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I SETTE MESSAGGERI

I sette messaggeri è il racconto con cui si apre la raccolta La boutique del mistero di Dino Buzzati. La struttura è
costituita da una situazione iniziale (il presente), l'esordio della vicenda viene recuperato con il flash-back, c'è uno
svolgimento (il viaggio) e la ricomposizione provvisoria di un equilibrio (riflessione del protagonista sul futuro)
destinato probabilmente ad essere alterato. Il protagonista, figlio minore di un re, lascia poco più che
trentenne la sua reggia per raggiungere il confine del regno di suo padre. Il viaggio si rivela tutt'altro
che rapido e il raggiungimento dei confini gradualmente si profila come un'utopia. Gli eventi sono
presentati in ordine parzialmente sfasato rispetto alla fabula; l'intreccio, infatti, si apre con una
riflessione sul presente per lasciare poi posto ad un consistente flash-back che recupera l'antefatto ("Mi
misi in viaggio che avevo più di trent'anni…il messo partiva nella direzione opposta, recando alla città le lettere
che da parecchio tempo io avevo apprestate"), per proseguire, poi, la descrizione del presente ("Ma otto anni
e mezzo sono trascorsi. Stasera…") con anticipazioni sul futuro mediante prolessi ("Ripartirà per l'ultima
volta…"; "entrerà nella mia tenda…si fermerà sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati
ai fianchi con le torce, morto."). Il figlio del re svolge la funzione di narratore dal momento che espone la sua
impresa in prima persona; si presenta direttamente fornendo come unico dato la sua età alla partenza ("Ho
cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati"); la sua condizione socio-economica
("Partito ad esplorare il regno di mio padre…") di aristocratico gli consente di realizzare un ambizioso progetto
avvalendosi di strumentazione tecnica ("La bussola del mio geografo…") e di una équipe di valenti collaboratori
sebbene pochi dei suoi uomini fedeli avessero acconsentito a seguirlo. Attraverso la narrazione delle sue traversie
e delle scelte effettuate si intuiscono i tratti salienti della sua psicologia. Nel corso degli anni, però, la psicologia si
evolve: a sicurezza in sé, baldanza, spensieratezza ("Sebbene spensierato - ben più di quanto sia ora!"), fiducia
nella propria missione si sostituiscono esitazione, preoccupazione, sfiducia. A fianco a lui i sette messaggeri che
danno il titolo al racconto e che sarebbe riduttivo definire personaggi secondari. Negli incarichi loro affidati, si
configurano quali testimoni concreti del tempo che inesorabilmente scorre. E' il protagonista-narratore a
presentarli selezionando le informazioni più interessanti dal suo punto di vista ed evidenziandone, in particolare, i
nomi accuratamente scelti da lui stesso con le iniziali in ordine alfabetico per facilitarne la distinzione e lodandone
"tenacia e devozione" difficilmente ricompensabili. L'unico messo su cui si sofferma è Domenico; tornato la sera
stessa in cui si colloca la narrazione, "riusciva ancora a sorridere benché stravolto dalla fatica", dopo sette anni
consegna al suo signore "quel pacco di buste che finora non avevo avuto voglia di aprire". Servo fedele e
ubbidiente si reca a riposare per ripartire subito l'indomani mattina, mosso da tanta abnegazione da meritarsi
l'appellativo di "buon messaggero". Con il suo arrivo, Domenico costringe il protagonista ad una serie di
supposizioni: a conti fatti, nessun altro messaggero partito dopo di lui farebbe più in tempo a raggiungere il
principe; Domenico costituisce dunque l'ultimo legame con la patria lontana, con la famiglia lì lasciata
consegnando le ultime parole che precedono il silenzio definitivo. Dopo Domenico, infatti, il protagonista decide
che i suoi cavalieri muteranno il loro ruolo: "Per questo io intendo che Ettore e gli altri messi dopo di lui, quando
mi avranno nuovamente raggiunto, non riprendano più la via della capitale ma partano innanzi a precedermi,
affinché io possa sapere in antecedenza ciò che mi attende". Anche l'ansia conoscitiva del protagonista a questo
punto è cambiata: il principe non è più animato dal desiderio - ormai inappagabile - di sapere ciò che è già
accaduto in una dimensione spazio-temporale sempre più lontana, piuttosto dalla curiositas verso l'ignoto che lo
precede, lo aspetta e gli spetta. La vicenda narrata è collocata in un'epoca indeterminata; tuttavia alcuni
indicatori epocali portano ad escludere l'età contemporanea poiché gli spostamenti geografici avvengono a cavallo
("cavalieri", "ottimo destriero", "cavalcature"), la comunicazione a distanza è di carattere epistolare con lettere
recapitate da messaggeri personali ("mi preoccupai di poter comunicare, durante il viaggio, con i miei cari, e fra i
cavalieri della scorta scelsi i migliori sette, che mi servissero da messaggeri"). La durata narrativa è di gran
lunga inferiore alla durata reale e la narrazione si avvale per lo più di sommari contrassegnati da precise e
ricorrenti marche temporali che danno, come nelle cronache medievali di viaggi in terre remote, la cadenza
cronachistica al ritmo compositivo: di giorno in giorno, più di otto anni esattamente otto anni, sei mesi e quindici
giorni, in poche settimane, già più di trenta anni, tardi (p. 3); durante il viaggio, con l'andar del tempo, sera del
secondo giorno, fino all'ottava sera di viaggio, decima sera, notte, nel medesimo tempo, in una giornata, terza
sera di viaggio, quindicesima, quarta, ventesima, i giorni impiegati (p. 4); dopo cinquanta giorni di cammino,
ogni cinque giorni, intere settimane, trascorsi che furono sei mesi, quattro mesi, erano già passati quattro anni
dalla mia partenza, ben venti mesi, il mattino successivo, dopo una sola notte (p. 5); ma otto anni e mezzo sono
trascorsi, da quasi sette anni, per tutto questo periodo lunghissimo, già, domani, fra trentaquattro anni, mai più,
prima, molto prima, nel frattempo, come stasera, un tempo (p. 6); fra un anno e otto mesi, dopo, in antecedenza,
