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ANNO 117° SERIE IX N.

LE LETTERE / FIRENZE LUGLIO-DICEMBRE 2013


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Stampato nel mese di febbraio 2014 dalla Tipografia ABC - Sesto Fiorentino (FI)

Periodico semestrale
«Il laberinto della natura»
La questione della filosofia in Giacomo Leopardi
Atti della Giornata di Studi, Gabinetto Vieusseux, Firenze, 20 aprile 2012
A cura di Raoul Bruni e Alessandro Camiciottoli

SOMMARIO

Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . V

MARIO ANDREA RIGONI, Leopardi, Goethe e l’ultrafilosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 383

ALESSANDRO CAMICIOTTOLI, Un’inchiesta ‘eretica’: Leopardi, Platone e i neoplatonici . . . . . . . 389

RAOUL BRUNI, Leopardi, la filosofia morale e il titolo delle Operette . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 403

ELISABETTA BENUCCI, Leopardi, la moda, la morte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 409

MARCO BALZANO, Da Eleandro a Porfirio: note sull’amore nelle Operette morali . . . . . . . . . . 417

ALESSANDRA ALOISI, Immagini della natura nello Zibaldone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 427

MA£GORZATA EWA TRZECIAK, Oltre il Sistema di Belle Arti. Leopardi e l’esperienza estetica ... 443

DIEGO BERTELLI, Morselli, Rensi, Leopardi e la filosofia del suicidio .................... 471

MASSIMO NATALE, Walter Benjamin e il leopardismo filosofico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 485

Rassegna bibliografica
Origini e Duecento, a c. di L. Surdich, pag. 499 - Dante, a c. di G. C. Garfagnini, pag. 506 -
Trecento, a c. di E. Bufacchi, pag. 514 - Quattrocento, a c. di F. Furlan, pag. 532 - Cinquecento,
a c. di F. Calitti e M. C. Figorilli, pag. 566 - Seicento, a c. di Q. Marini, pag. 626 - Settecento, a c.
di R. Turchi, pag. 672 - Primo Ottocento, a c. di N. Bellucci e M. Dondero, pag. 686 - Secondo
Ottocento, a c. di A. Carrannante, pag. 717 - Primo Novecento, a c. di L. Melosi, pag. 752 - Dal
Secondo Novecento ai giorni nostri, a c. di R. Bruni e A. Camiciottoli, pag. 777 - Varia, pag. 795

Sommari-Abstracts . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 797
MORSELLI, RENSI, LEOPARDI
E LA FILOSOFIA DEL SUICIDIO

Il primo accenno al suicidio reperibile tra le pagine dei diari di Guido Morselli
risale al 20 febbraio 1940. Si tratta di una riflessione già sufficientemente articola-
ta, in cui lo scrittore, allora ventottenne, evidenzia prima di tutto il rapporto tra
negazione della vita e istinto di conservazione. Rifiutando in modo perentorio i piani
religioso e laico, su cui l’opinione comune fonda la condanna del suicidio – atto di
ribellione, disprezzo del «dono divino», da una parte, ovvero gesto di un animo
vile, dall’altra – Morselli afferma nella parte centrale e più ampia del suo ragiona-
mento che:

Il suicida è giunto colà dove anche noi potremmo ridurci un giorno: egli ha scoperto
che quella speranza per cui e di cui viveva, anche lui come noi, altro non è se non vana
apparenza, e che sotto di essa si nasconde la catena con cui la natura, per un suo fine oscu-
ro, ci vuole legati all’ingiustizia e al dolore, ossia alla vita.1

È indubbia l’eco leopardiana che già traspare nell’affermazione finale di que-


sto appunto del Quaranta, non soltanto per il tono generale, ma anche in virtù del
lessico specifico, con termini come «speranza», «vana apparenza», «catena», «na-
tura», «dolore». Un repertorio lessicale che rimanda evidentemente alla più ampia
riflessione sull’ineluttabilità della condizione umana nei confronti della natura,
reperibile nell’opera di Giacomo Leopardi in tutta la sua estensione.2 Quello che
sorprende di questa ‘presenza’ è la prospettiva filosofica assunta dallo scrittore
bolognese, volendo indicare con questo termine un’attenzione essenziale e inedita
nei confronti del pensiero leopardiano, specie per il ruolo ricoperto dallo Zibaldo-
ne in quanto opus.3
1
G. MORSELLI, Diario, Milano, Adelphi, 1988, p. 5. Il percorso di sviluppo qui proposto non vuole
essere soltanto la sinossi dei riferimenti di Morselli sull’argomento, già presente in V. FORTICHIARI, Il
suicidio in Guido Morselli, in Atti del Convegno su Guido Morselli: dieci anni dopo, 1973-1983, Gavira-
te, Comune di Gavirate, MCMLXXXIV, pp. 91-100.
2
Su Leopardi e Morselli si vedano principalmente: A. CORTELLESSA, «Es ist genug». Guido Morselli
sull’estrema soglia, «La scrittura», 1996-1997, 1, n. 4, pp. 5-16, in cui è essenziale il rimando a Giusep-
pe Rensi come filtro della lettura che Morselli fa di Leopardi e alle acquisizioni in campo teologico
desunte dal filosofo genovese. Riguardo al tema del suicicio, è d’obbligo ricordare anche la relazione
tra Diario e Dissipatio H. G. messa in evidenza da Cortellessa a p. 6; F. PIERANGELI, Le «Operette» e
«Dissipatio H. G.» di Guido Morselli: dell’estinzione e di un’ultima pietà, in «Quel libro senza uguali». Le
«Operette morali» e il Novecento italiano, a c. di N. Bellucci e A. Cortellessa, Roma, Bulzoni, 2000, pp.
271-281; P. VILLANI, L’assalto alla gran chiesa idealistica. Morselli, Tristano e il ‘fiore del deserto’, «Rivista
di Studi Italiani», 2009, 27, n. 2, pp. 23-57. Riferimenti di rilievo sono ancora in A. CORTELLESSA, Al Leo-
pardi ulteriore. Giorgio Manganelli e le «Operette morali», in «Quel libro senza uguali», cit., pp. 335-406.
3
Un rimando significativo al Diario come «zibaldone di pensieri» è stato fatto da C. MARIANI, Guido
Morselli, «Studi novecenteschi», 1991, 18, n. 41, pp. 7-48.

