Sei sulla pagina 1di 215

PASCAL IDE

in collaborazione con Luc Adrian

¡/peccati
cafpitali
«MA LIBERACI DAL MALE»

V
ELUDICI
Titolo originale: Les 7 péchés capitaux ou ce mal qui nous tient tête
© Mame-Edifa, Paris 2002

Traduzione italiana di Marisa Patarino, a cura del Centro


Evangelizzazione e Catechesi «Don Bosco» di Leumann
(Torino)

I vizi possono essere catalogati in parallelo alle virtù alle quali


si oppongono, oppure essere collegati ai peccati capitali che l'e-
sperienza cristiana ha distinto, seguendo san Giovanni Cas-
siano e san Gregorio Magno. Sono chiamati capitali perché ge-
nerano altri peccati, altri vizi. Sono la superbia, l'avarizia, l'in-
vidia, l'ira, la lussuria, la golosità, la pigrizia o accidia (Cate-
chismo della Chiesa cattolica, n. 1866).

Internet: www.elledici.org
E-mail: mail@elledici.org

© 2005 Editrice elledici -10096 Leumann (Torino) ISBN 88-


01-03178-5
Ad Anne che, con
forza e dolcezza, mi
ha incitato a scrivere
questo libro.
Introduzione

«Di che cosa ha parlato il parroco durante l'omelia?».


«Del peccato». «E che cosa ha detto?». «Era contrario».
Conversazione tra Gladstone e sua moglie

«Il peccato di questo secolo è la perdita del senso del peccato».


Pio XII, 1946

«Questa perdita va di pari passo con la "perdita del senso di Dio"».


Giovanni Paolo II, 1986

Avete ceduto alla tentazione di aprire questo libro? Non ve ne


pentirete, a meno che...
• ...non vi siate mai serviti per tre volte di una porzione di meringa
ghiacciata al cioccolato fondente;
• o non abbiate mai sentito l'ira esplodere in voi, o non abbiate mai
percepito la fiamma del desiderio torturarvi e indurvi a pensare ai
vantaggi che hanno dal punto di vista della natura altre creature;
• o non abbiate mai provato il morso amaro dell'invidia di fronte al
successo di un collega o alla bellezza di un'amica; o non abbiate
mai desiderato accumulare più denaro, un po' di più, solo un po' di
più; o non abbiate mai preferito una trasmissione televisiva a una
veglia di preghiera.
Se siete in questa lodevole situazione, siamo desolati: queste pagine
non fanno per voi. Ci congratuliamo sinceramente con
voi: siete perfetti, o quasi. Però non gettate via questo libro! Offritelo a
qualcuno, perché non siete egoisti. Offritelo al vostro coniuge, ai figli,
agli amici, ai colleghi, a tutte le creature imperfette che vi circondano.
Soprattutto, offritelo al vostro peggior nemico, perché è a lui che
porterà il beneficio maggiore.

7
Gli autori sono esperti riconosciuti dei peccati capitali. Ne sono
praticanti da lunga data, li hanno esperimentati in lungo e in largo
(alcuni di questi vizi sono anche andati loro per traverso). In questa
sede, il loro obiettivo non consiste nel rivelare la pratica personale di
una battaglia dolorosa (questo a livello commerciale avrebbe dato
garanzie di maggiori profitti), ma nel trarre da questa esperienza
indicazioni e consigli per essere più liberi e più felici.
Questo libro, infatti, è prima di tutto un manuale di liberazione
interiore.
Forse direte: Perché parlarci di peccato? Questa nozione vecchia
come la Genesi non è forse desueta e superata? Forse sta emergendo
un nuovo giansenismo? Sta forse tornando l'«ordine morale»? Non
aumenterete forse un senso di colpa già troppo presente in un mondo
contrassegnato dalla «fatica di essere se stessi»? Non sarebbe meglio
parlare della bontà di Dio, piuttosto che della malizia dell'uomo?
Siamo chiari: gli autori non intendono proporre uno studio storico
di un concetto teologico, né, soprattutto, di «fare della morale»: in
questo caso, comincerebbero a servire se stessi, convinti, come La
Rochefoucauld, che «è più facile dare buoni consigli, che buoni
esempi». L'obiettivo di questo libro consiste nello stanare, con l'aiuto
di grandi maestri spirituali, i falsi dèi che tentano l'uomo fin dalle
Origini, e di cui gli autori stessi hanno provato la seduzione in se
stessi.
I sapienti del tempo antico hanno elencato sette di questi grandi
idoli che il Tentatore agita nel cuore degli esseri umani per illuderli di
trovare così la loro felicità: superbia, gola, lussuria, avarizia, invidia,
ira, accidia. Sette grandi tentazioni, sette vizi principali. Sette malattie
dell'anima che sono state definite «capitali», perché ne generano altre.
Le loro radici sono profonde e nascoste. Sono difficili da diagnosticare;
ma che libertà nel curarle! Questo è il fine che si propongono queste
pagine.
Questo piccolo trattato medico-teologico dei peccati capitali è
nato da una doppia constatazione.
i •) Prima constatazione: noi incontriamo grandi difficoltà a di-
stinguere i nostri vizi. Non li vediamo più, o li vediamo troppo, o
ancora non li vediamo dove non si trovano veramente.
La tentazione più frequente consiste nel minimizzarli, nel sot-
tovalutarne la presenza nella nostra vita. Preferiamo dire a Dio, con
la piccola signora «mistica» raffigurata sul suo inginocchiatoio dal
pittore Sempé: «Come sai, la parola peccato deriva dal latino
peccatum, che molto probabilmente ha dato origine al termine
peccatuccio, che preferirei usare».
D'accordo, vi sono sbagli evidenti. Se abbiamo ucciso, mentito,
rubato, tradito il nostro coniuge (e si arriva perfino a giustificarli: per
esempio, l'adulterio sarà definito «cambiamento di fedeltà»), è
difficile che non ce ne rendiamo conto... Ma rimanere concentrati su
questi peccati è un circolo vizioso. Sono i peccati che si enunciano
durante la confessione, quando ci si accosta ancora a questo
sacramento: sempre gli stessi, triti e ritriti! Sorge lo sconfortante
sentimento di non progredire. Tutto questo, per non parlare dei
peccati assillanti e ripetitivi (spesso i peccati della carne) che
finiscono per occupare tutto l'ambito della coscienza,_al punto da
mettere in ombra e nascondere gli errori più gravi. Si ha
l'impressione di tagliare teste che ricrescono continuamente, senza
arrivare a uccidere l'idra. Di lì ad abbandonare la battaglia e a
disertare il sacramento della riconciliazione, che sembra così poco
efficace, c'è solo un passo, che spesso compiamo.
0 Un peccato può nasconderne un altro. Dietro la schiera dei vizi
consueti, dei peccati abituali, delle piccole «mascalzoncelle», si
nascondono i vizi principali, gli «sponsor»; vizi più interiori, più
sottili, meno visibili. Grosse idre, ben nascoste, che sanno come
proteggersi. Che hanno teste maligne e potenti. In breve: i peccati
capitali. Noi li braccheremo.
® Seconda constatazione: esistono opere eccellenti sul sacramento
della riconciliazione, ma non vi sono libri recenti e pratici sui peccati,
e in particolare sui peccati capitali. È come se fossero riusciti a farsi
dimenticare.
L'obiettivo delle pagine che seguono è essenzialmente concre

9
to: aiutare ognuno a discernere il proprio peccato principale,
quello che, nella maggior parte dei casi, non è quello che crediamo,
per sradicarlo e convertirci. I rimedi proposti mirano a integrare
questa lotta contro il cancro del peccato nella vita quotidiana, e
questo è il modo migliore per vivere la grazia sacramentale del
perdono. Infatti, se il perdono è una grazia, la grazia delle grazie
consiste nel sapere per che cosa siamo perdonati.
A fini pedagogici, abbiamo specificato le citazioni che proponiamo.
Ogni peccato capitale sarà esaminato con modalità simili. Questo
metodo può sembrare scolastico, ma permette di guadagnare in
chiarezza:
• In che cosa consiste questo peccato?
• Perché questo peccato è capitale, cioè quali conseguenze de-
termina e quali altri peccati genera?
• Come si dissimula? Come riconoscerlo?
• Come porvi rimedio, cioè quali sono i mezzi concreti per ab-
bandonare questo vizio dell'anima?

Alla fine di ogni capitolo che illustra un peccato si trova la scheda


di un film abbastanza recente che può avviare in modo piacevole una
riflessione più profonda in famiglia, con gli amici, in parrocchia.
Numerosi riquadri (brani con citazioni di autori) puntualizzano
l'analisi, per aprire piste di riflessione, ed è proposta anche una
«T@ttica del diavolo». Questo esercizio di stile riprende l'idea gustosa
sfruttata dallo scrittore inglese C.S. Lewis nel libro intitolato Le lettere
di Berlicche. In questo testo l'Autore, un umorista cristiano, fa parlare il
Tentatore attraverso lettere inviate a un suo nipote diavoletto sul tema
delle diverse tattiche per accalappiare l'uomo inducendolo a peccare.
Noi abbiamo solo modernizzato l'idea: il diavolo, diventato
Hellmaster,1 naviga in Internet e manda e-mail a un diavoletto suo
nipote, uno studente che segue uno stage (apprendistato) all'inferno
sulle diverse tattiche per pescare l'uomo facendolo peccare.
Alcuni potranno rimanere stupiti perché una realtà così grave,
persino drammatica come il peccato sia trattata con un tono a volte
umoristico. L'umorismo, però, non è ironia; l'ironia ride per demolire,

1 II neologismo Hellmaster (Maestro dell'inferno) è costruito a partire dal termine

Webmaster (Responsabile di un sito Internet).

10
l'umorismo rallegra per costruire. «Nulla è più sciocco che trattare con
serietà argomenti frivoli, ma nulla è più spiritoso che far servire le
frivolezze a fini seri», sosteneva Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio
della Pazzia. Il vero umorismo comincia dove l'orgoglio abdica:
relativizzando ciò che tendiamo troppo ad as- solutizzare, permette di
essere seri senza prendersi (troppo) sul serio.
Infine, lottiamo efficacemente contro il male solo rimanendo vicini
al bene, che è il suo contrario. Possiamo dunque leggere questo piccolo
trattato sui vizi capitali come un testo sulle grandi virtù: umiltà,
mitezza, ecc.
IL___
CAPITOLO JL

Il peccato è capitale?

«Mi comprendi, se ti dico che non ho mai saputo chi sono?


I miei vizi e le mie virtù mi stanno sotto il naso,
ma non riesco a vederli».
Jean-Paul Sartre

«Piango i miei peccati: quelli che ho commesso e quelli che


avrei voluto commettere».
François Mauriac

Il peccato consiste nel considerare come dio qualcosa che non


lo è: il denaro, il potere, il piacere, il sesso... La dottrina sui vizi
capitali designa le sette modalità principali tramite le quali l'uomo si
allontana dalla sua vera felicità.
Questi vizi stregano, ammaliano. Sono sirene che catturano con i
valori che assomigliano di più alla nostra vera felicità, alla
comunione con Dio che sola potrà colmare il nostro cuore assetato
d'infinito. Lo distolgono con efficacia tanto maggiore perché imitano
e traducono in farsa questa felicità. I peccati capitali sono specchietti
per le allodole, seduzioni «per procura».
Questi sette vizi guidano la gara. Trascinano dietro di sé l'orda

11
delle conseguenze negative che ne derivano: pigrizia, maldicenza,
discordia, infedeltà, ambizione, menzogna, crudeltà... L'elenco è
infinito e si snoda lungo tutta la storia dell'umanità. Attraversa la
nostra storia e la profondità del nostro cuore.

Che cosa significa peccare?


Prima di affrontare il tema dei peccati capitali, è «di capitale
importanza» domandarsi: che cosa significa peccare?
Ingannarsi sulla felicità
In ebraico, il verbo «peccare» significa «mancare l'obiettivo»,
«sbagliare bersaglio». Quale bersaglio? La felicità. Peccare significa
ingannarsi sulla vera felicità. Non si tratta di un'infrazione a un codice
divino della strada, ma di una deviazione volontaria di percorso.
L'uomo che tradisce sua moglie traduce volontariamente il termine
«Adulterio» con «Felicità». Per questo, l'apostolo Giovanni può
scrivere: «Se diciamo: "Siamo senza peccato", inganniamo noi stessi, e
la verità di Dio non è in noi» (1 Gv 1,8).
Dunque, «il peccato è la grande malattia che impedisce all'umanità
di trovare la gioia vera, spiega il moralista Jean-Marie Au- bert [...].
Blocca l'individuo su una qualsiasi creatura fatta assurgere ad
assoluto, e in primo luogo la creatura che è egli stesso; la creatura
perde la propria trasparenza; offuscata dal peccato, non lascia più
trasparire Dio, come dovrebbe fare».1
Offendere Dio
Peccare significa ingannarsi sulla vera felicità. Ora, la felicità è Dio
stesso: l'uomo è fatto per l'infinito e solo Dio è il bene infinito. Per
questo, il peccato è un'offesa fatta a Dio.
Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Il peccato è una
mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una tra-
sgressione in ordine all'amore vero, verso Dio e verso il prossimo, a
causa di un perverso attaccamento a certi beni. Esso ferisce la natura
dell'uomo e attenta alla solidarietà umana. E stato definito "una
parola, un atto o un desiderio contrari alla legge eterna"» (n. 1849). Il
seguito precisa: «Il peccato è un'offesa fatta a Dio: "Contro di te,
contro te solo ho peccato. Quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto"
(Sai 51,6). Il peccato si erge contro l'amore di Dio per noi e allontana
da esso i nostri cuori» (n. 1850).
Fare di un bene finito il proprio idolo
«Il ventre è il loro dio», denunciava l'apostolo Paolo duemila anni
fa (Fil 3,19). Oggi potrebbe aggiungere: il sesso è il loro dio; i loro
depositi in banca sono il loro dio; il loro successo professio-

1 Jean-Marie Aubert, Recherche scientifique etfoi chrétieime, Fayard 1966, p. 100.

J
naie è il loro dio; il loro potere è il loro dio, ecc. Alla base di ogni
peccato c'è un'idolatria: noi scegliamo di considerare come dio ciò
che non lo è. Preferiamo la creatura al Creatore.

«È possibile scegliere solo tra Dio e l'idolatria»


«È possibile scegliere solo tra Dio e l'idolatria. Non vi sono altre possibilità.
Infatti, la facoltà di adorazione è in noi ed è orientata in qualche direzione, in
questo mondo o nell'altro. Se si crede in Dio, o adoriamo Dio, oppure adoriamo
cose di questo mondo mascherate sotto questa etichetta. Se neghiamo Dio, o
adoriamo Dio a nostra insaputa, o adoriamo cose di questo mondo che
crediamo di considerare solamente come tali, ma a cui attribuiamo, benché a
nostra insaputa, gli attributi della Divinità». E altrove: «Solo Dio merita che
c'interessiamo totalmente a Lui e a null'altro. Che cosa dobbiamo concludere
relativamente alla miriade di cose interessanti che non parlano di Dio?
Dobbiamo concludere che siano trucchi del demonio? No, no, no. Dobbiamo
concludere che parlano di Dio. Oggi è urgente mostrarlo».
(Simone Weil, Cahier III, in Œuvres, coll. «Quarto», Gallimard 1999, pp. 936 e
924).

I peccati capitali sono i sette idoli dell'anima: gli onori, i piaceri, le


ricchezze... Il superbo fa della propria eccellenza il suo idolo, il
lussurioso sacralizza il proprio piacere sessuale. Un idolo è una
realtà finita che si fa passare per infinita. Ma solo l'infinito può
soddisfare il cuore umano. Charles Baudelaire, grande osservatore
dell'uomo ferito, lo sottolinea acutamente in Les Paradis artificiels (I
Paradisi artificiali): «I vizi dell'uomo, per quanto li si immagini pieni
di orrore, contengono la prova (non foss'altro per la loro infinita
espansione!) del gusto dell'uomo per l'infinito; solo che è un gusto
che spesso sbaglia percorso. E in questa depravazione del senso
dell'infinito che risiede, secondo me, la ragione di tutti gli eccessi
colpevoli».2

2 «Le goût de l'infini», Le poème du haschisch, in Œuvres complètes, coll. «Bibliothèque de


13
Le quattro facce dell'idolo
Il peccato è un'idolatria. La Bibbia ci rivela quattro caratteristiche dell'idolo:
- l'uomo lo fabbrica con le proprie mani;
- è la menzogna di una falsa felicità: si fa passare per Dio, ma non è Dio e
delude sempre i suoi devoti;
- assimila l'idolatra: l'uomo che ha fabbricato l'idolo finisce per somigliargli (per
questo Mosè fa bere ai figli d'Israele acqua mescolata all'oro del vitello che hanno
adorato);
- aliena: spesso determina una dipendenza. «Il peccato è sempre una droga»,
scrive il cardinale Ratzinger.

Crocifiggere Gesù
Da quando Gesù ci ha rivelato chi è Dio suo Padre (cf Gv 1,18), noi
contempliamo in Lui le conseguenze devastanti del peccato: il peccato
crocifigge Dio. Questa rivelazione sarebbe insopportabile e anche
distruttiva, se non fosse preceduta da una rivelazione fondamentale:
la certezza del perdono. Nel suo Memoriale Pascal scrive: «La vita
eterna è riconoscere Te come unico vero Dio e Colui che Tu hai
mandato, Gesù Cristo. Io mi sono allontanato da Lui. L'ho sfuggito,
ho rinunciato a Lui, L'ho crocifisso». L'Autore può affermare: «io L'ho
crocifisso» solo perché ha pronunciato il nome di «Gesù», che in
ebraico significa «Dio salva».

Che cos'è un peccato capitale?


L'espressione generica rimane nota: recentemente, è stata anche
lanciata una serie di «hamburger» chiamati «I peccati capitali». Ma
noi sappiamo che cos'è un peccato capitale?
Molto spesso, lo confondiamo con il peccato mortale (vedere
riquadro). «Capitale» in questa sede non significa «grave». La gola è
uno dei peccati capitali, ma per natura è piuttosto veniale. «Capitale»
deriva da «caput», che in latino significa «testa». Un peccato capitale è
in testa, all'origine di altri peccati. Un vecchio proverbio non dice
forse che «l'ozio è il padre di tutti i vizi»? È un peccato che si
commette per se stesso. L'avaro accumula denaro per accumularlo.
Viceversa, non si mente per mentire, ma per difendersi o permettersi
in risalto. Esistono peccati «figli». Il peccato capitale è «madre»,
originario.

la Pléiade», Gallimard, tomo 1,1975, pp. 402 e 403.


14
Veniale o mortale?
I peccati sono di gravità diversa. Si distingue tra peccato mortale, che porta alla
morte dell'anima, e peccato veniale, che non conduce fino là. Facciamo un
esempio.
Alcuni amici vi invitano a pranzo. Per andare a casa loro, imboccate una strada.
Attirati da un sentiero di campagna, vi fermate, gironzolate... e arrivate in ritardo.
Avete anche la possibilità di scegliere di cambiare strada e non accogliere l'invito:
questo sarebbe molto più grave.
Nel primo caso, l'errore riguarda solo il mezzo, è veniale; nel secondo caso,
l'errore vi porta a mancare il fine; ma il bersaglio (il fine) è Dio stesso, che è la
Vita e dà la vita; perciò questo secondo peccato è definito «mortale». Il peccato
mortale priva l'anima della vita divina, al contrario del peccato veniale.

Perché i peccati capitali sono sette?


II primo elenco dei peccati capitali risale a Evagrio Pontico, un
Padre della Chiesa del IV secolo. I monaci che vivevano nel deserto
d'Egitto ricevevano nei loro eremitaggi molti visitatori, attirati dalla
loro saggezza. Da questa esperienza di accompagnamento spirituale, i
monaci trassero una profonda conoscenza della natura umana e la
convinzione che le tentazioni più gravi si riassumano in sette o otto
grandi «inclinazioni negative dell'anima». Evagrio parlava di «spiriti»
(secondo lui, erano in relazione con demoni specifici); in seguito, fu
loro dato il nome di «peccati principali», e infine quello di «peccati
capitali».
San Tommaso d'Aquino, nel XIII secolo, spiegò in modo più chiaro
e più sistematico il settenario dei peccati capitali come fu tracciato dai
Padri greci e latini all'inizio del Medio Evo.
Il settenario di Tommaso d'Aquino
San Tommaso d'Aquino distinse così i peccati capitali, a seconda che
aspirassero a un bene o che portassero ad allontanarsi da un bene che
consideravano come un male.3
Nella prima prospettiva, i peccati si distinguono a seconda delle grandi seduzioni
che interessano il cuore deH'uomo. Queste corrispondono alle tre «forme di
cupidigia» di cui parla san Giovanni (1 Gv 2,16),4 che costituiscono altrettanti
desideri smodati: la concupiscenza degli occhi (o avarizia), che ha come oggetto
beni esteriori, cioè ricchezze; la concupiscenza della carne, che ha come oggetto
i beni corporali, cioè i piaceri della tavola (gola) e quelli del sesso (lussuria); la
superbia, che ha come oggetto il piacere spirituale della propria eccellenza, in
particolare nel ricercare e apprezzare gli onori. Nella seconda prospettiva, due
tipologie di beni sono considerate come un male da fuggire: l'altro e il Tutto altro.

3 C f S umma Theologiae, Ia-IIae, q. 84, a. 4.


4 Cf Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2514.
15
L'accidia porta a disprezzare il bene spirituale, che è Dio; l'invidia induce a
disprezzare la felicità altrui e può arrivare a volerne la distruzione nell'/ra.

Perché interessarsi ai peccati capitali?


L'analisi dei peccati capitali è importante non solo perché essi ci
dominano, ma perché si nascondono nel profondo della nostra anima.

Ci dominano
I peccati capitali sono all'origine di molti errori; prenderne co-
scienza permette di cogliere i legami tra peccati apparentemente
diversi; combatterli significa tagliare il male alla radice.
Cassiano, un monaco orientale del V secolo, paragona questa lotta
interiore a quella dei gladiatori che affrontano le belve nell'arena:
«Dopo aver considerato quali sono i più notevoli per il loro vigore o i
più terribili quanto a ferocia, iniziano a combattere prima di tutto
contro di essi. Quando li hanno uccisi, abbattono più facilmente gli
altri, che sono meno terribili e meno furiosi».
Un Padre del deserto confidava di aver combattuto per anni contro
la propria ira: «Un giorno me ne sono sbarazzato; quel giorno, con
sorpresa ho potuto vedere quanto gli altri miei difetti si erano ridotti».
Lottare contro il proprio peccato capitale è come disfare una maglia:
l'importante è tirare il filo giusto, il resto segue. Lo stesso Giovanni
Cassiano in una delle sue Conferenze diceva: «È impossibile che un
uomo che si preoccupa di purificare il suo cuore e, a questo fine,
indirizza tutte le risorse della sua anima contro gli assalti di un vizio
qualunque, non li avvolga tutti in un odio comune e non si metta
parallelamente in guardia contro di essi».

Si nascondono
Léon Bloy nella sua opera La Femme pauvre scriveva: «La nostra
incoscienza è così profonda che non sappiamo neppure di essere
idolatri». Chiudiamo gli occhi sulle nostre idolatrie per sei ragioni
essenziali:
- I peccati capitali spesso sono giustificati, scusati o tollerati dal
contesto sociale. Salire sull'autobus senza biglietto significa rubare,
quando lo Stato ci spreme tanto? Immaginare di vivere
un'avventura con la segretaria è veramente un peccato, quando
tanti attori si sposano per la settima volta in pompa magna e
questo sembra a tutti normale? «(Il malvagio) ha di sé una stima
troppo grande per scoprire e odiare il suo peccato», constata la
Bibbia (Sai 35,3).

16
- Certi peccati capitali, come l'invidia o l'accidia, sono molto in-
teriori e meno evidenti di altri.
- Questi peccati sono vizi. Un vizio è un'inclinazione negativa. Ma
un'inclinazione diventa presto un'abitudine. «Noi siamo ciò che
ripetiamo ogni giorno», sosteneva il filosofo greco Aristotele. Lo
constatiamo fin da quando apriamo gli occhi, quando schiacciamo
il pulsante della sveglia imprecando. Il bene come il male, a forza
di ripetizioni, diventano abitudini. E tutto ciò che è abituale
diventa come una seconda natura e si dissimula nel contesto del
quotidiano. Il vanitoso si abitua alla sua vanità, l'invidioso alla sua
invidia, la persona ossessionata dal sesso al suo bisogno di fantasie
erotiche...
- Certi peccati capitali comportano una notevole componente
affettiva, come l'ira o la gola, che è innanzitutto un piacere gu-
stativo. Un sentimento, però, è involontario. Non vi è peccato,
quando si prova il desiderio di concedersi un dolce, né quando ci
si irrita perché un automobilista distratto ha urtato violentemente
la nostra auto nuova. Discernere una responsabilità nella tristezza,
perfino nella depressione, che caratterizza l'accidia, non significa
forse aggiungere ingiustamente al peso della desolazione quello
del senso di colpa?
- I peccati capitali prosperano su un terreno psicologico favorevole:
sono frammisti a ferite o traumi che li predispongono e li
favoriscono.5 Come distinguere la ferita psicologica dal peccato
capitale? Il vizio non si contrappone forse alla ferita fino a lasciarsi
confondere con essa?

«Come sono belle le mie opere!»


Georges è un uomo «di successo» di circa quarantanni. Passa il proprio tempo a
«mettersi in mostra» in società. Due minuti dopo aver incontrato una persona
nuova, le comunica che quest'anno ha curato l'avvio di due aziende, la settimana
scorsa ha incontrato il ministro dei trasporti, e sta per terminare la stesura del suo
quarto libro sul management. Per scherzare un po', un suo cugino ha anche
adattato un inno religioso e l'ha attribuito a lui: «Come sono belle le mie opere!
Come sono grandi le mie opere! Signore, Signore, io ti riempio di gioia!».
È una caricatura? Non più di tanto. Un giorno, qualcuno si è premurato di dire a
Georges, con delicatezza, che monopolizzava un po' troppo le conversazioni a
tavola. La risposta è stata affabile ma tanto condiscendente quanto definitiva:
«Mio caro, nel corso di una cena, una volta mi è capitato di tacere. Bene: tutti
sono rimasti zitti. Se io non parlassi, i nostri pasti sarebbero terribilmente noiosi».

5 Cf PASCALIDE, Les neufportes del'àme. Ennéagrammeet péchés capitaux, Fayard,


1998, cap. 3.
17
Questa incapacità di comprendere quanto ci si rende ridicoli a mettersi
continuamente in mostra tradisce una forma di difesa psicologica. Georges non si
è sempre messo in risalto con un egocentrismo del genere. Di fatto, tutto è
cominciato molto tempo fa. Georges aveva cinque anni, quando la sua mamma
tornò dall'ospedale con un fratellino in braccio. Lui, il fratello maggiore, cessò
subito di essere il centro dell'attenzione dei suoi genitori. Ebbe l'impressione che
il suo papà e la sua mamma si occupassero molto di più del nuovo arrivato. Per
riacquistare l'affetto esclusivo che sentiva di aver perso, Georges si ripromise
allora di fare di tutto per raggiungere costante- mente il primo posto.
La difesa psicologica, però, non spiega tutto. Su di essa va a innestarsi la vanità.
All'inizio, Georges era solo un bambino alla disperata ricerca di tenerezza e che
inconsciamente cercava di attirare l'attenzione ad ogni costo. In seguito, cominciò
a scegliere coscientemente, liberamente, di allontanare gli altri dal suo cammino,
addirittura di schiacciare spietatamente ogni potenziale rivale. Questo stretto
legame tra ferita e peccato spiega perché quest'ultimo per lui sia difficile (ma non
impossibile) da individuare.
Di fatto, Georges ha bisogno, a livello psicologico, del riconoscimento altrui: non
essere al centro, per lui significa non essere da nessuna parte, non esistere.
Percepisce la richiesta di tacere, di rimanere un po' in ombra, come una
negazione del proprio essere. Lo sommergono allora angoscia e collera, che
giustifica subito con una punta di disprezzo.
Ma scusarlo così non significa forse deresponsabilizzarlo? Soprattutto, non
significa condannarlo a non evolvere?

- Infine, questi peccati sono uno degli elementi chiave del com-
battimento spirituale (vedere di seguito); ma questa battaglia
spesso è misconosciuta, perché si nega non solo l'azione del
demonio, ma la sua esistenza; questi, di fatto, ha tutto l'interesse a
lavorare di notte, finché, scoperto, si agita e s'inquieta per
arrogarsi un potere che non ha.

La battaglia contro un «generale d'armata»


«La battaglia spirituale è più difficile della battaglia contro altri uomini», sosteneva
Rimbaud. Questa battaglia spirituale fa parte della vita cristiana, come sottolinea
con forza san Paolo (Ef 6,10ss). Cassano affermava: «Non dobbiamo temere un
avversario esterno: il nemico è dentro di noi, conduce ogni giorno una guerra
intestina
contro di noi».6 Il demonio persegue un obiettivo: la nostra rovina. Il peccato è la via
che ci conduce in quella direzione.
Ciò che è vero per il peccato in generale, lo è ancor più per il peccato capitale. I

6 Istituzioni cenobitiche, V, 21.


18
Padri del deserto collegavano strettamente la lotta contro i vizi capitali alla battaglia
spirituale. Evagrio Pontico definiva questi vizi «idee» (logismoi) e designava un
demonio per ogni vizio, come se le forze del male si fossero specializzare per far
cadere meglio l'uomo! Tutto questo dovrebbe attirare l'attenzione sull'importanza dei
peccati capitali. Perché questa preferenza?
Innanzitutto, perché il peccato capitale è un «generale d'armata»: la persona tentata
corre il serio pericolo di commettere tutti i peccati che quel vizio genera. Con un
impegno minimo, viene promesso un guadagno massimo.
Inoltre, questo peccato sembra abbastanza insignificante: la gola, l'ira sembrano
poco gravi; vengono tollerati dalla persona e dal suo contesto sociale e a volte sono
addirittura incoraggiati dagli astanti: gli iracondi non sono forse considerati persone
di carattere, e i golosi individui che sanno vivere bene? Di fatto, la gravità dipende
più dai peccati a valle che il peccato capitale prepara in segreto: l'ira predispone alla
maldicenza, alla calunnia, persino all'omicidio; la gola predispone alla noncuranza,
all'ingiustizia. Però è molto raro che questi peccati siano commessi senza essere
stati preparati da un peccato capitale...
Del resto, i peccati capitali perseguono fini molto attraenti, che ne dissimulano la
nocività. Chi vorrebbe mentire per mentire? D'altra parte, quanti non si tirano indietro
di fronte alla ricerca esagerata di onori, altrimenti detta vanità? Ma quest'ultima si
basa su compromessi e menzogne.
Inoltre, il demonio ha tutto l'interesse a farci ignorare il nostro peccato e, se lo
conosciamo, a farci disperare del perdono. Infine, i peccati capitali sono quelli che
affondano le radici più forti nell'anima per tre ragioni: sono abituali; s'innestano su
ferite profonde; il loro «radicarsi» spesso risale all'infanzia.
Tutte queste ragioni spingono il demonio a prendere possesso dell'anima invitando
progressivamente a commettere questi peccati «fondamentali».
Come lottare contro il peccato capitale?
Un legalismo ricorrente ha finito per farci credere che il peccato
non sia nient'altro che la trasgressione di un divieto divino, mentre è
prima di tutto una ferita inflitta a Dio, a noi stessi e agli altri.
Poiché ci ferisce, il peccato è come una malattia dell'anima: 7 la
disgrega, l'appesantisce, la porta a ripiegarsi su se stessa. Ma il
paragone ha i suoi limiti: il peccato è volontario, mentre la malattia è
subita; il peccato è un atto, la malattia è uno stato. Per questo, i rimedi
contro ogni peccato capitale, proposti nei capitoli che seguono, fanno
intervenire la libertà e la volontà della persona e richiedono un
desiderio di conversione che deve concretizzarsi attivamente.
E possibile riconoscere quattro tappe nella battaglia contro il
peccato capitale (ognuno dei capitoli che seguono presenterà in

7 Cf PASCAL IDE, «Le péché, maladie de l'âme», in COLL., Le Mystère du mal, Toulouse, Ed. du

Carmel, 2001, pp. 411-430.


19
dettaglio i mezzi specifici):

Riconoscere il proprio peccato


Questa frase non afferma semplicemente che siamo peccatori,
imperfetti, carenti: chi è così folle da ignorarlo? Un'ammissione così
generale non impegna a nulla, non più del genere di espressione di
pentimento universale lanciata a volte da chi intende avviare un
cammino di conversione: «Chiedo perdono a tutte le persone che ho
ferito».

«Il peccato, questa via d'accesso alla grazia»


«Le "persone oneste" non hanno difetti nella loro struttura. Non sono ferite. La
pelle della loro morale, costantemente intatta, costruisce su di loro una corazza
senza difetti. Non presentano l'apertura causata da un'orribile ferita, una sventura
indimenticabile, un rimorso invincibile, un punto di sutura eternamente mal cucito,
un'inquietudine mortale, un'amarezza segreta, un cedimento sempre dissimulato,
una cicatrice eternamente mal rimarginata. Non presentano la via di accesso alla
grazia che è essenzialmente il peccato. Poiché non sono feriti, non sono
vulnerabili. Poiché non mancano di nulla, non si porta loro nulla [...]. La stessa
carità di Dio non cura per nulla chi non ha ferite. Il Samaritano si chinò sull'uomo
ferito perché questo era a terra. Veronica asciugò il volto di Gesù perché era
sporco. Ma chi non è caduto non sarà rialzato; e chi non è sporco non sarà
pulito».
(Charles Péguy, Note conjointe, Œuvres en prose II, coll. «Bibliothèque de la
Pléiade», Gallimard 1957, pp. 1333-1334).

È indispensabile compiere lucidamente su noi stessi un lavoro di


ricerca della verità interiore. Questo ingrato compito comincia
quando cerchiamo sinceramente di prendere coscienza del nostro
peccato e di dargli un nome. Come? Scrutando i nostri desideri
profondi. Infatti, san Tommaso d'Aquino8 afferma che «ogni peccato
si basa su un desiderio naturale». Questo è ancora più vero per i
peccati capitali, perché perseguono i beni più attraenti: l'onore o
l'eccellenza (superbia), il piacere (gola e lussuria), il denaro
(avarizia)... Alcune domande fondamentali: a partire da quale
momento il nostro desiderio diventa smodato? A partire da quale
momento il nostro consenso a questo desiderio diventa peccami-
noso?
Riconoscere e nominare con precisione un peccato capitale
presuppone che ne analizziamo le tre componenti:
- la profondità: un vizio è tanto più profondo quanto più è abituale

8 Q. D. De Malo, q. 8, a. 2.
20
e difficilmente sradicabile. Qual è la sua frequenza? Ci è difficile
resistervi? Ne siamo dipendenti?
- l'estensione: di quali altre mancanze questo peccato capitale è
l'origine nella nostra vita? Quali ambiti della nostra esistenza
riguarda? Quali persone del mio contesto influenza?
- l'antichità: da quanto tempo siamo posseduti da questo vizio?
Quali ferite hanno favorito il suo radicarsi?

Questo inventario è tanto più umiliante e doloroso quanto più è


lucido e coraggioso. E se abbiamo la sconfortante impressione di
collezionare tutti i peccati capitali, niente panico. E normale: i peccati
si fondano su inclinazioni naturali. Tuttavia, è probabile che uno dei
vizi abbia piantato in noi radici più profonde, più estese e più
antiche.

La presa di coscienza
Dopo il riconoscimento lucido, segue un'umile presa di coscienza.
Non si tratta, beninteso, di acconsentire al peccato, ma di prendere
coscienza dell'errore. Si presenta allora il pericolo di rimanere
disgustati. Questa disperazione è una trappola peggiore della cecità.
Accettare l'esistenza di questo vizio significa riconoscere che siamo
abitati da una fragilità spirituale di fondo. Questa miseria, lungi
dall'allontanare Dio, lo attira, purché non ci ripieghiamo su di essa.
Una tentazione frequente consiste nel dire a Cristo: «Tu non puoi più
amarmi, dopo quello che ho fatto, o che faccio da tanti anni». È il
peccato dell'apostolo Giuda, la più terribile delle offese. Dire a Dio:
«Tu non mi ami», è molto peggio che dirgli: «Io non ti amo». Significa
infatti impedire a Dio di essere Dio, lui che sa soltanto amare, lui il cui
essere è tutto amore (cf 1 Gv 4,8.16).

Aprirsi alla misericordia


Il peccato chiude il cuore. Dopo aver peccato, resistiamo alla
tentazione di ripiegarci su noi stessi: apriamoci a Gesù, volgiamo il
nostro cuore verso il suo cuore pieno di misericordia e offriamoci a
lui, così come siamo, nella nostra miseria.
Quando era maestra delle novizie, santa Teresina di Lisieux stava
attenta a evitare che le sue consorelle perdessero tempo a lamentarsi
della loro debolezza e del loro peccato; infatti, lamentarsi significa
gemere su di sé e dunque rinviare il ritorno verso il Padre. Al
contrario, Teresina cercava di affrettare il momento in cui la persona
compisse di nuovo un atto d'amore fiducioso in Gesù. D'altra parte, il
riconoscimento e l'accettazione del peccato non presuppongono forse
21
già uno sguardo su Dio? La coscienza del male implica quella del
Bene, come l'ombra risalta sul fondo di luce. La contemplazione della
Croce di Gesù unisce in modo sorprendente il doppio riconoscimento
del nostro peccato e dell'Amore che perdona, più grande del nostro
cuore.
Sette parole in Croce contro i sette peccati
La meditazione della Passione di Cristo rivela che l'abisso del nostro peccato fa
appello all'abisso della misericordia. Con il suo supplizio, Gesù crocifigge la
carne con tutte le sue «forme di cupidigia» (cf 1 Gv 2,16), i suoi desideri cattivi, i
suoi vizi e le loro mostruosità. Fa di noi creature nuove (cf Gal 6,14-15).
Rimanendo ai piedi del Crocifisso, come san Domenico dipinto in modo geniale
dal Beato Angelico nel convento di san Marco a Firenze, prendiamo acutamente
coscienza del nostro peccato e più ancora della carità che copre la moltitudine
dei nostri errori. Occorre domandare la grazia che santa Benedetta della Croce
(Edith Stein, una giovane filosofa ebrea diventata religiosa carmelitana e morta
assassinata ad Auschwitz il 9 agosto 1942) chiamava «La Scienza della croce».
Tutto ciò che Gesù ha vissuto nel suo corpo e nel suo animo, l'ha vissuto per noi,
per il suo Corpo che è la Chiesa, per me. Domandiamoci, domandiamogli:
«Gesù, perché sul Golgota hai voluto vivere questa esperienza, pronunciare
queste parole per me?».
Infatti Gesù non ha voluto versare una goccia di sangue per me, come Pascal
diceva troppo modestamente, ma tutto il suo sangue. «... mi ha amato e ha dato
se stesso per me», scriveva coraggiosamente san Paolo (Gal 2,20).
La meditazione di alcune delle sette parole di Gesù in Croce, di uno dei misteri
dolorosi o di una stazione della Via Crucis, ci aiuterà, alla fine di ogni capitolo, in
questa offerta.

Prendere una decisione


Contro il peccato capitale, c'è un'unica soluzione: la decisione. E
essenziale incarnare questa offerta del nostro essere peccatore. La
volontà di conversione si esprime con un atto concreto, per quanto
piccolo sia. Ed è bene che prendiamo (almeno) una decisione al
giorno.
I capitoli che seguono proporranno una serie di rimedi per lottare
contro ogni peccato capitale, a cominciare dalla virtù che gli è
contraria e che ne costituisce l'antidoto.

22
La T@ttica del diavolo

www.666Tentazioni.com!

«Mio caro nipote, mi congratulo con te: nell'ambito del tuo


dottorato sulla dannazione, stai acquisendo una specializzazione sul
tema delle tentazioni. Potrai attestare le mie sette invenzioni più belle,
i peccati capitali. Troverai le formule di queste armi segrete sul mio
sito di Enfernet: wvvvv.666Tentazioni.com. Le tue cavie saranno i
lettori di un piccolo libro che mi dà molto fastidio. I suoi autori sono
due tizi con i quali mi sono impegnato e che sono andati a raccontare
tutto a D..., quindi a colui di cui non posso pronunciare il nome senza
bruciarmi la lingua e che d'ora in poi definirò Q.D.D. (Quello Da
Distruggere).
Forti di queste disavventure e della grazia del perdono con cui Egli
li ha aspersi (è troppo facile essere salvati, basta chiederlo!), questi
due furbastri hanno scritto un manualetto, economico, non troppo
complicato da leggere e candidato a diventare un best-eele- ste,
perché rivela alcuni dei miei stratagemmi, mentre negli ultimi anni
ero riuscito a evitare la pubblicazione di opere seriose sull'argomento.
Il peccato faceva anche ridere alcuni cristiani ("è un'invenzione del
parroco", "è sorpassato", "smettetela di colpevolizzare!", si sentiva
dire), ed ecco che, ahimè, se ne parla di nuovo.
Infatti, tu lo sai: il mio inganno migliore consiste nel far credere
che io non esista, o che io esista dove di fatto non sono. Insom- ma,
imbrogliare le carte. Io sono un prestigiatore, e nella manica ho sette
carte vincenti, sette jolly capitali che gioco sul tappeto verde
dell'esistenza umana con una certa abilità. Ed ecco che questi due
cretini rivelano i miei giochi di prestigio! Dannati loro, me la
pagheranno! Nel frattempo, ti auguro molto coraggio, perché questo
complicherà il tuo compito!
Permettimi di prodigarti qualche consiglio tratto da lunghe ore di
ascolto nei confessionali, quelle orribili scatole di contrizione.
L'essenziale, figliolo, consiste nel fare sempre leva sul bisogno di
conforto e di sicurezza presente in ogni creatura. L'uomo prova
ripugnanza per i cambiamenti radicali. La cosa peggiore da temere
sono i discepoli di Q.D.D. che si rimettono sempre in questione. La
23
mia delizia è l'animo abituato; le "persone oneste" che pensano che
tutto va bene nella propria vita, nella loro coppia, con i loro figli, e che
dunque hanno soltanto da vivere con ciò che hanno acquisito. Insinua
in loro la consapevolezza che dai loro vicini non tutto va così bene e
che finalmente hanno un'occasione per uscirsene bene così.
Continuino a soddisfare la loro mediocrità e avrai risolto tutto.
Un'altra regola d'oro: cura gli inizi. E qui che si gioca tutto, o quasi.
Una volta acquisita, un'abitudine difficilmente si cambia. Tanto vale
cominciare prima possibile, fin dall'infanzia. "Mia cara, sei bella come
il sole", ripete la mamma alla sua figlioletta. Tu fa' in modo che quella
mamma non aggiunga mai: "Sai, nella vita capita di essere tristi o in
collera. Noi ti vorremo sempre bene, anche quando ti capiterà di
piangere o di adirarti". La bambina crederà di poter essere amata solo
se sorride. Una volta adulta, farà un punto d'onore di sembrare
sempre in forma e non manifestare mai le sue debolezze.
Gioca anche sulle ferite interiori. Gli squilibri offrono un terreno
ideale per la manipolazione. Le persone arrivano ad accusarsi di ciò
di cui non sono colpevoli e a scusarsi per ciò di cui non sono
peccatori.
Lavora a lungo termine. Non dimenticare l'adagio: "Bisogna
lasciare tempo a Satana". Rimettiti all'opera, 70 volte 7. Possono essere
necessari anni per indurre una persona sposata o consacrata
all'infedeltà. Ricorda che nulla è mai vinto per sempre e che Q.D.D. ha
un'arma fatale contro di noi, che può rovinare i nostri sforzi quando
l'uomo si degna di approfittarne: SOS Misericordia.
Non trascurare i sacerdoti. In Italia, grazie a me, stanno diven-
tando rari, ma ce ne sono ancora di convinti. Non avere paura quando
invitano alla conversione: è il loro mestiere. Solo, ispira loro omelie
molto generiche: o addormentano o colpevolizzano, e questo ci aiuta
molto. Se invece entrano nei dettagli, se illustrano il peccato con
esempi precisi, se propongono mezzi concreti per lottare contro le
tentazioni, allora reagisci. Organizzati per diffondere un po' di
maldicenza. Un parrocchiano, ad esempio, può lamentarsi perché i
casi citati nelle omelie non riguardano tutti; il sacerdote avrà
l'impressione di perdere credito presso il suo pubblico, riceverà meno
incoraggiamenti... e tornerà presto alle sue prediche astratte e indolori
del passato. Allora, dagli di nuovo la sua razione di gratificazioni. Se
per disgrazia quel sacerdote continuasse per la sua strada, induci il
tuo cliente a cambiare parrocchia. E abbastanza facile.
Non sottovalutare mai Q.D.D., anche se quaggiù diamo l'im-
pressione di averlo sconfitto. E veramente scaltro. Approfitta anche
del peccato per salvare i peccatori. Sì, sta' in guardia: il peccato può

24
smascherarci! Sbrigati dunque a fare in modo che il peccatore si
assimili al suo peccato. Dimenticherà che una persona non si riduce
mai ai suoi atti, per quanto siano abominevoli, e si crederà
condannato al male. Hip, hip, hurrà!
Infine, di tanto in tanto, allontanati un po'. Lascialo stare. L'uomo,
meno tentato, meno agitato, immagina di diventare più santo. Si
rilassa. Osserva allora i talloni d'Achille, i punti che si sforza meno di
migliorare: le mezze menzogne, le debolezze, la tiepidezza, ecc.
Attaccherai poi con maggior precisione. Te ne riparlerò.

Addio. Ti insudicio a dovere».

E-mailzebull
Sugli schermi

Il riscatto di Mendoza

Il film Mission di Roland Joffé (Palma d'oro al Festival di Cannes


del 1986) è una tragedia grandiosa che, raccontando la dolorosa
storia dell'evangelizzazione degli Indiani Guarani, illustra il peso
dell'errore e la grazia del perdono, attraverso la magnifica
conversione di un mercenario.
• La storia: nel XVIII secolo, un gesuita, Padre Gabriel (Jeremy
Irons) e molti suoi confratelli fondano una missione ai confini tra il
Paraguay e l'Argentina per sottrarre gli Indios Guarani alla rapacità
degli schiavisti. Uno di questi ultimi, però, il superbo Rodrigo
Mendoza (Robert De Niro), continua con le sue spedizioni
sanguinarie, fino al giorno in cui si ritrova di fronte a Padre Gabriel
in circostanze inattese...
La conversione di Mendoza passa attraverso quattro tappe
successive:

Solo contro Dio


Questo mercenario compie incursioni nel territorio Guarani per
catturare gli Indios da vendere poi come schiavi. Un giorno, di
ritorno da una delle sue spedizioni di caccia, sorprende suo fratello
Felipe fra le braccia della donna da cui credeva di essere amato; sfida
25
allora a duello il fratello e lo uccide.

Solo senza Dio


Reso folle dal rimorso, Mendoza rivolge la sua rabbia distruttiva
contro se stesso. Si isola in un ospedale per malati incurabili e vive
prostrato in una cella. Rifiutando ogni visita, aspetta solo la morte.
Il superiore dei Gesuiti prega uno dei suoi confratelli, Gabriel, di
incontrare Mendoza. Questi entra nella sua cella e rievoca senza giri
di parole la realtà dei fatti:
«Così, lei ha ucciso suo fratello. Ma in duello. Questo non infrange
la legge. Il pentimento consisterebbe in che cosa?».
«Vattene, prete».
«Preferisce che io sia il carnefice che la annienti meglio?».
«Che cosa vuole? Lei sa chi sono io».
«Sì. Un mercenario, un trafficante di schiavi. E ha ucciso suo
fratello...».
Ma padre Gabriel, per completezza e per amore di verità, ag-
giunge:
«...e lei voleva bene a suo fratello. Benché abbia scelto uno strano
modo di dimostrarlo».
Allora Mendoza va fuori dei gangheri. Afferra padre Gabriel,
minaccia di colpirlo. Il religioso affronta serenamente questa
esplosione di violenza: «Rido di lei perché è ridicolo. Vedo un
fuggiasco spaventato come un coniglio. Vedo un omiciattolo».
Mendoza lascia padre Gabriel bruscamente come l'ha afferrato.
«Tutto qui? Intende proseguire in questo modo la sua vita?»,
continua padre Gabriel.
«Non c'è nient'altro».
«C'è la vita».
«Io detesto la vita».
«Ci sono altre vite, Mendoza».
«Non c'è speranza, non c'è riscatto per me».
«Io sono certo del contrario. La sfido».
Erano le parole che potevano toccare un uomo fiero.
«Una sfida?», domanda Mendoza. «E se fallisse?».
Gli sguardi dei due si affrontano di nuovo, ma negli occhi di
Mendoza si legge timore, non più orgogliosa indifferenza. Quel-
l'uomo pentito disperava di trovare un castigo adeguato alla sua
colpa. Padre Gabriel gli propone una simbolica Via Crucis, estenuante
e foriera di salvezza.
Solo di fronte al suo peccato
Immagine successiva: Mendoza accompagna una missione di

26
Gesuiti nel paese Guarani e, per espiare la sua colpa, trascina con
grande fatica un enorme pacco confezionato da lui. Il pacco contiene
alla rinfusa gli orpelli del suo «uomo vecchio»: armatura, spada,
pistole, scudo, ecc. Cose mostruose e informi, a immagine della sua
vita.

I compagni di padre Gabriel sono infastiditi da questo fardello che


ritarda il loro cammino. A un dato momento, uno di loro, padre John
(Liam Neeson), esasperato, con il suo machete taglia la corda che lega
Mendoza al suo fardello. Senza dire nulla, lentamente, Mendoza
recupera il simbolo del suo errore, di cui solo Dio può sciogliere il
nodo. L'impazienza umana non è opera di Dio. Padre John torna alla
carica: «Si è inflitto la sua penitenza abbastanza a lungo. La pensano
così anche gli altri Padri». «Ma lui desidera continuare», replica Padre
Gabriel. «Sta a lui decidere».
Quando i confratelli si mettono a pregare, Mendoza tenta di
seguirli, ma s'inceppa sul Nos dimittimus del Padre Nostro. Non riesce
a dire: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri
debitori».
Per raggiungere il paese degli Indios, la spedizione scala una
scogliera scoscesa adiacente alle monumentali cascate Iguagu. A ogni
passo Mendoza rischia la vita. I suoi piedi nudi scivolano sulla roccia
bagnata, il suo fardello gli fa perdere l'equilibrio. In silenzio, Padre
Gabriel forma una cordata con lui e lo tira.

Grazie ai suoi fratelli, di fronte alla salvezza di Dio


Giungono infine in cima alla scogliera, dove i Guarani aspettano i
Gesuiti. Questi emergono per primi, poi, stravolto, esitante, spunta
Mendoza. Silenzio. Gli Indios riconoscono il carnefice del loro popolo.
L'antico mercenario cade in ginocchio. Un Indio gli si avvicina e alza
il suo machete. Un altro mormora qualche parola all'orecchio di Padre
Gabriel. L'indio Guarani si ferma, abbassa la sua arma... e recide i
legami che trattengono Mendoza al suo peccato. Poi l'Indio spinge in
giù il fardello di morte, che s'inabissa nelle cascate. Allora, lo spietato
antico mercenario si mette a singhiozzare come un bambino. Il suo
cuore finalmente si apre. Un Indio gli tocca la mano.
«Come posso ringraziarli?», domanda Mendoza. «Legga qui», gli
risponde Padre Gabriel porgendogli la Bibbia. Mendoza, pentito, vi
scopre l'inno alla carità di san Paolo (1 Gor 13): «Chi ama tutto scusa»
(v. 7).

È chiaro: Mendoza non può assolvere se stesso dal proprio


peccato. Deve almeno riconoscere la sua colpa: il suo fardello è il
27
peccato che lo aliena e pesa anche sul gruppo. Padre Gabriel rap-
presenta la Chiesa che prosegue l'opera di Cristo, sperando e pre-
gando per il peccatore, intercedendo e rischiando la propria vita per
lui. Infine, l'indio Guarani è l'immagine del Salvatore innocente che
può sciogliere dal peccato perdonando (il contatto è come un gesto
sacramentale di assoluzione). A sua volta, il peccatore pentito
imparerà a vivere d'amore. Alla fine, darà anche la propria vita per i
suoi nuovi amici.

28
CAPITOLO Z.

La superbia, capitano dei


peccati capitali

«L'ostacolo più grande all'amore non è tanto l'egoismo,


quanto piuttosto la superbia».
P. Jacques Marin

«L'umiltà sta alle virtù come il filo sta al rosario: se togliete


l'umiltà, tutte le virtù scompaiono, se togliete il filo, tutti i
grani sfuggono».
Il curato d'Ars

È il re del plotone, il capitano dei peccati capitali. Questo peccato


capitale marcia in testa, spavaldo, ma sa anche dissimularsi tra i sei
compagni che manda a correre: gola, lussuria, avarizia, invidia, ira,
accidia. La superbia non è solo un peccato capitale, è «IL» peccato
capitale, quello tramite il quale giunge ogni altro male. Infatti, alla
base di ogni peccato sonnecchia una segreta preferenza per sé: è la
superbia.
Il superbo soffre di un cancro (volontario) dell'io: un amore
sregolato di se stesso. La parola «superbia» è formata a partire dal
prefisso latino super, che designa «ciò che si trova al di sopra». Il
superbo si crede superiore agli altri. I nomi di questa caratteristica
sono molti, come molti sono i suoi volti: amor proprio, fatuità,
vanagloria, sufficienza, vanità, disprezzo, arroganza...
La superbia è dunque il capostipite, la madre e il padre di mille
altri mali traditori. Le sue metastasi si diffondono ovunque. At-
tenzione: si nasconde in ognuno di noi.
Che cos'è la superbia?
La superbia si presenta sotto due aspetti, a seconda che l'«en- fasi

30
per l'io» sia al termine o all'inizio delle azioni del superbo; in altri
termini, a seconda che il superbo viva per se stesso o da se stesso.

