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Carocci editore
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Luciano di Samosata
ra
ristampa, giugno 2017
ra
edizione, giugno 2007
© copyright 2007 by
Carocci editore S.p.A., Roma
ISBN 978-88-430-4235-7
Ringraziamenti l 7
BIQN OPALIL l 74
Note
7
Avvertenza: Il testo greco su cui si è condotta la traduzione e che è
riprodotto a fronte è quello stabilito da A. M. Harmon (voll. 1-V),
K. Kilburn (vol. VI), M. D . Macleod (voll. VII-VIII), Lucian, " Loeb
Classical Library'', Harvard University Press, London-Cambridge
(MA) 1913-67, 8 voll.
8
Luciano e le disawenture della filosofia:
sapienti, retori e cristiani
sulla pubblica piazza
9
glia e senza più degni pretendenti, è costretta a contrarre
nozze. E un giorno, un ferraio, nanerottolo e pelato, si infi
la in un bel bagno, si caccia addosso il vestito della festa e
impalma Filosofia condannandola a futuri e copiosi parti di
figli bastardi.
Sembrerebbe proprio la trama d'un dialogo di Luciano,
per chiunque abbia un po' di familiarità con le trovate mer
curiali del celebre scrittore di Samosata. Ma non si tratta di
Luciano. Altri potrebbe pensare a una commedia di Aristofa
ne, e non penserebbe a torto, ché ben nota è l'elettiva paren
tela tra Luciano e il grande comico. Si tratta, invece, di Plato
ne, altro nume tutelare della scrittura lucianea, il celeberrimo
filosofo, che così ritrae, attraverso le parole di Socrate, nel se
sto libro della Repubblica 1, il destino cui è incorsa la filosofia
nella sua democratica Atene. È una scena da ridere, sì, di pri
mo acchito, ma, al contempo e ripensando, cupa, che, forse,
rinnova le atmosfere sinistre d'un antico archetipo narrativo,
il romanzo nero della vergine perseguitata 2• È una scena eu
pa in cui la vergine Filosofia è infangata da nozze vili che as
somigliano a un forzato meretricio, se non ancor più offesa dal
parto immondo cui è obbligata. Ma il vero incubo platonico,
il mostro, l'homme noir della storia, non è quel nanetto schifo
so e grottesco che, paludandosi degli abiti di Filosofia, pre
tenderebbe di farsi chiamare "filosofo". Il vero incubo è la fol
la, e la sua spaventosa scena, la piazza.
Nessuno dubita che Platone sia il fondatore della filosofia.
Ma forse non è mai stato messo veramente in luce come la fon
dazione platonica della filosofia avvenga a partire dal convin
cimento che, nel mondo presente, di filosofia e di filosofi non
1 . Cfr. 495c-496a.
2. Devo alla lettura del bel saggio di Patrizia Pinotti, L'asino, il re, la fan
ciulla gravida e il cigno, in M . Guglielmo, E. Bona (a cura di) , Forme di co
municazione nel mondo antico e metamorfosi del mito: dal teatro al romanzo,
Edizioni dell'Orso, Alessandria 2003, pp. 49-78 , in particolare p. 66, l'esser
mi risovvenuto di questo passo platonico e l'averlo ricompreso come modu
lo romanzesco.
10
ce ne sono più e non ce ne sono mai stati. Come tutti i grandi
"inattuali" del nostro pensiero, come Nietzsche, ad esempio,
o come De Maistre, Platone rifiuta il presente, rifiuta ogni me
diazione con ciò che è in atto. E ciò che è in atto nella città de
mocratica di v e IV secolo a.C. è, secondo Platone, la prosti
tuzione del pensiero. Ne sono esecutori i volgari omiciattoli
di oggi, sofisti, retori, maestri e politici di mestiere o aspiran
ti, rappresentati dall'immondo nano calvo. Ma i veri respon
sabili del meretricio sono i guastatori di ieri, quelle grandi na
ture che sarebbero nate per la filosofia e tuttavia si sono la
sciate traviare, a loro volta traviando e perdendo anche gli al
tri per lasciare il posto alle caricature d'uomo e d'intellettua
le che imperversano nel presente3• Sicché Platone dedica tut
ta la sua scrittura all'indagine di questo pervertimento, con
ducendola però, rigorosamente, sulla scena di luoghi chiusi e
appartati, siano i l locus amoenus del Fedro o le case della più
scelta élite cittadina, come nella Repubblica o nel Protagora o
nel Simposio, sia il ginnasio frequentato dalla jeunesse dorée
del tempo, come nel Carmide, sia, infine, il carcere-cenacolo
del Pedone. Ma, in generale, il dialogo di Platone è un luogo
chiuso, esclusivo. Non ci sono scene affollate in Platone, non
c'è la piazza. O meglio c'è, ma unicamente sotto forma di spet
tro evocato, di terribile spauracchio, così come accade nella
Repubblica 4, prendendo altresì le sembianze dell'assemblea
politica cittadina o del teatro di Dioniso. Perché la piazza è il
luogo degli intellettuali da sbarco, il luogo dove questi sedi
centi filosofi, i sofisti, nonché i poeti, nonché i mestieranti del
la politica, consumano la loro ignobile alleanza con il popolo
della città. È il luogo, infine, e questo sì è davvero fatalmente
rovinoso più di ogni altra cosa, dove i migliori hanno finito
per soccombere, o perché se ne sono lasciati distruggere o
perché hanno distrutto. Nasce, dunque, la filosofia, con Pla
tone, nella speranza e nella promessa che essa non si conceda
mai più alla folla.
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Ironia del destino - diciamo pure vicende della storia -
questo spettro, a quasi cinque secoli di distanza, è diventato
realtà di carne e ossa. Ed è proprio con la voce e la scrittura
di Luciano, con lui più d'ogni altro, che la grande paura del
la filosofia si avvera. Con Luciano, alla filosofia non resta che
la piazza5•
Le Vite dei/iloso/i all'asta e il Peregrino, che qui si presen
tano in traduzione e commento al lettore, illustrano al meglio
il terribile avveramento dell'incubo platonico. Nelle Vite dei/i
faso/i all'asta assistiamo alla vendita degli "stili di vita", per co
sì dire, ispirati ciascuno alla vicenda intellettuale, più che bio
grafica, dei maggiori maestri del passato. Si vende lo stile pita
gorico (Pitagora), quello cinico (Diogene), dell'edonismo cire
naica (Aristippo), del filosofo folle che piange e ride sulla nul
lità del mondo (è la coppia Democrito-Eraclito), lo stile socra
tico (Socrate), quello epicureo (Epicuro), quello stoico (Cri
sippo), nonché quello aristotelico (Aristotele) e, infine, quello
scettico (Pirrone). A dire il vero, poi, più che d'una vendita, si
tratta d'una svendita: questi articoli, alla fine, non costano mol
to. L'articolo pitagorico, ad esempio, "viene via" a dieci mine,
quello cinico è quasi regalato a due oboli, quello stoico è un ve
ro affare per dodici mine, quello scettico è un'occasione per
una sola mina. Costa un po' di più l'aristotelico, tra le proteste
del compratore che mal tollera le venti mine, mentre l'articolo
più caro, quello sì l'unico costoso, viene due talenti: è il socra
tico. Alcuni sono perfino così guasti che non si vendono nean
che: sono il modello cirenaica e quello democriteo-eracliteo.
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Insomma, diremmo oggi, un'autentica fiera del saldo! E chis
sà se quell'implicito omaggio dei due talenti tributato a Plato
ne attraverso Socrate non sia soltanto un riconoscimento del
l'incomparabile qualità della di lui scrittura e pensiero, ma an
che un sarcastico saluto a chi, proprio nel mentre si vende il
protagonista dei suoi dialoghi, tanto aveva paventato la merci
ficazione della filosofia ... Una vendita, anzi una svendita, che
si fa, com'è ovvio, in piazza. I venditori sono Zeus ed Ermes.
Mettono giù i banchi e chiamano i clienti: «Vengano, signori,
vengano! Si vendono vite filosofiche per tutti i gusti! ». Scena
da mercato in piena regola. Ed è una scena un po' triste. Er
mes, lui, si diverte, perché a lui sta piazzare gli articoli e tratta
re con i clienti. Zeus, invece, ha poca parte e, per quel poco che
dice, ha l'aria di non infischiarsene un bel nulla di quel che ven
de. Ha fretta, come il commerciante che deve liberarsi di un
fondo di magazzino, e non gli interessa più nemmeno vendere
bene: vuol solo disfarsi del fastidioso ingombro della mercan
zia. Figuriamoci dunque se gliene cale di trattare bene i com
pratori o illustrare i prezzi! E i clienti, loro, non comprano per
ché vogliono diventare filosofi: hanno bisogno di schiavi.
Quello che compra il modello Socrate, l'unico cliente ad ave
re un nome, è in cerca di un pedagogo per suo figlio. Si chia
ma sì Dione, ma dell'uomo che condivise con il compagno Pla
tone più di un'avventura politica non ha alcun ricordo: non c'è
più memoria del passato. Quello che compra il modello Pirro
ne ha bisogno di uno da mettere alla macina. Colui che si por
ta a casa l'articolo stoico, il modello Crisippo, è attirato dal fat
to che, almeno a detta di Ermes, si tratta di articolo multiuso:
solo lui è bello, giusto, coraggioso, re, retore, ricco, legislatore,
così come cuoco, calzolaio, fabbro eccetera eccetera. Mentre
quello che si aggiudica il pitagorico viene colpito, oltre che dal
l'aspetto divino della merce, dalla possibilità di essere immor
tale, di cambiare molte vite: forse ha bisogno di un astrologo,
o di un indovino. L'acquirente del modello Diogene compra
solo perché il prezzo è talmente basso che non ha nulla da per
dere e tutt'al più se ne servirà come giardiniere o marinaio, o
forse lo metterà a zappare o a portare acqua o a fare il porti-
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naio. Quanto al compratore dell'articolo epicureo, non sappia
mo neanche di che servo abbia bisogno in particolare: si limita
a informarsi che non mangi troppo e cose troppo costose, visto
che deve pur mantenerlo. Quanto infine a quello che si compra
l'aristotelico, lo fa, su consiglio di Ermes, perché pare che co
stui abbia un gruzzolo personale. I compratori, dunque, non
vogliono né chiedono di diventare filosofi. E non si tratta di un
dettaglio, soprattutto se ci ricordiamo delle Nuvole di Aristofa
ne6 - che è senza dubbio un modello forte per le Vite dei/ilo
so/i lucianee-, quel prototipo di commedia intellettuale-filoso
fica in cui l'uomo della piazza, Strepsiade, va a scuola da So
crate perché vuole imparare la filosofia. Certo, il suo scopo è
quello di liberarsi dai debiti facendo uso della filosofia, ma alla
filosofia è pur sempre riconosciuto un ruolo, anzi il ruolo d'ul
timo grido delle professioni, del mestiere intellettuale per ec
cellenza7. Non così per gli acquirenti lucianei. Per loro il mer
cato delle vite filosofiche non è che mercato di schiavi e da es
so in nulla si distingue. Perché questa differenza? Ad Aristofa
ne interessa parodiare e, parodiando, illuminare pratiche e di
namiche culturali della città, tra le quali il vero e proprio boom
della filosofia ad Atene nella seconda metà del v secolo a.C. Lu
ciano pare invece voler definitivamente liquidare, letteralmen
te liquidare, a costo di scontare e quasi regalare.
Da una scena di piazza all'altra, dal mercato al bagno di fol
la dello spettacolo pubblico: eccoci nel Peregrino. Ed è un ve
ro pullulare di persone, un trionfo del pigia-pigia che culmina
nel parapiglia generale, al punto che Luciano ammette di es
sersene fuggito, a un certo punto, per il timore di venir schiac
ciato e calpestato. D'altra parte siamo, nel Peregrino, alle Olim-
6. Che Dario del Corno evoca nella sua introduzione all'edizione Rizzo·
li delle Vite ( cfr. Le maschere della filosofia, introduzione a Luciano, I filosofi
all'asta, Il pescatore, La morte di Peregrino, Rizzoli, Milano 2004, pp. r-rv, in
particolare p. m), riconoscendo in Strepsiade Io stampo, se così si può dire,
dei compratori lucianei.
7· Sull'Atene delle professioni e il ruolo che la scrittura filosofica occupa
in essa è fondamentale D . Lanza, Lingua e discorso nell'Atene delle professio·
ni, Liguori, Napoli 1979.
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piadi, l'occasione pubblica più affollata 8 dell'intero mondo
greco. Perché Peregrino, filosofo cinico che ha praticato tutte
le possibili vie della filosofia e a un certo punto si è pure con
vertito al cristianesimo, ha scelto proprio il grande scenario
delle Olimpiadi per allestire l'ultima delle sue già tante rap
presentazioni: il proprio rogo. Lo si vede bene: se nelle Vite la
scena da piazza era il mercato degli schiavi, qui è lo spettacolo
di massa. C'è intanto la declamazione pubblica dei filosofi pre
dicatori, come è il caso di Teagene, che, nel ginnasio di Elide,
in cui confluiscono e defluiscono i viaggiatori alla volta di
Olimpia e dei giochi, sbraita con voce chioccia e catarrosa da
vanti a uno stuolo di teste le sue esortazioni alla virtù e con
clude con l'annuncio dell'apoteosi del divo Peregrino. Ed è
uno spettacolo di scalmane retoriche irrorate di copiosissimi
sudori e di urla tonitruanti, di lacrime, singhiozzi e chiome ar
tatamente strappate, sicché nell'immagine di questo vocifera
tore fracassone risuona tutto il tumulto della piazza nella sua
sgangherata scompostezza, nel suo sciamare e riconfluire
senz'ordine né argine: in breve, siamo al circo. Ma la vita di Pe
regrino in generale, così come la racconta il secondo, anonimo
oratore salito sulla tribuna subito dopo Teagene, è un inces
sante darsi in pasto al pubblico, al pubblico più grande possi
bile: persino il carcere, il carcere in cui viene rinchiuso, anzi,
egli stesso fa di tutto per venir rinchiuso come sovversivo cri
stiano onde far parlare di sé la gente, è un luogo stipato di ac
coliti, donne, bambini, avventori, un va e vieni incessante - e
come non ricordare, per contrasto, il carcere-cenacolo del Pe
done platonico, dove pochissimi entrano, soltanto gli iniziati
alla filosofia, e nessuno che non sia, oltre che maschio adulto e
filosofo, sincero amico? Ma non solo. C'è la recita interpreta
ta davanti alla cittadinanza tutta di Pario, la città natale di Pe-
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regrino, in abiti cinici, sulla questione dell'eredità; c'è il perio
do egiziano in cui il nostro, in perfette sembianze d'asceta in
diano, si espone a pubbliche dimostrazioni di martirii corpo
rali, stravaganti esercizi penitenziali e, beffa suprema, clamo
rose ostensioni d'indifferenza al mondo, come, ad esempio,
masturbarsi davanti alla gente. C'è ancora la storia dell'espul
sione da Roma, che lo fa balzare al vertice del pettegolezzo
giornaliero; nonché l'insensato attacco a Erode Attico, grande
e amato benefattore di Olimpia - e in Olimpia medesima da
vanti al più gran concorso di folla -, quel celeberrimo oratore
e ricchissimo costruttore dell'acquedotto, il quale, per la pri
ma volta, portava l'acqua nella città dei giochi panellenici, dis
setando migliaia di persone e risolvendo l'eterno problema sa
nitario che vessava il grande concorso olimpico... e tutto per il
gusto di farsi chiacchierare dalla massa, a rischio persino del
linciaggio collettivo! E poi c'è il gran finale: il rogo, preceduto
da un ultimo bagno di folla. È il culmine dell'intero racconto:
innumerevoli sono i convenuti a sentire le ultime parole di Pe
regrino prima della sua dipartita. Il portico del tempio è zep
po di ascoltatori: una massa in conflitto con se stessa, divisa
com'è tra fautori fanatici e altrettanto fanatici detrattori del fi
losofo asceta in odore di ciarlataneria e santità. Si viene anche
alle mani. Questi a gridare: «Salvati, per pietà! »; quelli a dar
loro sulla voce: «E crepa una buona volta! ». L'atmosfera è vio
lenta e sinistra. A quel punto Luciano commenta:
E tuttavia lui, così com 'era circondato dalla folla, si toglieva il ca
priccio della celebrità guardando dall' alto la massa dei suoi ammira
tori, senza rendersi conto, il poveretto, che molto più grandi sono le
masse che seguono i condannati alla croce o al patibolo 9.
16
supplizio capitale. La gente non viene a sentire il filosofo, vie
ne a vedere Peregrino come si va a vedere un condannato a
morte prima dell'esecuzione. E sul patibolo non sale soltanto
e tanto Peregrino: vi sale anche e soprattutto la filosofia. Ma
in che senso la filosofia, già svenduta sul mercato nelle Vite,
viene ora messa a morte sulla pubblica piazza?
2
Il gioco dell'imitatore e il gioco dell'autore:
la mimesis tra scrittura, filosofia e retorica
17
gioco della polyp ragmosyne, ovvero l'arte dello scambiare
un'identità, un ruolo, una prerogativa, un lavoro con un altro
o con altri. Ma la taccia di polypragmosyne arriva a investire
anche alcune eminenti figure intellettuali. Il sofista, così come
è descritto da Platone nelle prime pagine del dialogo omoni
mo, è il campione della polypragmosyne, e viene sinistramen
te dipinto, tra l'altro, come un "rivenditore al dettaglio di no
zioni", come un "mercante dell'anima", su tutto uno sfondo
di mestieri, mestierini e mestieracci che non possono altrove
pullulare e prosperare se non nelle piazze cittadine II. Per non
parlare dei poeti, e specificamente degli autori di teatro, di
pinti come "uomini molteplici" 12 che sanno imitare ogni ge
nere di cosa.
Eccoci dunque al punto: la piazza, che sia mercato, teatro,
festa cittadina, giochi, comizio, è il luogo dove un uomo può
essere molte cose e molte cose possono coesistere in un solo
uomo, dove l'uno e il molteplice si sovrappongono e si
confondono, dove, meglio, non esiste l'essere perché l'uno
non è più uguale a se stesso e dunque si frange e si rifrange in
una multiformità in cui tutto è e non è, in cui tutto è appa
renza e rappresentazione. Da Platone in poi questa dimensio
ne prende il nome di mimesi.
Nelle sue Vite Luciano mette in scena una vendita al mer
cato. Ma che cosa si vende? Vite filosofiche. E tuttavia questa
risposta, che parrebbe del tutto immediata, abbisogna di più
d'una riflessione. Luciano orchestra infatti un gioco sottile,
uno scintillio intermittente, si direbbe, a fior di pagina. Si ven
dono sì vite, ma noi lettori siamo messi ognora di fronte a un
personaggio parlante, di foggia sempre strana, di abitudini e
opinioni ancor più strane. Il personaggio non ha nome pro
prio. Il primo è definito "pitagorico", il secondo "sozzone del
Mar Nero", il terzo "cirenaico", la coppia del quarto e del
18
quinto "quello di Abdera e quello di Efeso", il sesto "l'Ate
niese", il settimo "l'epicureo", l'ottavo "quello del portico", il
nono "il peripatetico", il decimo "lo scettico". E questa ano
nimia è assai significativa, perché suggerisce l'assoluta generi
cità della figura che di volta in volta sentiamo parlare. Che
senso ha dunque questa genericità e che cosa, alla fine, viene
messo in vendita, vite o personaggi? Il fatto è che Luciano
sfrutta tutte le ambiguità che la lingua gli consente. Essendo
in greco "vita", bios, di genere maschile, si apre l'arco di una
straniante sovrapposizione tra la "vita" e l' "uomo", sicché,
quando Zeus o Ermes dicono, ad esempio, "il pitagorico",
possono indicare contemporaneamente il personaggio o la vi
ta. Tale identificazione non lascia dubbi sulla consistenza del
personaggio che ci troviamo di fronte: essendo la vita puro e
astratto paradigma, anche il personaggio risulta essere pura
immagine, vuoto simulacro, animazione e simulazione priva
di verità '3• E si tratta, sia nel caso della vita che del personag
gio, di repliche, di copie, per meglio dire di stereotipi. Perché
è il gioco dello stereotipo quello che interessa giocare a Lu
ciano e per uno scopo ben preciso. Poiché non esiste stereo
tipo senza che ne esista l'originale, il lettore è solleticato a ri
trovare di questi vuoti modelli il vero archetipo. Sicché egli si
diletterà di scorgere Pitagora nel pitagorico, So erate nell'ate
niese, Crisippo nello stoico, Aristippo nel cirenaica e così via.
Ma gli originali sono irrimediabilmente perduti. Nel leggere
le Vite viviamo così uno straniante intrattenimento orchestra
to tra l'allusione all'originale assente e la ripetizione della co
pia: in altri termini ancora, assistiamo all'ingannevole moto di
andirivieni tra l'inimitabile dell'originale e l'imitato infinita
mente imitabile della copia, per ritrovarci infine calati intera-
19
mente nel territorio della mimesi così come essa è definita dal
Platone di Repubblica X'4.
Dal pullulare di questa stordente molteplicità di copie pas
siamo alla scena del Peregrino. Lì il protagonista è uno solo, il
solo Peregrino. Ma Peregrino è uno? Il secondo nome di Pe
regrino è Proteo, il celebre demone egiziano di america me
moria che sa trasformarsi in ogni forma voglia, persona, cosa,
elemento naturale:
20
pedocle, Diogene, Antistene, Socrate, Cratete, Musonio, Dio
ne, Epitteto, tra i filosofi, nonché, tra i vari esempi orientali di
sapienti ispirati, Cristo e i brahamani indiani. Persino i disce
poli di Peregrino iterano l'esempio dei discepoli di Socrate nel
carcere. Infine, e forse soprattutto, Peregrino è un attore: tut
to, nella vita di Peregrino, è messa in scena, tragoidia, anzi, la
sua intera vita è rappresentazione, drama. Ma, come si evince
chiaramente dal racconto di Luciano, nulla di tutto questo ap
parato è originale. Il teatro e il repertorio di Peregrino sono
mera copia. Peregrino non è che un imitatore.
E se poi proprio ha le smanie di far l'Eracle sulla p ira perché non sce
gliersi, quatton quattoni, un bel monte con tant'alberi e colà darsi
fuoco in santa pace, tutt 'al più portandosi dietro il suo Filottete, ti
po Teagene? N o ! Lui, a Olimpia, nel più gran parapiglia della festa,
e poco ci manca che lo faccia in scena, va a darsi fuoco ! 20
Tra l'altro, Eracle , se anche ha osato fare quel che ha fatto, è perché
il sangue del centauro l'aveva dissennato e gli mangiava l'ossa. E que
sto qui, che motivo ha per gettarsi nel fuoco? Per Zeus ! È che vuoi
fare pubblica prova di sopportazione come i brahamani. L'ha detto
Teagene che gli somiglia, come se anche tra gli indiani non ce ne fos
se di matti vanagloriosi . Ma allora che li imiti d avvero ! Perché i
brahamani non si gettano a piedi giunti sulla pira ! Lo dice Onesicri
to, il comandante di Alessandro che racconta del rogo di Calan o ! Eh
no: loro, una volta innalzata la pira, le si mettono vicino, senza muo
vere un muscolo, e si fanno rosolare. Soltanto dopo ci salgono sopra
con dignità, e bruciano senza muoversi neppur d 'un fiato ! 21
21
Nelle Vite siamo dunque messi di fronte a un dé/ilé di co
pie le quali, con il Peregrino, trovano la loro unitaria rappre
sentazione in quella copia che contiene tutte le altre possibili:
Peregrino è infatti il paradigma indefinitamente e infinitamen
te plurivoco in cui tutti gli altri paradigmi possono convivere.
Va da sé che si tratta qui, nelle Vite come nel Peregrino, di
pessime imitazioni. E questa degradazione prende la forma di
una follia miserabile: quelle brutte copie di filosofi che ci ve
diamo sfilare davanti non sono che monomaniaci in balia del
loro ticchio: il riso ossessivo e incessante del democriteo, il
pianto dirotto e continuo dell'eracliteo, l'impenetrabile cata
tonia del pirroniano, l'iracondia violenta e sporcacciona del
cinico, la logica delirante e surreale dello stoico, i progetti vi
sionari e la fissazione erotica del socratico, la stramberia mi
sticheggiante del pitagorico... sembra di visitare, se così si può
dire, la corsia di un manicomio! Quanto a Peregrino, anche
lui è un povero, biasimevole pazzo in preda all'incontrollabi
le tara della mitomania, la kenodoxia, che lo porterà all'ulti
mo, folle gesto suicida. E c'è un famoso passo della Repubbli
ca io cui la pratica dell'imitazione, rappresentata per antono
masia dal teatro, non è altrimenti che una fiera di folli. Quan
do Socrate identifica colà tragedia e commedia con la ripro
duzione di storie vergognose agite da vigliacchi, malfattori,
criminali che si nuocciono a vicenda, tra lo strepito di inaudi
ti rumori di scena- muggiti di tori, nitriti di cavalli, scrosci di
tuoni -, chiedendo poi al suo interlocutore, Glaucone, se mai
siano tali i modelli da offrire alla città, questi risponde indi
gnato: «Ma non avevamo già stabilito di vietare queste cose da
folli e la loro imitazione?»22• D'altra parte, come Platone in
segna a Luciano, l'imitazione non può mai essere buona...
Ma perché, appunto, rimettersi sulle orme del grande fi
losofo di Atene? Perché rianimare il vecchio teatro platonico
della mimesi e dell'imitazione? Là dove è giocoforza che la fi
losofia e la sua verità vincano? E poi Luciano, proprio lui, un
22
retore, nemico per vocazione, verrebbe da dire, di quel teatro
e della sua filosofia?
Già! In effetti, grava su Luciano la fama universale di "re
tore". E, forse, Luciano sarebbe d'accordo, se "retore" si di
cesse, almeno, nel senso in cui lo si diceva al suo tempo, quan
do non si distingueva, anzi, non si voleva più distinguere tra re
torica e filosofia, come Filostrato avrebbe poi, di lì a poco,
sancito23• Il fatto è che nel momento in cui oggi si definisce
Luciano "retore", lo si dice, seppur involontariamente, nel
senso platonico, sicché egli ne esce come un artigiano della
parola, magari brillante, ma senza vera autonomia intellettua
le. Eppure questo è, evidentemente, soltanto un pregiudizio.
Forse, invece, è proprio il contrario. Forse, la rianimazione
del fantasma platonico è proprio il segno di una grande auto
nomia intellettuale che, davvero, sarebbe arduo distinguere
da un dirompente atto filosofico. Sulla scena delle Vite e del
Peregrino, l'imitazione, con la sua giostra di copie, modelli e
originali perduti, è un sottilissimo stratagemma. Luciano gio
ca a occupare il posto dell'osservatore platonico, sotto menti
te spoglie, per rovesciarne, alla fine, il punto di vista. Come?
Con una mossa tanto impercettibile quanto fatale: «soccor
rendo la falsità della falsa sembianza, la somiglianza stessa del
simulacro»24, e facendo quindi silenzio, un silenzio assoluto,
definitivo, sulla verità. Sicché, qualsiasi distinzione platonica
tra filosofia e retorica viene immancabilmente a cadere, come
anche, di conseguenza, tra mimesi e verità. E se mai qualcosa
23. Cfr. Vite dei so/isti, I, 481 e 484, dove, in un contesto che, allusiva
mente, ma inequivocabilmente, polemizza proprio con il non sapere di So
crate, la sofistica è detta essere «retorica filosofeggiante>>, mentre la filosofia
non si distingue da quest'ultima che per l'ostentazione della propria socrati
ca ignoranza. Su tutto questo cfr. le osservazioni importanti di B. Cassin, Du
faux ou du mensonge à la fiction , in Ead. (éd . ) , Le plaisir de parler. Etudes de
sophistique comparée, Minuit, Paris 1986, pp. 3-29, e altresì Ead . , L'ef/et so
phistique, Gallimard, Paris 1995.
24. Sono le parole di Miche! Foucault che introduce il Deleuze lettore del
Sofista platonico, cfr. Theatrum Philosophicum, introduzione a G. Deleuze,
Dzf/erenza e ripetizione, trad. it. Il Mulino, Bologna 1971, pp. VII-XXIV, in par
ticolare p. IX.
23
di platonico rimane ancora in piedi, dopo questo crollo cla
moroso, è ormai, senza scampo, in senso antiplatonico. Se si
può ancora dire "retorica" in senso platonico, lo si dirà della
filosofia e contro la filosofia. Se per Platone "retorica" signi
fica, da un lato, persuasione fallace e, dall'altro, insegnamen
to professionalizzato, per Luciano "retorica" sarà piuttosto
ogni aspirazione morale alla e della filosofia. Lo si vede mol
to bene dalle Vite. Le vite paradigmatiche, il bios pitagorico,
cinico, epicureo, stoico, scettico, socratico, sono appunto mo
delli morali. E questi modelli non vengono squalificati come
vuote copie soltanto, né tanto, perché usate e abusate, trite e
ritrite, malintese e mal proposte, nonché imitazioni di imita
zioni ad in/initum. Le vite morali sono retorica per il princi
pio su cui sono fondate: la pretesa delle distinzioni di merito,
la pretesa dell'esemplarità, la pretesa del giudizio di valore, la
pretesa di indicare la via maestra alla virtù. La critica di Lu
ciano è dunque molto profonda e più radicale di quanto non
appaia. Tutte le filosofie antiche sono infatti costruite su que
ste posizioni di principio: lo sono tutte quelle che noi oggi
usiamo chiamare "filosofie ellenistiche", lo è per molta parte
quella aristotelica, e lo è sopra tutte e prima di tutte quella pla
tonica con le sue discriminazioni tra il buono e il cattivo, tra
il vero e il falso, tra il giusto e l'ingiusto, tra il politico e il ti
ranno ecc. e con le sue costruzioni di archetipi valoriali, come
il perfetto filosofo, il perfetto virtuoso, la perfetta città ecc. La
critica di Luciano risale dunque dalle derive, dalle copie, dal
le imitazioni sino ai grandi maestri del passato, sino agli origi
nali assenti echeggiati in quelle perdute derive, in quelle brut
te e malfatte imitazioni, per svelare e forse mettere sotto ac
cusa la platonica retoricità della filosofia tout court, di tutte le
filosofie, sia quelle d'autore sia quelle contraffatte e falsifica
te dai ripetitori e dagli imitatori, quando esse pretendano di
edificare e ammaestrare, di farsi guida alla saggezza. Ed è nel
Peregrino e attraverso la figura di Peregrino, ennesima e pes
sima imitazione, che Luciano dà il nome a questa eccedente,
velleitaria, universale pretesa della filosofia: "vanagloria", ke
nodoxia . Il rogo di Peregrino è dunque il brucia-tutto, il falò
24
della vanità filosofica, della vanagloria che intrinsecamente in
nerva la filosofia nel suo retorico sogno di virtù, perché non
esiste, secondo Luciano, alcun sogno di virtù che possa dirsi
legittimo.
Non c'è più dunque alcuna speranza per la filosofia? C'è
forse mai un altro modo di fare filosofia che non sia quello di
ascendere sul piedistallo della virtù?
C'è. C'è la scrittura. La scrittura è d'altra parte legata alle
sorti della filosofia da quando Platone ha scritto i suoi dialo
ghi. E, specificamente, la scrittura filosofica di Platone non
scaturisce da altro che dall'intellettualizzazione del raccon
to25• È qui che Platone, rifiutato e avversato da Luciano in
quanto padre morale, di Luciano resta, tuttavia e nonostante
tutto, il grande, forse il solo unico vero ispiratore: nella scrit
tura come gioco intellettuale. È quel Platone che, nonostante
l'etica e forse malgrado se stesso, riconosce e svela appunto la
natura Iudica, intellettualmente Iudica, della sua scrittura fi
losofica nel Fedro26• La salvezza della filosofia sembra dunque
consistere per Luciano non nella sottomissione a quel magi
stero che si chiama "paternità dell'anima", ma nella scrittura
come affermazione della propria dignità d'autore. Perché con
Luciano il solo modo di essere filosofi è essere autori. È que
sta la mimesi che non è più imitazione e riproduzione di mo
delli, ma rappresentazione autoriale. Nelle Vite e nel Peregri
no, Luciano giustappone dunque questi due piani della mi
mesi sottoponendoli all'arbitrato del suo lettore: il piano del
la mimesi in quanto gioco dell'imitatore, che è quello delle vi
te morali infinitamente imitabili e della vita imitata da più mo
delli, e il piano della mimesi in quanto gioco dell'autore che è
il racconto stesso di Luciano, il libro di Luciano che noi let
tori, tenendolo nelle nostre mani, andiamo leggendo.
25. È ciò che ho cercato di mostrare nel mio libro platonico, cfr. M. Stel
la, I.:illusion philosophique. La mort de Sacra te sur la scène des Dialogues pla
toniciens, Millon, Grenoble 2006.
26. Cfr. 276c-277a.
25
3
Filosofia della parodia
26
giunga all'azzeramento del senso. Quale rigenerazione se
mantica allora?
Evidentemente, Luciano vuole mettere il suo lettore di
fronte a un'impasse, vero e proprio cercle vicieux, da cui è im
possibile uscire se non supponendo che la sua parodia evada
i limiti del letterario inteso stricto sensu come fatto retorico e
linguistico, come parole 30, per diventare langue, dimensione
intellettuale.
Quando si è terminata la lettura delle Vite e del Peregrino
si ha l'impressione di un grande vuoto. Davanti a noi si erge un
cumulo di macerie. Irrecuperabili brandelli, disperati lacerti,
inservibili frustoli di un'intera cultura, quella greca antica e
"pagana" ormai al suo definitivo tramonto, cultura che viene
identificata tout court da Luciano con la filosofia, quasi la filo
sofia fosse, e forse non a torto, l'espressione più significativa di
quel mondo vicino a finire. C'è di che rimanerne inquietati.
Dell'antica saggezza3' Luciano sembra proprio non salvare
nulla. Viene in mente uno dei più tetri, ma non sarebbe un'e
sagerazione dire il più macabro, tra gli scritti di Luciano, I lon
gevi, un'operetta nera costruita come una rapsodia di iscrizio
ni tombali che recano il nome del defunto, la sua condizione
in vita, il gran numero d'anni che visse. Si tratta di grandi re e
di grandi saggi del passato, tra cui filosofi, retori e storici. Ce
li vediamo sfilare davanti in tutta la loro funerea decrepitezza
in un trionfo del memento mori e della vanitas mundi. E viene
altresì in mente la provocazione di un celeberrimo filosofo del
la nostra modernità, S0ren Kierkegaard, non a caso assiduo
lettore di Luciano, che, sulla scorta dei Dialoghi dei morti lu-
30. Per cui cfr. l'analisi di A. Camerotto, La metamorfosi della parola: stu
di sulla parodia in Luciano di Samosata, Istituti editoriali e poligrafici inter
nazionali, Pisa-Roma 1998.
3 1 . Agli occhi di Luciano, il mondo che lo precede e la sua cultura non
sono meno " antichi " e " classici " che ai nostri. Per questo processo di " clas
sicizzazione" cfr. le prospettive aperte dal volume curato da}. I . Porter, Clas
sica! Pasts: The Classica! Traditions o/ Greece an d Rome, Princeton University
Press, Princeton 2006.
27
cianei, immagina di leggere alcuni suoi discorsi al cospetto d'u
na spettrale società letteraria, il Circolo notturno dei sympara
nekr6menoi, ovverosia dei commorientes, percorrendo, di con
ferenza in conferenza, il vasto territorio dell'immaginario oc
cidentale divenuto ormai un'erma, melancolica, lugubre landa
raccolta intorno a un tristo e solitario sepolcro32• Così sembra
parlare Luciano a noi lettori, quasi fossimo una società di visi
tatori che si aggirano in un paesaggio di rovine come a condi
videre con lui, nostra guida, il gusto del necrologio culturale.
Tutto in Luciano sembra morto, estinto. Nelle Vite e nel Pere
grino, in particolare, la saggezza ha pareggiato il conto con l'i
diozia, se addirittura non è venuta a identificarsi con essa, la
virtù ha pareggiato il conto con la vergogna. Nulla resta del
l'antico: sembra che Luciano effettivamente rompa un autore
vole schema di civiltà, la continuità tra antichi e moderni, in
nome della quale, assegnando il necronimico agli antenati
estinti e il tecnonimico ai loro figli simbolici, si inventa un pa
trimonio culturale da ereditare e si elabora un'identità stori
ca33• All'opposto dei letterati, dei filosofi e degli scienziati ap
partenenti alla prima generazione dell'ellenismo34, Luciano
non si riconosce mai come figlio del passato e impedisce a noi
stessi di farlo, non ricompone mai le rovine lungo una linea ge-
32. Cfr. Enten-Eller, a cura di A. Cortese, trad. it. Adelphi, Milano 1990',
vol. IL Si tratta delle tre conferenze Il riflesso del tragico antico nel tragico mo
derno, Silhouettes e Il più infelice. Per l'espressione symparanekr6menoi co
me calco lucianeo cfr. la nota del curatore a p . 196. Per l'immagine dell'Occi
dente come sepolcro " del più infelice" cfr. ivi, p . u6: «Mettiamoci in marcia,
cari symparanekr6menoi, come crociati, non verso quel santo sepolcro del fe
lice Oriente, ma verso questa tal triste tomba dell'infelice Occidente».
33· Processo ben descritto da J. Assmann, La memoria culturale. Scrittu
ra, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, trad. it. Einaudi, To
rino 1997. Ma cfr. anche le fondamentali riflessioni di Claude Lévi-Strauss nel
suo Il pensiero selvaggio, tra d. i t. Il Saggiatore, Milano 1964, pp. 41-4 e quelle
di Tristi Tropici, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1975, p. 217.
34· Per la posizione assunta dal mondo intellettuale del primo ellenismo
tra III e n secolo a . C . rispetto alla tradizione antica, cfr. M. Stella, Il mito co
me costruzione dell'antico tra narrazione, sapere e ideologia. Il racconto degli
Argonauti, in " L'Immagine riflessa " , nuova serie, V, 1996, pp. 75-108 .
