacevamo sulla schiena come fossimo malati, sul punto di piangere. Si
ammiccava se, qualche volta, un giovane, le braccia piegate sui fianchi,
spuntava da sopra, con le sue suole scure, sopra di noi.
Si vedeva già ad una certa altezza la luna alla cui luce avanzava una
carrozza postale. Un vento delicato si alzava ovunque, lo si sentiva
anche giù in basso, e la foresta vicina cominciava a rumoreggiava.
Restare lì da soli non piaceva più tanto.
Dove siete? – Venite qui! – Tutti insieme! – Che cosa c’è sotto, basta
sciocchezze! – Non sapete che c’è già la posta? – Ma no! Già ? – Certo,
è passata mentre dormivi. – Ho dormito? Solo un pochino! – Taci, che ti
teniamo d’occhio. – Ma ti prego.- Venite!.
Si correva meno distanziati, alcuni tenendosi per la mano, poiché
andavamo in discesa non si poteva tenere la testa abbastanza alta.
Qualcuno lanciava un grido di guerra indiano, le gambe si mettevano
più che mai al galoppo, dai balzi che facevamo il vento sui fianchi si
rinforzava. Niente avrebbe potuto fermarci; eravamo tanto impegnati
nella gara che nel sorpassarci incrociavamo le braccia e potevamo
guardarci senza fatica.
Arrivati al ponte sul torrente ci fermavamo; quelli che erano corsi avanti
tornavano indietro. L’acqua sottostante urtava sulle pietre e le radici,
come se non fosse già tarda sera. Non ve n’era ragione, infatti nessuno
si sporgeva dal parapetto.
Oltre la boscaglia in lontananza transitava un convoglio ferroviario, tutti
gli scompartimenti illuminati, certamente i finestrini aperti. Uno di noi
cominciava a cantare una canzonetta alla moda, ma tutti ne avevamo
voglia. Cantavamo molto più svelti al passaggio del treno, facevamo
oscillare le braccia, perché le voci non bastavano, creavamo
un’intensità vocale in cui stavamo bene. Se la nostra voce si confonde
sotto un’altra, è come esser presi all’amo.
Cantavamo dunque dietro la foresta nelle orecchie dei viaggiatori
lontani. Gli adulti nel villaggio erano ancora svegli, le madri
preparavano i letti per la notte.
Era già il momento. Baciavo quello che mi era vicino, porgevo la mano
soltanto ai tre meno distanti, cominciavo a fare il percorso di ritorno
correndo, nessuno mi chiamava. Al primo incrocio, là dove non
potevano più vedermi, voltavo e correvo di nuovo sul viottolo verso la
foresta. La mia meta era la città a sud, di cui nel nostro villaggio si
diceva:
Là sì che c’è gente! Pensate, non dormono!
E perché non dormono?
Perché non si stancano.
E perché non si stancano?
Perché sono matti.
I matti non si stancano?
Come potrebbero stancarsi, i matti!
IV