Vivere per se stessi, o egoismo


Nel film di Gérard Oury Tre uomini in fuga, i protagonisti de Funès
e Bourvil sono catturati dai Tedeschi. Bourvil afferma: «Possono farmi
qualsiasi cosa, torturarmi: io non parlerò». «Neppure io», dice de
Funès. «Neanche lei?», replica Bourvil, commosso da tanta solidarietà.
«Sì», spiega de Funès. «A lei potranno fare qualsiasi cosa, potranno
torturarla, ma io non parlerò!». È più seria l'espressione che Swann
pronuncia riferendosi a Odette alla fine dell'opera Un amore di Swann
di Marcel Proust e che rivela l'egoismo per eccellenza: «E dire che ho
sprecato tanti anni della mia vita, e che avrei voluto morire; ho avuto
il mio amore più grande per una donna che non mi piaceva, e che non
era il mio tipo!».
«L'egoista è la persona che non pensa a me», riassumeva Woody
Alien. «Il vero egoista è la persona che pensa solo a sé quando parla
di un altro», diceva Pierre Dac. In occasione di una cena tra amici, uno
dei presenti comincia a sciorinare: «Quest'anno terminerò la tesi di
laurea; l'anno prossimo comincerò a frequentare un master; se avrò
tempo, m'iscriverò anche a un corso d'inglese...». «Io, io, io...», lo
interrompe sua moglie con un sorriso. «E noi che posto abbiamo in
tutto questo?». Un giorno, il drammaturgo inglese Noël Coward
incontrò un suo amico e gli disse: «Non abbiamo il tempo per parlare
di noi. Allora, parliamo di me».
L'egoista non ama gli altri o, se li ama, lo fa per se stesso. Più
ancora, è talmente al centro di se stesso, che Dio viene eliminato. Non
agisce né per la gloria di Dio, né per amore degli altri, ma per la
propria persona. Per questo san Paolo dice che la superbia è stupida
(Col 2,18) e san Giovanni Crisostomo afferma che è una «idropisia
dell'anima».9

9 In Epist. adPhil. 2,Hom. 7,5, PG62,236.

31
Vivere da se stessi o indipendenza
Esiste un'altra forma, più sottile, di superbia: l'indipendenza.
Infatti, è possibile essere generosi, prodigarsi per il prossimo, senza
smettere di essere superbi: certo, si vive per gli altri, persino per Dio,
ma non si smette di vivere per se stessi. In altri termini, ci si considera
l'origine del proprio essere.
Erin Brockovitch, il personaggio realmente esistito e interpretato
da Julia Roberts nel film omonimo, profonde un'ammirevole energia
per far vivere i suoi tre figli e salvare famiglie ingiustamente sfruttate,
ma non ha la forza di atteggiare le labbra a un «grazie» per chi le
rende un servizio. E l'archetipo dell'indipendente che controlla tutto e
non vuol essere controllato da nessuno. Padroneggia la propria
esistenza ed è riluttante ad accettare consigli. Questo modello è
esaltato dalla società contemporanea.
Questa forma di superbia s'insinua ovunque, persino nella bontà e
nella santità. Il curato d'Ars diceva: «Quando pecchiamo di superbia
[...] diciamo al buon Dio che siamo indipendenti da ogni cosa». E
significativo il fatto che «sufficienza» sia sinonimo di superbia: il
superbo è l'individuo che vuole bastare a se stesso. Questo è il peccato
del demonio. Il demonio non è megalomane, sa bene di non essere
Dio. La sua superbia (e la sua disperazione) sta nel non aspettarsi
nulla da Dio. E tutto il suo lavoro consiste nel costruire l'uomo a sua
immagine.

È veramente un peccato?
È però così evidente che l'egoismo e l'indipendenza, queste due
facce della superbia, siano peccati?
Innanzitutto, l'amore per se stessi non è negativo. Al contrario. L'io
non è detestabile. Anche odiare se stessi è una forma di superbia.
L'autostima è una qualità indispensabile per vivere. 10 E necessario
saper dire «io» prima di poter dire «tu»: l'ordine della coniugazione è
anche quello dell'etica. Cristo ci chiede di amare il nostro prossimo
come noi stessi (cf Mt 22,39). Diventare adulti significa affermare se
stessi, avere i propri gusti, le proprie opinioni, pensare da sé, decidere
da sé. Quante persone ritengono di essere schiacciate dagli altri
(coniuge, superiori, ecc.), mentre sono innanzitutto prive di un

10 Cf PASCAL IDE, «Faut-il s'aimer soi-méme?», Famillechrétienne, n. 1175,20 luglio 2000.


minimo di autostima, che permetterebbe loro di rifiutare di essere
calpestate. È necessario smettere di confondere l'umiltà con la
piccineria o con la modestia. Sempé presenta un uomo che una notte
parla così a Dio: «Cerco altrove,... ma non troppo lontano da qui». 11
Monsignor Guy Gaucher, che ha studiato in profondità la vita e il
pensiero di Santa Teresina di Lisieux, ama sottolineare: «Molte
persone immaginano che la "piccola via" dell'infanzia di santa
Teresina significhi: io ho un piccolo appartamento, una piccola
automobile, una piccola vita. Non è così!».
D'altra parte, l'indipendenza è un elemento di maturità. Tan- guy,
il film di Etienne Chatilliez, ha presentato il ritratto di uno di questi
«adulescenti» (secondo il neologismo forgiato da Tony Anatrella) che
prosperano nella società occidentale attuale: questi giovani adulti-
adolescenti restano in casa, tirando in lungo o moltiplicando
all'infinito i loro studi, perché non osano affrontare il mondo, gli altri,
il conflitto, il rischio dell'insuccesso.
Tuttavia, la Bibbia non è tenera con i superbi. Il Signore «disperde
i superbi» (Le 1,51) e abbassa chi s'innalza (Mt 23,12). L'Antico
Testamento, come il Nuovo, ripete che «il Signore si prende gioco dei
superbi, agli umili concede il suo aiuto» (Prv 3,34; Gc 4,6; 1 Pt 5,5).
Cassiano constata che questa resistenza da parte di Dio nei confronti
dei superbi non esiste per gli altri tipi di peccati: «Che grande male è
dunque la superbia, per meritare di avere come avversario non un
angelo, né altre virtù contrarie, ma Dio stesso?». Infatti, spiega questo
maestro spirituale, «La superbia attacca Dio in persona».12
Come si può dunque distinguere il peccato di superbia dal giusto
amore di sé o da una legittima indipendenza?

L'egoismo
L'umorista Pierre Desproges diceva: «Io adoravo Brassens. Lui e io
avevamo un punto in comune: a lui piaceva molto quello che
10 facevo. Anche a me». L'egoista fa dell'amore di sé l'obiettivo delle
sue giornate. Dimentica che l'autostima legittima e necessaria ha come
obiettivo il servizio degli altri. Il concilio Vaticano II sostiene che
«l'uomo [...] può trovare pienamente se stesso solo attraverso il dono

11 SEMPÉ,Quelques mystiques, Éd. Denoél, 1998, pp. 10 e 11.


12 Istituzioni cenobitiche, XII, 7.

33
sincero di sé»13.
Fate una prova: a che cosa pensate appena vi svegliate al mattino?
A voi stessi soltanto, o ai vostri amici, a quelli che si sono affidati alla
vostra preghiera e che vivono l'esperienza di una prova o di una
malattia, al vostro coniuge, ai vostri figli, a Dio?

L'indipendente
L'indipendente crede di essere libero quando si distacca da ciò che
lo circonda; la persona autonoma, invece (definiamo autonomia la
legittima indipendenza), sa che diventa più libera nutrendosi di tutti i
rapporti interpersonali che le si offrono. In fondo, l'indipendente
decide di affermarsi opponendosi, mentre l'autonomo sceglie di
offrirsi, sempre rimanendo se stesso.
Fate un'altra prova: quando una persona si offre di aiutarvi
gratuitamente, la vostra prima reazione è la gratitudine, o invece
11 sospetto, o addirittura il rifiuto?

Perché la superbia è un peccato capitale?


La Bibbia afferma che «l'inizio di ogni peccato è la superbia».14 La
legge di Dio viene trasgredita perché le viene preferita la propria
legge. La superbia è non solo il primo peccato, il peccato primordiale,
ma è all'origine dei peccati capitali, che a loro volta sono all'origine di
ogni peccato.
La comparsa dei vizi è governata da una sorta di logica a cascata.
Arpagone, l'avaro, ha fatto del suo tesoro il centro della propria vita;
don Giovanni, il lussurioso, ha fatto del desiderio di sedurre, il centro
della propria esistenza; C. S. Lewis sostiene: «Si riesce facilmente a
fare di un uomo un goloso solleticando la sua vanità. Occorre fargli
credere che è un fine esperto di cucina».15 Ogni volta, chi commette
un peccato capitale pone se stesso al centro del mondo; in altri
termini, la persona soffre di superbia.

13 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 24, § 4. In altri

termini, l'indipendenza trova compimento nell'interdipendenza (cf PASCAL IDE, Mieux se


connaître pour mieux s'aimer, Fayard, 1998, pp. 94-103).
14 Sir 10,13. Si tratta della traduzione latina della Vulgata, preparata da San Girolamo
nel IV secolo e letta da tanti Padri e Dottori della Chiesa.
15 Letteredi Berlicche, Mondadori, 1957, cap. XVII. Cf, oltre, la T@ttica del diavolo.

34
Come si dissimula la superbia?
Nelle sue Riflessioni morali, La Rochefoucauld scrive: «L'acce-
camento degli uomini è l'effetto più pericoloso della loro superbia:
serve ad alimentarla e a incrementarla, e ci impedisce di conoscere i
rimedi che potrebbero sollevarci dalle nostre miserie e guarirci dai
nostri difetti». La superbia è un serpente che si insinua sotto le
migliori intenzioni del mondo. E difficile da individuare per tre
ragioni.
Innanzitutto, la superbia si maschera. L'amor proprio s'insinua
sotto apparenze sottili, come ad esempio il perfezionismo. Sa anche
dissimularsi sotto gli orpelli di un'apparente umiltà. «Si fa assurgere a
virtù (per compensare la propria inerzia o la vuota frenesia), la
sensazione di essere poco degni, il disprezzo di se stessi, in sintesi,
un'umiltà che inganna, ma che spesso cela un colossale narcisismo»,
denunciava il Dr Berge ne Les maladies de la vertu.
In un monastero buddista, un discepolo domanda al suo maestro:
«Che cos'è la vanità?». Il maestro risponde con tono sprezzante: «Che
domanda idiota!». Il discepolo rimane ferito e furioso. Il suo viso
s'imporpora. «Mio caro amico, la vanità è questa!», risponde il
maestro.

Falsa vera santa, o vera falsa santa?


Santa Teresa d'Avila rievoca nei suoi scritti una donna di cui ammirava sotto tutti
gli aspetti la pietà, la benevolenza, l'assenza di maldicenza e la pace interiore. In
sintesi, sembrava una vera santa! Questo, fino al giorno in cui frequentò più da
vicino questa persona e scoprì che viveva sotto il proprio sguardo, più che sotto
lo sguardo di Dio. «Comprendo che, benché sopportasse tutto ciò che le veniva
detto, era molto sensibile all'onore, e non avrebbe mai acconsentito a perdere per
propria colpa un minimo del suo onore o della sua reputazione [...]. Parlava così
bene di tutto ciò che faceva da eliminarne il peccato; dal modo in cui giustificava
certe cose, l'avrei giustificata anch'io, se fossi stata chiamata a giudicarla [...].
Quando vidi che le persecuzioni che enumerava dovevano essere motivate un po'
dalla sua responsabilità, non invidiai assolutamente i suoi modi e la sua santità;
ma questa persona, che, con altre due, era santa ai miei occhi, mi ha ispirato,
quando l'ho conosciuta, più timore di tutte le vere peccatrici che ho incontrato».
(Santa Teresa d'Avila, Pensieri sull'amore di Dio, cap. 2, n. 23-24).

In secondo luogo, il superbo si giustifica. È il caso della musoneria,

35
una tra le forme meno conosciute di superbia. «Che in una sera mi
interrompa per tre volte davanti ai nostri figli è troppo!», esclama
Nicole, esasperata da suo marito. «Per tutto il fine settimana non gli
parlerò più». Il giorno dopo, domenica, suo marito le offre il suo più
bel sorriso. Nicole sta per rispondere con gentilezza, quando si
riprende: «Ah, no, dimenticavo: sono arrabbiata con lui!». La prova
che la musoneria è una forma di superbia sta nel fatto che occorre
molta umiltà per avvicinarsi di nuovo all'altro. Tornare indietro
presuppone di ammettere il proprio torto a se stessi e agli altri;
almeno il torto di essersi chiusi. Ecco perché è molto più «economico»
e conveniente non tenere il muso...
Infine, la superbia è spesso strettamente intrecciata a ferite psi-
cologiche, in particolare al senso di abbandono, che forse sono state
provocate da separazioni durante la prima infanzia; queste ferite
determinano un forte bisogno di riconoscimento e di attenzione
esclusiva.

«Non volevo dipendere da nessuno»


«Ho impiegato molto tempo a comprendere che il mio spirito di indipendenza era
una forma di superbia», spiega Julie, 38 anni, dirigente, madre di due figli. «La
mia educazione mi ha insegnato a costruirmi da sola. Un padre assente, una
madre poco affettuosa mi hanno portata alla convinzione che dovevo battermi
senza aspettarmi nulla dagli altri. Ho avviato la mia azienda a 23 anni. Davo di
me l'immagine di una persona battagliera e ne ero fiera. Suscitavo ammirazione,
ma incutevo timore; per questo mi sono sposata tardi. Comunque, sono riuscita a
essere abbastanza innamorata per mettermi questa palla al piede! Un giorno, mio
marito mi ha detto: «Cara, è sorprendente: non mi domandi mai nulla. Sei attenta
a me, pronta a rendermi servizi e te ne ringrazio, ma ho l'impressione che tu non
abbia bisogno di me».
Queste parole mi hanno indotta a riflettere molto. Ne ho parlato con un amico
sacerdote. Ho preso coscienza che la mia educazione spiegava molte cose, ma
non tutto. Infatti, molto presto era subentrata una forma di superbia che copriva
tutta la mia vita come un rapace: non volevo dipendere da nessuno! Da allora,
ho cominciato a domandare qualcosa, un poco, a mio marito ogni giorno. Mi
costa moltissimo!».

36
Come riconoscere la superbia?
Oltre ai segni di egoismo e d'indipendenza già menzionati, se-
guono alcuni indizi supplementari:

Avere sempre ragione


...O non riconoscere mai di avere torto (una variante frequente
nella coppia: accusare sistematicamente l'altro). Nello stesso ordine
d'idee: non sopportare la critica. O sopportare solo le osservazioni
positive; e se sono più acide, accettare solo le osservazioni espresse
per benevolenza. In fondo, significa sempre ascoltare ciò che si
vuole...

Un rammarico a geometria variabile


Avete un'esplosione d'ira durante una cena o siete indelicati
durante una festa di famiglia? Non è tanto il vostro sbaglio che vi
rincresce, quanto il fatto di aver «perso la faccia» o intaccato la vostra
immagine. In generale, ogni virtù che cresce in proporzione al
numero di sguardi è un fungo che spunta sulla superbia.

Il «name-dropping»
Questo procedimento consiste nel far passare come evidente il
fatto di frequentare persone del bel mondo. «Sai, l'ambasciatore della
Francia in Norvegia, com'è affascinante». «Come lo sai?». «Oh, scusa,
non te l'avevo detto? Ho cenato a casa sua ieri sera».
Mettersi in mostra
Durante le riprese del film La contessa scalza, Ava Gardner ebbe
una love-story con il torero Luis Miguel Dominguin. La prima sera,
nella camera in cui s'incontrarono, il torero si alzò, si vestì e scavalcò
la finestra. «Dove vai?», gli domandò la bella attrice. «A raccontarlo ai
miei amici!», rispose ingenuamente il matador.

Il superbo «ideale»
Il saggio Cassiano riassume diversi tratti del superbo in questo ritratto «ideale»:
«il nostro tono di voce alto, il nostro silenzio amaro, le nostre risa clamorose e
smodate, le nostre tristezze irragionevoli e pesanti, le nostre risposte acide, le
nostre conversazioni leggere [...]; impazienti, senza carità, offensivi nei confronti
degli altri, ma pusillanimi verso quelli che subiamo; disobbedienti, salvo quando
abbiamo già prevenuto con i nostri desideri quello che ci viene domandato; duri

37
quando occorre ricevere un consiglio; deboli quando occorre mortificare la
propria volontà; inflessibili quando si tratta di assoggettarci alla volontà degli altri;
sempre cercando di imporre le nostre opinioni e rifiutando di accondiscendere a
quelle degli altri. Così accade che non possiamo più ricevere consigli salutari, e
accordiamo sempre maggior fiducia al nostro giudizio piuttosto che a quello dei
nostri anziani».
(Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche, XII, 29, 2-3).

Come rimediare?
Oltre alla pratica dell'umiltà, i rimedi sono di tre tipi: la lotta
contro l'egoismo, la lotta contro lo spirito d'indipendenza, e la giusta
autostima.

Praticare l'umiltà
La superbia viene contrastata dal suo contrario: l'umiltà. Una virtù
si acquisisce con piccoli atti, ma i piccoli atti di umiltà non sono i più
facili da compiere...
Concretamente, si può decidere di accettare un'umiliazione al
giorno: la più sicura è quella che non si sceglie, quella che la vita
propone. Questa accettazione non sarà solo esteriore (non reagi

38
re, non difendersi, non giustificarsi), ma interiore (acconsentire,
constatando la parte di verità contenuta in ogni parola umiliante,
anche ingiusta).

L'umiltà umiliata
«Parlare di umiltà non è facile, in particolare oggi», sottolinea Don André Louf,
per trentanni abate dell'abbazia cistercense di Mont- des-Cats. Tutti i nostri
grandi «maestri del sospetto», o quasi, hanno voluto mettere in discussione
l'umiltà. Secondo Nietzsche, l'umiltà è la grande menzogna dei deboli che
trasformano con tanta astuzia la loro fiacchezza in apparente virtù. Secondo
Freud, è una variante masochistica del complesso di colpa. Per Adler, è vicina al
senso d'inferiorità. Le interpretazioni di questi studiosi hanno lasciato tracce nella
nostra cultura moderna. Come scegliere l'ultimo posto secondo il Vangelo, in una
società affascinata dai successi dei giovani lupi o dei golden boys? Tuttavia, già
Ruysbroek lo anticipava: «Essere immersi nell'umiltà significa essere immersi in
Dio, perché nel fondo dell'abisso c'è Dio... L'umiltà ottiene cose troppo alte per
essere insegnate; raggiunge e possiede ciò che la parola non raggiunge».
(André Louf, L'humilité, Parole et Silence, 2002, pp. 9 e 10).

Quali che siano i nostri sforzi, l'umiltà è una virtù più che umana:
trova origine in Cristo. Tutta la vita di Gesù testimonia la sua umiltà
e l'umiltà di Dio. Gesù dà l'esempio abbassandosi (Fil 2,6-11) e
facendosi servo. San Clemente papa afferma: «Il Signore Gesù Cristo
non è venuto con un atteggiamento di superbia e di sontuosa
apparenza, pur potendolo fare, ma nell'umiltà».16

Lasciava trasparire l'insoddisfazione


Florence Delay, che subentrò a Jean Guitton all'Académie Française, il 14
dicembre 2000, in occasione del suo discorso inaugurale raccontò questo
aneddoto:
Quando nell'ottobre 1917 venne a Parigi per compiere i suoi studi superiori, Jean
Guitton andò ad abitare in rue de Vaugirard 104, presso i Padri Maristi. Là
incontrò un umile sacerdote, padre Plaze- net. Il 1° gennaio dell'anno
successivo, il sacerdote disse a Guitton: «Prenda il cappello e i guanti: andiamo
a fare le nostre visite d'ob- bligo e di cortesia ai grandi di questo mondo.
Innanzitutto andremo a trovare il maresciallo Foch. Non ci riceverà, ne sono
assolutamente certo. Sarà una prima umiliazione molto utile. Poi andremo alla

16 Lettera ni Corinzi, 16,2.

39
nunziatura; Monsignor Ceretti non si troverà nella sala dove noi saremo ricevuti:
sarà delizioso. Infine, saliremo le scale dell'abitazione di Paul Bourget. Questi ci
respingerà con un sorriso amaro: torneremo a casa raggianti, sarà la gioia
perfetta». Florence Delay concluse: «E accadde proprio questo. [...] Di ritorno da
questi affronti, padre Plaze- net lasciava trasparire la sua soddisfazione».
Masochismo? No, eroismo, se è associato a un vero senso dell'umorismo...
(La Documentation Catholique, n. 2261, 6 gennaio 2002, p. 37).

Uscire dall'egoismo
Impariamo a donare in segreto, senza che nessuno lo sappia (Mt
6,1-4). Anche qui, è preziosa la decisione quotidiana. Se tendiamo a
essere più generosi quando passeggiamo con i nostri amici, decidiamo
di donare altrettanto e con la stessa frequenza quando siamo soli.
Soprattutto, non accontentiamoci mai di dare solo una parte dei
nostri beni: offriamo qualcosa di noi, un sorriso, uno sguardo, una
presenza. Doniamo noi stessi: offriamo il nostro tempo, la nostra
competenza, il nostro cuore; impegniamoci, accettiamo di legarci (nei
due significati del termine...).

Coltivare la discrezione
«Amico mio, non facciamoci notare», raccomandava il curato
d'Ars. Quanti uomini diventano insopportabili durante le cene,
quando ci sono delle belle donne? Nel III secolo, un monaco del
deserto domandò al suo padre spirituale: «Come dobbiamo com-
portarci nel luogo in cui ci troviamo?». Il saggio rispose: «Abbi la
discrezione di un estraneo, rispetto per gli anziani e, ovunque tu sia,
non cercare mai di imporre il tuo punto di vista. Così vivrai in pace».
In un libro suH'umorismo, il giornalista Alain Woodrow cita
questo aforisma: «Dio disse al suo Amico: "Vuoi conoscere il segreto
dell'umiltà? Domandalo a Satana". L'uomo fu dunque condotto a
incontrare il diavolo e a domandargli del suo segreto. Satana gli
rispose: "Mio caro, ricorda solo questo: se non desideri diventare me,
evita di dire io"».

Accettare le proprie emozioni


Il superbo tiene più che a ogni altra cosa a conservare il proprio
autocontrollo. Si barrica per nascondere quelli che considera segni di
debolezza, prima di tutto i moti del cuore. Poiché controlla tutto e
non vuol essere controllato da nulla, l'indipendente deve
innanzitutto imparare... a dipendere da se stesso, a cominciare dalle
emozioni e dagli stati d'animo.
Nella sua biografia su madre Yvonne-Aimée de Malestroit, padre
René Laurentin cita questo aneddoto: «Una suora aveva perso la
mamma, ma non lasciava trasparire il suo dolore; s'impediva di
piangere. Madre Yvonne-Aimée mi disse: "Non approvo suor X.
Preferirei vederla piangere come una bambina la sua cara mamma
[...]. È stoica, sì, ma non è umana, non è umile. Il Signore ha pianto
per Lazzaro, era suo amico... Il pianto non dà dolore al Signore,
quando si tratta di vere lacrime di dolore, di gioia, d'amore, di
pentimento, ecc. È umano, e il Signore le divinizza tutte"».17

Vedere tutte le cose come opera delle mani diDio


Papa Pio X domandò di sospendere le ovazioni in suo onore nella
basilica di san Pietro, spiegando: «Non si applaude un domestico
nella casa del suo padrone».
L'umiltà non consiste nel nascondere i talenti ricevuti, non sta nel
dire: «Signore, io non sono altro che fango sotto la tua divina suola».
Ma come rimanere umili pur riconoscendo i doni ricevuti?
Riferendoli ogni momento alla loro fonte, tramite la lode. Maria
non cede alla superbia di portare dentro di sé il Salvatore del mondo
perché vive quello che canta: il Magnificat (Le 1,49-56). Maria è
consapevole del dono che ha in sé («D'ora in poi, tutte le generazioni
mi chiameranno beata»), pur riconoscendo che proviene da Dio («Il
mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore»),
La negazione di sé (la modestia-denigrazione) è contraria al-
l'umiltà, e dunque alla verità. Non si tratta di scegliere tra essere tutto
e non essere nulla, ma di avere sempre più coscienza che «tutto ciò
che abbiamo di buono e di perfetto viene dall'alto e discende dal
Padre della luce» (Gc 1,17). Saint-Exupéry scrive: «L'umiltà non è
sottomissione agli uomini, ma a Dio [...]. Quando servi, servi la
creazione. La madre è umile di fronte al bambino e il giardiniere lo è
di fronte alla rosa».18 San Bonaventura diceva che Francesco d'Assisi
vedeva in ogni istante il cosmo uscire dalle mani di Dio: «Sapeva
scoprire, amare e lodare il Creatore in ogni oggetto [...]. A forza di

17RENÉ LAURENTIN, Yvonne-Aimée de Malestroit Maître de vie spirituelle, O.E.I.L., 1990, p. 173.
18 Citadelle, Gallimard, 1951, p. 397.

41
risalire all'origine primigenia di tutte le cose, giunse a chiamare
fratello e sorella anche le creature più umili, poiché tutte erano uscite
dallo stesso e unico principio».19
Lo stesso accade per i nostri talenti. L'umile non è il modesto che
nega anche le qualità più evidenti, ma colui che non se ne attribuisce
mai il merito: «chi ama non si gonfia di orgoglio», dice san Paolo (1
Cor 13,4); non è escluso che l'uomo possa vantarsi, ma «chi vuol
vantarsi si vanti per quel che ha fatto il Signore» (1 Cor 1,31).
L'apostolo Paolo si loda per una o per l'altra qualità, perché Dio ne è
tanto l'origine quanto il destinatario (2 Cor 10,8). L'umiltà consiste in
questo: accogliere se stessi come un dono del Padre in tutto.
Concretamente: quando ci viene rivolto un complimento, sap-
piamo ringraziare (contro la falsa modestia), ma senza dilungarci,
senza coglierlo con diletto (contro la superbia). Si dice che Padre Pio
attribuisse la stessa importanza ai complimenti e alle critiche.

«Che cosa possiedi che tu non abbia ricevuto?»


«"Che cosa ti fa pensare di essere superiore a un altro? Se hai qualche cosa,
non è forse Dio che te l'ha data? E se è Dio che te l'ha data, perché te ne vanti
come se fossi stato tu a conquistarla? " (1 Cor

19 Legenda minor, 3, 6.
1

4,7). Tu non conosci Dio per merito della tua giustizia, ma Dio si è donato a te
per pura benevolenza [...]. Non raggiungi Dio con le tue forze, ma è Cristo che,
con la sua venuta, è sceso a prenderti [...]. Ti vanterai di aver ricevuto degli onori,
e la misericordia che ti è stata riservata diventerà una fonte di superbia? Conosci
te stesso, sappi chi sei, come Adamo che si nasconde nel paradiso terrestre,
come Saul abbandonato dallo spirito di Dio, come il popolo di Israele tagliato
dalle sue sante radici: "...ti sei messo al loro posto perché hai la fede. Tu per
questo non diventare superbo, ma piuttosto temi di perderti..." (Rm 11,20)».
(San Basilio di Cesarea, Omelia sull'umiltà).

Riconoscere i doni ricevuti dagli altri


Uscire dalla sufficienza significa saper riconoscere ciò che si deve
a un altro, diventargli grati. Un rabbino diceva: «Citare le proprie
origini significa far procedere il regno di Dio». La persona
indipendente è chiamata a entrare dolcemente nella dipendenza
tramite la lode, cioè la riconoscenza (nel duplice significato del
termine) per tutto ciò che riceve. Il grande musicista Olivier Mes-
siaen aveva un animo francescano e testimoniava incessantemente il
suo debito nei confronti dei suoi maestri: Maurice Emmanuel, Marcel
Dupré, Paul Dukas. «Se vuole farmi piacere», disse a un giornalista
del periodico L'Intransigeant che era andato a intervistarlo
nell'ottobre 1931, «parli soprattutto bene di Marcel Dupré.
Io devo tutto a lui».

Non denigrarsi
Lo abbiamo visto: l'umiltà è un giusto mezzo tra la superbia e la
modestia. La superbia è la preoccupazione smodata per la propria
perfezione, la modestia ne è il disprezzo. «A voler scendere troppo»,
scriveva Bernanos, «si rischia di passare la misura. Ma nell'umiltà,
come in ogni cosa, l'eccesso genera la superbia, e questa superbia è
mille volte più sottile e più pericolosa di quella del mondo, che nella
maggior parte dei casi è solo vanagloria». 20 Un giorno, mentre
predicava, san Bernardo sentì crescere in lui quel
lo che ritenne fosse un moto di vanagloria. Si apprestò a scendere
dalla cattedra, quando lo Spirito Santo gli ordinò: «Resta qui». Si
trattava di scrupolo, non di superbia.

20 GEORGES BERNANOS, Dialoghi delle Carmelitane, II, 1.

43
San Leone Magno papa amava ripetere: «Cristiano, riconosci la tua
dignità». Lo si può fare con umorismo. Papa Giovanni XXIII un
giorno si recò a visitare l'ospedale romano del Santo Spirito. Una
religiosa, tutta commossa, lo accolse dicendo: «Santità, sono la
superiora dello Spirito Santo». Il papa rispose: «Congratulazioni! Io
sono solo il Vicario di Cristo!».

Coniugare autostima e senso dell'altro


Piccolo test rapido per scoprire la superbia: siete in vacanza con alcuni amici e si
deve organizzare la giornata. Che cosa dite?
• «Andiamo a visitare il castello di Tartempion. Vedrete, è affascinante!»
• «Farò quello che volete voi; per me va bene tutto»
• «Mi piacerebbe visitare il castello di Tartempion, ma mi adatterò alla decisione
che prenderete».
Nel primo caso, lampeggia il semaforo rosso «superbia-egoismo»; quello che voi
non dite, è che avete una voglia matta di visitare il castello e cercate motivi per
far prevalere il vostro punto di vista, sperando di ottenere l'adesione al vostro
progetto; in sintesi, non tenete conto dei gusti degli altri.
Nel secondo caso, il vostro desiderio conciliante nasce da una falsa umiltà, che
di fatto è una mancanza di stima e di affermazione di sé. Avete paura di
affrontare il gruppo, non osate esprimere il vostro desiderio che consisterebbe,
ad esempio, nel rimanere tranquilli. Di fatto, accordate a voi stessi il diritto di
desiderare?
Solo il terzo atteggiamento è umile: esprimete sinceramente il vostro desiderio,
però sempre cercando il bene di tutti.

Meditare sulla croce


«Padre, nelle tue mani affido la mia vita» (Le 23,46). Sono le ultime
parole di Gesù sulla croce; dunque, le ultime parole della sua vita
terrena. Si ricollegano alle prime parole riportate dal Vangelo: «Non
sapevate che io devo fare la volontà del Padre mio?» (Le 2,49). Una
frase ci ricorda che Dio è l'origine di tutto, l'altra che è il fine di tutto.
La superbia rifiuta tutto questo.
Meditare su Gesù Crocifisso significa contemplarlo come donato
agli altri (Gv 13,1) e abbandonato tra le mani del Padre. Questa
contemplazione insegna ad abbandonare la doppia logica del-
l'egoismo e dell'indipendenza. Inginocchiarsi ai piedi della croce

44
significa imparare da Gesù l'umiltà: ricevere tutto dal Padre e ri-
condurre tutto a Lui.
La corona di spine (il terzo mistero doloroso del Rosario) sim-
boleggia la mortificazione della superbia. Nella meditazione tra-
dizionale della Via Crucis, rappresentando Gesù che cade per tre
volte, la pietà popolare mostra che il Signore si assume umilmente la
nostra vulnerabilità; Cristo non ha paura di perdere la faccia di fronte
agli uomini, perché, con la sua umiltà, ci guarisce dalla superbia e
vanità.

In conclusione
Jean Nohain racconta che un produttore infatuato di sé continuava
a ripetere: «Sono tanto più felice del mio successo perché sono partito
dal nulla». Seccato da questa boria, uno dei presenti una volta
mormorò: «Probabilmente ha preso un biglietto di andata e ritorno!».
L'umiltà richiama quello che Pierre Dac diceva riferendosi alla
«vera modestia»: «consiste nel non considerarsi mai né meno né più
di quanto si ritiene di valere, né meno né più di quanto si vuol essere
considerati». Riuscite a seguire?
Un giusto umorismo non può forse offrire una via di guarigione al
superbo? C. S. Lewis nelle sue Lettere di Berlicche riporta questa frase
di san Tommaso Moro: «Il Diavolo, [...], lo Spirito di Superbia, [...]
non sopporta di essere deriso». L'umorismo comincia come umiltà e
termina come amore. Grazie all'umiltà, il superbo (e chi non lo è?)
impara che lui esiste non attraverso sé, ma attraverso gli altri; grazie
all'amore, impara che esiste non per sé, ma per gli altri. William
Thackeray non affermava forse che «l'umorismo è nato dal
matrimonio tra lo spirito e l'amore»?

45
La T@ttica del diavolo

Bella superbia, amore mio!

«La superbia, mio caro nipote, è la mia specialità, il mio peccato


gustoso, la mia ricetta preferita. L'ho provata una volta sulla prima
coppia, in un bel giardino, all'inizio di questa sporca storia, dopo
essere stato definitivamente radiato, e ha funzionato così bene che
Q.D.D. ha dovuto mandare suo Figlio a riparare tutto quanto.
Alcuni prevedono la nostra sconfitta finale. Nell'attesa, chiudiamo
tutto a doppia mandata. In questo momento, tutto fila liscio come
l'olio. Guarda, per esempio, come si considerano "dèi" per le
manipolazioni genetiche che compiono! Non c'è più bisogno del
Creatore. L'uomo vuole crearsi a propria immagine e somiglianza,
che clone!
Tra i cristiani, il compito è più difficile. Sono premuniti. Allora,
bisogna confondere le tracce. Questo richiede malizia. Per esempio,
suggerire ad alcuni che sono i custodi esclusivi della Verità, i soli
depositari della Tradizione. E si considerano più cattolici del papa e
chiudono il loro cuore alla pietà filiale che io aborro.
Uno dei nostri colpi migliori è consistito nell'introdurre, in questi
ultimi secoli, la confusione tra umiltà e modestia e, analogamente, tra
la superbia (che è un peccato) e la ricerca della propria personalità
(che è una virtù). Quest'ultima si chiama magnanimità ed è stata
quasi completamente dimenticata, uff! Come indica l'etimologia, la
magnanimità è la virtù della "grandezza d'animo": spinge la persona a
compiere grandi cose, ispirata dalla propria vocazione. Puah!
L'Occidente ha la mucca pazza, la Chiesa ha il suo bue saggio. Era
soprannominato così il teologo del XIII secolo Tommaso d'A- quino. Il
"bue muto", per l'esattezza. Lo chiamavano così perché ruminava le
cose prime di parlare. Lo incrocerai spesso, purtroppo, questo
guastafeste, con la sua Stimma teologica. Non ho potuto fare nulla
contro di lui, che metteva la testa nel tabernacolo per ricevere le

46
ispirazioni di Q.D.D.! Tommaso d'Aquino sottolinea a ragione che
l'uomo prova il desiderio naturale di raggiungere la propria pienezza;
il peccato consiste solo nell'eccesso di questo desiderio di eccellenza.
È su questo punto che noi dobbiamo giocare con abilità.
Se vuoi guadagnare i gradi di diavolo capo, mio caro nipote, devi
diventare un manipolatore dell'ego. Primo, bisogna cominciare subito.
"L'essenziale nella vita è affermarti", dirà per esempio un papà a suo
figlio. Lui a scuola era stato superato dai suoi fratelli e dai suoi
compagni: ora può prendersi una buona rivincita mediante suo figlio.
Secondo, fa' in modo che l'educazione susciti l'orgoglio. Se i genitori ne
parlano, fa' che aggiungano formule di questo genere: "La superbia
muore un quarto d'ora dopo la nostra morte", o: "In ogni caso, tutti
sono superbi". Questi motti sciocchi e scoraggianti fanno cascare le
braccia. La superbia è come la menzogna o i manifesti erotici: si
finisce per adattarsi. Bisogna pur vivere, no?
Non inquietarti troppo quando senti qualcuno accusarsi in
confessione di essere superbo. La confessione di queste persone
spesso rimane così generica che non è imbarazzante; entrare nei
dettagli è troppo umiliante. Fa' solo in modo che il sacerdote non
chieda loro un esempio, per prodigare un consiglio concreto che
permetterebbe di progredire su un caso specifico.
Un'arma efficace consiste anche nello snaturare questa dannata (se
posso dire così) umiltà. Fa' in modo che circolino nelle famiglie
cristiane vite di santi come quella di Alessio. Si racconta di lui che,
dopo un lungo esilio, tornò a casa dei suoi genitori, i quali non lo
riconobbero. Per anni, visse sotto le scale della sua casa e fu
identificato solo dopo la sua morte. È abbastanza sovrumano tanto da
diventare inumano. Queste agiografie scoraggianti mi hanno fatto
avvicinare molti ex nemici.
Diffida invece come dell'acqua santa della piccola di Lisieux. È una
mia nemica personale. È concreta, racconta minutamente tutte le sue
battaglie contro la superbia, e lo fa per obbedienza alla sua superiora.
Mostra che non è nata santa. Inoltre, ha scritto la cosa peggiore contro
di noi: un'opera che ha per titolo II Trionfo dell'umiltà. Ho cercato di
distruggerla (di fatto, una parte del manoscritto è alterata, n.d.r), ma
quello che è rimasto continua a farci torto. Ho anche cercato di
soffocare la Carmelitana sotto i petali di fiori, di spegnere la sua
fiamma nell'acqua di rose... mi sono bruciato le ali! L'umiltà la rende

47
inattaccabile.
Comincio a capire perché Q.D.D. ha una passione per le pastorelle
e le contadine: queste ragazze non sono prese in considerazione, tutti
le lasciano fare, e questi cuori umili salvano il mondo sotto il nostro
naso!

Allora, sorveglia bene tali ragazze, mio caro nipote!».

E-Mailzebull
Sugli schermi

Viaggio agli estremi della superbia

Il film americano «L'uomo che sussurrava ai cavalli» di Robert


Redford (1998), tratto dal best seller di Robert Evans The Horse
Whisperer, racconta l'itinerario di una donna radicata in un atteg-
giamento superbo, che si apre a un'umiltà liberatoria per lei e per le
persone che vivono accanto a lei.
• La storia: Grace (Scarlett Johansson), una ragazza di 14 anni, è
uscita da un grave incidente, che è costato la vita alla sua migliore
amica e ha provocato danni molto gravi al suo cavallo, Pil- grim.
Profondamente traumatizzata, l'adolescente si chiude in se stessa,
rinunciando a battersi contro la sua chiusura nella tristezza. Sua
madre, Annie MacLean (Kristin Scott Thomas), caporedattrice di una
rivista newyorchese, rifiuta di darsi per vinta. Determinata a salvare
Grace e Pilgrim, i cui destini sono intimamente legati, si butta alla
ricerca di un domatore di cavalli del Montana, Tom Booker (Robert
Redford), che può guarire l'animale...

Il colmo della superbia


Annie MacLean (la madre) ha tutte le caratteristiche della per-
fezionista. Il suo sguardo è sempre attento, in agguato su quello che
deve fare e su quello che gli altri devono compiere. Non arriva mai
un sorriso a distendere il suo volto liscio, non ancora increspato

48
nemmeno da una ruga.
È esigente con se stessa come con gli altri («Per te siamo tanti
dipendenti», le rinfaccia sua figlia). Controlla tanto i suoi collabo-
ratori quanto i componenti della sua famiglia, cioè suo marito Robert
(Sam Neill) e la sua unica figlia Grace. Solo quest'ultima, però, osa
reagire: «Tu sai sempre tutto», le dice; «Io non ho una risposta a
tutto», dice una volta la madre Annie. «No, è solo un atteggiamento
che assumi», replica la figlia; «Non voglio essere la ragazzina
modello della madre modello». E Grace aggiunge, con pungente
lucidità: «Ho pregato Dio perché abbiate un altro figlio, per non
dover essere in tutto eccezionale».
Annie regna sul suo tempo come sul suo telefono. Infine, controlla
ogni sentimento e non tollera nulla che non sia conforme ai suoi
comandi. Disprezza chi non ha la sua stessa vigilanza. Questo
controllo assoluto ha come contropartita una perenne incapacità di
accordare fiducia a qualcuno: al capezzale di sua figlia, verificherà
persino le trasfusioni.
Sarebbe ingiusto sottolineare solo gli aspetti negativi della sua
personalità. La superbia come volontà di perfezione s'inserisce anche
nella continuità di un desiderio naturale di fare bene. Robert, suo
marito, avrebbe avuto tanta energia per combattere così per la
guarigione della figlia? Annie ha deciso: il cuore di sua figlia deve
cicatrizzarsi e guarire, come la gamba. Tuttavia, nella sua superbia,
Annie ignora che la felicità è lì a portata di mano. Oscilla co-
stantemente tra la tensione del dovere da compiere e la speranza
delusa. Fare bene non è sempre sinonimo di fare del bene.
Il vuoto della perdita
Il grave incidente a cavallo di Grace fa andare in frantumi la
fragile protezione di questa donna che «fa le domande e dà le ri-
sposte».
Innanzitutto, le sfugge il controllo degli altri: perla prima volta,
sua figlia le resiste. Ma il suo incidente (che è una trasgressione) non è
già un atto mancato, una sorta di fuga?
Annie deve anche perdere il controllo del tempo. Alla domanda:
«Per quanto ne avrà con il cavallo?», Booker risponde: «Dipende
dallo stesso Pilgrim». Il whisperer ha tempo, perché prende tempo.
L'ambientazione riesce a non dare alcun punto di riferimento
cronologico. Quanto tempo durano il viaggio o il soggiorno nella

49
fattoria? Lo spettatore non può rispondere a questa domanda: anche
lui deve rinunciare al suo desiderio di controllare il tempo. Con molta
astuzia, il regista ci fa così partecipare al processo di ricostruzione:
grande appassionato della natura e della lentezza dei suoi ritmi, sa
quanto i cittadini sono abituati a contare tutto, a cominciare dalle ore.

50
Soprattutto, Annie deve abbandonare l'onnipotenza su se stessa.
Quando s'innamora di Tom, nella sua vita fino ad allora controllata
entra il turbamento. Si può deplorare l'adulterio (solo abbozzato nel
film, mentre nel romanzo avviene concretamente), ma il sentimento
d'amore è drammaticamente importante: solo la sua potenza
irresistibile spossessa la giovane donna da questo controllo
intransigente su se stessa, e travolge la sua dittatura interiore.
L'ammirevole regia di Robert Redford mostra tre volti successivi
di Annie: il viso freddo della superba perfezionista, tirannica verso se
stessa quanto verso gli altri; il volto scomposto della persona che
perde il controllo della situazione; il viso illuminato della giovane
donna, tornata alla sua origine e che si lascia invadere dall'amore.
Un doppio aiuto
Tom, l'allevatore di cavalli, farà qualcosa di più che guarire Grace;
farà rinascere la madre a se stessa. La capacità di ques'uo- mo di
accogliere ciò che gli accade senza cercare di comprendere e di
controllare tutto, mostra ad Annie che c'è un altro modo di condurre
la propria vita. Quando Annie pone a Tom la domanda che la
tormenta costantemente («Ho fatto bene a venire qui?»), il cowboy
risponde con un'esattezza e un'umiltà che lasciano interdetti: «Non lo
so». Dopo, ma solo dopo, aggiungerà: «E stata coraggiosa a venire
qui». Tuttavia, in mancanza di modelli senza difetti, avendo infine
provato la propria fragilità, Annie rischia di idealizzare quest'uomo
seducente. L'osservazione della cognata di Tom, Diane Booker (Diane
Wiest), è molto opportuna: «Ha un gran dono; ma è solo un uomo».
Il superbo cerca di controllare i ritmi altrui, mentre l'umile si
mette alla sequela dell'altro. Tom ammansisce l'animale lasciandolo
arrivare da lui, rispettando i suoi ritmi. La guarigione del cavallo
avvenuta grazie a quest'uomo dolce e rispettoso della natura insegna
ad Annie l'atteggiamento da tenere verso il trauma della figlia, ma
anche nei confronti di se stessa. Mormorare o sussurrare significa
innanzitutto tacere per sentir palpitare la vita nell'altro, poi
accompagnarlo nei suoi primi balbettìi.
D'altro canto, Annie è il personaggio che ha più colpito Robert
Redford, come ha confermato lo stesso attore-regista in un'intervista
concessa al Figaro (3/9/1998): «...perché è lei a compiere il viaggio
più lungo, non solo verso un mondo diverso dal suo, ma dentro se

51
stessa».
L'evoluzione di Annie determina effetti positivi sulla sua coppia
quando essa attraversa una grave crisi. Di primo acchito, suo marito
Robert sembra piuttosto arrendevole e conciliante. Troppo? Annie lo
accusa implicitamente di essere molle e incapace. Prende le redini in
mano e lui crede di agire al meglio lasciandola fare. Si radica una
complementarità perversa che scava un fossato, perché ognuno
affonda nei suoi difetti. Annie finisce per disprezzare il marito per la
sua debolezza e la sua mancanza d'incisività. Non possono più
comunicare. Tutto questo fino al momento finale del ritorno, nella
fattoria di Tom, dove Robert trae beneficio dalla trasformazione di
sua moglie e le permette di manifestare la propria bontà di cuore:
«Ho sempre creduto di essere più innamorato di te di quanto tu lo
fossi di me». I due coniugi comunicano a una profondità nuova e
rinnovano la loro scelta di stare insieme.
Conclusione
Nel libro best-seller di Robert Evans, l'eroe muore tra le mon-
tagne, da cow-boy solitario. Il film non termina come il romanzo.
Perché? Robert Redford ha spiegato: «Volevo una conclusione più
forte, e mi sembrava che sarebbe stato più duro se il protagonista
fosse costretto a compiere scelte che esigessero sacrifici e fosse ob-
bligato a vivere con quei sacrifici».21 Perché il regista parla di «una
conclusione più forte»? La soluzione facile sarebbe consistita nel far
morire il cowboy Tom. Così Annie non avrebbe dovuto scegliere;
più ancora, avrebbe idealizzato quell'amore che una fatalità spietata
le aveva tolto. Invece, la presenza di Tom la invita a decidere e a
decidere di essere fedele nel grigiore del quotidiano senza l'ebbrezza
di una nuova grande passione, il che è doppiamente difficile. Ma
amore e amor proprio sono inversamente proporzionali: la scelta di
questa scuola di umiltà è dunque una promessa di amore vero tra
Annie e Robert.

21 Intervista contenuta in Première, Settembre 1998, p. 53.


53
CAPITOLO O

La gola, la regina del palazzo

«È meglio ingannarsi sull'infinito, che rifiutare l’infinito».


P. Marie-Dominique Molinié

«Gesù, Maria! lo che amo tanto i tartufi!... Garrigou, dammi in


fretta un po' del mio preferito... E poi, con i tacchini che altro
hai ancora visto in cucina?...». Alphonse Daudet, Les trois messes basses
I, Lettres de mon moulin.

La gola, un brutto vizio? Andiamo, cosa sarà mai una torta alla
crema? Non è il caso di attribuire tanta importanza a questo difetto.
Comunque, ...l'argomento è delicato come la crema bruciacchiata.
Camminiamo sulle uova. Provate ad affermare, nel corso di una cena,
che la gola è un peccato, o peggio, un peccato capitale che alimenta in
sé tanti altri diavoletti, e voi seccherete tutti!
Avrete un bel citare Ezechiele: «Ecco, questa fu l'iniquità di tua
sorella Sodoma: ...l'ingordigia». Sarete delusi: «Vuole scherzare? Dio
non ha inventato le papille gustative perché evitiamo di servircene!»,
sussurrerà una spilungona bionda mentre sta per assaporare, con la
bocca tinta di rosso, qualche fragola alla panna. Se c'è un male in
quest'ambito, riguarda più la medicina che la morale.
«Il peccato, signore caro, sta nel non gustare le delizie della
creazione e le meraviglie della gastronomia», osserverà un uomo
corpulento, con le labbra lustre.
«D'altra parte, Gesù, che è stato accusato di essere "un mangione e
un beone" (Mt 11,19), ha compiuto il suo primo miracolo a Cana, dove
il vino scorreva a fiumi (Gv 2,1-12) e che prefigura il regno eterno...
che viene paragonato a un banchetto di nozze!», approverà un
ecclesiastico subdolo, con il clergyman color caviale.
La gola è un «vizio mignon», come il filetto omonimo. Un peccato
infantile che si evoca con indulgenza e tenerezza. L'infanzia, questo
paese in cui il peccato non esisteva ancora... Gli occhi brillano; si
sussurra scusandolo: «È goloso!». In certi ambiti, «golosità» è
sinonimo di «dessert». Oggi questo è considerato un segno di civiltà,
di finezza. E se il termine «golosità» fosse usato per aggiungere al
piacere del palato quello della trasgressione? Il peccato si è veramente
sciolto come crema al sole?

Che cos'è la gola?


La gola è veramente un «mostro»? Non c'è ben di peggio fra le
passioni distruttive? «La Bruyère, quando prende di mira i golosi, è
meno caustico di quanto lo sia con i presuntuosi, gli avari o i liberi
pensatori».22
Tuttavia... se la superbia ha trascinato l'umanità nella caduta, la
gola l'accompagna: «...i frutti (dell'albero) erano certo buoni da
mangiare» (Gn 3,6). L'uomo cede al tentatore e si allontana dal suo
Creatore. Conserva in sé l'Immagine divina e questa sete d'infinito che
può essere soddisfatta solo da Dio. Cerca, invano (e nel vino) la sua
felicità nei cibi della terra.
Come vederci chiaro? Perché oggi stentiamo a considerare la gola
un peccato? Il fatto è che un giansenismo che cerca sempre di
riemergere ci fa credere che il piacere sia malvagio o pericoloso per
natura. Siamo arrivati a identificare la gola con i piaceri della tavola.
Ma il peccato non è il piacere; lo è il piacere sregolato. San Tommaso
d'Aquino definisce la gola come «il desiderio disordinato di
nutrirsi».23 Che disordine? Uno specialista di patate ammuffite che
non può essere accusato di lassismo, il curato d'Ars, risponde: «Forse
che quando apprezziamo qualcosa di buono pecchiamo di gola? No.
Siamo golosi quando assumiamo cibo in eccesso, più di quanto ne
occorra per sostenere il nostro corpo». 24
La prova sta nel fatto che si può peccare per difetto. Non nutrirsi a
sufficienza (per somigliare a Kate Moss, la musa di Calvin Klein, per
esempio), non saper fare onore a un piatto, o ingoiare il pasto in pochi

22 SÉBASTIENLAPAQUE, Les sept péchés capitata. 7. Gounnandise, Librio, 2000, prefazione.


23 Summa theologiae, Ila-IIae, q. 148, a. 1.
24 JEAN-MARIE VIANNEY, Pensées, DDB, 1981, p. 155.
minuti, sono altrettanti errori contro il buon uso del cibo e le gioie
della convivialità. Come ogni virtù morale, la sobrietà, che regola il
nostro rapporto con il cibo, si tiene in un giusto mezzo. All'eccesso
della gola si oppone quella che gli Antichi definivano insensibilità.
Come si può peccare per difetto di umiltà (quella che è stata definita
modestia), è possibile peccare per eccesso di sobrietà.

Quali sono le diverse specie di gola?


La gola è una comoda «matrioska» che nasconde tante bambo- line
sotto le sue simpatiche rotondità.

Le forme di gola materiali


Ovviamente, siamo golosi quando oltrepassiamo la misura: cinque
porzioni di cinghiale, mentre tre bastano a soddisfare il nostro
appetito. Ma non dobbiamo circoscrivere questo peccato ai soli aspetti
quantitativi. È possibile essere golosi anche relativamente alla qualità,
quando si cerca di consumare solo piatti squisiti; relativamente al
tempo, quando si supera il tempo della legittima soddisfazione delle
papille gustative; relativamente al modo di mangiare, quando ci si
nutre senza preoccuparsi né della convenienza, né dell'educazione, si
pecca non tenendo in considerazione l'altro, servendosi per primi,
cominciando a mangiare senza aspettare gli altri, scegliendo la parte
migliore, inghiottendo con avidità...25

La gola spirituale
È possibile essere golosi di tutto, anche di consolazioni divine. San
Giovanni della Croce, a proposito delle persone che indulgono a
questo vizio «nella vita spirituale», afferma che «cercano più la loro
soddisfazione che la purezza della grazia e della discrezio

25 San Gregorio Magno distingue non quattro, ma cinque specie di gola (cf Mo- ralia,
XXX, 60, PL 76,556D-557A).

56
ne»; questo vale anche per quelli che «si ammazzano di penitenza».
Questa tendenza si riscontra spesso tra i nuovi convertiti. Un goloso
non indulge più ai piaceri della tavola, ma cerca smodata- mente le
consolazioni della Sacra Mensa. Cerca le delizie spirituali per se
stesse, preferisce la consolazione al Consolatore, la sensazione di
benessere nella preghiera, più che l'esercizio sereno di quest'ultima.
Ma questa cupidigia affettiva fa concentrare la persona su se
stessa. Il segno? Se Dio toglie la sua presenza sensibile senza togliere
la sua presenza spirituale che non ha nulla di percepibile, l'anima è
tutta disorientata. Se il nostro cammino spirituale fosse pieno di rose,
diceva padre d'Elbée nel suo libro Croire à l'amour, che cosa ci
garantirebbe che andiamo verso Dio per lui stesso e non per le rose?
San Giovanni della Croce propone un altro criterio: i golosi accettano
tutte le mortificazioni a eccezione di una, l'obbedienza, di cui
«scansano il giogo [...], preferiscono le loro mortificazioni alla
discrezione e all'obbedienza, che è la penitenza della ragione». 26

In che cosa la gola è un peccato capitale?


Chi non ha mai peccato di gola scagli la prima «birra»! Tuttavia,
la gola è una bocca aperta per altri demoni, come illustra con
umorismo Sempé. In uno dei suoi famosi disegni, tratteggia una
signora, in una chiesa, inginocchiata durante la Messa, che prega
così: «Signore, due settimane fa ho commesso, come sai, un peccato
d'ira, perché, dopo un Ite missa est un po' lungo, in pasticceria non ho
più trovato i bignè al caffè di cui i miei nipoti vanno matti; ricordi
che ho acquistato al loro posto pasticcini che hanno permesso a mio
marito di fare battute che mi hanno provocato l'ira di cui mi sono
resa colpevole.
Per evitare incidenti di questo genere, domenica scorsa prima di
venire a Messa sono passata in pasticceria, per prenotare l'ordine in
anticipo. La giovane commessa l'ha dimenticato, e ho commesso per
due volte un peccato d'ira. Una volta verso di lei e una volta verso mio
marito. Per evitare questo ho fatto acquisti in pasticceria prima e mi
hai vista entrare nel tuo luogo santo con un pacchetto di dolciumi.
Capisco che questo ti ha irritato e poiché, per punirmi, hai voluto
che subito dopo il Deo gratias io mi sedessi sul pacchetto; io ti

26 San Giovanni della Croce, La notte oscura, L. 1, c. 6, n. 1 e 2.


ringrazio, Signore».
S'intravede il pacchetto posato sulla sua sedia... schiacciato, e le
due vicine che ridono sotto i baffi.
Facciamo un rapido calcolo: gola, primo episodio d'ira, secondo
episodio d'ira, ecc. Un peccato capitale è un peccato che ne origina
altri. Certamente, la gola è un vizio che ci tenta e ne genera altri.
Entriamo nei dettagli.

Innanzitutto la gola ci rende pesanti, in senso proprio e figurato.