28
nealogica35• Sicché, nel leggere Luciano, veniamo rimandati a
noi stessi, nella consapevolezza che si tratta di ben poco36• Ma è
proprio in questo punto, nel punto di più alto annichilimento,
che si apre la vista su un orizzonte al di là delle rovine. Perché
se è vero che le rovine rimangono a terra, lì, davanti a noi, per
sempre, è anche vero che esse ritornano o, meglio, continuano a
ritornare. E la questione del ritorno diventa allora centrale. Di
opera in opera, di testo in testo, vediamo ininterrottamente sfi
lare al nostro cospetto queste ombre, rianimate dalla scrittura di
Luciano. Che vuol dire, dunque, l'interminabile parata di spet
tri del tempo andato, l'incessante rassegna delle macerie com
pilata e ricompilata di volta in volta? Vuol dire che il presente
non si distingue più dal passato, perché gli è immediatamente
contemporaneo. Si prenda ad esempio il caso della vita eracli
tea. Tutto ciò che essa dice al cliente è un centone di citazioni
dall'ipotetico grande libro di Eraclito sulla natura. L'antico Era
clito convive inestricabilmente dentro e con la sua folle, assurda
copia piangente. La vita di Peregrino, poi, è un esempio pre
sente di come il contemporaneo si autolegittimi nella straniante
condivisione con le morte esemplarità dell'oltretomba sapien
ziale. E ciò è possibile perché il mondo che Luciano descrive,
potremmo dire con il Nietzsche del Crepuscolo degli tdoli, è ri
diventato fabula: «Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: qua
le mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? ... Ma no! Col
mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente.'» 37•
Il mondo cui Luciano pensa è fabula, cioè "qualcosa che
si racconta e che non esiste se non nel racconto"3 8• Mythos, di-
29
rebbero i Greci. Luciano ha demolito il mondo vero che la fi
losofia pretenderebbe di rappresentare, cioè il mondo della
verità e della virtù. L'antologia platonica è divenuta impossi
bile, perché non esiste più il vero essere: chi e che cosa è il ve
ro Eraclito? Chi e che cosa il vero Diogene? Chi e che cosa il
vero Socrate? La morale è divenuta impossibile perché non è
più esemplarmente inimitabile, come dimostra l'imitazione
polimorfa di Peregrino. Ma la fine della verità e della morale
porta con sé anche l'apparenza. Poiché l'essere e la virtù sono
diventati retorica, cioè imitazioni, la retorica, luogo per eccel
lenza, secondo Platone, della mimesi imitativa, dell'opinione,
della falsa parvenza, non ha davvero più ragione di essere
chiamata tale. E ciò che resta è questo continuo ritornare del
racconto, in cui rivivono contemporaneamente il presente e il
passato senza distinzione di valore. Potremmo dire ancora
con Nietzsche «incipit parodia» 39 • È qui che inizia, infatti, che
si dischiude la dimensione parodica della scrittura lucianea:
nel ritorno del racconto. Anzi, di tutti i racconti possibili. Poi
ché non è dato parlare di un solo racconto, ma soltanto di
molti racconti, così come non è dato parlare di un mythos, ma
soltanto di molti mythoi, e poiché essi sono sempre compre
senti in quanto non hanno più tempo, la scrittura di Luciano
è coesistenza di molte storie l'una insieme, dentro, contro l'al
tra nello spazio che era occupato dall'antologia e dalla mora
le, dalla filosofia e dalla retorica. Possiamo chiamare il rac
conto anche "scrittura"40• L'uno e l'altra si coimplicano e si
identificano con la parodia. La rigenerazione semantica in-
39· Cfr. La gaia scienza, trad. it. Adelphi, Milano 1977, p. 28. È la prefa·
zione del 1886, par. I, alla seconda edizione.
40. Con il Deleuze acutissimo interprete delSo/ista platonico e dell'idea
di mimesi i vi sviluppata, potremmo dire che la scrittura, superando il cerchio
della somiglianza, si fa simulacro o fantasma: «Il simulacro o fantasma non è
semplicemente la copia di una copia, una somiglianza infinitamente vaga,
un'icona degradata . Se il simulacro produce un effetto esterno di somiglian·
za, lo fa come illusione, [. .. ] ha interiorizzato la dissimilitudine, la divergen·
za dei suoi punti di vista, talché mostra più cose, racconta più storie alla val·
ta>> (Dz//erenza e ripetizione, cit. , p. 207, corsivo mio ) .
30
dotta dalla parodia su cui ci interrogavamo all'inizio consiste
dunque nella legittimazione senza frontiere del racconto e del
la scrittura . E questo crollo delle frontiere non è additato sol
tanto da Luciano. Se ne accorge anche la filosofia del suo tem
po. Se ne accorge specialmente un filosofo d'eccezione, Mar
co Aurelio, che siede sul soglio imperiale:
Prova a pensare, e mettili l'uno in fila all' altro, tutti i più svariati ge
neri d'uomo, uomini dalle più diverse occupazioni, uomini dei più
diversi popoli, uomini ormai morti, fino ad arrivare a Filistione, a Fe
bo e a Organione. Ora considera tutte le specie dei viventi. Noi dob·
biamo andare in quel luogo in cui sono andati tanti straordinari re·
tori, tanti venerabili filosofi, Eraclito, Pitagora, Socrate, e prima tan·
ti eroi, e poi tanti condottieri, tiranni . . . E oltre ad essi Eudosso, lp
parco, Archimede . . . e ancora altri uomini d'ingegno, uomini magna
nimi, uomini solerti, malandrini, arroganti, uomini che si son fatti
beffe di questa nostra vita umana soggetta a morte ed effimera, co
me Menippo, e quant'altri . . . Pensa che tutti costoro giaccion o diste
si da tempo. Che c'è di terribile in questo per costoro? E per chi non
ha nemmeno un nome? C'è una cosa sola che ha davvero valore: vi
vere secon d o verità e giustizia mostrandosi benevoli anche con i
mentitori e gli ingiusti 41•
41 . Marco Aurelio, Pensieri, VI, 47· E questo è solo un esempio dei molti
che si possono trovare nella scrittura dell'imperatore filosofo.
31
Ne rimandai indietro molti dicendo che ormai era tutto finito, tranne
quelli che erano proprio fanatici e volevano vedere il posto del rogo
e magari raccogliere qualche reliquia. E che barba star lì a racconta
re e rispondere a tutte quelle domande particolareggiate ! Che se poi
ne incontravo uno sveglio, gli raccontavo le cose così nude e crude co
me le racconto a te, ma se ti beccavo uno di quei gonzi pronti a bersi
qualsiasi cosa, gli mettevo in scena tutta una storia di mia invenzione,
che non appena la pira fu accesa e Proteo ci si gettò sopra, subito si
sentì un gran terremoto e un boato e dal centro del rogo si alzò in vo
lo un avvoltoio dicendo con tonante voce umana: «La terra lascio e
l'Olimpo attingo». E loro restavano lì istupiditi, si gettavano a terra
in ginocchio e mi chiedevano se l'avvoltoio era andato a est o a ovest:
io gli rispondevo quello che mi veniva in mente lì per lì 42 •
L'aspetto del vecchio, il suo cultus, mal cela in lui il filosofo 44.
Ebbene, questo filosofo, venerando e canuto dalla lunga bar-
32
ba bianca, racconta le stesse storie che Luciano aveva appena
finito di raccontare ai ritardatari di prima. È come dire, ciò che
tu raccontz; ciò che tu scrivz; può essere contemporaneamente
raccontato e scritto da un altro, il racconto che tu scrivi può es
sere contemporaneamente scritto da un altro. Si tratta della ri
sposta più potente, e forse la più intelligente, al Fedro platoni
co, là dove Platone tenta disperatamente di bloccare e impe
dire il processo di autolegittimazione del racconto con la me
tafora della scrittura-prole talora legittima talora bastarda di
un padre assente, l'autore45• Una risposta, quella di Luciano,
immancabilmente parodica. Anzi la risposta della Parodia
stessa, se questa potesse mostrarsi in una prosopopea: procla
miamo una grande amnistia narrativa in cui vengano cancella
ti tutti i debiti morali e tutte le forme di discendenza. E guar
diamoci le spalle: nel mondo della fabula potrebbe essere che
l'autore del mio racconto sia uno diverso da me!
4
Modelli e palinsesti parodici
rale accostare questo vegliardo contaballe del Peregrino al vecchio canuto fi
losofo che colà compare ( cfr. PAR. 5 ) , anch'egli apparentemente credibilissi
mo, in realtà un bugiardone di prima categoria.
45· Cfr. Fedro, 275d ss.
46. Cfr. G . Genette, Palimpsestes, Seui!, Paris 1982.
47· Per gli assunti teorici da cui parte Maria Grazia Bonanno nella sua
analisi della parodia aristofanea, cfr. Metateatro in parodia, in Ead . , I.:allusio
ne necessaria, Ateneo, Roma 1990, pp. 241 -75.
33
ideologema platonico: il legame necessario tra morte e magi
stero sapienziale48 . Sicché, sullo sfondo del Peregrino sta il Pe
done, scopertamente evocato, mentre il racconto di Er dal de
cimo libro della Repubblica, per quanto meno dichiaratamen
te, costituisce il fil rouge delle Vite.
Tutto il Peregrino è un controcanto del Pedone. Ma perché
proprio il Pedone? Perché Luciano è un acutissimo ricettore
della scrittura e, insieme, della filosofia platonica, ma, soprat
tutto, il suo più brillante smascheratore. Come tale, Luciano
ha ben presente che il Pedone è l'opera in cui Platone, all'in
terno della sua scrittura e più che in ogni altro suo dialogo,
fonda una volta per sempre l'autorevolezza della parola filoso
fica; come tale, Luciano sa altrettanto bene che tutta la tradi
zione filosofica successiva riconosce nel Socrate del Pedone il
modello per eccellenza del saggio: non solo senza Socrate, ma
specificamente senza il Socrate del Pedone non esisterebbe
quell'archetipo normativo di sapiente che tutte le scuole di
pensiero ellenistico, in primis la stoica e l'epicurea, sono anda
te modellando e rimodellando per secoli49• Rovesciare il Pedo
ne platonico significava pertanto creare un potente effetto cor
rosivo contro mezzo millennio di filosofia greca.
Dicevamo che tutto del Peregrino rimanda al Pedone. In
nanzitutto il tema della morte come testimonianza e conferma
della parola, d'una morte che, per essere tale, deve necessa
riamente rivelarsi eccezionale. Una morte che susciti ammira
zione, meraviglia. Una morte amministrata dunque da un'a
bile e sorvegliata regia. In altri termini, una morte gestita co
me una messa in scena. E questo è il punto: la commedia del-
34
la morte. La spettacolarità degradata della morte di Peregri
no è uno smascheramento di quella raffinata, discreta, ele
gantemente sommessa, d'alto bordo, verrebbe da dire, del So
crate platonico. E funziona, in senso parodico, come vero e
proprio antidoto, primariamente antiplatonico, e quindi, a ca
scata, come contravveleno di tutte le altre possibili recite del
la morte filosofica5 0• Platone aveva racchiuso il segreto del
magnetismo emanato dalla fine di Socrate tra due parentesi,
tracciate, con estrema consapevolezza dei tempi narrativi e
scenici, l'una all'inizio del dialogo argomentativo vero e pro
prio, al paragrafo 7ob, l'altra alla fine e appena prima dell'as
sunzione della cicuta, al paragrafo n5a. Due parentesi che fos
sero visibili, certo, ma non troppo, che rimandassero certo l'u
na all'altra, ma non in modo eccessivamente stringente e non
troppo da vicino, e soprattutto travestite da boutades di stile
squisitamente socratico5 ':
35
della morte filosoficamente fondata: «Lascia dunque che ti
racconti con ordine la vicenda di questo dramma: sai che
drammaturgo fosse lui [Peregrino] e quanto ha recitato per
tutta la vita, senza paragone con Sofocle e con Eschilo»52•
Così Luciano, già nell'apertura del Peregrino, ci rimanda al
Socrate commediante del Pedone, e quindi continuamente ci
risollecita, per tutto il corso dell'opera, con spie lessicali e con
segnali che rinviano all'orizzonte della rappresentazione tea
trale53 , trasformando le discrete parentesi platoniche in sono
ri proclami. E l'irrisione parodica di Luciano è tanto più forte
quanto più è e rimane sostanzialmente isolata nella tradizione,
ma soprattutto in quanto si oppone macroscopicamente alla ri
cezione stoica del Socrate istrione di Platone, ricezione curia
le, paludata, seria se non seriosa e compunta, che fa del filo
sofo, da Aristone di Chio e Crisippo a Panezio a Cicerone a
Epitteto e Seneca, un distaccato, altero, ascetico, indifferente
attore - beninteso: ognora attor tragico e giammai attor comi
co - sul transeunte ed effimero palcoscenico della vita54. Ha
scritto di recente un celebre storico della filosofia: «Bisognava
che Socrate morisse perché la filosofia incominciasse a vive
re»55. Ed è senz'altro vero. Ma perché questa morte risultasse
36
così eccezionale da essere esemplare e apparire come suprema
testimonianza della verità filosofica, essa doveva mostrarsi co
me frutto di una scelta. Per produrre questo effetto, Platone
sceglie, tra il Critone e il Fedone, la formula del suicidio neces
sarzò 5 6 . Pur potendo evadere dal carcere, pur potendo salvar
si, Socrate decide di restare e di morire. Una ribellione ubbi
diente, un acconsentire alla condanna a morte: un suicidio ne
cessario, appunto. E di qui discende altresì motu proprio il sui
cidio necessario del filosofo stoico, quand'egli si veda costret
to a uscir di vita o perché il tiranno lo obbligherebbe ad atti
nefandi, o perché, per diverse ragioni, egli non potrebbe più
esercitare la sua virtù 57• Di contro, quello di Peregrino è sì un
suicidio, ma un suicidio non necessario e, pertanto, frustraneo,
inopportuno, superfluo, gratuito. Un puro gesto di mitoma
nia, di kenodoxia o doxokopia, attraverso il quale Luciano ri
sponde alla meléte thandtou, all'esercizio della morte platoni
co e stoico: risponde che la morte mirabile del filosofo non di
mostra nulla, non testimonia nulla se non la sua vanità, il suo
vacuo desiderio di innalzarsi al di sopra degli altri uomini, di
additarsi a esempio, a modello da idolatrare. E non è del solo
Luciano la denuncia contro la vanagloria filosofica, contro la
kenodoxia : questo malessere e questo male è avvertito anche
all'interno dello stoicismo stesso, e, significativamente, da un
suo outsider che non fa di mestiere il filosofo e il professore di
filosofia, ma l'imperatore:
Basta questo a condurti lungo la via che libera dalla vanagloria (to
aken6doxon) : a questo punto della tua vita intera, a partire da quand'e
ri giovane, hai ormai perso la possibilità di essere filosofo, perché tu
stesso sai, e molti altri sanno che tu sei stato ben l ungi dall'essere un
filosofo . È una bella macchia, tale che non è più facile per te rag
giungere la fama filosofica. Lo impedisce quello che abbiamo detto
56. Di " morte necessaria" parla a giusto titolo M. M . Sassi, Apologia e Cri
ton e: una vita filosofica, una morte necessaria, in Platone, Apologia di Socrate
Critone, Rizzoli, Milano 1993, pp. p8.
57· Cfr. ancora Vegetti, L'etica degli antichi, cit . , pp. 294 ss.
37
prima. Se dunque ti sei davvero reso conto del problema, lascia per
dere come puoi diventar famoso 58 •
58. Cfr. Marco Aurelio, Pensieri, VIII, r. Per il rifiuto della kenodoxia filo
sofica è fondamentale anche IX, 29.
59· Segnaliamo la critica a Socrate, fondata peraltro su elementi cinici, del
pirroniano Timone contenuta nei suoi Silli. Timone attacca in Socrate il
typhos, la vana superbia, cfr. M . Di Marco (a cura di) , Timone, Silli, Edizioni
dell'Ateneo, Roma 1989. Anche gli epicurei contestavano Socrate per la sua
ironia, ricompresa come superbia e indisponibilità al dialogo, cfr. K. Kleve,
Scurra Atticus: The Epicurean View o/Socrates, in G . Pugliese Carratelli (a cu
ra di) , Syzetesis. Studi sull'epicureismo greco e romano offerti a Marcello Gi
gante, Macchiaroli, Napoli 1983, pp. 227-53. Ma in realtà né la critica epicurea
né quella cinico-pirroniana raggiungono la potenza del dubbio insinuato da
Marco Aurelio e nemmeno la profondità e la radicalità della dissacrazione lu
cianea . Pur distruggendo il modello socratico, Timone non resiste infatti a
glorificare Pirrone contro Socrate, ricostruendo in questo modo il modello
ideale del filosofo e così gli epicurei, biasimando Socrate, non intendevano in
ogni caso discutere l'eccellenza della vita filosofica.
6o. Cfr. Marco Aurelio, Pensieri, VII, 66.
6r. Condivido questa interpretazione con M . Tasinato, Marco Aurelio: va
ne speranze per un'estetica, in " Simplegadi " , VII, 2002, pp. 33-45, in particolare
p. 42, nel vasto panorama di una critica diversamente orientata a salvare co
munque l'idealità socratica. Cfr. ad esempio il commento ad loc. (VIII, r) di P.
Hadot , La citadelle intérieure. Introduction aux Pensées de Mare Aurèle,
Fayard, Paris 1993.
38
sceglie invece la via della profanazione allusiva mettendo in
scena un vanaglorioso impazzito fuori di ogni controllo in cui
si rispecchia, stravolta, la recita del Socrate morente e martire
della verità. Nell'uno e nell'altro caso, con Socrate e al di là di
Socrate, la dignità della filosofia ne esce a pezzi. Luciano sco
pre le carte della sua parodia del Pedone con due segnali:
Proteo venne preso e sbattuto in prigione, cosa che, pure questa, gli
procurò non poco successo in seguito, a lui, al suo mostruoso stam·
po e alla sua sitibonda vanagloria. [ .. .] Già fin dall' alba si potevano
vedere vecchie vedove ed orfani far la posta davanti al carcere. I ca
poccia della setta poi dormivano perfino all 'interno del carcere, ché
le guardie le avevano corrotte per bene. Per non parlare dei pranzi
epuloneschi che vi si facevano e delle letture dai loro testi sacri . E per
giunta il perfetto Peregrino - si faceva ancora chiamare così - veni
va da loro apostrofato col n ome di "novello Socrate " 62 .
39
rovesciamento della dinamica emotiva che dentro gli animi dei
discepoli accompagna, all'interno del Pedone, la recita di So
crate. Là dove, nel Pedone, è tutto un delicatissimo equilibrio
di pianto, riso e sorriso, tutta una sorvegliatissima calibratura
di turbamento e serenità, distillato dal narratore Pedone nella
celeberrima formula del thaumdsion pathos 64, della sensazione
straordinaria, nel Peregrino, dall'inizio alla fine del dialogo, è
invece un tumultuare frastornante di risate sgangherate e a cre
papelle, dell'anonimo narratore, di Luciano stesso e del de
stinatario del racconto, e di pianti da sceneggiata, di Teagene,
nuovo Critone, di urla di prostrazione del pubblico, mentre
la sensazione straordinaria diventa stupore idiota della massa
di ammiratori ai piedi del folle suicida 6 5. Per non parlare poi
delle botte che volano qua e là tra le opposte fazioni del pub
blico di Peregrino, perché Luciano introduce sulla scena - se
quella del filosofo è una recita, che sia spettacolo davvero e fi
no in fondo! - anche i denigratori e gli avversari accanto ai fe
deli discepoli.
Il sottotesto delle Vite è invece costituito, si diceva, dal
racconto di Er contenuto nel decimo libro della Repubblica 66 •
È evidente che le Vite sono l'ennesimo dialogo lucianeo con i
morti e dei morti. Le vite messe in vendita incarnano infatti fi
losofi scomparsi da secoli e ci troviamo dunque ancora una
volta di fronte a uno scenario infero. Ma c'è anche, appunto,
la vendita. Ed è proprio il cortocircuito tra l'aldilà e il merca
to a innescare la memoria della più celebre scena, non di ven
dita, ma di assegnazione delle vite, all'interno dell'intera tra
dizione greca: il sorteggio, klérosis, dei modelli di vita che le
anime dei morti, ai piedi delle tre Parche, devono affrontare
prima di reincarnarsi, così come lo racconta Socrate riportan-
40
do l'esperienza del panfilio Er67. Klérosis, sorteggio, dunque,
quello platonico e non prasis, vendita. Ma la vendita scaturi
sce indubitabilmente dal sorteggio e, anzi, lo sovverte parodi
camente, ché del sorteggio il mercato coglie l'intrinseco ridi
colo, géloion. Già Platone definiva lo spettacolo, thean, di
questo sorteggio «lacrimevole», eleinén, «ridicolo», geloian, e
«perturbante», thaumasian 6 8• Luciano ne focalizza il ridico
lo6 9• Ma che cosa c'è di ridicolo in questa scena platonica? Lu
ciano se lo è chiesto e si è dato una risposta che traluce dalle
Vite. Il sorteggio platonico è una soluzione astuta, un trucco,
per liberare gli dèi dalla responsabilità di segnare il destino
degli uomini. Sicché l'uomo viene lasciato solo con la sua scel
ta, la quale però pare tutt'altro che libera! In quanto deter
minata dal caso, infatti, essa è, piuttosto, necessaria. E se que
sta casualità parrebbe, per un attimo, essere garanzia di ugua
li possibilità per tutti, come il banditore-sacerdote del sorteg
gio a più riprese proclama70, si dice poi tuttavia che soltanto
chi ha saputo praticare nella vita precedente la filosofia e ha
estratto e scelto né tra i primi né tra gli ultimi sarà fortunato e
si aggiudicherà una vita felice. La cosa equivale a dire che so
lo i filosofi hanno la reale chance e il destino di essere felici. Il
gioco del sorteggio è dunque una messa in scena per giustifi
care un'affermazione altrimenti ingiustificabile: l'eccellenza
della sorte filosofica. In perfetta continuità con il Pedone, del
resto: ancora la commedia della morte, anche se questa volta
67. Come è noto, Luciano è d'altra parte solito parodiare scene di viag
gio nell'aldilà. Per le tecniche di questa parodia nella Storia vera cfr. A. Geor
giadou, D. Larmour, Lucian's Science Fiction Nove!. True Histories: Interpre
tation and Commentary, Brill, Leiden 1998.
68. Cfr. Repubblica, 62oa. Ritorna dunque la metafora del teatro anche
nell'oltremondo di Er, come ha finemente indicato Giuseppe Serra nelle pa
gine dedicate alla riflessione generale sul tragico del suo Edipo e la peste. Po
litica e tragedia nell"'Edipo re", Marsilio, Venezia 1994, p. 14.
69. D ' altra parte, che il racconto di Er, in quanto archetipo delle storie
incredibili, stesse sullo sfondo delle incredibili storie narrate nella Storia ve
ra era già opinione dello scoliaste antico.
yo. Cfr. Repubblica, 619b ss.
41
la commedia non si svolge sulla terra, come nel carcere di So
crate, ma nell'altro mondo. Luciano svela e manda in frantu
mi la sottile strategia platonica. Innanzitutto gli dèi non sono
qui soltanto gli organizzatori dell'assegnazione delle vite, so
no i loro venditori, e nemmeno troppo onesti, dal momento
che darebbero via persino l'invendibile, come Democrito ed
Eraclito o Aristippo, e spacciano tutto allo stesso modo per
straordinario: ciascuna vita è, di volta in volta, la migliore di
tutte! E se, nella lotteria oltremondana di Platone, la fortuna
più grande è aggiudicarsi una vita da filosofo, esercitando la
scelta con oculatezza e discernimento, nel mercato infero di
Luciano le vite dei filosofi sono invece assegnate davvero a ca
so, a chicchessia, al primo che si fa avanti e che non sa assolu
tamente nulla di ciò che prende, sicché la reale casualità lu
cianea svela l'apparente casualità platonica e la filosofia per
de così, senza più speranze, ogni sua eccezionalità. Senza più
speranze perché essa viene profanata persino nelle sue plato
niche ascendenze divine e sopracelesti, raggiunta dalla dissa
crazione proprio là dove sembrava essere più al sicuro e defi
nitivamente salvata, là, ai piedi della Necessità cosmica.
Certo, se dietro Luciano c'è Platone, Aristofane sta dietro
entrambi, l'Aristofane delle Nuvole, s'intende. Ma non solo e
non tanto per quello in cui si riconosce il debito di Platone e
quindi di Luciano verso Aristofane: e cioè la risposta polemi
ca e riconsacrante al Socrate degradato delle Nuvole, nel caso
di Platone e del Fedone, e il funzionamento del gioco comico
buffone-spalla in funzione anti-intellettuale, nel caso di Lucia
no, sicché i filosofi che sfilano via via sulla scena delle Vite so
no tutti il Socrate aristofaneo delle Nuvole e i compratori, a lo
ro volta, sono tutti degli Strepsiadi. Questo è senz'altro vero,
ma c'è di più. C'è che Aristofane, per primo, almeno a nostra
conoscenza, e comunque senza dubbio per eccellenza, aveva
tematizzato il legame tra morte e magistero filosofico, facendo
dei discepoli di Socrate, nelle Nuvole, dei morti vivi e di So
crate il loro psicopompo, mettendo così alla berlina la meléte
thandtou, la pratica ascetica e contemplativa della morte in vi
ta, sulla quale la recita del filosofo, la sua pretesa di purezza e
42
di superiorità, faceva perno più che su ogni altra cosa7 1• E con
Aristofane che, di fatto, incomincia la tormentata commedia
del filosofo morente, che Platone torna a far sua e Luciano, sul
confine estremo dell'antico, ritrasmette a noi in senso parodi
co, antiplatonico e anti-filosofico, rinnovando per l'ultima vol
ta, forse, il luccichio della parodia di Aristofane.
71 . Sulla recita del filosofo tra l'Aristofane delle Nuvole e il Platone del
Simposio cfr. A. Beltrametti, Variazioni del fantastico. Aristofane, Platone e la
recita del filosofo, in " Quaderni di Storia " , XXXIV, 1991, pp. 130-50. Diversa e
altrettanto fondamentale è la prospettiva antropologica in cui si muove il li
bro di Diego Lanza dedicato al Socrate comico platonico-aristofaneo come
trasgressore del senso comune, cfr. Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Finoc
chio e altri trasgressori del senso comune, Einaudi, Torino 1997.
72. Su questo sviluppo storico cfr. A . Momigliano, Lo sviluppo della bio
grafia greca, trad. it. Einaudi, Torino 1974 e, per il rispecchiamento della bio
grafia nel genere parallelo dell'autobiografia, M . - F. Baslez, Ph. Hoffmann,
L. Pernot (éds . ) , L'invention de l'autobiographie d'Hésiode à Saint Augustin,
PENS, Paris 1993 .
43
vacità del genere biografico in ambiente cristiano, nei primi
due secoli della nostra era, dove esso prende il nome di "van
gelo". Che cosa è infatti la scrittura evangelica se non biogra
fia? 73 Certo, non soltanto biografia esemplare di una grande
natura - megdlai physeis, diceva infatti il Plutarco delle Vite pa
rallele 74 -, ma piuttosto, e ben più pretenziosamente, vita
esemplare d'una natura divina, anzi dell'uomo divino, figlio
dell'unico grande dio che regge le sorti dell'universo. Dopo gli
studi ancora fondamentali e rimasti sostanzialmente insupera
ti di Hans Dieter Betz75, è evidente che la letteratura evangeli
ca si sviluppa nel solco tracciato dalla biografia filosofico-are
talogica nata intorno alla figura del "sapiente divino e ispira
to". Ma, d'altra parte, basta leggere quel Discorso vero di Cel
so tramandatoci dalla confutazione di Origene per constatare
come era evidentissima agli antichi stessi, agli intellettuali e ai
filosofi di n secolo, l'imitazione evangelica dei modelli biogra
fico-filosofici greci: a più riprese Celso accosta la figura di Cri
sto e le vicende della sua vita a quelle dei grandi sapienti divi-
44
ni, veggenti ispirati, guaritori e maestri di tecniche dell'estasi
come Museo, Orfeo, Zoroastro, Pitagora76 o ancora Zal
moxis77. Ma non c'erano solo gli esempi del passato da oppor
re a quello di Cristo. C'erano anche, tra I e II secolo d.C., esem
pi contemporanei, come quello di Apollonia di Tiana e di Ales
sandro di Abonutico, maghi e profeti divenuti famosi presso
ché in tutto il vasto mondo dell'impero, addirittura adorati co
me dèi, sui quali si diffusero una serie di racconti e scritture
biografiche, testimoniatici oggi dalla Vita di Apollonia di Tiana
di Filostrato, di III secolo, e dall 'Alessandro falso pro/eta dello
stesso Luciano, il quale faceva di Alessandro, nel suo libello,
un successore e perfezionatore degli insegnamenti e della le
zione del grande Tianeo 78. Del resto, assistiamo specular
mente, da parte cristiana e proprio a partire dal II secolo, con
i primi apologisti, alla cristianizzazione del Socrate platonico
secondo il Fedone79, ricompreso come Cristo al cenacolo de
gli apostoli: è un esempio strategico, questo, di come effetti
vamente fosse in corso un sistematico processo di appropria
zione cristiana dei grandi modelli biografici e intellettuali of
ferti dalla letteratura filosofica greca 80. Si diceva dunque, po-
45
co prima, che il fomite della nuova attenzione, da parte greca,
per la biografia filosofica e soprattutto per le sue implicazio
ni culturali dovettero essere proprio l'immagine e la vita di
Cristo nonché il pullulare incontrollabile di scritture biogra
fiche a lui dedicate 8' , note con il nome di vangeli. Il Peregrino
lucianeo va letto, a nostro awiso, anche su questo sfondo. È
vero che non ci sono elementi tali da presupporre nel Pere
grino la lettura dei vangeli, né di quelli sinottici, né di quelli
"apocrifi", anche se bisognerebbe circonfondere queste af
fermazioni di tutta la prudenza necessaria, dato l'enorme nau
fragio della letteratura evangelografica. Ma è altrettanto pro
babile, se non certo, che Luciano non potesse non conoscere
il fenomeno delle scritture evangeliche. Se Celso aveva senza
dubbio lettura diretta del Vangelo di Matteo e del racconto
giovanneo della passione, nonché di più d'uno scritto gnosti
co 82 , non si vede perché Luciano non potrebbe. E a maggior
ragione perché il Peregrino mostra di conoscere il fenomeno
del boom evangelografico, là dove afferma:
"Journal of Biblica! Literature " , CXV, 1996, pp. 449-69 . Il modello cinico è so
prattutto presente in Paolo: cfr. A. J . Malherbe, Paul an d the Popular Philo
sophers, Fortress, Minneapolis 1989 e F. G . Downing, Paul and the Pauline
Churches, Routledge, London-New York 1998. Su Luciano e il cinismo, con
particolare riferimento a Peregrino, cfr. l'ancora valido J. Bernays, Lukian
und die Kyniker, Hertz, Berlin 1879 e H. G. Nesselrath, Lucien et le Cynisme,
in " L' Antiquité Classique " , LXVII, 1998, pp. 121-35.
8 1 . È noto che i vangeli furono ben più numerosi di quelli conservatici dal
la sorvegliatissima e ristretta tradizione sinottica, vangeli che noi oggi definia
mo " apocrifi " , " gnostici " . Cfr. a questo proposito, nell'immenso panorama bi
bliografico, il recente e importante libro di B. D. Ehrman, I Cristianesimi per
duti. Apocrifi; sette ed eretici nella battaglia per le Sacre Scritture, trad. it. Ca
rocci, Roma 2005.
82. Cfr. le osservazioni di Giuliana Lanata in Celso, Il discorso vero, cit. ,
p p . 49- 50.
46
bri sacri e lui stesso ne scrisse molti, mentre quelli lo veneravano co
me un dio83.
47
Questa gente [i cristiani] è d 'incredibile velocità nel far corpo co
mune e in men che non si dica riesce a spendersi completamente. Sic
ché il bravo Peregrino ne ottenne di ricchezze da quelli lì, ma tante
bene, con la scusa che era in carcere, e si racimolò un bel gruzzolet
to ! Quei poveri disgraziati si sono tutti convinti di potersi guada
gnare l'immortalità e la vita eterna, per la qual cosa disprezzano la
morte e vi si danno per lo più spontaneamente ! E poi il loro primo
legislatore, Cristo, li ha convinti d'essere tutti fratelli tra loro, se so
lo una volta si siano convertiti e abbiano rinnegato gli dèi greci per
inginocchiarsi davanti a quel sapiente condannato al palo e vivere se
condo le di lui leggi. Disprezzano tutti i beni materiali allo stesso mo
do e li ritengono comuni, accettando tutti questi precetti senza nes
sun fondato convincimento. Sicché, se un qualsiasi ciurmatore che
sappia l'arte e la parte del proprio tornaconto capitasse in mezzo a
costoro, in men che non si dica si troverebbe ricco buggerando per
bene quei poveri grulli 86•
48
Si tratti di sciogliersi dal corpo o di spegnersi o di disperdersi o di
sopravvivere, l' anima deve essere pronta. E questa prontezza deve
essere frutto di riflessione, non di una forma di militanza, come nel
caso dei cristiani: deve essere, al contrario, razionale, dignitosa e, so
prattutto se si mira alla persuasione altrui, senza teatralità ! 88
8 8 . Cfr. Marco Aurelio, Pensieri, XI, 3· Il termine che abbiamo reso con
" senza teatralità " è in greco atrag6tdos.
8 9 . E dunque non sarebbero diversi dai retori e dai sofisti, in particolare
quelli appartenenti alla cosiddetta Seconda sofistica, secondo l'espressione fi
lostratea, cfr. Vite dei sofisti, I, 27. Sui sofisti di II secolo come attori cfr. M.
Civiletti (a cura di) , Filostrato, Vite dei so/isti, Bompiani, Milano 2002, pp. 46-7.
Centrale è in questo quadro la figura di Elio Aristide, di cui cfr. ad esempio
Discorsi sacri, IV, 22, che leggiamo sul filo di S. Nicosia (a cura di) , Elio Ari
stide, Discorsi sacri, Adelphi, Milano 1984. Sulla teatralità di Aristide nel ce
lebre episodio dell'incontro con Marco Aurelio cfr. inoltre M. Tasinato, Tem
po svagato. Marco Aurelio: il savio, il distratto, il solitario, Mimesis , Milano
1990, pp. II-26.
49
Platone. La polemica di Luciano si svolge sullo stesso piano di
quella di Marco Aurelio, cioè sul crinale della mimesi, ma non
passa attraverso i toni compassati della scrittura filosofica,
bensì attraverso il rovesciamento parodico. E Peregrino è una
parodia di Cristo, perché, come si diceva, ne è un doppio mi
metico, perché, specificamente, di quella vita esemplare rac
contata e riraccontata dai vangeli parodizza la pretesa assolu
ta di unicità, di inimitabilità, di originalità, di evento straordi
nario90 . Peregrino, dice Luciano, è venerato come un dio dal
la comunità cristiana riunita intorno a lui, anch'egli è un dio,
dice ancora Luciano, «oltre a quello là che ancora venerano»9 1 :
di Cristo Peregrino è dunque un deuteragonista . Gesù ritorna
così a essere uno dei molti "sapienti ispirati" della tradizione,
modello riproducibile come i tanti altri che da secoli si avvi
cendano. L'aspirazione cristiana ed evangelografica all'inter
ruzione del processo mimetico, della moltiplicazione mimeti
ca, risulta essere dunque perfettamente e profondamente com
presa da Luciano, proprio perché egli ne denuncia l'aperta fal
sificazione ideologica92. Sicché Cristo torna a essere un sophi
stés 93, uno tra gli svariati che, come prima di lui Orfeo, Pita
gora o Empedocle, ha introdotto nel mondo la sua teleté94, il
50
suo culto iniziatico, la sua dottrina segreta, il suo rituale mi
sterico. Il cristianesimo ne esce dunque ricondotto, qui nel Pe
regrino come nel Discorso vero di Celso, a una forma di sophfa,
di sapienza, o, meglio, a una delle tante filosofie della salvezza
che da secoli e secoli la tradizione greca conosceva sotto il no
me di "misteri"95. In questo senso si spiegano, a nostro avviso,
i molti riferimenti ai culti segreti che disseminano il racconto
del periodo cristiano di Peregrino96• Che poi i "misteri cristia
ni" venissero liquidati da Luciano come ciarlataneria non è
frutto di accanimento specificamente anticristiano: semmai
Luciano estende al cristianesimo quella vera e propria cultura
del sospetto contro le pratiche misterico-soteriologiche che era
ben viva, pur accanto ad altri atteggiamenti, nella tradizione
antica a partire dalle Baccanti euripidee97•
Ma a Luciano interessano, più che Cristo e i suoi seguaci, le
ricadute sulla scrittura che il preteso messaggio antimimetico di
Cristo e della sua vicenda comporta9 8. Alla distanza di quasi
centocinquant'anni dalla morte del Galileo, il fenomeno cri-
51
stiano ha assunto proporzioni difficilmente trascurabili. E quel
«sapiente condannato alla pena del palo», cioè alla crocifissio
ne, si awiava ormai a essere qualcosa di più che uno dei tanti
veggenti ispirati tra i sudditi dell'impero. Questo era sicura
mente chiaro agli intellettuali greci e romani del tempo. Con
delle differenze, certo, e assai preziose per noi, tra l'altro. La ce
lebre e durissima reazione di Frontone99, ad esempio, testimo
nia una polemica anticristiana condotta sul filo di soli e triti luo
ghi comuni. Ma già l'anatomia di Celso rivela scenari assai più
complessi. Della finezza di Marco Aurelio si è già detto. Il Pe
regrino di Luciano rischia però di essere addirittura illuminan
te. C'è un punto del Peregrino che, per quanto sia sostanzial
mente scivolato all'attenzione critica, fa pensare:
52
il disprezzo della morte» ror , sentendosi altrettanto apostrofare
da una richiesta di salvezza: «Salvati per il bene della Gre
cia! » 1 02 . Certo, dietro il proclama soterico della morte di Cri
sto echeggiava quello della tradizione filosofica greca, quello
epicureo, ad esempio, con la sua ambizione di liberare l'uomo
da tutte le paure, e soprattutto dalla paura della morte. Echeg
giava, primo di tutti, quello del Fedone platonico, là dove il gio
vane narratore, precisando che Teseo salvò i quattordici gio
vani dal Minotauro, ma anche se stesso, lo diceva altresì im
plicitamente di Socrate, il quale, con la sua morte, salvava la
verità e la fiducia dei discepoli, ma contemporaneamente la
sua stessa fama e la sua integrità di filosofo 103• Proprio perché
ne è perfettamente consapevole, Luciano rovescia questo an
nuncio di salvezza, e dei filosofi e dei cristiani. Come i filosofi
pensavano di raccontare, ciascuno secondo i propri principi,
l'unica verità, così i cristiani pretendono di raccontare la sola
storia degna di essere raccontata, la vita di Cristo, la sua paro
la e la sua morte. Ai cristiani Luciano sembra rispondere: m e r
cz; déjà vu, perché il loro "credo" comportava lo stesso seque
stro che la filosofia, da Platone in poi, aveva esercitato sulla
scrittura e sul racconto. Ma il sequestro cristiano sembrava es
sere anche più forte, più potente, perché non viveva più in
scuole di retori e dotti, ma in comunità di gente, come Marco
Aurelio diceva e Luciano ben sapeva, troppo pronta a morire
per quel suo racconto. Luciano sta invece dalla parte di una
scrittura e di un racconto che non conosce e non vuole cono
scere sequestri né ipoteche. Questa sua ferma posizione non
può certo essere ricondotta al conservatorismo d'un tipico in
tellettuale greco chiuso nel suo gioco memoriale con il passa
to 1 04. Non foss'altro perché, a volte, la scelta di conservare è
53
frutto di un'accurata meditazione sul presente. Nel tenere que
sta sua posizione, Luciano è in controtendenza a una tradizio
ne plurisecolare. Così come è in controtendenza a certi esplo
sivi fenomeni contemporanei - è il caso del cristianesimo, ap
punto - in cui egli non riconosce alcuna conquista intellettua
le. D'altra parte e soprattutto doveva essere evidente a Lucia
no che i cristiani non mantenevano ciò che promettevano.