471
DIEGO BERTELLI

Il fatto è certamente di quelli da non sottovalutare, perché esso rappresenta una


novità di rilievo nel panorama culturale italiano di quegli anni, in prevalenza do-
minato dagli assiomi dall’estetica crociana. Con la riduzione della letteratura a una
suddivisione tra poesia e non poesia, in cui ricercare soltanto il momento della
«purezza» lirica, il rigido schematismo di Croce era anche giunto a un’esplicita
svalutazione del valore filosofico della riflessione di Leopardi, considerata dilet-
tantesca e dal disorganico disegno, specie nel caso dello Zibaldone.
La posizione di Morselli evidenzia quindi un richiamo specifico, il rimando a
una voce fuori del coro, quella di Giuseppe Rensi, ordinario di filosofia morale
all’Università di Genova e interprete d’eccezione, nel panorama filosofico-lettera-
rio d’inizio Novecento, del valore e dell’originalità di Leopardi filosofo.4 In un arco
cronologico che, volendo riassumere per sommi capi, va dal 1919, anno dei Linea-
menti di filosofia scettica e de La scepsi estetica, alla stesura delle Lettere spirituali
(uscite postume nel 1943), Rensi rafforza l’idea di una filosofia complementare alla
dimensione poetica, che anzi sia espressione lirica, ritrovando in Leopardi il fon-
damento e il principio di tale congiunzione. Il filosofo veronese rappresenta infatti
uno degli autori più amati e letti da Morselli nei lunghi anni di studio precedenti e
successivi alla decisione di ritirarsi a Santa Trìnita, al Sasso di Gavirate, nel 1958.
Valentina Fortichiari, a riprova e conferma di una tale predilezione (ma già Cortel-
lessa aveva testimoniato questa inversione dei termini così significativa) riporta che
«sopra la scrivania Morselli appese alla libreria un biglietto con la scritta “Etiam
omnes, ego non” [...]: la scritta-epitaffio, leggermente diversa (“Etsi omnes, non
ego”), era incisa sulla tomba di Giuseppe Rensi, uno dei suoi filosofi preferiti [...]».5
Il filtro rensiano di un’acquisizione filosofica fondamentale, giocata sull’assur-
dità di ogni razionalismo speculativo e sulla necessità di una sua conclusione apo-
retica, fornirà la base imprescindibile per le riflessioni sul suicidio compiute da
Morselli, specie tra 1944 e 1949. Rensi serviva a Morselli sia da sostegno alla sua
critica della «pseudo-razionalità degli idealisti»6 sia come fondamento di una vi-
sione della realtà basata su una «costante scettico-religiosa»,7 la quale aveva con-
dotto a una certa frattura tra soggetto e comprensione della realtà.
Il primo accenno al suicidio è dunque foriero della direzione che prenderà, a
distanza di quasi un lustro, lo slancio speculativo di Morselli. Nel passo di diario
del 20 febbraio 1940, si ‘anticipa’ un quadro di riferimenti precisi, il quale troverà
nel pensiero del conte Giacomo, a partire dalla sua declinazione rensiana, uno dei
più saldi sostegni all’iter morselliano sul tema del dolore e dell’infelicità. Quello
che vale la pena sottolineare in ogni caso è il sostrato concettuale rappresentato
dallo Zibaldone, oltre che dalle Operette morali,8 di fronte al tentativo di definire
un atto come quello del suicidio; laddove la premessa al discorso è «tutta razioci-

4
Cfr. R. BRUNI, Il leopardismo filosofico di Giuseppe Rensi, «Giornale storico della letteratura italia-
na», 2012, 139, vol. CLXXXIX, n. 626, pp. 191-210.
5
Cfr. V. FORTICHIARI, introduzione a Guido Morselli, in Romanzi, I, Milano, Adelphi, 2002, p. XXXIV.
6
MORSELLI, Diario, cit., p. 157.
7
R. CHIARENZA, Nota, in G. RENSI, Filosofia dell’assurdo, Milano, Adelphi, 19914, p. 7.
8
S’intende, oltre che alle Operette morali. A questo proposito, il rimando a Cortellessa è d’obbligo,
specie laddove egli riporta un brano de La felicità non è un lusso in cui Morselli, a proposito dell’infe-
licità, fa riferimento alle Operette, citando espressamente la Storia del genere umano e il Dialogo di un
fisico e di un metafisico. Dell’opera leopardiana, Cortellessa ricorda anche la «attenzione non episodi-
ca» che spetta, per quel che riguarda la riflessione di Morselli sul suicidio, al Dialogo di Plotino e Por-
firio e al Frammento sul suicidio, in CORTELLESSA, «Es ist genug», cit., pp. 9 e 10.

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MORSELLI, RENSI , LEOPARDI E LA FILOSOFIA DEL SUICIDIO

nante (per nulla romantica)»,9 le prime conclusioni mettono in evidenza una serie
di contraddizioni che trovano salda conferma nell’approccio filosofico di Rensi.
Soltanto quando Morselli tenta di superare il continuo carattere aporetico di una
tale visione del mondo si fa decisiva l’incidenza di Leopardi: essa diviene, in alcuni
momenti, un riferimento non soltanto filtrato, ma diretto.
Il primo confronto con questo duplice modello culturale lascia tracce evidenti
tra primavera ed estate del 1944, allorché lo scrittore si confronta esplicitamente
con alcune questioni legate alle Aporie della religione di Rensi. Al 14 maggio di
quell’anno risalgono tre appunti diaristici di particolare interesse:

Tutti siamo condannati a morte quanti siamo uomini. Secondo Pascal, «l’image de la
condition des hommes», è quella stessa di un gruppo d’uomini in catena e dannati alla pena
capitale, di cui ogni giorno alcuni siano sgozzati sotto gli occhi degli altri che rimangono.
Se non avvertiamo che tra noi e quegli uomini non c’è nessuna differenza, gli è perché non
è vero che noi uomini sappiamo, a differenza degli altri che morremo. (Rensi, Aporie, 71).
Il pensiero della morte è un noi esterno, saltuario e superficiale: non è mai attuale coscien-
za. [...]. E la morte, secondo [...] Simmel, «è sempre un venir uccisi, tanto che ciò si operi
mediante il coltello o il veleno, quanto mediante i microbi della tubercolosi o il cardiopal-
ma» (Rensi, ibid.).10

Morselli riconduce i rapporti d’indifferenza e casualità che stanno alla base delle
relazioni umane a un ineluttabile destino di morte, inteso come condanna unani-
me. Lo studio di Rensi si pone dunque alla base di una riflessione che nel 1948
vedrà nel suicidio la «condanna a morte della cui esecuzione il giudice incarica il
condannato».11 Di seguito alla citazione di Rensi, con la quale Morselli pone le basi
del futuro riconoscimento tra suicidio e omicidio, è citata un’osservazione di Leo-
pardi, anch’essa ricavata dalle Aporie:

Nota Leopardi che quando si rivede una persona dopo molto tempo, guardando il suo
viso, si ha l’impressione che gli sia accaduta una sciagura (citato da Rensi, ibid).12

Tale osservazione, che sembra potersi leggere come una estensione ulteriore delle
considerazioni di Morselli sul pensiero della morte come un «noi esterno» (e nelle
Aporie è usata esattamente in questo senso), apre a una considerazione che riguar-
da il rapporto dell’uomo con la felicità:

Perché Vito (O Saverio) saggiamente non si affrettavano alla felicità, o al godimento di


un bene: perché l’attesa «serve a prolungare lo stato di illusione vitale, quello in cui non si
è ancora raggiunta la felicità» (Rensi, cit., 87).

I due nomi13 fatti in quest’ultimo passo sono quelli dei protagonisti di Uomini
9
A. P. CAPPELLO, La metafora negata. Il «Capitolo breve sul suicidio» di Guido Morselli, «Otto/
Novecento», 1993, 17, n. 1, p. 131.
10
MORSELLI, Diario, cit., p. 67.
11
Ivi, p. 138. Sorprendente è la riflessione personale di Cesare Pavese del 17 agosto 1950 sui sui-
cidi come «omicidi timidi», che certamente consuona con quanto Morselli aveva trascritto dalle Apo-
rie. Cfr. C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, Torino, Einaudi, 20065, p. 399. Cortellessa
(«Es ist genug», cit., p. 6) riconosce un inevitabile «tono kafkiano» in questo finale.
12
MORSELLI, Diario, p. 67.
13
Saverio è la prima figura di medico della narrativa morselliana, da ricondurre anch’egli alla «serie di
medici [...] iniziata in Contro-passato remoto e presente nei due libri dedicati all’ambito comunista», in F.
PIERANGELI, Guido Morselli: l’impronta umana e i «trascorsi eruditi», «La Scrittura», 1996/1997, n. 4, p. 18.