di giorno in giorno, man mano, mai, domattina, notte (p. 7). Il lungo elenco di marcatori temporali rinvenuti nel
testo vuole dimostrarne l'alta frequenza e insistenza, segno e di precisione nell'articolazione dei fatti e della
centralità tematica del tempo. alla fine, in particolare nell'ultima parte, i riferimenti si fanno più generici, vaghi e
indeterminati quasi che lo stesso protagonista, presa consapevolezza dell'inesorabile scorrere del tempo, non
riesca nemmeno più a calcolarlo. Il tempo che scorre sfuggendo al controllo e che nel Novecento acquista una
consistenza individuale costituisce uno dei temi principali nell'opera letteraria di Buzzati, basti pensare alla
centralità della dimensione temporale ne Il deserto dei Tartari. In Buzzati il tempo è connesso all'attesa di un
evento straordinario e di un significato totalizzante, evento che, tuttavia, non si verifica mai nelle narrazioni e
rimane sospeso nel desiderio del protagonista come appunto in I sette messaggeri o viene definitivamente sottratto
al protagonista come per Giovanni Drogo de Il deserto dei Tartari. Interessante risulta pure una riflessione sulla
dimensione spaziale. Il protagonista si allontana da spazi cittadini e nel suo viaggio si sposta pianure, praterie,
boschi, deserti. A spazi chiusi, quindi,e urbanizzati si contrappongono ambienti aperti e indeterminati. Pur
viaggiando in direzione sud su indicazione della bussola, in realtà domina una sensazione di immobilità o,
meglio, sembra che la spedizione continui a girare su stessa senza procedere effettivamente verso il confine del
regno ("…credendo di procedere verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza
mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe essere il motivo per cui non siamo
ancora giunti all'estrema frontiera"). Gli spostamenti dei messi rispetto al gruppo in cammino avviene sempre in
direzione opposta. L'ambiente non è mai descritto nei dettagli e vengono nominati i tipi di ambienti attraversati
per documentare la cronaca di viaggio; con maggiore dettaglio si fa riferimento alle distanze percorse nei primi
periodi del viaggio soprattutto per confrontare il cammino della spedizione con i tratti percorsi dai messaggeri. Il
lessico per lo più attinto dal linguaggio comune conferisce un tono colloquiale al discorso: linguaggio semplice,
concreto, essenziale e realistico per presentare una vicenda tendente al surreale. La missione che il giovane
decide di compiere sulla soglia dell'età adulta è la ricerca dei confini del regno paterno ("Gli amici, i familiari
stessi, deridevano il mio progetto come inutile dispendio degli anni migliori della vita. Pochi in realtà dei miei
fedeli acconsentirono a partire"). Il progetto che fin da subito è ritenuto assurdo dall'ambiente di corte, negli anni
mette in dubbio il suo stesso fautore ("Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il
regno si estenda senza limite alcuno"). Il finis dei Latini, quel confine che delimita il territorio dominato, la
separazione di ciò che ci appartiene da ciò che compete ad altri sembra ad un certo punto un'utopia nel senso
etimologico di non-luogo. Nel racconto non c'è cioè il rassicurante concetto di confine come limite ultimo del
consentito - le colonne d'Ercole invalicabili pena dolori e morte (si pensi al "folle volo" dell'Ulisse dantesco).
Quella di Buzzati assomiglia ad una frontiera che, modernamente, si sposta, finis terrae non meglio definibile
che l'uomo, per i mezzi di cui dispone, non raggiunge. L'intera esistenza viene spesa nell'esplorazione di un
mondo abitato da uomini che parlano tutti la stessa lingua del protagonista, che gli confermano di essere
suoi sudditi e che gli assicurano esistenza e vicinanza del confine…eppure il confine non appare. Ma forse
che il confine appare con caratteristiche distintive? Forse, ammette il protagonista, lo supererà senza accorgersene:
"non esiste, io sospetto, frontiera, almeno nel senso che noi siamo abituati a pensare. Non ci sono muraglie di
separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il passo. Probabilmente varcherò il limite senza
accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti ignaro." La solitudine dei messaggeri, che dedicano la loro
esistenza a fare la spola tra la capitale e l'accampamento della missione che avanza inesorabilmente, è
paradossalmente finalizzata al mantenimento di un contatto tra i due poli del racconto e al loro ideale
collegamento. Fin da prima della partenza il protagonista avverte quale esigenza primaria la comunicazione. Ma
mentre all'inizio soffre per il distacco dai suoi cari, nel tempo la distanza alleggerisce il peso della lontananza;
invia i messi a brevi intervalli regolari, e poiché le notizie giungono "ormai lontane" e "le curiose lettere ingiallite
dal tempo", l'estraneità del protagonista si fa via via più consistente: "il buon messaggero entrerà nella mia
tenda con le lettere ingiallite dagli anni cariche di assurde notizie di un tempo già sepolto", quasi a dimostrare
l'incomunicabilità di fondo tra esseri umani lontani seppur addirittura uniti da un legame sanguigno. Nonostante la
distanza fisica e psicologica dalla capitale, tuttavia il traffico dei messaggeri procede fino a che il narratore non
prende consapevolezza dell'assurdità del tenace tentativo di rivolgersi alla remota città natale. A parte esitazioni e
congetture sull'esistenza o meno della frontiera, ipotesi variamente formulate dal protagonista (girare su se stessi,
inesistenza del limite, indistinguibilità della frontiera) - egli prosegue il suo cammino senza mai prendere
nemmeno in considerazione l'idea di ritornare a corte, da cui ormai si sente escluso. Al di là della sporadica
sensazione di aver speso "gli anni migliori della vita" in un progetto assurdo, alla fine nota la luce di una nuova
speranza che lo spingerà avanti in un'atmosfera rarefatta e trasformata in una nuova essenza.