Quella massa di scritture, su cui Luciano non manca di attira
re l'attenzione del lettore, rifrangeva infatti l'unità del raccon
to unico e vero in molte storie fatalmente alternative. Gli as
sertori della verità e della salvezza esclusive si contraddiceva
no nell'avidità di scrivere e riscrivere la stessa storia, variando,
integrando, rivendicando versioni su versioni e producendo
una massa di livres de poche 105 che viaggiano per il mondo. E
di questa contraddizione, che dimostrava palesemente come
quello del racconto unico fosse soltanto e necessariamente un
miraggio, Luciano doveva sorridere. Facciamo per un istante
l'ipotesi che tra le mani di Luciano sia passato uno di questi li
bri, ad esempio il Vangelo di Tomaso. E che l'occhio di Lucia
no sia caduto su questo l6gion di Gesù ivi antologizzato:
54
Luciano avrebbe sorriso nel vedersi affrontare, contempora
neamente e vis-à-vis, sulla bocca di Gesù e dei discepoli, lo spet
tro della mimesi, da un lato, con il suo gioco delle copie e dei
doppi - per non dire, poi, di quelle due parole: «Saggio filo
sofo»! - e, dall'altro, la rivendicazione di assoluta inimitabilità,
quasi un esorcismo di quello stesso spettro che riconosce in
Gesù qualcosa di già visto... Qui sta, del resto, tutta la partita
delle scritture cristiane rispetto e contro la tradizione greca. Lu
ciano oppone a questa partita, come alla filosofia, il suo Pere
grino, che, sotto il segno della parodia, è un proclama di "por
te aperte alla mimesi". Ci si lasci aggiungere, "da buon politei
sta". Non sul versante cultuale e rituale, va da sé, verso il quale
Luciano pare proprio essere assai indifferente, quando non ir
ritabile, ma su quello narrativo. Il politeismo non è, del resto,
né una religione, né tanto meno una fede, ma un regime narra
tivo in cui molte storie e potenzialmente tutte le storie sono pos
sibili e compossibili 107• La risata e la parodia di Luciano è que
sta: è impossibile raccontare una storia sola perché il senso di
una storia sta proprio nel fatto che ne esiste almeno un'altra.
Parafrasando l'apologo nietzscheano sulla morte degli dèi anti
chi, letteralmente scoppiati dal ridere quando uno si alzò di
cendo, gelosamente, «io sono l'unico dio» '0 8, potremmo con
cederci una fantasia: quel riso fragoroso che risale echeggiando
sino a noi dal libro di Luciano è forse il riso delle antiche storie
su quella di Cristo, oltre che l'annuncio della loro morte.
Ora che abbiamo parlato di Pitagora , resta da dire dei pitagorici più
illustri; dopo, di quelli che sono stati chiamati da alcuni filosofi " spo
radici " ; dopo ancora, mi occuperò della successione dei filosofi de
gni di nota fino a Epicuro, come già si è detto. Abbiamo anche di-
107. Si torni a leggere l'aforisma 143 , Il vantaggio più grande del politei
smo, della Gaia scienza nietzscheana, cit . , pp. 172- 3 .
108. Cfr. Cosi parlò Zarathustra, trad. it. Adelphi, Milano 1976, parte III,
p . 214.
55
scorso di Teano e Telauge; bisogna ora, e in primo luogo, parlare di
Empedocle, che, secondo alcuni, fu discepolo di Pitagora '09.
56
tore, di grammatico e studioso della lingua, fino alle sue più al
te ambizioni di mistico veggente, di fronte e per un pubblico
che ne ha conoscenza diretta e condivisa. Parodizzano una pra
tica, degli atteggiamenti che esistono nella cultura e nella realtà
vive della città m. Certamente anche le Vite sono dirette contro
pratiche e atteggiamenti correnti dei filosofi. Ma per ridere fi
no in fondo della parodia di Luciano, per capirla, abbiamo bi
sogno di qualcosa in più. Laddove in Aristofane bastano la sa
pienza drammaturgica del comico e la memoria culturale, il ri
so di Luciano passa anche e soprattutto attraverso la citazione
e la memoria testuale. E nel farsi strada in quella selva di cita
zioni che le Vite sono, nel districarsi, passo dopo passo, dalle
loro reti, siamo messi di fronte a qualcosa che non avevamo so
spettato subito. La coppia Democrito-Eraclito fa ridere così
com'è, è vero, perché il gioco della scrittura lucianea funziona,
a un primo livello, sopra l'allusione testuale. Ma da dove vien
fuori quello strano duo del burlone e del piagnone? Da un mo
dello libresco, nato nelle scuole di retorica e di filosofia del
l'impero e divenuto poi celeberrimo n3• Vien fuori dal biografi
smo a piede libero e dall'aneddotica dotti sviluppatisi all'inter
no della tradizione filosofica. Più in generale, le parole, i di
scorsi pronunciati dai modelli filosofici messi in vendita nelle
Vite sono patchworks di citazioni. È particolarmente interes
sante il caso eracliteo, perché si tratta di un vero e proprio cen
tone. Soprattutto per confronto con il caso pitagorico. Pitago
ra ed Eraclito sono i filosofi più antichi della comunità di sa
pienti qui evocata nelle Vite. Su di essi grava il peso di una tra
smissione che, fino a Luciano, è vecchia di quasi settecento an
ni. Una trasmissione già complicata alla sua origine dai modi di
produzione, circolazione, fruizione e conservazione della scrit-
n2. Per questo rapporto tra pubblico e commedia sul filo della memoria
culturale e letteraria cfr. le pagine fondamentali di G. Mastromarco, Introdu
zione ad Aristofane, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 141 ss.
n3. Cfr. F. Decleva-Caizzi, Pirrone e Democrito, in " Elenchos " , V, 1984,
pp. 3 - 2 1 . Il Democritus ridens è associato all'Heraclitus lugens in un fram
mento del De ira di Sezione, maestro di Seneca, conservato da Stobeo, Flori
legio, III, 20, 53·
57
tura in cui quelle scritture stesse nacquero. Di Pitagora, poi,
non sappiamo neppure se scrisse, mentre ci riteniamo sicuri,
oggi, del libro di Eraclito sulla natura. Tant'è, Pitagora è stato
tramandato fin dai primi pitagorici sotto forma di precetti ora
li, i cosiddetti akousmata, mentre Eraclito, perdutosi presto il
libro, è giunto ai posteri sotto forma di citazioni dal suo famo
so logos physik6s. E proprio così Luciano fa parlare il suo Pita
gora e il suo Eraclito: le parole del primo sono una rapsodia di
precetti risalenti a Pitagora, quelle del secondo sono citazioni
dal libro del celebre filosofo di Efeso. Peraltro, alcune righe del
centone naturalistico eracliteo di Luciano riproducono non la
tradizione dei frammenti considerati d'autore, ma piuttosto
una riscrittura ippocratica 11 \ spia incontrovertibile, questa,
che Luciano sta raccogliendo da un bacino in cui, alle citazio
ni credute risalire all'autore e riportate come tali, si mescolano
le riformulazioni dell'autore disperse in un po' per tutto il pa
trimonio della letteratura filosofica. È, evidentemente, il baci
no delle epitomi e dei compendi, di quelle storie della filosofia,
di quelle raccolte storico-biografiche che compilano i loro me
daglioni dei filosofi, con tanto di dossier più o meno ristretti o
allargati delle testimonianze. Stessa cosa dicasi nel caso di So
crate. Il cliente interessato a comprarlo, a un certo punto, gli
chiede: «E un riassuntino della tua filosofia?» 115• Il termine per
"riassunto" è to kephdlaion, termine chiave della manualistica
filosofica. E ancora si prenda Diogene. Conversando con il suo
acquirente, egli esibisce come il suo modo di vita sia «una via
breve alla notorietà», parafrasando e distorcendo una formula
tipica della dossografia, riportata da Diogene Laerzio 1 16, la
quale definiva il cinismo come "una via breve alla virtù". E gli
esempi si potrebbero moltiplicare, perché di fatto innervano il
testo intero di Luciano. Tutto ciò è assai rilevante in quanto
apre un'ulteriore prospettiva sulla parodia allestita nelle Vite.
Dietro la brillante scena da piazza sta dunque un modello e un
58
genere letterario o, meglio, paraletterario ben preciso: quello
della storiografia filosofica nata nelle cerchie degli specialisti
afferenti a precise scuole e realizzatasi editorialmente nel tipo
del manuale. Luciano, con le Vite, mette quel genere allo spec
chio. Che cosa sono - sembra egli chiedere ai suoi lettori tra le
righe -, che cosa sono mai diventati quei maestri di saggezza,
quelle figure eccezionali e strane, nei libri dei professori di fi
losofia e dei loro allievi, nei loro commentari e nei loro com
pendi, dove si è ormai perso il senso del confine tra l'opera ma
gistrale e i suoi rimasticamenti? Che cosa è ormai quel Socrate
che, sovrapposto senza mediazioni a Platone, risponde a do
mande nelle quali, per bocca del cliente, si riproducono le so
lite, trite, ma soprattutto opache, sopite, misere questioni at
torno a cui si articola il lavoro esegetico delle scuole, dei loro
maestri e dei loro manuali: «che vita conduci», ed è l'istanza
biografica, «qual è il sunto della tua filosofia», ed è l'istanza
dossografica, sicché ecco la "vita", l"'opera", e poi !'"antolo
gia"... Sono diventati, quei maestri, degli idioti, dei mezzi di
sgraziati, dei maniaci. E l'acutissima parodia di Luciano sma
schera anche, con estrema lucidità, alcune tra le più consolida
te metodologie di questa riduzione alla demenza: in primis, l'ir
riflessa abitudine di spremere la scrittura degli autori nel tor
chio dei realtà, sicché, quando Socrate si presenta al suo com
pratore, può dire «sono pederasta e un maestro dell'eros», pre
cisando che un bel ragazzo può tuttavia dormire con lui, sotto
il suo mantello, sine iniuria, mentre le luccicanti pagine plato
niche, il discorso di Alcibiade nel Simposio cui si allude, le sue
straordinarie implicazioni intellettuali, muoiono, uccise dal
l'ansia sapiente dei cercatori di notizie, di "cose" da dire e da
ridire nelle loro scrupolose ricostruzioni dello status quaestio
nis. E Platone è ancora fortunato, sembra suggerire Luciano,
perché può farsi scudo del suo personaggio protagonista, So
crate: ma che dire, ad esempio, di Pirrone, il quale, non aven
do scritto nulla, al pari di Socrate, ma non avendo avuto come
lui la fortuna d'un discepolo come Platone, viene, il poveretto,
identificato con le sue dottrine sulla sospensione del giudizio e
sull'indecidibilità e indifferenza di tutte le cose, e così ridotto
59
a un morto in piedi, catatonico e apatico, la cui unica aspira
zione è «diventare come un verme»? Veramente esilarante è, a
questo punto, la risposta del cliente pirroniano: «Se non altro
ti comprerò per questo». Chi mai se lo comprerebbe un tizio
del genere, se non uno che deve sapere e dire a tutti i costi qual
cosa su Pirrone, magari in un solido profilo storiografico? Ma
ciò che doveva davvero irritare Luciano, poi, a giudicare dalla
veemenza della sua parodia, era la folle serietà, involontaria
mente ridicola, l'incosciente saccenteria di queste pratiche e di
questi metodi della scuola. Lo si vede bene dal Crisippo delle
Vite. In quella insopportabile figura di velenoso trombone che
sentiamo parlare di pagina in pagina non viene soltanto irriso
e passato al fil di lama della satira lo stoicismo, nell'ascetica al
terigia della cui morale Luciano certamente non poteva rico
noscersi. Il Crisippo che Luciano rappresenta nelle Vite è so
prattutto il libro che parla di Crisippo, è il capitolo su Crisip
po d'un qualsiasi manuale, è il quadro dossografico, tra etica,
gnoseologia e logica, zeppo di nomenclature stilate per essere
apprese e riprodotte, zeppo d'elenchi tassonomici di sillogismi
e sofismi, il cui effetto generale si risolve in una strabiliante for
ma di ebetismo. La pazzesca serietà con cui schiere di compi
latori hanno ammassato paradossi su paradossi crisippei si
specchia così nella comica serietà del compratore che, mentre
il filosofo pretende di trasformarlo in pietra con un sillogismo
indimostrabile, incomincia ad avvertire una paralizzante rigi
dità alle membra!
Si può dire che una parodia veramente riuscita funzioni àja
mais. E che il suo oggetto ne risulti parodizzato altrettanto per
sempre. L'effetto sortito dalle Vite è una parodia memorabile e
mirabile - forse rimasta insuperata - della storiografia filosofi
ca che, dai tempi di Luciano, rischia di raggiungere anche noi.
Se per un attimo solleviamo la testa da quel denso lavoro di
commento e interpretazione che le Vite ci inducono a svolgere,
ci sorprenderemo a tenere tra le mani le nostre, moderne rac
colte dossografiche, che recano, anziché il nome di Alessandro
Poliistore, quello di Hermann Diels e di Walter Kranz, oppure
di Hans von Arnim, per citare soltanto i grandi capolavori del
60
genere. Ci sorprenderemo anche nel constatare che il quadro
dossografico degli autori riprodotto e parodizzato da Luciano
è, fin nei minimi particolari, lo stesso nostro, quello che noi an
cara riproduciamo. Ma forse non c'è da stupirsi. C'è semplice
mente da rilevare l'eccezionale tenacia di un genere che dura da
quasi duemilacinquecento anni, se vogliamo risalire proprio in
cima, sino alle sue radici platoniche- è il caso del breve excur
sus storico della filosofia tracciato in alcuni paragrafi del Pedo
ne - 117 e aristoteliche - è il caso di Metafisica I - veri e propri
quadri storiografici del sapere filosofico precedente, per quan
to fossero in gioco, con Platone e Aristotele, ben altri intenti e
alti obiettivi intellettuali 118• Non c'è da stupirsi, si diceva. Per
ché la lingua dei morti è, appunto, tenace 119• È più tenace di
quella dei vivi. E Luciano ben lo sapeva, lui, che sostanzial
mente scrisse "dialoghi dei morti" per tutta la vita. Così come
sapeva che l'unica possibilità di risveglio da quell'oblio in cui
dormivano il sapere e la conoscenza intorno a lui, un oblio dal
nome "tradizione", era il reagente della parodia. Forse, la pa
rodia della tradizione filosofica era, per Luciano, l'unico modo
rimasto onde alzare la voce negli orecchi dei dormienti e ricor
dare che la filosofia non si identifica con la sua storia né può es
servi identificata, perché la filosofia non vive nella storia della
disciplina, ma nella scrittura e nella cultura.
Le Vite di Luciano sono un buon libro da leggere. Uno di
quei libri che fa bene leggere. Non solo perché fa ridere, ma per
il modo in cui ci fa ridere. Quella successione di paradigmi del
61
sapere che ci sfilano davanti nelle sue pagine funziona un po' co
me un'eterotopia che sovverte tutte le familiarità del pensiero 120,
del nostro pensiero: trasformando in pura assurdità ciò che la
tradizione ha reso tranquilla familiarità, ci lascia poi con tutto il
senso del limite di non aver pensato noi in un altro modo.
5
L'indiscrezione epistolare:
strategie della scrittura nel Peregrino
120. Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, trad. it. Rizzoli, Milano 1967,
pp. 5 ss.
121 . Corpus che qui interpretiamo seguendo certi suggerimenti offerti da
] . Derrida, La carte postale. De Socrate à Freud et au-delà, Aubier-Flammarion,
Paris 1980.
62
la dote delle sue quattro nipoti, a spedire anfore d'olio e altri
regali, a sistemare gli allievi, anche indiretti, e magari non trop
po amati, mandandoli in Sicilia da Dione 122• Questo sipario
aperto sulla vita di Platone è, appunto, uno scherzo della scrit
tura. L'epistolario platonico, oggi, dopo l 'infinita quaestio del
l'ultimo secolo e mezzo, si può ben considerare falso 123• Con
sapevolmente o meno, i falsari che hanno messo in scena la
scrittura autobiografica ed epistolare di Platone si sono trova
ti a inventare un revers indiscreto, cronachistico, chiacchiero
ne, persino un po' maligno, dell'austero e autentico corpus dia
logico. E a proposito di revers, il Roland Barthes apologista del
piacere testuale diceva che «il testo è (dovrebbe essere) la per
sona disinvolta che mostra il didietro al Padre politico» 124.
Questa irriverenza, questo mostrare una parte inopportuna, e
la sfrenata loquacità che l'accompagna, non sono un vezzo. So
no, al contrario, un segnale importante, sono l'effetto di una
presa di posizione contro lo scritto di verità e l'onore della sua
autorialità. Se tale presa di posizione è probabilmente invo
lontaria nel caso dei falsari platonici, è invece senz'altro con
sapevolissima in Luciano.
La forma e l'ordine del Peregrino sono quelli dell'epistola,
la missiva inviata da Luciano al suo amico Cranio. C'è tuttavia
una complicazione ulteriore. Perché si tratta di una lettera che
vede contemporaneamente come protagonisti Luciano stesso,
ascoltatore e spettatore di Peregrino, e quindi l'incredibile Pe
regrino. C'è dunque un parlar di sé che è anche allo stesso tem-
122. Cfr. l'intera Lettera VII, per lo scenario politico, e, almeno, la Lettera
per quello privato. Per i numerosi problemi connessi alla Lettera VII ri
XIII ,
63
po un parlar d'altri. Sicché Luciano fa, nella forma epistolare,
dell'autobiografia e al contempo della biografia su altri. Come
si vede, Luciano duplica, anzi moltiplica il gioco dell'indiscre
zione' 25 sia contro se stesso, sia contro l'altro. Di più. Luciano
racconta di aver assistito in prima persona alla morte di Pere
grino, rischiando addirittura di suo in quella calca minacciosa
e dimostrando palesemente davanti a tutto il pubblico il suo
odio per il personaggio. C'è dunque un'affermazione sovrae
sposta dell'"io c'ero" che rinforza contemporaneamente l'i
stanza dell'io autobiografico e dell'io biografico altrui. Ma ci
rendiamo immediatamente conto che si tratta di una super-fin
zione, del potenziamento di una finzione 1 26, al pari di quella che
noi oggi chiamiamo mise en abtme '27• Perché l'io autobiografi
co epistolare, come è stato ormai messo in evidenza da un'am
pia letteratura critica, incrina ad desperationem la verità e la ri
scontrabilità proprio in quanto gioca con una voce in prima
persona che si può soltanto supporre come vera e che, in ogni
caso, è irredimibilmente irrecuperabile restando fatalmente as
sente e condannata alla sostituzione del dialogo in presenza 1 28•
64
L'epistola è dunque topicamente, dalla tradizione antica a quel
la del romanzo epistolare moderno e contemporaneo, il luogo
della menzogna, dell'equivoco, della non -verificabilità dello
scritto.
tarda repubblica e nei primi due secoli dell'impero: con cenni sull'epistologra
fia pre-àceroniana, Herder, Roma 1983; M. Tasinato, Il velo, il morto, la scrit
tura. Interpretazione dell"'Ippolito" euripideo, Centro stampa Palazzo Maldu
ra, Padova 1985; A. Chemello (a cura di) , Alla lettera: teorie e pratiche episto
lari dai Greci al Novecento, Guerini, Milano 1998. Per il moderno ci siamo par
ticolarmente avvalsi di V. Kaufmann, L'equivoco epistolare nelle lettere di
Ka/ka Flaubert Proust Baudelaire Mallarmé Valéry Artaud Rilke, trad. i t . Pra
tiche, Parma 1994; P. Hartmann, Le contrae! et la séduction. Essai sur la subjec
tivité amoureuse dans le roman des Lumières, Champion, Paris 1 9 9 8 ; C h .
Planté, Deviazioni della lettera, i n F. Moretti (a cura di) , Il Romanzo. Temt;
luoght; eroi, Einaudi, Torino 2003 , vol. IV, pp. 213-36.
129. Sulla quale è imprescindibile la lettura di A. Kilito, I:autore e i suoi
doppi, trad. it. Einaudi, Torino 1988.
130. Cfr. 59d.
65
Platone che se mai avesse ceduto alla debolezza di dire «io c'e
ro», la sua scrittura "socratica" sarebbe diventata, come quel
la di Senofonte, puro pettegolezzo. Nel gioco della scrittura
autoriale, della scrittura d'autore, non paga il vantarsi d'es
serci. Lo sapeva Platone. E lo sapeva molto bene anche Lu
ciano, che cita il platonico «Platone non c'era» nella sua ope
ra più sfacciatamente falsa, la Storia vera, e lo rispedisce al
mittente, quasi una vendetta postale, sotto forma di un bef
fardo «Solo Platone non c'era. Era a Platonopoli» l 3 l . L'anoni
mo del Peregrino non è dunque una maschera dell'autore. È
qualcosa di più problematico, di meno facile, per così dire. È
un vero e proprio punto cieco del racconto. Si sa che un rac
conto cambia di valore a seconda di chi lo dice. Ma che ne è
del racconto se la storia è narrata da quel qualcuno che è im
mancabilmente un nessuno? Resta semplicemente una storia,
che vale tanto quanto il qualcuno-nessuno che l'ha detta. Co
me rifiuta ogni filosofia della verità e della virtù, così Luciano
rifiuta la recita del super-io autoriale. Anzi, ancora una volta
fa parodia, ne fa parodia, svendendo il se stesso autore come
io apocrifo e ribadendo attraverso l'anonimia che nessuna pa
rola può vantarsi di far testo più di un'altra. E Luciano, che
non rassicura mai, né consola i suoi lettori, ci lascia soli, forse
anche scornati, con la nostra domanda - dobbiamo ammet
terlo - un po' sempliciotta: ma allora che cos'è, che senso ha
la storia di Peregrino?
66
screto, inopportuno e pettegolo aperto sull'onorabilità del
l'autore dallo sguardo invadente del falso io. Stiamo dunque al
gioco: seguiamo da vicino i passi di Luciano a Olimpia, là do
ve egli si è recato e nei suoi pressi ha visto il rogo di Peregrino,
ed esaminiamo come si è comportato.
Nessun interprete, credo, ha oggi dubbi che Luciano si sia
recato alle Olimpiadi del 165 e lz', per giunta, abbia assistito alla
morte di Peregrino. Al punto che se qualcuno domandasse
«ma perché Luciano è andato a Olimpia: per vedere le Olim
piadi o per Peregrino?», subito sarebbe considerato, nella mi
gliore delle ipotesi, un ingenuo. Eppure, ci sono due scenari nel
Peregrino, uno è quello dei giochi panellenici, l'altro è quello
del rogo. E gli scenari si intrecciano. Nel suo racconto Lucia
no non dice mai perché si sia recato a Olimpia. Non dichiara
mai di esservi andato per vedere i giochi. È fuor di questione,
va da sé, se vi sia andato realmente o no. È interessante vede
re, invece, se il motivo della presenza a Olimpia di Luciano ha
un qualche ruolo nella strategia narrativa. E la necessaria con
clusione è che lo spettacolo dei giochi non ne riveste alcuno. Si
dice, è vero, una volta, delle gare: dopo il lungo racconto del
l'anonimo sul folle Peregrino, il nostro Luciano, per evitare le
laceranti urla di reazione dell'inenarrabile Teagene, braccio de
stro e apologeta sfegatato del suo santone, se ne va, stufo, a ve
dere i giochi perché correva voce che i giudici di gara stessero
procedendo al sorteggio. Intanto sono già trascorsi 31 paragra
fi dall'inizio della storia e quella menzione delle gare ci cade tra
capo e collo, davvero accidentalmente, come se Luciano se ne
fosse improvvisamente ricordato e dunque dimenticato per
molto tempo. Per caso Luciano si è perso dietro al racconto su
Peregrino? Appena nominate, le Olimpiadi vengono frettolo
samente liquidate: «Ma ormai le Olimpiadi volgevano al ter
mine, le più belle di quelle che ho visto, e ne avevo già viste
quattro! » '32• È un'affermazione che fa pensare. Evidentemen
te Luciano è un ghiottone di spettacoli. Sarà amore per i di-
67
versivi? E c'è poi quella precisazione «e ne avevo già viste quat
tro», che stimola le nostre indagini. Ha stimolato, almeno, le
indagini di molti e molti studiosi che hanno cercato di stabili
re, con numerose soluzioni alternative, la cronologia del dialo
go. Noi siamo piuttosto intrigati da un'altra cosa. L'anonimo
aveva detto che Peregrino diede l'annuncio del suo suicidio
nell'Olimpiade precedente, con grande apparato e grande cla
more33 . Verrebbe così da sospettare che Luciano fosse già al
corrente del fatto, magari per averlo appreso direttamente, se
tra quelle quattro volte sta anche la penultima Olimpiade. In
somma, ci sta forse suggerendo il nostro narratore che si è fat
to un viaggio fino a Olimpia per vedere appositamente la mor
te di Peregrino, senza tuttavia volerlo affermare esplicitamen
te? Oppure, e forse è ancor più interessante, sarebbe andato
per assistere alla grande festa, ma si è lasciato deviare e tra
sportare dalla più golosa attrazione del rogo? Più oltre, egli si
sofferma sulla descrizione dell'ultimo discorso pubblico di Pe
regrino alla folla. Facendo ancora ostentazione di fretta, Lu
ciano sostiene di aver sentito poco, a causa della ressa, e si pre
cipita subito a concludere con un secco «così me ne andai» 134.
Ci sentiremmo dunque in diritto di archiviare quelle ultime pa
role di Peregrino, rassegnandoci a non saperne nulla, ma im
mediatamente dopo Luciano ci sorprende con un «E tuttavia
ho ascoltato abbastanza! Diceva che...» 135 , dilungandosi per
un altro paragrafo su quel discorso e sulle reazioni della mas
sa. Questo tornare a raccontare è come un tornare a vedere.
Sicché la dimostrazione d'indifferenza, «c'era troppa gente,
non ho sentito», in realtà non tiene per nulla. Infine, come e
perché Luciano ha assistito al rogo di Peregrino? Gli è capita
to per caso? No. Cioè, dice lui che sì, voleva andarsene, ma che
per il parapiglia generale non riuscì a trovare nessun mezzo di
trasporto. Pertanto è restato e, com'è come non è, un amico lo
68
ha invitato a vedere il rogo'36. Così, Luciano si alza all'alba, si
fa quattro chilometri a piedi e arriva sul luogo dello spettaco
lo. Estintosi il rogo, tutto sembrerebbe finito. Ma così non è.
Non solo, come abbiamo già visto, Luciano si attarda a rac
contare un sacco di balle sulla morte miracolosa di Peregrino
ai ritardatari che non sono riusciti ad arrivare in tempo. Egli è
ancora avido di storie. E promette di terminare con un: «an
cora un'ultima cosa ti voglio raccontare- ti farà ridere a cre
papelle - e poi prometto che ho finito» '37• Se quest'ultima co
sa non diventassero ben tre nel giro dei tre paragrafi finali. La
prima è che durante una tempesta, in un viaggio dall'Asia ad
Atene - Luciano stesso era su quella nave (ma allora Luciano
aveva conosciuto Peregrino! - verrebbe da dire a tutti gli ap
passionati di ultime notizie) -, ebbene, Peregrino se la fece sot
to in modo indegno e si rifugiò a piangere con le donne '38• La
seconda è che pochi giorni prima di morire il santone si fece
una pantagruelica scorpacciata da scoppiare, vomitò tutta la
notte e gli venne un gran febbrone da cavallo '39• E la terza,
davvero l'ultima, che non molti giorni prima del rogo - ed è di
nuovo Luciano il testimone (ma allora lui aveva addirittura vi
sto Peregrino poco prima del rogo! ) -, costui ancora si intrat
teneva a mettersi il collirio per curarsi gli occhi, come se nel
l'altro mondo gli orbi non ce li volessero'40• E così, davvero,
Luciano ha dato fondo al più sfigurante bavardage.
A che cosa abbiamo dunque assistito? Se Peregrino ci pre
sta il nome per una scherzosa storpiatura, abbiamo assistito al
la capricciosa, labirintica, bizzarra peregrinazione narrativa
d'un narratore quanto meno ondivago, incoerente, volubile, in
somma, molto incline alla distrazione e ognora in preda alla no
vità del momento. Questo chiacchierare o, meglio, questo scri
vere come se si chiacchierasse, è, evidentemente, una finzione
69
di cattiva destrezza nell'arte del racconto. E una finzione che,
al contrario, nasconde una brillantissima destrezza e si chiama
curiositas. Come hanno dimostrato le fondamentali ricerche di
Maria Tasinato, curiositas è una funzione intellettuale che viene
variamente messa a punto, secondo diverse strategie e in diver
si contesti, nei primi due secoli dell'impero, per poi avviarsi a
una gloriosa ricezione da parte della cultura cristiana tardo-an
tica e medievale; e sono in particolare Apuleio e Luciano, in
questo vasto panorama, a identificare la curiositas con l'arte del
racconto 141, con «la brama insaziata di mescolarsi alla fabu
la» 142. La "scrittura curiosa", la scrittura del curioso, è quella
che ha definitivamente smontato il gioco platonico della verità,
la filosofia, e quello aristotelico del verosimile, la retorica. E che
tuttavia non rinuncia, per questo, alla funzione della conoscen
za. C'è qualcosa di intermedio tra retorica e filosofia, tra vero e
verosimile, tra conoscenza vera e conoscenza opinabile? C'è
qualcosa che si chiama tentazione, che non è né verità, né pa
rola per la parola. Se vogliamo, è ancora, sì, il vecchio tiro pla
tonico dell'intermedio, cioè dell'universo demonico, e Apuleio
associa esplicitamente la curiosità al demonico nel suo De deo
Socratis 143• Ma quel gioco è completamente rovesciato. Perché
la conoscenza non vi riveste più la forma della mancanza in fun
zione d'altro, della verità: essa è piuttosto desiderio di racconta
re come se si venisse a sapere una storia. I panni di cui la scrittu
ra curiosa si riveste, per farsi spazio tra quella del filosofo e
quella del retore, sono, parodicamente, equivoci, un po' goffi,
un po' ciarlatani e come artatamente riaggiustati, hanno qual
cosa, come dire, del civettuolo fatto in casa, insomma dello stra
no innaturale: sono, queste vesti, l'irrequietezza, l'insaziabile
amore per l'inaudito, per lo scandalo, la fame di spettacoli, il
70
gusto dello sparlare, del correr dietro, di bocca in orecchio, al
le voci in temerario volo sulle ali rapidissime dell'aria. È così
che Luciano si comporta nel Peregrino. Il suo è tutto un racco
gliersi attorno a capannelli di gente che pendono dalle labbra
d'un declamatore e tutto un raccogliere indiscrezioni a destra e
a manca, un continuo spostarsi da un luogo a un altro, da Eli
de, dove ascolta Teagene, a Olimpia, e poi ad Arpina, dove as
siste al rogo, per ritornare quindi a Olimpia, e poi egli è anco
ra sulla nave in viaggio dalla Troade ad Atene, e infine ancora
chissà dove a spiare Peregrino mentre si mette il collirio! E che
piacere prova nello sciorinarci quella valanga di esperienze e di
spostamenti! Ma, allora, non è un po' sfacciato e finanche di
sonorevole tutto questo? Lo è, certamente. Luciano è spesso di
sonorevole e non lo nasconde. Si pensi al prologo di un'altra sua
epistola biografica, l'Alessandro. Là egli ci getta in faccia - è
proprio il caso di dirlo - lo scopo del suo racconto, cioè
71
altresì in mente lo strabiliante finale del Sogno'46, in cui Lucia
no assiste alla sua stessa apoteosi in cielo, sul carro trainato da
Pegasi alati, mentre dalla terra, di città in città, di paese in pae
se, il pubblico lo applaude e lo invoca: una vera smargiassata
da inguaribile vanesio! Ma non era proprio la kenodoxia il mag
gior fallo di Peregrino? Si protesterà che in questi due casi, nel
la Storia vera e nel Sogno, Luciano prende in giro la vanagloria
di filosofi e retori. Certo. Ma prende in giro anche se stesso. Il
fatto è che Peregrino e la sua fatuità sono contagiosi. E questo
contagio ha un nome, che non è "Peregrino", ma "raccon
to" '47• Una volta terminata la lettura, richiuso il libro di Lucia
no intitolato a Peregrino, forse ci coglierà il sospetto che quel
contagio abbia raggiunto anche noi. Che quel libro abbia fatto
anche di noi dei curiosi. Del resto, anche noi lettori abbiamo
spiato, insieme a Luciano, Peregrino. Ma c'è il rischio che noi
siamo stati vieppiù curiosi del narratore. Intossicati dal gioco,
non paghi di tutto quel chiacchierare del racconto, ci siamo
messi a sbirciare le mosse di Luciano, là a Olimpia, come cul
lati dalla inconsapevole certezza di non essere visti, di non es
sere in gioco, noi, ben protetti dall'al di qua della pagina. Ep
pure... siamo sicuri di non essere stati visti da nessuno? Le ri
ghe finali del libro ci riservano una sorpresa.
72
scritto, Luciano sembra dirci: «Chissà quanto avrete riso! Ma
che cosa vi ha fatto ridere di più, eh? Ridete, ridete, tutte le
volte che qualche scemo verrà a dirvi panzane come queste! ».
E così ci rendiamo conto che il narratore ci ha, in qualche mo
do, gabbati. Non abbiamo forse appena finito di sentire un
grullo che ci ha raccontato proprio quelle panzane, uno che si
chiama Luciano? Non abbiamo appena finito di riderne? Ma
di che cosa abbiamo riso in particolare? Non sarà di noi stes
si? 149 Apuleio direbbe che non ci siamo accorti delle orecchie
d'asino spuntare di pagina in pagina ai lati della nostra testa.
Luciano, che ha uno spirito diverso e il gusto dei toni forti, ma
soprattutto è un artista del venenum in cauda , ci rinfaccia co
sì che, pur di soddisfare la nostra mostruosa curiosità, ci sia
mo sobbarcati pure noi le nostre brave "sporte di merda".
73
74
Vite dei filosofi all'asta
75
76
ERMES Ehi, tu, pitagorico, scendi giù! Vieni qui a farti vedere
dal pubblico.
ZEUS Mettilo in vendita.
colare?
ERMES Matematica, astronomia, mostruoseria, geometria, ar
VITA PITAGORICA Del Nilo lungo la riviera, fra quanti ivi san
saggi e canoscenti8•
77
78
CLIENTE Ma... senti un po': se ti compro, che mi insegni?
VITA PITAGORICA I' son colei che nulla insegno e sovvenir ti/ac
cto9.
CLIENTE E com'è che mi faresti ricordare?
VITA PITAGORICA Mondando l'alma tua de la sozzura in che
s'immonda.
CLIENTE Ma metti che sono già pulito... Dunque com'è che si
fa a ricordare?
VITA PITAGORICA Ristando muto in tutta pace e sanza favellar
79
80
CLIENTE Ma contare lo so già!
VITA PITAGORICA E come il nummero s'enumera?
81
82
a divisar diversamente esser te mesmo e 'l quale sembri e 'l qua
le sie.
CLIENTE Eh?! Io sono ... un altro? Non sono questo qui che sta
83
84
CLIENTE Stupendo. Parli come un prete! Ma... spogliati un
po'... che ti voglio vedere anche nudo18• Perdinci! Hai una co
scia d'oro19! Ma questo è un dio, non un essere umano! 20 Lo
compro, e come se lo compro! A quanto lo metti?
ERMESDieci mine21•
CLIENTE Affare fatto.
ZEUSScrivi il nome dell'acquirente e di dove viene.
ERMES È un italiano, pare! Da quelle parti... di quella Grecia
85
86
farti un giro tra il pubblico. Io vendo la vita di un uomo vero!
La vita migliore, una vita nobile, una vita libera! Chi se la
compra?
CLIENTE Ma che dici, tu, banditore? Vendi uno libero? 5
2
ERMES Sì, perché?
CLIENTE Ma non hai paura che ti denunci per riduzione in
87
88
za il bastone! E aggrotta le sopracciglia! E che occhiatacce
storte e arrabbiate!
ERMES Ma dai, non spaventarti: è addomesticato!
89
90
[9] CLIENTE Però ... bene, predicatore! Ma se ti compro che vi
ta mi fai fare?