473
DIEGO BERTELLI

e amori, il primo romanzo di Morselli, anch’esso scritto e rivisto nella sua comple-
tezza nel lustro 1944-1949. Risalendo direttamente al capitolo rensiano da cui
Morselli sta trascrivendo i propri appunti, intitolato Dio, la vita e la morte, in esso
è dominante la percezione della «mortalità»14 di ognuno di fronte alla casualità degli
eventi. Intesa come condanna a morte, essa si fa concreta nel momento in cui vie-
ne meno la dicotomia io-altro, ossia quando riconosciamo al nostro destino la stes-
sa contingenza riconosciuta a quello degli altri.
La successione degli appunti di Morselli segue, in questo frangente, il filo logi-
co delle argomentazioni delle Aporie. Dopo aver assimilato la condizione peritura
dell’esistenza a una condanna, Rensi arriva a sostenere che solo la «disperazione
vera – aver perduto tutto, non sperar davvero più nulla – può essere ancora una
fonte di felicità».15 Non essendo però l’uomo capace di vera disperazione e dun-
que di vera felicità, ciò fa sì che neppure il suicidio possa essere, come invece do-
vrebbe, il risultato di un’equivalenza tra queste due parti. La congiunzione tra di-
sperazione e felicità, di per sé antinomica ovvero aporetica (per usare il linguaggio
di Rensi) è dunque la sola in cui, plausibilmente, il suicidio possa compiersi con
coerenza. Negli esseri umani esiste tuttavia «il miraggio d’un ulteriore speranza»,16
in aperto conflitto con la premessa secondo cui «non c’è mai una fase di raggiun-
gimento»17 che possa soddisfare il desiderio. È a questo punto che il filosofo geno-
vese avanza una constatazione ulteriore, arrivando a sostenere che «l’esattezza della
concezione buddistica-schopenhauriana (l’idea che ogni meta, una volta raggiun-
ta, si vanifica essa stessa) è attestata nel modo più lucido dalla vita d’amore»,18 os-
sia delle relazioni io-altro.
Rensi aveva già trattato questo particolare aspetto nei Dialoghi dei morti,19 ope-
ra di chiara ascendenza leopardiana, ispirata alle Operette morali non solo per temi,
ma anche per struttura, e peraltro presente, come ricorda Cortellessa, nella biblio-
teca di Morselli. Nel dialogo tra Diotima, Orazio e Marsilio Ficino, la figura della
sacerdotessa veggente che già nel Simposio platonico aveva edotto Socrate sul pro-
blema dell’amore, afferma come esso sia «l’unico fatto della vita quotidiana che ci
renda immediatamente tangibile l’inesistenza tangibile dell’uno e dell’altro».20 Fi-
cino non manca, a distanza di poche battute, di associare all’amore la morte, affer-
mandone la fratellanza coi versi del canto leopardiano. Solo attraverso di essi è
possibile risalire i gradini di quell’«intuito metafisico»21 che disvela l’inconsistenza
della realtà, tanto che l’umanista ravvede prima di tutto nell’amore una religione,
riconoscendo in questo termine «sete della rinnegazione, della rinuncia, delle sof-
ferenze; [...] l’amore per le sofferenze medesime».22 Esattamente nel carattere ‘re-
ligioso’ dell’amore sembra lecito intravedere l’aporetica congiunzione tra dispera-
zione e felicità.
In queste considerazioni rensiane, come anche nelle precedenti, pesa in modo
sostanziale il pensiero di Leopardi; da una parte, la constatazione dell’assurdità del

14
G. RENSI, Aporie della religione, Catania, Casa Editrice “Etna”, 1932, p. 65.
15
Ivi, p. 83.
16
Ivi, p. 85.
17
Ivi, p. 84.
18
Ivi, p. 86.
19
Una copia dei Paradossi d’estetica e dialoghi rensiani, come ricorda Cortellessa, «figurava» nella
biblioteca di Morselli, in CORTELLESSA, «Es ist genug», cit., p. 10.
20
G. RENSI, Paradossi d’estetica e dialoghi dei morti, Milano, Corbaccio, 1937, p. 97.
21
Ivi, p. 99.
22
Ivi, p. 103.

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MORSELLI, RENSI , LEOPARDI E LA FILOSOFIA DEL SUICIDIO

piano razionale: «pare un assurdo, e pure è esattamente vero che tutto il reale es-
sendo un nulla, non v’è altro di reale nè altro di sostanza al mondo che le illusio-
ni»;23 dall’altra, l’asserzione, espressa precedentemente nello Zibaldone, di una re-
ligione «la qual sola proponendo l’amore delle cose invisibili di Dio ec. e la speranza
di premio nella vita futura ha conciliato con mirabile armonia la [...] apparente
pazzia delle azioni (come son quelle dei martiri, il distacco dai beni terreni da’
parenti dalla patria ec. il disprezzo della morte, il sacrifizio de’ piaceri e di tutto
all’amor di Dio al dovere ec.) colla ragione [...]».24 In Morselli, una tale prospetti-
va, in cui si uniscono all’irrazionalità degli eventi la natura inappagabile del piace-
re e il carattere ‘religioso’ del sentimento amoroso (inteso come affermazione del-
l’io attraverso il suo annullamento e la sua inconciliabilità con l’altro), ritorna
immancabilmente e ha implicazioni evidenti sul tema del suicidio.
Sempre nello Zibaldone è possibile ritrovare un indizio prezioso per capire come
l’amore e il sentimento mistico possano condurre al sacrificio e rappresentare que-
sto insieme concorde e discorde di dolore e godimento, in Leopardi tanto fisico
quanto spirituale, per mezzo del quale Morselli risolverà il suicidio in un atto d’amo-
re nei confronti di se stesso:

Nello stato naturale, l’inclinazione innata dell’uomo verso la donna, trovando tutto
aperto e palese, e niun luogo avendovi alla immaginativa, ella non producea che pensieri e
sentimenti semplicissimi, distintissimi, chiarissimi, materialissimi. Ora essa inclinazione,
esso amore ingenito e naturalmente fortissimo e ardentissimo, trovando il mistero, e i loro
effetti congiungendosi nell’animo umano colla idea del mistero, o vogliamo dir con un’idea
oscura e confusa, oscurissimi e confusissimi, ondeggianti, vaghi, indefiniti, cento volte meno
sensuali e carnali di prima (poichè la detta idea non viene immediatamente dal senso ec.),
e finalmente quasi mistici debbono essere i pensieri e gli affetti che risultano da questa
mescolanza di sommo desiderio e tendenza naturale, e d’idea oscura dell’oggetto di tal
desiderio e tendenza.25

In questo senso, la proiezione sui due personaggi principali di Uomini e Amori


di una saggia amministrazione della felicità, così come si legge nell’appunto di Diario
del 14 maggio 1944, è un modo per prolungare l’«illusione vitale», affinché essa
non apra alla disperazione e, di conseguenza, a un grado più vero della felicità stessa.
Mantenere la vita dell’uomo tra questi termini, come apparirà in modo ancor più
chiaro in Fede e critica, non vuol dire assolutamente accettazione, tanto quanto non
vuol dire sopportazione l’esperienza del dolore. Confrontandosi qui direttamente