I TOPI
Che ne è della famiglia Corio? Cosa sta accadendo nella loro villa? È il narratore a chiederselo quando Giovanni gli
invia una breve e strana lettera, scusandosi perché, dopo anni, per la prima volta non potrà invitarlo per l’estate. Ed è a
quel punto che, ricordando i bei momenti passati, il narratore ricollega una serie di fatti, presagi di un orrore imminente.
Rumori, stridii come di bestia, soffitti che tremano, gatti che scompaiono, l’imbarazzo dei padroni di casa attenti
a nascondere l’evidenza delle cose. Sarà Giorgio, il figlio dei Corio, a svelare il segreto. Si tratta di topi, neri e
grossi come mostri. Ormai sono diventati troppi, per eliminarli bisognerebbe bruciare la casa. Vivono in cantina, oltre
una botola. Milioni e milioni, in un brulichio infernale che nessuno può fermare. Racconto originariamente inserito
in “Crollo della Baliverna” oggi disponibile in “La boutique del mistero”, Mondadori). “Che ne è della famiglia
Corio?” Inizia così questo breve racconto del famoso scrittore e giornalista Dino Buzzati. La storia raccontata in
questo breve scritto è quella della famiglia Corio ed avviene attraverso le parole di un narratore che veniva spesso
invitato a casa loro per le vacanze, fino a vedersi ritirato l’invito per cause sconosciute. Riflettendo sulle ultime
permanenze, l’uomo fa entrare il lettore piano piano in un’ambientazione cupa e soffocante, in cui gli animali (i
topi) sembrano volersi riprendere il proprio spazio. Niente di violento o estremo in questo racconto che però, parola per
parola, immagine dopo immagine, riesce ad insinuare sotto pelle un senso di inquietudine e disagio, come solo una
buona letteratura riesce a fare. (Vedi Pdf su PC)

IL MANTELLO

"Il mantello" è un celebre racconto di Dino Buzzati. Dopo molto tempo, il figlio, Giovanni, partito per il
fronte, torna a casa, accolto dalla gioia incontenibile della madre e dei fratellini. La donna, abbracciato il
giovane, lo esorta invano a togliersi il mantello. Poi offertegli una tazza di caffé fumante ed una fetta di torta,
invita il soldato ad entrare nella sua camera rimessa a nuovo, ma Giovanni esita, si guarda intorno, risponde
a monosillabi alle amorevoli parole della mamma. Infine uno dei fratellini, Pietro, solleva il lembo del tabarro
e vede una ferita sanguinante. L'uomo si congeda e si allontana, tra lo strazio dei familiari, con uno
sconosciuto che l'ha atteso pazientemente durante l'addio. Nell'incipit della novella l'autore intreccia la
narrazione ("sua mamma stava sparecchiando") alla descrizione emotiva ("la speranza cominciava a
morire"), permeata di grigiore. Poi il racconto si dipana per mezzo di dialoghi accorati tra la donna ed il
figlio, dialoghi strozzati in monologhi, intessuti di domande angosciose, di slanci disperati per culminare in
un cruento Spannung. La morte, che è il centro della storia, è evocata sin dal primo nucleo con l'immagine
delle cornacchie, poi nella figura imbacuccata che cammina adagio là fuori, nel cancelletto verde, confine tra
due dimensioni. La bellezza della storia è soprattutto nel commovente ritratto della madre: la sua sofferenza
infinita, pari solo al suo infinito amore, è come sacra, scolpita in un'ambascia indicibile, piena di dignità.
Buzzati, più che narrare l'incontro con la morte, che resta sullo sfondo, simile ad un'ombra silenziosa, ad
un'eco incombente, sceneggia un appuntamento con il destino. L'ultima partenza è già nella partenza di
Giovanni per la guerra; l'addio definitivo è già "nella pena misteriosa ed acuta" che nasce nell'animo della
donna, "in mezzo ai turbini della grandissima gioia".
Un oscuro presentimento attraversa tutto il racconto e si insinua fra gli incanti di un futuro impossibile
("Ormai era tornato, una vita nuova davanti, un'infinità di giorni disponibili senza pensieri, tante belle serate
insieme, una fila inesauribile che si perdeva di là delle montagne, nelle immensità degli anni futuri"),
serpeggia fra le primaverili illusioni ("tra poco cominciava la primavera, si sarebbero sposati in chiesa, una
domenica mattina, tra suono di campane e fiori"). Il presagio divampa “tra bagliori di fuoco e si poteva
pensare che anche lui fosse là in mezzo, disteso immobile a terra, il petto trapassato, tra le sanguinose
rovine”. L’ominosa sensazione si materializza nella scena conclusiva, di sapore quasi gotico, “con i due cavalli
che partirono al galoppo, sotto il cielo grigio, non già verso il paese, no, ma attraverso le praterie, su verso il
nord, in direzione delle montagne. “ Così all’entusiasmo della madre fa da contrappunto la mestizia ed il
pallore del figlio, ritrovato per un istante e per sempre perduto. Nei gesti pesanti e rassegnati del giovane,
nella sua voce opaca, nella luce spenta che filtra dalle imposte è scritto quel che deve accadere. Se il libero
arbitrio è la consolazione che può accompagnarci nel viaggio della vita, pare che il momento finale sia
deciso ab aeterno. La fine è incisa sulla porta spalancata verso lo spazio, doloroso e mirabile, dell’esistenza. I
temi sono: quello dell’ineluttabilità della vita, lo scorrere del tempo che è nostra realtà; il tema dell’attesa,
come incessante fluire del tempo e il tema del viaggio. I nomi del protagonista e della mamma non vengono
dati come se Buzzati volesse rappresentare l’universalità delle mamme e dei figli in questo caso. I nomi dei
fratelli sono presenti e loro potrebbero rappresentare l’innoncenza. Il mese in cui tutto ciò avviene è Marzo, il
mese della primavera, ossia il mese della rinascita. In questo caso è visto come il presagio di una fine, in
quanto il giovane muore. La quotidianità è una caratteristica dei racconti fantastici.Buzzati, specifica la
direzione dei cavalli perchè vuole rafforzare l’idea dell’inferno e del paradiso (i cavalli diretti a nord e le
montagne verso l’alto invece che verso il paese ovvero il basso).