Provoca un inebetimento dell'intelligenza, un indebolimento della
capacità di cogliere le verità spirituali. 27 «Badate bene! Non lasciatevi
appesantire da orge e ubriachezze!», mette in guardia il Signore (Le
21,34). Sant'Ambrogio paragona «quelli che strisciano sul ventre», cioè
i serpenti, a «quelli che vivono per il ventre e la gola, che hanno come
dio il loro ventre».28
Inoltre, la gola riduce la libertà. Cassiano affermava: «Innanzitutto,
sottomettendo la nostra carne, dobbiamo provare che siamo liberi».29 E
si riferiva alla Bibbia: «...ognuno è schiavo di ciò che
lo ha vinto» (2 Pt 2,19). Quando di pomeriggio tornate a casa e co-
minciate a sgranocchiare dolci, mentre fuori non mangiate mai,
domandatevi: «Chi è padrone a casa mia? La mia gola o la mia li-
bertà?». Quando era invitato a un pranzo ufficiale, Monsignor Eugenio
Pacelli, il futuro papa Pio XII, sapeva fare onore a ogni piatto e
insieme rimanere sobrio fino alla fine del pasto, tanto che si alzava
agevolmente, mentre certi religiosi provavano una pesantezza che non
era solo frutto della virtù della pazienza.
Inoltre, la gola fa il paio con la lussuria, come l'oralità fa rima con
genitalità. L'eccesso comincia a tavola e finisce a letto. L'incapacità di
padroneggiare i piaceri della tavola conduce agli eccessi sessuali: «La
gola è madre della lussuria», dice Evagrio Pontico. 30
Infine, la gola (nell'ambito del solido come del liquido) predispone
a certi «atteggiamenti esteriori»: la tendenza a chiacchierare, a
moltiplicare le parole inutili (la maldicenza e la calunnia sono in
agguato); un'esuberanza, una mancanza di padronanza nei gesti che

27 Cf SAN TOMMASO D'AQUINO, Sitmma Theologiae, Ila-IIae, q. 15, a.3.


28 SANT'AMBROGIO DI MILANO, De paradiso, 15, PL14,132A.
29 Istituzioni cenobitiche, V, 13.
30 Sui pensieri. Cf SAN GIOVANNI CLIMACO, Scala Santa, 26; SAN MASSIMO IL CONFESSORE, Centurie

sulla carità, III, 56, PG 90,1033 BC.

58
può arrivare fino alla buffoneria; una trascuratezza e negligenza fisica
che influenza la dignità e ferisce l'educazione.

Come si dissimula la gola?


Ma la gola è facile da diagnosticare? No, per due ragioni fon-
damentali:

Ragioni sociologiche
La società non aiuta a essere temperanti. Le pubblicità sono al-
lettanti, le ricette che si trovano nelle riviste sono appetitose, gli
scaffali tentano, le esposizioni dei grandi magazzini sono guarnite di
dolcetti che si adocchiano facendo la coda, i reparti traboccano di
vivande e l'Italia rigurgita di prodotti tipici regionali che chiedono
solo di essere gustati, assaporati, apprezzati. Come osare definire
peccato tale «arte di vivere»?

«G» come gaudente


Il gaudente offre un profilo psicologico particolare, che si colloca a metà strada tra
la gola fisica e quella spirituale. Dichiarazione sincera di un edonista
intemperante: «Non sopporto il minimo dispiacere, evito i fastidi facendo
"zapping" tra le persone e gli avvenimenti. Quando si prospetta un incontro
noioso, un lavoro ripetitivo, penso immediatamente al prossimo bel momento, al
piacere che si preannuncia: il film di questa sera, una cena simpatica, ecc. Rara-
mente vivo nel momento presente. Pratico il "surf" sulle emozioni gradevoli».
Spesso, questo tipo di profilo psicologico s'instaura abbastanza presto, come un
meccanismo di compensazione e di consolazione. In partenza involontario, può
diventare un peccato quando vi si mescola la volontà: quando la persona sceglie il
piacere in tutte le cose, e la sua parola d'ordine è: «Fuggiamo il dispiacere!
Sempre più soddisfazione, sempre meno costrizione». Il peccato del gaudente
assume allora molteplici forme: fuga dalle responsabilità, rifiuto d'impegnarsi,
inaffidabilità, negligenza nel compiere un lavoro, mancanza alla parola data,
instabilità, ecc.

Ragioni psicologiche
La psicologia aiuta a cogliere le ragioni nascoste delle nostre
frenesie papillari. L'alimento è la nostra prima esperienza di piacere.
Intorno ai piaceri orali si riprendono tutte le soddisfazioni della prima
infanzia. Non è forse attraverso l'esperienza della «maddalena»

59
inzuppata nel tè che comincia il grande romanzo di Marcel Proust Alla
ricerca del tempo perduto, un tempo di felicità nascosta ma rimasta
intatta nei meandri della memoria?
La felicità, ma anche tutte le frustrazioni. La minima privazione di
cibo risveglia mancanze profonde di consolazione. Certe ferite
provocate dall'abbandono sono compensate dal piacere culinario.
Offrendo il seno, la mamma non dà solo latte, ma affetto: nutre sia
l'anima che il corpo. Le difficoltà a privarsi del cibo che si
sperimentano in occasione dei digiuni volontari hanno spiegazioni
psicologiche e non solo morali. Per questo, un certo numero di
disfunzioni della sfera del mangiare e del bere riguardano più le ferite
dell'anima che il peccato. Queste ferite scusano, almeno in parte,
l'intemperanza. In questa sede, non è il caso di parlare dell'alcolismo
(vedere qui sotto) o di anoressia e bulimia, patologie gravi e
complesse.

L'alcolismo è un peccato?
In Pallottole su Broadway di Woody Alien, David e Helen arrivano in un bar. Helen
ordina: «Due martini». «Come, conosce i miei gusti?», si stupisce David. «Ah, ne
vuole anche lei?», replica la giovane donna senza scomporsi. Se questo scambio
di battute può far sorridere, l'alcolismo non fa ridere. In Italia, l'alcolismo è la
causa di morte di migliaia di persone all'anno e distrugge migliaia di famiglie.
Spesso si beve per sentirsi meglio, per attenuare un dolore, placare un'angoscia,
fuggire da se stessi, abbandonare le proprie inibizioni, a volte fino a perdere il
controllo.
San Paolo ha un'affermazione terribile: «...nel regno di Dio non entreranno... gli
ubriaconi...» (1 Cor 6,10; cf Rm 1 3,13). Perché una severità del genere, mentre
altri passi biblici celebrano il vino che «rallegra il cuore dell'uomo»? Il fatto è che il
peccato di ebbrezza (assunzione smodata di bevande alcoliche) è una rinuncia
volontaria a ciò che costituisce la nostra dignità di persone: l'uso della ragione e
la libera padronanza di noi stessi.
La persona alcolista è dunque votata alla gogna? No. L'espressione di san Paolo
riguarda il peccato di ebbrezza, non la malattia dell'alcolismo. Chi ne soffre è
dipendente, dunque alienato: non può fare a meno dell'alcool, altrimenti
soffrirebbe una carenza intollerabile. Se la patologia lo scusa, d'altro canto il suo
errore può consistere nel:
- rifiutare di ammettere la propria malattia. Qui è in gioco la superbia;
- rifiutare di curarsi, ad esempio partecipando regolarmente alle riunioni di un

60
gruppo di Alcolisti Anonimi;
- rifiutare di farsi seguire regolarmente, ad esempio non sottoponendosi a esami
medici. Questo atteggiamento spesso è dovuto alla paura di conoscere la verità,
ma può anche essere una questione di viltà;
- disperare; è la grande tentazione del malato di alcolismo (e delle persone che
vivono intorno a lui);
- collocare l'alcool, e non Dio, al centro della vita e delle sue preoccupazioni.
Una delle tappe fondamentali nel programma degli Alcolisti Anonimi consiste nel
riconoscere un Assoluto al di sopra di se stessi. Occorre scegliere tra culto divino
e culto del vino. Quello che è vero per l'alcolismo, lo è anche per le altre
dipendenze.

Come rimediare?
La gola, come la lussuria e l'avarizia, si basa su un desiderio
smisurato. Vi si può porre rimedio integrando il desiderio, ma ri-
nunciando ai suoi eccessi. In sintesi: orientando l'atto dell'alimen-
tazione verso il vero bene della persona e padroneggiandolo; questo
risultato non si ottiene senza sottoporsi a qualche privazione;
ma «con nulla non si ottiene nulla», come dice la saggezza popolare.
Alcuni suggerimenti possono essere:

Rivedere le proprie motivazioni


L'uomo contemporaneo deve imparare di nuovo ad ascoltare il
proprio corpo, e non prima di tutto il proprio piacere. Troviamo il
tempo di domandarci: perché mangio? Quale bene perseguo? Spesso,
si mangia per pura soddisfazione gustativa. Ma un saggio constatava
che «non tutto ciò che è gradevole è bene». Provare piacere non è
segno che quello che si mangia (o si beve) sia buono; soprattutto se la
ripetizione di un'abitudine negativa ha sregolato i sensi.
Ci si nutre innanzitutto per vivere: «Cibiamoci secondo il bisogno
della salute e non secondo il proprio desiderio», raccomandava
Cassiano.10 Riconosciamolo: avvertiamo molto bene quando passiamo
dal bisogno soddisfatto al godimento smisurato. Il nostro corpo ha un
termostato molto equilibrato; sa dirci «stop». E non proviamo una
gioia supplementare quando ci alziamo da tavola senza sentirci
troppo appesantiti?
D'altra parte, il pasto è un'occasione per incontrare gli altri.
Nutrirsi è un atto sociale. Un maestro spirituale osservava: «Se vuoi

61
sapere quale grado di intimità con Dio ha raggiunto una persona,
guardala a tavola. Se è attenta a tutti i presenti, sii certo che è presente
a Dio. Se invece pensa solo a riempirsi lo stomaco, si serve prima degli
altri, racconta le sue storie senza ascoltare quelle del suo vicino,
ricerca la compagnia dei grandi invece di stare seduto accanto a tutti,
si può dubitare della profondità della sua comunione con il Signore».
Infine, non si dovrebbe escludere troppo in fretta Dio dalle finalità
del pasto: «...sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate
qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1 Cor 10,31).

Ritrovare nell'alimento un dono di Dio


Se Dio è il fine di ogni azione, ne è anche l'origine. Il nostro animo che
desidera alimento sia «riconoscente anche per un solo

111 Istituzioni cenobitiche, V, 7.

62
boccone», dice Evagrio Pontico.11 Ringraziamo Dio prima di ogni
pasto, in particolare per quelli che si sono impegnati a prepararlo (il
Benedicite) e dopo (il rendimento di grazie), in particolare perché al
dono del cibo corrisponda il dono della nostra persona.

Saper rinunciare
Non illudiamoci: è impossibile controllare il piacere gustativo
senza un minimo di rinuncia. Sapremo chi è padrone a casa nostra (la
nostra volontà o la nostra affettività) il giorno in cui impareremo a
dire «no» a certi piaceri. La nostra difficoltà a praticare il digiuno
quaresimale, oltre alle ragioni psicologiche già esposte, è motivata dal
fatto che non abbiamo più l'abitudine a privarci di qualcosa nel resto
dell'anno.
Oggi, alcuni dietologi giustamente raccomandano di non mar-
tirizzare il proprio corpo per dimagrire, ma temono di frustrare la
persona nel suo piacere orale, tanto che accettano la golosità. Ma il
peccato non riguarda l'alimento in quanto tale, bensì il piacere che
suscita: è questo che occorre regolare.

Praticare la rinuncia
Tre consigli semplici da applicare regolarmente (se possibile, a
ogni pasto):
• di un piatto di cose che piacciono, prendere poco o nulla;
• rinunciare a servirci una seconda volta di una portata per cui
andiamo matti;
• rinunciare a un alimento che apprezziamo.

Possiamo aggiungere qualche consiglio di sant'Ignazio di Loyola.

I consigli di sant'Ignazio
Nei suoi Esercizi spirituali, sant'Ignazio di Loyola raccomanda «le regole per
trovare la giusta misura nell'alimentazione», che sono sempre valide. Eccone
alcune:

" Trattato pratico, 16.


1. Occorre privarsi non tanto del pane quanto di altri alimenti, perché il pane non
sollecita tanto la gola e non ci rende altrettanto vulnerabili alla tentazione.
2. Quanto al bere, occorre tendere a un'astinenza maggiore che per il pane,
esaminando con cura quale quantità di bevanda è utile, per attenervisi sempre; e,
d'altro canto, quale quantità è nociva, per evitarla.
3. Si deve tener conto dell'astinenza soprattutto per quanto riguarda i piatti
cucinati [...]. Lo si può fare in due modi: sia abituandosi a nutrirsi con alimenti
ordinari, sia servendosi poco di alimenti ricercati [...]. 8. Per evitare l'eccesso nel
mangiare e nel bere, è molto proficuo determinare prima del pasto e in un
momento in cui non abbiamo fame la quantità esatta di cibo da prendere, che poi
non oltrepasseremo mai. [...]

Compiere atti concreti


Abbiamo distinto diverse specie di golosità (relativamente alla
quantità, alla qualità, ecc.). Individuiamoli nella nostra vita e
cerchiamo di prenderli in contropiede. Per esempio: chi tende ad
anticipare i tempi, può cercare di stabilire un orario preciso, e smettere
di mangiucchiare quando torna a casa la sera o prepara la cena.
Sant'Ignazio consigliava: «Occorre soprattutto cercare che lo
spirito non sia interamente accaparrato dagli alimenti da assumere, e
non mangiamo con avidità o fretta». Che cosa avrebbe detto il
fondatore dei Gesuiti, se fosse entrato in un fast-food?

Misurare le parole
Il piacere culinario è prolungato (o preparato) dal ricordo: è
importante che il ricordo di un pasto delizioso non arrivi a occupare
tutti i nostri pensieri e le nostre parole. Può esserci mancanza di
misura nell'uso della memoria.
D'altra parte, c'è un modo di lamentarsi del cibo che manca di
riserbo. Spesso, queste lamentele alimentano le conversazioni più
ancora del loro oggetto, lo stomaco. La temperanza comincia con
l'accettare il contenuto del proprio piatto, purché le norme dietetiche
siano rispettate.
Trovare diversivi
Il piacere gustativo è una compensazione. «Non si può vivere
senza piacere», affermava Aristotele; mangiare è il piacere più im-
mediato. Ci si può dunque aiutare a mangiare meno, trovando piacere
diversamente e diversificando le fonti di consolazione. Per esempio: la
stanchezza rattrista; dopo un lungo lavoro, siamo dunque tentati di
mangiucchiare; e se ci si offrisse piuttosto un'altra forma di
distensione: un bagno, una passeggiata, una telefonata a un amico, un

64
buon libro, un bel brano musicale...?

Pazientare
Il goloso spirituale ha sete di consolazione. Può meditare le parole
che Cristo rivolse a santa Caterina da Siena: dopo aver dato
soddisfazioni alla persona, «mi ritiro da lei, non con la grazia, ma con
il sentimento. [...] Per far uscire l'anima dall'imperfezione, mi ritiro da
lei, privandola della consolazione che provava in precedenza. [...] Se
lo faccio, è per farla esercitare a cercare Me in piena verità, per
provarla alla luce della fede e insegnarle la prudenza».31
Evagrio propone un rimedio all'intemperanza intellettuale: «Uno
dei saggi del tempo andò a trovare il giusto Antonio e gli disse: O
Padre, come puoi resistere, privo come sei della consolazione dei libri?
Antonio rispose: O filosofo, il mio libro è la natura delle creature ed è
presente quando voglio leggere le parole di Dio». 32

Immaginare Cristo a tavola


Forse questa proposta sembrerà irritante, ma lo stesso sant'I-
gnazio invitava a contemplare il modo in cui Gesù si nutriva: «Mentre
mangiamo, è importante che immaginiamo Gesù Cristo nostro
Signore che mangiava con i discepoli, ricordando il suo modo di
mangiare, di bere, di guardare e di parlare e proponendoci di
imitarlo». Lo scrittore Didier Decoin aggiunge: «Gesù non si ferma a
tavola solo per sostentarsi. Mangiare significa stare insieme. Stare
insieme significa condividere. Condividere significa amare. L'amore è
Gesù».33

Meditare sulla Croce


«Ho sete», disse Gesù sulla croce (Gv 19,28). Durante l'Ultima
Cena, lo aveva preannunciato: «Poiché vi dico: da questo momento
non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio»
(Le 22,18). Dopo aver consumato il pasto per eccellenza e aver fondato
l'Eucaristia, la sete lo tormenta e aumenterà incessantemente, a partire
dall'agonia del Getsemani, lungo tutta la Via Crucis. Provando questa
tortura, per noi, non assumendo alcun cibo durante la Passione, il
Salvatore crocifigge con sé le nostre forme di cupidigia degli alimenti.

31 II dialogo, cap. 33.


32 Trattato pratico, 92.
33 DIDIER DECOIN, Jésus le Dieu qui riait, Fayard-Mame, 2000, p. 94.

65
La meditazione di Gesù che sceglie di privarsi di ogni soddi-
sfazione può guarirci progressivamente dalle nostre forme di gola e
dai nostri desideri smisurati di consolazione gustativa. Lo Spirito
Santo vuole anche volgere i nostri desideri troppo terreni verso il
Padre e scavare il nostro desiderio spirituale: «...l'acqua che io gli darò
diventerà in lui una sorgente per l'eternità» (Gv 4,14). Innalzare lo
sguardo verso il Crocifisso significa domandargli quale deve essere la
vera misura delle nostre soddisfazioni e delle nostre rinunce.

In conclusione
Rassicuriamoci: la gola è senz'altro un brutto difetto, ma non è, in
sé, un peccato grave. È il più facile da commettere, è il disordine più
accessibile, a portata di mano, a portata di bocca. Il goloso è un
peccatore a cui si è tentati di perdonare molto e più in fretta che agli
altri. Anche sant'Agostino trova circostanze attenuanti: «E chi, o
Signore, [nel mangiare o nel bere] a volte non va al di là della
necessità?».34
Resta il fatto che è un vizio-chiave, una prova di padronanza di sé.
«Quando lo stomaco è controllato con prudenza e intelligenza, entra
nell'animo tutto un corteo di virtù», assicura san Nil
Sorsky. Certo, la gola è il meno grave dei peccati capitali, ma alcuni
Padri della Chiesa ritenevano che ne costituisse l'inizio. Se il grande
poeta Dante ci annuncia, nella Divina Commedia, che «Tutta està
gente, che piangendo canta,/ per seguitar la gola oltra misura,/ in
fame e 'n sete qui si rifà santa»,35 tuttavia non dimentichiamo che
questo riscatto si trova nel purgatorio, il nome del quale non è mai
stato più adatto.
La T@ttica del diavolo

Cadono tutti nel dolce!

«Troppo facile», dici. «Tutti i neofiti del vizio cadono in questa rete:

34 Le Confessioni, L. X, XXXI, 47.


35 La Divina Commedia. Purgatorio, canto XXIII, vv. 64-66.

66
voi disprezzate la gola come un'arma di bassa lega e sognate
tentazioni più sottili. Tuttavia, figliolo diavoletto, la gola non è cosa da
poco. Hai sentito recentemente un sacerdote tuonare contro la carne
(che è debole) permettere in guardia da questo vizio? La nostra
disinformazione ha focalizzato il peccato in quello di gola del
ghiottone, facendo passare quella del buongustaio come una
raffinatezza. Il messaggio è semplice quanto geniale: "Il peccato sta
nella quantità". In sintesi, l'abbuffata ha messo in ombra tutti gli sbagli
sottili dissimulati dalla gola. Ma Dio sa (chiedo scusa per questa
parola grossa) se ce ne sono! Infatti la tattica consiste nel servirsi delle
papille gustative dell'uomo per suscitare in lui egoismo, impazienza,
recriminazioni, mancanza di carità.
Osserva sul canale M666 il corso tenuto magnificamente dal nostro
fratello e gran maestro Glubose e ti leccherai i baffi. Guarda, per
esempio, come manipola quella vecchia signora. Oh, non fa chissà che
cosa alla nonnina, solo il tè in casa Fauchon, servito alla tale ora, alla
determinata temperatura, con mezzo toast scaldato a puntino e
spalmato di marmellata d'arance amare, una specialità. Glubose è
molto forte. Quello che la signora desidera non pesa molto in uno
stomaco, ma essa lo desidera al punto da ridurre le persone che la
circondano a suoi schiavi. Non commette mai eccessi quantitativi:
ricerca solo la perfezione della degustazione con un'ostinazione che
terrorizza chi le sta accanto. Il suo stomaco domina tutta la sua vita e
quella dei suoi. È la tortura con un piccolo tè.
Glubose ha i denti lunghi e la lingua lunga. Tra i cristiani, è riuscito
a rendere ridicolo o superfluo il digiuno del venerdì. È festa tutti i
giorni! Hanno dimenticato le raccomandazioni di Ignazio de l'Aioli (o
di Loyola, non ricordo più) nel XVI secolo: "Si deve tener conto
dell'astinenza soprattutto per quanto riguarda i piatti cucinati...".
Guarda questa profusione di piatti preparati che questi uomini e
queste donne stressati non hanno nemmeno il tempo di gustare e
ingurgitano in fretta, con una sorta di triste avidità.
Guarda, Glubose sta incoraggiando questa donna tanto pia a
rispettare il digiuno del venerdì. Che colpo di genio! La signora sta
preparando (con il pretesto di mangiare di magro) una sogliola alla
Colbert e un gambero di mare alla maionese come antipasto! Oh, caro
legalismo, quante meraviglie compiono gli umani nel tuo nome!
E che dire del padre di famiglia a cui Glubose ha sottilmente

67
ispirato una lotta anti-sperpero "per rispetto verso i bambini che
muoiono di fame nel mondo"? Quel pover'uomo sta esasperando sua
moglie e i loro tre figli con avanzi indigesti, crostine di pane raffermo,
prediche morali e recriminazioni. L'unità familiare si frantuma grazie
a un'intenzione generosa!
Assapora anche lo spettacolo di questo giovane che gongola di
orgoglio servendo ai suoi ospiti le sue belle e buone pietanze. Glubose
l'ha indotto alla gola tramite la vanità. L'arte culinaria per lui è
diventata un sottile strumento di conquista e di dominio.
Naturalmente, mio caro nipote, i Cieli sono più grandi del ventre,
ma ti prego (se posso osare dirlo) di non lasciar cadere la gola. Rivedi
il tuo piano di studi e cerca di inserirvi uno stage da Glubose, io ti
raccomanderò. Scoprirai il piacere di ridurre un uomo a oggetto della
sua cupidigia: una sigaretta, un bicchiere di whisky, un piatto
appetitoso... Il giorno in cui l'assenza di uno di questi beni, a cui tiene
tanto, lo farà uscire dai gangheri, tu lo terrai per la gola, come un
pesce all'amo. Allora la sua carità, il suo senso della giustizia, la sua
obbedienza saranno alla tua mercé. E dire (questo rimanga tra noi) che
basta un piccolo sforzo quotidiano di moderazione per mettere
Glubose al tappeto!
Poi, quando avrai raggiunto il livello G+, sarai iniziato alla grande
arte della gola spirituale. Il tema è troppo complesso per essere
affrontato in conclusione di e-mail... ma, mio caro nipote, non hai
finito di gustare!».

E-mailzebull
Sugli schermi

La festa deiramore

Il film di Gabriel Axel (1988) Il pranzo di Babette, senza negare che


nutrirsi è una festa per il corpo, mostra che il pasto festeggia anche gli
animi e può anche diventare una magnifica metafora del banchetto
per eccellenza: l'Eucaristia. Questo adattamento molto riuscito di una

68
novella di Karen Blixen predispone a una purificazione della gola:
orienta il piacere gustativo verso il gusto dell'altro e
dell'Assolutamente Altro.
• La storia: Filippa e Martine, figlie di un rispettato pastore che ha
fondato una comunità austera, sono rimaste nubili. Abitano in una
casa ubicata in un paese dello Jutland, una zona incontaminata della
Danimarca. Una notte dell'anno 1871, vedono arrivare Babette
(Stéphane Audran), una rifugiata francese fuggita dalla Commune.
Babette si offre di mettersi al loro servizio. Anni dopo, quando le due
«padrone» si preparano a festeggiare il centenario della nascita del
loro defunto padre, Babette, che ha appena vinto una grossa somma
alla lotteria, propone di offrire loro un «vero pasto francese». Sarà
molto più di una semplice festa dei sensi...

Il pasto, festa dei corpi


Tutto, nella festa di Babette, è bello e buono: i cibi appetitosi, i vini
deliziosi, una magnifica tavola su cui si trova una tovaglia
immacolata illuminata da candele; i bicchieri tintinnano, la frutta
scintilla. La macchina da presa sa captare i gesti, gli sguardi, durante
la preparazione prima, della condivisione poi della festa, di cui
vengono messi in risalto il sapore e lo splendore. Lo testimonia il
silenzio religioso degli invitati quando entrano, sbalorditi, nella sala
da pranzo trasformata in palazzo dei Cristalli. Restano interdetti
davanti ai piatti offerti. Il generale Lorenz Loewenhielm (Jarl Kulle)
esclama: «Un amontillado [vino bianco generoso]! Il migliore che io
abbia mai bevuto!»; «Incredibile! Una zuppa di tartaruga, la migliore
che io abbia mai assaggiato!...». Le crêpes Demidoff vengono servite
con un Veuve Cliquot del 1860. Il vino migliore sarà servito per
ultimo. Come a Cana. Un piatto dopo l'altro, i cuori si scaldano, i volti
si distendono, i rancori si smorzano, le lingue si sciolgono.

Il pasto, festa degli animi


La gola non squalifica il piacere di nutrirsi, ma il suo orientamento
verso la nostra soddisfazione egoistica. Il pranzo di Babette ricorda che
il corpo è fatto per l'anima e che la condivisione del pane dispone alla
condivisione dell'affetto.
Come a Cana, questa festa è una liturgia dell'amore.

69
Il pasto è innanzitutto un'occasione di ringraziare per la generosità
di Martine e Filippa e, inoltre, per quella del loro padre, di cui viene
ricordata un'espressione: «Le uniche cose di questa vita terrena che
potremo portare con noi saranno quelle che avremo donato agli altri».
Sotto l'abito sobrio e austero delle due giovani donne batte un cuore
ricco di vera compassione: il loro volto riflette solo misericordia e
serenità.
L'arrivo inatteso del generale rivela un altro amore: quello che
anima l'organizzatrice della festa, Babette. Mentre gusta una quaglia
curiosamente cucinata in una sorta di feretro, il generale ricorda di
aver mangiato lo stesso piatto in un ristorante molto raffinato di
Parigi, il «Café français». Curiosamente, la cuoca era una donna, e la
sua specialità era la «quaglia al sarcofago». L'identità di Babette viene
così svelata, insieme con la sua umiltà: era la cuoca più famosa di
Parigi, un «genio culinario».
La rivelazione continua: era stato assicurato al generale che
«questa donna è capace di trasformare un pasto in una specie di affare
di cuore, che non fa differenza tra l'appetito fisico e l'appetito
spirituale». Questa formula è straordinaria nella sua esattezza: non
solo questo pasto è un affare di cuore, ma riconcilia le due dimensioni,
quella visibile e quella invisibile, quella fisica e quella spirituale, di
ogni realtà umana. L'origine del «genio culinario» di Babette è il suo
amore.
La festa, balsamo sui cuori feriti
Più ancora, questo pranzo è una liturgia dell'amore, perché
guarisce cuori feriti dall'amore. In particolare, quello del generale
Lorenz.
Lorenz, giovane ufficiale, giocatore pieno di debiti e bevitore
inveterato, era stato mandato nello Jutland da suo padre. Durante
un'uscita a cavallo, incontrò una delle due figlie del pastore. Al primo
sguardo, s'innamorò di lei. La giovane, però, che lo amava in segreto,
non osò mai parlarne per non dare un dispiacere a suo padre. Lorenz,
con il cuore spezzato, cercò di fuggire a quell'amore in un matrimonio
d'interesse, mentre la giovane puritana si dedicò completamente agli
altri per dimenticare il suo dolore.
Diventato generale, Lorenz non è sciocco: la sua vita è solo un
tentativo narcisistico di provare a se stesso il proprio valore. Al
momento di recarsi all'invito di Babette, dopo aver indossato il suo

70
abito più bello, rifiuta di mettere il monocolo mormorando le parole
dell'Ecclesiaste: «Vanità delle vanità, tutto è vanità». Poi si mette
davanti allo specchio e si rivolge, attraverso di esso, al giovane
ufficiale che era stato: «Ho raggiunto tutto quello a cui aspiravo. Ma a
che prò? Questa sera abbiamo un conto da regolare. Devi provare che
avevo scelto bene». Esce. Fuori c'è una tormenta.
Alla fine del pranzo, il generale propone un brindisi. Mentre parla,
gli sguardi brillano, non solo per l'esaltazione dell'agape: «Nella sua
debolezza e nella sua corta veduta delle cose, l'uomo crede di dover
fare la sua scelta in questo basso mondo e disprezza il rischio che
corre in questo modo. Arriva un momento in cui i nostri occhi si
aprono e comprendiamo che la Grazia è infinita. Dobbiamo
semplicemente attenderla con fiducia e riceverla con riconoscenza. La
Grazia non pone condizioni. Tutto quello che abbiamo scelto ci è stato
dato, e tutto ciò che abbiamo rifiutato ci è pure stato accordato. Sì,
anche ciò che abbiamo rifiutato ci è stato accordato», afferma Lorenz,
che conclude riprendendo il versetto biblico con cui aveva aperto il
discorso: «Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si
baceranno» (Sai 84,11).
Un po' più tardi, Lorenz si ritrova solo nella penombra simbolica
della camera, con la giovane che continua ad amare tanto. Il generale
confessa alla donna: «Sono stato vicino a lei ogni giorno della mia vita.
Mi dica che lo sa». Lei, che non è capace di mentire, risponde: «Sì, lo
so». La donna ignora che questa ammissione guarisce nel profondo il
generale e dà significato a tutta la sua esistenza passata. Ormai, quello
che era rimasto sospeso nel suo brindisi può realizzarsi: «Allora, sa
anche che sarò con lei sempre, ogni giorno che Dio vorrà accordarmi,
ogni sera... Non con il mio corpo (che non significa nulla), ma con la
mia anima. Infatti, cara sorella, stasera ho imparato che in questo
nostro mondo meraviglioso tutto è possibile».
Straordinaria dichiarazione d'amore che ritrova i toni del Cantico
dei Cantici, in cui le parole di disperazione espresse lasciando l'amata
decenni prima («In questa vita vi sono cose impossibili»), sono
cancellate da questo «Tutto è possibile». Il vero amore spera tutto.
Ma tra le parole del passato e quelle che sono appena state pro-
nunciate si inserisce il pranzo di Babette, la festa dell'amore che tocca
e guarisce i cuori.

71
La festa, metafora dell'Eucaristia
Infine, Il pranzo di Babette è una mirabile parabola dell'Eucaristia.
La similitudine esteriore non è priva d'importanza: la tovaglia
bianca, i preparativi accurati, le candele, i dodici invitati, le parole
ricche di significato: «Siamo pronti per il servizio» (invece di
«Possiamo metterci a tavola»), ecc.
Il pranzo di Babette è un rendimento di grazie (Eu-caristia in
greco). Portando avanti l'opera del padre con diligenza, Martine e
Filippa spendono il loro tempo e il loro denaro in atti di carità (dono
di indumenti, di cibo, ecc.). Con questo pranzo, Babette vuole
ringraziarle per questa bontà diventata virtù. Una delle rivelazioni
della festa è che questa rende omaggio al suo autore, più ancora che
alle due sorelle.
Se le sorelle sono in qualche modo le ministre del «sacramento»,
Babette (diminutivo di Elisabeth, che in ebraico significa «casa di
Dio») non simboleggia forse lo stesso Cristo? Babette è di origini
misteriose, ha un'identità segreta, ha dato tutto, senza ri- pensamenti.
E più grande di quanto la si possa rappresentare...
D'altra parte, questa festa è, come l'Eucaristia, un sacrificio nel
senso più pieno del termine: un'immolazione in vista di un'offerta di
sé. Lo si scopre alla fine. «Babette, è stata un'ottima cena», dice una
delle due sorelle. «Tutti sono stati molto contenti. Tutti noi
ricorderemo questa serata, quando sarai tornata a Parigi». Babette
risponde: «Non tornerò a Parigi, perché là non c'è nessuno che mi
aspetta. Sono tutti morti». E aggiunge: «Non ho più denaro». Di fronte
allo stupore delle sorelle, replica: «Ho speso i diecimila franchi. Era il
prezzo di un pasto per dodici persone al "Café français"».
Allora la festa diventa comunione. Opera la sua trasformazione
tramite lo stesso atto della manducazione (l'atto di mangiare): la
generosità del sacrificio si riflette su quelli che vi prendono parte. La
litigiosa Anna fa questa affermazione di una profondità sorprendente,
che sottolinea un silenzio rispettoso (e che annulla l'ammonimento di
partenza: «Ricordate che abbiamo perso il senso del gusto»): «Quando
l'uomo non solo rinuncia, ma rifiuta qualsiasi pensiero riguardante
cibi o bevande, allora può mangiare e bere nella giusta disposizione
d'animo». E vuota d'un fiato il bicchiere su questo aforisma pieno di
saggezza.

72
Conclusione
Un vizio si guarisce non con il vuoto, ma con la virtù contraria. Il
contrario della gola non è l'astinenza, ma la sobrietà. Questa riorienta
il piacere gustativo verso la salute del corpo, anch'essa finalizzata dal
dono di sé. Il pranzo di Babette illustra in modo magnifico che la
dilatazione dovuta al piacere gustativo predispone alla dilatazione
dell'anima che gusta la saggezza dell'amore.

73
CAPITOLO ‘T

La lussuria, corpo del reato

«Il letto è il campo di addestramento alla morte».


Woody Alien

«Né il corpo, né lo spirito possono essere felici separatamente».


Roger Garaudy

«Signore, rendimi casto. Ma non subito...».


Sant'Agostino

Un'affascinante americana atterra all'aeroporto di Parigi. Il do-


ganiere le chiede: «Nome?» «Marilyn». «Cognome?» «Bardot».
«Sesso?» «Sì».
Lo scrittore inglese Chesterton diceva: «L'uomo zoppicherà
sempre per il sesso e tuttavia gli è sempre in mezzo». Oggi, l'uomo
zoppica pretendendo di camminare diritto. Dal puritanesimo al
liberalismo, oscilliamo da un eccesso all'altro. Cacciate il sesso, ed
esso tornerà al galoppo. D'altra parte, quando si domanda di citare
un peccato capitale, più d'uno risponde subito: «lussuria». Marcel
Aymé non sbagliava quando, prendendosi gioco dei costumi
contemporanei, descriveva ne La Grâce, l'ascesa del suo eroe sulla
scala del vizio: «Superbo, goloso, iracondo, invidioso, pigro e avaro,
Duperrier riteneva di avere un animo ancora profumato d'innocenza.
Pur essendo capitali, i sei peccati che aveva coltivato erano soltanto
quelli che può confessare un bambino della prima comunione senza
disperarsi. Capitale tra tutti, il peccato di lussuria lo spaventava».
Oggi la lussuria occupa un posto di primo piano nel nostro contesto.
«La cultura ha subito l'apocope (eliminazione) delle due
ultime sillabe», sosteneva Jean Cau. Il concupiscente, il cui nome è
tutto un programma, riduce l'altro al suo corpo, che distingue nei
suoi pezzi desiderabili. Questo peccato capitale è subdolo. Toglie la
catena, poi incatena, fino alla disperazione. Come uscire dalla
75
tirannia del piacere?36

Che cos'è la lussuria?


Premettiamo subito che non sono in questione né la sessualità
(questa è benedetta da Dio), né il piacere sessuale in se stesso. Il
peccato si colloca nella difficile integrazione del piacere nella ses-
sualità. «Confondere la lussuria e il desiderio che avvicina i due sessi
equivale a dare lo stesso nome al tumore e all'organo che esso
divora», scrive Bernanos.37
Diamo una definizione non troppo «fun» (eccellente), ma che
riassume bene il problema; il Catechismo della Chiesa Cattolica spiega:
«La lussuria è un desiderio disordinato o una ricerca sregolata di
piacere fisico. Il piacere sessuale è moralmente disordinato quando è
ricercato per se stesso, isolato dalle finalità unitive e procreative». 38
Questo «piacere smodato» comincia quando la sessualità si al-
lontana dal suo fine (il dono) per diventare desiderio di possesso.

Il piacere sessuale presenta quattro caratteristiche:


- È il piacere fisico più grande, perché corona il bene più grande, il
dono della vita e l'amore del coniuge. «Tra i piaceri del mondo,
per le persone, i rapporti sessuali vengono al primo posto.
Curiosamente, li si esclude dal paradiso», si meravigliava Mark
Twain.
- È complesso. Mentre il piacere della gola si limita alle papille
gustative, il piacere sessuale non si riduce all'orgasmo. E ac-
compagnato da un insieme di «pulsioni parziali»: il piacere di
vedere, di essere visti, di toccare, ecc.
- L'orgasmo non è la finalità dell'atto sessuale, il quale è ordinato al
dono: il dono di una persona a una persona dell'altro sesso e il
dono della procreazione della vita. Il piacere sessuale è un
sovrappiù, un coronamento, altamente desiderabile ma non
costitutivo dell'atto. D'altra parte, questo è vero per ogni genere di
piacere. Il piacere del gusto non è essenziale all'atto della
nutrizione: le persone colpite da ageusia (perdita del gusto)

36Cf JEAN-CLAUDE GUILLEBAUD, LaTyrannie du plaisir, Seuil, 1998.


37GEORGES BERNANOS, Dinrio di un curato di campagna.
76 38 Catechismo della Chiesa Cattolica, n, 2351.
continuano a nutrirsi anche se non provano piacere a farlo. Il
piacere gustativo è un «di più» che viene a sottolineare l'im-
portanza dell'atto di nutrirsi. Analogamente, l'orgasmo è un
frutto, non un fine; un frutto bello e buono quando è legato alla
comunione delle persone e all'apertura alla vita che gli dà
significato; quindi, quando si inserisce nel contesto del matri-
monio.
- Infine, il piacere sessuale s'inserisce in una storia. Il bambino, poi
l'adolescente, è chiamato a scoprire il doppio significato della sua
sessualità: unione e procreazione. Dopo il peccato originale,
questa sessualità destinata da Dio a esprimere la nostra unità, è
diventata anarchica, il che non vuol dire cattiva. A poco a poco,
con l'educazione alla castità, il piccolo dell'uomo impara a
orientare la propria energia sessuale verso queste finalità. Con
eventuali cadute, ma con la ferma speranza che ciò che sia buono
sia anche possibile. E con la certezza che questa è la direzione
della sua realizzazione.

Infatti, separare il piacere dall'atto di cui è il coronamento è una


tentazione costante per la persona umana (vedere riquadro). Il
paziente lavoro della castità consiste nell'armonizzare le componenti
della sessualità; quello della lussuria consiste nel distruggere questa
armonia. La lussuria è una menzogna a fior di pelle, un possesso che
si maschera da dono. Ogni volta, la persona dell'altro (e l'apertura
alla vita) non vengono considerati.
Per questo, la lussuria non rispetta la natura profonda della
sessualità: è illusoria e, sulla lunga distanza, non può che rendere
tristi; essendo concentrata sul solo orgasmo, s'interessa unicamente
all'organo; poiché distoglie la sessualità dalla sua finalità, che fa rima
con libertà, è un peccato.
Il piacere fine a se stesso
I Romani avevano inventato il vomitorium, per avere i vantaggi del piacere
gustativo senza soffrire gli inconvenienti del sovraccarico alimentare... Da
sempre, l'uomo cerca di cogliere il piacere minimizzando l'atto di cui questo
piacere è il compimento.
La masturbazione (e, in generale, la lussuria) ricerca l'orgasmo separandolo
dalla comunione delle persone e dal dono della vita. La contraccezione chimica,
separando il piacere erotico dalla finalità procreativa dell'atto sessuale, non
risponde forse alla logica del vomitorium? 77
Ma questa separazione messa al servizio dell'ipertrofia edonistica non si limita ai
soli piaceri fisici. Assilla la nostra epoca, alla perenne ricerca delle ricette
immediate: come imparare il portoghese in quaranta lezioni? Come avere a
disposizione tutto lo scibile in un'unica opera? Come vincere i vizi capitali in tre
settimane?, ecc. Ogni volta, si vuole la soddisfazione senza troppo impegno.
La New Age non s'inserisce forse nella linea di questi metodi che disgiungono
l'atto dal piacere? Questa nebulosa psico-spirituale propone tecniche per
procurarsi i (presunti) benefici della preghiera, del perdono, senza compierne
veramente gli atti; con metodi diversi, si ascolta il proprio corpo, si entra in se
stessi, si ottengono serenità di spirito e tranquillità d'animo. Ma questa ricerca
rimane egocentrica. Non ci si mette di fronte all'Assolutamente Altro, non si cerca
il volto di Dio.4
Non c'è solo una perdita del senso dello sforzo, come si dice a volte. La crisi
riguarda lo stesso agire dell'uomo (ne riparleremo analizzando l'ultimo vizio
capitale, l'accidia). In sintesi, il nostro mondo sognerebbe un piacere
infinitamente reale che sia il frutto di un atto infinitamente virtuale.

In che cosa la lussuria è un peccato capitale?


La lussuria viene condannata quando la sua pratica lede la libertà
altrui (pedofilia, turismo sessuale), ma il lassismo imperante

J Cf in particolare la breve presentazione critica di padre JOSEPH-MARIE VER- LINDE, Le

chr'istianisme au défi des nouvelles religiosités, Conferenza di quaresima a Notre-Dame di Parigi,


2002.

78
la assolve quando riguarda solo la «pratica individuale» con un
partner consenziente. «Non c'è niente di male a farsi del bene», si
sente dire spesso. Analizziamo questo aspetto più da vicino.
Non c'è niente di nuovo sotto il sole del demonio di mezzogiorno.
L'Antico Testamento racconta la storia di una giovane donna di
grande bellezza, Susanna. La giovane ama passeggiare in un giardino
in cui si trovano a chiacchierare due anziani giudici la cui età
veneranda non ha ancora spento in loro il fuoco della carne. «Quei
due giudici la vedevano ogni giorno passeggiare nel giardino e la
desideravano ardentemente. A un certo punto persero la testa, non
pensarono più a Dio né alle proprie responsabilità di giudici. Anche
se tutti e due bruciavano di passione per Susanna, nessuno aveva mai
parlato all'altro del proprio tormento: infatti si vergognavano di
svelare il desiderio che avevano di possederla. Così, da un giorno
all'altro, facevano di tutto per poterla vedere» (Dn 13,8-12). I due
giudici peccano tre volte: contro la donna, che riducono al rango di
oggetto; contro se stessi, cedendo alla passione; contro Dio,
dimenticando la sua Legge.

Ogni forma di lussuria è un peccato, perché ferisce l'altro, se stessi


e Dio.
«Tu possederai il tuo prossimo», sussurra la lussuria. Il corpo del
reato è il corpo dell'altro (o il proprio) voluto per il solo piacere. Il
concupiscente innanzitutto riduce l'altro al suo corpo, e questo a parti
desiderabili, stimolanti a livello erotico. Fa del corpo altrui un
oggetto. Una donna seminuda in una pubblicità di biancheria diceva:
«I miei seni possono fare a meno del mio ex, ma non il contrario». E
un'altra pubblicità recitava: «Il mio banchiere mi preferisce scoperta».
Per questo motivo, i film porno- grafici spesso evitano di riprendere i
volti, spiega il sociologo Jean Baudrillard. Vorrei essere guardato (o
accetterei che mia moglie lo fosse) mentre osservo nei dettagli il corpo
di questa donna?
La lussuria (nell'adulterio) è anche un'ingiustizia commessa nei
confronti della famiglia: brucia denaro e tempo destinati ad altri.
L'unica purezza è l'amore puro
lo che ho tanto amato la purezza, non ho desiderato altro che l'impurità... può
darsi che io ignori ciò che essa è, o ciò che esse sono. Perché no? Forse per la
purezza ci si può esprimere come per il tempo, secondo sant'Agostino: se
nessuno mi domanda che cos'è, lo so; se però qualcuno me lo domanda o io
voglio spiegarlo, non lo so più (cf Confessioni, XI, 14). La purezza è un'evidenza
e un mistero. [...]
L'io è puro solo quando è purificato dal sé. L'ego sporca tutto ciò che tocca.
Simone Weil ne La Pesanteur et la Gràce scrive: «Acquisire potenza su qualcosa
significa infangare; possedere significa infangare. Al contrario, amare con
purezza significa acconsentire alla distanza, in altri termini, al non-possesso,
all'assenza di potere e di controllo». Nel Mestiere di vivere, Cesare Pavese
diceva a se stesso: «Sarai amato il giorno in cui potrai mostrare la tua debolezza
senza che l'altro se ne serva per affermare la sua forza». Questo significa voler
essere amato con purezza, in altri termini, essere amato. Amare non significa
prendere: amare significa donare e perdere, rallegrarsi di ciò che non si può
possedere, rallegrarsi di ciò che manca (o che mancherebbe se lo si volesse
possedere), rallegrarsi di ciò che rende infinitamente poveri, ed è il solo bene e la
sola ricchezza... (André Comte-Sponville in Coll., La Pureté, Ed. Autrement,
1993).

La lussuria ferisce noi stessi: l'energia sessuale è una fra le più


unificanti, quando è rivolta verso l'amore dell'altro e il dono della
vita. Ridotta all'erotismo, frammenta il soggetto in pulsioni sessuali,
lo rattrista, lo acceca, lo aliena. La prima vittima della lussuria è il
lussurioso. Fa parte dei peccati che trovano il loro castigo in questa
vita. L'adulterio, per esempio, si paga con timori costanti (essere visti,
contrarre l'AIDS, avere una gravidanza indesiderata...) e un senso di
colpa che a volte divora.
Infine, la lussuria è un'offesa a Dio. «Dovete sapere che voi stessi
siete il tempio dello Spirito Santo. Dio ve lo ha dato, ed egli è in voi.
Voi quindi non appartenete più a voi stessi. Perché Dio vi ha fatti
suoi, riscattandovi a caro prezzo. Rendete quindi gloria a Dio col
vostro stesso corpo» (1 Cor 6,19-20).
Quali sono le diverse specie di lussuria?
Spesso la lussuria viene ridotta ai suoi atti esteriori, ma l'impurità
nasce aH'interno dell'uomo. Qui, innanzitutto, risiede il vizio
capitale; qui comincia anche la battaglia spirituale. «Perché, è dal
cuore che vengono tutti i pensieri malvagi che portano al male: gli
assassinii, i tradimenti tra marito e moglie, i peccati sessuali, i furti, le
menzogne, gli insulti...» (Mt 15,19). Adulteri, dissolutezze? Vediamo.

80 La lussuria esteriore
Ogni peccato rende meno umani. E la lussuria disumanizza
separando il piacere erotico dalla comunione delle persone. Il Ca-
techismo della Chiesa Cattolica dà cinque esempi al riguardo: la ma-
sturbazione (vedere riquadro); la fornicazione, che è «l'unione
carnale al di fuori del matrimonio tra un uomo e una donna liberi»; la
pornografia, che consiste nel «portare gli atti sessuali, reali
o simulati, fuori dall'intimità dei partner per esibirli deliberata-
mente a terze persone»; la prostituzione; la violenza sessuale (n.
2352-2356). Si può aggiungere la pratica omosessuale, che deve essere
distinta dalla tendenza omofila che, nella stragrande maggioranza
dei casi, non dipende per nulla dalla volontà personale (n. 2357-
2359).
Ognuno di questi atti disumanizza anche perché riduce la persona
a pezzi. La parcellizza. Il piacere sessuale si fissa su una pulsione o su
un oggetto parziale: per esempio, il voyeur si eccita guardando una
data parte del corpo (soprattutto femminile), e non la totalità del
corpo in relazione con la persona.

La trappola della masturbazione


È un paradosso? La masturbazione è uno dei peccati più frequenti contro la
castità, ma anche dei più ignorati.
Evitiamo due errori a questo riguardo. Il primo consiste nel considerarla un
passaggio obbligato. È falso affermare che tutti gli adolescenti si masturbano e
che è una sorta di «igiene» necessaria. Albert Chapelle spiega: «Legare questo
comportamento a una particolare età della vita significa insinuare una sorta di
determinismo psichi

81
co».39 Il secondo errore consiste nel drammatizzare. Daniel Ange afferma: «La
masturbazione è più una perturbazione che una perversione, ed è più o meno
profonda».
S'impone un doppio discernimento. Innanzitutto, in che misura sono presenti la
coscienza, la riflessione, il libero consenso? Non confondiamo l'eiaculazione
involontaria (che ad esempio avviene in un dormiveglia) e l'eccitazione
volontaria, che giunge fino all'orgasmo. Il problema è che l'atto puntuale si
moltiplica facilmente. Una volta diventata abituale, la masturbazione è un
handicap, un'alienazione, e inoltre dà origine a un senso di colpa. Il bisogno di
masturbarsi è spesso legato alla solitudine, al bisogno di essere amati. Risulta
esaltato in periodi di rifiuto da parte di altri. «Infine, è una ricerca, a volte
disperata, di semplice tenerezza, ma di una tenerezza impossibile: come amare
se stessi così senza tendere al narcisismo e, magari, all'egoismo, che ne è il
fratello gemello?».40 Infine, quali che siano le scusanti e le spiegazioni
psicosociologiche, la masturbazione rimane un peccato e, per sua natura, un
peccato grave. Da un lato, riduce la genitalità alla sua dimensione erotica,
negando che è per sua natura ordinata alla vita e all'amore dell'altro; dall'altro
canto, nega la relazione. Nel suo romanzo Vie secrète, lo scrittore Pascal
Quignard, non certo sospetto di rigorismo, scrive: «La masturbazione infantile,
poi adolescenziale, poi adulta, è un distacco attivo dalla solidarietà sociale».41

La lussuria interiore
Si può innanzitutto peccare con l'immaginazione. Se le fanta-
sticherie dell'uomo sono più direttamente erotiche (nel film Harry a
pezzi, Woody Alien afferma: «Alla fine ho trovato il personaggio
giusto: un miscuglio tra la donna che ho visto oggi sulla 6th ave- nue
e Svetlana Staiina, la figlia del dittatore. Questo ha funzionato»), la
creazione di personaggi fantastici non è una specialità maschile. Le
fantasticherie della donna si ammantano di maschere sottili cui lei
indulge più facilmente: la seduzione, l'avventura romantica, un certo
modo di fantasticare, come Biancaneve: «Un giorno arriverà il mio
principe azzurro».
Si può essere lussuriosi anche con lo sguardo. Si usa l'espressione
«spogliare una donna con gli occhi». La lussuria comincia con un
certo modo di guardare. Gesù dice: «...se uno guarda la donna di un

39 ALBERT CHAPELLE, Sexualitéet sainteté, Bruxelles, Ed. de l'IET, 1977, p. 286.


40 DANIEL ANGE, Toncorpsfait pour l'amour, Le Sarment-Fayard, 1988, pp. 78 e 79.
1 PascalQuignard, Vie secrète, Gallimard, 1998, p. 218.
altro perché la vuole, nel suo cuore egli ha già peccato di adulterio
con lei» (Mt 5,28). Questo sguardo-desiderio sminuisce l'altro. «Che
differenza c'è tra una donna e un'amante?». «Una decina di chili».
Esiste il peccato nella parola. Un certo modo di parlare della
sessualità, di moltiplicare le barzellette salaci e le allusioni oscene è
una preparazione prossima all'impudicizia, al passaggio all'atto,
quando non è segno di una frustrazione inconfessata.

In che cosa la lussuria è un peccato capitale?


Torniamo alla bella Susanna e continuiamo a leggere il capito
lo 13 del libro del profeta Daniele: vediamo gli anziani giudici lus-
suriosi diventare mentitori, spergiuri e anche assassini. Il re Davide
vivrà la stessa esperienza fatale nel suo desiderio colpevole per
Betsabea; arriverà al punto da far morire il marito di lei mandandolo
in un punto in cui i nemici erano molto forti (2 Sam 11). La lussuria è
viziosa. E anche pericolosa: genera mostri.
Se non uccide tutti i giorni, la lussuria spesso pecca contro la
prudenza, cioè la capacità interiore di assumersi responsabilità e di
garantire il controllo della propria persona. I Greci ritenevano che
chi non è capace di dirigere la propria vita, controllando le passioni,
non è in grado di governare i concittadini. Nei Memorabili, il
drammaturgo greco Senofonte scrive: «Dimmi, Eutidemo, credi che
la libertà sia un bene nobile e magnifico, che si parli di un singolo o
di uno Stato?». Eutidemo risponde: «E il bene più bel
lo che sia possibile avere». «Ma pensi che chi si lascia dominare dai
piaceri del corpo e, di conseguenza, è incapace di praticare il bene,
sia un uomo libero?». «Assolutamente no», replica Eutidemo. 42
La lussuria pecca anche contro la giustizia, come ricorda questa
storiella: un commerciante cerca da diversi mesi di farsi pagare da un
cliente, che fa... orecchie da mercante. Alla fine, gli manda una foto
della sua figlioletta, sul cui retro ha scritto queste parole: «Questo è il
motivo per cui mi servono i miei soldi». Due giorni dopo, il
commerciante riceve la foto di una bella bionda, sul retro della quale
il suo debitore ha scritto: «Questo è il motivo per cui non ho la
possibilità di pagare».
Infine, siamo «pratici»: la lussuria complica la vita. Le relazioni

42 SENOFONTE, I Memorabili, IV, 5,2-3. 83


adulterine fanno la fortuna e il successo degli autori di teatro leggero,
ma, nella vita reale, costringono gli interessati a salti mortali
spossanti e a difficili menzogne. L'umorista Pierre Dac si esprime così
al riguardo: «Una donna sposata con un uomo che la tradisce con la
moglie del suo amante, la quale tradisce suo marito con quello di lei e
che si ritrova a ingannare l'amante con quello della moglie perché il
suo amante è suo marito e la moglie di suo marito è l'amante di un
uomo disonorato dall'amante di una donna il cui marito tradisce la
sua amante con la moglie del suo amante, non sa più raccapezzarsi e
non sa neppure che cosa deve fare per non complicare una situazione
che è già abbastanza complicata così».

Sesso e politica: un rapporto nascosto?


Ricordate ¡1 caso Clinton-Lewinski? L'allora presidente degli Stati Uniti avrebbe
avuto un rapporto extraprofessionale nello studio ovale con una stagista di nome
Monica, una ragazza con le rotondità al posto giusto.
Alcuni politici francesi si sono scandalizzati non per la scappatella del presidente,
ma per l'indiscrezione e l'ingerenza della giustizia americana. Così, Simone Veil
ha dato del «voyeur» e dell'«ossessionato sessuale» al giudice Kenneth Starr;
Martine Aubry ha ritenuto che il procuratore statunitense mettesse in pericolo la
democrazia, perché questa deve «proteggere la vita privata», e qui si trattava di
«due persone adulte e pienamente consenzienti».
Jean-Frangois Mattei, docente di filosofia all'università Nice-Sophia Antipolis, ha
criticato queste reazioni, che separano completamente la sfera privata da quella
pubblica. Innanzitutto, lo stesso Clinton non ha rispettato questa distinzione: non
ha tradito Hillary, sua moglie, sotto il proprio tetto, ma alla Casa Bianca, dunque
come presidente, abusando del proprio potere per abusare del proprio sesso.
Eminenti filosofi hanno sottolineato lo stretto rapporto tra privato e pubblico nella
persona dei responsabili politici. Due autorità in materia filosofica tra le altre:
Montesquieu vedeva nella «virtù» il principio della democrazia; Louis Althusser,
non certo sospetto di essere conservatore, osservava che la virtù politica
consiste nell'operare «una vera conversione dell'uomo privato nell'uomo
pubblico»; di conseguenza, «se, nella democrazia, tutti i delitti privati sono crimini
pubblici, il che giustifica i censori [...], è perché tutta la vita privata dell'uomo
consiste nell'essere un uomo pubblico, essendo le leggi il costante richiamo di
questa esigenza».43 Questa confusione, in ogni caso, ha permesso agli umoristi

84 43 Le Monde, domenica 20 e lunedì 21 settembre 1998, p. 14.


di scoccare qualche frecciata: «Come chiamano gli Statunitensi la cerniera dei
pantaloni di Clinton?». «US Open». «Perché Hillary Clinton vuole fare l'amore
con suo marito al mattino molto presto?». «Per poter conservare il titolo di First
Lady».