23
G. LEOPARDI, Poesie e prose, a c. di M. A. Rigoni e di R. Damiani; II, Prose, a c. di R. Damiani,
Milano, Mondadori, 1988, p. 99 . Con specifico rimando alla religione cristiana e alla nuova illusione
generata nell’uomo capace di ispirare, entusiasticamente, gesti di sofferenza si veda Zibaldone, 335-337,
in particolare 336: «produsse, entusiasmo, fanatismo, sagrifizi magnanimi, eroismo, sono i soliti effetti
di una grande illusione». Sempre a proposito, interessante il riferimento di Leopardi ai «filosofi anti-
chi», per i quali quel tempo «inclinava al metafisico, all’astratto, al mistico, e quindi Platone trionfava
in quei tempi. V. Plotino, Porfirio, Giamblico, e i seguaci di Pitagora, anch’esso astratto e metafisico».
Tale inclinazione altro non è, per Leopardi, che una prefigurazione più ingenua di quello cristiano
successivo. In ogni caso il sacrificio volontario è presente sia nella teologia precristiana sia in quella
cristiana. La citazione di Porfirio e Giamblico sono particolarmente significative per quel che riguarda
la relazione tra suicidio e «illusione». Come Cortellessa ha messo in evidenza un rapporto non accesso-
rio tra il Dialogo di Plotino e Porfirio e la speculazione morselliana sull’argomento, così Pierangeli ha
ricordato l’interesse dello scrittore per il Giamblico teologo a proposito di Dissipatio H. G., in PIERAN-
GELI, Guido Morselli, cit., p. 18.
24
Ivi, p. 37.
25
LEOPARDI, Zibaldone, 3308 [corsivo mio].

475
DIEGO BERTELLI

con il Libro di Giobbe, il piano speculativo contemplerà piuttosto un’idea di «invin-


cibile sentimento del divino»,26 colto in tutta la sua umanità, medium di due estremi
della fede che sono «Amore e timore di Dio»,27 laddove tra «ragione e fede non c’è
distinzione»,28 che è come dire che non c’è differenza tra sentimento ed esperienza
del mondo.
All’altezza della stesura del suo primo romanzo, Morselli sta dunque rifletten-
do sulle possibili implicazioni del rapporto tra soggetti entro una serie di eventi
che li coinvolge. In Uomini e amori, Saverio è senz’altro espressione di un approc-
cio razionale alla realtà, in cui sembra possibile una comprensione dell’amore sulla
base di una compenetrazione reciproca. In verità, però, egli si rende conto di quanto
sia necessario un egoismo paradossale perché «l’amato»29 divenga «un secondo io»,30
arrivando per questo motivo all’attribuzione di «qualcosa di mistico» alle manife-
stazioni amorose.31 Il termine qui usato da Morselli è tutt’altro che generico. In un
passo di diario del 29 giugno 1944, lo scrittore definisce il mistico come colui che
«crede in un Oggetto di cui afferma l’inesistenza [...] assoluta Essenza che è sol-
tanto la loro propria essenza (Feuerbach, in Rensi, Aporie, p. 44)».32 Morselli, in
questo frangente, è supportato dalle pagine su La volatilizzazione di Dio, in cui Rensi
sostiene l’«identificazione di Dio al Nulla»,33 sviluppando le linee principali di quella
«teologia negativa» che, a suo esplicito parere, solo Leopardi aveva saputo intuire.34
Il fatto più interessante di questa fitta rete di rimandi, è che per Morselli «la
storia della “teologia negativa” coincide con quella del misticismo»,35 segnando qui
un distacco maggiore da Rensi che da Leopardi già nel momento in cui egli trascri-
ve nei quaderni i passi delle Aporie, appunta le sue riflessioni e stende molti pas-
saggi preparatori di Uomini e amori. È in virtù della coincidenza tra teologia nega-
tiva e misticismo che lo scrittore recupera l’idea d’amore esemplificata nello Zibaldone,
ossia una proiezione verso l’esterno di qualcosa che è soltanto dentro di noi. Per
tale ragione, fino almeno alla narrazione della tragica esperienza della guerra in Ca-
labria,36 che nella seconda parte del romanzo sottopone i due personaggi maschili
a quello stato di continua condanna a morte che è la vita,37 Uomini e amori svolge
un’analisi approfondita del sentimento amoroso. Ma proprio in questo passaggio
decisivo è rintracciabile il trait d’union più importante tra il romanzo e la disamina
sul male di Fede e critica, soprattutto si teniamo conto di due fatti: il primo è che la
stesura di quest’ultima opera è appena precedente e in un certo qual senso coeva a
quella del Capitolo breve sul suicidio (siamo nel biennio 1955-56); il secondo ri-
guarda l’esperienza che sta alla base della riflessione sul male, la quale risale indie-
tro nel tempo ai fatti di Calabria, che non riguardano soltanto Saverio e Tito, ma
prima di tutto Guido: «questo saggio [...] affonda le radici nel terriccio ben sedi-

26
F. MERCADANTE, Guido Morselli o della fede senza teodicea, «Studium», 1978, 74, n. 2, p. 253.
27
Ibidem.
28
Ibidem.
29
G. MORSELLI, Uomini e amori, Milano, Adelphi, 1998, p. 98.
30
Ibidem.
31
Ivi, p. 97.
32
MORSELLI, Diario, cit., p. 77.
33
RENSI, Aporie, cit., p. 38.
34
Ivi, p. 41.
35
MORSELLI, Diario, cit., p. 76.
36
Cfr. FORTICHIARI, Nota, cit., in MORSELLI, Il suicidio, cit., p. 24.
37
«Dovunque conduciamo la vita, questa è sempre come l’uscita dalle trincee e l’andar incontro al
nemico invisibile che spara», in RENSI, Aporie, cit., p. 68.