VITA DI DIOGENE Prima ti piglio e ti spoglio d'ogni lusso, ti
metto sotto chiave con la povertà e ti getto sul groppone un
mantellaccio; poi ti faccio sgobbare e sudare35, dormire per
terra, mangiare quel che capita e bere acqua. Tutto quello che
hai, se mi dai retta, lo getti ai pesci. Macché matrimonio, figli,
patria! Queste cose per te devono essere tutte bischerate36•
Lascia la casa di tuo padre e vai ad abitare in una tomba, in
una torre smozzicata e abbandonata o anche in una botte37•
Riempiti la bisaccia di semi e di libri scritti anche sul dietro.
Vivi così e sarai felice più del re di Persia. E se qualcuno ti fru
sta o ti tortura, non ti farà né caldo né freddo38•
CLIENTE Che cosa? Se mi frustano non deve farmi male?
un piccolo ritocco.
CLIENTE Sarebbe?
91
92
[ro] VITA DI DIOGENE Il duolo affliggerà lo spirto tuo, ma non
la lingua39• Ma la cosa più importante è questa. Devi far la fac
cia tosta! Fa' il villano40: offendi tutti, re e poveri diavoli, e ti
guarderanno con gli occhi bassi! Penseranno che hai del fe
gato! Fa' un accentaccio forestiero e una vociaccia brutta, in
somma, fa' il cane, fa' il grugno e la camminata che gli si con
viene. Fa' la bestia, fa' il selvatico! Getta via pudore, garbo e
convenienza! Non devi arrossire mai più! Va' nei posti pieni
di gente e lì fa' il solitario e il musone! Non metterti a parlare
con la gente, sia se la conosci e anche se non la conosci: per
deresti il tuo ascendente. Fa' davanti a tutti in bella vista quel
lo che nemmeno in privato oseresti: e quando fai l'amore, in
ventane di strane e strane bene! 4' E per finire... quando ne
avrai voglia tu... crepa! con un polipo o una seppia nella stroz
za. Questa è la felicità che ti offro io.
93
94
vendolo, un muratore, uno strozzino, nulla impedisce che ti si
ammiri! 44 Basta che tu faccia lo spudorato e il villano e abbia
imparato per bene a dire insulti!
CLIENTE Non ho bisogno di te per imparare queste cose.
rarsi di quello lì e delle noie che ci crea, delle sue urla, delle
sue angherie e della sua mala lingua!
mi servi.
ERMES Ma non dar noia, tu, e non far domande! Non lo vedi
95
96
CLIENTE E chi se lo piglierebbe mai un pervertito del genere
come schiavo? Guarda che vizi! E come puzza di profumo!
Guarda che traballone, non sta in piedi... come fa l'onda! Va
be'... di un po' tu, Ermes, com'è e che sa fare.
ERMES Ah, è un gran compagnone. Beve bene... uno da orge
97
98
ERMES Venite qui al centro. Si vende una coppia di vite che di
migliori non se ne trova, le più sagge di tutte!
CLIENTE Accidenti a Zeus! Che contrasto! Uno non smette di
99
100
Tutto si muove, tutto si con/onde:
di dolce e amaro,
saper e non saper,
picciolo e grande55 ,
è come un ciceòn56:
tutto si porta e si trasporta, or sopra or sotto,
nel gioco dell'aiòn57.
CLIENTE E che sarebbe l"'aiòn"?
prerà!
VITA DI ERACLITO Ed io esorto il fior di giovanezza al pianto, e
101
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CLIENTE Ma questo vuol proprio dire esser malati! Se non è
follia?! Io non li compro questi due!
ERMES Ecco: e anche questi ce li teniamo!
ERMES Tu, vieni qui! Vendiamo una vita per bene, una vita in
103
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sentirai dire che gli ho fatto qualcosa di male, anche se ha dor
mito con me sotto lo stesso mantello63•
CLIENTE Uhmmm... non ti credo... un pederasta vero che si dà
que Anubi, l'egiziano, che cosa sarebbe? E Sirio, lassù nel cie
lo? E allora Cerbero, laggiù all'inferno?
idee.
VITA DI SOCRATE Questa è la più importante e riguarda le don-
105
106
ne: nessuna donna deve essere di un uomo solo e tutti quelli
che vogliono ci possono andare a letto66•
CLIENTE Eh?! Hai abrogato la legge sui puttanieri?
VITA DI SOCRATE Ma certo, porco Zeus! E con tutte le leggine
correlative.
CLIENTE E sui ragazzetti?
VITA DI SOCRATE Dunque: pure loro li metto nel letto dei mi
107
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VITA DI SOCRATE Ovvio! L'occhio della tua anima è cieco! lo,
invece, le vedo, eccome!, le immagini, la tua, vedo un altro
me: tutto è doppio! 69
CLIENTE Ah, questo è proprio da comprare, uno così intelli
gente e con la vista così buona! Di' un po'... quanto mi fai per
questo?
ERMES Due talenti.
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CLIENTE Ecco: ma, tanto per sapere, questo qui, che cosa man
gia?
ERMES Uhmmm... mangia roba dolce, roba col miele e soprat
tutto fichi secchi75.
CLIENTE Ah, be'... allora non c'è problema: gli compriamo dei
[2o] ZEUS Avanti il prossimo: quello là, quello tutto rasato e al
tero, quello del Portico! n
ERMES Giusto! Guarda che tono! Neanche l'aspettasse una
111
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ERMES Ovviamente!
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la tua spiegazione: che cosa sono l'accidente predicativo e pa
rapredicativo? Non so come, ma sono rimasto colpito dal rit
mo di queste due parole!
VITA DI CRISIPPO Non te ne priverò. Supponiamo che un tale
sia zoppo e che con il piede zoppo incespichi in una pietra e
si procuri inavvertitamente una ferita: il fatto di essere zoppo
è l'accidente predicativo de "il tale", mentre la ferita che si è
procurato è il suo accidente parapredicativo.
lenza!
VITA DI CRISIPPO Ebbene, ascolta: tu hai un figlio?
CLIENTE Perché?
VITA DI CRISIPPO Supponiamo che un coccodrillo te lo porti
via sulla riva di un fiume mentre passeggia e che poi ti pro-
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metta di restituirtelo, ma a condizione che tu gli dica se ha
davvero intenzione di restituirtelo ... : che cosa diresti?87
CLIENTE Eeh! È una domanda difficile! Non saprei che rispo
sta dare per riavere mio figlio... Ma tu sì, accidenti a Zeus, che
sapresti rispondere e salveresti mio figlio, prima che lui se lo
mangi!
VITA DI CRISIPPO Non ti preoccupare! Te ne insegnerò di più
eccezionali.
CLIENTE Ad esempio?
VITA DI CRISIPPO Il mietitore, il signore e soprattutto l'Elettra e
l'incappucciato 88.
CLIENTE Ma che sarebbero questa Elettra e questo incappuc
ciato?
VITA DI CRISIPPO Ma Elettra, la famosa Elettra! La figlia di
Agamennone, quella che sa e contemporaneamente non sa le
stesse cose. Quando infatti si trova di fronte Oreste, quando
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ancora lui non si è rivelato, lei sa che Oreste è suo fratello, ma
non sa che proprio quello è Oreste. E adesso ascolta la storia
dell'incappucciato: è ancora più straordinaria. Dimmi: tu co
nosci tuo padre?
CLIENTE Certo!
VITA DI CRISIPPO Bene. Supponiamo che io ti presenti un tale
119
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menti su commenti e mi riempia di solecismi 90 e di parole
strane. Ma soprattutto va detto che non è possibile essere sa
piente se non si è bevuto tre volte l'elleboro91•
CLIENTE Però, che discorso nobile! Sei così eccezionale che mi
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VITA DI CRISIPPO Vedo che ci intendiamo! Perché io non pren
do mica per me, ma per il bene di chi me li dà! Esistono i pro
dighi e i parsimoniosi: io cerco di fare il parsimonioso, men
tre gli allievi sono tutti dei prodighi 97.
CLIENTE Eppure dovrebbe essere il contrario: i giovani do
[25] VITA DI CRISIPPO Non saprai più che fare. Diventerai mu
to. Perderai la ragione. Vuoi quello più potente? Adesso te la
farò vedere io con il sillogismo della pietra! 99
CLIENTE Mi trasformerai "in pietra"! ? E chi sei, bello mio,
Perseo?•oo
VITA DI CRISIPPO Eccoti servito: la pietra è un corpo?
CLIENTE Sì!
VITA DI CRISIPPO E allora: un essere vivente non è forse un
corpo?
CLIENTE Sì!
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VITA DI CRISIPPO E tu sei un essere vivente?
CLIENTE Così pare...
CLIENTE No.
VITA DI CRISIPPO Tu sei un corpo?
CLIENTE Sì.
VITA DI CRISIPPO E se sei un corpo, non sei forse vivo?
CLIENTE Sì.
VITA DI CRISIPPO Allora ne consegue che non sei una pietra, ma
un essere vivente.
CLIENTE Meno male! Mi sentivo già le gambe fredde e dure
125
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ERMES Dodici mine.
CLIENTE Prendi.
ERMES Ma lo hai comprato tu solo?
CLIENTE Ma no, accidenti a Zeus! Tutti questi che vedi qui!
ERMES Quanti sono! E hanno tutti delle belle spalle... proprio
doppio!
CLIENTE Eh? !
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ERMES Dice che tre sono le forme del bene: quello dell'anima,
quello del corpo e quello esterno106.
CLIENTE Beh, è ragionevole! E quanto costa?
ERMES Venti mine!
CLIENTE Ma è una fortuna!
ERMES Ma no, caro! Pare infatti che anche lui abbia un gruz
zoletto, sicché non passerà molto che riguadagnerai. E poi lui
ti dirà quanto vive una zanzara, fino a che profondità il mare
è illuminato dal sole e com'è fatta l'anima delle ostriche! IO?
CLIENTE Accidenti a Eracle! Che precisione, che sapienza!
ERMES Non solo! Ne sentirai ben di più e di ben più sottili sul
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ERMES È rimasto questo scettico qui'08• Ehi, Battista'09, vieni
qui, che ti vendiamo in fretta. La maggior parte della gente se
ne sta andando e i clienti sono rimasti in pochi. E sia! Chi se
lo compra, questo?
CLIENTE Io. Ma prima voglio sapere che cosa sa.
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poi vedo che sono proprio uguali e dello stesso peso, allora so
che non so qual è la più vera 1!3•
CLIENTE Ma che sai fare decentemente?
CLIENTE E perché?
VITA DI PIRRONE Perché non riesco a com-prendere! ll4
CLIENTE E va be'! D'altra parte sembri proprio uno lento...
133
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VITA DI PIRRONE Non consta.
CLIENTE Oh già! Ti ho comprato, invece, e ho pagato!
VITA DI PIRRONE Mi appello all' epoché118: devo discettare al
proposito.
CLIENTE Intanto incomincia a venirmi dietro, e fai il servo co
me si deve.
VITA DI PIRRONE Chi può sapere se dici la verità?
CLIENTE Il venditore, la mina che ho pagato e questi che stan
no qui!
VITA DI PIRRONE Perché qui c'è qualcuno?
CLIENTE Io ci sono di sicuro! Lascia solo che ti metta alla ma
cina del mulino e ti convincerò con il discorso più debole119
che il sono il padrone!
VITA DI PIRRONE Appellati all' epoché.
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La morte di Peregrino
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tava giù nel vulcano 7. La buona lana d'uomo, invece, aspetta
la festa nazionale più affollata che ci sia 8, si fa una pira alta co
me non mai e vi si getta sopra davanti a tanti testimoni, non
senza aver dato l'annuncio ai Greci con largo anticipo di que
sta sua bravata 9.
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parare su Proteo: cercherò come meglio posso di ricordare
quello che disse. Ravviserai lo stile di sicuro, ché di strilloni
così ne hai già incontrati.
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andava rovesciando a catinelle, per non dire di certe iperboli
da non credere: Diogene2 e il suo maestro Antistene3, e per
sino Socrate4, non erano nemmeno degni di stargli accanto!
Sicché chiama a battaglia anche Zeus in persona! E quando
infine gli parve che i due contendenti fossero alla pari, pro
ruppe in questo finalino:
143
144
[8] Quindi, ricompostosi, disse: «E che altro si può fare, cari
miei, quando si ascolta di tali ridicolaggini, quando si vede dei
vecchi a far le capriole e per che? Per una glorietta da quattro
lire? Ma date retta a un bischero, se volete sapere di che pa
sta è il "divino simulacro" che si vuole far bruciare: io l'ho te
nuto d'occhio dall'inizio, l'ho seguito passo passo e ne ho sen
tito delle belle sul suo conto dai suoi concittadini, gente che
lo conosceva bene! 35
145
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[n] Fu proprio allora che si mise a imparare la straordinaria
sapienza dei cristiani38, mettendosi a far comunella con i pre
ti e i dottori di Palestina39. E sapete che successe? In quattro
e quattr'otto gli bagnò il naso come a un branco di mocciosi:
profeta, caposetta, gran sacerdote40 divenne e tutto da solo!
Spiegava e interpretava i libri sacri e lui stesso ne scrisse mol
ti4', mentre quelli lo veneravano come un dio. Divenne il loro
legislatore42 nonché il loro Signore43, oltre a quello là che an
cora venerano, quel tale che è stato messo al palo in Palesti
na 44 per aver introdotto nel mondo questo nuovo culto45•
147
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[r3] Anzi, v'eran di quelli che venivano dalle città d'Asia, man
dati dai cristiani a loro spese, a portar soccorso, difesa e
conforto a questo figuro. Questa gente è d'incredibile velocità
nel far corpo comune e in men che non si dica riesce a spen
dersi completamente. Sicché il bravo Peregrino ne ottenne di
ricchezze da quelli lì, ma tante bene, con la scusa che era in
carcere, e si racimolò un bel gruzzoletto! 48 Quei poveri di
sgraziati 49 si sono tutti convinti di potersi guadagnare l'im
mortalità e la vita eterna, per la qual cosa disprezzano la mor
te e vi si danno per lo più spontaneamente! E poi il loro pri
mo legislatore, Cristo 5°, li ha convinti d'essere tutti fratelli tra
loro5', se solo una volta si siano convertiti e abbiano rinnega
to gli dèi greci per inginocchiarsi 52 davanti a quel 53 sapiente
condannato al palo 54 e vivere secondo le di lui leggi. Disprez
zano tutti i beni materiali allo stesso modo e li ritengono co
muni 55, accettando tutti questi precetti senza nessun fondato
convincimento. Sicché, se un qualsiasi ciurmatore che sappia
l'arte e la parte del proprio tornaconto 56 capitasse in mezzo a
costoro, in men che non si dica si troverebbe ricco buggeran
do per bene quei poveri grulli.
149
150
to che Peregrino era un matto e soprattutto che, se fosse stato
condannato a morte, ne avrebbe ancora guadagnato della glo
ria. Sicché lo lasciò andare non ritenendolo nemmeno degno
di punizione. Quando ritornò a casa, l'affare della morte di suo
padre scottava ancora e molti gliene davano la colpa. D'altra
parte, i beni di famiglia si erano volatilizzati durante la sua as
senza: gli erano rimasti solo i campi per un totale di quindici
talenti. E il patrimonio che aveva lasciato il vecchio ammonta
va, nel suo insieme, a talenti trenta! Non, come ha detto quel
l'insulso ridicolo di Teagene, cinquemila! Ché nemmanco la
città intera di Pario con i suoi cinque borghi 57 costerebbe sì
tanto, uomini, bestie e tutto il resto compreso!
151
152
padre. Non fece in tempo a sentire queste parole che il popo
lo, poveracci con la bocca sempre aperta ad aspettare il boc
cone, si mise a urlare che solo lui era filosofo, solo lui amava la
sua città, solo lui era il degno emulo di Diogene e di Cratete59•
Sicché, ai suoi nemici scese la lingua in gola, e se qualcuno
avesse osato ricordare l'affare dell'omicidio, sicuramente lo
avrebbero coperto di pietre.
153
154
mostrazione di ciò che costoro chiamano "l'indifferente" 62:
frustare e farsi frustare il culo con una verga, e molte altre di
queste bravate da gabbamondo!
[I8] E di lì, con questo bel bagaglio, se n'andò in Italia per na
ve. Non ne era ancora smontato che già urlava villanie contro
tutti, e massimamente contro l'imperatore che si sapeva oltre
modo mite e mansueto63, sicché rischiava al sicuro. D'altron
de all'imperatore poco ne caleva di quelle bestemmie e non sti
mava degno di alcuna punizione uno che s'era rivestito dei
panni del filosofo, e poi per delle semplici parole, senza consi
derare ch'era uno che aveva fatto della villania un vero e pro
prio mestiere. E tuttavia, tra i gonzi, la fama di costui cresceva
in virtù di questi bei comportamenti, e tutti gli occhi erano per
lui e per la sua matteria. Finché il prefetto di Roma, un uomo
saggio, lo cacciò dalla città perché ci aveva pigliato troppo gu
sto in quel suo modo di fare, con la motivazione che Roma non
aveva bisogno d'un filosofo di quella sorta. Ma fu proprio que
sto a fargli crescere la notorietà: era sulla bocca di tutti come
quel filosofo che era stato scacciato per il suo parlar franco e
per la sua indomita libertà. Sicché, per questo veniva accosta
to a Museo, a Diane, a Epitteto64 o a qualsiasi altro che si fos
se trovato in quella stessa situazione.
155
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qua a Olimpia e mettendo fine alla sete di cui morivano gli
spettatori dei giochi 66, come di uno che aveva fatto dei Greci
femminucce, perché bisognava che gli spettatori olimpici
prendessero pur la tempera col soffrire la sete e, per Zeus, cre
pando finanche a frotte delle violente malattie che fino ad al
lora, a causa della secchezza del luogo e in quel gran parapi
glia di gente, spopolavano. E mentre andava così dicendo si
beveva l'acqua che quell'altro aveva portato.
[20] Poco ci mancò che la folla gli corresse dietro per ammaz
zarlo, ma la buona lana si rifugiò nel tempio di Zeus e scampò
alla morte. All'Olimpiade successiva portò poi davanti ai Gre
ci un certo qual discorso che egli aveva composto nei quat
tr'anni trascorsi 67, in cui faceva l'elogio di colui che aveva por
tato l'acqua e la difesa della propria fuga d'allora. Ma ormai la
gente se ne impipava di lui e non lo degnava più di uno sguar
do- tutte le sue trovate sapevano ormai di stantio e non riu
sciva più a trovarne di fresche per stupire la gente, per impo
sturarla e farsi guardare, cosa questa che costituiva il suo eter
no assillo. Bene: ecco allora che gli viene quest'alzata d'inge
gno del rogo e ne dà pronto annuncio ai Greci subito dopo le
Olimpiadi: per le seguenti si sarebbe dato fuoco.
157
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gna! E promette di dar prova della più grande forza d'animo!
Eh no, cari miei! Allora era meglio mettersi calmi ad aspetta
re la morte, non svignarsela così alla chetichella! Ma se dav
vero ci vuole levare l'incomodo, mica c'è bisogno del fuoco,
mica deve fare il teatro! 68 Faccia in altro modo, se vuol mori
re! Ve ne son mille! E se poi proprio ha le smanie di far l'E
racle sulla pira 69, perché non scegliersi, quatton quattoni, un
bel monte con tant'alberi e colà darsi fuoco in santa pace,
tutt'al più portandosi dietro il suo Filottete7°, tipo Teagene?
No! Lui, a Olimpia, nel più gran parapiglia della festa, e po
co ci manca che lo faccia in scena, va a darsi fuoco! Non che
non sia degno di bruciare, no, per Eracle: bisognerà pur che
un assassino di suo padre, un senza dio, paghi il fio delle sue
ribalderie! È che mi pare lo faccia troppo tardi: è già da tem
po che avrebbe dovuto pagarla soda, ma dentro il toro di Fa-
159
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laride! 71 Altro che morire così in un solo istante divorato dal
le fiamme! Perché mi si dice anche che non c'è modo più spe
dito di morire che con il fuoco. Basta aprire la bocca e si è su
bito morti.
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li lo vogliono emulare! 74 Chiediamolo qui a Teagene, perché,
dal momento che emula il suo maestro in tutto il resto, non lo
segue e va a soffrire insieme a lui mentre attinge Eracle, visto
che in un colpo solo potrebbe conoscere tutte le felicità get
tandosi a capofitto nel fuoco!
Ché l'emulazione non sta nella bisaccia, nel bastone e nel
mantellaccio! No: queste son forme sicure e facili per chiun
que! È la sostanza che bisogna emulare: e allora fatti una bel
la pira di legno di fico, ma proprio verde, e salici sopra a soffo
care nel fumo! Perché il fuoco non è solo d'Eracle e d'Ascle
pio, ma anche degli assassini e dei sacrileghi, che lo subisco
no per giusta punizione. Sicché è meglio che vi ammazziate
col fumo. Sarebbe proprio la morte giusta per voi.
[25] Tra l'altro, Eracle, se anche ha osato fare quel che ha fat
to, è perché il sangue del centauro l'aveva dissennato e gli man
giava l'ossa. E questo qui, che motivo ha per gettarsi nel fuo
co? Per Zeus! È che vuol fare pubblica prova di sopportazio
ne come i brahamani 75. L'ha detto Teagene che gli somiglia, co
me se anche tra gli Indiani non ce ne fosse di matti vanaglo
riosi. Ma allora che li imiti davvero! Perché i brahamani non si
gettano a piedi giunti sulla pira! Lo dice Onesicrito, il coman
dante di Alessandro che racconta del rogo di Calano! 76 Eh no:
loro, una volta innalzata la pira, le si mettono vicino, senza
muovere un muscolo, e si fanno rosolare. Soltanto dopo ci sal-
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gono sopra con dignità, e bruciano senza muoversi neppur
d'un fiato! Che c'è di particolare allora nel gettarsi tra le fiam
me e morire divorato dal fuoco? C'è che quello spera di saltar
fuori magari anche mezzo abbruciato, com'è vero che la pira
se l'è scavata bella profonda in una bella fossa!
[26] D'altra parte v'han di quelli che dicono che già mutò
d'avviso: va raccontando d'un sogno per cui Zeus impedireb
be di contaminare un luogo santo! Ma su questo stia pur tran
quillo: nessun dio s'adonta se Peregrino fa una brutta fine, ci
posso giurare! Per lo meno, a questo punto, non gli è facile
cavarsene fuori: i suoi intrinseci cagnacci gli stanno alle calca
gna, lo spingono sul rogo, gli infiammano il cervello, sicché
non danno ala alla vigliaccheria! Che se poi quello, gettando
si sulla pira, ne abbrancasse un paio e li portasse via con sé,
almeno farebbe con questo una buona azione.
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[28] Per Zeus! E non è nemmeno inverosimile che nel muc
chio degli scervellati vi sian di quelli che diranno d'esser stati
guariti dalla febbre quartana per sua mano e che di notte vi si
son scontrati con questo demone della notte! Per non dire di
questi sciagurati dei suoi discepoli che andranno imposturan
do un oracolo80, nonché un tempio, sul sito del rogo: non da
va forse Proteo, il Proteo vero figlio di Zeus, ch'è diventato
padrino di costui, non dava egli oracoli? E son pronto a giu
rare che i suoi sacerdoti si produrranno in pubbliche dimo
strazioni: flagellazioni, bruciamenti e altre mostruoserie del
genere, se addirittura non ci faranno iniziazioni notturne in
suo onore e una bella processione con le fiaccole intorno al
luogo della pira! 8'
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dalla Sibilla. lo invece ne ho un altro di oracolo, ed è di Baci
de86. Sicché dice Bacide e attenti a come conclude:
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nuovo a gracchiare e a dirne di cotte e di crude sull'uomo che
ne era appena sceso. Purtroppo non conosco il nome di quel
benefattore. lo me ne andai che ancora quello urlava da scop
piare. Volevo vedere gli atleti, perché si diceva che i giudici92
fossero già entrati nel Pletrio93.
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che tutti gli uomini diventino miei Filotteti!»97• A quel punto
il gruppo dei gonzi si metteva a piangere e a urlare: «Salva la
Grecia!», mentre quelli con un po' di dignità urlavano in ri
sposta: «E falla finita una buona volta!». Al che il vecchio si
smarrì, perché sperava che tutti sarebbero stati dalla sua par
te, che non lo avrebbero lasciato al fuoco e che dunque avreb
be dovuto, pur contro voglia, rimanere in vita. Ma quel «e fal
la finita!», così imprevisto, che gli capitombolò sulla testa, lo
sbiancò ancor peggio di quel colore da cadavere che aveva di
solito. Per Zeus, gli venne pure la tremarella, tanto che do
vette mettere il punto al discorso.
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andando verso est dalla parte dell'ippodromo. Non appena
fummo arrivati, trovammo la pira innalzata dentro d'una fos
sa di circa un metro e mezzo. Era fatta di legna resinosa e gli
spazi vuoti erano riempiti con frasche, di modo che prendes
se fuoco il più alla svelta possibile!
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Zeus, quando si mise a invocare lo spirito della madre, non ci
trovai nulla di strano. È quando si mise a invocare lo spirito
del padre che non riuscivo più a trattenermi dal ridere al pen
siero dell'assassinio! I cinici, invece, se ne stavano tutt'intor
no alla pira senza piangere e facevano la recita del dolore man
tenendo il silenzio e tenendo gli occhi fissi al rogo. Al che io
mi avvicino e gli dico: «Ma andiamocene via, deficienti! Vi pa
re un bello spettacolo stare a vedere un vecchio che si dà fuo
co e ci riempie tutti del suo fumo schifoso? O per caso state
aspettando un pittore che vi ritragga come i discepoli di So
crate in prigione?»104• Quelli si sono arrabbiati, hanno inco
minciato a insultarmi e me le sono prese anche, ma poi, non
appena li ho minacciati di prenderli e buttarli nel fuoco a rag
giungere il loro maestro, si sono messi tranquilli.
[39] Tra l'altro incontrai della gente che stava venendo a ve
dere e pensava di vederlo ancora vivo, perché il giorno prima
avevano sentito dire che avrebbe salutato il sole nascente pri
ma di gettarsi sul rogo, al modo dei brahamani. Sicché, ne ri
mandai indietro molti dicendo che ormai era tutto finito, tran
ne quelli che erano proprio fanatici e volevano vedere il posto
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del rogo e magari raccogliere qualche reliquia 105• E che barba
star lì a raccontare e rispondere a tutte quelle domande parti
colareggiate! Che se poi ne incontravo uno sveglio, gli rac
contavo le cose così nude e crude come le racconto a te, ma
se ti beccavo uno di quei gonzi pronti a bersi qualsiasi cosa,
gli mettevo in scena tutta una storia di mia invenzione, che
non appena la pira fu accesa e Proteo ci si gettò sopra, subito
si sentì un gran terremoto e un boato e dal centro del rogo si
alzò in volo un avvoltoio dicendo con tonante voce umana:
«La terra lascio e l'Olimpo attingo»106• E loro restavano lì
istupiditi, si gettavano a terra in ginocchio e mi chiedevano se
l'avvoltoio era andato a est o a ovest: io gli rispondevo quello
che mi veniva in mente lì per lì 107.
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delle Sette Voci 109 splendidamente incoronato di ulivo IlO. E
per finire aggiunse la storia dell'avvoltoio, giurando di averlo
visto egli stesso alzarsi in volo dalla pira, proprio quell'avvol
toio che io poco prima avevo fatto volare per canzonare i gon
zi e gli idioti! III
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veva godere di quell'ultimo successo perché non lo poteva più
vedere.
[43] Voglio, per finire, raccontarti ancora una cosa che ti farà
ridere a crepapellei16• Sai già quella storia che hai sentito da
me non appena ero tornato dalla Siria: che io mi ero ritrova
to sulla stessa naven7, in partenza dalla Troade con lui e la bi
sboccia che non fece durante la navigazione. Per non parlare
del bel ragazzino che convinse a fare il cane per avere anche
lui in qualche modo il suo Alcibiadei18, e poi la tempesta che
ci colse di notte nel bel mezzo dell'Egeo e l'onde gigantesche
che se ne scatenarono e lui che stava lì a guaiolare con le don
ne, lui, quel mirabolano sedicente sprezzatore della morte!
[44] Ma non ne sai un'altra! Poco prima della sua morte, cir
ca una settimana prima, si era ingozzato di cibo all'inverosi
mile: vomitò per tutta la notte e gli venne un gran febbrone!
Questo me l'ha raccontato Alessandro, il medico che fu chia
mato per dargli un'occhiata. Mi disse appunto che lo trovò a
rotolarsi sul pavimento, incapace di sopportare la febbre e che
mendicava senza il minimo ritegno per un po' di refrigerio,
ma lui non gli aveva dato nulla! E, anzi, gli aveva risposto che
se aveva tanta voglia di morire, ebbene, la morte gli si era pre
sentata alla porta spontaneamente, per cui doveva semplice
mente seguirla senza alcun bisogno del fuoco! E allora lui ri
spose: «Ma non ne avrei alcun successo! È un modo troppo
comune di morire!».
183
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[45] Questo è quello che mi raccontò Alessandro. Ma poi io
stesso lo vidi non molti giorni prima di morire curarsi gli oc
chi con un collirio! Lo vedi? Oh, non sai tu che Eaco119 non li
vuole i birci? Come se uno che sta per essere crocifisso si cu
rasse un dito rotto! 12° Che pensi avrebbe detto Democrito di
questo? Non gli avrebbe riso dietro come si merita? Chissà
quanto avrebbe riso e di che cosa in particolare! E dunque ri
di anche tu, caro amico mio, e ridi bene quando senti qualche
grullo che ne dice meraviglie.
185
Note
r. Il greco dice kosmésas, cioè " adornare " , " abbellire " , " rivestire " e ogni
altra azione appartenente alla sfera semantica del cultus, dell'ornato. Ci sem
bra di poter cogliere qui un chiaro riferimento parodico al contesto infero del
Gorgia platonico. Nel dialogo di Platone, Zeus emanava una " riforma giudi
ziaria " destinata a moralizzare per sempre il tribunale dei morti e le sue sen
tenze. Pare opportuno riportare qui il testo: «Ci penserò io - disse [Zeus] -
a metter fine a tutto questo. Fino a ora le sentenze erano inquinate, perché i
giudicandi - proseguì - venivano giudicati ancora vestiti di tutto punto, cioè
ancora vivi. Sicché - continuò - molti, che pur avevano l'anima macchiata, si
presentavano rivestiti d'un bel corpo, d'una illustre discendenza, d'un patri
monio cospicuo e poi, quando si apriva il giudizio, si portavano un codazzo
di testimoni tutti pronti a giurare sulla loro giusta condotta di vita. È gio
coforza che i giudici venissero abbagliati da tanto apparato, soprattutto per
il fatto che essi stessi giudicavano tutti rivestiti di quelle stesse cose, ricoper
ta com'era la loro anima di occhi, di orecchi e dell'intero corpo. Tutti questi
paludamenti, sia i loro, sia quelli dei giudicandi, erano di impedimento ai giu
dici. Per prima cosa, dunque - disse -, bisogna smetterla con quest'abitudi
ne di sapere anticipatamente il giorno della propria morte, perché adesso co
sì avviene. [ . . . ] Poi, è necessario che essi vengano sottoposti a giudizio com
pletamente spogliati di tutti questi rivestimenti: devono infatti essere giudi
cati quando sono morti. E anche il giudice deve essere nudo pure lui, e dun
que morto, perché deve poter contemplare immediatamente con la sola ani
ma l'anima sola di ciascun morto, senza tutto quel corteo di parenti e clienti
e dopo che essi hanno lasciato sulla terra tutta quella pletora di ornamenti.
Soltanto così la sentenza può essere giusta ! » ( 523c r - 523e 6) . Se, dunque, l'o
rizzonte simbolico di questo dialoghetto lucianeo è tutto informato a un con
testo infero (cfr. supra, pp. 40 ss. ) , ci troviamo qui di fronte a uno Zeus che,
contrariamente a quello platonico del Gorgia, ingiunge al suo Ermes, dio psi
copompo per eccellenza, di contraffare le anime per poterle meglio smercia
re. Il gioco sulla contraffazione è molto forte: Zeus è, d'altra parte, il dio " at
tore " per eccellenza, simulatore e dissimulatore, al punto di essere immorta
lato da un titolo come Zeus tragedo. Per effetto di questa sottile, ma potente
allusione platonica indotta dal verbo kosméo, la scena delle Vite si apre dun
que sul tema della mimesis come contravveleno della verità.
186
2. Per la ripartizione delle battute si fa qui riferimento all'integrazione di
Itzkowitz (1992 ) .
3 · Un'altra allusione ironica, sembra, a l contesto infero, e i n questo caso
a una specifica scena di Repubblica X. Appena prima di aprire il sorteggio del
le vite, il ministro della cerimonia, prophétes, si produce in questa formula sa
cra: «la responsabilità è di chi sceglie, il dio non ne ha alcuna» (617e 4- 5 ) .
4· I n greco l a parola bios, vita, è maschile. Ciò d à luogo a u n gioco lin
guistico molto forte che si protrae per l'intero testo: la vita del filosofo via via
messa in vendita come paradigma viene a confondersi con il filosofo via via
evocato come personaggio, sicché, ad esempio, il Pitagora antico maestro di
sapienza tende a confondersi con il paradigma di vita da lui e a lui ispirato.
Si tratta di un gioco soltanto apparentemente " innocuo " . In realtà esso rive
la e coinvolge al contempo un aspetto assolutamente centrale del testo: il rap
porto tra l'imitabile (paradigma) e l'inimitabile (personaggio) che investe l'in
tero arco problematico della mfmesis (cfr. supra, pp. 17 ss . ) . In questa sede ci
limiteremo a discutere alcuni aspetti testuali e le loro ricadute nella traduzio
ne italiana. Dato il gioco di sovrapposizione paradigma-di-vita/personaggio,
una scelta possibile in sede di traduzione sarebbe stata quella di uniformare
il personaggio alla vita trasponendo tutto al femminile, ma tale scelta è parsa
subito eccessivamente normalizzante delle ambiguità volutamente orchestra
te da Luciano. Altrettanto normalizzante è parso, viceversa, trasporre tutto al
maschile. Si è pertanto optato diversamente, tenendo conto non solo dei sin
goli contesti in cui il gioco si pone e ritorna, ma anche di chi, Ermes o Zeus,
pronuncia di volta in volta la battuta. Lungo tutto il testo è infatti possibile
cogliere una differenza sostanziale tra i due dèi organizzatori della vendita .
Zeus pare a tutti gli effetti essere un proprietario alquanto involgarito e ab
brutito: ha fretta, vuole " realizzare " , vuole vendere e sbarazzarsi della merce .
Ermes è invece ironico, sulfureo, intelligente e si diverte parlando con i clien
ti. Alla luce di queste osservazioni, ci è sembrato che, laddove Zeus non di
stingue e non è interessato a distinguere, forse vuole addirittura nascondere
la distinzione tra copia (paradigma) e originale (il personaggio) , Ermes ha in
vece ben contezza della cosa , e soprattutto del fatto che, in una vendita,
confondere l'originale con la copia è una truffa, come si dice, bella e buona.
Si è pertanto optato per questo metodo: quando è Zeus a parlare, si norma
lizza al maschile onde opacizzare la distanza tra vita filosofica e personaggio,
per lasciare poi che sia Ermes a ripristinare la trasparenza, parlando contem
poraneamente al maschile e/o al femminile, a seconda della battuta di Zeus e
del contesto generale. C'è poi un terzo personaggio, il cliente. Il cliente, di
fatto, non distingue mai tra vita e personaggio, perché non è interessato alla
qualità di quello che compra, ma a procurarsi piuttosto un semplice schiavo.
Il cliente apostroferà pertanto solo al maschile la vita che sta comprando e in
terrogando. Poiché sarebbe ridondante e forse inutile avvertire il lettore del
le singole scelte di traduzione passo per passo, lo invitiamo da subito, sulla
base delle indicazioni qui fornite, a verificare personalmente, di luogo in luo
go, le diverse soluzioni da noi proposte .
5· Capellone: tratto esotico che ben si combina con il noto abbigliamento
orientaleggiante di Pitagora, ispirato a quello dei magi orientali e attribuitogli
187
dalla tradizione, cioè la corona d'oro, la tunica bianca e i pantaloni, cfr. Eliano,
Storie varie, 12, 32; Diogene Laerzio, VIII, 19; Giamblico, Vita di Pitagora, 149.
Abbigliamenti solenni si attribuivano anche ad Anassimandro e a Empedocle,
cfr. Diogene Laerzio, VIII, 70, che riporta Diodoro di Efeso. In ogni caso, il tra t
to dei lunghi capelli potrebbe risalire all'Aristofane delle Nuvole, cfr. in/ra, no
ta 6. Va inoltre ricordato come il tema del cultus adottato dal sofista sia già ben
presente nella scrittura platonica, cfr. ad esempio Ippia, 368b e Ione, 5 3 0b.
6. Catalogo ridicolo di arti e conoscenze che fa il verso al modello della
sapienza e del sapiente totale, a ogni aspirazione alla pansofia e al ruolo di
pansofo: l'archetipo è costituito da Aristofane, Nuvole, 331-333: « [Le Nuvole]
mantengono un numero incredibile di sapienti: Turiodivinatoriologi, Iatro
tecnologi, Capelloningioiellaticonlamanicurologi, Rovinamusica e Meteoro
fregnaccioni» (su queste figure di sapienti ispirati cfr. Gemelli Marciano,
2006 ) . Più in generale, il catalogo totale di arti e conoscenze è da considerar
si un vero e proprio topos intellettuale (oltre che, va da sé, letterario e retori
co) trasversale, nella letteratura europea, a molti generi, eppur tutti accomu
nati da un intento vuoi parodico, vuoi polemico, vuoi contro-ideologico in
torno a uno o più nodi di una tradizione culturale. Ci limiteremo qui a indi
care, oltre alle Nuvole, alcune opere della nostra letteratura i cui cataloghi del
sapere sono divenuti celebri: il Prometeo attribuito a Eschilo, il Fedone pla
tonico, il Gargantua et Pantagruel di Rabelais , il Faust di Marlowe e di
Goethe, passando per il Don Giovanni di Molière, tutti testi che riflettono in
torno al rapporto conoscenza-empietà.