«La carne», lasciata a se stessa, «è triste». Non è necessario os-


servare furtivamente i clienti di un distributore di videocassette a luci
rosse o di accamparsi in un sexy-shop, per constatare che la lussuria
rattrista più di quanto dia gioia. È un albero dai frutti amari che
genera il ripiegamento su di sé e il disgusto.
I suoi disordini oscurano l'intelligenza. San Gregorio Magno
ritiene che la gola indebolisca lo spirito nella sua capacità di cogliere
le verità spirituali, mentre la lussuria lo annienta compieta- mente.

L'intelligenza a nudo
Voler piacere rende idioti? Due psicologi statunitensi, Barbara Fre- drickson
dell'Università del Michigan e Tomi-Ann Roberts del Colorado College, hanno
mostrato, a partire da un serio studio condotto su diverse decine di studenti,
che, nel corso di test intellettivi, le donne quando indossano un costume da
bagno ridotto (bikini) riportano risultati meno brillanti rispetto a quando
indossano un abito da città. Invece, gli uomini mostrano di avere lo stesso
Quoziente d'In- telligenza, che indossino camicia e cravatta o slip da bagno.
Perché? «Le donne crescono in un contesto culturale che, nella maggior parte
dei casi, le incita a prendersi cura del proprio corpo. Quando si spogliano,
pensano solo più al loro aspetto». Più ancora, questa immagine è
essenzialmente negativa. E i sentimenti negativi inibiscono l'intelligenza.

Infine, la lussuria aliena la libertà. Un habitué di siti Internet


pornografici può passare ore davanti al monitor, sacrificare una
fortuna su siti a pagamento e masturbarsi più volte al giorno. La
ricerca ossessiva del piacere sessuale genera dipendenze; ma di-
pendenza fa rima con sofferenza: si può essere dipendenti dal sesso
come dall'alcool o dal cibo (si parla di porno-dipendenza). Quasi tutti
i serial killer arrestati negli ultimi anni sono «appassionati» di
videocassette pornografiche.
Accanto ai gruppi di Alcolisti, Tossicodipendenti e Mangioni
anonimi, esistono già gruppi di auto-aiuto per i drogati del sesso. A
questo punto, il peccato, diventato abitudine, è una patologia. Già
85
Basilio di Cesarea, nel IV secolo, parlava della lussuria come di una
«malattia dell'anima».44 San Giovanni Crisostomo rincara la dose:
«Sottoposta alla tirannia di queste tentazioni, l'anima viene
facilmente soggiogata dal peccato [di lussuria]; [...] davanti agli occhi
e nello spirito ha solo più un oggetto». 45
Victor Hugo, a oltre ottant'anni, rimaneva un gran donnaiolo,
molto appassionato di giovani cameriere. Max Gallo, uno dei suoi
biografi, scrive:46 «Più l'età avanza e più sembra ossessionato da
questo desiderio che non lo abbandona e che lo induce a commettere
molte imprudenze... I suoi vicini, la sua vecchia governante
lo redarguiscono, cercano di trattenerlo. Come se fosse possibile!».
«Sono furioso. Amo e sono un vecchio pazzo. La statua è in
frantumi...», scrive il romanziere. La lussuria è un supplizio di
Tantalo, una sete divorante che non si spegne mai. Nel secondo
girone dell'Inferno, Dante scopre la pena dei lussuriosi: «Intesi ch'a
così fatto tormento/ enno dannati i peccator carnali,/ che la ragion
sommettono al talento».47

Come rimediare?
Come integrare l'energia positiva della sessualità e insieme tenersi
lontano da certe eruzioni devastanti?

Praticare la castità
Non lo si ripeterà mai abbastanza: si lotta contro un vizio pra-
ticando la virtù contraria. Dunque, si combatte la lussuria con la
castità. Questa parola è stata «resa noiosa», ridicolizzata, schernita.
Tuttavia, fa rima con libertà. Il Catechismo della Chiesa Cattolica le
dedica un bel paragrafo: «La castità è l'integrazione riuscita della
sessualità nella persona, e di conseguenza l'unità interiore dell'uomo
nel suo essere corporale e spirituale. [...] Non tollera né la doppia
vita, né il linguaggio doppio (cf Mt 5,37). [...] La castità presuppone
un apprendistato della padronanza di sé, che è una pedagogia della

44 Lettere,316
45 Omelie su 1 Corinzi, XI, 4.
46 Nel settimanale Le Point del 7 dicembre 2001, in occasione del bicentenario della

nascita dello scrittore.


86 47 La Divina Commedia. Inferno, canto V, vv. 37-39.
libertà umana. L'alternativa è chiara: o l'uomo comanda le sue
passioni e ottiene la pace, oppure si lascia asservire dalle passioni e
diventa infelice (cf Sir 1,22)».
La virtù si acquisisce. L'integrazione della sessualità non è
spontanea. Il Catechismo della Chiesa Cattolica continua: «La padro-
nanza di sé è un'opera che richiede molto tempo. Non la si può mai
considerare acquisita una volta per tutte. Presuppone uno sforzo da
riprendere a tutte le età della vita (cf Tt 2,1-6). Lo sforzo necessario
può essere più intenso in certe fasi della vita, come quando si forma
la personalità, durante l'infanzia e l'adolescenza» (n. 1337-1345).

Cambiare la propria visione sulla sessualità


La nostra epoca ha banalizzato la lussuria, animalizzando la
sessualità. A scuola, la si studia, e non sempre, nei corsi di biolo- già,
come un'attività fisiologica come tante altre. Questa considerazione
riduttiva porta a vedere nella sessualità un bisogno «igienico» da
soddisfare, se non si vuol essere soggetti a tensioni ne- vrogene. Vi
sono medici che, con l'aria più seria di questo mondo, consigliano a
giovani che ritengono siano «inibiti» di masturbarsi due volte al
giorno... Ma l'esercizio genitale della sessualità (l'orgasmo) non è una
necessità vitale. Non si può vivere senza bere, ma si può vivere senza
provare piacere sessuale. L'alimentazione ha come fine la
conservazione dell'individuo, la sessualità quella della specie.
C'è un'altra concezione falsa: una «psicologizzazione» eccessiva
della sessualità. A partire da Freud, si usa chiamare la sessualità un
pacco scuro di pulsioni nascoste che è impossibile dominare. L'uomo
sarebbe lacerato tra le sue aspirazioni angeliche e un istinto bestiale
incontrollabile? È falso! Da una parte, la sessualità umana non può
ridursi al determinismo rigoroso della sessualità animale: solo la
persona umana può avere rapporti sessuali in qualunque periodo del
ciclo femminile. La sessualità non è estranea allo spirito. Al contrario.
D'altra parte, «l'uomo non è né angelo, né bestia», come diceva Blaise
Pascal. È uno, ed è fondamentalmente libero. Certo, il peccato
originale ha infranto l'unità primordiale e ha introdotto un'anarchia
nella sessualità. Ma è prerogativa della virtù della castità (aiutata, per
i cristiani, dalla grazia del sacramento del matrimonio) guarire (mai
compieta- mente) l'uomo da questo focolaio di divisione. «La castità
ci ricostituisce e ci riporta all'unità che avevamo perduto
87
disperdendoci»,48 dice sant'Agostino, che visse l'esperienza di una
sessualità disordinata durante la sua giovinezza inquieta.
È fondamentale restituire alla sessualità la sua bellezza, parlarne
senza eccessi di pudicizia o disprezzo. Non si può più sostenere che
la Chiesa abbia paura del corpo e del piacere: per cinque anni
consecutivi, all'inizio del suo pontificato, Giovanni Pao
lo II ha proposto centoventotto catechesi di una ventina di minuti sul
corpo umano, come se vedesse in questo una priorità: in totale, si
tratta di oltre ottocento pagine di testo. È il più ampio insegnamento
del magistero su un dato argomento! Una rappresentazione vera e
insieme pudica della sessualità permette di allontanare immagini
riduttive di questa realtà umana. La testimonianza di persone che
vivono la loro sessualità in modo realizzato può guarire
l'immaginazione e alimentare la speranza.

«La sua bellezza dominava la nostra forza»


Nelle sue memorie, Hélie de Saint-Marc, ufficiale legionario, riporta un ricordo
dell'Algeria: «In quel momento, una ragazza cabila, che poteva avere diciotto o
diciannove anni, passò sulla spiaggia a pochi metri da noi, reggendo sul capo un
cesto rotondo e alto. La sua lunga gonna ondeggiava sfiorandole i polpacci,
mentre camminava a piedi nudi sulla sabbia. La sua pelle scura e i suoi
lineamenti decisi costituivano un esempio di perfetta armonia. In quella donna
c'erano una nobiltà, un portamento fiero, che imponeva rispetto. Al suo
passaggio, davanti a una compagnia di legionari al bagno, non ci fu una risata,
né un'esclamazione, né una battuta, lo giuro. La sua bellezza dominava la
nostra forza e placava la nostra inquietudine». 49 Più ancora della sua bellezza,
la sua nobiltà...

Rivedere le motivazioni
L'integrazione della sessualità presuppone di rivedere le proprie
motivazioni, perché è difficile che queste non siano messe alla prova,
sposati, celibi o consacrati che si sia. Timothy Radcliffe, già Maestro
dell'Ordine dei Domenicani, non nasconde, in un libro di colloqui, di
aver vissuto una crisi dolorosa relativamente al suo voto di castità,
sognando una famiglia e figli. Spiega di essere stato aiutato a

48 Confessioni, L. X, XXIX, 40.


88 49 HELIE DE SAINT-MARC, Mémoires. Les clmmps de braise, Perrin, 1995, p. 188.
mantenere il suo impegno perché «mi sono innamorato dello studio,
ho scoperto che amavo appassionatamente
lo studio della Parola di Dio. È necessario essere appassionati.
Nessuno può vivere senza passione».50
Impegnare la volontà
Una volta meditato il progetto di Dio sulla sessualità, e riesa-
minate le nostre motivazioni, si tratta di decidere di vivere nella
purezza: «Il vostro parlare sia sì, sì; no, no».
Questo per tre ragioni. Primo: la Bibbia lo richiede, in particolare
attraverso il sesto e il nono comandamento del decalogo: «Non
commettere adulterio» (Es 20,14); «Non desiderare quello che
appartiene a un altro... sua moglie...» (Es 20,17).51 In secondo luogo: è
possibile. Terzo: è la via della felicità.
Non ci sono mezze misure: se assecondiamo uno sguardo con-
cupiscente, un sogno erotico, dove andremo? Nel Confiteor, rico-
nosciamo, a giusto titolo e ad alta voce, che il peccato nasce dal
pensiero, quando vi acconsentiamo nel nostro intimo. Piccoli atti di
rinuncia, che siano o meno in relazione con la sessualità, sono di
grande aiuto.

Un «piccolissimo atto» d'amore


Guy de Larigaudie scrive: «Nel momento di una tentazione violenta, quando la
volontà si sfibra e tutto il corpo s'illanguidisce pronto a cedere, è bene, per
testimoniare malgrado tutto un po' di amore a Dio, impegnarsi a compiere una
piccolissima mortificazione: non mettere sale nella minestra troppo insipida o non
spostare un oggetto che dà fastidio. Questo piccolissimo atto d'amore, che
rimane possibile nel peggior crollo apparente dell'anima, è come un richiamo
della grazia, e la volontà ne è rafforzata».52 Saint-Exupéry riassumeva tutto
questo in una formula: «Quello che salva, è compiere un passo». A volte un
passo di sbieco, un indietreggiamento in extremis...

Come per la gola, non si può sognare una castità senza battaglie e
senza rinunce. Il padre cappuccino Benedici Groeschel osserva anche
che «quando le persone dicono di aver domandato la grazia della

50 TIMOTHY RADCLIFFE, «Je


vous appelle amis», La Croix/Le Cerf, 2000, p. 31.
51 Cf anche Mt 5,27-28 e 19,1-9; 1 Cor 6,12-20, ecc. La Bibbia è sostenuta ed esplicitata
dalla tradizione e dal magistero (in particolare: Humanae vitae, Persona Humana, Catechismo
della Chiesa Cattolica).
52 Guy DE LARIGAUDIE, Étoile au grand large, seguito da Chant du vieux pays, Seuil, 1943, p. 16.
89
castità, spesso hanno domandato la grazia di essere angeli; è una
grazia che non riceveranno. Questo non significa che non vogliono
peccare, ma che non vogliono essere tentati».19 In certi casi, la castità
può essere eroica. Guy de Larigaudie ricorda: «Doveva essere una
meticcia. Aveva splendide spalle e la bellezza animale dei sangue
misto, con le labbra carnose e occhi immensi. Era bella,
selvaggiamente bella. Davvero, c'era solo una cosa da fare. Io non l'ho
fatta. Sono risalito a cavallo e sono partito a tutta velocità, senza
voltarmi, piangendo di disperazione e di rabbia. Credo che, nel
giorno del Giudizio, se non avrò altro da dare, potrò offrire a Dio
come un covone tutte le soddisfazioni che, per amor suo, non ho
voluto conoscere».

Sorvegliare lo sguardo
Quando un manifesto eccita, un'immagine attira, un abito pro-
voca, non discutiamo e distogliamo subito lo sguardo. Risoluta-
mente. I pubblicitari non ignorano l'impatto delle fantasie che le
immagini spinte suscitano negli uomini. Un pubblicitario che la-
vorava per una marca di biancheria, ha incollato questa insegna su
una striscia di seta: «Mettete alla prova le sue resistenze».
Tuttavia, sorvegliare lo sguardo non significa diventare ciechi. C'è
il rischio di identificare il corpo tentatore con la donna tentatrice e di
demonizzare quest'ultima.

Lo sguardo sulla donna adultera


In un celebre brano evangelico, una donna è sorpresa in flagrante adulterio (Gv
8,1-11). Scribi e farisei la portano da Gesù, attendendo il suo giudizio: «Nella sua
legge Mosè ci ha ordinato di uccidere queste donne infedeli a colpi di pietra. Tu,
che cosa ne dici?». Gesù procede in due tempi.
Innanzitutto, rifiuta di guardare la donna, quando ella è ridotta al ruolo di capro
espiatorio della violenza collettiva; ma anche quando, messa al centro di quel
gruppo maschile, diventa un oggetto di cupidigia. La sua parola ferma la violenza
all'origine: «Chi tra voi è senza peccati, scagli per primo la pietra contro di lei».
Mentre gli

w Benedici Groeschel, Le courage à'ètre elitiste, Éd. des Béatitudes, 1997, p. 117.
uomini se ne vanno, Gesù continua a tenere lo sguardo fisso a terra, rifiutando
qualsiasi complicità con gli sguardi di desiderio o di violenza della folla raccolta
90
intorno a lui e alla donna.
Solo dopo, quando tutti gli uomini se ne sono andati, Gesù alza lo sguardo sulla
donna accusata. Allora, le parla. La persona è degna che le sia rivolta la parola.
Certo, Gesù nomina il peccato («Va' e non peccare più»), ma non riduce la
donna né al suo peccato, né al suo corpo desiderato.

Sorvegliare la lingua
Se certe conversazioni salaci in realtà non sono altro che com-
pensazioni parziali inconfessate, d'altra parte, una rigidità che boccia
ogni parola a questo proposito non si colloca in una situazione
migliore. È difficile parlare con serenità di una realtà che ci impegna
in modo così intimo: la sessualità non riguarda forse il mistero della
nostra origine? Tra facezie salaci ed eccessi di pudicizia, bisogna
trovare una libertà, e un umorismo di buona lega, che sappia
rispettare senza drammatizzare. Per esempio, questa perla di Woody
Alien: «Adesso vi racconto una storia terribile sulla contraccezione
orale. Ho chiesto a una ragazza di venire a letto con me. Lei mi ha
detto: "No"». Un esempio di facezia leggera: «Che differenza c'è tra
un amante e un marito?». «Sono il giorno e la notte».

Sorvegliare i sensi e l'immaginazione


Da dove viene questa ipocrisia che si ripete spesso, secondo la
quale non è grave fantasticare, quando non si passa all'atto? In ogni
caso, l'altro serve solo come mezzo per appagare il desiderio fisico;
invece, l'altro merita di essere amato per se stesso.
Fuggiamo ciò che favorisce la lussuria. In quest'ambito, più ci
allontaniamo dall'occasione, meno rischiamo di cadere. Un'edicola
espone riviste eccitanti? È più facile passare dall'altra parte che
distogliere lo sguardo.

Sorvegliare la curiosità
«Per criticare un film pornografico, è necessario averne visto
almeno uno», si sente dire. Non bisogna forse conoscere ciò di cui si
parla, sussurra il Tentatore? Non è raro che la lussuria s'introduca
nell'animo tramite un pretesto spirituale: il desiderio di sapere. Un
individuo guarda una cassetta pornografica in cui scopre un sito di
scambisti «tanto per vedere» e mette così in opera il primo atto di
quella che diventerà rapidamente una dipendenza. 91
Non è bene (e nemmeno necessario) conoscere tutto. I nostri
progenitori non sono forse stati tentati dalla curiosità nel giardino
dell'Eden (Gn 3,6)? Il filosofo Maurice Blondel spiega che è necessario
purificare le passioni, «tutte, a eccezione di una che si conosce
veramente solo evitando di affrontarla, anche con l'immaginazione: il
turbamento della carne che acceca lo spirito e chiude tutti gli alti
orizzonti».53
Nell'ambito del sesso, ogni «prova» è fatale. Se gustate quel
piacere, ci ritornerete.54 Un pasto indigesto si vomita, ma un'im-
magine perversa s'incide nella memoria. Ed è molto difficile, dopo,
purificare la memoria.

La castità fino al martirio


Alcuni giovani ugandesi accettarono di essere bruciati vivi piuttosto che cedere a
un re pederasta; Karolina Kotska (1914), Antonia Me- sina (1935) e Pierina
Morosini (1957) sono morte per difendere la loro verginità. Il 4 ottobre 1987,
durante la loro cerimonia di beatificazione, Giovanni Paolo II diceva: «Marcel,
Pierina e Antonia, vi sono affidati i laici, i giovani, poiché siete testimoni di un
amore in cammino, capaci di vedere al di là dell'umano, di vedere Dio, l'invisibile.
Vi sono affidati perché siete un esempio di fede matura, libera da ogni
compromesso, come un inno di speranza per le nuove generazioni, che lo Spirito
continua a chiamare alle fonti del Vangelo. [...] Oggi, questi giovani si collocano
in un momento di annuncio per annunciare la gioia, quella di glorificare Cristo nel
proprio corpo (cf Ef 1,20). "Tenendo alta la parola che dà vita" (Ef 2,16), gridano
il loro messaggio con la forza silenziosa del martirio e, con il loro giovane
sangue, cantano Cristo, Re e Signore dei martiri, ieri, oggi e domani».55

Accettare non l'errore, ma la debolezza


Non inganniamoci: siamo deboli, come ricorda questa battuta di
argomento biblico: Mosè scende dal monte Sinai, raduna il popolo e
dice: «Ascoltate: ho una notizia buona e una cattiva!». «Dicci prima la

53 L'itinérairephilosophique de Maurice Blondel, Spes, 1928.


54 Questo fascino che può predisporre a pratiche perverse in realtà caratterizza in misura
maggiore il sesso maschile (cf PASCAL QUIGNARD, Le Sexe et l'Effroi, Gallimard, 1994); al contrario,
di un'esperienza sessuale non assimilabile, la donna conserva piuttosto un disgusto che può
portare fino alla frigidità.
55 La documentatimi catholique, n. 1949,1° novembre 1987, p. 985. Cf le testimonianze

raccolte da Daniel Ange sulla bellezza della castità a volte vissuta nelle condizioni più eroiche,
92 in Les Noces de Dieu où le pauvre est roi, Le Sarment-Fayard, 1998.
buona notizia!», esclama il popolo all'unisono. Mosè risponde: «La
buona notizia è che sono riuscito a ridurre i comandamenti da
quindici a dieci... Quella cattiva è che per quanto riguarda l'adulterio
non ho potuto fare nulla!». Gli sbagli nell'ambito della lussuria hanno
il «vantaggio» di mantenerci in una certa umiltà. Nietzsche diceva:
«Il basso ventre fa sì che l'uomo abbia qualche difficoltà a
considerarsi un dio».

Ravvivare la speranza
La disperazione è una tentazione frequente in questa lotta. Una
pratica compulsiva della masturbazione, per esempio, scoraggia
l'individuo. E la disperazione toglie le forze per combattere. Jean
Vanier sottolinea: «Nella misura in cui gli adolescenti combattono
per la purezza dell'amore, giungeranno a compiere il passaggio verso
la vera maturità e potranno assumersi una responsabilità nelle lotte
più profonde del nostro mondo».56
Tuttavia, malgrado le cadute, la battaglia non è mai perduta.
Daniel Ange sostiene: «La sessualità è molto più controllabile di
quanto si creda. Le pulsioni sessuali sono molto meno compulsive di
quanto si dica».57 Certe pulsioni tolgono la lucidità, ma in fondo al
cuore possono rimanere il desiderio di non cedere e la capacità di
non acconsentire al male.
Dopo la caduta, la misericordia
La vergogna spesso spinge a nascondere le tentazioni lussuriose e
a scoraggiare l'ammissione di errori in questo ambito. Non
dimentichiamo mai la potenza trasformatrice del sacramento della
riconciliazione. È importante che la confessione eviti tanto lo scrupolo
quanto l'approssimazione. Daniel Ange raccomanda: «Se soccombi,
non disperarti. Il peggio non sta nel cadere, ma nel rimanere nel
fossato».

Chiedere il dono di Dio


La castità è un impegno; è anche un dono che oltrepassa le nostre
povere forze umane: è un dono di Dio. «Lo Spirito produce... dominio
di sé», dice san Paolo (Gal 5,22-23). Il Catechismo della Chiesa Cattolica

“Jean Vanier,Homme etfemme, il les créa, Fleurus, 1984, pp. 74-80.


57 Daniel Ange, Ton corpsfait pour l’amour, Le Sarment-Fayard, 1988, p. 86.
93
insiste su questo punto: «La castità è una virtù morale. È anche un
dono di Dio, una grazia, un frutto dell'opera spirituale (cf Gal 5,22).
Lo Spirito Santo concede d'imitare la purezza di Cristo (cf 1 Gv 3,3) a
colui che l'acqua del battesimo ha rigenerato». Chi vuole imitare
questa purezza può affidarsi alla Vergine Maria, Madre di ogni
purezza.

Morta per rimanere pura


Maria Goretti morì ¡1 6 luglio 1902 nell'ospedale di Nettuno, a circa 90 chilometri
a sud di Roma. Il giorno prima, un giovane aveva tentato di violentarla. Poiché
Maria rifiutava di accondiscendere, il giovane le inferse quattordici coltellate.
«Manetta», come la chiamavano in famiglia, non aveva ancora compiuto dodici
anni.
Poco prima che spirasse, il cappellano dell'ospedale, portandole la comunione,
le domandò: «Maria, perdoni di tutto cuore il tuo assassino?». Dopo aver
represso un primo moto di istintiva repulsione, Maria rispose: «Sì, lo perdono per
amore di Gesù e voglio che anche lui venga in paradiso. Voglio che sia accanto
a me. Dio lo perdoni, perché io l'ho perdonato».
Il 6 luglio 2002, in occasione del centenario della morte di quella che è diventata
santa Maria Goretti, Giovanni Paolo II l'ha presentata come «la piccola e dolce
martire della purezza [...]. La mentalità del rifiuto dell'impegno che impregna gran
parte della società e della cultura del nostro tempo, a volte ha difficoltà a
comprendere la bellezza e il valore della castità [...]. Dal comportamento di
questa giovane santa emerge una percezione alta e nobile della propria dignità e
di quella degli altri [...]. In questo non vi è forse una lezione di grande attualità?».
Il giorno dopo la nascita, Maria era stata battezzata e consacrata alla Santa
Vergine. Nella famiglia Goretti si recitava il Rosario ogni giorno. E la giovanetta
pregava ed era servizievole verso gli altri.

Meditare sulla Croce


Gesù, flagellato, scorticato, ci salva dalle nostre ricerche smisurate
e narcisistiche di piacere. Con il volto coperto di sangue e di sputi,
«non aveva né dignità né bellezza, per attirare gli sguardi» (Is 53,2),
purifica i nostri desideri di seduzione, guarisce la nostra ossessione
per un corpo perfetto e ci invita a cercare, nei nostri fratelli più
sfigurati, il suo Volto adorabile. Accettando di essere spogliato dai
soldati (Mt 27,28), poi di mostrarsi nudo sulla croce, Gesù accetta di
94 subire tutte le impurità di cui lo sguardo è la prima fonte; crocifigge i
nostri voyeurismi. Meditando il secondo mistero doloroso (la
flagellazione), domandiamo per intercessione di Maria, regina della
purezza, di vivere castamente.

In conclusione

Bando alle ossessioni!


Ne Le Cercledes menteurs, lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière
racconta la storia di due giovani monaci zen che fecero insieme il
giuramento di non toccare mai una donna. «Un giorno, mentre erano
in viaggio, si apprestavano ad attraversare un fiume in piena, quando
videro comparire una giovane donna di rara bellezza, che domandò
loro di aiutarla ad attraversare le acque impetuose. La donna spiegò
che doveva assolutamente attraversare quel fiume, per portare
soccorso a suo padre malato. Sola e fragile com'era, non poteva
arrischiarsi da sola. Il primo monaco, senza neppure ascoltare le
parole della giovane, procedette nel fiume e lo attraversò. Il secondo
monaco prese la giovane tra le braccia e, più lentamente e con
maggiore difficoltà, aiutandosi con una corda, la portò sull'altra riva.
La giovane lo ringraziò e si allontanò rapidamente. I due monaci
ripresero il cammino. Per più di un'ora rimasero in silenzio.
Improvvisamente, il primo monaco disse: "Come hai potuto
infrangere il tuo giuramento [...]?". "Ma guarda, pensi ancora a lei?",
replicò l'altro».
Bando alle ossessioni! L'ossessione della continenza o della castità
è migliore di quella della lussuria? Beati quelli che diventano puri
senza diventare duri.

95
La T@ttica del diavolo

Adulterio, istruzione per l'uso

«Figliolo, avrei voglia di dire: non perdiamo tempo, passiamo al


peccato successivo. Il piano di Sexor e Libidinus, i nostri "ses-
sualisti", è un successo quasi completo. Diavolo! Gli angeli non
hanno sesso, ma questo non impedisce loro di sapersene servire.
Pensa un po': a scuola, s'insegna ai bambini la fellatio ancor
prima della pubertà con il pretesto della lotta contro l'AIDS; i libri
che vendono il maggior numero di copie sono racconti di adulteri o
di sesso squallido che relegano il marchese de Sade nella collana
Harmony; in Internet, basta un piccolo clic per cadere nel grande
bordello, ecc.
Ho ridotto la donna a oggetto-culto e i "maîtres à penser" chia-
mano tutto questo "liberazione"! Certo, la caccia ai pedofili è aperta,
ma nessuno sembra comprendere che essi sono in parte i prodotti di
questa società di voyeur e di capri espiatori. I tabù sono saltati come
turaccioli di champagne, ma il terrorismo intellettuale del "nuovo
ordine sessuale" regna sovrano. I miei cari ragazzi del '68 hanno
fatto un buon lavoro con il loro "È vietato vietare". Si accendono gli
uomini nei negozi, ma si reprime il minimo indizio di disturbo
sessuale. La pornografia è diventata una delle arti più apprezzate,
ma un vescovo viene linciato (mediáticamente) perché un uomo lo
accusa, senza riuscire a portare prove, di aver commesso abusi
sessuali. Così s'instaura un "fascismo dal sedere umano". Questa
schizofrenia crea fratture nelle famiglie, riempie i tribunali... e i
reparti psichiatrici degli ospedali.

Mi piace tergiversare. Uno fra i nostri scherzetti migliori consiste


nell'aver fatto dissolvere il pudore, o piuttosto, nell'averlo spostato
dal basso verso l'alto: oggi, è vergognoso non chi parla
della propria vita sessuale, ma chi rivela la propria vita interiore! Non
chi si riferisce al basso, ma chi richiama l'alto.
E tuttavia, figliolo, c'è ancora lavoro da fare. L'adulterio è le-
galizzato, l'infedeltà è considerata normale (la si respira con l'aria del
96
tempo), ma alcuni si ostinano a non voler tradire la moglie o il marito.
Non disperarti, anche con i lettori di questo libretto sui sette vizi
capitali. Alcuni si sentono così sicuri della loro virtù che costituiscono
prede ideali.
Aiutati con i buoni sentimenti. La pietà, per esempio: in ogni uomo,
sonnecchia un paternalista. All'inizio, non è assolutamente necessaria
un'attrazione fisica. Al contrario, l'uomo immagina (essendo il desiderio
assente) che sia innocuo rimanere da solo con l'amica che soffre di
carenze affettive e prenderla fra le braccia per consolarla. E solo
amicizia!
Se la giovane s'inquieta per il tempo che lui passa lontano dalla sua
famiglia e per questa vicinanza fisica, il tuo cliente le spieghi che non è
per nulla innamorato di lei. E se per caso vanno oltre (per esempio
accarezzandosi), riservino molto tempo a dirsi che, in ogni caso,
vogliono rimanere fedeli al rispettivo coniuge. Gli uomini hanno
un'infinita capacità di credere a ciò che raccontano, anche quando i loro
intenti sono esattamente contrari alla realtà, e a dimenticare sempre di
più i loro propositi: non baciarla mai, non salire a casa sua, ecc. Op,
questi buoni pensieri prendono il volo come piume d'angelo.
Obiettivo n. 1: il tuo cliente violi progressivamente i divieti (carezze,
baci, rapporti sessuali), perché è molto difficile tornare indietro.
L'essenziale è che non perda il contatto, per così dire.
Lavora sulle frustrazioni. La moglie del tuo cliente si rifiuti a lui, non
gli chieda mai di fare l'amore. I "felicissimi a letto" diventino "scontenti
a letto". Quanto al tuo pagliaccio, provi vergogna per i suoi desideri
sessuali... Rinfocolali. Non trascurare nulla. Lei è andata in vacanza con
i figli? Bene, una videocassetta pornografica, così, giusto per vedere; se
ne affittano nella videoteca sotto casa... E il tuo cliente non immagini
nemmeno che il suo voyeurismo possa incidere in qualche modo sulla
sua fedeltà. L'essenziale è non passare all'atto, giusto?
Se mai, per disgrazia, lui decidesse di andare a confessarsi, gioca
sulla vergogna. L'adulterio è uno degli sbagli più difficili da confessare.
E a ragione: l'impegno di un uomo e di una donna è ciò che vi è di più
grande tra due persone; dunque, il tradimento è la cosa peggiore. Il tuo
cliente rimanga sul vago, non dica che è sposato, parli solo d'impurità,
senza pronunciare la parola «adulterio». E se mai lo confessasse, fa' in
modo che il sacerdote si scandalizzi, lo colpevolizzi o gli imponga
consigli inapplicabili. Il tuo cliente sarà scoraggiato e non tornerà tanto
presto al confessionale.
Infine, dopo un certo periodo di doppia vita, mostragli che la fedeltà
assoluta è un bell'ideale... ma un ideale. Trasforma l'insopportabile
97
disgusto di sé in una nuova regola di vita, più morbida e meno ipocrita.
Fallo passare dal peccato di debolezza a quello di malizia: poiché non
può piegare la sua vita al comandamento di Q.D.D., pieghi il
comandamento di Q.D.D. alla sua vita. Soprattutto, non fargli mai
comprendere che vale più un peccatore pentito di un cataro irrigidito.
La tua arma migliore sarà sempre la disperazione. L'assogget-
tamento della carne è un'autostrada senza pedaggio che porta dritti in
quella direzione. Se agisci bene, quest'anima sarà tua per l'eternità. Non
dimenticarlo: il nostro obiettivo è quello di portare la persona in quello
che i teologi di Q.D.D. definiscono "peccato mortale abituale". Alla fine,
non sentono nemmeno più di essere morti. Per questo, lascia che il sesso
prevalga!».

E-mailzebull
Sugli schermi

Dalla lussuria all'amore

Il regista polacco Krzysztof Kieslowski ha illustrato i dieci co-


mandamenti e la loro trasgressione nei dieci film che costituiscono il
Decalogo, che sono stati proposti in televisione. Il sesto episodio, del
1988, s'intitola Decalogo 6. Poiché la versione cinematografica,
intitolata Non desiderare la donna d'altri termina in modo diverso,
abbiamo optato per quella televisiva.
• La storia: Tomek, un giovane postino diciannovenne (Loaf Lu-
baszenko), dalla finestra del suo appartamento tutte le sere spia
Magda, una vicina di circa trent'anni (Grazyna Szapolowska), che ha
una vita sentimentale movimentata. Tomek s'innamora della
giovane donna. Un giorno, non riuscendo più a trattenersi, la av-
vicina e le confessa che la spia. Magda lo respinge, poi decide di
invitarlo a casa sua, dove lo incita cinicamente a fare sesso. Dispe-
rato, Tomek f ugge e si taglia le vene. Magda aspetta che torni a casa
dall'ospedale. Potranno finalmente incontrarsi e amarsi?
Con finezza, senza alcun moralismo, Kieslowski analizza la
lussuria fatta di sguardi e immaginazione (quella del giovane po-
stino) e la lussuria del corpo (quella di Magda). Con tatto e deli-
catezza, descrive il cammino che porta dal peccato alla libertà, dalla
lussuria
98 all'amore.
Dal voyeurismo all'amore
Il film comincia nel momento in cui Tomek s'invaghisce di
Magda. È già un anno che, servendosi di un binocolo, osserva con
compiacimento la sua vicina e le sue prestazioni con amanti di
passaggio. Solitudine, disperazione, mancanza di amore sono i punti
comuni di queste due persone peraltro così diverse. La regia, sobria
e precisa, traduce bene la chiusura dei personaggi in uno scenario di
grigiore e banalità (triste come il peccato di lussu-
ria?). All'inizio del film, Kieslowski moltiplica le immagini fram-
mentate, le linee segmentate, per simboleggiare pulsioni erotiche che
«sconvolgono» Tomek e lo mantengono nella sua immaturità affettiva.
Quando però l'amore si sveglia in lui, il giovane comprende che non
può più ridurre quella donna a un oggetto di piacere egoista. Tomek
smette allora di cercare la sua gratificazione spiandola. Moltiplica i
tentativi di approccio, rischiando anche il suo posto di lavoro. Il suo
rispetto cresce proporzionalmente al suo amore. Un giorno, telefona a
Magda per chiederle scusa e distoglie lo sguardo quando compare
l'amante della giovane.
Una scena mirabile merita un «fermo immagine»: Tomek si ritrova
faccia a faccia con la giovane, in un corridoio: un luogo aperto, al
contrario dell'appartamento chiuso e soffocante complice di vizi segreti.
Tomek ha confessato a Magda il suo vizio in occasione di un loro primo
incontro, ma il cinismo della giovane donna l'ha chiuso nel suo
mutismo. Questa volta, Tomek può andare oltre; risponde a Magda che
gli chiede spiegazioni del suo voyeurismo, di spalle, con un pudore
assolutamente contrario all'indecenza del faccia a faccia. «Perché la
amo», risponde Tomek. Magda gli chiede, con una punta di
aggressività, se vuole fare l'amore con lei. Tomek, spaventato, risponde:
«No». Non vuole nulla. Magda, che è stata sempre e solo desiderata per
il suo corpo, non comprende. Improvvisamente il viso di Tomek
s'illumina: «Voglio invitarla a prendere un gelato con me».
Ormai, Tomek rifiuta di catturarla con lo sguardo. E quando riterrà
che Magda rifiuti dì amarlo, la sua vita non avrà più ragion d'essere.
Tomek vorrà suicidarsi: solo l'amore dà un significato alla vita.
Da «essere guardata» a «essere amata»
Per questo incontro inatteso, anche Magda si metterà in cammino.
Essa arriva da più lontano. Questa donna, strumentalizzata dagli
uomini, si disprezza. Non pensa nemmeno più a chiudere le tendine

99
del suo appartamento: l'assenza d'interiorità si accompagna a una
carenza d'intimità. E questo il motivo per cui non si rivolta per le
molteplici ingiustizie che Tomek commette nei suoi confronti, per
esempio rubando la sua corrispondenza?

100
Nasce in lei un sentimento nuovo, che non riesce a comprendere.
Come può Tomek amare lei, che si odia? Certo, come tutti gli
uomini, la spoglia con lo sguardo. Tuttavia, contrariamente agli altri,
glielo confessa umilmente. Lei approfitta di questa vulnerabilità per
«sputare» tutto il suo disprezzo per gli uomini. Provoca Tomek ed è lei
stessa a ridursi al proprio corpo. Spinge uno dei suoi amanti a essere
strumento della sua vendetta: l'uomo colpisce Tomek, che ha come
unica arma il suo amore. Il giovane torna a casa con un occhio nero
doppiamente significativo: l'occhio simboleggia la capacità di conoscere
e il fatto che sia nero è indizio della coscienza di aver sbagliato.
In Magda, invece, è ferito il desiderio di essere vista: al voyeurismo
dell'uomo corrisponde spesso l'esibizionismo della donna (tanto meno
colpevolizzato perché è passivo e giustificato dal desiderio di piacere).
Magda infine parla a Tomek come a una persona. Si stupisce del suo
amore. La sua vita pulsionale la disgusta tanto che non ricorda più il
nome dei suoi amanti. Quando Tomek glieli descrive, lei non riesce
ancora a credergli; aggredisce il giovane, cercando di suscitare il suo
desiderio. Di fatto, aggredisce se stessa: ridotta com'è a essere solo un
corpo per gli sguardi degli uomini, si detesta.
Tomek si mette a piangere. Solo più tardi Magda comprenderà
queste lacrime: Tomek rifiuta di ridurre l'amore al desiderio, e più
ancora, rifiuta di ridurre la donna che ama al suo corpo («Non faccio
altro che pensare a lei»). Quando lui se ne va, lei comprende la logica di
autodistruzione in cui si è chiusa. In un'ansia estrema, Magda
comprende che, per la prima volta nella sua vita, è amata e lo rifiuta
con tutto il suo corpo ferito. Ed è lei a spiare il giovane, febbrilmente,
con un binocolo, e lo chiama: «Torna, scusa!». In sintesi, Magda cerca di
vedere e non più solo di essere guardata. Comprende anche che essere
amata significa scegliere: quando torna un suo antico amante, lo manda
via.
Un amore che salva
Un'inquadratura mirabile è quella in cui Magda scivola lungo un
muro e si ritrova schiacciata sotto il peso del sentimento che la invade:
l'amore. Con questo amore nascono il pudore, la riservatezza, il rispetto
di sé e dell'altro. È simbolico il fatto che, tornando da casa di Tomek, la
giovane donna dorma completamente vestita; quando gli telefona, è
vestita di bianco.
Riferendosi a questo film, Kieslowski affermò: «Il sentimento
amoroso qui nasce da una perversione? D'accordo. Ma il voyeurismo è
legato al desiderio. E il desiderio è uno dei motori dell'amore.
Osservando Magda, Tomek scopre zone della personalità che
raramente sono destinate agli altri. Credeva che Magda fosse forte e
insensibile, e la scopre fragile mentre sta piangendo. Quel
lo che intravede, allora, è un po' della sua verità. E per questo comincia
ad amarla. Il vero protagonista del film è la solitudine. Ci sono molti
vetri tra i personaggi. Ognuno soffre nel suo angolo, poi soffre ancora
per giungere a incontrare l'altro veramente. Prima di essere faccia a
faccia, c'è un prezzo da pagare: quello del vetro rotto. [...]. Dopo le loro
prove, Tomek e Magda sono diventati migliori»
«Avevi ragione... Volevo dirti... Non so più che cosa dirti», balbetta
Magda. Di fronte alla realtà dell'altro, perde le parole e le sue pseudo-
certezze. Tomek potrà riprendersi dallo choc del suo tentato suicidio?
Potrà guarire? Un'intollerabile inquietudine attanaglia la giovane
donna, che vive solo per sapere se Tomek sopravvivrà. Infine, Magda
torna all'ufficio postale; una persona le impedisce di guardare
attraverso lo sportello, frappone un ultimo ostacolo tra lei e la persona
che la ama e che scopre di amare. Tomek è là? La donna sorride; sì. Il
film termina nello stesso luogo in cui è cominciato. Tutto però è
cambiato: il giovane all'inizio divorava la donna con lo sguardo e i suoi
occhi andavano febbrilmente dal suo viso al suo décolleté; il giovane
uomo alla fine dichiara: «Non la guardo più». Tomek è guarito. Il suo
amore ha salvato Magda?

Conclusione
«Sai che è un peccato!», urla una volta Magda a Tomek. La parola
viene pronunciata senza dubbio con ironia e per dispetto, ma
testimonia di una verità. Kieslowski prende l'uomo nel punto in cui si
trova: nel suo peccato. Senza mai essere moralista, il film mostra come
la lussuria sia uno sbaglio perché disumanizza, ma è anche un peccato
capitale: Tomek ruba (il cannocchiale, la posta), mente (chiamando gli
impiegati dell'ente di distribuzione del gas), ecc. Il regista però parte
dal peccato per presentare la liberazione. Racconta l'itinerario simile e
insieme diverso percorso da entrambi i protagonisti: dal voyeurismo al
pudore, dall'esibizionismo al dono, passano dall'intento di appropriarsi

102
al dono, dall'egoismo gaudente all'amore vero concentrato sull'altro.
«Credo che i comandamenti siano incisi profondamente, da sempre,
nell'uomo, anche in chi non crede in Dio», dichiarò Kie- slowski in
occasione dell'uscita di questo film. «Le persone sono da sempre alla
ricerca di un certo ordine, se non altro per bisogno di sicurezza. Il
decalogo costituisce una sorta di manifesto di base dell'umanità, su cui
ci si può accordare. E tuttavia, noi li trasgrediamo continuamente. E ne
soffriamo».

103
CAPITOLO U

L'oro duro dell'avarizia

«Dio ci giudicherà non per quello che avremo dato, ma


per quello che avremo conservato».
Sant'Ambrogio di Milano

«Se Dio non esiste, ho pagato troppo la mia moquette».


Woody Alien

«Il denaro fa tutto». Le Nozze di Figaro, Mozart

Un giovane uomo desidera entrare in un monastero. Il maestro


dei novizi gli pone alcune domande per cercare di comprendere se è
davvero deciso ad abbandonare il mondo:
«Se avessi tre monete d'oro, le daresti ai poveri?».
«Sì, padre, di tutto cuore».
«E se avessi tre monete d'argento?».
«Benvolentieri!».
«E se avessi tre monete di rame?».
«No, padre».
«Perché?».
«Perché le ho!».

Possedere è legittimo. Il problema comincia quando il denaro


o i beni ci possiedono. O ci ossessionano. Come fare di un «cattivo
padrone» un buon servo? La domanda non è di secondaria im-
portanza, in un'epoca in cui il liberismo trionfante rivela successi, ma
anche difficoltà ed effetti perversi. La Bibbia è severa con l'avarizia,
che considera la radice di ogni peccato. Il denaro sfida Dio, perché
diventa un dio. Gesù afferma: «Nessuno può servire due padroni:
perché, o amerà l'uno e odierà l'altro, oppure preferirà il primo e
disprezzerà il secondo. Non potete servire Dio e i soldi» (Mt 6,24).
San Paolo continua: «...la voglia sfrenata di possedere è un tipo di
idolatria» (Col 3,5; cf Ef 5,5).

105
Nella Comunione degli Apostoli, il pittore Luca Signorelli rap-
presenta Giuda nell'atto di far scivolare un'ostia nella sua borsa.
Questa profanazione mostra simbolicamente quanto il traditore
adorasse il denaro. Fu il denaro a indurlo a tradire? Il denaro è il dio
dell'avaro. E se fossimo tanto liberi nei confronti del denaro, ci
risulterebbe così difficile pagare le tasse o le contravvenzioni?

Che cos'è l'avarizia?


Come abbiamo visto, ogni peccato si basa su un desiderio na-
turale, e il desiderio di possedere fa parte delle inclinazioni legit-
time. Come il superbo, il lussurioso e il goloso, l'avaro è peccatore
non perché ama un bene di questo mondo, ma perché il suo amore
per questo bene è smisurato. Il peccato comincia non con il possesso
del denaro, ma con il suo «cattivo uso», avverte Massimo il
Confessore;58 quando il denaro diventa un fine invece che un mezzo.
La lingua italiana, nella sua saggezza, riferendosi a una persona
provvista di beni, dice: «ha i mezzi», non: «ha il fine».

L'ego e l'euro
Una discussione per motivi di precedenza? San Paolo assicura che
«L'attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10). Ma la Bibbia
afferma che all'origine di ogni peccato c'è l'orgoglio (cf Sir 10,13). Chi ha
ragione?
San Tommaso d'Aquino risponde distinguendo: l'orgoglio è la fine dei fini. Tutti i
peccati portano a gonfiare l'ego. La cupidigia è la prima nell'ordine dei mezzi: il
denaro, fulcro della guerra, permette di realizzare tutti i desideri. Dalla serie del
Padrino al recente Traffic, il cinema mostra con grande efficacia che il mondo
della droga lega le tre grandi concupiscenze (1 Gv 2,16) e porta al loro estremo
il sesso,
il denaro, il potere; il denaro serve come espansione del potere.
Quali sono le diverse specie di avarizia?
Si possono distinguere due specie di avarizia:

L'avarizia materiale
Louis de Funès non pagava mai i taxisti. L'attore brillante Pierre

58 Centurie sulla carità, III, 4.

106
Richard racconta: «Aveva infatti osservato che gli autisti, invece di
incassare gli assegni firmati da lui, preferivano conservarli per
pavoneggiarsi esibendoli: "Hai visto? E un assegno firmato da Louis
de Funès!". Risultato: Louis risparmiava».59 Ne aveva davvero
bisogno?
Quello che è vero per il denaro vale anche per ogni sorta di beni
materiali: mobili, auto, abiti, soprammobili, scarpe, francobolli,
vecchi libri... Li si accumula, li si custodisce, li si ricerca in modo
sfrenato, come se potessero placare la cupidigia che ci divora. In
ogni caso, queste diverse forme di avarizia sono radicate innanzi-
tutto nell'amore per il denaro: senza di esso, nessuno di questi beni
sarebbe accessibile. La cupidigia per il denaro sottende tutte le altre
cupidigie materiali. «Se il denaro è il nervo della guerra, l'oro ne è il
muscolo», diceva Pierre Dac.
1 Padri della Chiesa distinguono tre volti di questa avarizia
materiale: l'attaccamento del cuore al denaro, cioè l'avarizia in senso
proprio; il desiderio di acquisire incessantemente nuovi beni, cioè la
cupidigia o avidità; infine, la tenacia nel possesso, cioè l'assenza di
generosità.

Giocare d'azzardo è peccato?


Lotto, Bingo, Totocalcio, Superenalotto... Giocare significa fare cattivo uso del
denaro? «I giochi d'azzardo (a carte, ecc.) o le scommesse non sono di per sé
contrarie alla giustizia», risponde il Catechismo della Chiesa Cattolica.
«Diventano moralmente inaccettabili quando privano la persona di ciò che le è
necessario per soddisfare le sue necessità e quelle altrui. La passione per il
gioco rischia di diventare una grave forma di schiavitù. Scommettere
ingiustamente o barare nel gioco costituisce materia grave, a meno che il danno
inflitto sia

59 Pierre Richard, in Télérnmn n. 2452,8 gennaio 1997, p. 19.

107
così leggero che chi lo subisce non possa ragionevolmente considerarlo non
significativo» (n. 2413).

L'avarizia spirituale
La possessività non si limita al denaro; può riguardare:
• Il tempo. Certe persone non sopportano di essere disturbate
senza essere avvertite con molto anticipo. Esiste un'avarizia del
proprio tempo, della propria intelligenza, delle proprie forze. Ri-
ferendosi al padre di Eugénie Grandet, Balzac affermava che «dava
l'impressione di economizzare tutto, anche i movimenti». Al
contrario, santa Teresina del Bambino Gesù offriva momenti del suo
tempo perché Dio ne disponesse a sua discrezione.
• I servizi. Nella vita associativa e nella vita politica ci sono
volontari che non riescono ad «appendere i guanti al chiodo» per
lasciare spazio ai giovani. Nell'ambito del volontariato, capita spesso
di incontrare persone molto generose che diventano proprietarie
della loro responsabilità. Anche nella Chiesa, in cui molti cristiani si
attaccano ai loro servizi e ai loro piccoli poteri come
il falco alla sua roccia. Un sacerdote diceva: «Ci sono volontari che
danno tutto... salvo le loro dimissioni». Questa possessività genera
disagio, irritazione, impazienza. San Francesco d'Assisi lo de-
nunciava spesso.
Facciamo una prova: opponiamo resistenza (poniamo condizioni
del tipo: «Io sono pronto ad andarmene, ma non pensate che sarebbe
opportuno un momento di riflessione ?») quando ci viene
domandato di abbandonare i remi, di lasciare un dato servizio? Se
sì, pratichiamo un utile esercizio: ogni anno, rimettiamo
esplicitamente il nostro incarico nelle mani del responsabile.
• La stessa vita spirituale. San Giovanni della Croce sapeva
individuare nei fedeli questi segni di cupidigia spirituale: ad
esempio, fa riferimento a quelli che sono «insaziabili di direzione, di
libri che trattino argomenti spirituali». E precisava: «In questo
io deploro l'attaccamento del cuore, l'importanza attribuita alla
foggia o al numero o alla bellezza degli oggetti, cose molto contrarie
alla povertà di spirito [...]. Conosco una persona che per più di dieci
anni si è servita di una croce realizzata grossolanamente con due
rami benedetti fissati con una spilla ricurva. L'aveva por-
tata sistematicamente su di sé, senza lasciarla, fino al giorno in cui

108
gliela tolsi. Ed era un uomo di grande giudizio e serio». 60

In che cosa è un peccato capitale?


Dobbiamo al cardinale Scipione Borghese lo splendido parco che,
a Roma, porta il suo nome. Il cardinale Borghese fu uno tra i più
grandi collezionisti di tutti i tempi, ma anche uno fra i meno
scrupolosi. Quando desiderava una scultura o un quadro, tutti i
mezzi per raggiungerlo gli sembravano buoni, compresi i più di-
spendiosi (come per L'Amore profano e l'Amore sacro di Tiziano) o i
più disonesti (come per la Caccia di Diana del Domenichino): furti,
ricatti, minacce. Il cardinale aspirava al cielo con la stessa frenesia?
In un momento più vicino a noi, il 2 dicembre 2001, l'America
subì la più grave bancarotta della sua storia. Sessanta miliardi di
dollari furono bruciati nella bancarotta fraudolenta del colosso
energetico Enron, pupillo di Wall Street, modello del neocapitalismo,
colosso dai piedi d'argilla! Approfittando della deregulation del
mercato statunitense dell'energia, l'azienda proponeva una vendita a
prezzi fissi. Poiché l'andamento era spesso più alto del prezzo di
vendita, i dirigenti della Enron, per non spaventare i loro azionisti,
non smisero di acquistare, con azioni sopravvalutate, decine di
società che gonfiavano artificialmente gli attivi. I banchieri, i
contabili, gli specialisti della famosa agenzia Arthur Andersen,
società di rating finanziario stimata per il suo rigore, non vollero né
vedere, né dire nulla. Alcuni mascherarono addirittura l'inganno. In
particolare, i dirigenti vendettero le azioni al prezzo più alto ben
sapendo che non valevano più nulla. I dipendenti e gli azionisti che
avevano accordato loro fiducia persero il loro capitale. Gli uni si
ritrovarono senza lavoro, gli altri rovinati. L'allettamento del
guadagno e del potere diede origine a menzogna, dissimulazione
(una tonnellata di documenti fatti sparire!), viltà, ingiustizia e
tradimento. La rovina dell'azienda Enron causerà quella dell'Arthur
Andersen.
Secondo Gregorio Magno, sono figli dell'avarizia l'insensibilità di
cuore, come quella del ricco del Vangelo indifferente nei confronti
del povero Lazzaro che piange alla sua porta (Le 16,19- 30);
l'inquietudine nel possesso, come il ciabattino della favola di La
Fontaine; la violenza nell'appropriazione (quante famiglie unite si

60 La Notte oscura, L. 1, c. 3, n. 1 e 2.
109
disgregano in occasione di un'eredità?); il furto e anche il tradimento
(Giuda Iscariota che tradisce il suo maestro per trenta denari). Per
non parlare della tristezza: «... ché tutto l'oro ch'è sotto la luna/e che
già fu, di quest'alme stanche/non poterebbe farne posare una»,
scrive Dante riferendosi agli avari.61 «Chi ama il denaro non sarà mai
soddisfatto», ricorda la Bibbia (Qo 5,9).
Infine, l'avarizia è una palla che appesantisce il cuore. Ritarda la
conversione, il cambiamento di vita, impedisce l'adesione a Dio. Nel
Vangelo, un giovane, animato da un grande desiderio di perfezione,
incontra Gesù. Il Maestro posa sul giovane uno sguardo pieno
d'amore e risponde alla sua domanda: «Per essere perfetto, vai a
vendere tutto quello che hai, e i soldi che ricavi dalli ai poveri...». Ma
dopo aver ascoltato queste parole, il giovane se ne andò via con la
faccia triste, perché era molto ricco. Allora Gesù disse ai suoi
discepoli: «Vi assicuro che difficilmente un ricco entrerà nel regno di
Dio» (Mt 19,16-23).

San Paolo denuncia la cupidigia


In una delle sue lettere, san Paolo ci offre un quadro breve ma avvincente delle
conseguenze della cupidigia (1 Tm 6,9-10):
a) la dipendenza e l'assuefazione che alienano: «quelli che vogliono diventare
ricchi cadono nelle tentazioni, sono presi nella trappola di molti desideri stupidi e
disastrosi»;
b) la sofferenza: «si sono tormentati da se stessi con molti dolori»;
c) l'abbandono dei doveri del proprio stato (qui: la rovina e la perdizione);
d) infine, la perdita dell'unione con Dio: «sono andati lontani della fede».