EFFETTI DI UN SOGNO INTERROTTO

In Effetti d’un sogno interrotto la casa diviene un luogo vecchio, oscuro, polveroso. La descrizione molto
dettagliata dell’abitazione non stupisce dato che Pirandello, oltre ad essere uno scrittore, fu anche uomo di
teatro, attento a delineare una scenografia adatta allo svolgimento della novella. Nella novella il protagonista
principale si ritrova a vivere in una casa di proprietà di un suo amico, partito per l'America per debiti, e dove,
come se fosse comparso di colpo, scopre un quadro di una Maddalena in penitenza. Un giorno un antiquario,
che frequentava la casa, nota casualmente quel quadro e dice che assomigliasse alla moglie di un signore che
era rimasto vedovo recentemente. Questo signore, di cui nome non si sa, cerca di acquistare il quadro, ma
riceve risposta negativa da parte del Protagonista che, abitando  in una casa non sua, non si permette di
venderlo. La notte, mentre dormiva, nel sogno sente rumori, si alza e si reca in salotto e li vede il Signore che
si trovava nella sua stanza, con addosso un pigiama. Il protagonista a questo punto si sveglia, corre verso il
salotto, dove è situato il quadro e ha l'impressione che gli occhi della Maddalena, per un attimo, si mossero.
Terrorizzato corre dall'antiquario per vendere il quadro e assieme si recano a casa del vedovo. Il protagonista
incontra il vedovo ma scopre che esso indossa lo stesso pigiama del sogno e lo accusa di essere stato a casa
sua. Qualche ora dopo ragionando crede che il Vedovo e lui abbiano incrociato i loro sogni.

OSSO DI MORTO

Nel racconto di IGINO UGO TARCHETTI, Un osso di morto, il luogo nel quale si
svolgono i fatti, cioè la città di Pavia, e il tempo, dal 1855 al 1866, sono indicati con
precisione, poiché proprio spazio e tempo, insieme ad altri elementi realistici,
contribuiscono al tentativo di descrivere con criterio di scrupolosa verosomiglianza
eventi inverosimili.
Il patto narrativo tra scrittore e lettore è dichiarato nell'incipit del testo: "Lascio a chi mi legge
l'apprezzamento del fatto inesplicabile che sto per raccontare".
Pertanto il lettore è chiamato in causa e gli viene richiesta una valutazione personale, poiché la
voce narrante non sarà in grado di fornire una spiegazione dell'enigma che si accinge a
raccontare.
Nell'introduzione si sottolinea l'antitesi fra lo scetticismo del dottor Federico M., scienziato
rigoroso, e le credenze del protagonista che ama, come si scopre nel corso della storia,
frequentare magnetizzatori e sedute spiritiche.
A metà del XIX sec. lo spiritismo costituì infatti un fenomeno di moda, ma testimoniò
soprattutto una profonda ansia, da parte dei suoi cultori, nei confronti della realtà
contemporanea, del progresso e della scienza. Il dilemma, che il racconto sembra sottolineare,
verte dunque sulla possibilità o al contrario sulla incapacità del metodo scientifico di spiegare
ogni fenomeno, per fornire all'uomo delle certezze assolute.
Nel testo compaiono tutti gli elementi costitutivi di un racconto del terrore, ad esempio il
fantasma, i dialoghi con gli spiriti e le emozioni del protagonista, variamente descritte come
paura, timore, angoscia, panico spaventoso ecc.
Tuttavia ciascuno di questi elementi viene sdrammatizzato da una sottile ironia che la voce
narrante manifesta nell'autodescrizione delle proprie paure.
Anche il rapporto di antiteticità tra il ruolo della vittima e il suo persecutore risulta attenuato,
rispetto ad altri racconti, che hanno come protagoniste delle presenze soprannaturali; in
questo caso, infatti, assistiamo alla garbata conversazione tra un fantasma gentile e un
interlocutore al contempo curioso e intimorito. Per di più, nella esposizione dei fatti, si osserva
una ambiguità costante, in virtù della quale è difficile stabilire se i fatti stessi sono accaduti
veramente o se sono soltanto il risultato delle fantasie del protagonista. Ad esempio,
nell’episodio della scrittura automatica si può pensare che siano gli spiriti a fornire le risposte,
oppure che sia il protagonista, "magnetizzato", ad evocarle dal proprio inconscio, per una sorta
di inquieto rimorso o paura dettata dal possesso dell'osso di un morto. Ed anche il colloquio
con il fantasma dell'ex inserviente può essere una visione, o diversamente un'allucinazione
provocata dal vino. In maniera enigmatica, del resto, si conclude la storia: ai rumori provocati
dal fantasma si sostituiscono i colpi battuti all'uscio dalla portinaia, all'osso, impiegato come
fermacarte, si sostituisce il nastro nero.
Ironia, ambiguità e mistero sottolineano pertanto il tema di fondo prevalente del racconto,
ossia il senso d'inadeguatezza dell'uomo che si sente solo di fronte ai grandi enigmi
dell'esistenza. Inoltre si può cogliere uno spunto morale, laddove nel testo viene sollevato il
problema del rispetto del corpo umano anche dopo la morte, come rileviamo dalle seguenti
righe: "vi era una rotella di ginocchio che ha appartenuto al corpo di un ex inserviente
dell’Università, che si chiamava Pietro Mariani, e di cui io aveva sezionato arbitrariamente il
cadavere".