7· La vita di Pitagora parla in dialetto ionico. A nostro avviso, nessun tra
duttore di quest'opera lucianea ha sinora reso soddisfacentemente il décalage
linguistico tra questo ionico e il neoattico del contesto. Tutt'al più, i tradut
tori si limitano a qualche opzione vagamente più colta o arcaica per segnala
re lo scarto, ma si tratta di scelte deboli che poi finiscono per perdersi dopo
poche battute. La differenza tra il greco di Pitagora, da un lato, e quello del
cliente, di Ermes e di Zeus, dall'altro, è invece fortissima e non è soltanto les
sicale, né si limita semplicemente a eleggere qualche uscita nominale o ver
bale ionica di contro a quelle attiche: la differenza coinvolge ampiamente la
sintassi e l'intero ardo verborum. Abbiamo così dovuto decidere per una re
sa forte, coniando una lingua ispirata al modello della Commedia dantesca,
per alcune ragioni che ci pare qui opportuno precisare. Innanzitutto, come
impone la memoria letteraria, lo ionico è per eccellenza la lingua di Omero,
cioè, a maggior ragione per uno scrittore di II secolo d . C . , e dopo il metico
loso lavoro di categorizzazione filologico-letteraria dei dotti alessandrini dal
III secolo a . C . in poi, la lingua di un padre delle lettere, esattamente come lo
è Dante per noi. In secondo luogo, la Commedia dantesca altro non è, nel suo
insieme, che un grande " dialogo dei morti " , come lo sono quasi tutti i dialo
ghi lucianei, ivi compreso questo. C'è poi un terzo elemento, quello dell'in
tellettualizzazione. I dialoghi lucianei sono tutti informati ad un alto livello di
intellettualizzazione (di cui la parodia è il segnale più evidente) , esattamente
come il linguaggio dantesco della Commedia. Questo perché tanto la scrittu
ra di Luciano quanto quella di Dante nella Commedia sono il risultato di una
profonda meditazione a posteriori sulle tradizioni culturali delle rispettive ci-
188
viltà cui i due autori appartengono e di cui si considerano epigoni. Avvertia
mo infine che nel trasporre la lingua di Pitagora nell'italiano dantesco abbia
mo cercato, eccezion fatta per alcune necessarie e imprescindibili licenze, di
mantenerci il più possibile aderenti alla lettera del testo greco.
8. Cioè in Egitto. L'Egitto è, nella tradizione, la terra della sapienza per
antonomasia nonché la meta quasi obbligata dei sapienti e dei filosofi (Ber
na!, 1991) .
9· Da qui in poi, le risposte di Pitagora delineano quell'immagine tradi
zionale che, evidentemente, all'altezza del II secolo inoltrato, è già depositata
e andrà quindi arricchendosi, per tutto il tardo antico fino all'intero Rinasci
mento, di tratti sapienziali, magici, mistici, esoterici, per approdare quindi al
le moderne ricostruzioni degli studi storico-religiosi. Diciamo " ricostruzioni"
in quanto la figura di Pitagora è già leggendaria al tempo di Platone, se non
certamente anche prima, ed è destinata per noi a rimanere tale, nell'assenza di
documenti e fonti di prima mano. Nemmeno all'altezza di Platone, nei cui dia
loghi sono presenti tracce significative della cosiddetta " dottrina pitagorica " ,
sappiamo quali testi o quali racconti circolassero. U n dato è certo: è a partire
dal tardo ellenismo, come Luciano attesta, che Pitagora diventa per noi quel
la figura di sapiente totale circonfusa di sacralità a tutt'oggi considerata vali
da. Come si diceva, le risposte della vita pitagorica interrogata dal cliente de
lineano l'immagine di Pitagora e del pitagorismo come la conosciamo ancora
oggi. Ripercorriamo nell'ordine i diversi tratti: a) teoria dell'anamnesi, cioè
della conoscenza- rimemorazione; b) pratica di purificazione dell' anima
(kdtharsis) e tecnica ascetica, che attualmente vengono ricondotte a una ma
trice sciamanica; c) studio in chiave esoterico-sapienziale della matematica, del
numero, della geometria, dell'astronomia, intese come forme dell'armonia co
smica; d) teoria della metempsicosi; e) vegetarianesimo e osservazione di tabù
alimentari (come quello della fava, appunto) . Sulla base di questi elementi, gli
storici delle religioni hanno riconosciuto in Pitagora la figura dello iatr6man
tis, figura di guaritore-purificatore-stregone, tecnico e maestro dell'estasi e del
viaggio dell'anima, detto altresì "maestro di verità " , secondo la celebre defi
nizione di Marcel Detienne (Detienne, 1983), diffusa nell'Oriente semitico
(Grottanelli, 1982 e Pugliese-Carratelli, 1990) , ma ricondotta alternativamente
da Meuli, Cornford, Dodds, Burkert (Burkert, 1972) allo sciamanesimo sibe
riano. Peraltro, è interessante rilevare come sia Clemente di Alessandria, Stro
mati, I, 21, a !asciarci un vero e proprio elenco di iatromanti che annovera: Pi
tagora per primo, e quindi Abari iperboreo, Aristea, Epimenide, Zoroastro,
Empedocle, Formione, Poliarato, Empedotimo, nonché Socrate (Couliano,
1991, pp. 121 ss. ) . Non ci si deve stupire se questo elenco ritorni te! quel, inclu
so lo stesso Socrate, in tutti gli studi storico-religiosi su Pitagora, il pitagori
smo e lo " sciamanesimo greco " , variamente arricchito di elementi dionisiaci e
orfici. In ogni caso, il Pitagora lucianeo è costruito sul modello del veggente
ispirato ciarlatano che già Aristofane, nelle sue Nuvole, ma più in generale la
commedia antica tutta, avevano cristallizzato in una figura letteraria ben di
stinta (Mastromarco, 1994, pp. 141 ss. e Imperio, 1998 ) .
1 0 . Racconta Erodoto, I , 85, che uno dei figli d i Creso era muto e che parlò
solo quando vide il padre in pericolo durante la presa di Sardi.
189
n. Si tratta di un'allusione alla tradizione pitagorica del giuramento su
premo in nome della tetractys, cioè della " tetrade" , considerata al contempo
come numero quattro, come serie dei primi quattro numeri uno, due, tre,
quattro e, infine, come somma di questi stessi, cioè dieci (I+ 2+ 3 + 4 = w).
La tetractys è espressamente nominata in un'opera attribuita allo stesso Lu
ciano, Per lo sbaglio nel saluto, 5, in cui si dice: «Il giuramento supremo, che
si chiamava tetractys, rappresentazione del numero perfetto, era altresì detto
da alcuni "principio della salute " : fra questi è anche Filolao». La tetractys è
citata poi in un'altra opera, Philopatris, 12, florilegio lucianeo di età bizanti
na. Qui essa compare appunto come formula di giuramento in uno scambio
di battute tra Crizia, l'empio parente di Platone, e altri personaggi. Ma, più
in generale, la tradizione attribuisce le speculazioni sulla tetractys a Filolao da
cui, secondo Diogene Laerzio, VIII, 84-85, Platone avrebbe comprato, attra
verso Diane di Siracusa, i segretissimi libri pitagorici per il prezzo di cento
mine. Importanti elementi quanto all'uso simbolico dei numeri presso i pita
gorici si trovano in Aristotele, Metafisica, 985b 3 ss. e nei Trattati di teologia
del numero, 82, Io, attribuiti a Giamblico.
I2. Il cliente innalza il suo linguaggio piegando il tono alla paratragedia
e alla parodia. Il motivo del giuramento ridicolo è un vero e proprio Leitmo
tiv delle Nuvole di Aristofane. Come qui il pitagorico giura per la tetractys, là
Socrate giura per il Respiro cosmico, per il Caos e per l'Etere (v. 627 ) , redar
guendo Strepsiade, che giura sugli dèi tradizionali, nonché insegnandogli a
giurare sulle nuove divinità ( cfr. tutta la scena dal v. 380 in poi) . Il vecchio
istruirà poi a sua volta il figlio Fidippide sui giuramenti imparati da Socrate
( vv. 8I6 ss. ) .
I 3 . L' allusione è , con tutta probabilità, all'idea che i l numero e l a figu
ra geometrica informi a sé tutte le cose e la materia. Cfr. ad esempio, nella
selva delle attestazioni, la testimonianza di Aristotele, Metafisica, I, 5, 986a
I 5 , ma anche quella di Diogene Laerzio, VIII, 24, che riporta Alessandro Po
liistore .
I4. Pitagora stesso aveva vissuto molte vite secondo la tradizione, che, co
me c'è da aspettarsi, si contraddice in merito all'identità di tali " reincarna
zioni " . Eraclide Pontico annovera Etalide, figlio di Ermes, Euforbo, ferito da
Menelao nella guerra di Troia, e poi ancora Ermotimo e Pirro, nonché un pe
scatore di Delo. Dicearco e Clearco parlano di Euforbo, Pirandro, Etalide e
d'una bella prostituta. Le testimonianze più tarde parlano invece solo di
Euforbo (Burkert, I972, pp. I38-4o; Rohde, I982, pp. 757-62 ) .
I5. Si tratta d i uno dei più celebri precetti pitagorici, detti dalla tradizio
ne akousmata o symbola. Si trattava di insegnamenti tramandati oralmente e
da intendersi non in modo letterale, bensì simbolico, come dicono Porfirio,
Vita di Pitagora, 4I e Giamblico, Vita di Pitagora, 82. Il precetto è pertanto de
stinato, nel suo vero significato, a rimanere oscuro e aperto a molte interpre
tazioni. Pitagora illustra qui il suo stesso divieto di non mangiar fave in un
modo che sembra riassumere le principali spiegazioni avanzate dall'esegesi
posteriore: in altri termini, Luciano sta parodiando la tradizione dossografi
ca. Diogene Laerzio, VIII, 34 ss. precisa che Aristotele, nel suo libro sui pita
gorici, ricordava il divieto di mangiar fave così motivandolo: esse sono mol-
190
to simili ai testicoli, ricordano altresì le porte dell'Ade, possono inoltre con
taminare chi se ne nutre, riproducono la natura del tutto e, infine, sono sim
bolo dei governi oligarchici in quanto utilizzate per il sorteggio. Come si ve
de, due di queste motivazioni si ritrovano riprodotte nel discorso del Pitago
ra lucianeo. Va notato che Aulo Gellio, IV, n, 1 - 5 contesta la tradizione, affer
mando che Pitagora in realtà si nutriva preferibilmente di fave per le loro pro
prietà lassative, adducendo l'autorità di Aristosseno (autore di una nota vita
di Pitagora) e arrivando a negare persino il divieto sulla carne.
r6. C'è forse qui, in questo tingersi di sangue della fava, il rimando a una
credenza embriologica attribuita alla scuola pitagorica da Diogene Laerzio,
VIII, 24. Il seme, composto, secondo i pitagorici, da materia cerebrale, im
metterebbe nella matrice sangue, dal quale poi si formano le carni, i nervi e
le ossa dell'embrione. L'allusione scatterebbe per effetto dell'identificazione
tra fava e genitali maschili.
17. La prassi del sorteggio elettorale è un tratto tipicamente democrati
co. In un passo assai celebre di Senofonte, Memorabili, I, 2, 9, Socrate si tro
va a biasimare il sorteggio con la fava come pratica democratica deteriore, fa
cendo così trasparire la propria affinità con alcune rivendicazioni oligarchi
che. D'altra parte, come ricordavamo qui sopra, Aristotele spiega il tabù sul
le fave con il fatto che esse erano impiegate dai governi oligarchici per il sor
teggio. La discrepanza non deve stupire: lo statuto del sorteggio nella città
antica è annoso e complesso problema . In Costituzione degli Ateniesi, 43 ss.
si delinea una fisionomia inequivocabilmente democratica del sorteggio, in
conformità con alcuni passi della Politica. Complicano però il quadro Politi
ca, II, 12, 1273b 35-1274a 21, dove Solone viene descritto come conservatore del
l'elezione oligarchica e Costituzione degli Ateniesi, 8, r, dove ancora Solone
appare ideatore d'un sistema intermedio tra il sorteggio democratico e l'ele
zione oligarchica (Glotz, 1956, pp. 247 s s . ; Camassa, 1982, p. 8r; Demont,
2ooo) . Il fatto che Aristotele, secondo Diogene Laerzio, veda nell'elezione
con la fava una pratica tipicamente oligarchica si giustifica perfettamente in
un quadro così contraddittorio. Ma qual è l'intenzione di Luciano? Evocare,
sembrerebbe, il topico coinvolgimento politico dei sapienti (filosofi) nelle vi
cende delle città in cui hanno vissuto. Pitagora svolse del resto, secondo la
tradizione, il ruolo di mediatore e ispiratore politico nella città di Crotone, se
non anche in altre della Magna Grecia. Ora, certamente Pitagora si attesta su
posizioni oligarchiche e il fatto che Luciano citi espressamente la democrati
ca Atene come luogo per eccellenza del sorteggio elettorale potrebbe ride
scrivere così il significato del precetto pitagorico: astenersi da qualsiasi coin
volgimento nei regimi democratici. Va notato da ultimo che, nel riferire la ce
lebre rivolta dei Crotoniati contro Pitagora e i suoi seguaci, Giamblico, Vita
di Pitagora, 254 ss. riporta il discorso di un oratore schierato contro il sapien
te, un popolare dal nome Ninone, il quale invitava i concittadini ad aggredi
re i pitagorici quando stavano per votare o per prendere la scheda del voto.
r8. Ancora un'allusione al tema platonico dell'anima nuda, per cui cfr. su
pra, nota r .
19. Persino nuda, l a vita pitagorica risulta ornata e contraffatta ! I n ogni
caso, l'allusione è qui a uno dei molti aneddoti leggendari della vita di Pita-
191
gora (cfr. Eliano, Storie varie, IV, 17) . Il motivo della coscia d'oro come su
prema impostura torna in Luciano nell'Alessandro, 38, 40.
20. Secondo la tradizione, Pitagora era venerato a Crotone come uomo
divino e addirittura come Apollo iperboreo (!'Apollo del Nord, ispiratore de
gli sciamani) : cfr. Eliano, Storie varie, II, 26; Diogene Laerzio, VIII, n; Giam
blico, Vita di Pitagora, 140.
21 . Il prezzo è piuttosto basso. Si tratta pertanto di una sapienza solo ap
parentemente straordinaria, ma in realtà dappoco.
22. Il numero dei compratori, 300, e la loro provenienza, Crotone, si ri
ferisce a una tradizione precisa e, in particolare, al coinvolgimento politico di
Pitagora. Sono principalmente Porfirio, che riferisce Dicearco ( Vita di Pila
gora, 56), e Giamblico, che riferisce Apollonia ( Vita di Pitagora, 248-251 e 254
ss. ) , a narrarci la storia. Giamblico, in particolare, afferma che la comunità
riunitasi intorno a Pitagora a Crotone era di 300 cittadini illustri: erano essi
diventati reggitori della città. Contro i pitagorici mosse la restante parte dei
Crotoniati capeggiati da Cilone, un cittadino ricco e famoso che era stato
escluso dai 300, alleatosi alla fazione detta popolare.
23 . È questa la vita di Diogene di Sinope, filosofo cinico, vissuto nel IV
secolo a . C . , allievo del socratico Antistene fondatore della scuola. In realtà,
la linea di continuità Antistene-Diogene-cinici, data per scontata da tutta la
tradizione antica, è stata messa in dubbio dai moderni (Giannantoni, 1993) .
24. È qui riprodotta la tipica mise trasandata del cinico: mantello usura
to, bastone, bisaccia.
25. Ermes mette all'asta una vita libera, mentre il cliente intende un uo
mo libero: di qui la battuta da commedia. In realtà, si allude parodicamente
alla vera e propria ideologia della libertà professata da Antistene e poi dai ci
nici: la libertà è una forma di sovranità su se stessi che solo la virtù può dare,
cfr. Stobeo, Florilegio, III, ro, 9 1 .
2 6 . Si fa qui riferimento all'assoluto disinteresse del cinico per l e condi
zioni di vita esterne e alla sua scelta totalmente autarchica. In realtà, dietro
questa indifferenza nei confronti delle condizioni di vita sta il precetto ami
stenico dell'unità di tutti i beni, per cui, se si possiede il vero bene, cioè la virtù,
si possiedono anche tutti gli altri, come ricorda Diogene Laerzio, VI, n, 12.
27. I cinici prendevano il loro nome dal ginnasio di Cinosarge ad Atene,
dove Antistene raccoglieva i suoi discepoli. Con un gioco di parole, Diogene
fu chiamato poi " cane" per la vita volutamente misera da lui condotta.
28. Per «cosa fai?» il greco ha tfna tiskesin epangélletai. Askest5 è parola
tecnica che metaforizza, in Antistene, l'esercizio intellettuale, cfr. SSR VA r6J:
<<Coloro che intendono diventare virtuosi devono esercitare (askein) il corpo
con prove fisiche, l'anima con i ragionamenti>>. Ma anche il verbo epangéllo
mai è termine tecnico filosofico: epdngelma è il programma d'insegnamento
del sofista/filosofo. Va ricordato che in Platone, Protagora, 319c il celebre so
fista definisce le proprie dichiarazioni programmatiche to epdngelma ho
epangéllomai. La maliziosa raffinatezza delludus parodico lucianeo mette in
bocca il gergo filosofico al cliente, inconsapevole e rozzo.
29. Allusione al cosmopolitismo come indifferenza allo status sociale, ci
vile, politico. A proposito di Antistene, cfr. Diogene Laerzio, VI, n: <<il saggio
192
non regola la sua vita civica secondo le leggi stabilite, ma secondo quelle del
la virtÙ>>.
30. Eracle è paradigma antistenico e cinico per eccellenza. Dal catalogo
laerziano sappiamo che Antistene scrisse più di un libro su Eracle. La figura
di questo eroe e la sua vicenda celebrata dal mito, in particolare le sue fatiche,
ponoi, e le sue peregrinazioni, planai, diventano allegoria dell'esercizio intel
lettuale e morale al bene, alla saggezza, alla virtù. La forza eraclea risulta al
tresì metafora dell'inclinazione naturale alla filosofia. All'Eracle minore di An
tistene si deve probabilmente far risalire l'incontro di Eracle e di Prometeo
(cfr. SSR VA 96), dove Eracle viene iniziato da Prometeo alla via della phr6nesis
(saggezza) , attraverso il ponos (fatica fisica) e l' ischys (forza) . Ma andrà altresì
ricordato un celebre passo del Pedone platonico in cui Socrate appare a Pe
done come un novello Eracle: «FEDONE Dice il proverbio che contro due non
vale neppure Eracle ! SOCRATE E tu chiama anche me come tuo Iolao, finché
ancora c'è luce. FEDONE Certo che ti chiamo in aiuto, ma non come Eracle,
bensì come Iolao che chiama Eracle ! >>, 89c 6-n. È stato notato che il richiamo
a Eracle non solo non è puramente esornativo, ma è funzionale a ri-mitizzare
l'immagine del filosofo (Loraux, 1991b; Stella, 1998, pp. 242 ss. ) .
3 1 . L a metafora bellica è, anche questa, tradizionalmente antistenica. Cfr.
Diogene Laerzio, VI, 3, che cita Diocle, dove la virtù compare come arma e la
filosofia come una battaglia di pochi beni contro la totalità dei mali. Il riferi
mento è alla nota polemica antiedonistica di Antistene e dei cinici. Diogene
Laerzio afferma che Antistene andava ognora ripetendo di preferire la follia
alle sensazioni e dunque al piacere che ne poteva derivare. E tuttavia già in
Platone è largamente presente la metafora della dialettica come battaglia, ma
che (Canino, 1998 ) .
3 2 · Luciano accentua l'aspetto della volontarietà, come indicano i termi
ni ekousios, proairoumenos e ou keleust6s. Abbiamo qui ancora un riferimen
to al volontarismo eraclea. E, tuttavia, il termine proairoumenos può riman
dare alla proairesis stoica, in particolare a Epitteto, cioè alla scelta prelimina
re che il soggetto deve esercitare su ciò che è buono e su ciò che non lo è (Ha
dot, 2006, pp. 33- 5 ) .
33· I l greco ha pathe, cioè stati e/o affezioni dell'animo, ovvero emozioni
e pulsioni: il tema della purificazione delle emozioni è connesso a quello del
la " guerra al piacere " .
34- Libertà di parola: parrhesia. Diogene era considerato dalla tradizione
un vero e proprio teorico della parrhesia, cfr. Diogene Laerzio, VI, 69, al pun
to da trasformarla in anaideia, sfrontatezza, cfr. Diogene Laerzio, VI, 32; 46; 69 .
35· «Sgobbare e sudare>>: il greco ha ponos, con riferimento alle fatiche di
Eracle.
36. Quanto all'abbandono di casa, parenti, padre, madre e patria, è im
pressionante la vicinanza del testo lucianeo con quanto Epitteto fa dire a Dio
gene su Antistene: «Egli mi ha insegnato ciò che dipende da me e ciò che non
dipende da me: la fortuna non dipende da me, i parenti, gli amici, la reputa
zione, il posto dove vivo, il modo di vivere, niente di tutto questo dipende da
me>>, cfr. Diatribe, III, 24, 67-68. Quanto al disprezzo del buon nome, cfr. an
che Diogene Laerzio, VI, n.
193
37· E noto che Diogene sapesse vivere anche in una botte. Quanto alla
torre, Diogene Laerzio, VI, 98 riporta due versi dalle tragedie del cinico Cra
tete, allievo di Diogene, che così recitano: «La mia casa non è una torre, non
è un tetto, ma dove ci è possibile vivere l bene, in ogni punto di tutto l'uni
verso, lì la mia città, lì la mia casa». Si noti anche il riferimento all'inclinazio
ne cosmopolita.
38. Si sancisce qui l'equivalenza già antistenica di dolore/fatica e bene,
per cui cfr. Diogene Laerzio, VI, 2. Nel contesto lucianeo, questa equivalenza
diventa addirittura una felicità maggiore di quella del Gran re di Persia .
39· Citazione da Euripide, Ippolito, 612.
40. Da qui in poi la strategia del discorso cambia. Luciano rappresenta
ora la degradazione della filosofia cinica e antistenica a mero esibizionismo
finalizzato all'acquisto di una facile notorietà.
41 . Se finora Luciano ha riprodotto la tradizione antistenica, ecco che
adesso se ne distacca. Antistene era un fiero avversatore del piacere sessuale,
come attestano le testimonianze, cfr. SSR VA 127-128 . L'invito a praticare un ses
so " strano" è tipico di Diogene. Racconta Diogene Laerzio, VI, 46 che un gior
no Diogene si stava masturbando nella piazza del mercato e, nel bel mezzo di
quell'occupazione, andava dicendo: «magari mi passasse la fame scrollando
mi così anche la pancia ! >>.
42. Paideia e logos, dice il greco. Nella filosofia antistenica la paideia, l'e
ducazione, e l'esercizio del logos, non solo come razionalità, ma come lin
guaggio finalizzato alla ricerca della virtù, erano centrali. La prospettiva di
Antistene è qui brutalmente rovesciata.
43 · Il greco dice epitomos haute sai pros doxan be hod6s, cioè, letteral
mente, «questa è la via breve alla notorietà>>. Luciano sta evidentemente pa
rafrasando un'espressione proverbiale, riportata da Diogene Laerzio, che si
era soliti ripetere nella dossografia e nella manualistica a proposito dei cini
ci, individuando appunto nella condotta di vita cinica la via breve verso la
virtù, cfr. Diogene Laerzio, VI, ror «Come Aristone di Chio, [i cinici] bandi
scono la logica e la fisica e si dedicano solo all'etica>>, per indicare «la via bre
ve verso la virtù (ryntomon ep'aretèn hod6n)>> (cfr. anche VII, 121 e Goulet
Cazé, 1986) . Luciano stravolge parodicamente l'espressione trasformando la
via breve alla virtù nella via breve al successo.
44· Altro brutale rovesciamento dell'etica cinica che non ricerca la fama.
Ma forse, nel riferimento ai calzolai, ai pescivendoli, ai carpentieri e ai cam
biavalute, deve essere letta anche un'allusione al noto motivo socratico, così
forte nei dialoghi platonici, del ta hautoii prattein (del " fare quello che è pro
prio a ciascuno" ) , per cui ogni uomo dovrebbe perseguire e realizzare ciò che
gli è proprio. In Platone il ta hautoii prattein ha un significato evidentemen
te politico, poiché è proprio del popolo ubbidire e dei filosofi comandare o
suggerire soluzioni di governo. Rimandiamo, per tutto questo, a Repubblica,
433a-444c, in cui l'ozkeiopragia (434c 8 ) , l'occuparsi di quanto è proprio a cia
scuno, si contrappone alla polypragmoryne (444b 2) , la sovrapposizione di tut
ti i ruoli sociali e morali.
45· È questa la vita di Aristippo di Cirene, fondatore della cosiddetta
scuola cirenaica, discepolo di Socrate.
194
46. Il ritratto lucianeo di Aristippo, compreso il suo cultus raffinato, to
talmente opposto a quello di Diogene, allude a quella che si potrebbe chia
mare l'ideologia del piacere cui questo discepolo di Socrate e la sua scuola si
appellano. Fulcro della filosofia cirenaica è l'identificazione del piacere con
il bene, dove il bene, agath6n , è contemporaneamente " bene " e " buono " ,
cioè piacevole. Tutti i beni/piaceri s i equivalgono i n nome d i questa unità, cfr.
Diogene Laerzio, II, 87. Ciò poteva anche raggiungere risvolti più estremi:
Diogene Laerzio, II, 88 afferma infatti che per Aristippo il piacere è un bene
anche se nasce dalle cose più indecenti e anche se induce ad azioni sconve
nienti. Il ritratto che qui si fa di Aristippo, completamente ubriaco, dedito al
sesso e al cibo, deve essere ricondotto a questa tradizione.
47· Aristippo non parla. In Contro i matematici, VI, 53, Sesto Empirico ri
ferisce che, secondo i cirenaici, tutto era " affezione" , pathos, e che quindi la
voce, la phoné, non essendo affezione, non doveva essere considerata tra le co
se reali. C'è, dunque, in questo silenzio, una parodia dell'aphonie cirenaica?
48 . Tutto il modo in cui viene rappresentato Aristippo ricorda il celeber
rimo ritratto di Alci biade in Simposio, 212 ss. Come è noto, Alcibiade arriva a
cena da Agatone, all'improvviso e senza invito, completamente sbronzo tan
to da non poter reggersi in piedi e doversi sostenere appoggiandosi agli ami
ci e a una flautista.
49 · Sophistès hedypatheias, dice il greco. Hedypdtheia è termine tecnico
che indica " il movimento dolce accompagnato da sensazione " , come dice
Diogene Laerzio, II, 85 (per i cirenaici la sensazione/percezione, aisthesis, è
movimento, kinesis) , " movimento" espressamente definito hedypdtheia da
Ateneo, XII, 544a.
50. Si tratta di Democrito di Abdera e di Eraclito di Efeso, qui venduti
in coppia perché complementari nelle loro manifestazioni timiche, il pianto
e il riso. La coppia del piagnone e del burlone compare per la prima volta, a
quanto sappiamo, in un frammento Sull'ira di Sozione, maestro di Seneca,
conservato da Stobeo, Florilegio, III, 20, 53· C'è poi la testimonianza di Lu
ciano stesso. Quanto al Democrito che ride lo troviamo in Cicerone, De ora
tore, Il, 58, 235; Orazio, Epistole, Il, r, 194; Giovenale, X, 33, 47·
51. Democrito, come Eraclito, parla ionico. Anche Pitagora parla ioni
co, ma in forza di una strategia completamente diversa. L'effetto che Lucia
no vuole sortire attraverso la parlata ionica di Pitagora è decisamente sa
pienziale o, meglio, para-sapienziale. La verbalità di Democrito e di Eracli
to è invece tutta tesa a creare un effetto esclusivamente timico o, meglio, ci
clotimico, dall'estremo riso al pianto estremo, ripercorrendo, sul filo di una
parodica evocazione, la memoria del riso comico e del pianto tragico. Ab
biamo dunque deciso di rendere lo ionico di Democrito con il linguaggio
dell'opera buffa ( cfr. infra, nota 52) e quello di Eraclito con il linguaggio del
l' opera seria.
52. Parafrasiamo qui, e nella battuta successiva di Democrito, i versi fi
nali del Falstaff di Verdi-Boito, atto III, parte II, che così recitano: «Tutto nel
mondo è burla. l L'uom è nato burlone. l La fede in cor gli ciurla, l gli ciur
la la ragione. l Tutti gabbati ! Irride l l'un l'altro ogni mortai. l Ma ride ben
chi ride l la risata finai>>.
195
53· Si mette alla berlina la nota teoria atomistica di Democrito. Il vuoto
(keneà panta) e gli atomi sono i due principi del cosmo democriteo. Cfr. a
questo proposito almeno le testimonianze di Diogene Laerzio, IX, 44 e Sim
plicio, Il cielo, 294, 33, che riporta Aristotele (fr. 208 Rose ) . Quanto all'infi
nità, apeirfe, degli atomi, si allude evidentemente all'altrettanto nota teoria
democritea dei mondi infiniti.
54· È la dottrina eraclitea dell' ekpyrosis, secondo cui il cosmo è periodi
camente sconvolto da una conflagrazione universale dalla quale riparte un al
tro ciclo ( cfr. Diogene Laerzio, IX, r, 8 ) . Gli stoici hanno avuto un ruolo fon
damentale nell'attribuzione a Eraclito di questa credenza. Aezio, II, 32, 4
(Doxographi Graeci, p. 364 = 22 B 13 DK) connette l' ekpyrosis eraclitea a quel
la stoica di Diogene di Babilonia ed entrambe al cosiddetto grande anno co
smico, cioè al periodo di tempo impiegato dal sole, dalla luna e dai pianeti
per ritornare alla loro posizione originaria. Questo grande anno consterebbe
per Eraclito, secondo Aezio, di 10.8oo anni solari.
55· Queste parole hanno tutta l'aria d'essere un patchwork eracliteo. Il
motivo è quello della compresenza, se non coincidenza , degli opposti in
un'unica forma, espresso allegoricamente da Eraclito nella nota affermazio
ne: «La via all'insù e quella all'ingiù sono una sola e la stessa>> (hodòs ano ka
to mia kai he aute' ) , cfr. 22 B 6o DK. Si noti che G. S. Kirk (1954, p. 109) cita
proprio questo passo delle Vite lucianee, considerandolo come una riformu
lazione del citato aforisma eracliteo. D'altra parte, la presenza dei due av
verbi ano kato accanto al participio (panta) perichoréonta appare un esplici
to richiamo all'immagine della duplice "via " , mentre il verbo perichoréo al
lude alla celeberrima definizione platonica dell'insegnamento di Eraclito da
ta in Crati/o, 402a: panta choret, «tutto scorre>>. Vale la pena di citare un pas
so pseudo-ippocratico, Sulla dieta, 1 , 5 (il testo è generalmente ritenuto di IV
secolo a . C . ) , intessuto di echi eraclitei, linguisticamente e retoricamente as
sai vicino al testo di Luciano: «Tutto scorre (chorei te panta): l'umano e il di
vino si scambiano (ameib6mena) dall'alto in basso dal basso in alto (ano ka
to)>> . Si nota, nel testo di Luciano, parallelamente a quello di attribuzione ip
pocratica, la presenza dei verbi choréo e amefbomai insieme al nesso avver
biale ano kato. In particolare, amefbomai esprime in Eraclito l'azione per ec
cellenza del fuoco cosmico, come risulta dall'aforisma: pyròs antamoibé ta
panta kai pyr hapdnton, «tutto si cambia in fuoco e il fuoco in tutto>>, cfr. 22
B 90 DK (su tutto questo cfr. West, 1993, pp. 168-72) .
56. Il ciceone era bevanda sacra somministrata all'iniziando nei misteri
eleusini: «Ho digiunato, ho bevuto il ciceone, ho preso dal cesto coperto, ho
lavorato e ho rimesso nel cesto alto e da lì nell'altro cesto>>. Questo avrebbe
detto l'iniziato d'Eleusi secondo la testimonianza di Clemente di Alessan
dria, Protrettico, 21 , 2, che riporta il synthema, cioè la formula pronunciata
dagli adepti alla fine del rituale. Il ciceone era in realtà una sorta di zuppa
d'orzo, acqua e menta e si beveva in ricordo di quel ciceone che Demetra
stessa, secondo l'Inno a Demetra, 192-211, aveva ingerito per dissetarsi du
rante le sue peregrinazioni in cerca della figlia Kore. È evidente che nel pas
so lucianeo il ciceone diventa una metafora cosmologica: il cosmo sarebbe,
come il ciceone, una mescolanza i cui componenti convivono distinti e con-
196
fusi insieme. La tradizione attribuisce effettivamente a Eraclito questa me
tafora (Teofrasto, La vertigine, 9, III, 138 Wimmer = 22 B 125 DK). Ma fonda
mentale è la mediazione stoica: Marco Aurelio, Pensieri, IV, 27; VI, w; IX, 39
definisce ciceone la mescolanza del divenire, mentre Plutarco attribuisce a
Crisippo la metafora del ciceone come immagine del perpetuo movimento
universale, cfr. Sulle contraddizioni degli Stoici, 34, 1049f.
57· L'ai6n è l'eternità, intesa come tempo eterno del cosmo. Pare effetti
vamente che Eraclito sia stato il primo a personificare ai6n: nel celeberrimo
frammento 22 B 52 DK, esso è descritto come un fanciullo divino e regale che
muove le pedine nel gioco della dama: «L'eternità è un fanciullo, che gioca e
muove le pedine: la regalità è nelle mani di un fanciullo». Clemente di Ales
sandria identifica in Pedagogo, I, 22 l' ai6n con Zeus .
58. Anche in questa battuta e in quella successiva si riproduce uno dei no
ti aforismi eraclitei. Il frammento 22 B 62 DK dice: «Gli immortali sono mor
tali, i mortali immortali, che vivono la loro morte e muoiono la loro vita». Qui
mortalità e immortalità sono legate tra di loro come accade in Eraclito per
ogni altra coppia di opposti.
59 · Il legame di Eraclito, del suo linguaggio, con quello dell'oracolarità
delfica è più che evidente. L'intento del sapiente è precisamente quello di pre
sentare sé come prophétes del dio e il proprio sapere come conoscenza di ori
gine divina. D'altra parte il frammento 22 B 93 DK recita : «Il signore, cui ap
partiene quell'oracolo che sta a Delfi, non dice, né nasconde, ma accenna».
Tutta la sapienza eraclitea vuole dunque rifare il gioco dell'oracolo di Delfi,
che non enuncia verità, ma soltanto vi allude.
6o. Si tratta di Socrate. Quanto al «chiacchierone» (in greco stomylon) ,
il riferimento è alla ben nota pratica della diatribé, conversazione dialogata,
socratica. Il dialogo è condotto da Socrate preferibilmente e prevalentemen
te con i bei giovani ( cfr. infra, nota 61 ) . E già all'interno della scrittura plato
nica la mania di Socrate di intrattenersi tutto il giorno a parlare coi ragazzi è
stigmatizzata da Callide nel Gorgia, 484c 4-486d 1 .
6 1 . Socrate s i presenta dunque come pederasta, paiderastés, amante dei
(bei) ragazzi e sophòs ta erotzkd, maestro del desiderio. Luciano coglie, per
metterlo poi alla berlina, uno dei motivi centrali della scrittura platonica e, di
conseguenza, uno dei tratti fondamentali del Socrate platonico. In Simposio,
216d 2-3 Alcibiade afferma: «Socrate lo vedete sempre tutto in amore con i bei
ragazzi (erotzkòs didkeitai tòn kalòn) . E gira sempre loro intorno e fa l'im
bambolato». All'inizio del Protagora, 309a, poi, l'anonimo amico chiede a So
erate: «Da dove spunti, Socrate? Sicuramente sei andato come al solito a cac
cia del bell'Alcibiade. Anch'io l'ho visto recentemente e mi è sembrato pro
prio ancora un bell'uomo, ma uomo fatto, Socrate, che ormai gli spunta bar
ba ! » . Nel Carmide, Socrate confessa di essere arrossito e rimasto senza fiato
per aver intravisto il pube del bellissimo Carmi de tra le pieghe lente della ve
ste: «Ed io, caro amico mio, vidi ciò che nascondeva la veste e mi attraversò
una vampata ! Persi il controllo di me stesso e pensai che era Cidia il più sa
piente maestro dell'amore, quando disse, parlando a un amico di un bel fi
gliolo: " guardati, cerbiatto, dal portar via ad un leone la sua parte di carne" ! »
(155d 3-7) . Quanto all'essere sophòs ta erotikd, v a ricordata l a scena centrale
197
del Simposio, quella in cui Socrate si presenta come ammaestrato nelle " cose
d'amore " , dalla sapientissima sacerdotessa Diotima, cfr. 20Id-2I2C 3· Nell'in
tero Fedro, infine, Socrate compare come maestro assoluto dell'eros, forma
di invasamento creativo e speculativo. Scena d'amore privata e quasi " coniu
gale " , per la sua intimità e tenerezza, è invece l A ' lcibiade I, dove, a un Alci
biade ormai maturo e prossimo all'esordio nella vita pubblica ateniese, So
crate dichiara tutto il suo rapimento, con una formula divenuta celebre: «Ii
mio amore per te sarà in tutto simile a quello della cicogna: coverò in te un
amore alato che poi, in cambio, sarà circondato dalle tue cure ! » (IJ5e I-J) . È
noto che nella scrittura platonica l'eros e la bellezza sono una delle vie fon
damentali, se non la via principale, la più alta, alla conoscenza e alle forme
d'arte in cui essa si esprime. Ma Luciano, come le regole della degradazione
parodica impongono, rescinde tutto l'aspetto intellettuale dall'eros platonico
e dunque dall'eros socratico per non !asciargli che l'aspetto più propriamen
te carnale, soprattutto attraverso le risposte disincantate del cliente. Socrate
ne esce come un vecchio un po' lubrico e costantemente infoiato.
62. Tipica situazione del dialogo platonico, quella che vede un padre al
la ricerca d'un buon maestro per i figli: è il caso del Lachete, ma anche del
Teagete. E tuttavia, più in generale, il paradigma maestro-allievo sta sullo
sfondo della maggior parte dei dialoghi. Ma va notato come, prima ancora
che dal dialogo platonico, questa situazione sia stata messa in scena dalla
commedia aristofanea, nelle Nuvole.