476
MORSELLI, RENSI , LEOPARDI E LA FILOSOFIA DEL SUICIDIO

mentato dei fatti. Seconda guerra mondale, 1942-43: Morselli percorre la Calabria
da militare in ritirata. Una testimonianza della signora Maria Bruna Bassi [...] con-
ferma che quando Morselli stende i primi pensieri di questo libro, tenta il suici-
dio».38 Se infine teniamo conto che Fede e critica è, nell’essenza, la «trasposizione
stilistica»39 del diario, nel quale convivono, come in un crogiolo, acquisizione filo-
sofica e officina narrativa, la quadratura finale che ne deriva è tale da disporre
necessariamente queste opere sul medesimo piano speculativo.
Considerando allora l’analisi del sentimento amoroso in Uomini e Amori, è palese
che nella loro pur evidente opposizione sia l’amore di Saverio per Nene, impron-
tato alle rettitudine quasi oziosa delle emozioni, sia quello di Vito per Lucia, carat-
terizzato invece da infedeltà che «benché non infrequenti, non erano però siste-
matiche»,40 lasciano trasparire un disequilibrio. A pesare da entrambe le parti è la
connotazione data dai personaggi maschili all’amore, poiché essa si risolve irrime-
diabilmente in un sentimento auto-riflesso. Saverio sostiene che l’amato debba
divenire un «secondo io»; Vito, dal canto suo, non sfugge alla logica dell’«amor
sui»,41 cosicché, in un modo quasi paradossale, «avveniva che l’egoismo del sesso
in lui prendesse almeno la forma della dolcezza [...]».42
Morselli sembra variare sul tema dell’egoismo in virtù di un ulteriore rimando
leopardiano, segnato nei diari in data 15 luglio 1946. Si tratta un pensiero tratto
dai Detti memorabili di Filippo Ottonieri; in gioco è qui la rivalità dei soggetti coin-
volti nelle relazioni amorose, il cui risultato è la presa di coscienza di un rapporto
reciprocamente conflittuale: «Negava che alcuno a questi tempi possa amare sen-
za rivale; e dimandato del perchè, rispondeva: perchè certo l’amato o l’amata è ri-
vale ardentissimo dell’amante».43
La constatata rivalità tra amato e amante s’inserisce anch’essa in quella tratta-
zione che comprende l’amor di sé, il quale occupa in modo esteso, si è visto, diver-
se riflessioni contenute nello Zibaldone, specie tra 1823 e 1824. Morselli sembra
essere giunto consapevolmente alla constatazione leopardiana secondo cui «dove
è maggior grado o efficacia di amor proprio, quivi è maggior desiderio e bisogno
di felicità».44 Si tratta di temi strettamente legati a quello del suicidio, i quali si
arricchiscono, successivamente al biennio 1818-1820 e alla stesura dell’Ultimo canto
di Saffo e del Bruto minore, della lettura del Manuale di Epitteto e del confronto
con la morale stoica presente nelle Operette morali. È tuttavia lo Zibaldone, l’ope-
ra che fornisce, con sempre maggiore incidenza, il confronto più fecondo con lo
sviluppo del pensiero di Morselli.
In un appunto del suo journal, datato 9 ottobre 1823, Leopardi aveva constata-
to quanto ogni proiezione amorosa, sia in senso proprio che improprio, di un sog-
getto verso un oggetto, implicasse un atto egoistico:

Non è propriamente (benchè si chiami) Amore quello che noi ponghiamo al cibo che
ci pasce e diletta, e agl’istrumenti e [...] alle cose tutte che servono ai nostri piaceri, como-

38
MERCADANTE, Guido Morselli, cit., p. 239.
39
DI BIASE, Morselli e il mistero del male, «Studium», 1978, n. 2, p. 252.
40
MORSELLI, Uomini e amori, cit., p. 128.
41
Ivi, p. 121.
42
Ivi, 131.
43
Ivi, p. 112. Cfr. anche Zibaldone, 1362: «Mess. a uno che gli esponeva la sua passione per una
donna. Ma ella, disse, è tua rivale. Soleva dire che tutte le donne sono ardentissime rivali de’ loro
amanti».
44
Ivi, p. 2738.

477
DIEGO BERTELLI

di e utilità. Perocchè l’affetto che ci muove verso questi obbietti non ha nemmeno appa-
rentemente per fine gli oggetti medesimi (che è il caso in cui il nostro affetto si chiama
propriamente amore), ma noi soli apertamente e immediatamente o vogliam dire i nostri
piaceri, comodi, vantaggi, in quanto nostri.45

Che la validità della considerazione fosse estendibile ai rapporti interpersonali


è indicato da Leopardi col rimando diretto alla pagina 3310, dove s’insiste, per altro,
sul valore «mistico» del sentimento amoroso, in cui dominante è la sudditanza di
colei che è amata di fronte a colui che ama. La congiunzione egoistica che ne deri-
va assume per Leopardi un valore decisivo, tanto che alla medesima pagina riman-
da un’altra ancor più compiuta ed estesa disamina:

Sicchè l’oggetto amabile dell’un sesso fu all’individuo dell’altro, non più un oggetto
semplicemente materiale, come in principio, ma un oggetto composto di spirito e di cor-
po, di parte occulta e di parte manifesta, e poscia di mano in mano un oggetto più spiritua-
le che materiale, più occulto e immaginabile che manifesto e sensibile, più interiore che
esteriore. E come le idee che hanno relazione alla parte interna ed occulta dell’uomo, sono
naturalmente vaghe ed incerte, quindi l’idea dell’oggetto amabile, considerato nel detto
modo, cominciò necessariamente ad avere del misterioso, congiungendosi in essa idea la
considerazion dello spirito a quella del corpo; e acquistando di mano in mano la prima
considerazione sopra la seconda, sempre più misteriosa ne dovea divenire l’idea dell’og-
getto amato, sino ad aver finalmente più del mistico, dell’incerto e del vago, che del chiaro
e determinato. Così i sentimenti e le idee che appartengono alla passion dell’amore, piglia-
rono sempre più dell’indefinito a proporzion della civilizzazione (e quindi essa passione
divenne, non v’ha dubbio, incomparabilmente più dilettosa); tanto che, quantunque il prin-
cipio dell’amore sia quel medesimo necessariamente oggi che fu ne’ primitivi, che è ne’
selvaggi, che è e fu sempre ne’ bruti, ed altrettanto materiale e animale, nondimeno essa
passione adunando in se lo spirituale col materiale, è divenuta così diversa da quelle, che
certo l’amor propriamente sentimentale non sembra aver nulla che fare nè coll’amore de’
selvaggi, nè con quello dei bruti, ma essere di natura e di principio e di origine affatto di-
verso e distinto. Ed oggidì anche l’amore il meno platonico e il più sensuale pur tiene ne-
cessariamente nelle sue idee e ne’ suoi sentimenti assaissimo dello spirituale, e quindi del-
l’immaginoso, e quindi del vago e dell’indefinito; e nell’oggetto amato o goduto o amabile
anche la persona più brutale sempre considera alquanto e in qualche modo una parte
occulta di esso oggetto che accompagna ed anima e strettamente appartiene, abbraccia
ed è congiunta a quella parte e a quelle membra che egli desidera, o ch’ei si gode, o ch’ei
riguarda come amabili e desiderabili; perchè in fatti quella parte vi è, ed ha grandissima
parte nell’essere di quell’oggetto, e l’interno è una grandissima porzione di questo, per
brutale o insensato che anch’esso si sia; e l’amante il vede assai bene tuttodì. Parlo di og-
getti amati e di amanti che quantunque brutali, o incolti, e poco esistenti per lo spirito, pur
sieno de’ civili.46

Queste esplicite considerazioni sul sentimento amoroso, da intendere come


«ricerca del bene» che procura piacere nel solo soggetto amante, si radicano al punto
che all’altezza del 1827, in un brano in cui Leopardi lega assieme suicidio e amor
proprio, si può cogliere la consequenzialità tra il gesto di chi si toglie la vita e il
conseguimento del proprio bene:

L’amor della vita e il timor della morte non sono innati per se: altrimenti niuno s’am-
mazzerebbe. Innato è l’amor di se, e quindi del proprio bene, e l’odio del proprio male: e

45
Ivi, p. 3637.
46
Ivi, p. 3912-3914.

478
MORSELLI, RENSI , LEOPARDI E LA FILOSOFIA DEL SUICIDIO

però niun può non amarsi, nè amare il suo creduto male ec. È però naturale che ogni vi-
vente giudichi la vita il suo maggior bene e la morte il maggior male. E infatti così egli giu-
dica infallibilmente, se non è molto allontanato dallo stato di natura. Ecco dunque che la
natura ha veramente provveduto alla conservazione, rendendo immancabile questo error
di giudizio; benchè non abbia ingenerato un amor della vita. Esso è un ragionamento, non
un sentimento: però non può essere innato. Sentimento è l’amor proprio, di cui l’amor della
vita è una naturale, benché falsa, conclusione. Ma di esso altresì è conclusione (bensì non
naturale) quella di chi risolve uccidersi da se stesso.47