GIOVANE ANIMA CANDIDA


Il dramma “Minnie la candida” fu scritta da Massimo Bontempelli nel 1927. Il maestro comasco teorizzò attraverso il
“realismo magico”, una “nuova arte” fondata sulla fantasia, un’arte capace di mettere attorno alla realtà un alone di
magia e di vedere la vita come una grande avventura piena di sorprese, di rischio e di mistero. La costante meraviglia
nello sguardo di Minnie, la protagonista, altro non è che lo stupore legittimo, anzi indispensabile, in chi voglia vedere
davvero il mondo attraverso il fantastico senso della scoperta e del mistero. Ma c’è anche la tensione inquieta di
un'anima che osserva l’abnorme metamorfosi della realtà, senza perdere tuttavia il suo candore originario; candore che
alla fine diverrà un’arma a doppio taglio, un pensiero dominante, nevrotico, che condurrà all’inevitabile crollo finale.
Minnie dei sogni è questo: una donna lieve e forte, una Betty Boop d’acciaio, una Charlot candida e folle, dominata da
un unico e opprimente pensiero, la paura di essere circondata non da uomini, ma da esseri meccanici, identici alle
persone, indistinguibili da tutti gli altri e al culmine del suo delirio onirico anche Minnie crederà di essere come loro.
Un' “Alice nel paese delle meraviglie” destinata al martirio, che con passo lieve cercherà di ripercorrere inutilmente la
strada della sua ossessione, senza sapere che la sua è una lotta contro i mulini a vento; perché l’anima candida quando
nasce è già predestinata al sacrificio, perché “…l'anima candida non fa concessioni... l'anima candida è divinamente
incauta”, come ha scritto Bontempelli.

FANTASMI A BORGOFORTE

Alcuni racconti seguono un andamento di continua ascesa e ricaduta, prospettando via via rivelazioni che infine
non sono mai pienamente tali, dove l’evento speciale che dovrebbe contenere il significato decisivo, fornito
dall’autore, per svelare il segreto che si nasconde dietro le apparenze, è invece il momento in cui queste si rivelano
meramente quel che sono: non c’è alcuna intenzione di “scavalcarle” o “corroderle”, ma soltanto di “guardarle e
raccontarle”. A prendere rilievo non è un presunto senso superiore degli eventi, ma gli stessi eventi e oggetti in sé,
come li si vive, come ci coinvolgono. Due casi emblematici a tal proposito sonoFantasmi a Borgoforte e Il ritorno
del viaggiatore. La prima novella si modella sull’andamento classico del racconto del soprannaturale: dovrebbe
dunque concludersi con il momento di agnizione per eccellenza, lo svelamento del mistero, sia esso in senso
razionalistico o in senso fantastico. Invece, il racconto di Celati offre puntualmente uno scarto rispetto alle
aspettative del lettore. Strutturalmente, anche qui, manca il passato remoto che indichi la superiorità (simbolica) di
un evento sugli altri, ma è anche il contenuto a deviare dalle soluzioni attese. Così, in Fantasmi a
Borgoforte, entra in scena un personaggio, il libraio di Mantova, a cui le protagoniste della novella (e il lettore con
loro) conferiscono un ruolo decisivo: sembra infatti il “prescelto” in quanto detentore del sapere, in grado di
spiegare chi sia il fantasma e cosa significhi la sua apparizione. Ma anziché fornire un chiarimento e la soluzione
dell’enigma, questi confida piuttosto l’impressione che gli fanno le donne, spostando il focus dal fantasma alle
protagoniste della vicenda, per definirle persone che non tengono troppo alla propria esistenza e che si
percepiscono soltanto come “percorsi di immagini”. Una rivelazione in minore perché, invece di dare
direttamente, esplicitamente uno scioglimento del mistero, delude il lettore, lasciandolo disorientato, incapace di
cogliere distintamente quale sia la natura dell’apparizione: accade come qualcosa di naturale, che può manifestarsi
a chiunque abbandoni un accanito attaccamento alla propria identità? O è un’allucinazione di persone fragili?
Tuttavia Celati non si libera del tutto dal rischio di conferire al racconto un senso personale: leggendo con
attenzione, si scopre che le donne sono “calme, non infelici”. L’apparizione del fantasma non è allora
conseguenza di un disagio esistenziale, ma piuttosto di una sommessa consapevolezza: quella dell’inconsistenza
di se stessi e della propria vita, consapevolezza che rientra pienamente nella poetica di Celati. È così che, talvolta,
nonostante il tentativo di dileguarsi, l’autore riemerge. Ciò non rappresenta però un fallimento delle intenzioni di
Celati: pur avendo un messaggio “autoriale”, il racconto riesce infine a esprimere un significato “soffuso”,
sospeso e indefinito, che in se stesso si fonda sul valore dell’inconsistenza, dell’insostanziale. E attraverso le
continue negazioni delle attese a cui è sottoposto, il lettore viene coinvolto in prima persona per rielaborare
l’esperienza narrata, e dedurvi alcunché, su se stesso e sulla vita.