63. I.: allusione è assai specifica a un passo del Simposio platonico. Si trat
ta del discorso di Alcibiade, verso la fine del dialogo, là dove il giovane rac
conta di una notte passata con Socrate. Egli aveva invitato Socrate a cena,
mentre i suoi genitori erano assenti, e, già innamorato di lui, aveva fatto di
tutto per trattenere il più a lungo possibile l'amico, onde averlo con sé anche
l'intera notte: così fu. Quando Socrate si decise a dormire da Alcibiade, il gio
vane gli propose di diventare suo amante offrendogli la protezione del nome
e della ricchezza, oltre che la sua bellezza fisica, in cambio di consigli, guida
e ammaestramento alla filosofia. Alcibiade si infilò quindi sotto il mantello di
Socrate e allacciò le braccia intorno al suo corpo, precisando infine: «mi al
zai la mattina successiva come se avessi dormito con un fratello maggiore o
con mio padre», cfr. 2I9d I-2.
64. La battuta è , in realtà, piuttosto pesante, perché allude, evidente
mente, al processo per empietà (e corruzione dei giovani) intentato contro
Socrate nel 399 a . C . da Anito e Meleto, all'indomani del rientro in Atene dei
democratici fuorisciti e nonostante il celebre decreto d'amnistia . Secondo
Diogene Laerzio, II, 40 e Senofonte, Memorabili, I, I, I, e come Platone stes
so conferma nell'Apologia, 24b 8-c 3 (ma cfr. anche Eutz/rone, 3b- d ) , l'accusa
di empietà, in greco graphè asebeias, contro Socrate, si articolava in tre pun
ti: Socrate non riconosce gli dèi che la città riconosce; Socrate introduce nuo
ve divinità, kainà daim6nia; Socrate corrompe i giovani. In questo contesto,
ci interessa particolarmente il secondo punto della graphè asebeias, cui Lu
ciano si riferisce intenzionalmente. Le " nuove divinità " sarebbero qui il cane
e il platano. Nei dialoghi platonici, spesso Socrate esordisce in sonori «por
co cane ! » ( celebre è quello, ne ton kyna, di Pedone, 98e 5 ) . Quanto invece al
198
giuramento sul platano, si allude con molta precisione a Fedro 236d 10-e 3, do
ve Fedro, nel tentativo di convincere Socrate a pronunciare un contro-di
scorso in risposta a quello di Lisia, afferma: «Ti giuro . . . per chi vuoi che giu
ri, eh ? Per chi? Vuoi che giuri per questo platano qui? Che se non fai il tuo
discorso, io, davanti a questo platano, non ti mostrerò mai più e non ti par
lerò mai e poi mai più di nessun altro discorso di chicchessia ! >>. Il tono è ap
parentemente scherzoso anche nel Fedro: poco prima, 229c 4 ss., Fedro ave
va tendenziosamente chiesto a Socrate se credeva nel vecchio mito del rapi
mento di Orizia da parte di Borea e Socrate aveva risposto di sì, se non altro
perché non aveva tempo da perdere a razionalizzare su Ippocentauri, Chi
mere, Gorgoni e Pegasi, quando non conosceva ancora se stesso ! Il giura
mento sul platano è dunque dichiaratamente un po' denigratorio nei con
fronti degli dèi e dei racconti tradizionali.
65. Luciano allude al Platone politico della Repubblica (ma non è esclu
so un riferimento alle Leggi) . Gli elementi caratterizzanti di quest'allusione
sono: la città tutta per sé, l'ordinamento straniero e le leggi personali. Non è
vero, innanzitutto, che Socrate plasmi nella Repubblica una città per se stes
so, semmai essa è immaginata per i ram polli dell'alta società ateniese come
Glaucone e Adimanto, i fratelli di Platone, che costituiscono nel dialogo gli
interlocutori privilegiati di Socrate . Verrebbe anzi il lecito sospetto che, da
una città come quella della Repubblica, Socrate rischierebbe d'essere il primo
escluso. Se Luciano stravolge così il senso della Repubblica platonica lo fa,
senza dubbio consapevolmente, ispirandosi a un tipico motivo comico ari
stofaneo: il progetto assurdo del buffone comico, egoisticamente individua
listico e ridicolo. Due soli esempi: la pace tutta per sé che Diceopoli negli
Acarnesi vuole stipulare privatamente con Sparta e, soprattutto, la città aerea
che la coppia comica Pistetero-Evelpide vuole edificare per stanchezza e de
lusione nei confronti della città in cui abitano. Lo stesso dicasi per le leggi pri
vate. Quanto all'ordinamento straniero, Luciano allude quasi sicuramente al
le posizioni (da intendersi in senso molto lato) filolaconiche di Platone nella
Repubblica e nelle Leggi, come, ad esempio, la costituzione di una comunità
guerriera elitaria, la funzionalizzazione della donna alla città-accampamento,
l'abolizione della proprietà privata. E va ricordato, a questo proposito, che
gli interlocutori dell'anziano e anonimo ateniese nelle Leggi sono un genera
le spartano, Megillo, e un notabile cretese, Clinia .
66. È la famosa pensata della comunanza di donne e figli, che nella Re
pubblica stessa, nel quinto libro, è presentata da Socrate come una posizione
rischiosa e immediatamente esposta al ridicolo. Il discorso platonico è in
realtà estremamente serio perché adombra il problema del controllo eugene
tico in una possibile città perfetta. Luciano gioca su un piano di forte degra
dazione comica, facendo passare l'idea di Socrate come progetto di una gran
de orgia collettiva. Va da sé che l'abolizione della legge sui puttanieri non è
elemento platonico, e nemmeno la proposta di dare i ragazzini in premio al
letto degli uomini migliori: Luciano fa qui parlare Socrate come la Prassago
ra delle Ecclesiazuse aristofanee, l'eroina comica che si fa capofila d'una so
cializzazione di tutti i beni, di tutte le proprietà e di tutte le attività compre
se quelle sessuali, legiferando puntualmente sull'ordine in cui, ad esempio, le
199
brutte e vecchie devono fare sesso prima delle belle e delle giovani onde non
essere escluse dai privilegi della riforma .
6 7 . Dopo l'erotico e i l politico, veniamo all'aspetto più strettamente teo
rico della filosofia platonica. Luciano mette sullo stesso piano le " idee " , idéai,
come " paradigmi dell'essere " , ta ton onton paradeigmata, e le " immagini in
visibili " , eik6nes aphanets, che stanno fuori dall'essere, confondendo voluta
mente l'uso platonico dei termini " idea " e " immagine " . " Immagine " , nella
speculazione platonica, è l'effetto di riproduzione sostanzialmente priva di
verità sortito da tutti i sa peri che si fondano sull'opinione: si tratta dunque di
un termine non sovrapponibile a quello di idea e di paradigma . A titolo d'e
sempio, cfr. lo statuto dell'immagine in Repubblica, V, 598b ss.
68. All'apparente assurdità della risposta di Socrate, sta sotteso il princi
pio che le idee non possono avere una consistenza sensibile, poiché godono
esclusivamente di verità antologica.
69. Tutto è doppio, dice Socrate. Qui Luciano si fa sostenitore parodico
di un'interpretazione della cosiddetta filosofia platonica delle idee che a
tutt'oggi è accreditata e annovera copiose bibliografie. Si tratta della cosid
detta " teoria dei due mondi " , per cui, posto che esista un mondo delle idee
intelleggibili in quanto essere e modelli di tutte le cose esistenti, il mondo del
le cose esistenti risulterà essere una mera copia o immagine dell'essere, un
mondo parallelo di particolari sensibili, soggetti a sensazione e opinione (Fer
rari, 2000, pp. 394- 5, nota 4) .
70. Dione, cognato di Dionigi, tiranno di Siracusa, è il celebre compagno
d'avventure politiche di Platone. L'incontro tra i due avvenne nel 388 a . C . , in
occasione del primo viaggio di Platone in Sicilia. Rimandiamo il lettore alla
narrazione della celeberrima Lettera VII platonica.
71. Si tratta di Epicuro e del genere di vita a lui ispirato.
72. Tutto il ritratto di Epicuro che segue riproduce gli stereotipi della
lunga tradizione di calunnie costruita intorno alla figura del filosofo, a parti
re dalla questione del " furto di idee " che Epicuro avrebbe perpetrato ai dan
ni di Democrito e di Aristippo. Diogene Laerzio, X, 4 apre il racconto della
vita di Epicuro con la rassegna di tali calunnie, diffuse soprattutto dagli stoi
ci (da Diotima a Posidonio, ma è nominato anche Dionigi di Alicarnasso) , se
condo i quali egli avrebbe spacciato per proprie la dottrina atomistica di De
mocrito e quella edonistica di Aristippo. Fare di Epicuro un allievo di De
mocrito e di Aristippo era dunque un topos della tradizione dossografica. Va
notato che Luciano non associa Epicuro a Democrito per la dottrina atomi
stica, ma per l'attitudine al riso ( come del resto è per l'attitudine al vino e al
la gozzoviglia che il filosofo viene associato ad Aristippo) . Il riso è un motivo
importante nella filosofia epicurea, come risulta da Sentenze vatican e, 41 : «Ri
dere e filosofare e attendere alla vita quotidiana e a tutto quello che la con
cerne e non cessare mai di far risuonare le parole della retta filosofia», dove
il riso è simbolo della libertà e della superiorità del sapiente.
n L'empietà di Epicuro, dyssébeia, è un altro topos della tradizione. In
realtà, Epicuro mai rinnegò l'esistenza degli dèi, come risulta dall' Epùtola a
Meneceo, I2J: «Innanzitutto credi che la divinità è un essere vivente incorrut
tibile e felice, come attesta la comune nozione del divino, e non aggiungerle
200
nulla che sia estraneo all'incorruttibilità o alieno alla felicità [. . . ] . Gli dèi in
fatti esistono: la conoscenza che noi ne abbiamo è evidente, ma essi non so
no quello che i più credono che siano, perché essi sconfessano ciò che essi
stessi credono degli dèi. Empio (asebés) non è chi rinnega gli dèi dei più, ma
chi agli dèi aggiunge le opinioni dei più: [ . .. ] poiché sono false supposizioni
ciò che i più esprimono sugli dèi>>. Come si vede, compare in questo passo lo
spettro dell'accusa di empietà contro i filosofi che rinnegano la communis opi
n io sugli dèi della tradizione.
74· La golosità di Epicuro era diventata falsamente proverbiale. Dioge
ne Laerzio, X, 7 ci informa che, secondo le calunnie antiepicuree, il filosofo
era solito spendere una mina al giorno per mangiare. In realtà, da quanto ci
resta, sappiamo che Epicuro esortava costantemente alla frugalità, come ri
sulta, ad esempio, dall'EpiStola a Meneceo, 131: «l cibi poveri danno lo stesso
piacere di quelli elaborati, quando il dolore del bisogno sia interamente spa
rito; e pane ed acqua danno il piacere supremo, quando se ne cibi chi ne ha
bisogno. Abituarsi a un regime semplice e povero è dunque salutare e rende
l'uomo pronto alle necessarie occupazioni della vita>>.
75· I cibi dolci sono qui, evidentemente, metafora dell'invito epicureo a
ricercare il piacere. Un piacere che non va tuttavia frainteso, come lo fu assai
spesso dalla tradizione polemica o meno colta. Riportiamo qui un passo mol
to significativo dell'EpiStola a Meneceo, 131: «Quando dunque diciamo che il
fine è il piacere, non intendiamo i piaceri dissoluti o quelli che consistono nel
l' esteriorità - come credono alcuni che o sono ignoranti o dissentono da noi
o non ci comprendono bene -, ma il non soffrire dolore fisico e non avere tur
bamento nell'anima>>.
76. Il testo greco dice «fichi della Caria>>. La merce della Caria era pro
verbialmente scadente. Probabilmente Luciano vuole rifare il verso alla fru
galità epicurea, recuperando dunque un tratto autentico, forse l'unico tratto
qui autentico, pur nell'inversione parodica.
77· Si tratta della vita stoica, che si sovrappone alla figura di Crisippo.
78. Il saggio stoico è per antonomasia austero e altero. Sull'austerità del sag
gio cfr. ad esempio SVF 3, 639, mentre sul suo distacco altero (megalophrosyne)
cfr. ad esempio Marco Aurelio, Pensieri, III, n e X, 8 .
79· Parodia dell'eccellenza assoluta ed esclusiva accordata dagli stoici,
più in generale, e da Crisippo, in particolare, al sapiente. Luciano elenca que
ste qualità: bello, giusto, coraggioso, re, retore, ricco, legislatore. Di quasi tut
te abbiamo riscontro puntuale nelle testimonianze antiche: sulla bellezza cfr.
ad esempio Cicerone, I limiti del bene e del male, III, 75: «a ragion veduta si
dirà [il saggio] bello, perché le fattezze della sua anima sono più belle di quel
le del corpo>>; quanto all'attività legislativa, Clemente di Alessandria attri
buisce al saggio, tra l'altro, l'arte del legislatore (nomothetiké, SVF 3 , 619 ) ; sul
la conformità alla legge cfr. ad esempio Stobeo, Florilegio, II, 102 ( = SVF 3 , 614) ;
sulla regalità cfr. ad esempio Diogene Laerzio, VII, 122: «Non solo i saggi so
no liberi, ma anche re, non dovendo il potere del re obbedienza alcuna>>; sul
la ricchezza cfr. ad esempio Stobeo, Florilegio, II, 101 ( = SVF 3, 593) : «Essi di
cono che la vera ricchezza è il bene e la vera povertà il male [. .. ] . Per questo
201
dicono che solo il filosofo è ricco e libero», ove si chiarisce che gli stoici allu
dono a una ricchezza metaforica, rovesciata parodicamente da Luciano in ric
chezza propriamente detta. Vogliamo inoltre rimandare al passo di Filone, La
sobrietà, 56, 2, p. 226, 16 Wendland ( = SVF 3, 6o3 ) , che lascia al lettore misu
rare quanto da vicino Luciano parodizzi, non solo sul piano ideologico, ma
anche su quello retorico, il topos del catalogo di qualità attribuite al saggio
stoico: «Lui solo [il filosofo] è di buona nascita perché ha adottato dio come
padre [. .. ] ; non solo ricco, ma ricchissimo, perché prospera tra beni che so
no i soli a essere abbondanti, pregevoli, non soggetti al tempo, ma di volta in
volta nuovi e giovani; non famoso, ma illustre, perché non contaminato dal
l' adulazione [ . .. ] ; lui solo è re, perché ha ottenuto da colui che su tutto è ege
mone il dominio incontrastato di un potere illimitato; lui solo è libero, per
ché si è liberato dalla padrona più oppressiva, la vuota opinione». Come si
vede, la triplice anafora lucianea di monos fa il verso alla tipica anafora di
monos che struttura gli elenchi stoici delle virtù riconosciute al filosofo.
So. Il greco dice: ou [. . . ] eph 'hemin tautd estin . Nella speculazione stoica
sul fato e sul libero arbitrio, l'espressione ta eph 'hemin e il suo opposto ta ouk
eph 'hemin indica quelle scelte, quelle attività, quegli stati ecc. che sono o non
sono soggetti all'individuo in quanto essere razionale nonostante il dominio
indiscusso del fato, l'heimarméne, sull'intero cosmo. La tradizione attribui
sce generalmente a Crisippo il tentativo di conciliare appunto il destino e la
possibilità dell'uomo di esercitare le proprie facoltà ad agire, con l' argomen
to - recitano le testimonianze - che l'impulso di cui sono dotati tutti gli esse
ri viventi è relativamente dipendente dal fato. Tra le altre, sono importanti,
sulla questione, le testimonianze di Alessandro di Afrodisia (Il destino, 26, p.
196, 13 Bruns = SVF 2, 984; 33, p. 205, 1 Bruns = SVF 2, 1001; 35, p. 207, 4 Bruns
= SVF 2, 1003 ) , Origene (I principi, III, p. 108 Delarue = SVF 2, 988 ) , Cicerone
(Il destino, 39) , Gellio (Notti attiche, VII, 2 ) . Quanto alla traduzione del to
eph'hemin, alcuni rendono in italiano con il termine " libertà " , che a noi non
pare tuttavia appropriato. Insoddisfacente ci pare anche la traduzione lette
rale, assai diffusa, "le cose che sono in nostro potere" o " che dipendono da
noi " , in quanto il to eph 'hemin è un vero e proprio sintagma tecnico-gergale
stoico e la traduzione letterale appiattisce la specificità linguistica. Abbiamo
dunque optato per la soluzione " cose arbitrali e non arbitrali " , pur forzando
un poco l'italiano, perché da un lato essa scarta rispetto alla lingua d'uso, dal
l' altro conserva etimologicamente il concetto di " arbitrio" che è la questione
sottesa al to eph'hemin .
8 1 . I l greco dice adidphoron, letteralmente " indifferente " . I n Crisippo e
nell'etica stoica l'indifferente è, secondo la definizione riferita da Diogene
Laerzio, VII, 102, ciò che non è né bene né male in senso morale, come ad
esempio vita, salute, piacere, bellezza, forza, ricchezza ecc. Nella traduzione
conserviamo per traslitterazione il greco, poiché il termine " adiaforo" è in uso
nella terminologia dell'attuale storiografia filosofica.
82. In greco proegména, cioè " preferibili " , il suo opposto essendo apo
proegména, i " non preferibili " . Nell'etica stoica e crisippea ciò che è indiffe
rente (adiaforo) sul piano morale ( cioè non è né bene né male) può tuttavia
essere preferibile o non preferibile. Preferibile è ciò che ha un' apprezzabilità
202
forte, non preferibile ciò che ha una decisa negatività, secondo, ad esempio,
la testimonianza di Sesto Empirico, Contro i matematici, Xl, 59, ma cfr. anche
Diogene Laerzio, VII, 105 e I27. Cicerone, I confini del bene e del male, III, 50,
attribuisce il conio linguistico proegména, apoproegména a Zenone. Quanto
alla traduzione italiana di proegménon , abbiamo seguito la soluzione che Ci
cerone ne offre in I confini del bene e del male, III, 53, cioè «praepositum ve!
praecipuum», da cui la nostra scelta di "precipuo" , poiché scarta rispetto al
linguaggio comune.
83. In greco kataleptikè phantasia, che noi abbiamo reso con " apprensio
ne immaginativa " per enallage. Nella gnoseologia stoica e crisippea in parti
colare, almeno secondo la testimonianza di Aezio, Precetti, IV, 12, I (Doxo
graphi Graeci, p. 401 , I4 = SVF 2, 54) , la phantasia è una rappresentazione che
si produce in presenza di un oggetto reale, ad esempio il " cogliere con la vi
sta il bianco " , in presenza di un oggetto bianco. Phantasia kataleptiké, poi,
secondo, ad esempio, Diogene Laerzio, VII, 46, è una rappresentazione vera
perché proviene dalla realtà o, come si diceva prima, si definisce in presenza
di un oggetto reale e costituisce, pertanto, il criterio di verità. Secondo Sesto
Empirico (Contro i matematici, VII, 242) katalepttkè phantasia è un vero e pro
prio imprimersi e stamparsi nell'anima della cosa reale percepita e per Cri
sippo, in particolare (Contro i matematici, VII, 227 ) , è un cambiamento del
l' anima, come se l'anima subisse un'alterazione in contatto con l'oggetto pro
duttore della phantasia.
84. In greco spoudaios. Nella terminologia stoica, e già con Zenone (cfr.
ad esempio SVF I, 216), spoudaios è largamente sinonimo di saggio e soprat
tutto di filosofo (Vegetti, I983, pp. 25 ss. ) . La figura dello spoudaios è già di
Platone, dove gioca, tra l'altro, il ruolo del cittadino modello, cfr. ad esempio
Repubblica, 423c-d. Se ne appropriano poi l'etica e la politica aristotelica (Ga
staldi, 1987), da cui la trasmissione agli stoici.
8 5 . In greco symbama kai parasymbama, termini della semantica stoica.
In particolare, rymbama è predicato, ciò che si predica d'un nome in una fra
se (come «Socrate passeggia») , mentre parasymbama è ciò che si predica di
un caso obliquo ( come «A Socrate dispiace», dove non si ha un vero e pro
prio predicato, ma un para predicato, perché l'azione non è riferibile a un sog
getto) , cfr. SVF 2, 184. Ora , sulla base dell'esempio di symbama e parasymba
ma che Crisippo dà al cliente, i traduttori rendono in genere i due termini con
"accidentale " e " sovraccidentale" ( " accidente" e " sovraccidente " ) , essendo
infatti la zoppia di un uomo accidentale, cioè un accidente (nel senso aristo
telico ) , ma la ferita che lo zoppo si procura inciampando sovraccidentale, ov
vero un sovraccidente, in qualche modo restituendo la specificità terminolo
gica dei due lessemi al valore comune del verbo da cui essi derivano, cioè sym
baino, "accadere " . È indubbio che Luciano giochi su entrambi i piani, ma la
semplice resa di symbama e parasymbama con " accidentale " e " sovracciden
tale " opacizza tutta la specificità del contesto tecnico di provenienza . Abbia
mo dunque reso symbama con " accidente predicativo" e parasymbama con
"accidente para predicativo" , per salvare entrambi i livelli di significato.
86. La logica stoica e, in particolare, quella crisippea si erano sempre più
raffinate in casistiche minuziosissime. Molti sono i libri di logica scritti da Cri-
203
sippo e molte le trattazioni sui sillogismi, come appare anche da un rapido
sguardo al catalogo delle opere offerto da Diogene Laerzio, VII, 189.
87. Ciò che qui viene illustrato da Crisippo al cliente è uno dei suoi co
siddetti sofismi. Esso non ha soluzione, poiché, se il cliente rispondesse che
il coccodrillo ha deciso di restituirgli il figlio, il coccodrillo replicherebbe no
e se lo mangerebbe, mentre se dicesse che il coccodrillo ha deciso di non re
stituirglielo, il coccodrillo consentirebbe e se lo mangerebbe comunque. Ma
va segnalata qui la particolare raffinatezza della parodia lucianea . Le testi
monianze antiche ci parlano effettivamente di un "argomento del coccodril
lo" , cfr. SVF 2, 286, il quale consisterebbe in un ragionamento aporetico sul
piano della predicazione (dporon en kategoriai) . Il nome di " coccodrillo" è
dunque puramente metaforico, ma Luciano riconverte la metafora in signifi
cato proprio (cfr. anche in/ra, nota 8 8 ) , facendo di un coccodrillo il protago
nista del sofisma. È da notare, peraltro, che questo passo delle Vite è stato in
corporato da von Arnim nella sua raccolta dei frammenti stoici e inserito nel
la sezione sulla logica crisippea, cfr. SVF 2, 287. Tale inclusione fa pensare. Se
un passo parodi co viene così antologizzato, c'è senz' altro una ragione, essen
do la parodia rovesciamento puntuale di pratiche discorsive attestate e dun
que specchio di ciò che viene parodizzato. Ma è anche vero che le Vite sono
una parodia delle dossografie antiche, dei manuali antichi di storia della filo
sofia e dunque del metodo con cui essi costruiscono la storia della filosofia,
decontestualizzando e trasformando, tra l'altro, i testi letterari in fonti e do
cumenti ( cfr. supra, pp. 55 ss. ) . Dell' " Elettra " non troviamo attestazione, per
quanto fosse consuetudine degli stoici attingere al patrimonio mitico e tragi
co (euripideo in particolare), nella confezione di sillogismi e sofismi, nonché
di complesse analisi semantiche. Riportiamo infine la definizione di sofisma
che ci viene da Galeno, V, p. 72 Ki.ihn ( = SVF 2, 272): «i cosiddetti sofismi, che
sono ragionamenti falsi confezionati ad arte per sembrare veri. Il fatto che sia
no falsi vien fuori dalla conclusione, che non è vera».
88. Quanto all"' incappucciato" e al " signore " , ne troviamo testimonian
za presso le fonti antiche. Va qui segnalata, ancora come sopra, la particola
re strategia lucianea, che trasforma i nomi dei sofismi crisippei, pure metafo
re del tipo specifico di procedimento logico-linguistico sotteso al relativo so
fisma, in nomi di significato proprio, sortendo così un effetto parodi co di par
ticolare sottigliezza. Nel caso dell"' incappucciato" , ad esempio, il nome " in
cappucciato" allude al seguente procedimento deduttivo: non A, non B, dun
que anche non C, non D fino a non Z; ma A è X, dunque anche . . . Z è X, come
ci è testimoniato da Diocle in Diogene Laerzio, VII, 82. Prendendo per pro
prio il significato del nome "incappucciato" , Luciano fa costruire a Crisippo
l'argomento del padre incappucciato non riconosciuto dal figlio. Del " signo
re " , un particolare sofisma su ciò che gli stoici chiamavano "i possibili " , ci dà
testimonianza, tra gli altri, Epitteto, Diatribe, Il, 19.
89. In greco ta prata katà physin , che noi abbiamo reso con " i principali
per natura " . Al riguardo particolarmente importanti, tra le altre, le testimo
nianze di Cellio, XII, 5, 7 e Plutarco, Le nozioni comuni, 26, 1 071a ( = SVF 3, 195),
in cui si chiarisce che le cose prime per natura non sono beni in senso mora
le, ma costituiscono tutto ciò che il corpo per natura ricerca, come il piacere,
204
e tutto ciò che il corpo rifiuta, come, ad esempio, il dolore. La salute rientra
senz'altro in questa categoria, ma non la ricchezza, che viene inserita per in
trodurre il tema dell'avidità di guadagno del filosofo, sapientemente celata da
complesse formulazioni e nobili scopi.
90. " Solecismo" è qualunque scorrettezza di carattere morfo-sintattico o
lessicale. Sappiamo dal catalogo di Diogene Laerzio che Crisippo scrisse più
di un libro sui solecismi.
91. L'elleboro è pianta con cui si preparavano decotti per guarire, tra l'al
tro, dalla follia: cfr. ad esempio Aristofane, Vespe, 1489, dove Xantia consiglia
a un Filocleone in delirio per il vino di bersi un decotto d'elleboro, ma anche
Platone, Eutidemo, 299b e Teofrasto, Storia delle piante, IX, 10, 2. Tale cre
denza e pratica antiche si tramandano sino alla modernità. Una celeberrima
incisione anonima del XVI secolo che rappresenta il mondo sotto il berretto
del matto (Norimberga, Germanisches Nationalmuseum) reca il motto: «0
caput elleboro dignum ! » . In Storia vera, Il, 18, nel riferirei il lungo catalogo
dei sapienti riuniti nell'isola dei beati, Luciano sottolinea l'assenza degli stoi
ci, ancora tutti impegnati a risalire l'erta china della virtù. A Crisippo, in par
ticolare, continua Luciano, era impedito l'accesso all'isola prima che avesse
bevuto per la quarta volta l'elleboro. È evidente che si vuole mettere alla ber
lina il ferreo razionalismo stoico tacciandolo di mattìa. E non è certo di follia
ispirata che si tratta, ma di vera e propria malattia mentale ! (Per la cura del
la mania mediante l'elleboro cfr. Pigeaud, 1995> pp. 234 ss. ) .
9 2 . Abbiamo tradotto qui "ebreo d i Malta" perché antonomasia d i im
mediata comprensione per il lettore moderno, ma il greco dice «quanto a es
sere uno Gnifone», nome a noi del tutto ignoto, per quanto il contesto lasci
trasparire che si tratti di personaggio proverbialmente avido. Nello scritto lu
cianeo Timone, 58 Gnifone compare come esemplare parassita.
93· La questione della conoscenza a pagamento e della sua moralità è an
tica ed è posta essenzialmente da Platone in molti suoi dialoghi, per quanto gli
strali platonici si abbattano in particolar modo su Protagora e su Gorgia, sen
za parlare di Ippia . Ci pare opportuno citare qui un passo dell'Ippù1 Maggio
re, di particolare interesse: «SOCRATE È proprio vero che la vostra arte ha da
to un bel contributo a mescolare gli interessi pubblici con quelli privati. Il so
fista Gorgia da Leontini se ne arrivò qui da casa sua a fare l'ambasciatore, ché
già era considerato abilissimo a fare gli interessi pubblici dei Leontini, e la gen
te credette che egli parlò benissimo, mentre, contemporaneamente, faceva
conferenze e dava lezioni private ai ragazzi guadagnando un sacco di soldi, sol
di della nostra città ! Ma se vuoi, c'è anche il nostro comune amico Prodico !
Che ha avuto molte volte qui e altrove incarichi pubblici. Ultimamente, poi, è
venuto da Ceo a trattare un affare comune e ha avuto un gran successo in as
semblea, mentre, contemporaneamente, faceva conferenze e dava lezioni pri
vate ai ragazzi, facendo soldi da non credere ! [ . . . ] E prima di loro, altrettanto
fece Protagora ! IPPIA Ma allora, Socrate, non sai le più belle ! Se tu sapessi
quanti soldi ho fatto io, rimarresti di sale ! Guarda: lasciamo pur perdere gli
spiccioli e veniamo al fatto che quando sono andato in Sicilia - e Protagora
stava proprio lì ed era famoso ed era molto più vecchio di me - e guarda che
io ero molto giovane - beh, in poco tempo ho fatto molto più di centocin-
205
quanta mine, e, pensa, in una sola città, Inico - ma davvero piccola, eh ! - ho
fatto più di venti mine ! E quando sono ritornato a casa, ho dato questi soldi a
mio padre, lasciando lui e altra gente completamente allibiti ! Guarda, credo
proprio di aver guadagnato più di due qualsivoglia sofisti messi insieme che
vuoi tu ! » (282b 3-e 8 ) . Ora, nell'Atene del V secolo a.C. di cui scrive Platone
nei suoi dialoghi la polemica contro il sapere a pagamento ha evidentemente
un senso preciso per chi, come Platone appunto, appartiene a famiglie di chia
ra fama e la cui ricchezza è pressoché esclusivamente terriera: si tratta di una
polemica nettamente antidemocratica rivolta a una società in cui le attività in
tellettuali si trovano in rapidissimo corso di professionalizzazione. Già Ari
stotele, del resto, è professore di scuola e privato retribuito. Ma certamente es
sa non ha più senso nel mondo di Luciano, assai lontano ormai da quello di
Platone, un mondo in cui, da secoli e secoli, la figura dell'intellettuale è com
pletamente professionalizzata e comunemente retribuita: Luciano stesso è un
intellettuale libero professionista, talora con incarichi pubblici. Questa pole
mica contro la sapienza a pagamento è dunque in Luciano un mero topos fi
losofico e, in particolare, un parodico contro-omaggio a Platone.
94· Qui Crisippo gioca sul doppio significato del verbo " speculare " , in
greco logfzomai, nella duplice accezione teorica ed economica, gioco che ha
perfetta rispondenza in italiano. Non soddisfa pertanto la soluzione di molti
traduttori, che rendono logfzomai con " fare sillogismi" e quindi con " mette
re insieme (o calcolare) gli interessi " , dichiarando che non è possibile ripro
durre il gioco di parole del testo greco.
95· Ulteriore gioco linguistico. " Interesse" è in greco tokos (da tikto, ge
nerare), che, nell'accezione comune, significa " figlio" . Ora, gli " interessi se
condari " , ovvero gli interessi sugli interessi, sono definiti da Crisippo apago
noi, cioè, metaforicamente, " discendenti " . Tutto il ragionamento di Crisippo
è dunque un ludus linguistico sul campo metaforico della generazione.
96. Abbiamo qui un tipico esempio di sillogismo crisippeo anapodittico,
un sillogismo che cioè non necessita di dimostrazione, perché ricava imme
diatamente la conclusione dalla premessa. La struttura logica di questo sillo
gismo è così descritta, tra gli altri, da Diocle in Diogene Laerzio, VII, 79: «Se
il primo, il secondo, ma si dà il primo, dunque anche il secondo>>, ma cfr. an
che Alessandro di Afrodisia (Commento agli "Analitici primi" di Aristotele, p.
373, 28 Wallies = SVF 2, 253 ) : «Se A, B, ma A, allora B>>.
97. Il tema del guadagno e del ricavare denaro dall'attività intellettuale era
comunque oggetto di ampio dibattito all'interno della scuola stoica e Crisip
po, in particolare, stando almeno alle testimonianze, ne trattò nel primo libro
delle sue Vite, cfr. Diogene Laerzio, VII, r88 e Plutarco, Sulle contraddizioni de
gli stoici, 20, 1043e ( = SVF 3, 693 ) . È proprio Plutarco a dirci: « [Crisippo] nelle
Vite afferma che il saggio farà il mestiere di sofista chiedendo ad alcuni disce
poli un pagamento anticipato e con altri accordandosi sul prezzo>>.
98. Per la struttura del ragionamento anapodittico cfr. supra, nota 96.
99· Quello che troviamo qui di seguito è un tipico esempio di sillogismo
assolutamente falso, che Alessandro di Afrodisia (Commento agli "Analitici
primi" di Aristotele, p. 283, 7 Wallies = SVF 2, 257) così descriverebbe: «A si di
ce di ogni B , B si dice di ogni C, C si dice di ogni D; dunque A si dice di D>>. Nel
206
caso qui proposto dal Crisippo lucianeo, avremmo dunque: A = pietra si di
ce di B = corpo, B = corpo si dice di c = essere vivente, C = essere vivente si
dice di D = te (il cliente) ; dunque A = pietra si dice di D = te ( cliente) . Ales
sandro di Afrodisia chiama questo sillogismo, sulla scorta della logica aristo
telica, " teorema della sintesi" , descrivibile anche come sistema di sillogismi
subordinati (in cui si omette la conclusione " A si dice di o " ) e sovraordinati
(in cui si omette la proposizione " A si dice di c " e " c di o " ) . Crisippo presenta
invece questo sillogismo come un tipico anapodittico, ma, va da sé, la confu
sione è voluta e costituisce, anzi, un procedimento pianificato del rovescia
mento parodico lucianeo.
roo. Perseo tramutava in pietra chiunque con la testa della Gorgone da
lui stesso tagliata .
ro1 . Niobe, madre di dodici figli, sei giovani e altrettante giovani, fu pu
nita da Apollo e da Artemide per essersi vantata dell'abbondanza della sua
prole al cospetto di Leto, madre dei fratelli divini. I suoi figli e le sue figlie fu
rono tutti uccisi e Niobe fu trasformata in roccia, cfr. Omero, Iliade, XXIV,
60J.
102. Ritorna il riferimento al sofisma del "mietitore " , cfr. PAR. 22.
103. È la vita aristotelica.
104. Si mettono qui alla berlina le virtù tipiche dello spoudaios aristoteli
co, l'uomo-cittadino retto (métrios, epieikés, harm6dios toi bioi, dice Luciano
con esplicito riferimento all'Etica Nicomachea) , il quale è «il " canone e la mi
sura " del comportamento morale (EN VI, 6, IIIJa 32 ss. ) , che è in questo cam
po " misura di ogni cosa" (IX, 5, n66a 12 ss.), la cui valutazione dei piaceri di
scrimina fra quelli nobili e degni e quelli perversi e corrotti (EN x, 5 , rq6a 15
ss.)» (Vegetti, 1990, p. r82) . Luciano attribuisce dunque ad Aristotele le qua
lità del modello etico che egli stesso ha costruito nella sua scrittura.
105. Il riferimento è all'ordinamento editoriale dell'opera aristotelica . È
Aristotele stesso a definire più di una volta " essoteriche " alcune sue opere,
ad esempio nell'Etica Nicomachea, no2a r8-28, dove egli precisa di aver trat
tato adeguatamente il nesso anima-società nei propri scritti " essoterici " . Es
soterici sarebbero dunque gli scritti letterari di Aristotele, quelli destinati a
un vasto pubblico perché volutamente non specialistici. Per contro, " esote
rici " sono i trattati, le opere specialistiche destinate a un pubblico ristretto,
in primis il pubblico della scuola, familiarizzato con il linguaggio tecnico del
la filosofia. Mentre degli scritti essoterici ci sono giunti soltanto frammenti,
ci sono pervenuti invece quelli esoterici pubblicati e ordinati nella seconda
metà del I secolo d . C . da Andronico di Rodi.
106. Luciano si riferisce qui alla suddivisione aristotelica del bene-uno
platonico. Nei primi capitoli dell' Etica Nicomachea e dell' Etica Eudemia Ari
stotele sferra la sua critica all'unità del bene platonico, liquidato come im
possibile logico e nozione inservibile sul piano etico-pratico, cfr. rispettiva
mente i capp. I, 8 e I, 4 delle due opere etiche.
107. Qui di seguito Luciano sbeffeggia la storia naturale aristotelica e so
prattutto le sue derive post-aristoteliche.
ro8. È la vita pirroniana, essendo Pirrone il fondatore della scuola scetti
ca qui rappresentata.