L'avaro distrugge anche la sua famiglia. Marie, 42 anni, racconta:


«Nella mia infanzia, sono stata privata dei corsi di danza, che amavo
tanto, perché non avevamo i mezzi per pagarli. Diventata adulta,
scoprii che mio padre era appassionato di filatelia e che aveva speso
somme colossali per soddisfare la sua mania. Mi ci volle del tempo
perché riuscissi a perdonarlo». L'avaro è capace di limitare le spese
su tutto, salvo che su un suo hobby, in cui la sua prodigalità è
illimitata.
La cupidigia ha effetti distruttivi su scala nazionale. In Brasile,
l'80% delle terre appartengono al 10% della popolazione. Le ric-
chezze di molti paesi africani e di altri continenti sono saccheggiate

61 La Divina Commedia. Inferno, Canto VII, vv. 64-66.


110
da alcuni despoti. In Italia, la cupidigia non è assente da alcuni
scandali, nell'ambito sanitario, o nel campo politico, come per
Tangentopoli.
Che dire degli effetti distruttivi su scala mondiale? Il fenomeno
della globalizzazione invita a interrogarsi. Se, come dice Giovanni
Paolo II, «l'economia di mercato è un mezzo per rispondere in modo
adeguato alle necessità economiche delle persone, sempre
rispettando la loro libera iniziativa»,62 lasciata a se stessa, senza
regole etiche, una globalizzazione strettamente economica è facile
preda di tutte le avidità e di tutti gli interessi.
Le conseguenze sono ormai evidenti: la globalizzazione imposta
ai consumatori, che soppianta le decisioni prese dai cittadini;
l'aumento del numero delle vittime di nuove forme di esclusione
o di emarginazione; la standardizzazione, cioè la scomparsa delle
particolarità culturali: è quella che alcuni definiscono (Coca)cola-
nizzazione.
Infine, non sono solo le persone a soffrire per la rapacità di molti,
ma ne soffre anche la natura. Alcuni secoli fa, la Spagna era coperta
di foreste. Questo Paese fu disboscato per cupidigia: l'oro del Perù
determinò un eccessivo sviluppo delle greggi, che distrussero le
foreste. Quanti siti naturali nel mondo sono violati e danneggiati per
procurare profitti immediati? Non è la ricchezza a essere perversa,
ma i suoi eccessi; le conseguenze negative ne sono il segno.

62 Enciclica Centesimus Anmts, 1° maggio 1991, n. 34.


111
Un «arricchimento apoplettico»
Le cifre sono note: malgrado una forte crescita nei Paesi in via di sviluppo, il
20% dei 6 miliardi di abitanti della Terra sopravvivono con meno di un dollaro al
giorno; nel Sud del mondo, un bambino su quattro soffre di malnutrizione; il
reddito medio prò capite in Africa si è drammaticamente ridotto a partire dagli
anni '60. Nel 1998, le 350 persone più ricche del pianeta presentavano un
patrimonio superiore al reddito annuale complessivo di circa metà della popola-
zione del globo.
Oggi assistiamo a un «arricchimento apoplettico», per usare l'espressione del
giornalista Jean-Claude Guillebaud, che invita a interrogarsi su questa
«patologia dell'accumulo». Il saggista scrive: «Non per trovare chissà quale
accento vendicativo o "fautore dell'uguaglianza sociale". No, solo per cercare di
comprendere il significato di questa febbre di accumulare. Perché? Perché è
significativa, di per sé, di quello che il sociologo Emmanuel Todd definiva
giustamente "malattia dell'anima", che è anche una "malattia sociale"».
In un saggio recente che critica la «mitologia del capitalismo», anche il filosofo
Pascal Bruckner dimostra che «le disparità non sono mai state così forti su una
base di arricchimento spettacolare». Analizza il «ritorno di un capitalismo duro,
spietato con gli inutili, che moltiplica gli impieghi sottoqualificati e poco
remunerati, un sistema tanto più brutale perché non è più attraversato dalla
prospettiva di un futuro migliore».63 Gli oracoli ottimistici degli economisti i qua
li predicevano che la crescita avrebbe di per sé eliminato la povertà, si sono
rivelati inconsistenti e non si sono avverati. Pascal Bruckner continua: «Qualche
anno fa, il guru del management Peter Drucker riteneva che il rapporto
tollerabile delle remunerazioni (stipendi) dovesse situarsi in una scala massima
da 1 a 20. In certe imprese invece, ai nostri giorni, oscilla da 1 a 150».

Come si dissimula l'avarizia?


Il peccato acceca. E l'avaro si protegge innanzitutto giustifican-
dosi. Già nel XVI secolo, san Francesco di Sales constatava che la
gente non confessava di essere avara: «Ci si scusa con il pretesto dei
figli che richiedono risorse, della saggezza che suggerisce di
acquisire un minimo di beni: non si ha mai troppo, si trova sempre la
necessità di avere di più».64 Nel XX secolo, il disegnatore Sempé ha
tratteggiato una signora piccola, inginocchiata in una chiesa, che

63 PASCALBRUCKNER, Misere de la prospérité, Grasset, 2002. 120


64 Introduzione alla vita devota, L. Ili, c. 14.
pregava così: «Signore, io non domando nulla per me. Gisèle, però,
mi deve 4.500 franchi. Se avesse la possibilità di restituirmeli,
sarebbe meglio». Il peccato qui non sta nel diritto, del tutto legittimo,
di reclamare ciò che è proprio, ma nell'ipocrisia del falso distacco.
D'altra parte, l'ossessione per il denaro o per altri beni è spesso
causata da una ferita subita durante l'infanzia. La frustrazione di
beni per l'avaro è dolorosa come la privazione di cibo per il goloso.
«Ne sono stato privo troppo a lungo!», si sente dire a volte.
Il denaro riguarda il nostro rapporto con la sicurezza, che è uno dei
bisogni fondamentali dell'uomo. Si può invertire il proverbio: «A
padre prodigo, figlio avaro».
Lungi da noi l'intenzione di scusare le ingiustizie compiute da
certe persone affermando: «Poverino, ha subito carenze da piccolo!».
Ma in definitiva, l'avidità di certi miliardari contemporanei non può
essere spiegata anche da ragioni psicologiche? Non si ravvisa forse
una patologia nel fatto che certi Cresi desiderano possedere 10.000 o
20.000 volte più di quanto una persona possa spendere in una vita?
Dopo aver tentato molte spiegazioni, nessuna delle quali sembra
adeguata (appetito di potenza? volontà di acquisire una forma di
grande rispettabilità per la maestà del conto in banca? riflessi da
borghese-gentiluomo che cerca di sostituire con il denaro, solo con il
denaro, qualità o forme di nobiltà umana di cui sa di essere
sprovvisto?...), Jean-Claude Guille- baud conclude, in ultima analisi:
«Gli antropologi hanno dimostrato più volte che alcuni cercano di
rispondere con l'ossessione per i beni, in mancanza di meglio, alla
paura della morte. [...] Le forme maniacali di risparmio, la
tesaurizzazione, la bulimia monetaria: esistono forse sintomi più
chiari di una oscura paura nei confronti del futuro, cioè della morte?
[...] Così, con il paradosso più stravagante, queste enfasi aritmetiche,
queste fortune smisurate, costituiscono l'elemento speculare
dell'esclusione sociale che, all'altro capo della catena, colpisce
milioni di persone. Questa avidità racchiude in qualche modo in se
stessa un simbolo chiaro della paura e della vanità».

Come riconoscerla?
Siete avari «se desiderate a lungo, ardentemente e con inquie-
tudine i beni che non avete», assicura san Francesco di Sales nella
sua Introduzione alla vita devota.

113
Desiderare a lungo
«Dare, è una parola per cui prova tanta avversione, che non dice
mai "Le do", ma "Le presto il buongiorno"», dice La Flèche
riferendosi al suo avaro Arpagone. 65 L'avaro teme costantemente di
non possedere abbastanza; dunque, esita sempre a dare. E se dà, il
suo spirito elabora conti. Arpagone non smette mai di pensare,
parlare, contare e ricontare i soldi della sua cara cassetta.

Desiderare ardentemente
Nel desiderio di denaro vi è un che di infinito. Se ne vuole
sempre di più! «Tutte le persone che possiedono in abbondanza si
considerano ancora troppo povere», sottolinea con finezza san-
t'Ambrogio.66 Negli ultimi cinquant'anni, il nostro potere di acquisto
si è sestuplicato; tuttavia, non ci siamo mai sentiti così carenti... Uno
studio statistico ha dimostrato che la maggior parte dei dipendenti
ritiene di dover avere un aumento del 20% almeno, per vivere
tranquillamente; questa percentuale è più o meno costante per ogni
tipo di stipendio percepito! In altri termini, non abbiamo mai
abbastanza.
I Padri della Chiesa vedevano in questa cupidigia insaziabile una
vera piaga. San Giovanni Crisostomo denunciò con vigore questa
«bulimia dall'anima» che soffoca i cristiani: «più si rimpinza di
alimenti, più desidera. Porta sempre i suoi desideri al di là e oltre di
ciò che possiede».67

Il XX secolo, secolo dell'avarizia?


Nella sua antologia letteraria sui sette vizi capitali, Sébastien Lapa- que scrive:
«È possibile cercare di attribuire a ogni secolo un vizio capitale. Nel XVI secolo,
tempo delle guerre di religione, regnava l'ira. Nel XVII secolo, con l'apogeo della
monarchia assoluta, imperava la superbia. Nel XVIII, epoca del trionfo del
libertinaggio, era in auge la lussuria. Nel XIX secolo, èra delle rivoluzioni
ugualitarie, è stato il momento dell'invidia. E nel XX secolo? [...] L'avarizia si
adatta molto bene a questo secolo, in cui il denaro non ha mai smesso di
aumentare, di circolare, sempre più assordante e immateriale. Il XX secolo è
stato un secolo avaro e si comprende facilmente che dietro a tante guerre,
massacri e catastrofi si è nascosta la cupidigia. [...] Dopo il crollo di tutti i valori,

L'Avaro, Atto II, scena 4.


65MOLIÈRE,
66 Nabot il povero, 50.
67 Omelie
su 2 Timoteo, VII, 2.
114
questo secolo ha riconosciuto solo più il valore del denaro. Una ricchezza che
non si condivide, senza doveri da parte degli opulenti, senza inferno per i ricchi
cattivi, ha cancellato ogni concorrenza...».
Se il XX secolo è stato caratterizzato dall'avarizia, il XXI sarà il secolo
dell'accidia? La risposta alle pp. 209-210.

Desiderare con inqnietndine


Il taccagno non mette più la sua sicurezza in Dio, ma nei suoi
averi. L'avaro è inquieto, ansioso, sempre e sistematicamente. «Il
ricco, anche quando non soffre alcuna perdita, ha paura di soffrirne»,
spiega san Giovanni Crisostomo. 68 Un altro Padre della Chiesa scrive
che, una volta acquisita la ricchezza, rimane «l'inquietudine di
conservare tutto ciò che è stato acquisito con tanta fatica».69 San
Francesco d'Assisi temeva tanto questa «febbre dell'oro» che proibiva
ai suoi confratelli di toccare la benché minima monetina.
È difficile che un cristiano faccia dell'accumulo di denaro il fine
della sua vita, passi giornate a fare operazioni di borsa o a
scommettere il suo stipendio alle corse. E però più frequente di
quanto si creda, che ne faccia la sua prima preoccupazione. E a furia
di preoccuparsene, il denaro si accaparra lo spirito. Un giorno,
prende insidiosamente il primo posto; questa è una caratteristica
dell'idolo.70
Vi è un altro modo, più sottile, di lasciarsi sedurre da Mammona,
il dio del denaro: il risparmio per evitare l'insicurezza. Il denaro è
investito affettivamente come una garanzia per il futuro. Questo
accaparramento è contrassegnato dal timore, e il nostro
atteggiamento non è più caratterizzato dall'abbandono nelle mani di
Dio. Cristo ha denunciato questa illusione mortale in una parabola
(cf Le 12,16-21) e san Paolo raccomanda: «Non angustiatevi di nulla»
(Fil 4,6).
Jean Pliya71 esclama: «Come deve rattristarsi lo Spirito Santo,

68 Omelie sulla Lettera ai Romani, XXTV, 4.


69 Considerazioni morali su Giobbe, VI, 19.
70 Beninteso, non parliamo qui delle persone prive di risorse materiali. Padre Joseph

Wresinski, fondatore dell'Associazione francese ATD-Quart-Monde, ha affermato che


queste persone sono ossessionate dalla preoccupazione per il denaro non per avarizia, ma
perché ne sono crudelmente carenti. Padre Wresinski ha affermato: «La povertà ha due
nemici: la ricchezza e la miseria». E anche: «Perché una democrazia sia giusta, è necessario
che tutte le leggi siano pensate in funzione dei più poveri».
71 Jean Pliya, Donner comme un enfant de roi, F. X. de Guibert, 1993, p. 113.

115
vedendo i nostri pensieri assoggettati al denaro». Questa tristezza a
volte rasenta la prostrazione, quando dimentichiamo il consiglio
della Bibbia: «Non affannarti per arricchire, togliti dalla testa questo
pensiero» (Prv 23,4).

La prova del distacco


Jean Pliya, nel suo libro Donner comme un enfant de roi, propone una prova
pratica per verificare se il denaro domina i nostri pensieri: «Quali sono le mie
reazioni quando, dopo aver acquistato un articolo, trovo lo stesso oggetto a un
prezzo molto più basso in un altro negozio, o quando mi faccio bidonare in un
affare o sono vittima di un furto? Mi lamento e rumino per giorni la mia
delusione esprimendo rammarico? Oppure mi rivolgo al Signore per lodarlo per
ciò che mi è accaduto, e per il commerciante che ha guadagnato?
Se, invece, dopo aver acquistato un artìcolo, scopro che altrove costa molto più
di quanto l'ho pagato, giubilo con un senso di grande soddisfazione e provo il
desiderio di raccontare a tutti i miei amici la fortuna che mi è toccata?».

Come rimediare?
I rimedi si riferiscono ai due versanti dell'avarizia, a seconda che
si persegua il denaro come origine di ogni sicurezza o come fine di
ogni possesso. In entrambi i casi, si tratterà di lavorare in positivo
(integrare il giusto amore per il denaro) e in negativo (praticare la
rinuncia).

Non trascurare questo vizio


«Badate di tenervi lontano dal desiderio delle ricchezze», rac-
comanda Gesù (Le 12,15). Giovanni Cassiano afferma: «Nessuno
consideri la malattia deH'avarizia poco degna di considerazione.
Chiunque abbia ceduto una volta alla concupiscenza di una piccola
somma di denaro e abbia permesso all'avarizia di radicarsi nel suo
cuore, non può non essere infiammato presto da un desiderio più
violento».72
Gli Ebrei spesso ridono di se stessi, come testimonia questa storia:
«Dio propose i suoi comandamenti a molti popoli. Tutti rifiutarono
precetti così impegnativi, per esempio i Caldei si mostrarono
interessati, ma quando seppero che era proibito il furto cambiarono
idea; gli Egiziani furono scoraggiati dal divieto di commettere

72 Istituzioni cenobitiche, VII, 20.


116
adulterio e i Siriani si sorpresero della richiesta di non desiderare la
roba d'altri... Quando Dio arrivò agli Ebrei, questi gli domandarono
diffidenti: "Quanto costano?". "Nulla", rispose Dio. "Allora, ne
prendiamo dieci!"».

Ricordare l'origine del possesso dei beni


II denaro e i beni non provengono da noi e non sono per noi.
Certo, sono dovuti al nostro lavoro, ma, in definitiva, provengono da
Dio. Il curato d'Ars afferma: «L'avaro è come un porcello che mangia
ghiande senza sollevare la testa per scoprire da dove provengano». 73
Cerca dov'è il tuo tesoro... perché «là c'è anche il tuo cuore» (Mt
6,21). San Francesco di Sales propone questa immagine: «Gli alcioni
fanno il loro nido alto come una palma, e lasciano solo una piccola
apertura verso l'alto; lo costruiscono presso le rive del mare e lo
realizzano così chiuso e impenetrabile che l'acqua delle onde non
può mai entrarvi [...] Il vostro cuore deve essere così: aperto solo al
cielo e impenetrabile alle ricchezze e alle cose caduche».74

Praticare la sobrietà
Beato chi «si contenta di quel che ha. Perché non abbiamo portato
nulla in questo mondo e non potremo portar via nulla» (1 Tm 6,6-7).
E poiché l'attività professionale è il primo mezzo di remunerazione,
sappiamo anche mettere un freno alla nostra cupidigia onorando il
riposo di cui abbiamo bisogno, in particolare quello della domenica.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: «Il sabato sospende le
attività quotidiane e concede una tregua. E un giorno di protesta
contro le schiavitù del lavoro e il culto del denaro» (n. 2172).

Praticare la fiducia
Dietro il bisogno di sicurezza, spesso si nasconde un'inconfes-
sata mancanza di fiducia, persino una disperazione della Provvi-
denza. Ma la tesaurizzazione è una sicurezza illusoria. Il Vangelo
racconta la storia di un uomo che accumula ricchezze. Gesù con-
clude: «Stolto! Proprio questa notte dovrai morire, e a chi andranno
le ricchezze che hai accumulato?» (Le 12,20). Pochi versetti prima,
Cristo diceva: «Badate di tenervi lontano dal desiderio delle
ricchezze, perché la vita di un uomo non dipende dai suoi beni,

73 Jean-Marie Vianney, Pensées, op. cit., p. 163.


74 San Francesco DI Sales, Introduzione dilavila devota, L. Ili, c. 14.
117
anche se è molto ricco» (Le 12,15).
Tuttavia, l'abbandono alla Provvidenza non è mai stato sinonimo di
imprevidenza. Occorre non solo prudenza (economizzare
per i futuri studi dei figli), ma anche giustizia (evitare il più possibile
di essere a carico dei propri concittadini).

Ricordare il fine del possesso dei beni


Il denaro e i beni non sono destinati solo a chi li ha guadagnati. Il
Concilio Vaticano II afferma: «L'uomo, nell'uso che ne fa, non deve
mai considerare le cose che possiede legittimamente come beni che
appartengono solo a lui, ma deve considerarli anche come comuni,
nel senso che possano essere utili non solo a lui, ma agli altri». 75 Il
Catechismo della Chiesa Cattolica commenta: «La proprietà di un bene
fa di colui che lo possiede un amministratore della Provvidenza, per
farlo fruttificare e comunicarne i benefici ad altri, e prima di tutto al
suo prossimo» (n. 2404).

Praticare la generosità
Diamo senza aspettarci un contraccambio, senza ritardo e senza
restrizioni. La Bibbia lo ripete incessantemente: «Non ritardare a
offrirmi i raccolti del tuo campo e i prodotti del tuo frantoio» (Es
22,28); «Date gratuitamente» (Mt 10,8); «Date agli altri e Dio darà a
voi [...] Con la stessa misura con cui voi trattate gli altri Dio tratterà
voi» (Le 6,38).
I ministri di Dio, nella sua Chiesa, sono tra i beneficiari di questo
dono. L'Antico Testamento domanda di versare a Dio la decima, cioè
un decimo delle entrate (e non degli utili!) (MI 3,6-12). Questa
indicazione è preziosa. Ma l'entità del proprio dono alla Chiesa deve
essere fissata innanzitutto per gratitudine nei confronti di Cristo
salvatore.

Dare, in particolare ai poveri


Nella parabola del «ricco epulone», la Bibbia attribuisce un nome
al povero (Lazzaro), ma non al ricco (Le 16,19-30). L'esistenza di
quest'ultimo si riduce a quella dei suoi beni? Alcuni artisti che hanno
illustrato questa parabola 76 hanno rappresentato quest'uomo a

75 Ganci itati et Spes, 69,1.


76 In particolare un manoscritto del Nuovo Testamento in latino, risalente al XIII secolo
(Vat. Lat., 39, Biblioteca Apost. Vat., folio 57v e 58r).
118
tavola, intento a guardare Lazzaro che si trova alla sua por

119
ta. Sottolineano così la responsabilità del ricco che sa e non fa. La
pena sarà terribile: il ricco agonizzerà in eterno nella tristezza
bruciante dello sheol; Lazzaro vivrà felice nel seno di Abramo.
Alcuni consigli pratici per dare a chi chiede: avere un po' di
denaro in tasca; se i questuanti sono troppo numerosi, fissare in
anticipo il numero di persone a cui si darà qualcosa; dare senza
giudicare («Non a lui, che andrà a berseli...»); dare, soprattutto,
offrendo se stessi, con un sorriso o una parola (che potrebbe essere:
«Mi dispiace, ma oggi non posso darle nulla»). Infatti, come dice
Pierre Dac, «Se il modo di dare vale più di ciò che si dà, il modo di
non dare non vale nulla».

Il «sapone» di san Basilio


In una vigorosa omelia sulla ricchezza, san Basilio di Cesarea strapazza
letteralmente il «ricco» che si nasconde davanti al povero: «Tu che sei ricco e
respingi il povero, come dovresti essere riconoscente verso il povero, tuo
benefattore; come dovresti essere felice e fiero dell'onore che ti viene fatto,
perché tu non hai bisogno di andare a bussare alla porta altrui, dato che sono
gli altri a rivolgersi alla tua. Ma tu sei scontroso e inaccessibile; eviti l'incontro
per non essere obbligato a lasciar cadere la più piccola elemosina. Conosci
solo una parola: "Non ho nulla, non darò nulla, perché sono povero". Sì, tu sei
povero, non possiedi alcun bene: sei povero d'amore, povero di bontà, povero
di fede in Dio, povero di speranza eterna».77

Essere concreti nel dono


Perché non riflettere, all'inizio dell'anno, sulla parte del proprio
bilancio che si intende destinare ai vari ambiti della vita? È
l'occasione per stilare un bilancio dei propri beni: quello che non è
stato usato per un anno, o addirittura di più (abiti, utensili, mobili,
auto, ecc.) è veramente utile?
Sant'Ignazio di Loyola, nelle sue «Regole da seguire nella di-
stribuzione delle elemosine», propone l'esempio di «San Gioacchino
e sant'Anna che, ogni anno, dividevano in tre parti i loro beni: ne
davano una ai poveri, destinavano la seconda al servizio del Tempio
e al culto divino, e infine riservavano la terza alle loro necessità». 78

Ribaltare le prospettive
Invece di promettere: «Darò quando mi sarò assicurato il ne-

77 San Basilio di Cesarea, Omeìia sulla ricchezza (su Le 12,18), 6,3,6.


78 Sant'Ignazio di LOYOLA, Esercizi spirituali, nn. 338-344.
cessario», il che non accadrà mai, perché le urgenze contingenti
divorano i migliori propositi, è meglio dire: «Riservo al Signore la
tale percentuale delle mie possibilità finanziarie».
Questa esigenza non dispensa nessuno. Benoît Joseph Labre,
santo pellegrino del XVIII secolo, che terminò la sua vita di vaga-
bondo mistico nelle vie di Roma, condivideva le elemosine che ri-
ceveva con i suoi fratelli senzatetto. È possibile educare i bambini
alla condivisione incoraggiandoli a offrire una parte della loro pa-
ghetta, quando cominciano a riceverla, a un'opera buona, o a
prendere l'abitudine di compiere un gesto di carità concreta. I celibi
(anche se fossero soggetti a maggiori imposte da parte dello Stato),
come i consacrati, non sono esentati dalla legge comune del dono.
Nell'Antico Testamento, viene chiesto ai sacerdoti di versare «la
decima della decima» (Nm 18,28-29). Si può possedere poco ed
essere ripiegati sui propri modesti averi; si può possedere molto ma
vivere in generosità e fiducia.

S'impara a resistere alla tentazione


Come educare i bambini a non volere «tutto e subito» e a controllare il desiderio
di avere? Questo richiede pazienza e coraggio.
Due bambini (di 3 e 5 anni) che erano stati affidati alla nonna per qualche
giorno, si recarono con lei in un grande magazzino. «Nonna, comprami questo!
Nonna, comprami quello!», ripetevano incessantemente. «No», rispose risoluta
la nonna. «Non sei gentile. Quando andiamo al supermercato, la mamma ci
compra sempre qualcosa», replicarono i nipotini, «lo non so che cosa faccia la
vostra mamma, ma so che cosa faccio io: non vi compro giocattoli. Decidete voi:
se volete venire di nuovo a fare la spesa con me domani, non dovete
domandarmi più nulla. Adesso, se volete, potete andare a guardare i giocattoli.
Però sappiate che non ve li compro», concluse la nonna. «Grazie, nonna!»,
dissero i nipotini. E tornarono a fare la spesa con lei il giorno dopo, senza
chiedere nulla.
La nonna in questione ha educato i suoi nipotini a resistere alla tentazione della
cupidigia, evitando tre trappole: cedere alla richiesta dei bambini per paura di
dare loro un dispiacere; cedere al loro tentativo di manipolazione (precoce!)
ponendosi a confronto con la mamma dei bambini e giudicandola; irrigidirsi
impedendo loro di tornare a fare la spesa con lei e privandoli di questa gioia. Il
«grazie» dei bambini e il fatto che siano tornati con lei al supermercato il giorno
dopo mostrano che l'atteggiamento della nonna è stato giustamente compreso.

121
Meditare sulla croce
La Passione è un impoverimento sempre maggiore. Gesù ac-
consente a essere spogliato dei suoi abiti, in particolare della tunica
senza cuciture, tessuta d'un solo pezzo, che indossava (Gv 19,23).
Abbandona ogni dignità nell'abbigliamento e anche la ricchezza
incomparabile che è il sostegno dell'amicizia umana: Pietro,
Giacomo e Giovanni dormono mentre lui agonizza nel Getsemani
(Mt 26,36-46), e i discepoli «fuggirono tutti» (Me 14,50). Gesù è anche
privato della consolazione di suo Padre, come testimonia il suo grido
straziante: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» (Me
15,34).
La croce ci guarisce dal nostro attaccamento smisurato ai beni
terreni e ci salva da tutte le nostre cupidigie indebite. Testimonia
anche della generosità infinita di Gesù: dando la vita per noi, Egli ha
dato tutto (cf Gv 15,13); lui, che era ricco, si fa povero per arricchirci
della sua povertà (cf 2 Cor 8,9).

Conclusione
«Il denaro è un buon servo, ma un cattivo padrone», dice
Françoise Sagan. Se preferiamo riferimenti più «celesti»: non siate
come i farisei, «amici del denaro» (Le 16,14), ma piuttosto, usate il
denaro per «farvi amici» (Le 16,9).
Dopo aver elencato gli effetti devastanti della passione per il
denaro, san Giovanni Climaco consiglia un buon rimedio: «Un

122
piccolo fuoco basta a bruciare molta legna; e con l'aiuto di una so-
la virtù, si sfugge a tutte le passioni di cui abbiamo parlato. Questa
virtù si chiama distacco: è generata dall'esperienza e dal gusto di Dio
e dal pensiero che si dovrà rendere conto nel momento della
morte».79 Ponendoci di fronte all'infinito, la morte riporta i conti a
zero.
La T@ttica del diavolo

Vago sul denaro

«Allora, mio caro figliolo, grazie per le notizie del tuo stage da
Banco, Sicave e Chourave, i nostri agenti di cambio... che danno bene
il cambio, vero? Il loro primo investimento frutta immediatamente:
si tratta, come per gli altri peccati, di confondere le frontiere, rendere
elastici i limiti... e ampliarli. Sii dunque vago sul denaro! L'avarizia,
oggi, si riduce a una vaga mancanza di generosità? Beh, non è
grave... La maggior parte dei cattolici ha a questo proposito una
coscienza elastica. E quale sacerdote andrebbe a ricordare che essere
assillati dal denaro fa parte di quello che Q.D.D. definisce un peccato
capitale?
Capitale? Investi a lungo termine, figliolo. Fa' in modo che il tuo
cliente si preoccupi per il futuro. Soprattutto, nessuno si premuri di
mostrargli che non gli è mai mancato nulla, e che Q.D.D. si è sempre
occupato di lui. Se uno dei cattolici della sua cerchia gli parla di
fiducia nella Provvidenza, attinga al buon senso: "Essere cristiani
significa non essere né ottimisti, né pessimisti, ma realisti". Oppure
potrai ispirargli questa replica: "Sai, io sono un essere umano, non
pretendo di essere un santo!". In più, il tuo cliente crederà di dare
prova di umiltà!
Fa' in modo che il suo bancario di fiducia o il suo consulente
finanziario sia ansioso o non gli ispiri una gran fiducia. Il tuo cliente
perderà così tempo prezioso ed energie considerevoli a riprendere

79 La Scala Santa, sedicesimo gradino, n. 26.


informazioni sulla borsa, a verificare l'entità dei suoi averi, a
inquietarsi per i suoi conti, a rodersi il fegato. Così, sarà tanto
appesantito da non poter procedere... verso Q.D.D. Quando il tuo
cliente vorrà confrontare il tempo che dedica ai suoi affari con quello
che riserva alla sua famiglia o alla preghiera, instillagli questa
convinzione: "È dovere del mio stato, devo gestire". Risponderà così
a sua moglie, se questa gli richiede un po' di attenzione. Gestire: io
adoro questa parola!
In tutto questo, non dimenticare i figli. A tavola, si parli di de-
naro, di movimenti finanziari, di economia, di speculazioni, di
valori, di preoccupazioni per "costruire il futuro". Ben presto, i figli
conosceranno le leggi del mercato meglio di quelle del catechismo, e
le obbligazioni più dei comandamenti. La Borsa sarà la loro vita.
L'unica conversione che li attirerà sarà quella dei tassi di cambio.
Q.D.D. ha detto: "Io sono Colui che sono". Il tuo cliente dirà: "Io sono
colui che ha".
Sii scaltro, caro mio. Non è imbarazzante che il tuo pupillo dia
qualcosa, di tanto in tanto. Al contrario, questo annulla il suo senso
di colpa. Ma fa' in modo che lo faccia sapere e che offra solo a
persone piene di riconoscenza o ad amici pieni di gratitudine. Non
fargli comprendere che così è stato ricambiato. Lo manterrai nella
totale illusione sulla sua pretesa generosità.
Aggiungi un pizzico d'invidia. Nulla può incrementare di più
l'ossessione per ciò che gli manca. Il confronto è la radice dell'in-
vidia. Se il tuo cliente ha la possibilità di frequentare, tramite il la-
voro, la scuola dei bambini o la parrocchia, qualche persona agiata,
le cui disponibilità economiche siano evidenti, finirà per pensare:
"Certo che la vita sarebbe più gradevole se si avessero più mezzi". Il
tuo cliente diventerà così prudente e previdente. Accumulerà
somme che non userà, ma... "non si sa mai". Io vado matto per questa
piccola frase che blocca i cuori e i conti.
Quando sarà anziano e canuto, il tuo cliente continuerà a in-
quietarsi per i suoi investimenti. Naturalmente, quel denaro è de-
stinato ai figli (come se non fossero capaci di rimboccarsi le maniche
e fare un po' da soli!), ma di fatto vi è segretamente affezionato.
D'altra parte, se lavori bene, figliolo, riuscirai a sentire questo ricatto
squisito: "Con tutto quello che erediterete, il frutto del mio duro
lavoro, ho ben diritto a che veniate a trovarmi un po' più spesso...".
Alla parola "eredità", immagino che drizzerai le tue orecchie

124
appuntite: hai ragione. È straordinario vedere queste buone famiglie
cristiane dividersi per qualche cucchiaio d'argento o per qualche
fazzoletto di terra.
Se mai dimenticherai che i quattrini fanno andare avanti il mondo
(è veramente difficile, anche per un novellino del vizio, una
matricola di Belzebù!) ricorda che è grazie alla cupidigia che il mio
amico Giuda Iscariota ha compiuto il mio colpo migliore. Vendere
Cristo per trenta denari, che imbecille... Molto prima di passarsi la
corda intorno al collo, aveva già strangolato il cuore. È quello che io
definisco "aprire un conto infernale"!».

E-mailzebull
Sugli schermi

L'avido e l'autistico

Rainman - L'uomo della pioggia, una commedia sensibile e dal


ritmo sostenuto, di Barry Levinson (1989), mostra l'evoluzione di un
giovane uomo egoista e cupido a contatto con il fratello autistico, la
cui apparente povertà lo arricchirà più di tutto il denaro che si
aspettava. Questi due individui che non hanno nulla in comune, che
tutto separa, si riavvicineranno, si apriranno uno all'altro,
impareranno ad amarsi e ad accedere a un grado di maggiore
umanità.
• La storia: Charlie Babbit (Tom Cruise) è un giovane brillante, un
affarista pieno di energia. Ama le operazioni azzeccate, ma si ritrova
in una situazione difficile: la sua ditta d'importazione di auto di
lusso è sull'orlo del fallimento. Quando apprende la notizia della
morte del padre, Charles non pensa ad altro che all'eredità, che gli
permetterà di salvare l'azienda. La sua ira esplode quando scopre
che i tre milioni di dollari che costituivano il patrimonio del padre
sono stati versati a un istituto psichiatrico a favore di una persona
sconosciuta. Charles indaga per conoscere il misterioso beneficiario,
che altri non è che suo fratello Raymond (Dustin Hoffman), del
125
quale gli era stata nascosta l'esistenza perché è autistico. Charles
preleva Raymond per recuperare la sua parte di eredità...
Charles esce progressivamente dalla logica narcisistica in cui
lo chiude la sua cupidigia, non per entrare in un'austerità che non
corrisponderebbe per nulla al suo stile di vita, ma per scoprire una
ricchezza che non sospettava. Il desiderio naturale di possesso è così
rettificato e ricollocato nella sua giusta sede nella gerarchia dei beni.
La falsa vita di un avido
L'obiettivo di Charles è realizzare affari vendendo auto sportive.
Tutto il resto è subordinato a questo obiettivo: le cose, ma anche le
persone, che si ritrovano strumentalizzate. Non cerca forse di
manipolare una donna facendole complimenti per avere l'indirizzo
di suo fratello?
Il film di Barry Levinson illustra bene che l'avarizia è un peccato
capitale. Charlie cerca solo di avere successo, anche a costo di
imbrogliare un cliente e di imbonire i suoi dipendenti. Infrange la
legge, mente, bara. È pronto a tutto. La sua sete di possesso esplode
in scatti smisurati d'ira, quando qualcuno resiste alla sua sete di
guadagno. Ossessionato dal successo, riduce l'altro a un puro mezzo:
«Ho un po' di posto nei tuoi pensieri?», gli domanda la sua
fidanzata, Susanna, dopo aver guidato per un'ora e mezza in
silenzio. In seguito, lo lascerà dicendo: «Tu ti servi di tutti».
Ma il vizio si radica spesso in una ferita psicologica, in una specie
di piccolo trauma che risale all'infanzia. Lo spettatore apprende che
Charlie è orfano di madre dall'età di due anni e che è in profondo
conflitto con il padre. Quando viene informato della morte di
quest'ultimo, l'unico sentimento che Charlie prova è l'ira, perché
l'eredità gli sfugge. Questa ferita spiega molte cose, ma non potrebbe
scusare tutto. È stato Charlie a decidere di tagliare definitivamente i
ponti con suo padre, malgrado i suoi reiterati appelli. È stato lui a
costruirsi un'esistenza senza radici, in una folle fuga in avanti. Con
la sua decisione di coniugare i tempi della sua vita esclusivamente al
futuro, Charlie ha innestato il peccato di avidità sulla ferita
dell'abbandono.

Un povero che arricchisce


All'inizio, Charlie pensa solo di servirsi di suo fratello Raymond.

126
Questi non è che un nome in più nell'elenco di persone- strumento
che Charlie usa come base nel suo tentativo di salire. Suo fratello ha
doti straordinarie, che gli permettono di imparare in una sera i
numeri dell'elenco telefonico? Charlie approfitta dei suoi talenti nel
contare per intascare una grossa somma in un casinò di Las Vegas. Il
vizio è compulsivo.
Ma la vulnerabilità di Raymond invita Charlie a prendere a poco
a poco coscienza della propria. L'angoscia di Raymond è così
incontrollabile che Charles non può trasformarla: non può fare altro
che constatare, acconsentire, accettare. È costretto a mettersi in
ascolto delle necessità del fratello: la sua trasmissione televisiva
preferita, che deve assolutamente guardare, i suoi gusti in fatto di
alimenti e abiti, le sue manie, ecc. Charlie, che ha sempre forzato le
persone che gli stavano accanto a procedere al suo ritmo sfrenato,
deve mettersi al passo di Raymond. C'è un episodio simbolico a
questo proposito: al volante della Buick, Charlie il veloce si ferma
quando Raymond gli chiede di fermarsi, o guida, accanto a lui, a
velocità ridottissima.
La scoperta decisiva che apre il cuore indurito di Charlie dà il
titolo al film: il giovane comprende bruscamente che il Rainman, il
gentile ragazzo che andava a consolarlo quando aveva paura, da
piccolo, era proprio suo fratello Raymond. Quello che aveva svolto
per lui il doppio ruolo del padre e della madre è diventato quel
bambino grande, spaventato, che tutto spingeva a disprezzare.
Charlie potrà riannodare i fili con quel passato esecrato e negato? Il
«Rainman che è scomparso quando sono cresciuto» è sempre
presente; più ancora, è ormai lui ad aver bisogno di essere consolato.
Dopo averlo amato, da piccolo, Raymond domanda a sua volta di
essere amato da lui. Invita così Charlie a scoprire una delle più
grandi ricchezze che il suo cuore aveva sfuggito e nascosto: amare
ed essere amato.

La vera fortuna della vita


Charlie cambia. Entrando in relazione con suo fratello, accettando
l'irruzione altrui nella propria vita, si apre veramente a un'altra
ragione di esistere, diversa dal solo successo professionale e
dall'accumulo di ricchezze. I veri tesori non sono forse le persone?

127
Così, vuole ritrovare Susanna. Prende umilmente l'iniziativa di
telefonarle e le esprime il suo desiderio non di riconquistarla, ma di
riallacciare il rapporto con lei: Susanna non è più una cosa tra le altre
da gestire, ma è una persona da rispettare e amare. Abbandonando
la sua possessività, entra alla scuola della dolcezza.
Soprattutto, Charlie si riconcilia con il padre scomparso. Per
questo, si mette «nei suoi panni». Comprende così perché è stato
diseredato. Ogni forma di livore si dissolve bruscamente: «È sor-
prendente; non ce l'ho più con lui». Del resto, è intorno alla Buick,
simbolo del padre, che avviene il primo incontro tra Raymond e
Charlie: questo dono post mortem è il punto di partenza che per-
metterà il ritorno di Charlie, il figliol prodigo, nella casa del padre.
Barry Levinson non è ingenuo. In Charlie non è morta ogni
megalomania: il giovane immagina di poter tenere con sé il fratello
autistico. Il medico è più ragionevole: gli permette di fargli visita
una volta ogni quindici giorni. L'improvviso affetto che spinge
Charlie a spalmare un po' di crema sul naso di Raymond, ad
abbracciarlo, a preparargli il letto, non è estraneo al suo interesse:
come non provare gratitudine per chi gli ha fatto vincere
ottantacinquemila dollari in poche ore al casinò? Resta il fatto che
Charlie ha appena fatto una scoperta che vale un tesoro: il denaro si
prende, ma l'amore si dà.
La variazione di un elemento può comportare quella dell'insieme.
Tanto Charlie vuole ignorare il passato, quanto Raymond resta
chiuso in esso: i suoi automatismi ripetitivi placano la sua angoscia.
Charlie lo aiuterà a staccarsi dal suo passato e a creare una breccia in
cui si riversa lo spirito di suo fratello. Quando Charlie scherza sullo
sciroppo d'acero, Raymond giunge a distinguere la realtà dallo
scherzo e così, per la prima volta, può sorridere. Questo felice
squarcio nello spirito di Raymond non è forse il simbolo della
feconda apertura che si è appena realizzata nel cuore di Charlie?

Conclusione
Jean Vanier distingue due tipologie di handicap: in primo luogo
quelli evidenti, gli handicap che istituti specializzati aiutano a
«gestire», come anche, talvolta, a mascherare agli occhi dei cosiddetti
sani. È il caso dell'autismo di Raymond Babbit. E vi sono poi ferite

128
(handicap) più segrete, quelle di ognuno di noi. Si tratta, ad esempio,
del risentimento di Charlie contro il padre, che gli suggerisce
un'esistenza-rivincita piena d'insolenza e di audacia, che non è
nient'altro che una fuga da se stesso. Infatti, il più ferito non è quello
che è creduto tale, soprattutto quando la chiusura volontaria del
peccato raddoppia la chiusura involontaria della ferita.
L'autismo è un simbolo: questo male impedisce a chi ne soffre
ogni contatto con il mondo esterno, lo chiude in se stesso impe-
dendogli di comunicare. La cupidigia (e in generale il peccato ca-
pitale) non è forse una forma volontaria di autismo?

129
CAPITOLO

La gelosia, o morire d'invidia

«A volte, ribelle ingiusto e geloso, la ferisco e


sento nascere nel mio cuore la crudeltà...».
Sully Prud'homme, Poesie

«Nel mondo, la virtù è sempre perseguitata.


Gli invidiosi moriranno, l'invidia non morirà mai».
Molière, Tartufo
jféLW>. Q'^rlU - U

Ci sono due notizie: una buona e una cattiva. La cattiva notizia è


che siamo tutti invidiosi e lo ignoriamo. La buona notizia è che si
può rimediare.
A partire del peccato originale, un Caino (il primo invidioso)
sonnecchia in noi. Si sveglia spesso. La gelosia è senza dubbio il
peccato più nascosto. Infatti, la gente si vanta spesso dei propri vizi,
ma non della gelosia. Questo peccato non è «minore». Abbiamo
vergogna della tristezza che entra senza bussare e ci morde il cuore
di fronte alla felicità altrui. È brutta, piccola e meschina. Insieme alla
superbia, è il peccato del diavolo, invidioso degli uomini, degli altri
angeli, di Dio. Questa ingratitudine profonda, spesso latente nelle
ferite dell'infanzia, genera una progenie brutta e stentata: malanimo,
maldicenza, critiche ingiuste, odio e distruzione../Fino all'assassinio,
o al suicidio. Nella Bibbia, sempre realista, scorre il sangue
dell'invidia. Così nella storia del mondo.
Rassicuriamoci: in paradiso, non ci saranno più invidiosi. Sco-
priremo con grande sollievo che Dio ha preparato un posto diverso e
unico per ognuno e che la nostra felicità più grande consisterà nel
fatto che ognuno abbia il proprio posto. Nell'attesa, dobbiamo
combattere questo peccato che ci rovina la vita. Alla radice, che è
profonda.

130
Che cos'è la gelosia?

Una tristezza per ciò che hanno gli altri


L'invidioso conosce bene l'amarezza che lo assale improvvisamente, il
sentimento che lo rode, gli chiude il cuore, lo mina e contamina il
contesto di cui egli fa parte. L'invidia è una tristezza e, da questo punto
di vista, nasce da una privazione. L'invidioso si rattrista per ciò che
l'altro possiede e che lui non ha: senso dell'u- morismo, diplomi,
successo, ricchezza, rapporti interpersonali, ecc. Montesquieu ha scritto:
«Quando un uomo sente che gli manca una qualità che può avere, trova
una compensazione con l'invidia».80 Osservate la gentile Valentine, una
bambina di due anni e mezzo, sul suo mucchietto di sabbia, in mezzo ad
altri bambini: non sono ancora trascorsi cinque minuti che scoppia una
battaglia per via di un secchiello conteso da tutti.

Una tristezza per quello che gli altri sono


Gli psicanalisti procedono oltre. L'invidioso non si rattrista solo, né
principalmente, per quello che l'altro ha, ma per ciò che l'altro è. I
moralisti tradizionali non ignoravano questa sottigliezza, quando
distinguevano l'invidia (che riguarda le cose) dalla gelosia, che riguarda
le persone (vedere riquadro).
Torniamo al mucchietto di sabbia. Jean, di tre anni, e Ludovic, di
cinque anni, giocano insieme. È ora della merenda. La mamma porta una
merendina al figlio minore. Ludovic si adira: «E io? Non è giusto!». «Ne
porto subito una anche a te», gli dice la mamma. Dopo qualche secondo,
la mamma offre una merendina al primogenito, che la rifiuta: «No,
voglio quella di Jean». Ludovic esige meno l'oggetto del piacere, del
piacere stesso che prova suo fratello. Rifiuta che il fratello possa provare
un piacere senza che ne sia lui il primo e principale beneficiario. Più
ancora, vuol essere solo al centro dell'attenzione della mamma. Riterrà
che gli sia stata resa giustizia solo quando avrà ricevuto una parte più
grossa di quella di suo fratello.
I bambini non hanno il monopolio di questo peccato. Sant'A-
gostino spiega che l'adulto geloso «teme di vedere [l'altro] essere pari a
lui, o la cui uguaglianza rispetto a lui lo fa soffrire».81

80 Montesquieu, Pensieri, n. 1038.


81 Confessioni, L. Ili, VIII, 16.

131
Invidia e gelosia
La differenza tra invidia e gelosia di fatto è stata elaborata solo dai moralisti francesi
dei secoli XVI e XVII. L'invidioso prova dispiacere vedendo gli altri gioire dei beni e
dei vantaggi che lui non possiede, mentre il geloso desidera gioire da solo e senza
condividerli i beni e
1 vantaggi che possiede.82 In altri termini, l'invidioso non ha nulla e guarda gli
altri che hanno tutto, mentre il geloso possiede e vuol essere l'unico a trarne
vantaggio.
Di fatto, la differenza non è così grande. Lo psicanalista Daniel La- gache spiega:
«La gelosia non esclude l'invidia, perché io sono geloso del bene che possiedo in
quanto è suscettibile di essere desiderato e posseduto da altri; e il timore almeno
pone virtualmente il geloso nella situazione dell'invidioso; l'innamorato geloso prova
gelosia per la sua amata e invidia i successi reali o presunti del suo rivale; d'altra
parte, non si prova gelosia solo nei confronti di ciò che si possiede, ma anche per
ciò che si desidera, i beni o le persone su cui il desiderio ha già posato l'ombra del
possesso. Invece, invidiando i beni altrui, li si considera in quanto sono suscettibili di
essere desiderati e posseduti da sé, e l'impossibilità di sostituirsi all'altro è appunto
ciò che rende l'invidia intollerabile».83

IIna mancanza di autostima


La gelosia sorge alla vista della felicità altrui. Questo spettaco
lo ci colpirebbe, se non vi fosse in noi una carenza? Per gli innamorati
che si sentono appagati, la felicità dell'altro non provoca sofferenza, ma,
al contrario, accresce la propria felicità. Invece, più ci si sente privati,
più la gelosia affligge il cuore.
Più in profondità, ciò che manca al geloso non è la tale o la tal

82 Cfper esempio San Francesco di Sales, Trattato dell'amore di Dio, L. X, c. 13. Cartesio, Le passioni
dell'anima, III parte, art. 167. La Rochefoucauld, Riflessioni moinli,27.
83 La Jaloitsie amoiireuse, psychologie et psychanalyse, II. La jalousie vécite, PUF, 1947, p. 5.

132
altra cosa, ma la stima del proprio bene. In uno dei suoi romanzi, Mary
Higgins Clark presenta una giovane donna non priva di fascino; nel
corso di una serata, sopraggiunge una splendida modella. Tutti gli
uomini presenti si voltano verso la bellissima donna. L'eroina del
romanzo confida: «Non so se tutte le donne presenti abbiano provato la
stessa sensazione che ho provato io, ma, in quel preciso istante, mi sono
sentita molto scialba».
Quale uomo, di fronte a chi tesse l'elogio di un suo collega per il
successo professionale che ha conseguito, la sua intelligenza, le relazioni
che è riuscito a stringere, non sente una voce che gli sussurra: «E io? E
io?». Tocchiamo qui uno dei motivi ispiratori essenziali della gelosia,
intesa tanto come peccato quanto come ferita che la favorisce: la
mancanza di autostima. In fondo, la gelosia è sempre una forma
d'ingratitudine. L'invidioso misconosce il proprio valore. Soffrendo
perché la sua bottiglia è mezza vuota, dimentica che è mezza piena.
Prima di proteggersi dalla luce che brilla da altri, il geloso è cieco
relativamente alla propria capacità d'illuminare.

IIna negazione dell'Amore


Più in profondità, questo prurito dell'anima riguarda la stessa vita
teologale. Negando il dono presente in sé, il geloso nega il Donatore.
Nella parabola dei talenti, il padrone non dà lo stesso numero di monete
a ognuno dei servi (Mt 25,14-30; Le 19,12-27).
Una scelta del genere non è ingiusta? Questi talenti non sono,
comunque, frutto di un qualsivoglia merito; non ne abbiamo alcun
diritto e Dio può distribuire i suoi beni come ritiene meglio (cf Mt 20,15).
Rifiutare questa diversità significa rifiutare il posto che Dio vuole
accordare a ognuno, che è unico. Ma il nostro individualismo ci acceca: il
nostro bene più grande non è il nostro bene personale, ma il bene
comune. Se i nostri sguardi fossero abbastanza puri, ogni felicità che
sopraggiungesse per qualcuno accrescerebbe la nostra. Una squadra di
calcio composta dai migliori giocatori perderebbe di fronte a una
squadra con meno talento, se i campioni che la costituiscono giocassero a
fare le primedonne. Fu la coesione creata dall'allenatore Aimé Jacquet a
far sì che la squadra francese diventasse campione del mondo di calcio
nel 1998. Certo, arricchisce di più suonare il pianoforte che il triangolo,
però la felicità più grande del solista del primo Concerto per piano di Liszt

133
non consiste nell'interpretare bene il suo spartito, ma nel fatto che ogni
strumentista interpreti bene il proprio in armonia con gli altri.

È veramente un peccato?
Non è forse legittimo che un celibe si senta un po' geloso, assistendo
al matrimonio del suo migliore amico, e provi frustrazione e solitudine?
E la coppia che non riesce ad avere bambini senta il cuore stringersi,
all'annuncio della nascita del quarto figlio dei vicini? La gelosia è
veramente un peccato? Infatti, la tristezza dell'invidia è prima di tutto
una passione,84 una reazione della sensibilità che sopraggiunge senza
avvertire.
La gelosia diventa peccato solo quando ci compiacciamo in essa.
L'errore comincia quando acconsentiamo alla passione e diventiamo suoi
complici, favorendola con pensieri, parole o atti che sembrano innocui.
Stamattina al mercato ho sentito questo dialogo: «Martine, l'hai vista? E
sempre pimpante, curata, con tre figli impeccabili». «Sì, ma ha una
collaboratrice domestica, e suo marito guadagna una fortuna. A
proposito, non sono certa che sia molto felice, con lui...».
C'è solo un termine per designare la ferita e l'errore (gelosia), e se ne
può provare rammarico. Ma questo termine unico significa anche la
continuità di una storia che può andare dalla chiusura subita (è la ferita)
alla chiusura cui si consente (è il peccato).
Tuttavia, la gelosia non è forse l'accompagnamento obbligato- rio
dell'amore? Carmen, Otello, la musica, il teatro, la letteratura hanno
sempre sublimato le gelosie degli innamorati, appassionate e ardenti fino
alla morte. «Se Tito è geloso, Tito è innamorato», riassume Racine in
Berenice.85 Lo scrittore Christian Bobin in La plus que vive scrive: «La
gelosia: nulla somiglia di più all'amore e nulla è ad esso più contrario,
violentemente contrario». La perso-

84 E poiché si tratta di una passione, la si ritrova negli animali (A. Ley e M. L. Vauthier,
Études de psycltologie instinctive et affective, 1946, c. 5: «La jalousie».
85 Berenice, Atto II, scena 5.
na gelosa crede di testimoniare, con le sue lacrime e i suoi strilli, i a
grandezza del suo amore. Così, non fa altro che esprimere la pre-
ferenza arcaica che ognuno ha per se stesso [...]. E il bambino in me
che pestava i piedi e faceva valere il suo dolore come moneta di
scambio».86

In che cosa la gelosia è un peccato capitale?


La gelosia è un «peccato di testa» che genera molti errori. Si tratta
di peccati contro l'altro: malanimo, soddisfazione di fronteT ' ‘ alle
difficoltàaltrui,delusione Hi fronte allóro successo...
In un gruppo, l'individuo geloso denigra, in modo molto sottile le
iniziative di cui non è autore. Fa perdere tempo ed energie
considerevoli. Questo guastafeste, che a volte dissimula la sua ge-
losia in un'ironia acerba o sottile che gli frutta consensi, è uno dei

86 la plus cjtte vive, Coll. «L'un et l'autre», Gallimard, 1996, pp. 32 e 33.