Se la constatazione leopardiana aveva certamente condotto Rensi a concludere


che «chi può con sincera coscienza affermare: “non m’importa di morire,” è feli-
ce»,48 sembra potersi idealmente riferire alla distinzione tra ragionamento e senti-
mento anche l’inciso diaristico del 13 gennaio 1945: «suicida per amore della vita».49
Questa «frase lapidaria»50 non conosce tuttavia uno sviluppo ulteriore; Morselli non
ne trae alcun evidente corollario, lasciandola inespressa. Anzi, nella premessa alle
riflessioni contenute nell’articolo sul suicidio del 1949, il richiamo al modello leo-
pardiano, «Non appena si tocchi il doloroso argomento, è di tradizione richiamar-
si a Leopardi o Schopenhauer», s’inserisce inizialmente all’interno di un’indagine
sociologica. Non bisogna tuttavia attendere molte pagine perché l’autore svolti
naturalmente a discutere la qualità «individuale» dell’essere umano, così come è
predicata da Jules Sagaret e di cui Morselli considera immediatamente «un oppo-
sto carattere: la dipendenza dagli altri viventi, e dal complesso della natura».51 Della
«equabile proporzione fra individualità e natura», la disarmonia porta alcuni sog-
getti a un acuirsi della «tentazione di recidere [...] ogni impulso vitale nella supre-
ma negazione che è il suicidio».52 Nel breve intervento giornalistico, che risente
ampiamente del frammento leopardiano sul suicidio,53 specie laddove si afferma
che «il suicidio è la cosa più mostruosa in natura», è proprio lo scontrarsi d’indivi-
duo e natura che fa perpetrare all’uomo quanto di più contrario all’istinto vitale
possa compiersi. Pur tuttavia, una valutazione dell’io che non possa prescindere
dalla «dipendenza dagli altri viventi» rimanda indirettamente a quel sentimento
egoistico che nasce in seno alle relazioni tra individui: al rischio dell’antagonismo
uomo-natura o uomo-uomo, è più lecito pensare che «il disprezzo per la vita deri-
va da amore, troppo amore».54
Volendo considerare il 1949 e il 1956 – rispettivamente gli anni di pubblicazio-
ne de Il suicidio e di composizione del Capitolo breve sul suicidio 55 – come i due
momenti di raccordo del lungo percorso di studi e meditazione sull’argomento,
possiamo senz’altro riconoscere in Leopardi e Rensi i due fuochi di quest’ellisse

47
Ivi, pp. 4242-4243.
48
RENSI, Aporie, cit., p. 82.
49
MORSELLI, Diario, cit., p. 86.
50
V. FORTICHIARI, Nota al testo, in G. MORSELLI, Il suicidio e Capitolo breve sul suicidio, Pistoia,
Quaderni Di Via del Vento, 2004, p. 24.
51
MORSELLI, Il suicidio, cit., p. 5.
52
Ivi, p. 6.
53
G. L EOPARDI , La strage delle illusioni, a c. di Mario Andrea Rigoni, Adelphi, Milano, l993 2,
pp. 51-54.
54
MERCADANTE, Guido Morselli, cit., p. 244.
55
Il primo scritto, in forma di articolo, esce sulle pagine de «Il Tempo» di Milano il 7 settembre
1949; il breve saggio dal titolo Capitolo breve sul suicidio, pubblicato postumo, è datato 26 agosto 1956.
Per approfondimenti, cfr. V. FORTICHIARI, Nota al testo, in G. MORSELLI, La felicità non è un lusso, Mi-
lano, Adelphi, 1994, rispettivamente pp. 152-153 e 159-160.

479
DIEGO BERTELLI

speculativa. Il tema dell’«amore» e la questione dell’individuo, ossia del soggetto


in quanto indivisibile, divengono costanti e rappresentano le basi di quella concor-
dia discords che reggerà l’aporetica volontarietà del gesto del suicida.
Rispetto al 1949, è innegabile che gli esiti ai quali giunge Morselli contraddica-
no le premesse della sua argomentazione. Se nel febbraio 1948 egli scrive «Nessu-
no si è mai tolto volontariamente la vita. Il suicidio è una condanna a morte della
cui esecuzione il giudice incarica il condannato»,56 otto anni dopo, la frase incipi-
taria del Capitolo così recita: «Il volontario rifiuto della vita è suicidio».
Esattamente in quest’arco temporale, il problema del soggetto rispetto al mon-
do aveva intanto acquistato, nelle pagine del Diario, sempre più il senso di una ri-
flessione sul valore costitutivo dell’individuo: «Il vero valore di un uomo si deter-
mina con lo stabilire in quale misura e in che direzione egli è giunto a liberarsi
dell’io». È questo un appunto di Morselli, anno 1952, in cui lo scrittore, riportan-
do uno stralcio d’articolo di Guido Piovene apparso sul Corriere della Sera, cita le
parole di Albert Einstein.57 Del fisico tedesco, la cui diffusione in Italia fu inizial-
mente veicolata proprio da Rensi, lo scrittore bolognese aveva già riportato nel
Diario un’altra massima significativa, secondo cui «la cosa più incomprensibile del
mondo è che esso sia comprensibile».58 Siamo qui nel 1949 e il relativismo di Ein-
stein rappresenta la conferma, sul piano della scienza fisica, di una tradizione
umanistica che Morselli aveva recuperato grazie alla lettura di Montaigne («Aspetta,
e vedrai tutto il contrario di tutto»)59 risalente ai primi anni Quaranta e ancora viva
nella memoria dello scrittore alla fine dei Sessanta.
Di fronte alla costante verifica di un’aporia razionalistica, Morselli riconosce
nella separazione del soggetto da se stesso l’alternativa ‘vitale’ a una serie di rap-
porti d’indifferenza e casualità tra esseri umani che rimarrà costante negli anni;
costante fino al punto che Morselli nel 1969 ancora scrive: «“L’ho conosciuta per
caso.” E chi, domandiamo, non è stato da noi conosciuto per caso?».60 Il fulcro
teoretico a sostegno di una tale certezza – e sono molte le pagine del Diario che
confermano l’assenso di Morselli alla paradossalità delle cose,61 sia sul piano razio-
nale sia su quello religioso, tra 1949 e 1950 – sembra essere stata offerta proprio
dalla lettura delle Aporie e dai suoi primi lasciti leopardiani tra 1944-49.
Va detto che in Morselli la riflessione sul caso si fa esplicita solo a partire dal
1957, nonostante i passaggi tratti da Rensi e l’ampio margine concesso alla rifles-
sione su Dio ne avessero, in un certo qual modo, presupposto una presenza già
implicita. Questo è specialmente vero in rapporto alla questione della vita come
condizione comune e indistinta di condanna a morte,62 come pure in relazione alla
felicità, che già all’altezza del 1944, è considerata «un equilibrio instabile, una mera
e fortuita combinazione».63 Ciononostante, all’inizio degli anni Cinquanta, tali ac-

56
FORTICHIARI, Nota, cit., p. 25.
57
MORSELLI, Diario, cit., p. 161.
58
Ivi, p. 142.
59
Ivi, p. 138.
60
Ivi, p. 337.
61
Cfr. nel Diario i riferimenti a Einstein, p. 142; al cardinale Newman, p. 153; a Kant e Rousseau,
p. 156.
62
Si legga questo pensiero di poco precedente, datato 15 agosto 1956: «Sciagura mineraria nel Bel-
gio: sepolti, arsi o asfissiati, più che trecento operai. Il papa invia un messaggio, “invocando per le vittime
la misericordia del Cielo.” La religione, come opinava Tertulliano, può sì sfidare l’assurdo, ma quando
l’assurdo consiste in un simile paradossale capovolgimento di princìpi, allora la religione non è più cosa
per noi: non già sovraumana, direi, ma sotto-umana, nella sua immensa stolidità», ivi, p. 168.
63
Ivi, p. 66.