207
109. Il testo greco dice " Pirria " , che è un soprannome e significa " rosso
di capelli" . Si tratta di un nomignolo dispregiativo di norma appioppato agli
schiavi (cfr. Timone, 22) . La nostra traduzione ha optato per " Battista " , per
ché nome tipico del personaggio maschile di servizio.
no. Questa e tutte le altre risposte della vita pirroniana a seguire sono co
struite, sul filo della parodia, intorno alla fraseologia scettica, di cui ci infor
ma Sesto Empirico nel suo vero e proprio manuale, se non dizionario, della
filosofia scettica, meglio noto come Ipotiposi pirroniane. Il modello pirronia
no sostiene qui di non poter sapere nulla sulla base del principio dell'irrap
presentabilità delle cose.
m. Dietro a questa risposta è possibile ravvisare la discussione scettica
intorno al cosiddetto " criterio" inteso come fede o giudizio nell'esistenza (ve
rità) o nell'inesistenza (falsità) delle cose. Come è noto dalle Ipotiposi pirro
niane, II, 1 4 ss., gli scettici confutano il criterio di esistenza/verità così come
di inesistenza/falsità, sicché si giunge alla più completa aporia nella determi
nazione dell'esistenza o meno, della verità o meno, delle cose.
n2. Quanto all'inesistenza/irrappresentabilità dell'uomo, è forse utile ci
tare quanto afferma Sesto Empirico nel mentre confuta il " criterio " , cfr. Ipo
tiposipirroniane, II, 22: «Mi pare dunque [ . .. ] che non solo l'uomo non si pos
sa comprendere, ma nemmeno se ne possa avere la nozione. E, invero, noi
sentiamo che in Platone Socrate confessa apertamente di non sapere se è uo
mo o qualche altra cosa» (trad. di O. Tescari riveduta da A. Russo) . La tratta
zione di Sesto prosegue poi con la confutazione di tutte le definizioni di uo
mo offerte dalle principali scuole filosofiche.
n3. La bilancia che la vita pirroniana tiene in mano è sonoro sfottò di un
altro principio scettico, vale a dire l'ugual peso, in greco isosthéneia, delle ar
gomentazioni, che poi sfocia nell'indecidibilità. Citiamo ancora Sesto Empi
rico, Ipotiposi pirroniane, I, 188: «Per l'ugual peso dei fatti contrari, riusciamo
all'equilibrio. E intendiamo per " ugual peso" la uguaglianza rispetto a quel
la che appare essere la forza persuasiva, per i " fatti contrari " , così, come co
munemente s'intende, " fatti contrastanti " , per "equilibrio " , il non assentire
né in un senso né nell'altro». Ma per l' isosthéneia cfr. anche Sesto Empirico,
Contro i logici, II, 159, 288 .
n4- Scherzo sul principio scettico dell'akatalepsfa, cioè della imprendi
bilità/incomprensibilità/irrappresentabilità delle cose, essendo il termine
akatalepsfa deverbativo di katalambdno, " comprendere " . Sesto Empirico
spiega in Ipotiposi pirroniane, I, 200 che il filosofo scettico definisce incom
prensibili quelle cose non evidenti le quali, indagate dogmaticamente, risul
tano assolutamente oscure .
n 5 . Il cliente scherza qui sull'inerzia scettica che è conseguenza della
sospensione di ogni giudizio. In realtà Sesto Empirico protesta contro la
taccia di inerzia appioppata ingiustamente agli scettici a causa di un frain
tendimento tra quanto genuinamente sostenuto dagli scettici puri e quanto
invece affermato dagli accademici di tendenza scettica (Ipotiposi pirronia
ne, I, 226) .
n6. Gioco parodico sulla cosiddetta aphasfa scettica, che è in realtà la ri
nuncia tanto all'affermazione quanto alla negazione. Luciano estremizza evi-
208
dentemente il concetto scettico di afasia, facendone la rinuncia completa al
la parola e altresì alla vista e all'udito.
117. Ancora parodia della cosiddetta ataraxfa, ovvero imperturbabilità
scettica, che deriva dalla sospensione di ogni giudizio, cfr. Sesto Empirico,
Ipotiposi pirroniane, I, 8; ro; r8; 25; 30; 31.
118. �epoché è l'astensione da ogni giudizio. Citiamo ancora le Ipotiposi
pirroniane, I, 8: «Lo scetticismo esplica il suo valore nel contrapporre i feno
meni e le percezioni intellettive in qualsivoglia maniera, per cui, in seguito al
l'ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo, anzitutto, alla
sospensione del giudizio, quindi, all'imperturbabilità».
119. In greco katà ton cheiro logon . C'è forse qui un'allusione al celebre
motivo sofistico della tenzone tra il discorso forte e quello debole, tra il di
scorso giusto e quello ingiusto, come nelle Nuvole aristofanee?
120. Interessante la chiusa con l'annuncio della futura vendita di vite co
muni, vite di artigiani e di ambulanti. Luciano giunge in questo modo all'az
zeramento definitivo della vita filosofica mettendola sullo stesso piano di
quella non filosofica.
La morte di Peregrino
209
re che sferra il suo contrattacco contro Teagene e Peregrino/P roteo afferma,
già dall'esordio, di rifarsi esplicitamente al riso di Democrito. Il secondo, al
PAR. 45: Luciano chiede retoricamente a Cronio se non pensa che Democrito
avrebbe riso nel vedere Peregrino far uso d'un collirio per curarsi gli occhi
qualche tempo prima di salire sul rogo, allo stesso modo di uno che prima di
salire sulla croce si curasse un dito rotto. Il Democrito qui evocato, soprat
tutto nella seconda occorrenza, è piuttosto esplicitamente, a nostro avviso,
quello dello pseudo-epistolario ippocratico, che si attesta tra I e II secolo d.C.
(Lettere r o - 2 1 , 23 Littré ) : il Democrito melancolico, creduto folle dai suoi con
cittadini ed esaminato su richiesta diretta degli Abderiti niente meno che dal
grande medico Ippocrate, il Democrito che ride dell'assoluta fatuità e nullità
dell'uomo e della sua esistenza, ma, al contempo, anche il Democrito assor
to in una costante attività contemplativa e speculativa, dedito alla scrittura,
all'indagine naturale e filosofica, alla ricerca delle cause dell'umana infelicità
(cfr. Lettera 17 e le profonde motivazioni che del proprio riso Democrito ivi
espone a Ippocrate) . Anche il Democrito delle Vite ( cfr. supra, Vite, nota r)
non può che iscriversi nel contesto dello pseudo-epistolario ippocratico.
Questo Democrito, trasgressore del senso comune, insensato perché spec
chio dell'insensatezza del mondo, rievoca da un lato la figura dell'old/ool co
mico, dall'altro appare come un vero e proprio doppio dello stesso Cronio:
Cronio ride della follia umana esattamente come fa il Democrito dell'episto
lario pseudo-ippocratico. Ma si potrebbe formulare un'ipotesi ulteriore. Sup
ponendo che il nome Cronio alluda a Cronos in quanto dio planetario, cioè
al pianeta Saturno, non potremmo forse ravvisare nel dedicatario dello scrit
to lucianeo la rappresentazione dello spirito saturnino (Saturnino sarebbe del
resto il calco latino di Cronio), tanto folle e melancolico quanto predisposto,
dal pianeta che lo governa, alla teoresi e alla contemplazione filosofica, allo
stesso modo del Democrito pseudo-ippocratico? Ora, è noto che l'immagine
di Saturno come astro della melancolia e delle attività intellettuali emerge di
stintamente nel nostro Rinascimento con Marsilio Ficino, il quale fonde per
primo la sindrome melancolica di antichissima ascendenza ippocratico-ari
stotelica (cfr. Problema XXX) con il saturnismo tardo-antico e medievale, dan
do luogo a quella figura del personaggio geniale in cui l'infelicità e la più ele
vata contemplazione convivono in una natura insieme vessata e metafisica
(Klibansky, Panofsky, Saxl, 198 5 ) . Ma, alla luce degli studi di Ioan P. Coulia
no possiamo andare oltre. Couliano si è impegnato a indagare il tema dell'a
scesa/ discesa dell'anima attraverso le sfere dei pianeti, mostrando come esso
compaia già con estrema chiarezza nell'ellenismo astrologico popolare e col
to addirittura precristiano e si saldi fortemente al tema delle influenze plane
tarie sulle indoli umane. È imprescindibile citare qui un passo di Couliano,
dove l'autore così riassume i risultati dei propri studi: «Da un punto di vista
cronologico, il primo a presentare questa teoria [scil. il passaggio dell'anima
attraverso le sfere planetarie e le influenze che da queste essa riceve] è stato
lo gnostico cristiano Basilide di Alessandria, seguito dal figlio (o discepolo)
Isidoro. La teoria è stata probabilmente ripresa da Numenio di Apamea; è si
curamente presente nelle parti dell'Apo crz/o di Giovanni che precedono il
210
Contro le eresie di Ireneo e nelle altre dottrine gnostiche riassunte da Ireneo
verso il 180 d . C . ; diventa poi un elemento centrale nel neoplatonismo che ini
zia con Giamblico; ritorna nei neoplatonici greci Proda, Ierode, Damascio,
Simplicio e Prisciano di Atene ed Ermea e Olimpiodoro di Alessandria; rive
ste un ruolo decisivo per il neoplatonico latino Macrobio e il suo giovane con
temporaneo Servio; acquista un'importanza notevole nell'ermetismo, appare
nella versione modificata del manicheismo e permea uno dei più fecondi mi
ti gnostici nel trattato Pistis Sophia per poi riapparire in un episodio sporadi
co della mitologia del bogomilismo. Vorrei inoltre sottolineare brevemente le
varianti di tale teoria: 1) Probabilmente per il medioplatonismo e sicuramen
te per il successivo neoplatonismo, questa dottrina si limita ad affermare che
al momento della sua nascita l'anima discende dalla Via Lattea attraverso le
sfere dei sette pianeti e da ognuno di questi riceve determinate qualità ne
cessarie al nuovo essere per la vita sulla Terra. Le qualità planetarie sono quel
le comunemente attribuite ai sette pianeti dall'astrologia ellenistica. 2) Nello
gnosticismo, partendo da Basilide [. .. ] la dottrina è negativa: dai sette gover
nanti planetari (arconti) l'anima, durante la sua incarnazione, acquisisce i set
te vizi che formano il suo spirito contraffatto [ . .. ] . 3 ) Con il neoplatonismo ci
troviamo di fronte a una versione positiva dello spirito contraffatto nella dot
trina dell'ochema o veicolo dell'anima, che è vagamente presente nello stesso
Platino e consiste nell'unione di elementi platonici, aristotelici, astrologici.
La fonte di questa dottrina è il trattato pseudo-ermetico Panaretos che ap
partiene alla vulgata astrologica ermetica e può essere fatto risalire al II se
colo a . C . Il trattato è andato perduto, ma appare riassunto nell'Eisagogika
di Paolo d'Alessandria ( dopo il 370 d . C . ) e ulteriormente esposto nel com
mento su Paolo d'Alessandria scritto nel 475- 509 da Eliodoro, un discepolo
ateniese di Proda. [ . . . ] Il Panaretos si occupa della teoria dei kleroi o " sor
ti" dei diversi pianeti, cioè di quelle qualità che i pianeti assegnano a ciascun
individuo e che possono essere dedotte dalla lettura dell'oroscopo dopo
aver seguito alcuni calcoli matematici piuttosto semplici>> (Couliano, 1991,
pp. 190- 1 ) . Certo, dalle fonti a nostra disposizione esaminate da Couliano la
melancolia in quanto tale non appare associata a Saturno: il Panaretos attri
buisce a Saturno la fatalità; il cap. 25 del Poimandres gli attribuisce invece la
" menzogna che tende tranelli " ; Servio (Commento all"'Eneide", VI, 714 e XI,
p) gli attribuisce ora l'umore ora il torpore; Proda (Commento al "Timeo", I,
199 e V, 237) e Macrobio ( Commento al "Sogno di Scipione", I, 12, 13-14) la fa
coltà contemplativa, theoretik6n e logistik6n . Se Macrobio e Servio, i quali ri
conoscono nell'attività contemplativa il tratto saturnino per eccellenza, sono
troppo distanti dal II secolo di Luciano, è pur vero tuttavia - cosa stranamente
non rilevata da Couliano - che il Plutarco del Volto della luna, 941 ci narra del
pianeta C ronos Ogigio- Saturno attorniato dai suoi servitori, i quali ogni
trent'anni (cioè quando Saturno è nel Toro) fanno vela a Ogigia ove presta
no servizio per altrettanti trent'anni, ma si ritrovano poi, almeno la maggior
parte, a rimanere presso il dio-pianeta, dedicandosi agli studi matematici e fi
losofici, senza darsi alcun altro pensiero. È chiarissima in questo testo - uno
dei tre scritti capitali di escatologia astrale plutarchea - l'associazione di Cro-
211
nos- Sa turno all'esercizio speculativo e contemplativo, e ci pare vi si possa ad
dirittura ravvisare un testimonio di quella tradizione detta " i figli dei piane
ti" (cioè le inclinazioni e i mestieri che discendono da un dio planetario) che
Friz Saxl ascriverebbe soltanto all'astrologia medievale orientale indo-irani
ca penetrata quindi nell'Europa umanistica e rinascimentale (Saxl, 1985, pp.
274- 9 ) . Parrebbe dunque che all'altezza del II secolo d . C . , quando scrivono
appunto Plutarco e Luciano, si possa effettivamente parlare di un nesso tra
saturnismo e attività teoretica perfettamente enucleato e, se non si nomina
esplicitamente la melancolia, è tuttavia vero che la menzogna, l'inganno, la fa
talità attribuiti dal Panaretos e dal Poimandres a Sa turno sono perfettamente
allineate al quadro ippocratico-aristotelico della melancolia. Ma c'è un dato
ulteriore. Nell'epistola 17 pseudo-ippocratica, Ippocrate afferma che Demo
crito ha "traslocato " da questo mondo ad abissali spazi siderei installandosi
al loro vertice, là dove tutte le arti nobili hanno sede, i vi liberando la sua men
te in una indisturbata attività intellettuale. Ci pare evidente che l'autore del
l'epistola stia qui alludendo a una psicanodia, ovvero all'ascesa dell'anima at
traverso le sfere planetarie. C'è da chiedersi se quel vertice e quel punto d' ar
rivo della psicanodia di Democrito sia proprio la sfera di Cronos-Saturno, co
me farebbe supporre il riferimento alle " arti superiori " , che altro non posso
no essere se non la filosofia, gli studi scientifici e matematici. Tirando le fila
di questa complessa strategia, possiamo dunque inferire che Luciano ponga
il suo libello sotto gli auspici di una contemplativa e filosofica stultitia che si
fa specchio dell'insensatezza mondana e su questa riversa gli strali del suo
umor nero (per lo humor democriteo cfr. Hersant, 1991, pp. 9-23 ) .
2. L a formula d i saluto e u prattein viene considerata pressoché unani
memente dalla critica un calco platonico, e forse lo è . Ma più importante è la
palese allusione al genere epistolare in quanto tale. Rimandiamo per questa
discussione supra, pp. 62 ss.
3 · In greco kakodaimon , letteralmente " dal cattivo genio " . I.: insulto (che
ricorre anche ai PARR. 13 e 42, mentre ai PARR . 7 e 42 ricorre katdratos) è fre
quente nella commedia, ad esempio Nuvole, 104. Segnaliamo qui che questo
insulto, nelle sue sfumature comiche, sopravvive ancora nel teatro di Shake
speare, Riccardo III, I, III, 143-144: «QUEEN MARGARET [astde] Hide thee to beli
for shame, and leave this world, l thou cacodemon: there thy kingdom is»
(corsivo mio) (REGINA MARGHERITA [a parte] Vai a nasconderti all'inferno, e
lascia questo mondo, l tu anima nera: quello è il tuo regno) .
4 · Anche Peregrinos è nome parlante. Innanzitutto s i tratta d i una gre
cizzazione del nome italico Peregrinus, derivato dall'aggettivo peregrinus, che
significa specificamente " straniero " . C'è chi ha inferito che questo nome sia
indizio di cittadinanza romana (Jones, 1986, pp. n7-32) . Ma ciò pare davvero
difficilmente sostenibile. Assai recentemente Detering (2004) ha non soltan
to riaffermato che Peregrino è nome simbolico, ma che esso allude altresì al
celebre caposetta gnostico Marcione, contemporaneo di Luciano. Di più: De
tering è convinto che Peregrino sia in realtà Marcione e che tutto il libello lu
cianeo consista in una satira contro il marcionismo. Ma se, come lo stesso De
tering riconosce, la figura del cristiano siriano marcionita poteva tranquilla-
212
mente passare in quel tempo per il cristiano tout court (e, d'altra parte, i con
fini tra ortodossia ed eterodossia a livello di II secolo d . C . , proprio quando
esplode il fenomeno gnosi, sono assolutamente !abili e assai difficili da defi
nire ) , è ancora così importante identificare Peregrino con Marcione? C'è poi
un'altra domanda: a Luciano interessava parodiare il cristiano per eccellenza
o piuttosto l' Idealtypus d'un " uomo divino" - il greco direbbe theios anér
che, passando per tutte le forme del sacro, può essere anche occasionalmen
te, ma non fondamentalmente cristiano? La domanda rimane aperta. A no
stro avviso, il punto debole dell'analisi di Detering consiste nel fatto che es
sa rischia di chiudere definitivamente l'interpretazione del Peregrino lucianeo
nel considerarlo un pamphlet antimarcionita. In ogni caso, può essere accet
tata la spiegazione che Detering offre del nome " Peregrino" . Egli fa giusta
mente notare che nel marcionismo l'epiteto " straniero" identificava tout court
Dio (il dio buono alieno alla creazione, va da sé) e che, per diretta conse
guenza, l'appellativo " straniero" diventava direttamente sinonimo, tra le co
munità cristiane marcionite e forse non soltanto, del cristiano (marcionita) se
guace del " dio straniero" . Detering è infine convinto che il nome Peregrino
sia stato assunto dal nostro personaggio durante la sua frequentazione con i
cristiani. Ilaria Ramelli (2005) pensa, invece, che la figura del Peregrino lu
cianeo sia piuttosto costruita a partire da elementi tipici del montanismo (!' as
sunzione di cibi vietati, l'investitura di profeta e tiasiarco, l'ascesi, l'anarchia ) .
Infine, per quanto l o scritto lucianeo sia d i gran lunga l a testimonianza più
estesa su Peregrino, alcuni altri autori ne hanno citato il nome e descritto la
figura, sia in positivo che in negativo, tra II e IV secolo d . C . : si tratta di Aula
Gellio, VII, 3 e XII, I, I, che incontrò effettivamente e ammirò Peregrino ad
Atene, attorno al I6o d . C . ; Taziano, Orazione ai Greci, 25; Atenagora, Amba
sceria per i cristiani, 6; Pausania, VI, 8, 3; Filostrato, Vite dei so/isti, II, I, 33; Ter
tulliano, Ai martiri, 5; Ammiano Marcellino, XXIX, I, 38-39.
5 · Ci informa Aula Gellio, XII, I , I che Peregrino assunse l'ulteriore epi
teto (cognomentum) " Proteo" in un secondo momento, confermando quan
to lascia intendere anche Luciano al PAR. 12. Ma perché Proteo? Proteo è il
vecchio del mare dalle capacità profetiche che può trasformarsi in tutti gli
animali e persino negli elementi, come risulta dal racconto di Menelao in
Odissea, IV, 354 ss. L'ironia del soprannome non sta soltanto nella metamor
ficità, ma anche nel fatto che il Proteo del mito è un "maestro di verità" (De
tienne, I983, pp. I?-33 ) . Ma va segnalato che il soprannome Proteo non è pre
rogativa esclusiva di Peregrino. Più di un secolo prima esso era stato attri
buito al celeberrimo mago e sapiente Apollonia di Tiana. Filostrato raccon
ta al proposito un aneddoto strabiliante. Durante la gravidanza, la madre di
Apollonia ebbe una visione: le apparve un demone egizio, Proteo in perso
na. La donna gli chiese di chi si sarebbe sgravata e il demone rispose «di me»,
rivelando poi il suo nome ( Vita di Apollonia di Tiana, l, 4) . Ora, il nomigno
lo "Proteo" attribuito a Peregrino non è un'invenzione di Luciano, come te
stimonia Gellio, ma non è certo senza malizia che, nella prospettiva lucianea,
egli condivide questo nome con Apollonia di Tiana. Il Peregrino Proteo ap
pare una replica dell'Apollonia Proteo, del quale, è bene ricordarlo, Luciano
213
ci offre la prima e più antica menzione nel suo Alessandro o il falso profeta, 5·
Vale la pena di ricordare come Luciano ivi definisce la vita di Apollonia: una
tragoidfa, una messa in scena, un teatro, elemento che ricorrerà, come vedre
mo, anche nel Peregrino. Tutto farebbe dunque pensare che nelle intenzioni
di Luciano la bislacca contraffazione di Peregrino giunga ad appropriarsi an
che della fama d'Apollonia.
6. In greco doxes héneka. Il tema della vanagloria ricorre in modo pres
soché ossessivo in tutto il testo e ad esso viene ascritta la vita intera di Pere
grino, ogni sua azione o pensiero: cfr. doxokopfas, PAR. 2; ken6doxon, eis ke
nodoxfan, PAR. 4; doxarfou kataptystou héneka, PAR. 8; doxokopfan, PAR. n; hos
doxan apolfpoi, PAR. 14; éndoxon genésthai, PAR. 22; kenod6xous anthr6pous,
PAR. 25; doxes hyp'erinyi thymòn orintheis, PAR. 30; dysérota tes doxes dnthro
pon, PAR. 34; to phil6doxon , PAR. 38; éndoxos ho tropos, PAR. 44· L'amore del
successo, della fama, della gloria personale è l'unica pulsione e, si può dire,
l'unica emozione che anima Peregrino. Il problema della fama, buona o cat
tiva, e quello della philodoxfa, il vizio che le corrisponde, sono argomenti di
discussione molto forti nell'etica cinico-stoica. Gli stoici consideravano la fa
ma un bene preferibile, proegménon, secondo la terminologia specifica, ma
non fondamentale (a questo proposito cfr. supra, Vite, 21 ) . In realtà, l'atteg
giamento di Crisippo rispetto ai beni preferibili non pare fosse poi così tra
sparente se Plutarco ( cfr. Le contraddizioni degli stoici, 30, 1047e) riporta il
detto del filosofo secondo cui solo un pazzo poteva vivere senza dar peso al
la ricchezza, alla salute e agli altri proegména. Anche Seneca testimonia lo sta
tuto controverso della fama e della lode nello stoicismo, cfr. Epistole a Luci
fio, 102, 5· In realtà, era convinzione stoica che solo il saggio fosse non solo di
buona fama (éndoxos) , ma addirittura illustre (eukleés), perché la sua è una
lode esente da millanteria e ben radicata nella verità, cfr. SVF 3, 603. La
doxokopfa, la kenodoxfa e la philodoxfa di Peregrino potrebbero dunque es
sere un forte motivo di parodia antistoica. Già nelle Vite Luciano attacca
quella che ritiene essere l'ipocrisia dell'etica stoica e, per di più, come rivela
ivi il passo su Diogene (PAR. n), egli attribuisce le stranezze e i paradossi com
portamentali dei cinici al solo desiderio di notorietà. Ma probabilmente l'o
rizzonte di Luciano è ancora più vasto. La vanagloria del saggio non è tanto
amore per il lusso, per i gioielli, per il guadagno e dunque per la popolarità,
bensì desiderio d'incarnare il modello assoluto del filosofo e del sapiente. Lu
ciano è convinto che la saggezza, e dunque ogni filosofia che le è sottesa, sia
una forma di vanità. Su come la filosofia sia rasentata continuamente dal ri
schio della vanagloria e su che cosa sia questa vanagloria cfr. Marco Aurelio,
VIII, 1. Ricordiamo infine che Luciano stesso, come il suo contemporaneo
Marco Aurelio, non si esclude dal novero dei filosofi e degli scrittori affetti
da kenodoxfa: in Storia vera, 1 , 4 Luciano afferma di aver voluto scrivere per
pura kenodoxfa ! Su quest'ultimo importante aspetto cfr. supra, pp. 37-8.
7· Se qui viene citato Empedocle non è soltanto perché si tratta di un'al
tra morte per fuoco, ma anche, e forse soprattutto, perché nella tradizione an
tica egli aveva fama di mago, purificatore, iatromante, uomo divino e sapien
te ispirato, come Peregrino avrebbe voluto presentarsi. Certo, Luciano è an-
214
che assai ironico con Empedocle, là dove dice che almeno costui ebbe il pu
dore di nascondersi al pubblico. In realtà il suicidio di Empedocle nel crate
re è soltanto una delle tante leggende sulla morte del filosofo: le riporta tutte
Diogene Laerzio, VIII, 2, 67 ss. Più importante sul piano concettuale è sottoli
neare come Luciano, fin dall'esordio, si premuri di accostare all'azione di Pe
regrino, al suo suicidio, un modello, katà ton Empedocléa, dice il testo. Come
quella della vanagloria, anche la questione dei modelli, siano essi filosofici, mi
tico-letterari e finanche artistici, riveste un ruolo di primo piano nel pamphlet
lucianeo. Per la discussione di questi aspetti teorici cfr. supra, pp. I8 ss. Qui ci
limitiamo a segnalare la serie dei modelli invocati: PAR. 4: Eracle, Asclepio,
Dioniso e ancora Empedocle; PAR. 5: Diogene, Antistene; PAR. 6: lo Zeus
olimpio di Fidia; PAR. n: Cristo; PAR. 12: Socrate; PAR. I5: ancora Diogene e
Cratete; PAR. I 8 : Musonio, Dione, Epitteto; PAR. 2I: Eracle (e Filottete per il
suo seguace Teagene ) ; PAR. 24: ancora Eracle e Asclepio; PAR. 25: ancora Era
cle; PAR. 2T la fenice; PAR. 33: ancora Eracle; PAR. 36: ancora Eracle; PAR. 4J:
ancora Socrate per allusione ad Alcibiade. Al PAR. 37, infine, i discepoli di Pe
regrino sono paragonati ai discepoli di Socrate in carcere.
8. Peregrino si diede fuoco nelle Olimpiadi del I65 d . C . , data che funge
anche da termine post quem per la datazione dell'opera. Discutiamo tutta la
questione cronologica più oltre, cfr. infra, nota 99· Luciano usa il termine Pa
negire, non Olimpiadi. Le Panegire erano feste di rilevanza nazionale, tra le
quali le Olimpiadi erano appunto le più frequentate.
9· L'annuncio del mirabolante suicidio è dato da Peregrino in persona ai
PARR. 32 e 33· Al PAR. 20 si dice però che già durante le Olimpiadi precedenti,
quelle del I6I, Peregrino aveva avuto l'idea del suicidio per fuoco e ne aveva
diffuso fin d'allora, ben quattro anni addietro, la prima notizia ( cfr. ancora
nota 9 9 ) .
IO. I l riso è u n elemento fondamentale i n questo scritto lucianeo. C'è il
riso di Cranio, qui all'inizio e verso la fine della vicenda, ai PARR. 37, 43, 45·
C'è poi il riso del narratore anonimo - quello che racconta la " vera storia"
di Peregrino - al PAR. 7 ( ride assai in ben due riprese) e al PAR. 31. C'è poi il
riso di Luciano ai PARR. 7 ( ride tra la folla trascinato dal riso dell'anonimo) ,
34, 37, 40. Si tratta di un riso spesso fragoroso, se non esagerato, come quel
lo dell'anonimo al PAR. 7, e decisamente aggressivo. È un riso posto sotto l'e
gida del Democrito pazzo rappresentato nello pseudo-epistolario ippocrati
co, come abbiamo già avuto modo di dire ( cfr. supra, nota I, cui rimandiamo
direttamente) .
n. Peregrino è dunque u n vecchio rimbambito e ridicolo, tei koryzei tou
gérontos, dice il testo. Ma cfr. anche il PAR. 8, dove l'anonimo narratore de
scrive Peregrino come uno di quei vecchi che fanno le capriole per una glo
rietta da quattro lire (andras gérontas doxariou kataptystou héneka [. .. ] kybi
stontas en toi mesoi) . Va poi ricordata la figura del vecchio anonimo dall'aria
venerabile e austera che racconta balle inverosimili sui falsi portenti verifica
tisi subito dopo la morte di Peregrino, nel luogo della pira, al PAR. 40. E c'è
inoltre Cranio stesso, il dedicatario ridanciano dello scritto, che, come ab
biamo cercato di mostrare nella nota I , rinnova nel suo nome l'immagine del
dio antico d'anni, Cronos . C'è infine Democrito, il vecchio che ride per ec-
215
cellenza. La vecchiaia che ride e di cui si ride ha, a nostro avviso, un valore
simbolico assai forte in questo testo, perché diventa immediatamente lo spec
chio della filosofia e della scrittura. Luciano dedicò un intero scritto alla vec
chiaia, I longevi, un libello che si risolve in una lista stramba, e a dire il vero
un po' sinistra, dei grandi vecchi del potere e della filosofia: la filosofia ne esce
quasi come un intrattenimento spettrale e tetro che sfida la vita.
n . Qui Luciano fa evidentemente il verso al tema della testimonianza au
216
qui il teatro è soltanto metafora del racconto d'intreccio, in linea, del resto, con
la rilettura della drammaturgia di V secolo offerta da Aristotele nella Poetica.
17. In greco etrag6idei. Il verbo tragoidéo può significare sia "mettere in
scena" o " comporre un soggetto tragico" che " recitare in una tragedia " , "fa
re l' attor tragico " . Poiché Luciano ha appena detto che Peregrino era un
drammaturgo, pensiamo che sia qui da preferire il significato di " mettere in
scena " , sicché Peregrino ne risulta sia come artefice sia come interprete e re
gista dei suoi drammi. Si tratta d'una parodia della recita del filosofo d'a
scendenza almeno platonica, cfr. supra, pp. 34 ss.
1 8 . Elide in realtà stava a indicare l'intera regione, mentre il suo ginnasio
era luogo di intrattenimenti per gli atleti di Olimpia e altresì luogo di eventi
e conferenze.
19. Si tratta appunto di Teagene, che terrà il palcoscenico fino alla fine
insieme a Peregrino. Luciano dà qui un esempio di quella che doveva essere
una tipica diatribé cinica nella sua forma più popolare e spettacolare. Carat
teristica della diatriba era una elocuzione enfatica e urlata, fatta di sentenze
brevi e ad effetto con alto potenziale patetico (Norden, 1986, pp. 141 ss. ) . Nel
leggere le parole pronunciate da Teagene viene in mente la parodia intellet
tuale diretta da Petronio nel Satyricon contro le pratiche diatribiche dei de
clamatori fanfaroni, in particolare la celebre scena del confronto tra Encol
pio e Agamennone sulla decadenza della retorica che fa il verso ad argomen
ti e temi senecani e tacitiani. La verbalità di Teagene ricorda in più di un pun
to quella di Encolpio e di Agamennone, cfr. Satyricon, 1-4, 4· D'altra parte, il
Peregrino lucianeo è un piccolo romanzo costruito intorno alla figura di un
intellettuale ciarlatano. Dobbiamo forse immaginare, per confronto, che la fi
gura dello scholasticus spacciabubbole fosse topi ca di una koiné romanzesca
diffusa per tutta l'area ellenistica greco-romana?
20. Si riportano qui vari esempi di morte per fuoco. Eracle morì salendo
vivo sulla pira per sfuggire al dolore e alla follia provocatigli dalla veste avve
lenata con il sangue del centauro Nesso. Così raccontano Sofocle nelle Tra
chinie e Seneca nell'Ercole sull'Eta. Asclepio, figlio di Apollo e divino guari
tore, fu ucciso dal fulmine di Zeus perché osò resuscitare un morto, cfr. già
Esiodo, fr. 125 Rzach. Dioniso non fu in realtà ucciso con il fulmine: come rac
conta Euripide nelle Baccanti, 1-6o, Zeus folgorò Semele, figlia di Cadmo e ma
dre umana di Dioniso, dopo essersi congiunto con lei. Il dio prelevò quindi il
feto e se lo cucì in una coscia per portare a termine la gravidanza interrotta.
La folgorazione è dunque qui simbolo non di morte, ma di nascita portento
sa. Di Empedocle abbiamo già detto ( cfr. supra, nota 7 ) . In ogni caso va sot
tolineato che la morte per fuoco è ora divinizzante ora magica ora attributo di
regalità (Stella, 2oo6b ) . Ma, dietro la morte per fuoco di Peregrino, c'è forse
la combinazione di un motivo ascetico con uno filosofico di matrice specifi
camente stoica. Lo farebbe supporre quanto afferma l'anonimo narratore del
la vita di Peregrino nel finale del PAR. 30, dicendo che il santone e il suo cor
teggio definiscono la cremazione un " inaerarsi" , exaer6sousin: touto gar ten
kausin kaloiisin . Sembrerebbe che la scelta della pira si giustifichi dunque con
l'idea di " unirsi all'aria o all'etere" . Ora, se da un lato il salire sulla pira è pra
tica comune degli asceti indiani - come si dice al PAR. 25 -, dall'altro bisogna
217
ricordare che nella psicologia e nella cosmologia stoica c'è un rapporto molto
stretto tra anima, pneuma, fuoco ed etere. Per gli stoici l'anima è pneuma cal
do e infuocato (SVF 2, 773 ) , mentre Galeno dichiara, per parte sua, che nella
speculazione stoica la sostanza dell'anima e il pneuma sono la stessa cosa (XI,
p. 731 Ki.ihn SVF 2, 777 ) , e quindi Aezio conferma (Precetti, IV, 3, 3 SVF 2,
= =
779 ) che l'anima degli stoici è pneuma intelligente e caldo. Secondo Zenone
( come testimonia Cicerone, Accademici secondi, I, 39; I confini del bene e del
male, IV, 12; Discussioni tuscolane, I, 19) , l'anima è fuoco, e si tratta evidente
mente del fuoco pneumatico. Quanto al pneuma, Plotino, Enneadi, IV, 7, 4 as
serisce che gli stoici «presuppongono [in merito al genere dell'anima, psyches
eidos] un pneuma dotato di intelletto e un fuoco intellettuale (ennoun to pneu
ma kai pyr noer6n )». L'etere è poi definito dagli stoici aithérion pyr, fuoco ete
reo (cfr. Galeno, XIX, p. 477 Kuhn) , mentre Cicerone, La natura degli dèi, II,
40 aggiunge che nella cosmologia stoica l'etere è fuoco celeste. Quanto al fuo
co, si parla evidentemente di quello etereo, quello da cui traggono generazio
ne gli elementi e l'intero cosmo ( cfr. ancora Galeno, XIX, p. 477 Kuhn ) . È dun
que evidente che anima-fuoco-etere-pneuma formano un unico complesso.
" Inaerarsi" vorrebbe dunque dire liberare, attraverso il fuoco, il pneuma psi
chico-fuoco etereo di cui l'anima è composta, per restituirla quindi al cosmo
e rifonderla in esso. C'è infine un ulteriore elemento che è il caso di notare. Il
pneuma è divino e la sua caratteristica fondamentale è il metamorfismo: «Gli
stoici così definiscono l'essenza del divino: pneuma intelligente e infuocato,
senza forma, ma in grado di tramutarsi in ogni forma voluta e di rendersi ugua
le a ogni cosa» (Aezio, Precetti, I, 6 SVF 2, 1009 ) . Viene in mente, in questo
=
218
26. Si noti come qui Teagene sovrapponga e confonda l'artificiale e il na
turale, secondo un atteggiamento tipico della cosiddetta Seconda sofistica. Pe
regrino è, d'altra parte, l'immagine per eccellenza della contraffazione. Viene
inoltre in mente il Discorso olimpico di Dione, dove l'orazione del retore si di
pana di fronte alla statua di Zeus realizzata da Fidia, venendo l'artificiale re
torico a identificarsi completamente con l'artefatto plastico. È possibile che ci
sia qui, nel Peregrino, una memoria di Dione, rovesciata nel contesto parodi
co? Per l'arte come metafora della mimesis in Luciano, cfr. Andò (1975) .
27. Divino simulacro, in greco dgalma. I.',dgalma è la statua del dio, la sua
immagine sacra, dedicata nel tempio. I', idea del filosofo come " divino simula
cro " ha un effettivo luogo di nascita, che è rappresentato da un famoso passo
del Simposio platonico (216d 7 ss. ) . Come ivi dice Alcibiade, Socrate ha sempre
l'aria di scherzare e non è minimamente interessato alla bellezza o alla ricchez
za dei giovani che frequenta, anzi disprezza tutte queste qualità: «ma quando
fa sul serio e si apre, io so che nessuno ha mai visto i divini simulacri (agdlma
ta) dentro di lui. Io sì che li ho visti, una volta, e sono divini, sono d'oro, sono
bellissimi e meravigliosi, a tal punto che praticamente bisogna fare come So
crate comanda». È noto che Alcibiade costruisce questa immagine per simili
tudine con le statuette !ignee dei Sileni, personaggi mitici teriomorfi - tra il ca
vallo, l'asino e l'umano - facenti parte del corteggio di Dioniso, le quali conte
nevano, a mo' di astuccio, statuette più piccole di altri dèi, talora preziose.
28. Abbiamo tradotto «cocchio di fuoco»: il greco dice ochoumenon epì
tou pyr6s, letteralmente «trasportato sul fuoco>> o meglio ancora «viaggiando
sul fuoco>>, se si dà valore mediale al participio. Ci sembra di poter cogliere
in questa immagine un'ulteriore allusione al viaggio astrale dell'anima-pneu
ma-fuoco etereo. l', anima viene rappresentata come un veicolo, 6chema, che
viaggia attraverso le sfere planetarie, nella tradizione neoplatonica e, specifi
camente, in Proclo. Ma è stato mostrato che l'immagine affonda le sue radi
ci nella prima metà del II secolo a.C. (Couliano, 1986, pp. 138-9 ) , e di fatto ri
sale ad Aristotele, La riproduzione degli animali, 736b, laddove il filosofo,
«partendo probabilmente da un suggerimento di Platone (Leggi 898c) , in
ventò un involucro per l'anima composto di fuoco astrale, che avrebbe per
messo all'anima di entrare nel corpo>> (Couliano, 1991, p. 196) . Non va tutta
via neppure escluso il rimando a un motivo archetipico della mitologia sola
re, e in particolare al celeberrimo esodo della Medea euripidea, laddove l'e
roina si allontana per sempre da Corinto sullo spetta colare carro di fuoco in
viatole dal Sole.
29 . Il motivo dell'orfanezza è qui indiscutibilmente desunto dal Fedone
platonico, laddove Fedone racconta al suo interlocutore Echecrate che, una
volta Socrate lava tosi e prepara tosi a bere il veleno, «noi restammo là, ripar
lando tra di noi di quello che si era detto, lamentando in parte la disgrazia che
ci era capitata, e pensavamo che avremmo vissuto il resto della nostra vita co
me degli orfani, privati del padre>> (n6a 3-8 ) . Luciano parodizza qui il para
digma tipicamente platonico della filosofia come " paternità dell'anima" e del
filosofo come " padre intellettuale " . Ma vale la pena di ricordare ai lettori, sul
la scorta di quanto abbiamo detto nell'Introduzione ( cfr. supra, pp. 35 ss.) a
proposito del possibile rapporto di rispecchiamento tra il Fedone platonico e
219
i vangeli cristiani, che nel Vangelo di Giovanni, 14, 18 così si esprime Cristo
nel suo ultimo colloquio con i discepoli, dopo la cena: «Non vi lascerò orfa
ni, verrò di nuovo da voi».