146
La gelosia genera anche peccati contro se stessi. E essa a nutrire il
risentimento. Può rendere ingiusti nei confronti dei propri talenti e della propria
storia. Per esempio, cambiando l'orientamen- to'dfuha vita. Philippe, 38 anni,
dirigente, lo testimonia: «Un giorno, fu elogiato in misura notevolissima, davanti
a me, un collega che stava facendo una brillante carriera nell'ambito del
marketing. Nell'arco di una giornata, pensai di cambiare occupazione, di
scegliere quel settore. La sera ne parlai a mia moglie, presentandole questa idea
come un sogno. Lei mi ascoltò, poi mi disse giustamente: "Caro, io ho sposato te
e amo te, non un altro uomo". Subito non compresi. Tuttavia, quelle parole mi
tranquillizzarono. Il giorno dopo, compresi che io proiettavo me stesso
nell'immagine del collega e che non ero più me stesso, animato com'ero da un
forte bisogno di riconoscimento. E dire che avrei potuto mandare all'aria tutta la
mia carriera professionale per gelosia!».
Questo malanimo può portare fino al suicidio, reale o simbolico. Nella favola
di Biancaneve) la regina che tutte le sere domanda al suo specchio: «Specchio,
specchio delle mie brame, dimmi, chi è la più bella del reame?», cerca di uccidere
la sua rivale. Poiché il suo primo tentativo fallisce, la malvagia decide di
trasformarsi irreversibilmente in una brutta strega. Come può arrivare a perdere
la bellezza che non ha mai smesso di bramare? Questo atteggiamento rimane
incomprensibile, finché non si tiene presente che la gelosia è un'intima
autodistruzione. Che importa rimanere sfigurata, se trascina la sua rivale nella
morte? 135
peggiori veicoli dijiivisioni intèrne.
Abbinata alla cupidigia, l'invidia crea fratture all'interno delle
famiglie più unite in occasione della divisione di eredità. È la pentola
in cui cuoce l'amarezza, come illustra con molta finezza un disegno
di Sempé: Un uomo che cammina per strada a fianco di un amico
dice: «È una goliardata, è evidente. Qualche anno fa, al lavoro, le
segretarie decisero di eleggere il "Signor Fascino". La signora
Yvonne, poco prima di andare in pensione, mi rivelò che ero stato
eletto io, ma era stato annunciato vincitore Ménart, il capo del
personale. Non è una cosa così importante, è ovvio, ma getta una
luce buffa sugli ingranaggi del potere». O piuttosto sugli ingranaggi
del risentimento...
Spinta ail'estremo, la gelosia assassina, I crimini passionali sono i
più diffusi, ma anche i più comuni, e mietono un numero di vittime
infinitamente maggiore dei regolamenti di conti tra «specialisti» del
settore, o delle guerre tra gang rivali. In Italia, più della metà degli
omicidi sono commessi per gelosia nell'ambito familiare. D'altra
parte, tutto coopera a banalizzare il crimine passionale, a cui oggi
vengono dedicate solo poche righe in fondo alle pagine di cronaca.
Nulla di nuovo: nella Bibbia, la gelosia ucci-
de fin dall'inizio. Caino uccide suo fratello Abele per invidia. "Questo omicidio è
il primo di un elenco interminabile. Quando il giovane pastore Davide uccide il
gigante Golia, eroe dei Filistei che decimano l'esercito d'Israele, «le donne
uscirono incontro ai soldati del re Saul. Cantavano e danzavano, suonavano
timpani e acclamavano con gioia. Danzando, si alternavano nel coro e can-
tavano: "Saul ha ucciso mille nemici e Davide dieci volte mille!"... Da allora, Saul
cominciò a essere geloso di Davide». In seguito, cercò addirittura di ucciderlo (1
Sam 18,6-11).
Come si dissimula?
Il geloso inganna se stesso, per almeno quattro ragioni.
- La gelosia nasconde la vergogna. Dei sette vizi capitali, è l'unico di cui non ci
si vanta, salvo se si è innamorati! Tradisce un attaccamento smisurato,
caratteristico dei bambini. La vergogna è un prezioso indicatore affettivo
dell'invidia. Ma la vergogna fa vergognare e spinge a dissimulare.
- La gelosia si nasconde specializzandosi. Infatti, si esercita sempre nei
confronti di una persona «presa di mira» (un fratello, un collega, una
vicina...), di una categoria di persone (madri di famiglia, giocatori di golf...),
in un ambito preciso (auto, abiti, talenti...). Dunque, basta considerare gli
ambiti relativamente ai quali non si è gelosi per pensare di non essere gelosi
affatto. O (più malignamente) è sufficiente considerare solo gli aspetti non
invidiati della persona che suscita gelosia: «Io non sono geloso, perché
riconosco che mio cognato è più intelligente di me». Però una vocina interiore
replica: «Ma tu, che sei soprannominato "l'artigiano" della famiglia, ti sei af-
frettato a costruire un armadio, il giorno in cui hai saputo che tuo cognato
aveva montato la libreria da solo!».
- L'invidioso giustifica se stesso tenendo in considerazione le sue virtù: «I
gelosi sono egoisti, ripiegati su se stessi. Io invece sono generoso».
Distinguiamo: generoso nei confronti di chi? Il geloso di fatto è altruista...
soltanto nei confronti di quelli che sono più sfortunati di lui. Può rendersi
indispensabile, se ha la certezza di essere nel cuore della felicità dell'altro. La
fonte della sua generosità non è sempre pura...
- La gelosia, che può diventare malata e paranoica, spesso nasconde una ferita
risalente all'infanzia. Il peccato s'innesta allora su un'immaturità psicologica.
Infatti, nel geloso si riattiva l'amore captativo del bambino per sua madre.
Questo Otello non solo vuol essere l'unico amato, ma vuol essere l'unica cau-
sa della felicità dell'altro: questo megalomane esige di essere al centro
dell'amore ricevuto e dell'amore dato. «Nella gelosia vi è più amor proprio
che amore», diceva La Rochefoucauld, 87 e
il filosofo Georges Gusdorf osservava che il geloso «degrada
l'essere in avere».88
Nadine Trintignant racconta: «Al mattino, quando mio padre usciva per
andare al lavoro, io andavo nel letto di mia madre. Quando arrivava il momento
in cui mia madre doveva alzarsi (si occupava della casa, dei cinque figli, di
tutto), ogni volta per me era una terribile sofferenza. La ricordo come una
violenza». E prosegue: «E continuo a vivere questa violenza con gli uomini». 89
Il bambino amato male che sonnecchia nel geloso, vivrà la lontananza a volte
inevitabile dal coniuge come un rifiuto insopportabile, e le amicizie del coniuge
stesso come minacce e tradimenti. L'esegeta Paul Beauchamp spiega: «Il geloso è
la persona che non può credere alla bontà altrui, anche quando ha segni del suo
amore [...]. La gelosia porta a considerare ogni persona come un rivale e a non
credere all'amicizia».90

Come riconoscere la gelosia?


La gelosia è sia la tristezza provata di fronte al bene dell'altro, sia il rifiuto di
riconoscere il proprio bene. I suoi indizi sono dunque di due tipologie distinte.
L'incapacità di provare gioia per la felicità altrui
Un segno inequivocabile: all'annuncio di un avvenimento lieto che riguarda
qualcuno (promozione, matrimonio, ecc.), il geloso è incapace di provare la
minima gioia; è triste, o soltanto indifferente. Infatti, il cuore si protegge da
questa tristezza troppo rivelatrice e troppo colpevolizzante; la nasconde e si
rifugia in una fredda indifferenza.
Un altro segno: il geloso prova il bisogno di ridurre la felicità dell'altro.
Dialogo telefonico tra due amiche: «Pronto, cara, come vanno le vacanze con la
tua famiglia?». «Bene, grazie. I bambini sono adorabili». «E tua cognata?». «E
simpaticissima». «E tuo marito?». «Non è mai stato così gentile». «E il tempo?».
«Non è molto bello. Piove da quando siamo arrivati qui». L'amica gelosa riat-
tacca, sollevata da questa piccola ombra sul panorama.

L'incapacità di fare complimenti


Il geloso non sopporta di sentire elogiare la persona che invidia. Non sa più
rivolgerle complimenti. Invece, per svalutare meglio la persona ai propri
occhi, tesse in sua presenza lodi eccessive di un altro.

87Riflessioni morali, 290.


88 Traité de l'existence morale, 1949, p. 233.
89 MADELEINE CHAPSAL, La Jalousie, Fayard, 1977, p. 105.

138
" PAUL BEAUCHAMP, Parler d'Écritures saintes, Seuil, 1987, p. 94.
La gioia di fronte alla sfortuna altrui
Arriva una cattiva notizia? Il geloso prova un moto di gioia segreta o, il che
è equivalente, rimane stranamente tranquillo. Può perfino provare
un'improvvisa sollecitudine nei confronti della persona che invidia, mentre in
precedenza provava solo indifferenza o rancore. Ma questa benevolenza dura
solo il tempo della sfortuna: basta che quella persona ritrovi la gioia perché il
geloso torni a essere triste. Ne II cavaliere di Lagardère di Philippe de Bro- ca,
Fabrice Luchini tratteggia una figura straordinaria di geloso nella persona di
Filippo Gonzaga: questi si circonda solo di persone brutte e più sfortunate di
lui; di qui il suo affetto per il gobbo. Il genio di Lagardère sta nel comprendere
che questa dissimulazione è il modo migliore per sviare la vigilanza del
nemico.

Lo spirito critico

I L'invidioso ha spontaneamente uno spirito più critico che por- j tato alla
lode. Ha bisogno di denigrare le persone apprezzate, bril- | lanti. Quelle di
cui si dice che «sono riuscite». Nel suo romanzo Uomini e topi, John Steinbeck
scrive: «Curley è come un gruppo di ragazzini. Non ama quelli che sono
grandi. Passa il tempo a litigare con i grandi».

Alcuni segni rivelatori della mancanza di autostima costitutiva della


gelosia sono:

La tendenza ad accaparrarsi l'altro


Il geloso è esclusivo nei suoi rapporti interpersonali. Spesso soffoca l'altro
(coniuge, figlio, amico, collega) con la sua insopprimibile esigenza di essere il
preferito e l'unico centro delle attenzioni altrui.

L'incapacità di accordare fiducia


Il geloso non è mai certo dell'amore dell'altro, in particolare del coniuge o
dell'amico. Di fatto, non vuole credere, ma sapere. «Caro, ti ho detto che ti
amo!» «Bene, provalo!». Così facendo, domanda l'impossibile: l'amore si
manifesta, non si prova. «La gelosia mostra quanto odio o egoismo entrano
nella situazione amorosa», sottolinea André Comte-Sponville.

La dispersione
] Il geloso è agitato; la sua tranquillità dura solo quanto dura
I l'infelicità altrui. Non è mai al suo posto, perché vuol prendere ; quello altrui.
Vive solo per accumulare garanzie del suo valore e la certezza che i suoi simili
valgano meno di lui. Questa dispersione rende difficile la vita interiore, dunque
139
la preghiera, il silenzio e l'ascolto della volontà di Dio.
^ ------------------------ —

Come rimediare?
Riconoscere la propria gelosia
Non negare questa forma di tristezza e chiamarla per nome. Perché sfogliate
l'annuario della prestigiosa università di cui siete un illustre ex-allievo,
attardandovi a esaminare l'età e la carriera delle persone citate? Ammettete che
volete il confronto e cercate di rassicurare voi stessi.

Volete essere voi stessi?


Un docente che tiene corsi per le imprese propone ai suoi stagisti di scegliere il curriculum o
la fotografia di una persona che ammirano per le sue qualità, il suo fisico, ecc., e di
esprimersi in dettaglio. Li invita poi a manifestare i sentimenti che sentono sorgere in sé.
Infine, pone loro questa domanda: «Volete continuare a mettervi a confronto con quella
persona, o volete essere finalmente voi stessi?». Purtroppo, raggiungere questa
consapevolezza non basta a guarire
dalla gelosia. Però, può almeno servire a prendere coscienza delle reazioni (sentimenti e
atteggiamenti) che la gelosia suscita in noi e che molto spesso mascheriamo o neghiamo:
tristezza, collera, tentativi di compensazione, fuga, autodistruzione, ecc.

Non criticare, né accusare


Se si tratta di una persona vicina, la critica si trasforma in accusa: «Non ci sei
mai», «Non ascolti mai», ecc. Il geloso, come l'iracondo, immagina che, se l'altro
cambiasse, il suo intimo si rasserenerebbe. Non è così.

Evitare di evitare
Spesso scegliamo di evitare la persona che suscita la nostra invidia: «Basta,
non trascorrerò più le vacanze con mia cognata, i suoi figli non vanno d'accordo
con i nostri (Sottinteso: lei mi dà l'impressione di gestire tutto: il suo lavoro, i
suoi figli, suo marito... mi crea troppi complessi e mi schiaccia)». «Ne ho
abbastanza di lavorare con Rossi, che tratta gli altri come imbecilli (sottinteso: è
il miglior venditore della ditta e il suo successo mi mette in ombra)», ecc. La fuga
non è una tattica migliore della calunnia o della maldicenza. Al contrario, la
vicinanza della persona invidiata, se all'inizio è dolorosa, persino insopportabile,
sulla lunga distanza è terapeutica: è un invito costante tanto all'autostima quanto
a una giusta valutazione dell'altro.
140
Accettare che l'altro sia l'altro
Prendiamo coscienza che le qualità altrui non ci mettono per nulla in ombra.
Attribuire un quoziente d'intelligenza di 80 al vostro collega che sapete che vale
il doppio non farà mai aumentare il vostro. E quando avrete sottolineato che le
misure della vostra amica sono 60-90-60, non avrete perso 300 grammi di peso!
L'altro è altro; anche lui è unico, con i suoi talenti.
Il confronto con gli altri, dunque, radice della gelosia, è da bandire
assolutamente. Non diamo neppure appigli a quelli che cercano di suscitare la
vostra invidia.
Accettare la carenza
Abbandoniamo l'illusione che un giorno saremo soddisfatti da una situazione
professionale, dal possesso di determinati beni materiali o anche da una persona.
Un artista geniale come Raffaello era geloso di Michelangelo... tanto da
domandare a papa Giulio II di terminare il soffitto della Cappella Sistina al suo
posto.

Farsi ima ragione


Se un giorno raggiungiamo l'obiettivo di essere i migliori, la nostra
soddisfazione sarà mescolata al timore costante di essere spodestati. Ripetiamo a
noi stessi che, al mondo, esiste una persona che ha qualcosa che a noi manca, e
che corriamo sempre il rischio d'incontrarla...

Coltivare Vautostima
Prendiamo coscienza che la gelosia è un peccato d'ingratitudine nei confronti
dei doni ricevuti. E se trovassimo il tempo di scrivere tre nostre qualità reali,
durature? E se non ci riusciamo, perché non chiedere a un amico, a un vicino, di
aiutarci?
Il film Amadeus di Milosz Forman mette in scena Salieri, musicista rivale del
«divino Mozart». Salieri è così geloso da non vedere più i propri doni. Crede di
provare finalmente la serenità portando Mozart alla morte, ma trova solo il
tormento del rimorso che lo distruggerà tanto quanto il risentimento.

Gelosia, bello specchio


È possibile usare la gelosia per conoscere meglio se stessi e trasformarla in un test di
conoscenza di sé. Infatti, ci rivela le carenze che non si vogliono confessare. Poniamoci
qualche domanda:
1. In che cosa consiste questa carenza? (lui ha compiuto studi migliori, lei ha un gusto
migliore nel vestire...).
2. Sono colpevole di questa carenza? Se sì (se avessi lavorato di più, avrei la sua stessa
141
posizione), domanderò perdono a Dio, e supererò il dolore per tale carenza.
3. Posso cambiare per rimediare a questa carenza? Devo cambiare? Se sì, cerchiamo i
mezzi, senza agitarci, facendo affidamento sui nostri sforzi perseveranti e sulla grazia di Dio
(seguire corsi di specializzazione?). Altrimenti, rimaniamo al nostro posto e benediciamo Dio
per quello che siamo, per quello che facciamo e per quello che abbiamo.
4. Ripetiamo l'esercizio tutte le volte in cui la gelosia ci assale.

Farsi aiutare
Se la gelosia è troppo dolorosa e la tristezza è troppo scura, un sostegno
psicologico può rivelarsi molto benefico: probabilmente si manifestano ferite
dell'infanzia sulle quali nessuno sforzo di volontà risulterà efficace. Diverse
forme di depressione sono causate da gelosie alle quali non è stato dato un nome
e che non sono state riconosciute.

Scegliere di benedire
Bando all'ipocrisia: tutti noi, o quasi tutti, proviamo questa tristezza.
Approssimativamente, è possibile individuare tre atteggiamenti personali:
criticare; evitare l'altro; benedire.
Solo l'ultimo atteggiamento porta la pace, anche se è frutto di una lunga
battaglia. Smettiamo non solo di minimizzare i meriti di colui che invidiamo, ma
domandiamo a Dio di benedire quella persona perché sia più felice. «Signore,
benedici mia cognata per tutti i talenti che le hai donato e colmala dei tuoi
benefici».
Quando sentiamo la tristezza del confronto invadere il nostro cuore,
ringraziamo Dio e lodiamolo per la felicità dell'altro.
Ma non siamo masochisti, non insistiamo troppo; la benedizione potrebbe
trasformarsi nel suo contrario!

Evitare di suscitare la gelosia


Combattere la gelosia in noi è indispensabile, ma evitare di suscitarla è segno di delicatezza
del cuore. Questo atteggiamento non è sinonimo di scrupolo. A questo proposito, Cristo
domanda di prenderci cura di nostro fratello, tanto da proibirci di lasciar tramontare il sole sulla
nostra collera, ma anche di evitare che nostro fratello sia in collera contro di noi (Mt 5,23-24).
Dobbiamo compiere lo stesso sforzo se ci invidia.
Partite per una settimana di vacanze alle Antille? Se lo dite a un amico tendenzialmente
geloso, proverà invidia nei vostri confronti. Se decidete di tacere, si tratta di ipocrisia? No.
Certo, nei rapporti interpersonali (a maggior ragione in quelli di amicizia) la verità è un dovere.
Ma quest'altro principio equilibra il primo: si deve dire solo la verità che l'altro può sopportare.
142 il Vangelo chiede di evitare di essere occasione d'inciampo. Il silenzio, in questo caso,
Inoltre,
è un atto di carità.
La vera delicatezza di cuore non consiste nel rinnegare se stessi o nello snaturarsi per non
suscitare la gelosia altrui, ma nel dare all'altro il suo posto e renderlo felice. Il dottor Alain
Assailly raccontava riferendosi a Marthe Robin, la fondatrice dei Foyers de Charité, una
contadina stigmatizzata di cui è in corso il processo di beatificazione: «L'unica volta in cui ho
fatto una breve allusione alle sue sofferenze, dicendole che mi sentivo davvero deplorevole in
confronto a lei al pensiero dell'impazienza che provavo quando soffrivo di banali mal di denti,
lei replicò: "È normale, caro dottore: lei è fatto per l'azione e per aiutare gli altri alleviando le
loro sofferenze. Il mio compito è aiutarla in questo!". Sorpreso, stavo per dirle che, quanto ad
attività, lei era altrettanto efficace, quando, dopo un momento di silenzio, Marthe mi disse
lentamente: "E poi, dottore, se in seguito Dio vorrà che lei soffra, saprà certamente
domandarglielo"».91

Nutrirsi della Bibbia


La Bibbia, maestra di umanità, presenta molti gelosi criminali (Caino, Saul,
Erode, ecc.), ma anche ammirevoli esempi di segno contrario: Giuseppe, Mosè,
Gionata e Davide, Giovanni Battista... Quando Eldad e Medad si mettono a
profetare, il profeta Giosuè interviene perché Mosè li fermi. Questi reagisce con
umorismo: «Sei geloso al mio posto? Invece, volesse davvero il Signore co-
municare il suo spirito a tutto il popolo d'Israele, e tutti diventassero profeti!»
(Nm 11,28-30).
Nel Nuovo Testamento, i discepoli vanno a parlare di Gesù a Giovanni
Battista: «Maestro, tu ci avevi parlato bene di quel Gesù che era con te dall'altra
parte del Giordano. Ora battezza anche lui e tutti lo seguono» (Gv 3,26). Niente
meno che quattro confronti, che potrebbero suscitare altrettanti motivi di
gelosia!92 Il cugino di Gesù, lungi dal cadere nella trappola, si sbarazza della
tentazione con l'umiltà. Senza rinnegare se stesso, dà a ognuno il suo giusto
posto: «E lui che deve diventare importante. Io invece devo mettermi da parte»
(Gv 3,30).

Meditare sulla croce


Gesù accetta che gli sia preferito Barabba. Accetta di essere preso per un
criminale, l'esatto contrario di lui, il Giusto. Mentre la gelosia cerca di catturarlo,
Cristo dona se stesso compieta- mente.
Gesù si stacca anche dalla persona che gli è più cara, Maria, affidandola a

91 ALAIN ASSAILLY, Marthe Robin (1902-1981). Testimonianza di uno psichiatra, Ed. de l'Emmanuel, 1996, p.
83.
92 Per i dettagli, cf le fini osservazioni di SAN TOMMASO D'AQUINO, Commento al vangelo di san Giovanni, n.

508-512. 143
Giovanni: «Ecco tua madre» (Gv 19,27). Eppure, Giovanni ha abbandonato Gesù,
come gli altri discepoli: «I discepoli
lo abbandonarono tutti» (Me 14,50). Gesù risponde all'abbandono con un dono
ancora più grande. D'altra parte, proprio nel momento della sua morte, dona e
trasmette il suo Spirito (Gv 19,30), quello che Giovanni Paolo II definisce la
«Persona-Dono».
Il Crocifisso non giudica: salva. Incrociando il suo sguardo nella preghiera
(Gv 3,16-17), la persona gelosa cessa di disistimare se stessa e accetta infine di
essere pazzamente cara. Contemplando Colui che si è donato per lei (cf Gal 2,20),
cessa di chiedere garanzie su garanzie; crede (nel senso forte del termine) che
Dio non possa darle prova d'amore più grande e che è degna di essere amata.
Posando lo sguardo sulla piaga aperta del costato, ascolta e accoglie il grido di
Gesù: «Se uno ha sete si avvicini a me, e chi ha fede in me, beva!» (Gv 7,37).
Quest'acqua viva non delude; essa sola disseta: «Se uno beve dell'acqua che gli
darò, non avrà mai più sete» (Gv 4,14). Come essere gelosi, quando si è
soddisfatti?

In conclusione
In paradiso, non ci sarà più invidia! Scopriremo che ognuno ha il suo posto e
ne saremo infinitamente felici. Di più, un mistico confida: «In cielo, la mia felicità
più grande non sarà la mia, ma quella di tutti gli altri». La comunione dei santi è
il contrario dell'invidia per eccellenza.93 «Elimina la gelosia e il bene che io faccio
diventa tua proprietà. Se l'amore possiede il tuo cuore, tutto è tuo!», raccomanda
sant'Agostino. «Ovunque si compie un'opera buona, essa appartiene anche a noi,
se sappiamo rallegrarcene».94 E spiega così a Proba che non ha più la forza di
digiunare: «Quel
lo che uno non può fare, lo fa nell'altro che può, se ama nell'altro quello che la
sua debolezza non gli permette di compiere personalmente».95
In attesa del cielo, che fare? San Paolo non dice forse che Dio è «tutto in tutti»
(1 Cor 15,28) e che Cristo è «per noi la sapienza, giustizia, santificazione e
redenzione» (1 Cor 1,30)? Questo significa che una data virtù riscontrata
nell'uno o nell'altro, come spiega Giovanni Cassiano, «è Cristo che è ora
distribuito in ognuno dei santi», realizzando «la pienezza del suo corpo
nell'armonia e nell'originalità di ognuno dei suoi membri». Infatti, «non preten-
diamo che uno possa, da solo, acquisire tutti i doni che sono ripartiti tra

93 Cf il bel capitolo di padre PIERRE DESCOUVEMONT in Guide des chemins de In prière, Marne, 1993, pp. 131-
137.
94 SANT'AGOSTINO, In Jo. Ev. tr., 32,8; PL 35,1646.
144
95 Lettera a Proba, 130, 31; PL 33, 507.
molti».96 In sintesi, c'è di che essere gelosi di quelli che sono già in cielo!
La T@ttica del diavolo

Prediligerai sempre Tamaro

Guardami bene negli occhi, caro nipote: la gelosia è una questione di sguardi.
Lo sguardo d'invidia si esercita fin dalla culla, dal parco, dai primi giochi. Fa' in
modo che i genitori del tuo cliente comincino molto presto a fare paragoni tra il
loro piccolo e altri neonati; un giorno, il tuo cliente sentirà dire: «Se fossi gentile
come il tuo amico, saresti invitato più spesso a feste di compleanno». Anche i
complimenti sono molto efficaci: «Per fortuna, non sei come quello scansafatiche
di tuo fratello!». Che freccia avvelenata, soprattutto se il fratello sta ascoltando!
Così, il tuo cliente non cercherà di essere se stesso, ma semplicemente di non
essere... come suo fratello.
E il discorso continua a scuola. Le feste organizzate dalla scuola, che piacere! I
genitori si rovinano, i bambini ruminano... Adocchiano la borsa del vicino, con
biglie e gadget della play-station. A tavola, papà e mamma denigrino i vicini, si
confrontino con i cugini e rafforzino nel bambino la convinzione che si deve
essere più forti, più intelligenti, più ricchi degli altri!
In età adulta, da' al tuo cliente qualche modello impossibile da seguire. Finita
l'epoca dei santi, evviva i geni! Se il tuo cliente è un musicista, mostragli ciò che
Mozart ha composto a dodici anni, per non parlare del numero di lingue che
conosceva!
Largo alle top model! Sono riuscito a far credere in tutto il pianeta che queste
creature hanno il corpo perfetto che tutte le donne devono avere, e che tutti gli
uomini hanno il diritto di desiderare. Si crede che il primo rischio sia la lussuria;
no, è la gelosia.
Lo sguardo, dicevo. Sai qual è la differenza tra gli uomini e le donne? Gli
uomini guardano le donne e le donne guardano... le donne. E le invidiano. Non
preoccuparti: non se ne rendono nemmeno conto.
La gelosia è un giocattolo da maneggiare con tatto! Puoi anche portare il tuo

96 Istituzioni cenobitiche, V, 4, 2-3. 145


cliente alla depressione, ma fa' attenzione: non tutti gli psicologi hanno
dimenticato che la gelosia è una delle cause di questa patologia. Porta il tuo
cliente da un medico frettoloso che si accontenti di prescrivergli farmaci, senza
cercare di approfondire le ragioni del suo male.
L'ideale è riservargli pause che lo manterranno nell'illusione di non essere
(troppo) geloso. Si dedichi pure a persone in difficoltà, ma soddisfa il suo amor
proprio facendo in modo che queste persone siano eterne perdenti, che
inconsciamente valorizzino il tuo cliente. Trascorra le sue vacanze lontano dalla
famiglie di suoceri e cognati a cui sembra che riesca tutto bene, e ne provi
sollievo...
Il tuo cliente dia alla gelosia nomi falsi: ambizione, emulazione,
competizione, altruismo. Fallo diventare un militante che confonda rabbia e
coraggio, rivendicazione e passione, autenticità e verità: un pacifista che reclami
la pace intorno a sé con l'odio nel cuore. In sintesi, una persona amareggiata che
si creda generosa e aperta, perché soffoca il suo risentimento nell'attivismo e
frequenta solo persone che la pensano come lui. Sono molto fiero di aver
trasformato il detestabile «Amatevi gli uni gli altri» in «Invidiosi di tutto il
mondo, unitevi!».
Il tuo cliente dovrà evitare a ogni costo di parlare dei suoi problemi con il
sacerdote da cui si confessa. Se lo fa, cambia orientamento: quelle forme di
tristezza sono sentimenti, non peccati; le forme di astio riguardano la politica,
non l'etica; quella depressione latente riguarda solo la psicologia, ecc.
Un altro raggiro sta nell'aver ridotto questo peccato alla gelosia amorosa, che
passa per un atteggiamento nobile. Tu e io, invece, sappiamo bene che può
infettare tutto. Una donna non è forse tanto più desiderata quanto più la
desidera un altro? E qual è la ricetta migliore per rovinare la convivialità di un
pasto di uno sguardo concupiscente nel piatto del vicino, sempre meglio servito
del proprio? Infatti l'uomo non desidera le cose, ma le cose che gli altri
desiderano!
Non ti accontentare di rattristare il tuo cliente: trasforma pro-

146
'

gressivamente la sua gelosia in odio e in distruzione. Per questo, è importante


che abbia sempre una buona ragione per giustificare il suo astio e le sue critiche.
Se ti impegni al meglio, un giorno il tuo cliente oscillerà, deluso, tra
risentimento e disperazione. Buongiorno, tristezza... Allora, sarai molto vicino al
successo. Ma attenzione: io sono terribilmente geloso di quelli che hanno risultati
migliori dei miei!

E-mailzebull
Sugli schermi

Morte d'invidia in Italia

Senza mai essere didattico, senza mai smettere di raccontare una storia su un
ritmo febbrile, Il talento di Mr. Ripley, thriller americano di Anthony Minghella,
tratto dal romanzo di Patricia Highsmith (1999), offre una descrizione brillante e
quasi clinica del geloso.
• La storia: per Herbert Greenleaf (James Rebhorn), un ricco armatore
americano, Tom Ripley (Matt Damon) è un ragazzo modesto ma ambizioso e
degno di fiducia. Lo incarica dunque di riportare a casa suo figlio Dickie (Jude
Law), che è andato a dilapidare la fortuna paterna sotto il sole italiano con la
fidanzata Mar- ge (Gwyneth Paltrow). Sulla spiaggia a sud di Napoli, Tom sco-
pre il fascino della «dolce vita». Più che da questo mondo paradisiaco, Ripley è
affascinato dalla personalità brillante di Dickie. Divorato dall'invidia, vuole
diventare Dickie. Fino a che punto degenererà la gelosia?

Del peccato di invidia, il thriller di Anthony Minghella tratteggia i principali


segni:

La tristezza
Prima di essere una colpa, la gelosia è un sentimento di profonda tristezza.
Dalla prima all'ultima inquadratura, Tom mostra sempre la stessa espressione
grave, triste. La lascerà solo indossando la «pelle» di Dickie: ma allora la sua
gioia sarà come presa a prestito da un altro, non sorgerà dal suo cuore.
«Ciao, divertiti», lancia Dickie a Tom, nel negozio di musica jazz; queste

147
parole riassumono tutta la vita di Dickie. Senza dubbio, è questa gioia di vivere
che divampa a ogni istante, roboante, creativa, in Dickie e nel suo amico Freddy
Miles. Come per divertimento, quest'ultimo andrà a visitare un museo e il Foro,
in un'infinita malinconia e in una pesante solitudine.

Il desiderio di un bene che l'altro ha


Tom Ripley non è altro che uno sguardo, e uno sguardo di desiderio. Le sue
parole, i suoi gesti, la sua volontà sono esitanti, tanto quanto il suo sguardo è
intenso, costantemente alla ricerca di qualcosa. Prima di incontrare Dickie e
Marge, li osserva lungamente con il binocolo: nel suo atteggiamento c'è
prudenza, ma prima di tutto una vecchia abitudine di osservatore che esiste so
lo a una certa distanza e soprattutto per interposto desiderio. Già all'opera, non
spiava forse da dietro una tenda?
Da quando si avvicina a Dickie, Tom comincia a invidiare tutto ciò che
possiede: i suoi abiti, il suo anello, i suoi gusti. Dickie gli domanda: «Ti piace
davvero il jazz?». «Ho imparato ad apprezzarlo con te. Ho imparato ad
apprezzare tutto quello che fai nella vita», gli risponde Tom. Soprattutto, Tom
desidera Marge. Confesserà il suo amore solo alla fine. Anche in quel momento,
la sua invidia si esprime con la intensità dello sguardo. Così, quando Dickie
trova Marge nella cabina di pilotaggio della barca, Tom dimentica ogni prudenza
e ogni pudore e non può fare a meno di guardare i loro gesti innamorati
dall'oblò. Freddy, l'amico di Dickie, che peraltro è un grande collezionista di
conquiste femminili, e che pure si trova sul ponte, non sbaglia: «Tommy, è bello
spiare?».

Il desiderio del bene che l'altro è


Non inganniamoci: Tom invidia Dickie, molto più delle sue qualità e dei suoi
affari. Innanzitutto, è magnetizzato dal play-boy. Anche prima di sapere chi è
Dickie Greenleaf, si mette a occuparsi, con accanimento, di jazz. Questo
meccanismo, che René Girard definisce rivalità mimetica, non spiega forse anche
l'amore segreto di Tom per Marge?
Di fatto, Ripley non desidera nient'altro che quello che desidera Dickie.
Quando si svolge la scena chiave del film, questi finisce per lanciargli, mentre i
due protagonisti si ritrovano nella barca, in pieno Mediterraneo: «Quando ti ci
metti, sei una sanguisuga! Non posso fare un gesto senza che tu faccia la stessa
cosa!». Anche Tom lo riconosce: «La vera ironia sta nel fatto che io non faccio
finta di essere un altro». Più tardi, lo osserverà anche Freddy, quando visiterà
l'appartamento romano di Tom, creduto quello di Dickie: «Non è lo stile di
Dickie,
148 è così borghese... L'unica cosa che somigli a Dickie, qui, sei tu».
Questo talentoso Mr. Ripley non ha talenti diversi da quelli altrui e quando,
fin dal loro secondo incontro, Dickie lo invita a elencare i suoi doni, si trova a
dire: «falsificare le firme, raccontare menzogne, imitare tutti o quasi». Tom
diventa così il clone di Dickie, perfino nel suo modo di parlare.

Il disprezzo per il proprio bene


Non è possibile essere un altro senza perdere la propria identità. Ma come
amare il nulla? Tom ha mai avuto stima per se stesso? Questo malanimo per se
stesso sonnecchia nel cuore di ogni gelosia: è la filigrana discreta che attraversa
tutto il film. L'opera si apre su una scena in cui Tom parla fuori campo: «Se
potessi tornare indietro, se potessi cancellare tutto, a cominciare da me stes-
so...». E il film termina con l'immagine, molto simbolica, del volto di Tom
riflesso, spezzato nel gioco di specchi di un armadio, prima di scomparire tra le
porte che si chiudono su un baratro d'ombra, e questa frase dello stesso Tom:
«Se avessi una gomma gigantesca per cancellare tutto, a cominciare da me...».
Un verbo comune lega la prima parola di Tom all'ultima: «cancellare».

Un peccato capitale
Tom vive solo tramite l'altro, ma non vive che per se stesso. Concentrato
com'è su di sé, non lo si vede mai compiere un atto di dono gratuito. Il suo
errore consiste in questo.
La gelosia non è solo un peccato, ma un peccato capitale. A poco a poco
compare la galleria di mostri generati da questo errore molto prolifico: le
menzogne, i tradimenti e le forme di slealtà si moltiplicano, presto sostituite
dagli omicidi. Tutto su uno sfondo di autodistruzione cui Ripley acconsente.
Non inganniamoci: la morte di Dickie non è la malaugurata conseguenza
dell'ira. Anche se Tom non aveva premeditato questo gesto, portava da tempo
un odio omicida nel cuore. D'altra parte, è travolto dalla sua rabbia assassina
quando Dickie osa dirgli: «Quando ti ci metti, sei una noia mortale!». Questa
verità che non cessa di nascondersi sotto- linea tutta la differenza che lo
distingue dal tanto invidiato Dickie. Non è forse questa la frase che torna a
ossessionarlo nei suoi incubi?

Una speranza
Al contrario della maggior parte dei film presentati in questo libro, II talento
di Mr. Ripley non descrive un itinerario di redenzione. Tom si chiude fino
all'inferno interiore nella sua gelosia, nelle sue identità prese a prestito, nella sua
menzogna, nella sua spinta interiore assassina.
Tuttavia, il film non chiude ogni speranza. Un triplice sguardo 149
lo attraversa: quello geloso di Tom, quello esteta di Dickie, quello innamorato di
Marge. Tom non cessa di copiare, imitare firme, voci, vite che non sono sue,
come Dickie non smette di inventare la sua vita. Tanto Tom è triste, quanto
Dickie balla, canta, gioca, arrivando ad abbracciare il frigorifero, tanto brucia di
passione. Tom si applica laboriosamente, come Dickie non tocca terra, non più di
quanto la sua scrittura tocchi le righe. Se le sue fedeltà sono successive, cioè
inesistenti, almeno sa essere generoso, a immagine di questa vita che gli offre
tanti regali: mentre Tom, lo «scroccone di terza classe» vive solo alle spalle degli
altri, Dickie lo invita a casa sua, gli propone affari, lo copre di doni, ecc.
Più ancora, il vero contrappunto alle scure pupille gelose di Tom è lo sguardo
innamorato di Marge. Il primo imprigiona nella sua rete, il secondo è
completamente rivolto verso colui che ama, perdonando e pazientando. Questo
amore, lungi dall'accecare, rende lucidi: Marge indovina la verità; è convinta
della colpevolezza di Tom. Di fronte a un padre che vive al livello zero dell'a-
scolto, che ha previsto da sempre il futuro di suo figlio come ha ricostruito la sua
personalità, non è un caso che gli unici ad aver finalmente smascherato il doppio
gioco di Tom siano i due amici più vicini a Dickie, Marge e Freddy.
Conclusione
Il mondo del geloso è un mondo freddo e senza sole. Tom confessa all'amico
omosessuale di Marge, Peter Smith-Kingely: «Vo- rei poter sistemare il passato
in una camera buia. Chiudere la porta a chiave e non tornarci mai più [...]. Ci
penso sempre: lasciar entrare il sole, pulire tutto».
Il mondo di Dickie, invece, è luminoso come i paesaggi della Calabria, di
Roma e di Venezia, dove ama vivere: «Dickie, basta che ti si guardi per credere
al sole», dice Marge con una spietata lucidità. «Vi si leggono calore e felicità.
Quando una persona si interessa di te, ha l'impressione di essere unica al
mondo. Per questo la gente ti vuole tanto bene».

150
CAPITOLO /

Il giorno dell'ira

«Un'ira profonda scorre nel respiro degli uomini, fiume


increspato dal vento».
Karol Wojtyla, Poesie

«Un contestatore è un uomo in collera che contesta, e non un idiota in


preda al furore che detta il suo testamento».
Pierre Dac, Pensieri

Sta per esplodere. La sentiamo salire in noi come una lava. È l'ira. Un
ribollire di vulcano, la violenza di un uragano. Non possiamo fermarla, è lei
che ci afferra. Questa forza cieca e brutale, che proviene dalle profondità di
noi stessi come un Alien, esplode in noi e ci sfigura.
La tempesta della rabbia è solo il volto oscuro del vulcano. L'ira può
anche essere bianca. In apparenza, non si muove nulla. Ma sotto il ghiaccio
immobile, il veleno entra nel cuore e lo irrigidisce nel rancore, come il
veleno del ragno.
Rossa, nera o bianca: esistono forme d'ira di ogni colore, e quando
vogliamo guardare bene nel profondo di noi stessi, ne vediamo di tutti i
colori !
Gli Antichi la definivano «breve follia». Può anche essere lunga. Furiosa
o astiosa. È un piatto che si mangia freddo o bollente. Che sia fuoco della
rabbia o ghiaccio del risentimento, l'ira distrugge. Tuttavia, questa
aggressività che sorge in noi, malgrado noi, non fa forse parte della nostra
natura? Hegel diceva: «Nel mondo non si compie nulla di grande senza
passione». Allora, questa passione divorante è davvero un peccato?

Che cos'è l'ira?


Come l'invidia, l'ira è innanzitutto una passione, un moto
spontaneo della natura sensibile che abbiamo in comune con gli
animali. Se togliete la zuppa al vostro cane, esso ringhierà, come fate
voi quando scoprite che vi è stato addebitato un prelievo fiscale
indebito.
152
Ma, come tutte le passioni, l'ira non compare spontaneamente,
senza una ragione. Per diventare aggressivo, l'uomo deve sentirsi
aggredito. E si sente aggredito quando la giustizia non è rispettata,
per lui come per altri. L'irritazione sale quando l'individuo si sente
offeso. Per questo il filosofo Aristotele e il teologo Agostino dicevano
che l'ira è un desiderio di vendetta, cioè di ristabilire la giustizia.97
Da qui derivano le frequenti forme d'ira che caratterizzano la vita
professionale e familiare, quando riteniamo di essere lesi, in
qualunque ambito: «È giusto che il mio principale mi lasci respirare
un po' e che i miei colleghi rispettino di più il mio ritmo...». «È
normale che i miei figli mi obbediscano...». «È normale che io abbia
un po' di tranquillità, quando torno a casa dall'ufficio...». «Ho
almeno il diritto di esigere che mio marito non sia sistematicamente
in ritardo e che si degni di guardarmi quando torna a casa, la
sera...». «È legittimo che il nostro desiderio di avere figli venga
esaudito...».

In che cosa l'ira è un peccato?


Tutta la Bibbia è costellata dei fulmini di una giusta ira: quella del
«dolce Mosè» davanti al vitello d'oro; quella dello stesso Gesù,
l'Uomo-Dio di fronte allo spettacolo dei mercanti nel Tempio.
Quando guarì l'uomo che aveva una mano paralizzata, si dice che
«guardò con indignazione» i farisei (Me 3,5).
Più ancora, l'assenza di collera è un peccato. Una viltà! San
Giovanni Crisostomo non esita a scrivere: «Chi non si adira quando
ve n'è motivo, commette un peccato».98 D'altra parte, non si
parla forse di «santa collera»? Se i fulmini sono scagliati per giuste cause, in
che cosa è un peccato?
Tuttavia, il libro dei Proverbi è categorico: «Non farti amico di una testa
calda» (Prv 22,24). San Paolo esorta: «buttate via tutte queste cose: l'ira, le
passioni, le cattiverie...» (Col 3,8). Cristo, in una famosa beatitudine,
assicura: «Beati quelli che non sono violenti: Dio darà loro la terra
promessa» (Mt 5,5). Dunque? È difficile vedere chiaro in questo delicato
tema che non ha incontrato l'unanimità nella tradizione della Chiesa.

Occorre bandire ogni forma d'ira?


Gli autori spirituali non sembrano d'accordo. Secondo alcuni, l'ira deve essere bandita.
Così si esprime Evagrio Pontico: «Non vi è assolutamente un'ira giusta verso il

ARISTOTELE, Retorica,
L. II, c. 2,1378 a 30-31; SANT'AGOSTINO, Confessioni, L. II, VI, 13.
153
97 Cf

98 PSEUDO-CRISOSTOMO, Op. Imperf In Mattli., II, su Mt 5,22, PG 56,690.


prossimo». Giovanni Cassiano fa eco: «Il rimedio perfetto contro questa malattia [l'ira]
consiste innanzitutto nel credere che non ci è mai permesso di adirarci, che si tratti di un
motivo giusto o ingiusto».99 Più sfumato, san Francesco di Sales rimane minimalista: «Vi
dico categoricamente e senza eccezione: non adiratevi affatto, se è possibile [...]. È
meglio respingere risolutamente l'ira che venire a patti con essa».100 Al contrario, san
Bernardo sostiene: «Non irritarsi quando ne è il caso, non voler fare una correzione
necessaria, è un peccato. Irritarsi più di quanto è necessario, è aggiungere un peccato a
un altro peccato». Così pure, san Tommaso afferma che «la mancanza della passione
dell'ira è un vizio»101 e che non rendere giustizia quando lo si può e lo si deve fare è un
peccato.
Queste posizioni sono inconciliabili? No, se si fa attenzione alla differenza dei caratteri.
San Francesco di Sales non nacque dolce come un agnello. L'analisi della sua grafia ha
dimostrato che, da giovane, era molto violento. Un giorno in cui gli fu rimproverato di non
essere stato abbastanza severo, rispose: «Che volete? Ho fatto quello che ho potuto per
armarmi di un'ira che non costituisse peccato e, a dire il vero, ho temuto di perdere in un
quarto d'ora quel po' di dolcezza che mi impegno ad accumulare da ventidue anni goccia
a goccia, come la rugiada nel vaso del mio povero cuore».
Le guide spirituali possono fare proprio questo consiglio tratto dal Dizionario di
spiritualità: «I temperamenti troppo ardenti, troppo pronti a considerare giuste le cause
della loro ira, in generale avrebbero interesse a ispirarsi al pensiero di san Francesco di
Sales, a diffidare del loro giudizio e a essere piuttosto inclini alla dolcezza; quelli che
sono più fiacchi e che, per timore delle responsabilità, mancanza di fermezza di carattere
o per una prudenza troppo umana, fossero piuttosto inclini alla soluzione dolce, sarebbe
opportuno che si schierassero dalla parte della forza. Gli uni e gli altri, troveranno più
facilmente il "giusto mezzo" a cui ci si deve attenere. In questo modo si eviterebbero
molti scoppi d'ira ingiustificati e molte forme di debolezza che vengono accettati troppo
facilmente».102
Distinguiamo. Da un lato, l'ira è un sentimento; ogni sentimento è
moralmente neutro; più ancora, è psicologicamente buono. L'ira fornisce
un'energia psicologica che la sola ragione non può suscitare. L'avvocato che
difende una causa sa «navigare» su questa forza sotterranea che infiamma i
suoi discorsi, conferisce loro forza e persuasione. San Gregorio Magno
scrive: «La ragione si erge con maggior vigore contro i vizi, quando l'ira che
le è assoggettata le offre i suoi servigi».103
D'altra parte, l'ira compare quando la giustizia è lesa. Diventa una forza
moralmente legittima quando viene messa al servizio della giustizia (vedere

99 Istituzioni cenobitiche, L. Vili, c. 22.


100 Introduzione alla vita devota, L. 3, c. 8.
101 Stimma theologiae, Ila-IIae, q. 158, a. 8.
102 MARCEL VILLER, art. «Colère», Dictionnaire de spiritualità, Beauchesne, tomo 2, 1953, c. 1074.
154
103 Moralia, V, 45, PL75,727.
oltre). È questa l'ira che provò Gesù di fronte ai farisei, i custodi della Legge
che non volevano riconoscerlo come Messia mentre ne erano stati dati loro
tutti i segni.
Giusta ira
L'8 luglio 2000, alcuni uomini rapirono a Tepoztlan, nel Messico, una ragazzina di nome
Paola Gallo. Una settimana dopo, fu ritrovato il cadavere della bambina, sebbene fosse
stato pagato il riscatto. Eduardo Gallo, il padre di Paola, abbandonò il suo lavoro di
esperto contabile e, di fronte alle negligenze della polizia, si trasformò in detective.
Dedicò a questo impegno i suoi giorni e le sue notti. Dopo undici mesi di indagini, trovò
l'assassino di sua figlia, Francisco Za- mora, alias El Apache. Era stato lui a uccidere
Paola sparandole in testa dopo aver estorto il riscatto. Mentre teneva l'assassino a poca
distanza dal suo revolver, Eduardo rifiutò di vendicarsi e decise di consegnarlo alle
autorità.

Come essere certi che l'ira sia al servizio di una causa legittima?
Sono indispensabili tre condizioni: un obiettivo giusto, una retta
intenzione, una reazione proporzionata.104 L'ira diventa dunque un peccato
quando è ingiusta, vendicativa o smisurata. Come l'acqua in una bevanda
alcolica, uno solo di questi fattori negativi basta a rovinarla.

Un obiettivo giusto?
Duchmoc, il candidato francese della lista «Le progrès en marche» ha
superato per qualche decina di voti Dubruc, de «La marche en progrès»,
per la quale da un mese attaccava manifesti di notte. È ignobile! Volano
insulti, e sorge un'ira feroce. Questa ira è legittima? No. Le elezioni si sono
svolte nel rispetto delle regole e l'atto compiuto non è ingiusto.

Una retta intenzione?


I vostri vicini del piano di sopra il sabato sera fanno baldoria fino alle
due del mattino. Dormire è impossibile! Devono pagarla. Alla prossima
riunione di condominio, proporrete che siano aumentati i costi
dell'ascensore a carico degli inquilini dei piani superiori. Detto tra noi, siete
veramente mossi da un intento di equità? L'intenzione della persona che
agisce per ira deve essere quella di rendere giustizia, non di vendicarsi,
com'è accaduto nel caso dell'impiegato che ha organizzato una
manifestazione a sostegno di un dipendente licenziato ingiustamente per
vendicarsi di un datore di lavoro che non gli aveva accordato un aumento.
Una reazione proporzionata?
I giornali americani pullulano di episodi che vedono automobilisti che

104 Cf Stimma theoìogiae, Ila-IIae, q. 158, a. 2. La sistematizzazione in tre aspetti deriva da AD.
TANQUEREY, Précisde théologie ascétique et mystique, Desclée et Cie, 1924, p. 544. 155
urtano involontariamente un altro veicolo e si ritrovano minacciati, persino
feriti da un'arma da fuoco impugnata dall'altro automobilista esacerbato! Se
si può presumere che la causa sia giusta e l'intenzione retta, la reazione
manca crudelmente di misura.

Infine, il peccato di ira non è solo un'ingiustizia commessa contro altre


persone; è un'offesa a Dio. Vuole distruggere il prossimo, in un modo o
nell'altro, perché è un rifiuto della diversità voluta dal Creatore; ma la
varietà dei volti, dei ritmi, delle personalità, è una ricchezza. Le rose sono
belle, ma se ci fossero solo rose... Dopo i sei giorni della creazione, Dio
considera l'insieme della sua opera; invece di dire che è «bella», come fa al
termine di ogni giorno, conclude che «è molto bella» (Gn 1,31).
Infatti, il bene comune supera la semplice somma dei beni particolari: il
tutto è più della somma delle parti; la salute della persona è più della
somma della salute dei vari organi; un concerto riuscito è più della somma
delle esecuzioni di ogni strumentista, è un'armonia a cui ogni strumento ha
contribuito al suo meglio e che ricade, moltiplicata nella gioia, su ogni
musicista. L'iracondo, come il geloso, non sa più rallegrarsi del bene
comune che lo supera: l'iracondo cerca di rovinarlo con uno stile combattivo
e distruttivo, il geloso con un atteggiamento depressivo e spregiativo.

In che cosa l'ira è un peccato capitale?


Come ogni vizio capitale, l'ira genera altri peccati. Dal più interiore al
più esteriore:

In pensieri
II primo effetto negativo dell'ira è il giudizio interiore. Il peccato
comincia qui. Secondo gli psicologi, i tre quarti delle nostre parole interiori
sarebbero giudizi...
In parole
Raramente l'ira rimane nascosta nell'intimo della persona; vuole
esprimersi! I «peccati di lingua» non cominciano con la calunnia (mentire
parlando di altri), ma con la maldicenza (dire di altri un male che è vero).
Diffamando, si distrugge la reputazione di un altro; peggio, si intacca la sua
fecondità, la sua capacità di brillare, perché una buona reputazione
permette di fare del bene. Per questo san Francesco di Sales riteneva che la
maldicenza fosse un peccato grave. A una persona che dichiarava questo
peccato in confessione, san Filippo Neri diede la penitenza di spiumare un
pollo per le strade della città e poi di raccogliere e portare a lui le piume. La
donna (ma avrebbe potuto essere un uomo!) alcune ore dopo tornava da lui,
confessando che era impossibile, perché
156 aveva disperso le piume. Filippo rispose: «Le parole di maldicenza
il vento
sono molto più difficili da rimediare delle piume!».
Monsignor Bourdaloue, vescovo di Orléans, sosteneva che il maldicente
uccide tre persone: la persona di cui parla male, se stesso, e la persona a cui
riporta le maldicenze. Per Gesù, le parole espresse in preda all'ira
equivalgono all'omicidio: «Sapete che nella Bibbia è stato detto ai nostri
padri: Non uccidere. [...] Ma io vi dico: chiunque va in collera contro suo
fratello sarà portato davanti al giudice. E chi dice a suo fratello: "Sei un
cretino" sarà portato di fronte al tribunale superiore» (Mt 5,22). Secondo un
commento rabbinico, uccidere una persona significa spargere il sangue; dire
una parola dura significa farlo illividire. Illividire significa svuotarlo del suo
sangue, ma dall'interno. Per questo Gesù non esita a stabilire una
equivalenza tra ira e omicidio. Vi sono parole che uccidono.

Negli atti
L'ira si sfoga nelle vie di fatto: dal semplice litigio alla violenza spietata.
Il desiderio di vendetta di fronte a un'ingiustizia porta ad aggredire la
persona che si considera ingiusta, o un membro della comunità o del popolo
che fa pesare l'ingiustizia, come i kamikaze palestinesi che si fanno
esplodere negli autobus israeliani. La radicalizzazione del conflitto in Terra
Santa illustra tragicamente questa escalation della violenza.
Quando non è regolata dalla ragione, l'ira sfocia nell'irragio- nevolezza
e nell'eccesso. A volte si spinge fino all'omicidio, come nel caso di Lamech,
personaggio biblico della Genesi: «per una ferita ricevuta io ho ucciso un
uomo e per una scalfittura un ragazzo» (Gn 4,23). Le pagine di cronaca dei
quotidiani sono piene di resoconti di crimini del genere. «Dopata» dalla
paura, l'ira è all'origine di esplosioni d'odio, cacce alle streghe, linciaggi di
capri espiatori, ecc. Decuplicata dalle torbide motivazioni della gelosia,
l'ira cerca solo più di distruggere. Questa violenza può essere l'origine di
un piacere potente, che giunge a generare una dipendenza. Ricordiamo
l'ebbrezza di Lawrence d'Arabia alla vista del sangue, nel film di David
Lean (1962)? Il protagonista perde ogni controllo di se stesso durante la
battaglia, esce dalla mischia macchiato, titubante, ancora ebbro per la
carneficina.

Quali sono le diverse specie di ira?


La distinzione tra ira rossa (impeto brutale) e ira bianca (livore
nascosto)105 è quasi fisiologica; riguarda più la passione della collera che il
vizio dell'ira. Tuttavia, è possibile distinguere tre tipi d'i- ra-peccato, a
seconda delle tre relazioni interpersonali che possono ferirci e farci reagire

105 Cf San Tommaso d'Aquino, Stimma Theologiae, Ia-IIae, q. 46, a. 8.


157
con eccesso: l'altro, noi stessi, Dio.

L'ira contro l'altro


Ci indispettiamo anche quando le cose non ci assecondano: chi non ha
mai visto qualcuno accanirsi contro un telefono che non funziona o dare
calci a un'auto che non parte? E non è peggio ancora quando si tratta di
una persona?
Ma le nostre esplosioni d'ira sono proporzionate alle nostre delusioni.
Le più forti sono provocate dalle persone a cui vogliamo bene. Possono
generare desideri segreti di vendetta. Alcuni dei nostri scatti d'ira sono gli
sbocchi dei fiumi sotterranei che sono i risentimenti. Questi scalzano
insensibilmente l'amore delle persone che vivono vicino a noi, del nostro
coniuge, dei nostri genitori; un giorno l'amore crolla, divorato da questo
odio larvato, come una scogliera minata dall'erosione dell'oceano.
Di fatto, a disturbarci non sono gli altri, ma l'altro. E la sua differenza.
L'altro, con i suoi ritmi, i suoi gusti, le sue relazioni, le sue opinioni, le sue
convinzioni... Questo a volte diventa intollerabile. Quanti scoppi d'ira tra
coniugi avvengono per dettagli insignificanti, come l'auto non posteggiata
mai nel garage, o le camicie da lavare non sistemate mai nel cesto della
biancheria sporca? Per smettere di resistere alla nostra volontà, l'altro
dovrebbe essere identico a noi. O scomparire... Per questo lo psicanalista
gesuita Denis Vasse osa affermare che «l'ira non è mai obiettiva».106

L'ira contro se stessi


Quando arriva nel girone degli iracondi, Dante descrive persone
immerse in una palude, che si percuotono «non pur con mano, / ma con la
testa e col petto e coi piedi, / troncandosi co' denti a brano a brano». Uno di
loro, che non ha più nessuno vicino da distruggere, si rivolta contro se
stesso e si divora a morsi. 107 E possibile covare rancore fino ad
autodistruggersi. E il caso del bambino che rompe il suo giocattolo preferito;
della madre che si morde le mani perché non si perdona di aver inflitto una
punizione ingiusta al suo figlio maggiore; della donna che se la prende per
essere stata troppo «sciocca» mancando un dato appuntamento; dell'uomo
che si uccide, guidando a velocità troppo elevata, perché non si perdona di
non aver potuto dare un figlio a sua moglie.
Lo psichiatra americano Ross Campbell mette in guardia i genitori: «Ciò
che minaccia di più la vita di vostro figlio è la sua ira. E se non riesce a
placarla in modo corretto, lo danneggerà e addirittura lo distruggerà
completament».108 Già san Francesco di Sales si riferiva alle persone «che,

106 DENISVASSE, La chair envisagée. La generation symbolique, Seuil, 1998, p. 78. In corsivo nel testo.
107 La Divina Commedia. Inferno, canto VII, vv. 112-114 e 63.
158
108 Ross CAMPBELL, Ami tuo figlio? Come guidare l'adolescente a diventare un adulto
essendosi adirate, si crucciano di essere crucciate». Queste forme d'ira
secondaria sono peggiori delle prime; «così, [queste persone] tengono il loro
cuore conficcato e immerso nell'ira. [...] Dobbiamo dunque nutrire un
dispiacere per i nostri errori che sia sereno, ragionato e fermo». 109

L'ira contro Dio


Vi sono poi forme d'ira contro Dio, quando sembra che il Signore resista
alle nostre preghiere, ai nostri desideri, alla nostra volontà. Queste forme
d'ira possono arrivare a un comportamento blasfemo e al sacrilegio.
Possono anche assumere la forma più sottile della fredda indifferenza e
preparare la strada al livore. Georges Bernanos ne dà un mirabile esempio
in un episodio del Diario di un parroco di campagna, un libro di cui è stato
detto che dovrebbe essere letto una volta all'anno. L'episodio in questione si
riferisce a una contessa la cui vita è un modello di perfezione cristiana,
almeno vista dall'esterno. Sua figlia ha nei suoi confronti un odio glaciale,
suo marito la tradisce. In sintesi, è una vittima perfetta. In realtà, una
profonda rivolta rode questa donna fin dal momento in cui è morto suo
figlio, a diciotto anni. Da quel giorno, la contessa ce l'ha a morte con Dio:
«Mi ha preso mio figlio».
In questo caso, è peggiore di ogni altro male il fatto che la contessa
nasconda a se stessa il suo peccato e si allontani così da Dio. Questa
chiusura è propria dell'inferno. L'umile parroco di campagna lo dice alla
contessa: «Signora, l'inferno consiste nel non amare più». La contessa
comprende. Quando afferma: «Dio mi è diventato indifferente», intende
dire che lo odia. «Quando lei mi avrà indotta ad ammettere che lo odio, ci
guadagnerà qualcosa, imbecille?». E la sua ultima frecciata contro il
sacerdote che osa svelarle il segreto del suo cuore. Questa presa di coscienza
è vicina alla redenzione: «Lei non odia più Dio», dice il sacerdote. «L'odio è
indifferenza e disprezzo. E adesso, siete finalmente faccia a faccia, Dio e lei».