480
MORSELLI, RENSI , LEOPARDI E LA FILOSOFIA DEL SUICIDIO

quisizioni convivono con la sempre più esplicita certezza che la sofferenza e il do-
lore leghino l’essere umano «vieppiù all’esistenza».64 Il fatto è verificabile soprat-
tutto negli anziani, a parere di Morselli, il quale sembra rifarsi in modo ancora
esplicito a Leopardi.
Si confrontino questi due passi: il primo tratto dal Diario dello scrittore: «Non
che la vita si faccia amare di più quanto più è grama; ma i diseredati, e così i vec-
chi, sogliono attaccarsi alle piccole cose, prendere gusto ai piccoli piaceri che si
offrono in tutti gli stati; e a ciò si aggiunge l’assuefazione, che rende meno sensibili
pene e rinunce»; il secondo dallo Zibaldone:

È cosa indubitata che i giovani, almeno nel presente stato degli uomini [...] non sola-
mente soffrono più che i vecchi (dico quanto all’animo), ma eziandio (contro quello che
può parere, e che si è sempre detto e si crede comunemente), s’annoiano più che i vecchi,
e sentono molto più di questi il peso della vita, e la fatica e la pena e la difficoltà di portarlo
e di strascinarlo. E questa si è una conseguenza dei principii posti nella mia teoria del pia-
cere. Perciocchè ne’ giovani è più vita o più vitalità che nei vecchi, cioè maggior sentimen-
to dell’esistenza e di se stesso; e dove è più vita, quivi è maggior grado di amor proprio, o
maggiore intensità e sentimento e stimolo e vivacità e forza del medesimo; e dove è mag-
gior grado o efficacia di amor proprio, quivi è maggior desiderio e bisogno di felicità; e
dove è maggior desiderio di felicità, quivi è maggiore appetito e smania ed avidità e fame
e bisogno di piacere: e non trovandosi il piacere nelle cose umane è necessario che dove
n’è maggior desiderio quivi sia maggiore infelicità, ossia maggior sentimento dell’infelici-
tà; quivi maggior senso di privazione e di mancanza e di vuoto; quivi maggior noia, mag-
gior fastidio della vita, maggior difficoltà e pena di sopportarla, maggior disprezzo e non-
curanza della medesima.65

Se Leopardi sottintende chiaramente l’idea di una sofferenza che determina,


specie in età avanzata, un maggiore attaccamento alla vita, la premessa di Morselli
a tale presa di coscienza è un inciso del 24 novembre 1950: «soffro dunque sono».66
Pur dovendo giustamente ricondurre la frase al problema del male così come si
presenta nel Libro di Giobbe,67 è necessario ricordare anche la matrice cartesiana
di questa massima: da una parte, essa pone senz’altro in rilievo che tra «ragione e
fede non c’è distinzione [...] ma rapporto dialettico, dinamico»;68 dall’altra, la ri-
duzione del cogito, propone un attaccamento alla vita determinato in prima istan-
za dal dolore. Esso troverà una sua particolare sintesi in un apologo-operetta bre-
ve e singolare: il dialogo tra Proculo il moralista e un io autoriale che Morselli segna
sul Diario in data 15 agosto 1956. Tema centrale del dialogo è il suicidio, che Pro-
culo tratta con disprezzo, definendolo «l’abbiezione della viltà».69 L’io autoriale,
dopo aver cercato di controbattere alle inflessibili posizioni del suo interlocutore,

64
Cfr. anche questo passaggio: «La rassegnazione alla sofferenza è tanto più facile, quanto più la
sofferenza ci può sembrare intrinseca in noi», ivi, p. 165 e il passo, in forma di saggio breve, Della ras-
segnazione, pp. 208-213.
65
LEOPARDI, Zibaldone, 2737-2738.
66
MORSELLI, Diario, cit., p. 160.
67
Si consideri anche il riferimento fatto da Cortellessa («Es ist genug», cit., p. 8) al primo scritto di
Morselli, Filosofia sotto la tenda, del 1939. Da segnalare a tal proposito la recente uscita di Guido Mor-
selli. Le domande e le prospettive della carità, a c. di Fabio Pierangeli, «Studium», 2012, 108, n. 4, con
una sezione monografica dedicata al problema della fede in Morselli, e il numero speciale della rivista
«In Limine», a c. di Alessandro Gaudio e F. Pierangeli, interamente dedicato a Morselli e consultabile
all’indirizzo http://www.lidiasirianni.com/730/in-limine-guido-morselli.
68
MERCADANTE, Guido Morselli, cit., p. 244.
69
MORSELLI, Diario, cit., p. 168.

481
DIEGO BERTELLI

arriva a una disincantata constatazione, ossia che «ci vuole un qualche disperato
coraggio».70 Al finale comico che vede Proculo fuggire disperato per un moscerino
entratogli nell’occhio, segue sul Diario un passo tratto dalle Ecclesiaste: lo stesso
che è ricopiato a matita da Morselli proprio su un «foglietto allegato al Capitolo»:71

Meglio la morte che una vita amara, e il riposo eterno che un continuo dolore.72

La riflessione del 1956 convergerà tutta in questo trattato inedito, in cui Mor-
selli fa una disamina di ciò che, rispetto alla vita, possa dirsi un suicidio: «perché
un uomo normale, sano di corpo e di mente, si dica “non posso più vivere” occor-
re appunto che in lui si dia quel dolore, con quell’intensità, con quella sciagurata
sua facoltà di far tacere ogni speranza e ogni fede».73 Nel tentativo di classificazio-
ne e comprensione dei possibili gesti da considerare suicidi, Morselli arriva sem-
pre a una conclusione antinomica, perché sembra che tutti i casi presi in esame
tradiscono, per contingenze esterne o interne all’individuo, l’idea di volontarietà
alla base del gesto estremo: «si dovrebbe dedurne, e non sarebbe se non apparen-
temente un paradosso, che non ci sono suicidi».74
In base a una tale constatazione, Morselli riporta il dominio della volontarietà
entro quello della gratuità: «Il suicidio, questo grande rifiuto, è un atto gratuito, o
non è». Significativo è il ricorso a tale aggettivo: se nel Diario, «troppo futilmente
aleatoria, troppo legata al gratuito e all’accidentale» è «la nostra vicenda umana»,75
già in Fede e critica «la vita e il bene per il credente sono provvidenziali ma non
fatali, gratuiti ma non fortunati»,76 divenendo per Di Biase esattamente questo il
momento in cui Morselli accosta la vicenda di Agostino al dramma di Leopardi.77
L’uso del termine ‘gratuito’ assume nel Capitolo un valore complesso, di orienta-
mento teologico, in quanto ‘grazia,’ concessione fatta a se stesso. Morselli insiste sulla
sfera attributiva del ‘favorevole’ e del ‘benevolo’, a fronte di quella congiunzione tra
caso e Dio che gli era stata certamente suggerita dalla lettura delle Aporie.
Se il suicidio è dunque self-indulgence, il problema diviene quello, già conside-
rato nel caso dei protagonisti di Uomini e amori, della distanza del soggetto da se
stesso e della definizione di tale distanza come atto d’amore, essendo sostanzial-
mente la rassegnazione a determinare un attaccamento alla vita. Che Morselli avesse
in mente, nella sua interezza, la locuzione latina gratis et gratia dei? In virtù del-
l’egoismo intrinseco al soggetto nei rapporti interpersonali, non possiamo non leg-
gere nell’amore un sentimento auto-riflesso, che riguarda l’io e soltanto l’io, nella
sua più assoluta individualità (e dunque indivisibilità).
A cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta, dunque, amore e Dio, che Morselli non
riconosce come concetti assimilabili, acquisiscono un’importanza decisiva per la com-
prensione del modo in cui egli intende risolvere il nodo aporetico del suicidio. Come
specifica a ragione Mercadante, «un uomo che si toglie la vita non è soltanto un sui-
cida. Sorprende, potrà sorprendere che sia (stato) un cristiano, ma se lo è, lo è».78