IL RACCONTO DEL LUPO MANNARO

Landolfi nei suoi racconti amava addentrarsi nella dimensione del fantastico, però in modo molto personale e spesso
ribaltandone i termini. È ciò che avviene anche in questo racconto a proposito del rapporto tra la luna e i protagonisti,
due amici affetti da licantropismo, fenomeno per cui la luna piena trasformerebbe alcuni uomini in lupi mannari, i
licantropi. Il motivo del lupo mannaro, che ha origine in una forma di isteria che spingerebbe l’individuo colpito – di
solito in coincidenza con la fase di luna piena – a simulare il comportamento e l’ululato del lupo, è presente nella
letteratura dell’orrore, sia in quella popolare che in quella colta, basti ricordare la novella Mal di Luna di Pirandello.
Landolfi ne offre una versione molto personale: vittime non sono i lupi mannari, ma la luna. Non si sa come, essa è
stata catturata ed è descritta prima come qualcosa di ripugnante («un grosso oggetto rotondo simile a una vescica di
strutto, ma un po’più brillante»), poi come una sfera affumicata e deformata, a causa del passaggio dalla canna del
camino, percorso consacrato dalla favolistica al lupo cattivo, e il riferimento non è casuale. I temi Del racconto si
possono dare diverse interpretazioni. A un primo livello si può notare che l’autore ha operato un cambiamento di
connotazione del fantastico: da cupo e terrificante l’ha trasformato in giocoso e leggero, per il divertimento suo e dei
lettori. A una lettura più approfondita si può analizzare il rapporto tra i protagonisti, uomini tormentati, incapaci di
accettare se stessi e le proprie manchevolezze, e la luna, personalizzazione simbolica dei loro incubi, di cui ci si può
impadronire, ma non si può distruggere. Mettono in atto un complicato rituale per liberarsene («... lasciamola andare
qui sotto la cappa, e, se non ci libereremo di lei, ci libereremo del suo funesto splendore... In qualunque altro modo è
inutile, non riusciremmo ad ammazzarla»), ma esso è preventivamente e dichiaratamente destinato al fallimento.
Altrettanto si può dire per la loro aspirazione alla normalità; anche quando la luna non compare più in cielo, essi non
sono liberi dalla loro privata ossessione e sentono il bisogno di comportarsi come se ci fosse, anche se non sono
disposti a riconoscerlo: «Quella notte medesima, per gioia, andammo a rotolarci un po’ in un posto umido nel mio
giardino, ma così, innocentemente e quasi per sfregio, non perché vi fossimo costretti». La costruzione della storia I
racconti de Landolfi sono stati definiti da Italo Calvino dei “congegni narrativi esatti”, in cui l’autore sa costruire la
storia oscillando tra il surreale e il grottesco e soprattutto utilizzando il meccanismo del “non detto”. Del
comportamento dei protagonisti, «l’amico e io», e della loro insofferenza verso la luna è offerta una descrizione ampia
(«... essa ci costringe a rotolarci mugolando e latrando nei posti umidi, nei braghi dietro ai pagliai; guai allora se un
nostro simile ci si parasse davanti!...»), ma incompleta, in quanto non si spiega mai che sono lupi mannari. Così come
non si dice che quel «grosso oggetto rotondo simile a una vescica di strutto» è la luna. Divenuta invisibile («Per
parecchi mesi la luna non ricomparve in cielo e noi eravamo liberi e leggeri»), la luna è un personaggio presente
quanto e più di prima («... lo sentivamo bene invece che c’era e ci guardava; solo era buia, nera...»), creando un senso
di attesa verso lo scioglimento finale, quando la luna «slabbrata e fumosa, cupa da non si dire» ricompare e, quasi con
sollievo, i due protagonisti riprendono a rotolarsi nel braghi, perché «contro la luna non c’è niente da fare».

L’UOMO DAGLI OCCHIALI

L’uomo dagli occhiali, ove uno stranissimo e inquietante personaggio, che ha perso la cognizione normale del
tempo, aspetta una ragazza all’uscita di scuola, di cui è innamorato pazzo: ma la ragazza, proprio come
certe figure femminili pascoliane, è già morta, mentre dialoga con una sua compagna di classe, rivelandole
che è stato proprio quell’uomo a ucciderla.  Cosa voglio dire con ciò? Che la Morante, scrittrice
assolutamente coincidente con se stessa, nel suo magnifico e coltivato anacronismo, non è, a differenza del
marito, il grande Alberto Moravia, una scrittrice antiborghese: a essere sotto scacco, infatti, non è il
capitalismo, ma la realtà in quanto tale. Il suo sgomento, insomma, è, prima che storico, metafisico.
Mettiamola così: qualora si provasse a scrivere una storia letteraria del Novecento dal punto di vista
dell’invisibile, la Morante avrebbe un posto di preminenza.