Come si dissimula?
Molti impeti d'ira si mascherano. Le forme d'ira nascosta sono le più
temibili, perché la prima vittima è l'iracondo stesso. Per quali ragioni può
avvenire un'esplosione d'ira?
È diventata abituale, e dunque un vizio, nel senso proprio del termine.
Abbiamo l'abitudine di vivere con essa, non ce ne rendiamo più conto. In
molte aziende, la maldicenza, frutto dell'ira e grande distruttrice del bene
comune, si è trasformata in sport quotidiano.
È condivisa dall'ambiente: «Tutti la pensano come me: il responsabile

indipendente e responsabile, Ed. Vita Nuova Italia, 1994.


109 Introduzione alla vita devota, L. 3, c. 9. 159
dell'ufficio vendite è uno scansafatiche!», o: «Suo marito è un buono a nulla,
un incapace; è comprensibile che lei abbia una relazione extraconiugale».
Un tacito consenso copre l'ira. Si finisce per scegliere i propri amici in
funzione di inimicizie condivise, non di obiettivi perseguiti.
È giustificata da argomentazioni: «È un'ira "sacrosanta"!». Queste forme
d'ira sono frequenti nelle comunità caratterizzate da un forte senso
d'identità o chiuse. Un determinato responsabile, più spesso dei dipendenti
subordinati, diventa il bersaglio scelto della violenza collettiva, il
parafulmine dell'ira, il capro espiatorio dell'insoddisfazione.
Acceca. Il padre del deserto Evagrio Pontico afferma: «Nulla porta
l'intelletto a ottenebrarsi come la parte irascibile quando è turbata». 141
pensieri di sospetto, odio e rancore, scrive ancora Evagrio Pontico, «più di
tutto accecano l'intelletto e il suo stato celeste».15 L'ira sorda, le musonerie,
sono tanto più pericolose quanto più sono represse. Questo è
particolarmente vero per il ri- sentimento, il peggiore effetto dell'ira, che
spesso genera la critica per l'autorità. Il segnale d'allarme è l'incapacità di
sentir parlare bene della persona che suscita il risentimento: «Pensi che
Sylvie sia generosa? Può ben esserlo, con i mezzi che hanno!», o: «Trovi che
Jean-Hubert sia cambiato in meglio? Si vede che non vivi con lui!».
E sovradeterminata da ragioni psicologiche: dietro l'atto morale si
nasconde una ferita interiore. E il caso di certi perfezionisti che vogliono
essere persone così «positive» che nascondono l'ira che si agita in loro. E se,
di rado, s'indispettiscono contro gli altri, ce l'hanno prima di tutto contro se
stessi (vedere riquadro).

u Trattato pratico, 21.


15 Sui pensieri, 32.

L'ira nascosta di un perfezionista


Philippe, 65 anni, direttore in un'azienda, spiega: «Ho la nomea di essere un uomo
esigente. I miei colleghi e i subordinati mi rispettano, perché sanno che, se domando loro
una cosa, io faccio due voltetanto. Non lascio passare loro nulla, ma sono ancora più
duro con me stesso. Se mi fanno dieci complimenti e una critica, io considero solo la
critica e cerco di migliorare. Sono consapevole di molti miei difetti.
Tuttavia, sono dovuti trascorrere sessantacinque anni e una confessione con un
sacerdote pieno di saggezza, perché comprendessi di essere iracondo. Dopo avermi
ascoltato, il sacerdote sorrise con umorismo e indulgenza: "Deve essere molto seccante
vedere che gli altri fanno così pochi sforzi per migliorarsi, mentre lei non fa altro che
sforzarsi, vero?". E aggiunse subito con dolce ironia: "Ma lei non può spazientirsi... Non
sta bene, è così imperdonabile lasciar esplodere la propria ira...".
Quel sacerdote mi aveva compreso più di quanto mi fossi mai compreso io stesso. Ero
divorato da un'ira profonda contro i miei colleghi, ma anche contro mia moglie e contro
160
me stesso. La mia ira era soffocata nel profondo di me stesso e mi rodeva
insensibilmente. Da quel giorno, cerco di riconoscere la mia ira interiore invece di soffo-
carla, tentando di non usare tutto il mio perfezionismo per deperfezionarmi...».
L'ira si soffoca nell'indifferenza che spesso non è altro che ira repressa,
rabbia raffreddata. L'iracondo allora inganna se stesso: «Io, irritato?
Assolutamente no: non provo più nulla a questo riguardo!». Noi siamo fatti
per amare o per odiare: l'indifferenza non esiste. Un uomo confidava di
essere stato profondamente ferito da uno dei suoi fratelli. Il suo
interlocutore gli domandò: «È difficile perdonare affronti di questo genere,
vero?». L'uomo replicò: «Oh, non ho bisogno di perdonare: adesso, provo
solo indifferenza». L'ira era nascosta in lui. Basterebbe andare poco oltre la
superficie per far affiorare di nuovo la violenza.
E ignorata. Innanzitutto, è ignorata la sua esistenza. Per esempio, una
data persona si riferisce a un collega che lo infastidisce alzando la voce:
«Tutte le mattine arriva dopo gli altri e poi va a farsi vedere dal capufficio
con un fascicolo sotto il braccio per fargli credere che è arrivato in orario!».
«Sembra che questo ti faccia imbestialire». «Niente affatto, mi limito a fare
una constatazione!». Del resto, nulla è più ridicolo di una persona
inconsapevole della propria ira.
È poi possibile ignorarne la natura. In particolare, si confonde l'ira con
l'esplosione. Si pensa che gli unici iracondi siano gli emuli del Capitano
Haddock che i monaci tibetani avevano soprannominato «tuono
ringhiante». Ma molte proteste, borbottìi (interiori o esteriori) sono forme
certo meno spettacolari ma altrettanto reali d'ira. Dio fustiga con grande
rigore anche quello che definisce «mormorare», uno dei grandi peccati del
popolo d'Israele. Gli Antichi ritenevano anche che l'ira rossa, quella «esplo-
siva», fosse meno grave delle forme d'ira «bianca» larvate, che preparano il
terreno all'amarezza. Le prime offuscano lo sguardo per un istante, le
seconde appannano a lungo lo specchio dell'a- nima. Soprattutto, i
mormorii, giustificati come reazioni legittime, finiscono per tappezzare il
quotidiano e diventare una seconda natura.

Come riconoscerla?
Quando l'ira è diventata abituale, individuarla diventa difficile.
Riprendiamo i tre criteri che permettono di diagnosticare una forma d'ira-
peccato.

Un obiettivo ingiusto
Una collera peccaminosa trasgredisce la giustizia; giudica a priori, senza
pezze giustificative. La sua preoccupazione principale è cercare delle scuse,
e non parliamo d'indulgenza! Quanti scoppi d'ira nascono perché ci161 si è
soffermati troppo in fretta solo sull'apparenza! E quanti giudizi non sono
altro che pregiudizi!
Un signore deve partecipare a una cena importante, ha fretta, cerca
invano i suoi gemelli da polso, se la prende con sua moglie che «mette tutto
in posti impossibili»... Finché lei gli ricorda che è stato lui a metterli nel
cassetto della scrivania il mese prima, perché i bambini non li toccassero.
Una grande lezione dalla «piccola» Teresa
«Ah! come è vero che non bisogna giudicare niente su questa terra. Guarda che mi è
capitato in ricreazione, qualche mese fa. È una cosa da nulla, ma mi ha insegnato
parecchio:
La campana aveva suonato due colpi, e giacché non c'era la Depositaria, Sr. Teresa di
S. Agostino aveva bisogno di un'aiutante. Di solito non è gradevole fare da aiutante, ma
quella volta la cosa mi tentava parecchio, perché bisognava aprire la porta per prendere i
rami d'albero per il presepio.
Accanto a me c'era Sr. Maria di S. Giuseppe, ed io capii che anche lei aveva il mio
stesso desiderio innocente. "Chi è che mi vuole aiutare?" disse Sr. Teresa di S.
Agostino. Allora io ho cominciato subito a ripiegare il lavoro che stavo facendo, ma
lentamente, affinché Sr. Maria di S. Giuseppe potesse finire prima di me ed essere lei a
fare quello che era richiesto, come in effetti avvenne.
Sorridendo, allora, e guardando verso di me, Sr. Teresa di S. Agostino disse: "Eh! è
chiaro che sarà Sr. Maria di S. G. che aggiungerà questa perla alla sua corona. Lei si è
mossa con troppa lentezza". Risposi soltanto con un sorriso, e ricominciai il mio lavoro,
dicendo in cuor mio: "0 mio Dio, quanto sono diversi i tuoi giudizi da quelli degli uomini!
Ecco perché sulla terra noi ci inganniamo così spesso, e a proposito delle nostre sorelle
prendiamo come mancanze ciò che invece davanti a Te è merito!"».

Un'intenzione distorta
L'ira può sembrare legittima e il suo obiettivo giusto (una manifestazione
contro l'effetto serra, per esempio), ma l'intenzione può essere diversa da
quella di riparare un torto ed essere mossa da motivazioni discutibili:
invidia nascosta, regolamento di conti... In fondo, questa azione
esteriormente giusta è una reazione interiormente spinta dal risentimento.
Si ritrova questo contrasto in certi conflitti sociali. Si afferma di difendere
la giustizia sociale, ma quanti scioperi nel settore pubblico non sono altro
che tentativi di difesa meschina di diritti acquisiti di categoria? Una
manifestazione «antiglobalizzazione» può nascondere frustrazioni e invidie
che portano alla distruzione. Quello che a volte è stato definito il «Gandhi»
giapponese,
Paolo Takashi Nagai, manifestava dubbi di fronte alla veemenza di certi
movimenti «pacifisti», e agli «scatti d'ira» di certi militanti: « [...] Le grida di
collera, nelle strade, a favore della pace, erano sovente solo espressioni di
162
cuori in cui la pace mancava», commentò. Affermazioni del genere non
piacevano a tutti!

Le lapidi del risentimento


Frank Buchman, fondatore del movimento del Riarmo morale americano, era un uomo
molto generoso. Nacque il 4 giugno 1878 a Penn- sburg, in Pennsylvania, e, dopo aver
terminato gli studi, si stabilì in uno dei quartieri più poveri di Philadelphia per aprire là
una casa destinata a orfani e bambini indigenti. A contatto con lui, le persone si trasfor-
mavano in modo sorprendente: non compiva alcun proselitismo, si limitava a esprimere
alcune parole semplici, e si vedeva il cambiamento di persone considerate molto
egoiste o ripiegate su se stesse.
Avvenne allora un fatto decisivo nella sua vita. Un giorno, Frank si trovò in contrasto con
il comitato direttivo della casa che aveva fondato: il comitato voleva ridurre le razioni dei
bambini a tavola per ragioni di economia. Furioso, Frank si dimise e partì per l'Europa,
dove un medico gli prescrisse un periodo di riposo perché era esaurito. Un giorno, in
occasione di una passeggiata, dopo essere entrato nella piccola chiesa di Keswick, in
Inghilterra, improvvisamente prese coscienza del suo orgoglio e dei suoi rancori.
Comprese che non valeva di più delle persone che aveva condannato nel suo cuore. In
seguito, parlando di quel momento in cui la sua esistenza cambiò, scrisse: «Il mio io era
il centro della mia vita. Se volevo cambiare, era necessario che il mio io fosse crocifisso.
I risentimenti che provavo contro i sei uomini del comitato direttivo mi apparvero come
lapidi funerarie innalzate nel mio cuore. Chiesi a Dio di farmi cambiare. Dio mi chiese di
riconciliarmi con quegli uomini. Obbedii e scrissi sei lettere di scuse». Nessuna di quelle
lettere ottenne risposta. Poco importa. Era nato un uomo nuovo.

Una reazione spropositata


L'oggetto dell'ira può essere legittimo e l'intenzione retta, ma
l'atteggiamento può essere spropositato. E l'ira trascende almeno in quattro
modi.
Fate effettuare alcuni lavori nel vostro appartamento. Saldate
il conto e comprendete che l'artigiano vi ha imbrogliato facendovi pagare
più di quanto era stato pattuito nel preventivo. Reazione immediata: «È un
furto!». È una reazione giustificata. Voi però non vi fermate qui. L'ira
s'ingrandisce e si diffonde:
- A tutta la persona: «È un ladro!». Sottinteso: «Non è altro che un ladro!»
(Diffidiamo degli epiteti che diventano sostantivi).
Il peccato d'ira riduce l'altro al male che ha commesso, identifica la
persona con il suo atto.
- A tutta la sua vita: «D'altra parte, di lui non ho sentito dire altro che è un
furfante e non c'è ragione per cui cambi». Qui, l'ira estende il torto
all'esistenza della persona, senza remissione e senza speranza; 163 si
nutriranno a priori sospetti su tutto ciò che farà in seguito, anche di
onesto, e verrà screditato.
- Alle persone che fanno parte del suo contesto: «E una famiglia di ladri,
non si può accordare loro fiducia». L'astio estende la sua cecità e i suoi
eccessi agli innocenti.
- A tutte le persone che le somigliano: «Comunque, tutti gli imprenditori
sono ladri». Il giudizio non viene esteso solo per contiguità, ma per
similitudine. Questo «tutti» di fatto corrisponde solo ad alcuni casi
conosciuti, ma per estensione gli esempi di segno contrario saranno
automaticamente annoverati tra le eccezioni! L'iracondo si trincera in un
ragionamento diventato irrefutabile.

Di fatto, un peccato è tanto più grave se passa dal pensiero alla parola, e
poi all'azione. Gli eccessi dell'ira sono dunque graduati nella loro gravità a
seconda dell'esteriorizzazione, ma anche secondo la durata: dall'ira
occasionale e circoscritta (quando si richiama un pregiudizio, per esempio)
all'ira ossessiva e abituale, che ci trasforma in giustizieri permanenti.

Come rimediare?
La causa principale del peccato d'ira è duplice: l'ingiustizia del suo
obiettivo e l'eccesso della reazione. I rimedi saranno dunque duplici:
Prendere le distanze...
«Allontanatevi il più possibile, subito, dall'oggetto che suscita la vostra
ira. Mantenete un profondo silenzio per tutto il tempo in cui dura
l'esplosione d'ira», consigliava il curato d'Ars. 110 Invece di picchiare vostro
figlio che vi stressa con la sua lezione di matematica, andate a prendere un
po' d'aria!

...ma non fuggire


Si crede che per scongiurare l'ira basti evitare la persona che ci ha ferito.
Senza spiegazioni e senza perdono, il conflitto rimarrà latente. In questo
modo, non si fa altro che negare la sofferenza interiore, che si ripresenterà
alla prima occasione.
Evagrio Pontico spiega: «Quando, dopo aver trovato un pretesto, la
parte irascibile del nostro animo è profondamente turbata, in quel
momento, i demoni ci suggeriscono che la vita solitaria è bella, per
impedirci di mettere fine a quello che aveva provocato la nostra tristezza e
di sbarazzarci così del nostro turbamento». M a l a fuga è tanto un
meccanismo di difesa quanto una tentazione del demonio. Fuggendo, si

164
110 Jean-Marie Vianney, Pensées, op. cit., p. 155.
evita la tristezza senza accettarla e senza elaborarla; soprattutto, prosegue
Evagrio, «si separano i pensieri dalla carità»;111 si perde così un'occasione
divina di crescere nell'amore fraterno.

Mettersi al posto dell'altro


Non c'è nulla da cambiare a questa affermazione del pagano Seneca, nel
primo secolo della nostra era: «Nessuno dice a se stesso: "Ho fatto, o avrei
potuto fare, ciò che mi irrita"; tutti considerano non le intenzioni dell'autore
di un atto, ma solo l'atto compiuto. Ma occorre considerare proprio l'autore:
ha agito di proposito, senza farlo apposta, è stato forzato o ingannato [...]?
Mettiamoci al posto della persona che ci contraria: infatti, quello che ci
rende irascibili è una valutazione parziale di noi». 112
Reagire non è la stessa cosa di agire. In che misura dobbiamo ricercare la
giustizia? Diventato vescovo, san Francesco di Sales aveva preso la
decisione di non parlare mai a uno dei suoi sacerdoti in preda all'ira.

Di fronte all'ira altrui


Il vostro principale vi ha umiliato in occasione di una riunione di lavoro? Tornate a casa
irritati, e trovate vostro figlio disteso sul divano, che ascolta musica techno invece di
ripassare geografia. Ah, no! Parte un ceffone. La vostra ira si trasmette a vostro figlio, il
quale a sua volta la trasmette a vostra moglie rispondendo con insolenza; vostra moglie
picchia vostra figlia perché ha rovesciato il piatto di fettuccine, e la ragazza dà un calcio
al cane perché non la smette di uggiolare.
L'ira è contagiosa. Spesso basta che il coniuge, un figlio, un collega, un vicino reagisca
in modo aggressivo, e noi ci adiriamo a nostra volta.
Marshall Rosenberg, specialista di comunicazione non violenta, propone un percorso
per non rispondere all'ira altrui con la nostra ira.113 Per questo, distingue quattro
componenti che costituiscono anche quattro tappe successive in una buona
comunicazione, e che saranno illustrate con lo stesso esempio.
1. Osservazione. Osservo un comportamento concreto che influenza negativamente il
mio benessere. Esprimo nel modo più obiettivo possibile ciò che constato. Attenzione:
constatare non significa giudicare, né interpretare. Per esempio, sembra che il vostro
coniuge sia adirato quando voi guidate. La prima tappa della comunicazione non
violenta propone che vi esprimiate così: «Osservo che hai le mani contratte a pugno e
non mi parli, da quando ho frenato un po' bruscamente. Suppongo che tu sia in collera».
È bene chiedere conferma di quest'ultima frase, perché si tratta di un'interpretazione.
2. Sentimento. Questa constatazione provoca in me certe sensazioni. lo enuncio il
sentimento che provo alla vista di ciò che osservo. Esempio: «Quando sei in collera, si

111 EVAGRIO PONTICO, AdEuìogium monachimi 5, PG 79,1100 B.


112 Seneca, L’ira, L. Ili,
XI, 1, Lettere a Lucilio.
113 MARSHALL B. ROSENBERG, La comunicazione non violenta, Esserci, Reggio Emilia 1999.
165
risveglia in me un'inquietudine».
Ricordate che esprimere un sentimento rende vulnerabili; per questo spesso si
preferisce presentare un'idea, pur pretendendo, paradossalmente, di enunciare un
sentimento. Dire: «Ho la sensazione che il mio modo di guidare non sia rassicurante» è
un giudizio e non un sentimento.
3. Bisogno. Ogni sentimento è sotteso da un bisogno, lo esprimo il bisogno che ha
suscitato questo sentimento. Esempio: «Ho bisogno di sicurezza quando guido».
Attenzione: è difficile esprimere sia un bisogno che un sentimento e per la stessa
ragione: rende vulnerabi
li. Si tende dunque a trasformare l'espressione del bisogno (in prima persona) in
esigenza, persino in accusa (alla seconda persona).
4. Richiesta, lo richiedo all'altro un'azione concreta che contribuirà al mio benessere.
Esempio: «Potresti essere così gentile da rivolgermi la parola, invece di tacere? Il mio
stress si ridurrebbe». Attenzione: domandare non significa esigere. Per questo, occorre
essere pronti ad accettare che l'altro non accolga la nostra richiesta. «Ma se preferisci
non dirmi nulla, fa' come desideri».

Esercitare la dolcezza
Si lotta contro l'ira tramite le virtù a essa opposte: la pazienza, il rifiuto
di coltivare rancori, la dolcezza. E per addolcirsi, si può cercare di arginare
la collera a monte, impedendole di passare dal pensiero alle parole e dalle
parole alle azioni. Un padre del deserto consiglia: «Se è possibile, si deve
impedire all'ira di entrare fino al cuore; se è già nel cuore, fare in modo che
non si manifesti sul volto; se si manifesta, tenere a freno la lingua; se è già
sulle labbra, impedirle di passare alle azioni e cercare di eliminarla il più in
fretta possibile dal cuore».
Come l'umiltà, la dolcezza non è triste. La seconda Beatitudine assicura
che la mansuetudine è fonte di felicità. Più ancora, ci assicura che solo la
dolcezza ottiene quello che l'ira cerca con rabbia e non trova mai: «Beati
quelli che non sono violenti: Dio darà loro la terra promessa» (Mt 5,5). Il
Salmo 37 (36) è come un ampio commento di questa beatitudine; l'iracondo
dovrebbe copiarlo per intero e meditarlo spesso: «Non adirarti contro i
malvagi...» (v. 1).
Praticare l'umiltà
Per cominciare, ci si può ispirare agli esempi biblici di Mosè, «una
persona umile, più umile di ogni altro uomo che c'era sulla terra» (Nm 12,3);
di Davide, «Signore, il mio cuore non ha pretese, non è superbo il mio
sguardo...» (Sai 131,1); e di Gesù: «Accogliete le mie parole e lasciatevi
istruire da me. Io non tratto nessuno con violenza e sono buono con tutti.
Troverete la pace...» (Mt
166
11, 29). Gesù unisce l'umiltà e la dolcezza attribuendole a sé. Di fatto, le
persone umili sono dolci. San Francesco di Sales afferma: «L'ira, le ripicche e
l'asprezza contro se stessi tendono all'orgoglio e hanno origine solo
dall'amor proprio, che si turba e s'inquieta nel vederci imperfetti».114
Come risponde Cristo ai farisei nell'episodio della donna adultera (Gv
8,1-11)? Uno degli affreschi della cripta della cattedrale di Salerno
rappresenta Gesù inginocchiato, che scrive sulla sabbia in silenzio, mentre i
dottori della Legge lo sovrastano, sicuri del loro buon diritto. La vicinanza
degli accusatori è tale che questo umile gesto somiglia a una lavanda dei
piedi, con cui Gesù smorza la loro aggressività.

Smettere di idealizzare
L'idealizzazione è un altro alimento dell'ira. Essa è più frequente di
quanto si creda. «Per molto tempo sono stato adirato con il mio diretto
superiore perché mi aspettavo che comprendesse ogni mia aspettativa, che
fosse sempre di buonumore, pronto ad ascoltarmi. In sintesi, poiché era il
mio diretto superiore, doveva essere perfetto», confida un dipendente. Lo
stesso accade nella vita coniugale, dove ci si attende, spesso inconsciamente,
che l'altro sia privo di difetti e ci soddisfi in tutto. Che dire delle nostre
aspettative relativamente a sacerdoti e persone consacrate?
Smettere di idealizzare significa fare concessioni. Il monaco benedettino
Anselm Grün osserva: «Molti giovani adulti non possono più andare a
trovare i loro genitori, perché appena arrivano cominciano a litigare. A ogni
augurio formulato dai genitori, i figli subodorano un regresso. Hanno la
sensazione di essere sempre trattati come bambini e si difendono con
recriminazioni. Pensano di reagire così in nome della loro libertà. Di fatto, se
fossero davvero liberi dall'influenza dei loro genitori, potrebbero fare
qualche concessione, di tanto in tanto».115 Siamo però chiari: accettare il
compromesso non significa tollerare l'intromissione.

Rinunciare al perfezionismo
Quante esplosioni d'ira nascono da progetti che non sono giunti a
compimenti percepiti come ingiustizie, mentre erano so
lo illusioni cullate sulle nostre capacità, il nostro lavoro, la nostra coppia, le
nostre amicizie?
Possiamo uscire dalla trappola dell'ira solo rinunciando aH'«immagine
orgogliosa di noi stessi», 116 per usare un'espressione dello psicanalista Denis
Vasse, all'ideale del nostro io, alla nostra volontà di padroneggiare ogni

114 Introduzione alla vita devota, L. 3, c. 8.


115 ANSELMGRÜN, Chemins de liberté. La vie spirituelle, pratique de la liberté intérieure, Médiaspaul,
2000, p. 52.
116 Denis Vasse, La chair envisagée, op. cit., p. 91.
167
affetto, al nostro rifiuto di accettare l'avventura e le differenze.

Non abusare di sostanze eccitanti


L'ira presenta una componente somatica non trascurabile. Gli iracondi
accumulano tensioni corporee che devono scaricare regolarmente, in
particolare nello sport (che tuttavia non si riduce a una pratica igienica).
Gestire il proprio corpo, con il riposo, con la sobrietà (molte esplosioni d'ira
scoppiano, o sono aggravate, a causa del caffè, dell'alcool...), con il silenzio
(il rumore rende aggressivi) sono tutti accorgimenti benefici. Approfittiamo
dei momenti di calma, come consiglia san Francesco di Sales, per fare «una
grande provvista di dolcezza», parlando e agendo con bontà. 117

Intraprendere un cammino di perdono


Tutto quello che abbiamo detto non cancella l'ingiustizia e non placa l'ira
vendicativa, a volte assassina, che essa suscita. «Com'è
possibile perdonare? Quello che ha fatto è imperdonabile!». Appunto:
ciò che è perdonabile non richiede di essere perdonato. Il perdono
comincia con ciò che è imperdonabile.
Se il rifiuto del perdono distrugge l'unità interiore della persona, la sua
comunione con gli altri e con Dio, certe forme di perdono prematuro,
superficiali, imposte, determinano le stesse conseguenze distruttive. La
riconciliazione è spesso il frutto di un cammino lento e progressivo.

Dodici tappe per un perdono autentico


Il sacerdote e psicologo del Québec, Jean Monbourquette distingue dodici tappe nel
processo psico-spirituale del perdono.118 «Non sono ricette infallibili, ma indicazioni sul
cammino di un pellegrinaggio interiore», spiega l'autore.
1. Decidere di non vendicarsi e di smettere di compiere gesti che offendono.
2. Riconoscere la propria ferita interiore e la propria povertà interiore.
3. Condividere la propria ferita con qualcuno.
4. Identificare bene la propria perdita per rassegnarsi ad essa.
5. Accettare la propria collera e il proprio desiderio di vendetta.
6. Perdonare se stessi.
7. Cominciare a comprendere chi ci ha offeso.
8. Trovare il senso della ferita nella propria vita.
9. Considerarsi degni di perdono e già perdonati.
10. Smettere di accanirsi a voler perdonare.
11. Aprirsi alla grazia di perdonare.

117 Introduzione alla vita devota, L. 3, c. 8.


168 JEAN MONBOURQUETTE, Comment pardonner? Pardonner pour guérir. Guérir pour pardonner,
118

Ottawa, Novalis e Le Centurion, 1992.


12. Decidere di mettere fine alla relazione o rinnovarla.

Farsi aiutare
I nostri scoppi d'ira sono involontari, spropositati, frequenti, duraturi?
La causa prossima (il coniuge, un superiore, un figlio, ecc.) forse può essere
solo una molla: risveglia un trauma antico e suscita l'occasione di rievocare
il passato ferito (vedere oltre). In questo caso, la sola volontà non basterà a
eliminare l'ira.

La collera della paura


La presenza di una persona tesa e fredda a una cena esaspera Yo- lande, che non
nasconde il suo nervosismo: «In fondo, tutti potrebbero essere gentili! Fare un sorriso
non costa nulla». Yolande è più suscettibile di quanto accadesse in passato. La sua
irritazione aumenta con il trascorrere dei mesi. Se glielo si fa osservare, lei enuncia come
cause la vita della città, lo stress del lavoro, la difficoltà di educare i figli...
Fino al giorno in cui Yolande vede, per strada, un papà che prende per mano la sua
figlioletta. Immediatamente, sorgono in lei una grande tristezza e questo pensiero: «Mio
padre non mi ha mai presa per mano». Un sentimento di forte frustrazione e un'ira
incontrollabile la sommergono. Yoiande comprende subito che non sono gli altri a non
essere amabili, ma lei che non si sente amata. Il suo sentimento di essere rifiutata
affonda le radici nella sua storia: «Non ho mai avuto una mano da afferrare quando
avevo paura». Yolande comprende che la sua ira proviene dalla sua paura, e che la
paura è legata all'assenza di un padre che la rassicurasse di fronte a un mondo
estraneo. Questa presa di coscienza è preziosa, ma a Yolande non basta: la donna ha
preso la decisione di «rieducarsi», come dice, con l'aiuto di un consulente, e di
intraprendere atti «terapeutici». Quando per esempio la assale il desiderio di accusare
una persona arcigna, smorza il suo fastidio muovendosi e sorridendo.

Meditare stilla croce


Non esiste un processo più iniquo di quello nel corso del quale fu
condannato il Messia: lo testimoniano tutti i Vangeli della Passione. Però
Gesù non solo non soccombe a un'ira che sarebbe stata del tutto legittima,
ma sceglie, deliberatamente, di rinunciare a qualsiasi vendetta: «Rimetti la
spada nel fodero!», ordina a Pietro quando sono raggiunti dai soldati. «Non
sai che io potrei chiedere aiuto al Padre mio e subito mi manderebbe più di
dodici legioni di angeli?» (Mt 26,53). Più ancora, il violento sente l'innocente
perdonare i suoi carnefici: sulla croce prega: «Padre, perdona loro, perché
non sanno quello che fanno» (Le 23,34). Tuttavia, Gesù domanda a suo
Padre di perdonare: la fonte della riconciliazione non è nel Figlio dell'Uomo.
A maggior ragione non lo è nella persona in preda all'ira: come l'umiltà, la
dolcezza è una virtù divina. Ai piedi della Croce, scoprendo che, agli occhi
169
del Padre, è da sempre già perdonato, l'iracondo trova l'esempio e la forza
per disarmare ogni violenza e perdonare a sua volta. Troppo spesso
interpretiamo a nostra insaputa la parte del servo spietato (Mt 18,23-35).
Ma, affinché non confondiamo la dolcezza con la debolezza, Gesù ha
parlato più volte con potenza e autorità durante la sua Passione: «Appena
Gesù disse: "Sono io", quelli fecero un passo indietro e caddero per terra»
(Gv 18,6; cf anche il versetto 23). Meditare sulla prima stazione della Via
Crucis permette anche di comprendere meglio come ogni nostro giudizio
iniquo, presuntuoso, indebito, che alimenta ire intempestive, contribuisce a
condannare l'unico Giusto.
Osando innalzare lo sguardo verso Gesù crocifisso, lo scrupoloso,
tormentato dal senso di colpa, guarisce: Dio non continua forse a nutrire
speranza, anche nei confronti del criminale più spietato?

«Nessun essere umano è totalmente malvagio»


Lo storico Pierre Chaunu racconta: «Il giorno successivo aW'Ansch- luss, l'annessione
dell'Austria alla Germania, gli Ebrei fuggirono da Vienna, a cominciare dai medici, dagli
artisti, dalle persone in vista. Il dottor Bloch non era un personaggio molto importante:
esercitava la sua professione nei quartieri popolari. Un giorno, ricevette una visita della
Gestapo. Gli fu assicurato: "Rimanga, non le succederà nulla; se ha un problema,
telefoni a questo numero a qualsiasi ora del giorno o della notte". Passarono mesi e
anni, la persecuzione raggiunse l'orrore, ma il dottor Bloch non fu mai disturbato. Per-
ché? Alla fine della guerra seppe che il numero telefonico che gli era stato fornito era
quello della cancelleria del Reich, della linea di Hitler. Solo allora ricordò e comprese. A
Linz, agli inizi del secolo, aveva assistito, in una povera casa, una donna che stava
morendo di cancro al seno; si era prodigato per tentare di salvarla, invano. Accanto a
quella madre, c'era un adolescente affranto che Bloch aveva cercato di consolare. Si
chiamava Adolf Hitler...».
Conclusione di Pierre Chaunu: «Dio non ha permesso che un essere umano sia
totalmente malvagio».
(Rivista Liberté politique, n. 17, autunno 2001, pp. 167-168).

In conclusione
Un ometto, disegnato da Sempé, sperso neH'immensa campagna, fissa il
cielo dall'alto di una montagnola e lancia all'Invisibile queste parole: «Ho
sempre perdonato alle persone che mi hanno offeso. Però ho l'elenco!».
La benevolenza e il perdono sono i migliori rimedi per l'ira. Instillano la
dolcezza nel cuore, come la lettura del grande inno all'unità che è la lettera
agli Efesini di san Paolo. Soprattutto questo passo: «... la vostra ira sia
170 prima del tramonto del sole, altrimenti darete una buona occasione
spenta
al diavolo. [...] Nessuna parola cattiva deve mai uscire dalla vostra bocca;
piuttosto, quando è necessario, dite parole buone, che facciano bene a chi le
ascolta. [...] Fate sparire dalla vostra vita l'asprezza, lo sdegno, la collera.
Evitate i clamori, la maldicenza e le cattiverie di ogni genere. Siate buoni gli
uni con gli altri, pronti sempre ad aiutarvi; perdonatevi a vicenda, come Dio
ha perdonato a voi, per mezzo di Cristo» (Ef 4,26-32). Sono parole da
assimilare senza attenuanti e da mettere in pratica assiduamente.
La T@ttica del diavolo

Stufato di corruccio

«Figliolo, vuoi un regalo? Assaggia lo stufato di corruccio, una


delle mie ricette preferite. Non c'è niente di più facile: pungi sul vivo
il cuore dell'uomo con il risentimento al posto dei chiodi di garofano
e lascia cuocere a lungo in succo di rancore. Si ottiene un'amarezza
più acida con corrucci repressi, marinati, macerati, che con le grandi
esplosioni d'ira, il cui sapore è effimero.
È vero che il torto uccide, figliolo. Per guidare il tuo cliente verso
l'ira, scegli un torto che ferisca, ben affilato. Mostra al tuo cliente
quanto è ingiustamente ferito. Circondalo di persone che confermino
la sua opinione. Fa' anche in modo che il colpo cada su una parte
sensibile, un punto suscettibile, che gli ricordi a sua insaputa una
ferita subita durante l'infanzia. Per esempio, se il tuo cliente si è
sentito amato male da suo padre (è un caso frequente come uno
sciopero dei treni o degli aerei all'inizio delle vacanze), fagli
percepire la piccola frase acerba del suo diretto superiore come una
forma di esclusione. E se qualche persona avveduta gli fa osservare
che di fatto soffre di più per quel passato doloroso (che sta per
rivivere) che per l'ingiustizia contingente, mostragli l'assurdità di
questa ipotesi: in che modo avvenimenti lontani e anche dimenticati
potrebbero avere più influenza di un trauma attuale? In che modo il
passato avrebbe un'influenza del genere, mentre lui (o lei) non ne ha
la minima consapevolezza?
L'ideale è che il tuo cliente riceva altre frecce da scagliare. Sentirà
come questo mondo è cattivo. Il distributore del caffè è un luogo
propizio in cui potrà rievocare con i colleghi questi torti ripetuti. Le
vittime amano ritrovarsi per raccontare.
171
Se criticare lo fa sentire in colpa, suggeriscigli che è meglio par-
lare che farsi venire un'ulcera allo stomaco: così scarica lo stress.
D'altra parte, lui, almeno, dice quello che pensa, non è ipocrita.
Non trascurare i mezzi modesti. Nulla come le attività ripetitive
(stirare, guidare l'auto, ecc.) è utile per rivangare quei ricordi
dolorosi. Io vado matto per l'aspirapolvere: la persona non può
distrarsi e non è facile recitare il Rosario con un sottofondo di Tor-
nado.
A questo proposito, se malauguratamente il tuo cliente si dedica
alla preghiera, spingilo a pregare per il suo principale. Sì, si! Quando
comincerà a pregare per lui, presentagli tutti i suoi lati negativi. Se
agisci bene, riuscirai a scoraggiarlo profondamente: da un lato,
penserà che non è sorprendente che sia sempre adirato poiché non
prega abbastanza per essere liberato; d'altro canto, appena si metterà
in ginocchio, sarà invischiato nella sua amarezza.
Prudenza! Sappi concedere pause, in particolare quando il suo
principale è via. Non tentarlo. Il tuo cliente prenderà questa tran-
quillità interiore per virtù e si convincerà che la soluzione migliore
sia vivere il più lontano possibile da quell'ignobile sfruttatore.
Soprattutto, nessuno faccia notare al tuo cliente che il suo prin-
cipale è imperfetto, che ha tante scusanti quanto lui e che, se fosse al
suo posto, farebbe ben di peggio. Se operi abilmente, il tuo cliente
non si renderà neppure conto che si crogiola nel suo rancore da anni.
Quando sarà il momento della battaglia finale, quando l'Altro farà di
tutto per trascinare il tuo cliente fuori dalle sabbie mobili del
risentimento, mostragli l'entità dei danni, fa' in modo che sia
disgustato di se stesso, che si disperi per questa stoccata finale: come
potrebbe l'Altro amare una persona così ingiusta e collerica?
Un forte abbraccio

E-mailzebull

172
Sugli schermi

Ira nell'arena

Il Gladiatore. Il grandioso film pieno di furore e di sangue di


Ridley Scott (1999) descrive l'itinerario interiore di un uomo che,
colpito dall'ingiustizia, cambierà la sua ira mettendola al servizio di
Roma.
• La storia: Nel 180 d.C., l'ormai anziano imperatore Marco Au-
relio (Richard Harris) propone che gli succeda il generale Massimo
(Russell Crowe) dopo la sua spettacolare vittoria contro i Germani,
ma durante la notte è assassinato dal figlio Commodo (Joa- quin
Phoenix). Questi assume il potere, ordina che Massimo sia messo a
morte e che la moglie e il figlio del generale siano massacrati.
Massimo sfugge agli assassini, riesce a tornare a casa, ma arriva
troppo tardi per salvare i suoi cari. Fatto prigioniero da un mercante
di schiavi, è rivenduto a un padrone di gladiatori e diventa l'idolo
della popolazione. Fino al giorno in cui combatte nell'arena del
Colosseo davanti all'imperatore Commodo...

Massimo, personaggio magnifico e sempre all'attacco, attraversa


diverse tappe interiori:

Un uomo di coraggio
Fin dall'inizio del film, nell'impressionante battaglia contro i Goti,
Massimo rivela di essere non solo un abile stratega, ma un uomo di
alta levatura morale, un individuo coraggioso, che padroneggia le
sue paure e orienta la sua aggressività verso il bene, il dominio dei
suoi avversari. La macchina da presa mostra un uomo pieno di forza,
fisica, certo, ma soprattutto interiore: ordina con calma e con
un'autorità che non ha bisogno di alzare la voce.
Il suo coraggio non è una negazione della paura, ma un modo di

173
padroneggiare la rabbia.
Dove attinge questa capacità di gestire l'energia della sua ira? Da
tre fonti.
Innanzitutto, dalla sua terra e dalla sua famiglia. Quando Marco
Aurelio gli chiede da quanto tempo non vede i suoi cari, Massimo
risponde con sorprendente precisione: «Due anni, duecen-
tosessantaquattro giorni a stamattina». Prima di cominciare a
combattere, «Massimo il contadino», come lo soprannomina ami-
chevolmente uno dei suoi generali, raccoglie un po' di terra non solo
per cospargersene le mani (e per tenere meglio la sua arma), ma
anche per percepirla.
Poi, dal suo amore per Roma. All'imperatore che gli domanda:
«Che cos'è Roma?», Massimo risponde: «Ho visto molto del resto del
mondo. È brutale, violento e sanguinario. Roma è la luce».
Infine, queste due fonti esisterebbero senza la fedeltà agli dèi? La
sera, Massimo prega con fervore: «O miei antenati, vi chiedo di
guidarmi. Madre amata, dimmi come gli dèi vedono il mio futuro. O
miei antenati, io vi onoro, cerco di vivere con la dignità che mi avete
insegnato».

Un uomo di violenza
Poi, il generale Massimo è colpito da molte ingiustizie con
estrema violenza: è destituito mentre Marco Aurelio gli aveva ap-
pena affidato il comando dell'impero; è condannato a morte mentre è
un eroe; la sua famiglia è atrocemente eliminata, mentre è innocente.
Lo abbiamo detto: l'ingiustizia suscita l'ira. Ma quando è
spropositata, diventa violenza e vendetta. Schiacciato dall'iniquità, il
generale diventato gladiatore è animato solo più dalla sete di
vendetta. La sua ira, l'aggressività che in passato era tutta orientata al
servizio di Roma, cerca solo di placare il suo odio: l'obiettivo è
annientare Commodo diventato imperatore. Roma l'ha tradito? Lui
la cancella. Ratifica, con una libera decisione, questa rottura e gratta
via simbolicamente la sigla SPQR che ha tatuata sulla spalla, segno
della sua appartenenza. A Prossimo, il proprietario dei gladiatori,
risponde freddamente che è un gladiatore e fa quello che gli si
domanda: uccidere.
Di ritorno a Roma, messo di fronte a Commodo nell'arena del

174
Colosseo, Massimo s'identifica con il «Gladiatore» senza volto.
Quando l'imperatore gli intima di togliersi il casco e di declinare le
sue generalità, Massimo elenca solo i titoli della sua vendetta: «Padre
di un figlio assassinato, marito di una donna assassinata, servo
fedele del vero imperatore», per concludere con: «E avrò la mia
vendetta, in questa vita o nell'altra».
Ma cercando di distruggere il suo peggior nemico, prima di tutto
distrugge se stesso. A Lucilla, la figlia di Marco Aurelio e sorella di
Commodo, che l'ha amato, confida la verità e dichiara chi è, o chi
crede di essere diventato: «Io sono uno schiavo». Peggio
dell'alienazione, non ha più identità: «Quest'uomo [che serviva
Roma] non esiste più. Tuo fratello ha fatto bene il suo lavoro. Vuoi
aiutarmi? Dimentica di avermi conosciuto e non tornare più qui».
Infatti, è nota la segreta complicità del giustiziere e del criminale, del
vigile e del teppista. «A furia di cacciare draghi, diventi anche tu un
drago», diceva Nietzsche.

Un uomo di giustizia
Tuttavia, le radici rimangono come addormentate. Grazie a esse
Massimo recupera la sua identità. Ne è prova l'emozione di
quest'uomo, normalmente così padrone dei suoi sentimenti, quando
il suo servo devoto gli fa scivolare in mano le statuette che
rappresentano sua moglie e suo figlio. Massimo crede in una vita
oltre la vita di quelli che ama. Giuda l'Etiope, uno dei suoi amici
gladiatori, gli domanda: «Possono sentirti dopo la vita?» «Sì,
ascoltano», risponde Massimo.
Anche tramite la mediazione di Lucilla, Massimo riscopre l'ideale
che abitava in lui e a cui indirizzava la sua prodigiosa energia.
Lucilla gli dice: «Un tempo ho conosciuto un uomo di forti principi,
a cui mio padre voleva bene e che voleva bene a mio padre.
Quest'uomo serviva Roma». Ricordandogli la sua origine che è segno
della sua chiamata, Lucilla restituisce Massimo a se stesso:
«Generale, ricordati della tua dignità. Smetti di compiangerti nella
tua situazione di vittima o di carnefice». Di fatto, Lucilla lo riconcilia
con le sue radici e con la sua vocazione patriottica. Infine,
mettendolo in contatto con il senatore Gracco, gli offre i mezzi per
compiere la missione alla quale vuol essere fedele, la preoccupazione

175
per Roma.
Prova ne è il fatto che, prima di morire, Massimo dirà al capo
della guardia pretoriana le poche parole che gli permettono di dare
un significato alla morte dell'imperatore-dittatore e di aprire le porte
a un futuro meno sanguinoso. «Gracco deve essere liberato. Lo ha
chiesto Marco Aurelio. Aveva un sogno che si chiamava Roma». La
sua ira purificata si è liberata della vendetta per mettersi al servizio
della giustizia. Il Gladiatore è tornato a essere Massimo il giusto. È
pronto a ritrovare la sua amata moglie e suo figlio nelle grandi
pianure eterne.

Conclusione
Il regista di Biade Runner e di Alien dice che ama «creare uni-
versi». E noto che si è preso una certa libertà con la Storia: i Romani
non hanno mai pregato statue, Commodo non fu ucciso nell'arena,
Marco Aurelio non fu assassinato, ecc., ma poco importa. Nel
Gladiatore ci racconta una storia, una magnifica storia: quella di una
violenza subita che si trasforma in desiderio di vendetta, fino a
diventare un'ira nobile messa al servizio del bene comune.

176
CAPITOLO O

L'accidia non fa nulla

«Il mio demonio si chiama "a che prò?''».


Georges Bernanos

«Da che cosa fuggite così? Ahimè! Fuggite da voi stessi,


voi stessi; ognuno di voifugge se stesso, come se sperasse di
correre abbastanza veloce per uscire
alla fine dal suo bozzolo... Non si capisce assolutamente nulla della
civiltà moderna, se non si ammette innanzitutto che è una
cospirazione universale
contro ogni specie di vita interiore.
Ahimè! La libertà è solo in voi, imbecilli!».
Georges Bernanos, La France contre ìes robots, VI
«tentazione meridiana», perché questa grande stanchezza interiore,
questa apatia spirituale, questo disgusto per le cose di Dio, questo
desiderio di andare a vedere altrove, caratterizza soprattutto il
mezzogiorno della vita. Buonasera, tristezza. Buongiorno, demonio.

Che cos'è l'accidia?


San Tommaso d'Aquino propone due visioni complementari
dell'accidia.119

L'accidia, tristezza del bene divino


La «tristezza del bene divino» è una definizione enigmatica.
Approfondiamo un po' il discorso. Di fatto, l'accidia si oppone alla
gioia che suscita nell'anima la presenza di Dio, il «bene divino»
(vedere oltre).
Questo vizio sradica l'anima da Dio, ci scollega dalla presa di-
_vir\a. La gioia della sua presenza in noi si spegne progressiva-
mente, come la luce di una lampada le cui pile si esauriscono. Allora
una tristezza viziosa s'impadronisce dell'anima. Se l'invidia è una

119 Summa theologiae, Ila-IIae, q. 35, a. 1.

178
tristezza che non sopporta il bene altrui (cf cap. 7), l'accidia è una
tristezza che non sopporta più il bene divino. Più che la speranza,
attacca in noi la carità, rifiuta la comunione con Dio, che è l'effetto
proprio di questa virtù teologale che è appunto la carità. Ne deriva
una caduta di tensione dell'Amore in noi, un languore spirituale, una
mancanza di gusto nei confronti della preghiera. La vita interiore
diventa arida e priva di gusto. La Messa infastidisce, la preghiera
disgusta.
«Quando preghiamo, l'accidia ci ricorda qualche impegno in-
dispensabile», spiega san Giovanni Climaco. Quale madre di famiglia
non ha mai vissuto un'esperienza del genere: nel preciso istante in
cui s'inginocchia davanti a un'icona per pregare, ricorda di dover fare
una telefonata urgente? Marthe Robin osava dire che, tra la Messa in
un giorno feriale e un momento di preghiera individuale, è meglio
scegliere la preghiera individuale: la Messa può camuffare l'accidia.
Per lei non si trattava assolutamente di mettere in questione il
primato della Messa, che è «la fonte e il culmine della vita cristiana»,
come sottolinea il Vaticano II, ma di interrogarci sul nostro modo di
viverla. Infatti, noi possiamo partecipare all'Eucaristia tutti i giorni
senza una vera unione di cuore con Cristo: per il piacere estetico
della liturgia, per l'interesse intellettuale dell'omelia, ecc. Invece, non
riusciamo a rimanere fedeli e attenti alla preghiera quotidiana senza
una comunione intima di fede, di speranza e di amore di carità con il
Signore.

C'è gioia!
Per cogliere bene l'angolatura d'attacco del virus dell'accidia, arrischiamo una
breve lezione di teologia. Di fronte a un bene (cioè tutto ciò che sembra un
bene), san Tommaso d'Aquino distingue tre moti affettivi: l'amore, il desiderio e la
gioia.
L'amore è l'inclinazione molto generale che sopraggiunge di fronte a qualcosa
che sembra buono, dal gelato, al cioccolato, all'infinità di Dio, passando per le
auto da competizione o il pattinaggio. Per questo Tommaso afferma che il
peccato nasce da un amore (disordinato, ma comunque un amore: per esempio,
l'amore per il denaro o per il piacere). A causa di questa inclinazione molto
generale, l'amore è anche indifferente al tempo: amate le Seychelles, sia perché
ci siete stati, sia perché ci andrete.
Il desiderio compare di fronte a un bene più preciso, cioè un bene futuro, un

179
bene che si avvicina. Il vostro innamorato torna da un viaggio durato qualche
giorno? Il vostro desiderio cresce. Vi preparate a partire per le Seychelles dopo
averlo sognato per mesi? Siete tutti entusiasti, perché il vostro desiderio prende
forma.
Infine, il desiderio si trasforma in gioia quando il bene sperato si realizza, cioè
diventa presente. La porta si apre: lui (lei) è là; subito, la vostra attesa si
trasforma in esultanza. La gioia è il sentimento che _ nasce dalla presenza del
bene. È in noi il segno indubbio che quello che è stato desiderato è arrivato.
Archimede esclamò Eureka (che somiglia molto a un Alleluia), quando scoprì la
legge della statica dei fluidi. Quando esulta di gioia, Gesù parla al presente: «Ti
ringrazio, o Padre, perché tu hai nascosto queste cose ai grandi e ai sapienti...»
(Le 10,21-22).
Quando si passa dall'amore alla gioia, attraverso il desiderio, il bene si avvicina
fino a diventare nostra condivisione. La gioia nasce dalla comunione con l'amato.
Per il cristiano, l'Amato (Ct 2,8s) ha un volto: il Figlio del Padre. La gioia cristiana
è la gioia che nasce dalla nostra comunione con Dio. Paolo VI nella sua
esortazione sulla gioia cristiana scrive: «Quando Gesù manifesta e irradia [...]
una tale esultanza, è a causa dell'amore ineffabile con cui sa di essere amato dal
Padre [...] In Dio stesso come nei santi, tutto è gioia, perché tutto è dono».120 San
Francesco d'Assisi è un uomo gioioso non tanto a causa del suo carattere felice,
quanto per un sentimento quasi perma- .nente della presenza divina in lui.
L'acido dell'accidia corrode insidiosamente questa presenza.

L'accidia, disgusto per l'azione


San Tommaso aggiunge un'altra definizione di accidia: taedium
operandi, disgusto per l'azione. Limitare questo disgusto alla pigrizia
sarebbe il controsenso peggiore. L'azione si riduce al lavoro solo in
una prospettiva marxista o liberale. Secondo Tommaso d'Aquino,
l'atto umano non si comprende innanzitutto a partire dalla sua
origine (cioè la libertà), ma a partire dal suo obiettivo. E non un
obiettivo qualsiasi: la finalità prima, l'ultima.
Charles Péguy amava raccontare la storia di un uomo che incontra
un operaio munito di un piccone: «Che cosa fa?», gli domanda.
«Scavo buchi», risponde l'operaio. Poco oltre, vede un altro uomo che
lavora di piccone. «Che cosa fa?», domanda l'uomo anche a lui.
«Costruisco un muro». Un terzo operaio trasporta pietre. «E lei che

120 Esortazione apostolica Gaudete in Domino sulla gioia cristiana del 9 maggio 1975,
in.

180
cosa fa?», domanda il visitatore. «Costruisco una cattedrale!»,
risponde l'operaio. La finalità si approfondisce a poco a poco. Se si
continuasse, si arriverebbe al fine ultimo, che guida segretamente
tutte le nostre azioni: la felicità. L'uomo agisce sempre per essere
felice (anche chi si toglie la vita!): cerca una pienezza, il bene perfetto.
Ma l'unico bene che soddisfa tutti i nostri desideri è la comunione
con Dio. Attenzione! Questo fine non è solo esteriore; è innanzitutto
interiore. In ogni cuore batte il desiderio di vedere Dio: «Tu ci hai fatti
per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te»,
diceva sant'Agostino all'inizio delle Confessioni. Questa frase
giustamente celebre è un compendio di tutta la morale cristiana. Non
è forse anche la domanda del giovane ricco: «Maestro, che cosa devo
fare ancora per avere la vita eterna?» (Mt 19,16).
Per il Vangelo, dunque, non c'è la possibilità di rimanere neutrali:
nessun atto è indifferente; tutte le nostre azioni ci avvicinano o ci
allontanano dal nostro fine, l'unione al Dio-Trinità, a seconda che
siano o no vissute nella verità e nell'amore. Ogni nostro passo ci
indirizza verso il Mistero dei misteri. Ogni nostro istante terreno è
una promessa della Visione eterna.
Procediamo. La felicità non è uno stato, come si crede spesso, ma
un atto. Molte persone temono di annoiarsi in cielo, perché
immaginano la beatitudine come uno stato passivo. Non è così. Jean-
Marie Rouart, accademico e romanziere di fama, in una tribuna
letteraria scrisse che preferiva le distrazioni dell'inferno alla calma
piatta del paradiso. Questo significa confondere, come fanno molti, il
riposo del cielo con l'assenza di attività. Gesù «definisce» così la vita
eterna: «conoscere te, l'unico vero Dio, e conoscere colui che ti hai
mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). La conoscenza, come l'amore, è un
atto. La felicità del cielo è dunque dinamica. Lungi dall'essere
passiva, nella gloria del cielo la persona sarà costantemente attiva, ma
per nulla attivista. Per questo l'azione umana è così nobile: non si
accontenta di preparare la felicità del cielo, ma la anticipa, la precede.
Dunque, non vi è nulla di peggio del disgusto di agire. L'accidia
però non è un semplice girare a vuoto, uno spleen che ci fa sospirare
di fronte a questa «vita da cani»; è molto più in profondità, un rifiuto
di dirigerci verso il nostro porto divino, una rinuncia alla vera
Felicità, e un'assenza di ascolto dei desideri profondi del proprio
cuore. Come dice Evagrio Pontico, è il peccato «più pesante di tutti»:
con la nostra passività, non ristagniamo, ma ci lasciamo attirare verso

181
il basso, nel buco nero, invece di slanciarci verso l'alto. L'accidioso è,
nel senso etimologico, un fannullone.