70
Ibidem.
71
FORTICHIARI, n. 16, in MORSELLI,, Diario cit., p. 169.
72
Ibidem.
73
MORSELLI, La felicità, cit., pp. 122-123.
74
Ivi, p. 124.
75
MORSELLI,, Diario, cit., p. 182 [corsivo mio].
76
DI BIASE, Morselli, cit., p. 255.
77
Ibidem.
78
MERCADANTE, Guido Morselli, cit., p. 246.

482
MORSELLI, RENSI , LEOPARDI E LA FILOSOFIA DEL SUICIDIO

Si prenda allora una constatazione del 2 marzo 1961: «L’amore non è mai mor-
to, sinché non è morto in tutti e due gli amanti»,79 i quali ormai sembrano essere
due io più che due distinti soggetti. La morte dell’amore sembra così rientrare nella
categoria della gratuità, sia nel senso di accidente sia di concessione. La parados-
salità del suicidio si risolve in quanto gesto volontario, dato che per ogni altro ter-
mine togliersi la vita risulterebbe, in modo costitutivo, contraddittorio.
Morselli aveva riportato sul Diario, in concomitanza con le riflessione del 1956,
un passo tratto da Religione e verità di Rudolf Eucken, in cui il teologo, citando
Hegel, insisteva su tale aspetto: «“nulla vi ha di più arduo dell’amore” che deter-
mina “una terribile contraddizione”».80 Se di fronte al dolore e all’indomita casua-
lità monadica era sembrata profilarsi inizialmente l’alternativa rensiana del misti-
cismo, in sé diversa da quella leopardiana, il fallimento di riconoscere a Dio uno
statuto diverso da quello di una semplice proiezione interiore dell’io conduce al-
l’impossibilità di un’esperienza ‘amorosa,’ quest’ultima da intendere appunto come
distacco da se stesso (donde il conseguente recupero della «teologia negativa», i
cui esordi risalgono al lustro 1944-1949).
Quando nel 1969 lo scrittore riporta sul Diario l’assimilazione tra stoicismo e
suicidio fatta da Pavese, «lo stoicismo è il suicidio»,81 è chiaro che l’idea leopardia-
na di una morale «accomodata» agli animi deboli discussa nel Preambolo del vol-
garizzatore dell’Enchiridion ha agito ben oltre le tracce lasciate dalle Operette sulle
coeve riflessioni di Morselli. L’impossibilità di «schivare una continua infelicità»,82
non trovando spiegazione nella teologia razionale o nel misticismo rensiano, porta
a una terza via, quella biblica della saggezza, la quale trova un’indicazione di rotta
nel rapporto tra dolore ed esistenza delle Ecclesiaste.
Come riferimento implicito, la relazione tra sofferenza e vita ritorna inoltre nelle
pagine del Diario all’altezza del 1966, quando Morselli mette a reagire morale cri-
stiana e sacre scritture in rapporto a una questione già dibattuta nel Capitolo:

L’omicidio, nota giustamente Hannah Arendt [...] è considerato meno grave del suici-
dio. Al colpevole di suicidio sono negate le esequie, non all’omicida. E ciò, aggiungo io,
quantunque il sacro libro, la Bibbia, ammetta che in certe condizioni di infelicità, togliersi
la vita è giustificabile [...].83

Il Qohelet rappresenta un momento essenziale per collegare l’esperienza anta-


gonistica dell’amore alla sfera dell’uomo. In questo senso, la saggezza era divenuta
per Morselli l’unica forma di pensiero che non rappresentasse un «paradosso»84 ed
era dunque la fonte di verità e libertà che forniva il presupposto alla verità e alla
libertà dei gesti compiuti in suo nome, compreso il suicidio.
Appena tre anni prima di questo brano, nel maggio del 1963, Morselli sta tra-
scrivendo nuovamente passi tratti sia dal Manuale di Epitteto sia da Aurora di
Nietzsche. Già sei anni prima di riconoscere nella morale dell’Enchiridion il vero
suicidio, per quel che concerne la virtù stoica Morselli conclude che la saggezza
antica può contribuire alla tranquillità del soggetto, ma «a prezzo della [...] vi-

79
MORSELLI, Diario, cit., p. 201.
80
Ivi, p. 173.
81
Ivi, pp. 335-336.
82
LEOPARDI, Prose, cit., p. 1045.
83
MORSELLI, Diario, cit., 265. Cfr. anche Civitas dei, I, 19 e si veda la sola nota presente nel Capitolo
e riguardante l’apparente affinità tra suicidio e omicidio, in MORSELLI, La felicità, cit., p. 118-119.
84
Ivi, p. 230.

483
DIEGO BERTELLI

ta».85 Se è intuibile che lo stoicismo non era riuscito, neanche in precedenza, ad


avere la qualità sufficiente per avvalorare né la vita né la morte, sul versante della
teologia negativa, intanto, Morselli aveva ricavato da Nietzsche che «non occorre
provare la non esistenza di Dio; basta ricordare che ci sono due cose che, ad ogni
modo, contano più di lui, a cui la fede in lui deve subordinarsi: la verità e la libertà.
– E anche questa è una proposizione che non ha bisogno di esser dimostrata».86
Non restava allora che un gesto libero e benevolo, saggio e amorevole, in una
parola ‘gratuito.’ Sempre da Eucken, lo scrittore aveva appreso come negli uomini
l’illusione della libertà nascesse soltanto da una mancanza di comprensione delle
circostanze da cui sorge il loro operato87. Sembra, dunque, che solo attraverso il
compimento di un atto d’amore nei confronti di se stesso potesse realizzarsi sag-
giamente in Morselli quella conclusiva comprensione della vita che il caso aveva
ridato, fino ad allora, sotto forma di relazioni umane.

Diego Bertelli

85
Ivi, p. 232.
86
Ivi, p. 233.
87
Ivi, p. 172.

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FINITO DI STAMPARE
NEL MESE DI FEBBRAIO 2014
PER CONTO DELLA
CASA EDITRICE LE LETTERE
DALLA TIPOGRAFIA ABC
SESTO FIORENTINO - FIRENZE

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