L’avvicendarsi tra realtà e sogno cui si è assistito in “Il ladro dei lumi”, assume in questo secondo racconto un più
accentuato tono onirico. L’uomo, che esce dal suo studio, con i capelli arruffati, la barba lunga e irta per il freddo, le
occhiaie che gli mettevano sulle guance un ombra nera, è la figura che opera in una bambina il mutamento della visione
che consegue all’uscita della sua infanzia. L’uomo dagli occhiali è un personaggio che esce da uno squallido posto alla
periferia della città, che riesce a stupire la portinaia e la lattaia, persone che fanno parte della sua quotidianità, perché
non lo vedevano da alcuni giorni; l’uomo, invece, ricordava che il giorno prima era domenica, una giornata triste per lui
che aveva errato tutto il giorno per la città, cercando di vederla” con quei graziosi occhi d’uccello”. Non era lunedì?
Nessuno come lui poteva sapere che il giorno prima era domenica, una giornata orribile, che non gli aveva permesso d’
incontrarla! Gli ripeterono che era giovedì; ” lui rise con sarcasmo di quell’assurdità!” Si chiese, però, dove fossero
fuggiti quei tre giorni, visto che non beveva mai…Assorto nei suoi pensieri, era giunto nelle vicinanze della scuola;
sapeva che era questione di minuti e l’avrebbe rivista, ma” gli parve grave di vedere il proprio sorriso deformato,
nuovo, davanti a sè, in uno specchio, ed ebbe un sobbalzo.” Attese nella neve e nel silenzio, rotto dal rumore attutito di
un carro e in quella sua solitudine si invera il suo sogno e svanisce la realtà; si appoggiò ad un albero, in attesa della fine
delle lezioni, pensando che” avrebbe perduto la ragione; che sarebbe diventato cieco” e di non aver modo di impedirlo:
l’uomo vede attraverso i suoi occhiali; ha uno schermo tra sè e la realtà. Al rintocco della campana, che segna la fine
delle lezioni, vede uscire i bambini; vede il gruppetto delle tre amiche ed il suo corpo avvampa, ” fuorché le mani, che
erano sudate e gelide.” Clara, una delle tre amiche di Maria, gli si presentò davanti, e gli disse che Maria era morta ma
che lei aveva risposto presente, al posto suo, quando fecero l’ appello; guardava l’uomo, fermo, appoggiato contro
l’albero, con gli occhiali appannati che gli nascondevano lo sguardo: lei rappresenta l’avvenire; lui il peso della vita con
i suoi strani gonfiori sulla tempia e sulla fronte e la barba che rendeva grigiastra la sua faccia viscida e malata… che le
volta le spalle e che, senza parlare, scende per il sentiero” con le braccia abbandonate e le spalle curve, in una pesante
goffaggine” che parve cadere avanti nella nebbia. Clara deve tornare da sola: le due amiche, stanche d’aspettare, se
n’erano andate e la scuola, all’improvviso, si era fatta deserta. Ci si mise anche la nebbia, che ricoprì la parte bassa della
città, per cui le cupole e le cime delle torri, parvero sospese nell’alto. È un paesaggio sfumato, di sogno, quello che ci
viene descritto, che perde i suoi contorni reali, dove Clara cammina su un sentiero di neve non calpestata, con
l’intenzione di recarsi da Maria. Come accade nei sogni, Clara non conosce il luogo dell’abitazione di Maria, “allagato
dalla nebbia”, con gli edifici informi e incolori; ” un popolo oscuro vi si aggirava con una velocità febbrile, senza urtarsi
nè fermarsi, e di questa folla senza numero ella non riusciva a distinguere le facce nè la foggia dei vestiti; tutti si
incrociavano e si superavano intorno a lei, e il suono dei loro passi era continuo, simile ad una pioggia, e come attutito
da un’immensa distanza”: è la descrizione del mondo dei sogni che diviene il quadro di un mondo reinventato,
affascinante, perché è quello che riconosciamo e che non troviamo le parole per descrivere e ce lo troviamo davanti
proprio uguale. Non ci meravigliamo che Maria chiami Clara che la vede in maniera sempre più distinta, senza il
grembiule che portava a scuola” con gli occhi fissi e sgranati.” Clara le racconta dell’incontro e, vedendo la faccia
smarrita di Maria, si scusa, dicendole di non aver voluto farle paura: perché paura? L’uomo dagli occhiali l’aveva
uccisa e le sue parole si capivano solo per il movimento delle sue labbra e lei parlava” ora in fretta ora adagio, come un
uccello perduto che sbatta le ali”: è già la seconda volta che Maria è paragonata ad un uccello e la morta racconta, in
segreto, mentre non sembrava che si accorgesse della nebbia e della fuga circostante.  Racconta di essersi malata e che
lui era entrato nella sua camera ed il suo racconto è nebuloso e confuso come sono i ricordi dei nostri sogni, ma la
descrizione che Maria fa dell’uomo è spaventosa e racconta ( penso che raccontare sia il verbo insostituibile, perché è il
verbo della favola ) che l’uomo con gli occhiali l’aveva cercata per l’intera domenica, ” fiutando nella neve come un
cane per cercare le orme dei suoi piedi.” Lei lo cacció via dalla sua camera: ne aveva paura! Lui era lì per farle paura,
ma non osava ancora toccarla. Racconta che l’uomo rimase in un angolo della sua camera, in piedi, per tutto un giorno e
per la notte, mentre lei non riusciva a dormire e si vergognava di parlarne alla madre. Il mattino continuava a dirgli”
domani”  e lei sarebbe fuggita ma non ne trovò la forza. Cadde in delirio e vedeva nella sua stanza solo lui che era
malvestito, pallido, barcollante; stringeva i pugni e le sorrideva; lei tremava e la madre la copri con la camicia di lana: i
genitori si preoccupano della salute fisica, trascurando, spesso, i bisogni dell’anima dei loro figli! Il tempo passava: ”
finita la seconda notte, il terzo giorno fu corto come un minuto e Maria sentì che lui rideva con un rumore basso:” la sua
risata correva per la camera come un topo, ed io non riuscivo a scacciarlo, anche coprendomi gli orecchi.” Maria si
meravigliava che le sue amiche, che vedeva in camera sua, gli permettessero che lui si accostasse a lei che sentiva il suo
fiato sulla faccia. Fu lui ad ucciderla, andandosene via, dopo, mentre i suoi occhi si chiudevano per il sonno. Ora, che
era morta, l’uomo con gli occhiali non c’era più. Clara si impietosì: la vedeva così piccola in mezzo a tutte quelle case
informi; le confessó, in segreto, di aver risposto presente all’appello in classe, al posto suo! La morticina prese per
mano Clara, spingendo innanzi” quella sua nuova, piccola faccia avvizzita”. Si accostarono insieme presso un muro
basso, ” su cui cresceva l’erba”,  bisbigliando che non c’era più nessuno: in gran segreto, Maria mostró a Clara,
aprendosi lo scollo del grembiule, che il petto cominciava a nascere:” sulla pelle infantile, bianca, ai due lati spuntavano
due piccole cose ignude, simili a due nascenti gemme in fiore.” Solo un poeta riesce a rapprentare come una favola
l’inizio della pubertà, che è  l’età molto difficile per le ragazze, colma di paure, di ansie, di confidenze e di mistero. E
non poteva essere che una donna a rappresentarcela con un tipo di scrittura che condensa e sublima il clima
dell’adolescenza.