30. Piangere da far ridere, dunque. Anche il motivo della mescolanza di
pianto e di riso, di dolore e di piacere, è tema centrale del Fedone platonico,
perché, sul filo di questa mescolanza, Platone gioca tutto il risvolto timico
della filosofia o, meglio, rimette in gioco la filosofia come emozione, e speci
ficamente come thaumdsion pathos, come " sensazione straniante " o più sem
plicemente " straniamento" (Stella, 20o6a, pp. 61-9 ) . Questo è il passo chiave
del Fedone: « [FEDONE] Io ho vissuto, in quell'occasione, una sensazione di
straniamento (thaumdsia épathon). Perché non era come se stessi assistendo
alla morte di un amico . . . perché - tu capisci Echecrate - lui sembrava calmo,
i suoi gesti e le sue parole non tradivano alcuna inquietudine e lui si prepa
rava a morire con una tale tranquillità e con una tale nobiltà che si sarebbe
detto che se ne stava andando all'Ade per volontà del destino e che una vol
ta arrivato là ci si sarebbe trovato bene come nessun altro. Perciò non prova
vo la minima sensazione di tristezza, seppur sarebbe stato comprensibile da
te le circostanze, ma nemmeno la minima sensazione di piacere, come acca
deva generalmente quando si parlava tra di noi di filosofia, e i nostri discorsi
vi si avvicinavano molto . . . insomma, io sentivo, all'idea che quell'uomo sa
rebbe morto di lì a poco, una sensazione strana (dtop6n ti pathos) e un'inso
lita mescolanza di dolore e di piacere (aéthes krasis ap6 te tes hedones synkek
raméne homou kai apò tes lypes) . Tutti noi, più o meno, avvertivamo questa
stessa sensazione, ed ora ridevamo, ora piangevamo» ( 58e- 59a 9 ) . Il paralleli
smo e lo stravolgimento parodico operato da Luciano è potente: egli degra
da la mescolanza di piacere e di dolore, degrada la sconcertante mescolanza
di pianto e di riso a un " piangere da far ridere " , trasformando il sorvegliato
equilibrio platonico in un'esagerazione ridicola e liquidando l'emozione filo
sofica come una farsa volgare.
31. Teagene si comporta qui come la Santippe del Fedone e il suo doppio
maschile, Apollodoro. Quanto a Santippe, così dice di lei Fedone: «Come en
trammo, trovammo Socrate appena sciolto dalle catene e Santippe - tu la co
nosci - accanto a lui con il bambino in braccio. Come ci vide, Santippe si mi
se a lamentarsi e disse le solite cose che dicono le donne: " Socrate, questa è
l'ultima volta che i tuoi amici parleranno con te e tu con loro " . E Socrate, dan
do uno sguardo a Critone, gli disse: "Critone, riportatela a casa " . Sicché al
cuni servi di Critone la portarono via, mentre lei gridava e si batteva il petto»
(6oa 3-8) . Quanto ad Apollodoro, Fedone racconta a Echecrate che tutti lo
ro, fedeli compagni e amici, si misero a piangere quando videro Socrate bere
il veleno, e che in particolare «Apollodoro, che non aveva mai smesso di pian
gere per tutto il tempo, proprio in quel momento scoppiò in un tale pianto e
si mise a lamentarsi tanto che non rimase più uno che non piangesse, tranne
Socrate» (n7d 3-6) . Socrate condanna immediatamente questi atteggiamenti,
protestando che aveva fatto mandare via le donne allo scopo di non assistere
a simili scenate (n7d 7-e I ) . Ed è proprio a partire dall'esclusione del femmi
nile e dell'emozione in controllata che prende avvio la " seconda navigazione"
della morte filosofica (Loraux, 1991a ) .
220
32· Si tratta di una parafrasi america da Iliade, Xl, 775·
33· Inizia qui il racconto della vita di Peregrino che Luciano mette in boc
ca a un simpaticissimo e informatissimo narratore anonimo. Con sorvegliata
consapevolezza dei tempi diegetici, Luciano precisa infatti soltanto alla fine
del di lui racconto: «Purtroppo non conosco il nome di quel benefattore»
(PAR. 3 I ) . Sul significato dell'anonimia cfr. supra, pp. 65 ss.
34· L'Eraclito piangente e il Democrito che ride citati dall'anonimo sono
quelli tratteggiati da Luciano nelle Vite ai PARR. I3-I4, cui rimandiamo insie
me alle corrispondenti note di commento. Per il Democrito che ride cfr. an
che qui, note I e ro.
35· Il narratore anonimo vanta sia una conoscenza autoptica sia una co
noscenza per sentito dire da testimoni diretti. Si tratterebbe in sé di motivi
topici della semiotica narrativa, non fosse che il particolare accanimento per
secutorio contro Peregrino e la dovizie d'informazione tradiscono nell'ano
nimo l'interesse tipico del curiosus, su cui cfr. supra, pp. 66 ss. Ma c'è un ri
svolto ulteriore su cui forse non è improficuo appuntare l'attenzione. Il Van
gelo di Luca, I , I-4, si apre con una dichiarazione di osservazione meticolosa
in prima persona di tutti i fatti (parekolyth6ti pasin akribòs) e fin dal princi
pio (dnothen) . La rivendicazione dell'anonimo nel racconto di Luciano è per
fettamente sovrapponibile a questa: paraphyldxantos ed epiterésantos equi
valgono al parekolyth6ti di Luca, ex arches ad dnothen, mentre entrambi gli
autori ricorrono allo stesso avverbio akribos. Ora, è evidente che il comune
modello di Luciano e di Luca è Tucidide e la topica dell'autopsia invalsa nel
l'uso narrativo del racconto storico già a partire da Erodoto, prima ancora di
Tucidide. Ma è vero che, a differenza di Tucidide, sia Luciano che Luca rac
contano entrambi due vite incredibili e portentose, raccontano thaumata, di
rebbe il greco. Inoltre, nel PAR. n, l'anonimo narratore afferma che i cristiani
«io [Peregrino] veneravano come un dio. Divenne il loro legislatore nonché
il loro Signore, secondo soltanto a quello là che ancora venerano, quel tale
che è stato impalato in Palestina». Sicché Peregrino diventa un doppio di Cri
sto. Potrebbe allora Luciano, già parodizzatore per eccellenza del racconto
in sé (tanto filosofico come romanzesco), parodizzare altresì, alla luce di que
ste considerazioni, le pretese di verità esibite dai racconti su Cristo, chiama
ti vangeli?
36. È noto che Policleto avesse scritto un trattato sulla scultura, il cosid
detto Kanon. Il " canone " policleteo era incarnato dal suo Don/oro, statua di
un portatore di lancia realizzata sulla base di precisi studi matematico-geo
metrici. È ovvio che qui il canone di Poli cleto diventa metafora ironica della
perfezione morale e intellettuale di Peregrino.
37· Gli adulteri erano puniti tradizionalmente in questo modo dal mari
to tradito. La penetrazione sodomitica dell'adultero con la radice urticante e
irritante colpiva simbolicamente, attraverso la passivizzazione sessuale, la di
gnità e l'integrità del maschio adulto. La pena del rafano è motivo presente
nella commedia aristofanea, cfr. Nuvole, I083 e Pluto, I68.
38. Il cristianesimo viene dunque definito una sophia, una sapienza, pos
siamo ben dire una filosofia. Rimandiamo il lettore a quanto è detto al pro
posito supra, pp. 43 ss.
221
39· In greco rispettivamente hiereusin , grammateusin, cioè " sacerdoti" e
"scribi " . Si tratta di due termini neotestamentari. In particolare, la parola
grammateus è da riferirsi ai funzionari della comunità giudaica e non certo cri
stiana. È evidente che Luciano sta sovrapponendo le pratiche delle comunità
cristiane a quelle giudaiche. Viene in mente la situazione delle scuole catechi
stiche in ambiente gnostico (Filoramo, 1993 ) . In genere si dice che Luciano
non distingue tra giudei e cristiani, allo stesso modo di molti altri intellettua
li pagani, perché non comprende la specificità cristiana (Betz, 1961, p. 8 ; Ma
cleod, 1991, p. 272 ) . A nostro avviso, la questione si pone diversamente. In
nanzitutto Luciano non fa altro che riprodurre l'alta e innegabile permeabi
lità reciproca tra comunità giudaiche e cristiane nel II secolo d . C . , una per
meabilità attestata, ad esempio, dal fenomeno gnostico. In secondo luogo, for
se a Luciano non interessa distinguere , ma piuttosto accumulare e sovrap
porre, con l'intento di rappresentare una comune e diffusa ciarlataneria in cui
si intrecciano religione, iniziazione, filosofia e scrittura, sul filo di una strate
gia già tipica della langue comica, a partire innanzitutto da Aristofane.
40. In greco rispettivamente prophétes, thiasdrches, xynagogeus. Il termi
ne chiave di questa triade è, a nostro avviso, il secondo. Si tratta di vero e pro
prio hapax letterario, in quanto esso non compare in nessun testo della lette
ratura greca e raramente nelle testimonianze epigrafiche, dove non assume al
cun valore speciale. Non è da considerarsi nemmeno specifico delle comu
nità giudeo- cristiane. A nostro avviso, questo termine ha tuttavia una voluta
coloritura misterica, poiché significa letteralmente " capo del tiaso" , cioè di
un' eteria iniziatica. Esso allunga anche sugli altri due lessemi, prophétes e xy
nagogeus, l'ombra del lessico misterico. Prophétes è il ministro del culto, l'of
ficiante. Più complesso il significato da attribuire a xynagogeus, che invece è
tipico delle comunità giudeo- cristiane palestinesi. Dal momento che xynago
geus significa letteralmente " colui che riunisce, convoca" una riunione, un
simposio, un'assemblea ecc., si potrebbe avanzare, sulla scorta di thiasdrches
e di prophétes, la seguente interpretazione: " colui che riunisce, convoca il tia
so " , cioè la comunità degli iniziati. D'altra parte synagogé significa anche
" adunanza dei figli di Israele " , cioè " sinagoga " , intesa sia come società dei fe
deli, sia come luogo di culto. Sicché xynagogeus potrebbe significare sia ve
scovo, sia capo della sinagoga. Luciano sovrappone dunque volontariamente
e allusivamente il contesto misterico a quello liturgico giudeo- cristiano. Da
ultimo va segnalata un'ulteriore possibile interpretazione di prophétes. Il ter
mine potrebbe anche significare "veggente " , secondo chi, almeno, ritiene che
Peregrino incarni il prototipo del cristiano montanista (Ramelli, 2005) . È no
to infatti che Montano, l'eresiarca di Frigia (II secolo d . C . ) , pretendeva di par
lare le parole del Santo Spirito (Lane-Fax , 1988, pp. 404 ss . ) .
41 . Peregrino sarebbe dunque stato interprete delle sacre scritture e d egli
stesso autore di testi teologici. È interessante riportare al proposito l'ipotesi
di Detering (2004, pp. 6-7) , il quale ricorda che Marcione redasse commenti
ed esegesi di testi cristiani, delle epistole di Paolo, del vangelo di Luca, e scris
se diverse opere teologiche oltre a lettere e salmi ( cfr. anche Von Harnak, 1985;
Ehrman, 2005, pp. 138-44) . Che si tratti qui o meno di parodia del marcioni-
222
smo, poco interessa . Piuttosto, il rimando alla carriera esemplare di Marcio
ne come scrittore ed esegeta conferma che Luciano ha in mente una precisa
situazione storica e culturale e conosce le diverse pratiche della scrittura nel
le comunità giudeo-cristiane (gnostiche) .
42. Cristo è definito nomothétes, cioè " legislatore " , i n Matteo, 5, 17-18 e
Luca, r6, 17.
43 · Il greco dice prostdtes, letteralmente " colui che presiede, che sta a ca
po" : della comunità (iniziatica) , della sinagoga, di entrambe? Tuttavia, pro
stdtes vale anche " patrono " ed è inoltre termine comune nelle testimonianze
epigrafiche, dove designa generalmente il leader di una comunità nell'am
biente giudaico. È inoltre possibile che l'insieme delle titolature evocate da
Luciano, prophétes, thiasdrches, xynagogeus, nomothétes, prostdtes, venga a
indicare, nel suo complesso, l'episcopato cristiano (Detering, 2004) .
44· Si tratta, ovviamente, di Cristo. Luciano sovrappone qui crocifissio
ne e condanna del palo, giacché anaskolopfzo significa propriamente " legare
al palo" e non crocifiggere. Anche Celso, Discorso vero, II, 36; VII, 40; VIII, 39,
ricorre, come Luciano, al verbo anaskolopfzein, anziché a quello proprio ana
staur6o o apotympanfzo. In Celso non si ravvisa nessun intento specifico nel
l'uso di anaskolopfzo in luogo di apotympanfzo, sicché si potrebbe pensare a
una tollerata intercambiabilità tra i termini. Ma nulla esclude che il contesto
lucianeo implichi risvolti parodici (sul supplizio della croce cfr. Gernet, 1983,
pp. 254 ss. e Cantarella, 1991, pp. 41 ss . ) .
4 5 · I l greco dice teleté, che noi abbiamo tradotto con " culto " . L a teleté è
in realtà la pratica di iniziazione misterica. Per la sovrapposizione tra cristia
nesimo, filosofia e misteri cfr. supra, pp. 50-r .
4 6 . I l fatto che siano soprattutto donne e bambini orfani ad affollarsi in
torno al carcere di Peregrino è un motivo parodi co. Celso, Discorso vero, III,
44, afferma che il cristianesimo è un culto per ignoranti e creduloni, dunque,
soprattutto, per donne e mocciosi. Celso parodizza senz'altro l'elezione dei
semplici sostenuta dalla tradizione evangelica, per cui cfr. ad esempio Mat
teo, II, 25 e Luca, ro, 21-22. Nel caso di Luciano, è piuttosto macroscopico il
rovesciamento del Pedone, dove si escludono donne e bambini dallo spetta
colo della morte filosofica, mentre nel Peregrino questi esclusi non sono solo
presenti, ma si moltiplicano in una gran folla. E tuttavia, alla luce del Discor
so vero di Celso, non è imprudente scartare un'allusione lucianea più diretta
al cristianesimo come " religione degli umili " ?
47· Kainòs Sokrdtes, "novello Socrate" , appunto. Tutto questo paragrafo
parodizza esplicitamente la scena del Pedone platonico, già peraltro evocata
allusivamente in precedenza . Come i compagni di Socrate, i seguaci di Pere
grino usano visitare il maestro in carcere, sfruttando la flessibilità se non la
corruttibilità delle guardie. Il parallelo tra Socrate e Cristo è topico della let
teratura cristiana tra II e III secolo d . C . : «La vicenda di Socrate [ . . . ] viene già
accostata a quella di Cristo e dei suoi fedeli nell'autodifesa di alcuni martiri
cristiani, messi sotto processo tra II e III secolo d.C. [ . . . ] Luciano appuntava
intanto la sua satira su Peregrino [ . . . ] che aveva inscenato uno spettacolare
suicidio durante i giochi olimpici del 165 d.C. Una volta che era stato incar-
223
cerato, una folla di cristiani era corsa a provvedergli da mangiare, e dare pub
blica lettura di scritti sacri, e celebrarlo come "novello Socrate " : e Luciano si
appropria, con ripetuta ironia, del paragone» (Sassi, 1997, p. 1327 ) . Evidente
mente Luciano trasferisce a Peregrino il posto di Cristo nella topica compa
razione Socrate-Cristo.
48 . È interessante notare che Paolo in I Corinzi, 9 dibatte a lungo della
cosiddetta exousia apostolica, facoltà concessa a ciascun apostolo di vivere a
spese della comunità. Sembrerebbe, a quanto dice Luciano, che Peregrino si
sia avvalso di questa precisa facoltà.
49 · A partire da qui, sino alla fine del paragrafo, Luciano ritesse una se
rie di topoi della libellistica anticristiana. Lo ricaviamo dal Discorso vero di
Celso. Sulla credulità dei cristiani cfr. ad esempio I, 8 : «Infatti spesso in casi
del genere taluni imbroglioni, puntando sullo scarso discernimento di chi si
lascia ingannare con facilità, lo menano per il naso a loro pia cimento; e lo stes
so avviene nel caso dei cristiani. Taluni, non volendo dare o ricevere conto
dell'oggetto della loro fede, ricorrono a frasi come " La tua fede ti salverà " o
ancora " La sapienza in questa vita è un male, la follia è un bene "», ma cfr. an
che I, 23; II, 8 e 44; VI, 12. Sulla mancanza di amore per la vita e sull'offerta di
sé alla morte cfr. ad esempio VIII, 54: «Essi [i cristiani] offrono sconsiderata
mente il loro corpo alle torture e alla crocifissione. Non amano la vita. Sono
simili a malfattori che a giusto titolo subiscono le punizioni che meritano per
le loro ruberie>>, ma anche I, 26: «Pochissimi anni or sono costui introdusse
questo insegnamento, e fu considerato dai cristiani figlio di Dio. Essi si sono
lasciati ingannare e hanno accettato un discorso che rovina la vita umana>>. In
altri frammenti Celso accusa i cristiani di vera necrofilia, perché essi adorano
un morto (VII, 36) . Quanto all'autoconvinzione di immortalità dei cristiani,
cfr. II 77, dove è un giudeo tradizionalista a parlare così causticamente: «Cer
to, speriamo anche noi di risorgere con il nostro corpo e di avere una vita eter
na; e speriamo che il modello e l'iniziatore di questa vita sarà colui che viene
mandato a noi, dimostrando così che non è impossibile per un dio far risor
gere qualcuno con il suo corpo. Ma dov'è, affinché possiamo vederlo e cre
dere in lui?>> (trad. di G. Lanata) .
50. Siamo noi a esplicitare il nome " C risto" per disambiguare i l testo, che
di Cristo non fa mai esplicita menzione. In realtà, c'è chi non è convinto che
tale "primo legislatore " sia Cristo, evocato tuttavia inequivocabilmente alla
fine di questo stesso periodo attraverso la perifrasi " s apiente impalato " .
Pilhofer, Baumbach e Hansen (2005, p. 64, nota 47) ritengono infatti che que
sto " primo legislatore " sia non Cristo, ma piuttosto san Paolo. Secondo tale
interpretazione, Luciano direbbe dunque che il primo legislatore dei cristia
ni, cioè Paolo, insegnò loro a essere fratelli, ad abbandonare gli dèi pagani e
a venerare esclusivamente il " sapiente impalato" di Palestina, cioè Cristo. Ma
la duplice e contemporanea citazione di Cristo e san Paolo nel medesimo gi
ro di frase non comporta forse un'allusività eccessiva? È pur vero che il tema
del rifiuto degli idoli e dell'adorazione del solo Cristo è anche paolina (ad
esempio I Tessalonicesi, 1, 9 ) , ma che cosa ci autorizza effettivamente a com
plicare il gioco della parodia lucianea? Certo, questo non esclude in ogni ca
so che Luciano potesse conoscere la tradizione paolina, se non quella scritta,
224
almeno quella diffusasi oralmente. Sottolineiamo da ultimo che, in ogni caso,
la rescissione della figura di Cristo da quella di Paolo in questo passo lucia
neo è forse dovuta a un'interpretazione non soddisfacente della sintassi. Per
questo cfr. in/ra, nota 53·
51. È la cosiddetta "fratellanza " , in greco philadelphfa, delle comunità cri
stiane cui si appella san Paolo, ad esempio in I Tessalonicesi, 4, 9 e II Tessalo
nicesi, I, 3, ma che ricorre come motivo forte innanzitutto nel Nuovo Testa
mento. L'amore reciproco tra i cristiani è deriso anche da Celso nel Discorso
vero, 1, I e liquidato come pratica segreta che viola le istituzioni tradizionali.
52. C'è chi vede qui, nel motivo della prostrazione, proskynesis, di fron
te a Cristo, un ulteriore motivo paolina, cfr. Filippesi, 2, ro, che tuttavia è già
diffuso nel Vangelo di Matteo, da confrontarsi anche con Luca, 24, 52 (Pilho
fer, Baumbach, Hansen, 2005) .
53· È forse da imputare a questo ekeinon il motivo per cui, come abbia
mo indicato supra, nota 50, alcuni interpreti hanno rescisso la figura di Cri
sto, definito «quel [ekeinon, appunto] sapiente impalato», dalla figura del
" primo legislatore " , identificato piuttosto con san Paolo. Il determinativo
ekeinon sembrerebbe in effetti separare il sapiente dal legislatore . Ma in
realtà l' ekeinon scaturisce da un'improwisa virata del focus narrativo, la qua
le sovrappone alla voce del narratore anonimo quella dell'autore Luciano. Si
tratta, insomma, di un caso lampante d'interferenza autoriale nella finzione
del racconto. D'altra parte, va detto che il gioco di Luciano consiste nel non
nominare mai esplicitamente Cristo, per tenere sempre teso il filo della peri
frasi parodica. Il risultato è che ci troviamo di fronte a un eccesso di appella
tivi i quali rifrangono e moltiplicano il soggetto del discorso.
54· Cioè sempre Cristo, definito sophistés, sapiente, e nel senso negativo
del termine. Luciano sovrappone sapienza, sophfa, e culto, secondo un pun
to di vista già affermatosi nel teatro e nella filosofia della polis antica . L'im
magine del filosofo come " uomo divino" risale almeno a Pitagora. Quanto al
teatro, e precisamente alle Baccanti euripidee, i misteri di Dioniso sono visti
da Penteo come un'aberrante e astuta forma di sophfa.
55· La comunità dei beni tra i cristiani è descritta negli Atti degli aposto
li, 2, 44-46. Colà si afferma che quanti avevano possedimenti e denaro li ven
devano e li ridistribuivano a ciascun membro della comunità.
56. Goes e technftes, dice il testo greco, cioè, rispettivamente, " mago" ed
" esperto" . Agli occhi della libellistica anticristiana, il mago-ciarlatano è per
eccellenza e innanzitutto Cristo stesso. Al proposito cfr. quanto afferma Cel
so, Discorso vero, l, 6: «Gesù riuscì a compiere miracoli a lui attribuiti in for
za di arti magiche» (trad. di G. Lanata) . Ma, più in generale, i cristiani tutti
sono considerati da Celso stregoni da quattro soldi, cfr. I, 6 e 68; VIII, 37·
57· In realtà, a Pario non rimangono tracce né archeologiche né epigrafi
che della presenza e della storia di Peregrino. Non abbiamo dunque riscon
tro alcuno di quanto afferma l'anonimo narratore sulla ricchezza e sull'ere
dità di Peregrino. Quanto al fatto che l'anonimo accenni a cinque " borghi"
o " distretti" circonvicini, sappiamo che il territorio di Pario era piuttosto
esteso e dai confini non sicuramente definibili (Frish, I983, p. 47) .
225
58. E il travestimento tipico del cinico. Cfr. i PARR. 7-9 delle Vite.
59 · Cratete, allievo di Diogene, secondo la tradizione. Diogene Laerzio,
VI, 87 riporta la storia d'una sua devoluzione di beni personali in favore del
la città.
6o. Luciano fa dunque riferimento a una trasgressione rituale di Pere
grino, che sarebbe consistita nel nutrirsi di cibi proibiti. C'è chi pensa che si
tratti delle cosiddette " carni offerte agli idoli " di Paolo, I Corinzi, 8 e di Atti
degli apostoli, 15, 29 (Betz, 1961 , p. n; Pilhofer, Baumbach, Hansen, 2005, ad
loc. ) . Ma forse si tratta più semplicemente della violazione d'una regola ko
sher, dal momento che le comunità cristiane di Palestina erano in realtà co
munità giudeo-cristiane ligie alle regole igieniche tradizionali.
61 . Di Agatobulo non sappiamo pressoché nulla. Luciano lo cita anche
in Demonatte, 3 come allievo di Demetrio e maestro di Demonatte, ma
senz' altro aggiungere. Lo scolio ad loc. associa Agatobulo a Epitteto e De
metrio come filosofi molto celebri del loro tempo. Dal ritratto lucianeo, Aga
tobulo parrebbe essere un cinico estremista, caposcuola di pratiche ascetiche
desunte forse da tecniche dell'estasi brahamaniche.
62. Le pratiche di indifferenza ascetica in ambiente cinico-stoico sono le
gate al tema dell' adidphoron, di cui abbiamo discusso nella nota 81 relativa a
Crisippo, nelle Vite, cui rimandiamo direttamente. Diogene Laerzio ne dà
ampia testimonianza (ad esempio VI, 9 e 105; II, 46 e 69), come anche Epitte
to, Diatribe, I, 24, 6.
63. Si pensa, per comune accordo, che si tratti di Antonino Pio.
64. Musonio è il filosofo stoico che fu maestro di Epitteto, quando costui
era ancora schiavo di Epafrodito, il potente segretario di Nerone. Musonio fu
considerato, pare ingiustamente, uno degli ispiratori della congiura pisoniana
contro l'imperatore, e venne esiliato, nel 65 d.C., nell'isola di Giara. Quanto a
Epitteto, non sappiamo quando fu liberato, ma sappiamo che conobbe anch'e
gli l'esilio nel 90, per volere di Domiziano. Si stabilì quindi definitivamente a
Nicopoli, dove morì forse verso il 130. Dione è il celeberrimo retore di Prusa,
detto Crisostomo per la sua facondia, pure lui esiliato da Domiziano per la sua
amicizia con il nobile Flavio Sabino, caduto in disgrazia presso l'imperatore.
65. Non sappiamo nulla in merito. Semplicemente, la Vita di Antonino
Pio, 5, 5 ci informa che l'imperatore dovette reprimere ribellioni anche in Gre
cia e in Egitto.
66. Erode Attico è il celebre oratore , maestro a Roma degli " infanti "
Marco Aurelio e Lucio Vero, che gli furono affidati personalmente dall'im
peratore Antonino Pio, nonché politico di grande rilievo in Grecia e a Roma
stessa, dove ottenne il consolato. Uomo di cospicua ricchezza, contribuì ad
abbellire più d'una città della Grecia e specialmente Atene, dove fece co
struire l' Odeton, sulle pendi ci dell'Acropoli, ancora perfettamente agibile.
Sull'acquedotto da lui fatto costruire a Olimpia ci resta un'iscrizione datata
153 d . C . , proveniente dal Ninfeo, dal quale è verosimile che oratori, filosofi e
Peregrino stesso solessero arringare la folla nelle loro pubbliche esibizioni.
67. Cfr. infra, nota 99·
68. Peregrino viene dunque accusato di teatralità. L'accusa di teatralità
contro il sapiente-filosofo è antica almeno quanto le Nuvole di Aristofane, do-
226
ve assistiamo, teatro nel teatro, alla recita di un Socrate maestro di ciarlata
neria. I.: accusa risuona poi fortissima nel Fedone platonico, anzi, vi viene let
teralmente interiorizzata, perché qui è Socrate stesso a paragonarsi all' attor
tragico: «Quanto a me, ormai, " m'invola il fato" , direbbe un attor tragico, ed
è quasi ora che mi avvii al bagno>> ( n 5a 5-6), quindi al buffone comico: «Ma
insomma, se mi si ascolta davvero, credo che nessuno - nemmeno uno che fa
cesse il poeta comico - mi potrebbe spacciare per un ciarlatano che chiac
chiera a vanvera ! >> (7ob ro-c 2). Il narratore anonimo del racconto lucianeo
evoca poi un paradigma tragico specifico, quello della morte di Eracle, per
smontare l'apparente singolarità del gesto di Peregrino e ricondurlo a un mo
dello riproducibile. Va infine ricordato che l'accusa di teatralità era frequen
te contro i cristiani, cfr. Marco Aurelio, Pensieri, IX, 3 ·
6 9 . I l modello d i Eracle sulla pira diventa ricorrente nella cristologia del
la prima cristianità e viene assunto come paradigma di confronto con la mor
te miracolosa di Cristo. Bisogna dunque riconoscere una almeno triplice mo
tivazione nel richiamo così forte e insistente su Eracle. Se da un lato c'è il ri
ferimento alla tradizione mitica greca, dall'altro c'è l'assunzione di Eracle a
esempio di vita da parte dei cinici e forse, ancora prima, da parte di Antiste
ne, e c'è infine l'appropriazione cristiana dell'eroe sofferente come prefigu
razione del Cristo morto e assunto in cielo in una miracolosa apoteosi (A une,
1990, pp. 3-19 ) .
7 0 . Secondo i l mito fu Filottete ad appiccare i l fuoco alla pira d i Eracle,
non osandolo né Iolao, né gli altri compagni, cfr. Diodoro Siculo, IV, 38; Igi
no, Miti, 102; Ovidio, Metamorfosi, IX, 229-234.
71. Falaride è il tiranno di Agrigento, celebre per il toro di metallo nel
quale faceva arrostire i suoi nemici .
72. Viene qui appena accennato il motivo della parodia del sacro, svi
luppato in seguito nei PARR. 28 e 39-41. Cfr. in/ra, nota 81.
73· Luciano si riferisce a Erostrato, un tale che diede fuoco al tempio di
Artemide, a Efeso, nel 356 a . C . , cfr. Eliano, La natura degli animali, VI, 40;
Strabone, XIV, 22, 640.
74· I.: accusa di codardia contro Teagene e contro i cinici seguaci di Pe
regrino, accusa di non voler seguire nella morte il maestro, ricorda la critica
di Celso agli apostoli di Cristo, cfr. Il discorso vero, Il, 45: «Allora, i compagni
che ne avevano condiviso la vita e ascoltato la voce, e che lo consideravano
un maestro, vedendolo torturato e ucciso non morirono con o per lui e non
si lasciarono convincere a disprezzare le torture, anzi negarono persino di es
sere suoi discepoli; e ora voi volete morire con lui ! >> (trad. di G. Lanata) ; cfr.
anche II, 9 ·
75· L a sapienza e l e pratiche ascetiche brahamaniche cominciano a esse
re note ai Greci a partire dalle conquiste di Alessandro. Una delle più affa
scinanti e suggestive descrizioni dei brahamani ce l'ha lasciata Filostrato (III
secolo d . C . ) nella sua Vita di Apollonia di Tiana, m, 15. Apollonia - a detta di
Filostrato, che a sua volta riferisce la testimonianza di Damis - soggiornò per
quattro mesi presso di loro in una regione tra l'Ifasi e il Gange, dove Ales
sandro non giunse, sopra un'altura fortificata: «Damis racconta che essi dor
mono sulla terra, e che questa distende erba a loro volontà, ma che egli li vi-
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de sollevarsi per aria fino a due cubiti sopra il suolo: non per suscitare mera
viglia, giacché rifuggono da tali esibizioni, ma perché ritengono che tutto ciò
che fanno elevandosi sopra la terra, come il sole, riesca gradito al dio. Il fuo
co che traggono dai raggi solari ha natura corporea, ma essi non lo ardono
sull'altare, né lo serbano nei focolari: come i raggi del sole che si rifrangono
nell'acqua, esso appare sospeso e ondeggiante nell'etere [ . .. ] . Sebbene sem
brino vivere allo scoperto, traggono un'ombra sopra di sé, cosicché non si ba
gnano quando piove e possono resistere al sole tanto quanto vogliono. [ . . . ]
Usano tenere le chiome lunghe [ . . . ] . Portano un turbante bianco e incedono
a piedi nudi, e si avvolgono al corpo l'abito in una foggia tale da lasciare sco
perta una spalla e il braccio. La materia di cui sono fatti gli abiti è una lana
prodotta spontaneamente dalla terra [. .. ] dalla quale stilla un liquido grasso
simile all'olio. Con questa lana si fanno un abito sacro [ . . . ] . L'anello e il ba
stone che portano hanno il potere di operare ogni cosa, e sono entrambi ve
nerati come strumenti arcani» (trad. di D . Del Corno ) .
7 6 . Onesicrito e r a stato allievo di Diogene e pilota di Nearco, ammira
glio di Alessandro. Nella sua storia delle imprese di Alessandro (cfr. Strabo
ne, XVI, 63 ss.) egli riferiva delle pratiche brahamaniche ravvisando in esse pa
ralleli con il modo di vita dei cinici. I rapporti tra brahamanesimo e cinismo
sono stati recentemente esplorati (]ones, 1993; Muckensturm, 1993 ) . Quanto
invece a Calano, si tratta di un saggio e asceta indiano che a Taxila incontrò
Alessandro nel 326 a.C. e lo seguì fino all'anno della propria morte, che av
venne nel dicembre del 325. Calano era entrato a tutti gli effetti nella corte di
Alessandro, pare con un ruolo di spicco (Bosworth, 1998 ) . Calano si diede
fuoco in Persia a Pasargade. E tuttavia, probabilmente, se Luciano ricorda il
rogo di Calano come primo esempio di morte per fuoco del saggio, altri casi,
più vicini a lui, dovettero essere quelli che concretamente lo ispirarono. Ad
esempio, il caso di Zarmanochegas, detto anche Zarmaros, che si diede fuo
co nell'Atene di Augusto intorno al w a . C . , come raccontano Strabone, XVI,
73, 719-720 e Cassio Dione, LIV, 9, ro. Va sottolineato che Cassio Dione, tra gli
altri possibili motivi, attribuisce alla philotimfa, cioè alla brama di notorietà,
la scenografica fine di Zarmanochegas, poiché alla stessa spiegazione ricorre
Luciano nel caso di Peregrino.
77· Sarà un caso che sulle monete imperiali della consecratio dell'impe
ratore post mortem compaiano, a partire da Traiano, la fenice e la pira? Qui
la fenice è sicuramente simbolo di sopravvivenza dopo la morte. Su questo
uccello meraviglioso cfr. Erodoto, II, 72; Ovidio, Metamorfosi, xv, 392 ss.; Ta
cito, Annali, VI, 28.
78. Il greco dice daimoni nyktophylaki e cfr. subito sotto, al PAR. 28, an
cora daimona nyktophylaka. Gli eroi diventano demoni protettori dopo la lo
ro morte già in Esiodo, Opere e giorni, 122 ss. È evidente che la trasformazio
ne in entità demonica è una tipica consecratio che ripete quelle di molti altri
sapienti cui la tradizione attribuisce morti miracolose e successive riappari
zioni (Rohde, 1982, pp. 1 56-62; Dodds, 1978, pp. 247 ss . ) . I casi più vicini a Pe
regrino sono quelli di Apollonio di Tiana, sulla cui morte molte cose si rac
contano, tra le quali che fu assunto in cielo nel tempio di Dictinna, cfr. Filo
strato, Vita di Apollonia di Tiana, VIII, 30, e che riapparve poi sotto forma di
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visione a un giovane dedito alla filosofia, convertendolo alla credenza del
l'immortalità nell'anima, cfr. VIII, 31, e il caso di Alessandro di Abonutico, cui
Luciano stesso consacrò il suo Alessandro ovvero il falso pro/eta. Il santone
taumaturgo, il theios anér, è vera e propria figura antropologica che conosce
tra I e II secolo d . C . un rinnovato successo e molteplici, nuove formulazioni,
saldandosi, peraltro, a quella di Cristo (Bieler, 1967; Betz, 1968; Smith, 1971;
Betz, 1972; Gallagher, 1982) .
79· Secondo la testimonianza di Atenagora, Ambasceria per i cristiani, 26,
2, esisteva effettivamente una statua di Peregrino a Pario, anche se per nulla
d'oro. Viene tuttavia in mente il caso di Gorgia, che si sarebbe fatto erigere
una statua d'oro a Delfi, secondo Plinio, Storia naturale, XXXVIII, 83, mentre
Cicerone, Sull'oratore, III, 32, 129 afferma piuttosto che furono i Greci a de
dicargliela. Cfr. anche Pausania, X, 78, 7·
So. Questi prevedibili tentativi di imposturare un oracolo rimandano,
evidentemente, allo scenario dell'Alessandro dello stesso Luciano.
81. Messa alla berlina del sacro e soprattutto delle cerimonie iniziatiche
e misteriche . Più sotto ( cfr. PAR. 4!) Luciano forgia addirittura un paio di de
nominazioni, nekrangélous e nerterodr6mous, per i seguaci di Peregrino, or
mai divenuti, dopo la di lui morte, ministri del suo culto ( cfr. in/ra, nota 114) .
Va tuttavia notato che i rituali, se così si può dire, dei "misteri di Peregrino"
descritti da Luciano, con le loro flagellazioni e i loro bruciamenti, ricordano
in realtà uno scenario da punizione oltremondana, così come lo descrive Lu
ciano stesso nel suo scritto La necromanzia, ma come secoli prima aveva già
descritto Platone, Repubblica, X, 615e-616a. Vengono anche in mente le cacce
infernali della cosiddetta schiera di Ecate (Rohde, 1982, pp. 744- 51; Vernant,
1987) . Tutta la scena è comunque ispirata a un gusto del noir e della ghost story
tipico dell'età di Luciano. La Vita diApollonio di Filostrato ne è letteralmente
intessuta, tra esorcismi, purificazioni, apparizioni sovrannaturali (Tasinato,
1988 ) . Sul piano più specificamente teorico, le storie di fantasmi costituisco
no in Luciano un forte controcanto parodico del racconto di verità e riaffer
mano, per metafora, i diritti della mimesis e della phan tasia sulla filosofia, co
me accade nel finale dell'Amante della menzogna.
82. La Sibilla è la leggendaria figura di veggente invasata da Apollo che
predice su una roccia, in una grotta, senza strumenti né ornamenti, e che nel
corso della tradizione si moltiplicò in molte altre figure. Si contano fino a 17
Si bilie, le nove ioniche, le cinque italiche, le tre orientali. Già la cita Eraclito,
92 DK, e quindi Aristofane, Pace, m9; Platone, Fedro, 244b e Teagete, 124d; ma
anche Cicerone, La divinazione, I, 4, 79; Plinio, Storia naturale, VII, 119; Cle
mente di Alessandria, Stromati, I, 21 , 132, senza nominare le testimonianze tar
do-antiche. Noi possediamo un corpus in 14 libri di Oracoli sibillini, una rac
colta di responsi oracolari su guerre, catastrofi, terremoti, che fu con tutta
probabilità costituita intorno al v secolo d.C. Interessante è quanto dice Cel
so in Discorso vero, VII, 53, sull'abuso cristiano degli oracoli sibillini: «Avreste
anche potuto, con maggiore verosimiglianza, proporre come figlia di Dio la
Sibilla, che alcuni di voi già sfruttano: invece, siete capaci di interpolare a ca
saccio nei suoi scritti molte espressioni blasfeme». Celso fa dunque intende
re che i cristiani si erano appropriati della tradizione pagana degli oracoli si-
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