L’ultima visita del gentiluomo malato

Nella novella L’ultima visita del gentiluomo malato numerosi sono i tentativi dell’agente protagonista per raggiungere
un miglioramento rispetto alla condizione in cui si trova. Il nostro personaggio desidera conoscere il suo creatore;
infatti, sospetta di essere soltanto frutto della pura creazione di una misteriosa mente. All’inizio il gentiluomo cerca di
vivere tranquillamente, cristianamente, poi per cercare di 'rimanere in vita' e credendo il suo creatore un 'eroe
pagano' si comporta in maniera diversa; infatti, per sopravvivere dichiara che: «mi incoronavo colle larghe foglie della
vita e cantavo degl’inni da ubriaco e danzavo colle fredde ninfe nelle radure delle foreste».35 Infine, cerca di
trascorrere la propria esistenza come un saggio orientale, contemplando e vegliando le stelle e i numeri. Tutti i suoi
comportamenti avvengono nella speranza di compiacere il sognatore e quindi di continuare la vita per poter
finalmente conoscere la propria identità. Non riuscirà nemmeno con i gesti più estremi a capire chi sia e a come vivere
una realtà che non sente sua. L’interlocutore dell’uomo malato ci informa che dal quel giorno nessuno l’ha più visto.
Lo scioglimento dell’intreccio non approda ad una conclusione vera e propria. L’ultima visita del gentiluomo malato
sembra suggerire che il fantastico, in quanto modo storico, più che ad un repertorio tematico, corrisponde a un
brillante esercizio di scrittura. Sono le parole a spalancare abissi vertiginosi, a consentire di attraversare i secoli,
procedendo ad un’inquietante messa in scena dei rapporti tra sogno e realtà. Il Gentiluomo malato, misterioso
personaggio ritratto da Sebastiano del Piombo nel Cinquecento, si autodefinisce «la figura di un sogno»:esiste perché
una persona lo sogna. Ma questo personaggio, «seminatore di spavento» e «annoiato spettro», aspira
all’annientamento, in perfetta sintonia con le caratteristiche topiche del fantasma che desidera essere liberato dalla
sua condizione. Il gentiluomo malato forse è riuscito a provocare il risveglio del suo creatore, spezzando
l’incantesimo che lo costringeva ad errare attraverso le città e i secoli. Forse il suo creatore altri non è che il narratore
stesso che avrebbe raccontato il proprio sogno, moltiplicato dalla dialettica tra sogno e contestazione del sogno. Il
messaggio inquietante che il personaggio della novella vuole lasciare è che gli esseri umani vivono circondati da
ombre, da esseri fittizi, creati dai loro stessi sogni e dalle illusioni.

REBUS

Attraverso tali parole, tratte da Rebus, il terzo degli undici racconti che compongono Piccoli equivoci senza
importanza, raccolta di Antonio Tabucchi, pubblicata nel 1988 da Feltrinelli (pp. 152, € 6,50), si delinea il fil
rouge dell’opera, che propone un’interpretazione di fondo della vita, intesa appunto come un rebus dove tutto è
affidato al caso. Vibra costante negli undici racconti l’inquietudine del “cosa sarebbe successo se”, il fascino
attraente delle strade non percorse, del non detto e dell’insopprimibile e insopportabile voglia di riscrivere le
nostre vite. Come spiega Antonio Tabucchi stesso nella Nota introduttiva, l’equivoco è da lui elevato, come in
epoca barocca, a metafora del mondo. «Malintesi, incertezze, comprensioni tardive, inutili rimpianti, ricordi forse
ingannevoli, errori sciocchi e irrimediabili» costituiscono l’ossatura dei racconti, storie non lineari, che si snodano
attraverso molteplici salti temporali, eventi immaginari, sogni, ricordandoci che siamo esseri umani gettati nel
corso degli eventi,scagliati nell’esistenza. Per scomodare Jean-Paul Sartre, egli così sosteneva nella conferenza
“L’existentialisme est un humanisme”: «L’homme est seulement, non seulement telqu’il se conçoit, mais telqu’il
seveut, et comme il se conçoit après l’existence, comme il se veutaprèscetélanvers l’existence […] Car nous
voulons dire que l’homme existe d’abord, c’est-à-dire que l’homme est d’abord ce qui se jettevers un avenir, et ce
qui est conscient de se projeter dans l’avenir». A differenza di Sartre, però, che insiste sull’idea di scelta, di
progetto e di responsabilità di ciò che si è, i personaggi di Antonio Tabucchi non prendono decisioni bensì sono
guidati dagli eventi, sono i loro atteggiamenti a essere le scelte: «la vita è così brava a sclerotizzare le cose, e gli
atteggiamenti diventano le scelte». Il destino è ineluttabile, non si riesce a infrangerlo, l’irrinunciabile desiderio di
cambiamento si traduce in azioni mancate, declinate come rimpianto e nostalgia, perché la storia è già scritta,
perché la vita è determinata da quei piccoli equivoci senza importanza, appunto, che lavorano nell’ombra
mettendo in discussione le nostre certezze, lasciando solo il dubbio, o meglio, da quei piccoli equivoci senza
rimedio, come si dice nel primo racconto che dà il nome alla raccolta: «tutto era davvero un piccolo equivoco
senza rimedio che la vita si stava portando via, ormai le parti erano assegnate e era impossibile non recitarle».
Protagonisti del racconto d’apertura sono tre amici di vecchia data, Tonino, Leo e Federico. I primi due si
iscrivono a Lettere Moderne, Federico a Lettere Classiche ma per un disguido viene immatricolato a
Giurisprudenza. Lo sbaglio del segretario, un lapsus, un piccolo equivoco senza rimedio o senza importanza,
come lui stesso lo definisce, determinerà la fortunata carriera giuridica di Federico. Anni dopo i tre si ritrovano in
un’aula di tribunale dove Federico deve giudicare Leo, accusato di terrorismo. Tonino, che assiste al processo in
veste di cronista, intraprende un viaggio interiore tra presente e passato, tra i ricordi del periodo giovanile, degli
anni di quell’indimenticabile legame di amicizia, riportando alla memoria le canzoni preferite e l’amore comune
per Maddalena, ragazza dai capelli rossi, che li aveva fatti innamorare a passo di danza e di cui giunge solo una
notizia di un intervento di mastectomia. Lo sguardo disincantato di Antonio Tabucchi induce a riflettere sull’ironia
della vita: non siamo artefici del nostro destino, un’ineludibile anànke determina la nostra esistenza gettandoci in
balia del disordine degli equivoci senza farci riuscire a focalizzare un disegno compiuto nella realtà, lasciando
solo la possibilità di «regolare sulla simmetria delle pietre la nostra infantile decifrazione del mondo ancora senza
scansione e senza misura».

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