182
Il tedio nella letteratura
La letteratura ha raffigurato con una certa predilezione il tedio dell'accidia. È la
malattia di Madame Bovary, descritta da Gustave Flaubert: «La sua vita era
fredda come una soffitta il cui lucernario è a nord e il tedio, ragno silenzioso,
filava nell'ombra la sua tela in tutti gli angoli del suo cuore».
Anche il teatro di Cechov è pieno di personaggi dispensati da ogni impegno
domestico e abbandonati all'ozio. «La mia parrocchia è divorata dal tedio». Sono
le prime parole del Diario di un parroco di campagna. Georges Bernanos ha
analizzato acutamente e presentato questo vizio «teologale» dell'accidia: «Il
tedio dell'uomo giunge alla fine di tutto, signor parroco, infiacchirà la terra», si
legge in Monsieur Ouine, opera sorprendentemente moderna.
Infine, dell'apatico Yves Frontenac François Mauriac diceva: «Il riposo, [...] non
sentire più di amare... [...] L'irrimediabile [...] sta nell'a- ver perso il conforto di
rifugiarsi nel nulla».121

In che cosa l'accidia è un peccato capitale?


L'accidioso innanzitutto pecca di procrastinazione. Questa parola
dotta non è un complimento. In questo strano termine, chi ha studiato
il latino individua la parola eros, che significa «domani». La persona
che procrastina rimanda a domani ciò che deve fare oggi. È un
peccato che abbina l'imprudenza all'ingiustizia. È quello del barbiere
maligno che lascia costantemente appeso nel suo negozio un cartello
con la scritta: «Domani si fa la barba gratis». Attenzione: l'accidioso
raramente è una persona che si crogiola languidamente nel suo
bozzolo (vedere riquadro). Si agita e si disperde in molteplici impegni
che gli fanno dimenticare l'unica necessità: i famosi «doveri dello
stato» che gli sono richiesti qui e ora (ammettiamo che un'espressione
del genere, «doveri dello stato», luminosa come la porta di una
prigione, non è sorprendente che infonda il desiderio di rimandare a
domani!).
Accidia o pigrizia?
L'accidia figura nell'elenco dei peccati capitali stabilito da Evagrio Pontico. La
pigrizia no. Solo successivamente, verso l'epoca rinascimentale, l'accidia
scomparve progressivamente da quell'elenco per lasciare il posto alla pigrizia.

121 Le Mystère Front enne, Grasset, 1933, p. 234.

204
Oggi, l'accidia si trova a essere rimpiazzata da due forme di tristezza più
secolarizzate: la pigrizia e la malinconia. Questa sostituzione è frutto di una delle
opere di disinformazione più riuscite di questi ultimi secoli. Ne soffre le
conseguenze anche il recente Catechismo della Chiesa cattolica, che presenta
come ultimo peccato capitale «la pigrizia o accidia», come se fosse la stessa
cosa. Ma è urgente distinguere le due realtà, perché la seconda è di gran lunga
più grave della prima.
«Chi è un pigro?», fu domandato a Tristan Bernard. «È una persona che non fa
finta di lavorare», fu la risposta. Più seriamente, il padre gesuita Michel Sales
ama ripetere che «Il pigro non è una persona che non fa nulla, ma una persona
che fa solo quello che vuole».
Il cuore della pigrizia è la tristezza nel compimento di quello che dobbiamo fare.
Alcuni pigri si agitano molto, sembra perfino che compiano un grande lavoro. Ma
fanno solo quello che vogliono e rimandano continuamente le esigenze
prioritarie: la posta in ritardo si accumula; l'adolescente taglia l'erba del giardino
mentre deve ripassare per l'esame; il padre di famiglia si dedica al bricolage
invece di far ripetere la lezione al figlio... Il pigro rimanda all'indomani quello che
deve fare il giorno stesso. A lui sono indirizzate queste severe parole di san
Paolo: «Chi non vuol lavorare, non deve neanche mangiare» (2 Ts 3,10).

D'altra parte, l'accidioso è il contrario dell'asceta. Cerca molteplici


compensazioni al suo vuoto interiore. Il piacere è un efficace «para-
angoscia». Poiché i piaceri più accessibili sono quello della tavola4 e
quello del piccolo schermo, l'accidioso si ritrova spesso davanti al
televisore, intento a mangiucchiare cioccolato o frutta secca. Quanti
genitori, infastiditi di fronte ai figli adolescenti assorbiti dai
videogiochi, prendono per intemperanza quel-

J Cf GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, X, 6.


la che è prima di tutto una forma di accidia. Andrej, uno dei per-
sonaggi delle Tre sorelle di Cechov, dice: «Perché il tedio non li ab-
brutisca definitivamente, mettono un po' di varietà nella loro vita con
pettegolezzi sciocchi, vodka, carte, cavilli [...] e le donne tradiscono i
mariti e i mariti mentono e fanno come se non notassero nulla, come
se non comprendessero nulla». Più ancora dell'ozio, l'accidia è la
madre di tutti i vizi. Spinge a trovare compensazioni sempre più
estreme al tedio e alla disperazione.
Infine, l'accidioso baratta il servizio a Dio con la schiavitù
dell'attivismo. «L'accidia mescola in modo particolare sentimenti di

184
frustrazione e aggressività», spiega il cardinale Christoph Schònborn.
Questo «demonio» si manifesta «sotto forma di pigrizia spirituale, ma
anche e nello stesso tempo attraverso un attivismo trepidante. [...] Il
demonio del mezzogiorno è anche presente nella nostra vita sotto
forme facilmente riconoscibili: la paura di trovarsi soli di fronte a se
stessi, la paura di sé, la paura del silenzio. Verbositas et curiositas, il
gusto della chiacchiera e la curiosità, sono «figlie» dell'accidia. Altre
conseguenze sono l'agitazione interiore, la continua ricerca di novità
come surrogato dell'amore di Dio e della gioia di servire; l'incostanza,
la mancanza di fermezza nelle proprie decisioni, a cui si aggiungono
l'indifferenza di fronte a ciò che attiene alla fede e alla presenza del
Signore, la pusillanimità, il rancore, tutte cose così presenti tra noi
oggi nella Chiesa, fino alla cattiveria deliberata».122

Depressione o accidia?
La depressione e l'accidia si somigliano: sono forme di tristezza che presentano
gli stessi sintomi: malinconia, fastidio di fronte a tutto, incapacità di agire, e che
possono sopraggiungere nello stesso momento. È però necessario distinguerle:
la depressione è una malattia, un male subito; l'accidia è un peccato, un male
responsabile. Nella depressione, la tristezza accompagna una incapacità a volte
totale, di agire. Nell'accidia, questa tristezza è un disgusto per l'azione, mentre la
capacità di agire rimane; cercando solo il proprio piacere, l'accidioso si indirizza
verso azioni più gratificanti.
L'accidia è un peccato «teologale»: infrange lo slancio dinamico verso Dio, ci
porta a disperare di poter realizzare la nostra vocazione di figli di Dio. La
depressione invece non riguarda immediatamente la relazione con Dio. È spesso
la conseguenza di uno choc psicologico
o affettivo, di una ferita profonda.
Per questo, gli stati di desolazione, le tristezze che proviamo richiedono un
discernimento: certe forme di depressione non potrebbero essere modalità di
gelosia o di accidia non avvertite e non dichiarate? Dom Jean-Charles Nault,
monaco benedettino dell'abbazia normanna di Saint-Wandrille, che ha dedicato
un'importante tesi di teologia morale all'accidia, sottolinea: «Il criterio ultimo di
discernimento sarà l'amore. Si manifesta una caduta, una diminuzione dell'a-
more, del dono di sé, dell'oblio di se stessi? Allora si tratta di accidia. La persona
depressa non può agire, né uscire dalla sua situazione da sola; l'accidioso non
vuole uscirne. Osserviamo tuttavia che l'accidia può restare una tentazione, una
prova. Finché non vi si cede, naturalmente non è un peccato, e, proprio come da

122 Christoph Schonborg, Aimer l'Église, Le Cerf, Saint-Augustin, 1998.

185
una forma di depressione, occorre chiedere al Signore di aiutarci a guarire».123

Come si dissimula?
L'accidioso ignora il suo male per almeno quattro ragioni.

Le giustificazioni
Innanzitutto, l'accidioso giustifica la sua instabilità, la sua ipe-
rattività. Non è troppo difficile, in una società produttiva in cui il
«fare» è sacralizzato.
Ma l'insoddisfazione riguarda anche la vita spirituale. È la ten-
tazione dello «zapping spirituale» che colpisce molti cristiani: si
cambia parrocchia, si cambia confessore, si passa da gruppi di
preghiera a comunità nuove... Ci si giustifica piluccando nella Bibbia:
«Viene il momento in cui l'adorazione di Dio non sarà più legata a
questo monte o a Gerusalemme» (Gv 4,21). Evagrio Pon- tico smonta
l'alibi dell'accidioso: «Piacere al Signore non è que

123 Cf l'articolo in «Le démon de midi guette les croyants», in Fnmille chrétienne n°
1207,3 marzo 2001.

186
stione di luogo: infatti è stato detto che Dio può essere adorato
ovunque».7
Si sente dire: «Non ho bisogno di andare in chiesa per pregare:
lavoro alla presenza di Dio, Egli è costantemente al mio fianco». E
anche: «Io prego al volante della mia auto». Bene. Ma che cosa ri-
sponderebbe una fidanzata al suo innamorato che le dicesse: «Ti amo
tanto, sai? Penso spesso a te quando lavoro, mentre guido, ma non ho
tempo di telefonarti, di scriverti e di venire a trovarti»? La fiamma
dell'amore di Dio in noi non chiede di essere alimentata, come la
fiamma di ogni amore?
L'accidioso trova così eccellenti ragioni per fuggire dalla pre-
ghiera. Come questo pretesto, che non è nato ieri, dato che lo si deve
a un Padre del deserto, Giovanni Cassiano: «Non è meglio dedicarsi
a opere buone che rimanere inutilmente nella propria cella?». 8
Quante forme di scoraggiamento, di tristezza profonda sono la
conseguenza di un attivismo pastorale, e questo quanto spesso non è
conseguenza di un'accidia depressiva ignorata?

L'abitudine, «seconda natura»


Poi l'accidia s'insinua a poco a poco, quasi all'insaputa della
persona. La mollezza spirituale s'insinua con dolcezza. «Decisa-
mente, ci sono troppe cose da fare durante un fidanzamento: pre-
parare il matrimonio, trovare un appartamento, ecc. Quando saremo
sposati, troverò il tempo di pregare tutte le sere». Dieci anni più
tardi, è la stessa cosa: «Decisamente, non pensavo che fosse così
faticoso allevare i figli. Quando saranno grandi, avrò il tempo di
pregare tutte le sere». Dieci anni dopo: «Davvero, questa vita
professionale è totalizzante. Quando saremo in pensione, avrò fi-
nalmente il tempo di pregare tutte le sere», ecc. Inganniamo noi
stessi. Dimentichiamo progressivamente le nostre semi-decisioni, e ci
nascondiamo dietro una parvenza di buon senso: «Siamo ra-
gionevoli».

7 Trattato pratico, cap. 12.

8 GIOVANNI CASSIANO, Istituzioni cenobitiche, X, 2,3. 208


La complicità del mondo circostante
Pubblicità televisiva. Una donna si abbandona in un divano
pneumatico, su un'acqua trasparente della piscina, mentre un eli-
cottero deposita diversi pacchi ai bordi della stessa piscina. Questo
spot di un cibermercato si conclude con questa profonda af-
fermazione: «Sabato prossimo, non fate la spesa. Fatevela portare a
casa. Sì, è pigrizia. E allora?».
Paradosso: la mentalità contemporanea è iperattiva, tuttavia incita
alla pigrizia. Infatti, spinge a fare ciò che piace, a massimizzare il
piacere variandolo senza sosta. Lo si constata ogni giorno: la
pubblicità cerca di decolpevolizzare i vizi capitali: accidia, gola,
invidia, ecc. E a ragione: sono i più grandi procacciatori in termini di
consumo.
Il pubblicitario Frédéric Beigbeder scrive così nel suo romanzo di
successo 99 francs (Grasset, 2000): «Il problema dell'uomo moderno
non è la cattiveria. Al contrario, preferisce, nell'insieme, per ragioni
pratiche, essere gentile. Semplicemente, detesta annoiarsi. La noia lo
atterrisce, mentre non vi è nulla di più costruttivo e generoso di una
buona dose quotidiana di tempi morti. [...] Per combattere la noia, gli
Occidentali fuggono tramite la televisione, il cinema, Internet, il
telefono, i videogiochi o una semplice rivista. Non sono mai presenti
a quello che fanno, vivono solo più per procura, come se fosse un
disonore accontentarsi di respirare, qui e ora. Quando una persona è
davanti al televisore, al computer o al cellulare, o ancora intenta a un
videogioco, non vive. Siamo solo nel luogo in cui ci troviamo. Forse
non siamo morti, ma neppure vivi».

Accidioso Occidente
«L'accidia è il demonio della nostra epoca», afferma Dom Nault, che propone in
particolare un'interpretazione complementare del «demonio di mezzogiorno». «Il
mezzogiorno è il momento della piena luce. Osa, se la mancanza di luce è
nociva, lo è anche l'eccesso. Il demonio dell'accidia fa dire all'uomo
contemporaneo: "io rifiuto il mistero, perché non posso comprenderlo con la mia
ragione; rifiuto la luce, perché non ne sono l'artefice". In nome della verità-
evidenza, il razionalismo ha rifiutato la fede; in nome del "credo solo a ciò che
vedo" l'apostolo Tommaso ha rifiutato di credere e gli scientisti (gli adoratori della
scienza) negano l'esistenza di un mistero che li supera. In nome del "voglio
sapere tutto" l'invidioso non ha mai fiducia».
La nostra società accidiosa diffonde il disgusto per Dio per un'altra ragione:
l'uomo del XXI secolo, soprattutto l'Occidentale, non crede più alla grandezza e

188
immensità della sua vocazione. Roso da un dubbio metafisico profondo, «non
vuole credere che Dio si occupi di lui,
10 conosca, lo ami, lo guardi, sia al suo fianco», spiega il cardinale Ratzinger in
una penetrante analisi della nostra società.124 Una vocazione così bella, una
felicità così grande? È troppo bello per essere vero!
11 demonio dell'accidia instilla alla nostra epoca un «curioso odio dell'uomo
contro la propria grandezza», prosegue il Prefetto della Congregazione per la
Dottrina della Fede. Una rivolta intima e profonda. Al punto che arriva a
«considerarsi di troppo». S'immagina guastafeste della natura, creatura mancata,
segnata dal nulla. «La sua liberazione e quella del mondo consisterebbe dunque
nel dissolversi». L'accidia porta alla disperazione. Cela una cultura di morte.

L'accidia s'innesta su una ferita


Infine, l'accidia è difficile da individuare perché s'innesta in modo
privilegiato su certe ferite interiori.
Jean-Romain è un giovanotto molto apprezzato, sempre di buon
umore; un eccellente moderatore che smussa gli angoli, in senso
proprio e figurato. Jean-Romain ha le «antenne» per percepire ciò di
cui ogni persona, in un gruppo, ha bisogno.
Questa è l'apparenza. Ma è ingannatrice. Per molto tempo ha
ingannato lo stesso Jean-Romain, finché una serie di crisi ripetute con
sua moglie gli ha fatto prendere coscienza che lei soffriva
enormemente per il suo temperamento pantofolaio e casalingo, e fu
indotto a svolgere un profondo lavoro psicologico su se stesso.
Comprese allora che la sua bonomia, così apprezzata, era di fatto
una forma di passività e un tentativo di conservare la propria
tranquillità. Questo secondogenito, nato dopo un fratello maggiore
che si è sempre confrontato con i genitori, ha costruito molto presto
uno scenario di protezione. Ha sempre cercato di risolvere i conflitti,
perché non poteva sopportarli. Seguiva il gruppo e non contrariava
nessuno, perché non aveva capacità d'iniziativa e, soprattutto, aveva
soffocato ogni desiderio in sé. Quando era bambino, nessuno aveva
accordato un vero interesse a quello che pensava, provava,
desiderava, voleva. Su questa ferita profonda di indecisione e di non-
desiderio, si era innestato il vizio dell'accidia che è il «disgusto per
l'azione».

124 JOSEPH RATZINGER, Regarder le Chrisì, Fayard, 1992, p. 88.

189
Come riconoscerla?
L'impazienza
All'accidioso il tempo non solo sembra lungo, ma terribilmente
tetro e monotono. Evagrio Pontico usa un'immagine famosa: nel bel
mezzo della giornata, all'accidioso «il sole sembra lento a muoversi o
immobile». Per questo si parla anche di «demonio del mezzogiorno».
L'impazienza contemporanea è una forma di accidia. L'adole-
scente si stupisce di non riuscire ancora a saltare m 1,50 in alto dopo
aver praticato l'atletica per 3 settimane e di non saper eseguire la
Sonata al chiar di luna dopo un anno di lezioni di piano. Tutto, tutto
subito e sempre più in fretta. Alcune pubblicità promettono
l'apprendimento di una lingua straniera in un mese. Risultato: la
confessione-strizzatina d'occhio di Woody Alien, utente di metodi di
lettura rapida: «Ho letto Guerra e pace in venti minuti: parla della
Russia!».

L'instabilità
Per non girare a vuoto, l'accidioso non sta mai fermo. Blaise Pascal
definiva «divertissement» (che non è il nostro «divertimento»!) questo
atteggiamento con il quale l'uomo sfugge la sua miseria, la sua
angoscia, ma soprattutto il suo cuore e le domande essenziali che esso
pone.
L'accidioso vuol muoversi per ingannare la noia: il monaco ac-
cidioso vuole lasciare il suo monastero; il lavoratore accidioso cambia
occupazione ogni tre anni; il celibe accidioso cambia amici non
appena quelli che ha non gli piacciono più e passa da una donna
all'altra; il coniuge accidioso considera subito belle tutte le donne,
salvo la propria moglie; il sacerdote accidioso vuole cambiare
parrocchia o partire per le missioni, ecc.

Dispersione e diversivi
Parente prossima dell'instabilità, la dispersione è la sorella minore
della ricerca di diversivi. L'accidioso si attiva, ma trascura l'unica
attività necessaria: il suo dovere presente.

La tendenza a rimettere inopportunamente tutto in discussione


Lo abbiamo ripetuto: l'accidia spesso bussa al mezzogiorno della
vita. Può assumere allora il volto della crisi di mezza età, questa

190
svolta esistenziale che somiglia a un muro o a un tunnel, e ha
ripercussioni sul piano fisico, psicologico e spirituale. Si dice che
questa crisi può sopraggiungere tra i 40 e i 50 anni. A volte,
soprattutto quando non è riconosciuta, può determinare divorzi,
fratture, depressione... Alcune domande profonde arrivano a se-
minare il dubbio, scuotono le certezze, sconvolgono gli impegni
fondamentali in tutte le situazioni di vita: perché vivere, se tutto si
conclude con la morte? Per chi? A che cosa sono servite le nostre
scelte di vita? Non erano forse strade sbagliate, vicoli ciechi? Non è
meglio fermarsi qui e cominciare una nuova vita?
Questi atteggiamenti scuotono la coppia, toccando uno o l'altro
degli individui che la costituiscono, ma non risparmiano sacerdoti,
religiosi e religiose.
spirituale, e chi è che ha introdotto questa conversazione sterile e
umana».125
Molte forme di accidia provocano la facilità ad addormentarsi
durante le omelie o durante i momenti di preghiera, giustificate, in
più, dalle parole del Salmista: «Ai suoi amici il Signore elargisce i
suoi doni nel sonno» (Sai 126,2). Questo non esime i predicatori dallo
sforzarsi per animare le loro omelie, presentando più immagini ed
esempi! Gesù parlava in parabole.
Resta il fatto che la nostra epoca ha sostituito in misura eccessiva
la convinzione con la seduzione.

Come rimediare?
«A grandi mali, umili rimedi», per parafrasare un noto proverbio.
Fin dai tempi di Evagrio Pontico, nel IV secolo, i monaci si sono
sforzati di cercare rimedi a questo peccato; i rimedi proposti sono
stati verificati da generazioni di maestri spirituali.

Ritrovare la propria vocazione di figli di Dio


«Guai a chi non ha più nulla da desiderare!», dice Giulia in una
lettera terribilmente lucida de La nuova Eloisa.126 L'accidioso deve
scendere nel profondo di se stesso per riscoprire quanto è abitato dal
desiderio di Dio, quanto anche l'angoscia e il tedio che lo corrodono
siano segni concreti, in negativo, della mancanza della Presenza di

125 Istituzioni cenobitiche, V, 31.


126 JEAN-JACQUESROUSSEAU, Giulia o la nuova Eloisa, 6‘ parte, lettera Vili.

191
Dio. L'accompagnamento spirituale, e a volte psicologico, qui si
rivela molto utile.

Vivere il momento presente


L'accidioso fugge il momento presente e vive nell'illusione:
preferisce idealizzare il passato («Una volta, era meglio») o sognare il
futuro («Quando finalmente potrò fare questo, tutto andrà meglio»).
L'accidioso deve decidere di accogliere ogni istante come un dono e
trasformarlo in un atto d'amore. Santa Teresina del Bambino Gesù
diceva che «raccogliere uno spillo per amore può convertire
un'anima» e che Gesù «in ogni momento mi offre un cibo nuovo».
Ogni atto della giornata è un'occasione di amare e ha valore agli occhi
di Dio. Il metodo Vittoz può essere un aiuto prezioso (vedere sotto):
«Non preoccupatevi troppo per il domani: ci pensa lui, il domani, a
portare altre pene. Per ogni giorno basta la sua pena» (Mt 6,34). E
Ruysbroek, l'Ammirevole beato, diceva: «In ognuno dei tuoi istanti,
come in una noce, è racchiuso il bene dell'eternità».

Il metodo Vittoz, cammino di libertà


11 dottor Roger Vittoz era un medico svizzero che dedicò la maggior parte
della sua vita alle malattie nervose, fino alla sua morte, nel 1925. Dopo aver
praticato l'ipnosi, molto in auge alla fine del XIX secolo, abbandonò questo
metodo, che lasciava il paziente passivo. Elaborò una psicoterapia (che spesso
viene ridotta, a torto, a una forma di rilassamento) fondata sullo sviluppo della
coscienza: il suo metodo propone di rieducare il controllo cerebrale per aiutare la
persona a raggiungere la padronanza del proprio corpo come quella del suo
spirito.
L'equilibrio dell'attività cosciente del cervello implica che le sue due funzioni, la
ricettività (il fatto di ricevere i dati trasmessi dai sensi) e l'emissività (l'atto di
pensare, giudicare, organizzare, prevedere...) siano in perfetta armonia. Noi
privilegiamo spesso l'emissività a scapito della ricettività. Il cervello,
costantemente sotto tensione, si stanca e si esaurisce. Compaiono allora
nervosismo, stress, paura, ansia, ira, insonnia, senso di prostrazione, ecc. La
prima tappa del metodo Vittoz consiste nel rieducare la ricettività tramite esercizi
di sensazione, per rimettere la persona a contatto con la realtà che la circonda e
per fare in modo che impari a riceverla.

Riscoprire la preghiera

192
Non illudiamoci: spesso la preghiera è una battaglia.127 Non
aspettiamoci di ritrovare il gusto della preghiera per ricominciare a
pregare; pregando, questo gusto tornerà... oppure no. L'essenziale è la
fedeltà quotidiana. Teresina di Lisieux conobbe quasi costantemente
l'aridità della preghiera nel corso dei nove anni che trascorse al
Carmelo; questo non impediva che Dio abitasse sempre di più nel suo
cuore.

«Rimanere nella propria cella»


In altri termini: rimanere dove siamo, non cambiare rotta. Quando
sopraggiunge una crisi di accidia (che è uno degli aspetti di quello
che sant'Ignazio di Loyola definisce «tempo della desolazione»), «non
dobbiamo rimettere in questione o modificare quello che ci eravamo
proposti e la nostra situazione di vita, ma dobbiamo perseverare in
quello che avevamo deciso in precedenza»,128 assicura l'autore degli
Esercizi spirituali.
Resistete alla tentazione di fare «zapping». Il cambiamento
esteriore non determinerà un cambiamento interiore. «Non dobbiamo
cambiare posto, ma anima», affermava lo stoico Seneca. Nei momenti
difficili, solo il passato rimane fermo. Questo è vero a maggior
ragione per gli impegni decisivi.

Perseverare
Tutti gli esperti sono unanimi: il demonio della disperazione si
combatte con la perseveranza, nella preghiera e nei doveri dello stato.
I vecchi maestri dello spirito definivano questo rimedio hy- pomoné:
letteralmente, rimanere sotto il giogo. È soave come l'olio di fegato di
merluzzo, ma non è stato inventato nulla di più efficace.
San Paolo è formale: «Attendete alle cose vostre» (1 Ts 4,11).
«Perseverate, attaccatevi alla ringhiera nella notte, rimanete sotto il
giogo, continuate sullo slancio. Rinnovate il vostro dono a Dio nella
fedeltà alle piccole cose», raccomanda Dom Nault. Infatti, «la
perseveranza è già una forma di speranza», dice Monsignor
Schònborn. La resistenza ristabilisce la pace.

Piangere
Giovanni Cassiano avverte: «Quando ci scontriamo con il demonio
dell'acddia, allora, con le lacrime, dividiamo la nostra anima in due

127 Cf Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 1725-1751.


128 Esercizi spirituali, n. 318.

193
parti: una che consola e l'altra che è consolata e, seminando in noi
buone speranze, pronunciamo con il santo re Davide questa formula:
«Perché sei triste, anima mia, e perché mi turbi? Spera in Dio, perché
potrò lodarlo, Lui, Salvezza del mio volto e mio Dio».

Praticare l'umiltà
Il Catechismo della Chiesa cattolica lega l'accidia alla superbia:
«Un'altra tentazione, alla quale la presunzione apre la porta, è
l'accidia. I Padri spirituali la intendono qui come una forma di de-
pressione dovuta al rallentamento dell'ascesi, al venir meno della
vigilanza, alla mancata custodia del cuore. «Lo spirito è pronto, ma la
carne è debole» (Mt 26,41). Più si è in alto, più, quando si cade, ci si fa
male. Lo scoraggiamento, doloroso, è l'opposto della presunzione.
Chi è umile non si stupisce della sua miseria: questa
lo porta a una maggior fiducia, a rimanere fermo nella costanza» (n.
2733).

Non fuggire nel sonno


«Io piango nella tristezza», dice il Salmista (Sai 118/119,28).
L'ipersonnia (dormire troppo) è anormale come l'insonnia. È spesso
una fuga dalla realtà. Giovanni Cassiano spiega che combattere
l'accidia presuppone che «non si ceda alla prostrazione del sonno» 129
e che «si dedichi al sonno il tempo e la misura stabiliti dalla regola»,
cioè dal reale bisogno.

Agire a tempo debito


Smettete di rimandare le decisioni importanti. Vi si prospetta una
mattinata libera? Invece di precipitarvi a sistemare i barattoli vuoti di
marmellata in cantina, sedetevi; preparate un elenco delle cose
urgenti; effettuate una classificazione in ordine d'importanza;
valutate il tempo necessario per ognuna; e cominciate dall'inizio
dell'elenco. Prevedete di concedervi una «ricompensa» se avete fatto
quello che dovevate!
Rai'ssa Maritain scriveva:
«I doveri di ogni momento
nella loro parvenza oscura
celano la verità del divino
Volere, sono come i

129 Istituzioni cenobitiche, X, 4.

194
sacramenti del momento presente».130

Prendere iniziative
Non capite che gli altri (coniuge, amici, colleghi) ne hanno ab-
bastanza di decidere sempre per voi? Lo spirito di conciliazione non
coincide con il disimpegno. Smettete di essere vagoni, di tanto in
tanto fungete da locomotiva. Smettete anche di lasciare che gli
avvenimenti decidano al vostro posto e le situazioni si guastino,
giustificandovi: «Questa relazione metà amichevole e metà amorosa
con la mia segretaria non è sana, ma, comunque, lei se ne andrà tra tre
mesi. Precipitare le cose farebbe male a tutti e due», oppure: «Ho
fiducia nella Provvidenza, non cerco di controllare tutto». Resta il
fatto che voi state perdendo totalmente il controllo!

Combattere l'ozio
L'ozio è il padre di tutti i vizi. I Padri del deserto insistevano
sull'importanza del lavoro manuale per il monaco e proibivano ai
novizi di rimanere inattivi: «Il monaco che lavora è tentato da un solo
demonio, ma quello che sta in ozio è preda di innumerevoli spiriti»,
dice Giovanni Cassiano.
Un consiglio di papa Giovanni XXIII: «Devo fare ogni cosa, re-
citare ogni preghiera, osservare ogni regola, come se non avessi
nient'altro da fare, come se il Signore mi avesse messo al mondo
unicamente per fare bene questa azione, e al buon compimento di
essa fosse legata la mia santificazione, senza tener conto di ciò che
precede o di ciò che segue».131

Non rimettere in questione gli impegni


L'accidioso si rammarica per l'impegno preso, e si attacca alle
scelte definitive: matrimonio, sacerdozio, voti religiosi. Per questo
l'accidia è un demonio della maturità. Tuttavia, la nostra vita si gioca
nella fedeltà alla prima vocazione, non nelle pretese fedeltà
successive.
Una donna di 42 anni racconta: «Dopo 10 anni di matrimonio, ho
seguito un corso di psicoterapia. Ho compreso quanto ero immatura
quando mi sono sposata. Infatti, ho cercato più di fuggire
dall'influenza di mia madre di quanto abbia realmente scelto mio

130 Journal de Raissa, DDB, 1964, p. 139.


131 Giornale dell'anima, San Paolo ed., I32000.

195
marito. Se dovessi rifare oggi quel passo, non lo sposerei. Sono così
cambiata! Mi sento molto più lucida. Non è ipocrita rimanere con
quest'uomo che non ho veramente scelto, tanto più che non abbiamo
figli?».
Che cosa rispondere? Si può chiamare in causa la realtà invisibile
ma efficace del sacramento del matrimonio e di quello dell'ordine;
della grazia legata ai voti solenni, e dell'impegno con la Chiesa nei tre
casi. Soprattutto, è normale che le nostre motivazioni, ma anche i
nostri limiti del passato, si manifestino sempre meglio con il passare
degli anni: dopo, si vede con sempre maggior chiarezza. Se
dovessimo prendere tutte le nostre decisioni in un'evidenza perfetta,
non ci impegneremmo mai. (Purtroppo, è quello che aspettano
disperatamente alcuni celibi oggi: la luce totale, la garanzia a vita!).
Infine, chi assicura che, tra dieci anni, il nostro passato non ci
sembrerà ancora diverso? Dovremmo allora cambiare di nuovo
coniuge, monastero, comunità?

L'accompagnamento di un padre spirituale


Nel dubbio, è saggio affidarsi a una persona di giudizio e a cui si
possa accordare fiducia. Padre Ghislain Lafont nel Dizionario di
spiritualità sottolinea: «La gestione concreta della nostra sensibilità,
nelle sue radici in Cristo, nella sua regola evangelica e nella sua realtà
umana, non potrebbe essere equilibrata e veramente progressiva
senza l'istituzione fondamentale che è la paternità spirituale. Si può
bastare a se stessi e operare da soli un discernimento "di massina", se
si limitano le proprie ambizioni a non tralasciare di compiere le
buone azioni che si presentano con estrema chiarezza e a evitare i
peccati più evidenti. Ma se si tratta di procedere e di permettere alla
grazia dello Spirito di entrare nell'intimità del nostro essere, dove
s'incontrano i moti spirituali più sottili e le manifestazioni più vive
della sensibilità, nulla può sostituire la parola di un altro, più capace
di noi di parlare al nostro cuore, almeno se abbiamo esposto
onestamente come lo sentiamo battere».132

Meditare sulla croce


L'accidia bussa al Getsemani. Nel giardino degli Ulivi, mentre i

132 GHISLAIN LAFONT, art. «Sensibilité», in Dìctìonnaìre de spiritualité, Beauche- sne, 1.15,1989,
622-623.

196
discepoli dormono, Gesù è colto dalla tristezza, dallo sconforto,
dall'angoscia: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice di
dolore». Gesù vince la tentazione accettando totalmente la volontà del
Padre. Scegliendola, non subendola. Non nega la prova, vi acconsente
orientando, eroicamente, tutto il suo essere verso Dio: «...Però non sia
fatta la mia volontà, ma la tua» (Le 22,42). Gesù vive questa prova, e
la supera per noi.
Quello che sant'Agostino dice riferendosi alla tentazione nel
deserto, vale per il Getsemani: «Se è in lui che siamo tentati, è in lui
che dominiamo il diavolo [...]. Riconosci che tu sei tentato in lui; e
allora riconosci che tu sei vincitore in lui». 133 A causa delle nostre
pigrizie, del nostro disgusto per l'azione, Gesù accetta di agonizzare.
Per guarirci pronuncia le sue ultime parole: «Tutto è compiuto» (Gv
19,30). Ci assicura così che ha compiuto tutto ciò che il Padre gli ha
domandato.
Una volta abbattuto, il demonio dell'accidia si allontana e lascia
l'anima in pace. Evagrio Pontico conclude la sua descrizione con
questa promessa: «Questo demonio non è seguito immediatamente
da nessun altro: dopo la lotta, succedono nell'anima uno stato di
serenità e una gioia ineffabile».

In conclusione
L'eremita sant'Antonio un giorno si lamentò contro il Signore
mentre non cessava di combattere contro il Tentatore durante una
notte oscura: «Signore, dov'eri durante queste interminabili ten-
tazioni?». Il cielo rimase silenzioso. Sant'Antonio continuò, a voce più
alta: «Perché non ti sei manifestato prima per far cessare i miei
tormenti?». Risposta di Dio: «Io ero presente, Antonio, ma aspettavo,
per vederti combattere».
Un vecchio monaco trappista di grande esperienza dell'abbazia di
Bricquebec, padre Amédée, consiglia fermamente a quelli che vanno
a confidargli i loro dubbi: «In queste ore cruciali, dobbiamo
pazientare, accettare la prova, consentire all'abbandono senza
condizioni, e perseverare. Nella tempesta, niente colpi di spranga
impulsivi! Soprattutto, niente decisioni radicali: rischie- rebbero di
essere fatali. Resisti aspettando che passi; e soprattutto, prega; prega
come vuoi, ma prega! Chi prega, vive!», assicura questo saggio che si

133 Omelia sul Salmo 60, nella Liturgia delle Ore.

197
attacca ostinatamente al rosario nelle sue ore di deserto.

Non è un caso che l'elenco dei nostri cari peccati cominci con la
superbia e si chiuda sull'accidia.18 Questi peccati capitali sono i più
«antiteologali»: quelli che staccano più radicalmente ma anche nel
modo più sottile l'uomo da Dio. L'accidia è l'ultimo vizio perché la
sua prima figlia è la disperazione. E la disperazione è la fine di ogni
tentazione. Un'anima che dispera non crede più che la salvezza sia
possibile; non si affida più a Dio, si guarda e prova disgusto. Diventa
preda della «bestemmia contro lo Spirito Santo» (Mt 12,31), il rifiuto
di credere che la misericordia divina sia più grande del nostro
peccato. Ma Dio andrà sempre più in basso del fondo di miseria in
cui la bassezza del peccato ci avrà lasciati cadere.

19 Invece, l'accidia è il primo peccato capitale di cui parla san Tommaso nella Stimma

theologiae (Ila-IIae, q. 35), e lo fa nel trattato della carità: questo indica l'importanza di questo
peccato ai suoi occhi.

La T@ttica del diavolo

Accidiosi in sciopero

«Mio caro nipote, concludi il tuo stage con il dessert! L'accidia è


preziosa quanto la superbia per perdere un'anima. È un filtro sottile.
Fa assopire il tuo cliente, blocca il suo cuore, impedisce la circolazione
dell'amore con Q.D.D. e fa piombare questo zombie in un coma
spirituale disperato che spesso si nasconde sotto una frenesia
attivista, come le persone clinicamente morte vengono scosse

198
dall'elettrochoc.
Una delle mie imprese consiste nell'aver cancellato dai libri di
morale (non è nemmeno il caso di parlare delle omelie!) il termine
"accidia" da circa cinque secoli e di averlo sostituito con la molle
"pigrizia" e con la psicologica "malinconia". Ora, far scomparire una
parola impedisce di pensare alla cosa, ma non di viverla...
Per inoculare il virus, niente è meglio di un dissenso che si riesce a
motivare, di un conflitto ben percepito tra il tuo cliente e una persona
che vive accanto a lui (famiglia, collega, vicino, amico...). Lascialo
ruminare il suo risentimento, poi suggeriscigli: «L'unica soluzione è
partire: cambia posto, lavoro, coniuge...». L'uomo ha una capacità
infinita di credere che il cambiamento esteriore determinerà un
cambiamento interiore.
Coltiva l'attitudine a passare da un'attività all'altra: "Solo gli
imbecilli non cambiano!". La "sindrome Ushuaia" è una dipendenza
sottile: un nuovo paese da scoprire ogni sei mesi! Organizzati perché
il tuo cliente sia sempre più in dissenso con le persone che vivono
accanto a lui, giudichi gli altri, li guardi dall'alto in basso, si senta
diverso, tanto "più aperto" di quelle persone "dalla mentalità poco
aperta".
Alimenta l'amarezza, coltiva il suo disprezzo: "In Italia, la gente è
intollerante, meschina. Altrove, invece...". Beninteso, evita che
qualcuno gli ponga la domanda chiave: "Perché? Che cosa cerchi
veramente?". Non deve cogliere il prodigioso egoismo della sua fuga.
Se mai il tuo cliente incontrasse uno zelatore del Nazareno, ri-
cordagli tutti i cristiani ipocriti in cui si è imbattuto. Lascialo idea-
lizzare pensando a una Chiesa di perfetti, che non esiste.
Allora, al momento buono (occorre saper attendere fino alla mezza
età della vita, a volte anche fino al crepuscolo), mostragli il vuoto
totale della sua esistenza. Questo spettacolo può portarlo alla
disperazione. Allora forse sarà tuo.
Ma vorrei insistere, in quest'ultima e-mail scritta alla diavola, su
quelli che si sono consacrati totalmente a Q.D.D.: i sacerdoti, le
religiose... All'inizio, non puoi contare sullo scoraggiamento: sono
tutti fuoco e fiamme, ma non d'inferno! Fa' leva anche sulla loro
buona volontà. Stancali, fa' in modo che non si fermino neppure un
istante. Come prendersi un giorno di riposo alla settimana, quando ci
sono tanti ammalati da andare a visitare, tante persone da
accompagnare? Madre Teresa e Vincenzo de' Paoli forse si ri-

199
posavano?
Il nostro veleno è l'attivismo. Poiché la loro azione è per Q.D.D.
(incontri, riunioni, opere di carità), credono che sia azione di Q.D.D.,
ispirata, voluta da Lui! L'ideale è che la «riunionite» rubi
progressivamente il tempo del breviario, poi quello della messa
quotidiana.
Accumulano stanchezza? Spingili a cercare compensazioni facili.
Non trascurare i momenti vuoti in cui si ritrovano spesso la sera,
tardi, soli, a mangiare, troppo, a fare zapping, troppo, tra programmi
insulsi (non abbastanza), di cui certi mi devono molto. In molti
presbiteri, il posto della televisione ha finito per sostituire il
tabernacolo.
Se perseverano nel fare un ritiro all'anno, rimangano il meno
possibile in silenzio: moltiplica passeggiate, incontri, momenti
d'insegnamento.
Naturalmente, all'inizio del loro ministero pregano. Cerca di
ridurre al minimo questo tempo di preghiera. Trasformalo in pre-
parazione di omelie, riunioni, cerimonie. Anche in letture pie! Se
perdono il senso della gratuità, perderanno il gusto dell'amore, e
dunque di Q.D.D.
Infine, fa' credere al tuo cliente, alla conclusione della sua vita, che
tutto ciò a cui si è consacrato non è servito a nulla. Ha raccolto solo
spine e bastoni per farsi picchiare (mi viene in mente un brutto
ricordo...). Scoraggiato, privo di risorse, il tuo accidioso cercherà
rifugio nell'amarezza e nel rancore. Oh, non fare il Maligno! Non si è
mai vinto, con Q.D.D. (anzi, si è perso per sempre, ma non te lo dico,
figliolo, se no ne farai una malattia...).
Per cogliere allora il tuo cliente, evita che si metta di fronte a
quell'abominevole invenzione (voglio dire la Croce); non ricordi più
che «un altro è il seminatore, un altro è il mietitore»; e che un
apparente insuccesso è spesso seme di vita. Ma mi fermo qui: adesso
mi metto a parlare come loro! Ed è il colmo, mio caro nipote, e con
mio grande danno ti dico "addio"...».

E-mailzebull

200
Sugli schermi

Disgusto e dolori

Scent of a woman - Profumo di donna, commedia drammatica


statunitense di Martin Brest (1993), è ispirata al famoso Profumo di
donna di Dino Risi (1974), che non ce lo fa dimenticare. La commedia
nera e agrodolce dà lo spunto a questo film molto hollywoodiano
che presenta un elogio dell'integrità e dell'amicizia, ma soprattutto
una giusta descrizione di un uomo toccato dall'accidia e che ne
guarisce.
• La storia: Charlie Simms (Chris O'Donnell), studente ingenuo e
squattrinato, accetta di accompagnare, durante il Giorno del
Ringraziamento, un brillante militare diventato cieco in seguito a un
incidente, il luogotenente-colonnello Frank Slade (Al Pacino). Questi,
pieno di boria e di cinismo, è deciso a morire, ma vuole prima
offrirsi un ultimo giro nel fasto di New York. L'ultimo?
Charles e Frank, i due protagonisti, sono entrambi portatori di
una ferita spirituale segreta. Il tempo di un week-end permetterà al
giovane squattrinato di acquisire fiducia in se stesso, e al soldato
aspirante suicida di ritrovare il gusto di vivere.
Lo si comprende: Slade è profondamente accidioso. Dopo aver
perso la vista, l'ufficiale cieco vuole far sprofondare nelle tenebre la
sua vita. Concentreremo la nostra analisi su questo personaggio.

L'accidia o la morte accettata


Di fatto, Frank Slade presenta tutti i sintomi dell'accidioso: in-
nanzitutto, il disgusto per la vita e una tristezza profonda. Non è
solo il suo volto cieco a essere privo di vitalità, ma lo è l'anima che
dovrebbe animarlo. Inoltre, ama stordirsi nei piaceri fugaci; e

201
soffre un'intensa aggressività contro questa «esistenza boia» che,
in questo cieco, s'incarna nel rifiuto della vicinanza e del contatto:
«Se mi tocchi ancora, ti uccido, piccolo merdoso. Sono io che tocco
te!», lancia alla sua giovane guida.
Tuttavia, Frank non morde forse la mela della vita nella Big Apple
(la «Grande Mela», soprannome di New York)? È trasportato dal
contatto delle donne («Chi ha fatto le donne? Dio è un genio!»), dalla
cena nel celebre hotel Waldorf Astoria (l'«apogeo della civiltà»), si
esibisce in un tango meravigliosamente eseguito con una ragazza
timida (un momento di grazia) o nella guida insensata di una
Ferrari, a 110 chilometri all'ora, nelle vie di New York. Dotato di
grande attenzione verso tutto e verso tutti, Slade coglie ogni
dettaglio e lo analizza con rara intelligenza e acume. Ma questa
vitalità è solo una facciata, perché è priva di senso: «Ti espongo il
mio piano: un viaggio nei piaceri, andare in un palazzo, vedere mio
fratello, fare l'amore con una ragazza meravigliosa. Poi mi stenderò
nel mio letto per farmi saltare il cervello». Avendo perso la luce degli
occhi, Slade ha perso la vita e ogni ragione per vivere. La sua
esistenza si è fermata quando ha perso la vista: non vive forse solo
riferendosi al suo mondo di soldato («Chiamami colonnello»)?
Ma la sua accidia è veramente un peccato? Frank è veramente
responsabile del suo male? Non è vittima di un incidente ingiusto?
La ragione profonda del suo disgusto di vivere ci viene rivelata
nel corso della scena della cena improvvisata condivisa con suo
fratello e la famiglia, il Giorno del Ringraziamento. Si comprende allora
che a suo fratello e solo a lui Frank deve la menomazione di essere
cieco; questo scialacquatore è anche un imprudente. Non è una
vittima dei condizionamenti sociali o del caso degli avvenimenti. Ha
segretamente acconsentito al disprezzo di sé, e molto prima
dell'incidente: «Non sono un dono... ma non lo sono mai stato»,
confida Frank a Charles. Frank accoglie, senza battere ciglio, con una
rabbiosa autodecisione, tutte le critiche che il marito di sua nipote gli
rivolge con un odio spaventoso: si può allora valutare da quanto
tempo si sia reso interiormente complice della morte. La ferita di
guerra non ha fatto altro che innestarsi su un vizio d'accidia già
presente.
L'empatia o la vita nuovamente scelta
Qualunque sia l'entità dell'energia di una persona, non è infinita.

202
Frank ha raggiunto il suo punto di rottura: non sa più trovare in sé
una ragione che gli restituisca il gusto di vivere. Ha bisogno di un
altro per uscire dalla depressione dell'accidia. «Gli sguardi che ci
salvano sono quelli che ci aspettano», amava dire Paul Baudiquey.
Bisogna ancora essere capaci di un'ombra di empatia...
Il regista segnala, discretamente e senza giudicare, che Frank non
trova questa compassione nella sua cerchia immediata di persone.
Certo, la sua donna lo ama e sa discernere che «sotto la sua aria
burbera, è dolce come un agnello». Ma questo amore non è altro che
una pietà inefficace. Si sente che la giovane donna è sfinita: che aiuto
riceve da suo marito (assente dalla sua vita come lo è dallo
schermo)? Soprattutto, vede in suo padre un uomo da aiutare; non
riconosce in lui una persona che potrebbe offrire il suo aiuto. Ora,
l'accidioso non ha bisogno che si faccia qualcosa per lui, ma che
qualcuno creda in lui.
Paradossalmente, Charles riscopre la vita quando Frank tenta di
suicidarsi: in quel momento, si sente amato. Quanto a Frank, ha
deciso di uccidersi, allontana Charles, ma non spera forse in segreto
che l'intelligenza del ragazzo e più ancora il suo cuore fermino il suo
gesto? Esprime allora, finalmente, una vera sofferenza: «Sono
malvagio, sono rovinato». In realtà, intende dire un'altra cosa. «Lei
non è malvagio», risponde Charles. «Credo che lei soffra». Queste
parole di compassione sarebbero insopportabili, se non fossero
pronunciate da una persona vulnerabile come Charles.
Tuttavia, la sofferenza dell'accidioso è ancora più profonda:
«Dammi una buona ragione per vivere». «Gliene do due: lei balla
il tango e guida la Ferrari meglio di tutte le persone che conosco».
Questa risposta è ridicola e sincera insieme. Basta a spiegare il
motivo per cui Frank decide di posare la pistola? No. Certo, ci sono
anche le lacrime di Charles. Ma ogni atto di libertà è un mistero
abissale e fràgile. In ogni caso, quando Frank ammette di essere
combattuto («Ti è mai capitato di aver voglia di partire e di rimanere
nello stesso tempo?»), ha di nuovo scelto la vita.
Restituito alla vita, Frank dà la vita: aiuta Charles a uscire dal suo
senso di colpa e darà testimonianza del proprio valore di fronte alla
scuola (il film inizia con il caso di coscienza di Charles in un
tribunale universitario). In sintesi, «darà alla luce» un giovane a cui il

203
padre, divorato dal suo lavoro, manca crudelmente. Questa fecondità
è il criterio fondamentale: Frank è uscito dal buco nero della sua
accidia.

Conclusione
Abbandonare il proprio peccato significa passare dalla morte alla
vita. Questo è ancora più vero per l'accidia, questa «anti-vi- ta».
Frank impara nuovamente a vivere scoprendo una ragione di vita;
Charles si sveglia alla vita scoprendo che ha il diritto di vivere. I due
eroi passano dalla morte alla vita e sono l'uno per l'altro un invito
alla risurrezione. Di fatto, due giorni, tre notti, non sono... il tempo di
un week-end?

204
Epilogo

«Tutti riconoscono le cause di queste passioni, appena


l'insegnamento ricevuto dagli antichi le ha svelate.
Ma prima, benché invadano tutti noi e rimangano in ciascuno,
tutti le ignorano». Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche

«Chi ha peccato senza fine soffre anche senza fine».


Agrippa d'Aubigné

«Il cielo e la terra torneranno al nulla prima che un'anima


fiduciosa sfugga alla mia Misericordia».
Cristo a suor Faustina Kowalska

Questa confidenza resterà tra noi: quanti dei peccati capitali e a


volte inebrianti che abbiamo appena sviscerato insieme avete? Due,
tre, sei? Tutti?
Se somigliate agli autori di queste pagine e se questo libro ha
raggiunto il suo scopo, dovreste provare la sgradevole sensazione di
collezionarli tutti. Vi siete scoperti superbi, golosi, lussuriosi,
invidiosi, iracondi, accidiosi? Bene: siete del tutto normali. Questa
constatazione è il preambolo indispensabile per un fruttuoso lavoro
su se stessi.
Questi sette vizi hanno le loro radici nel cuore di ogni uomo e di
ogni donna. A seconda del temperamento, dell'educazione, della
sensibilità, della scelta di vita, delle abitudini acquisite, siamo più
sensibili ad alcuni che ad altri.
Questo piccolo trattato medico-teologale sul peccato capitale si
proponeva solo di diagnosticare queste sette malattie dell'anima e
fornire qualche suggerimento sul modo di trattarle. Ma sarebbe
gravemente incompleto, se non si concludesse con un rimedio ca-
pitale: la Salvezza.
Infatti, «dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia»,
assicura san Paolo (Rm 5,20). È pure essenziale non dimenticare mai

206
questi quattro principi:

Sentire la nostra miseria


La lotta contro i peccati capitali è una priorità della vita spirituale
e umana, ma il rischio di cadere e la debolezza non scompariranno
mai. A un giovane che lo chiamava «santo» guardandolo con
ammirazione, Francesco d'Assisi replicò: «Io, santo? Non sai che
prima di sera potrei andare a letto con una prostituta, se la grazia di
Dio non mi sostenesse?».
Alla fine della sua vita, santa Teresa del Bambino Gesù ebbe un
moto di fastidio di fronte a sua sorella, madre Agnese. Come reagì?
Lungi dall'essere delusa di se stessa, rimase serena e confidò: «Non
mi do pena vedendo che sono la debolezza in persona; al contrario, in
essa mi glorio e ogni giorno mi aspetto di scoprire in me nuove
imperfezioni...».

Felice caduta
Uno dei benefici spirituali dei nostri errori è l'indulgenza per quelli altrui, sostiene
Giovanni Crisostomo. Secondo questo Padre della Chiesa, Dio non ha chiesto
agli angeli di essere sacerdoti perché questi esseri senza peccato sarebbero
stati senza pietà nei confronti dei poveri peccatori che siamo noi.
Giovanni Crisostomo porta l'esempio dell'apostolo Pietro: l'intrepido che per tre
volte giura un'indefettibile fedeltà a Cristo, e poi lo rinnega per tre volte. «Dio ha
permesso la caduta di Pietro, la colonna della Chiesa, il porto della fede, per
insegnargli a trattare gli altri con misericordia», scrive.
In un'omelia sull'umiltà, anche san Basilio richiama la caduta dell'apostolo Pietro
che si era vantato un po' troppo del suo amore per Cristo. Dio dunque «lo lasciò
libero nella sua debole natura di uomo ed egli cadde nel rinnegamento, ma la
sua caduta lo rese saggio e
lo indusse a rimanere sempre vigile. Imparò a essere misericordioso con i
deboli, avendo sperimentato la propria debolezza, e sapeva al- lora chiaramente
che era stato sostenuto dalla forza di Cristo, mentre correva il rischio di perire
per la sua mancanza di fede, in quella tempesta di scandali, come era stato
salvato dalla mano destra di Cristo quando stava per affondare nelle acque del
lago». E san Basilio conclude: «È spesso l'umiltà a liberare chi ha peccato

207
spesso e gravemente».134

Accogliere la misericordia
Il gesuita Jéròme Nadal (morto nel 1580) aveva un compagno di
viaggio che gli domandava «suggerimenti» per vincere i suoi difetti.
Padre Nadal finì per rispondere: «I difetti conservano la virtù»!135 E i
peccati conservano la misericordia!
Parlare di Dio senza parlare mai del peccato è una menzogna, ma
richiamare il peccato senza parlare di Dio porta alla disperazione.
Come potrebbe Dio esercitare la sua misericordia se l'uomo non gli
manifestasse la sua miseria?
Per questo, seguendo santa Teresa di Gesù Bambino, dobbiamo
metterci alla scuola dell'infinita fiducia nella dolcezza e nella
tenerezza del perdono di Dio.
La piccola Carmelitana dice: «Ispiriamoci all'"amorosa audacia" di
Maria Maddalena, che si gettò ai piedi di Gesù a casa di Simone il
Fariseo e gli bagnò i piedi con il suo profumo. Sento che
il suo cuore comprese l'abisso d'amore e di misericordia del Cuore di
Gesù e capì che, benché fosse peccatrice, questo Cuore era disposto
non solo a perdonarla, ma anche a prodigarle i benefici della sua
intimità divina». Teresa prosegue: «Da quando mi è stato dato di
comprendere anche l'amore del Cuore di Gesù, confesso che esso ha
scacciato ogni timore dal mio cuore! Il ricordo dei miei errori mi
umilia, mi porta a non fare mai affidamento sulla mia forza, che non è
altro che debolezza; ma più ancora, questo ricordo mi parla di
misericordia e d'amore. Quando gettiamo i nostri errori con una
fiducia tutta filiale nel braciere divoratore dell'Amore, come pensare
che non siano consumati compieta- mente e per sempre?».
Potremmo obiettare: santa Teresina commetteva solo peccatucci! E
se il peccato è grave e ripetuto? Leggiamo, rileggiamo (e, per
penitenza, imparate a memoria!) questa sorprendente confidenza che
è la penultima frase dell'autobiografia di Teresina: «Sento che, se
anche avessi sulla coscienza tutti i peccati che si possano commettere,
con il cuore spezzato dal pentimento andrei a gettarmi fra le braccia
di Gesù, perché so quanto ama il figliol prodigo che torna da Lui».
Questo pensiero le era così caro che Teresa lo ripeterà in seguito a

134 Omelia, XX, 4, citata da ANDRE LOUF, L'Humilité, op. cit., p. 34.
135 Fontes narrativi, Roma, Tomo 1,1943, p. 622.

208
madre Agnese: «Madre mia, se io avessi commesso tutti i crimini
possibili, avrei sempre la stessa fiducia, sentirei che questa
moltitudine di offese sarebbe come una goccia d'acqua gettata in un
braciere ardente».
Ora, non solo questa fiducia amorevole cancella i peccati più
gravi, ma offre immediatamente la salvezza. Santa Teresina confidò a
Maria della Trinità: «Se il più grande peccatore della terra,
pentendosi per i suoi peccati in punto di morte, spira in un atto
d'amore, subito, senza calcolare da un lato le tante grazie di cui
questo sciagurato ha abusato e dall'altro tutti i suoi misfatti, [Dio]
conterebbe solo più la sua ultima preghiera e lo accoglierebbe senza
indugio tra le braccia della sua Misericordia». In altri termini, forse
non sperimenterebbe neppure il purgatorio!

«La vittoria è certa»


Padre Timothy Radcliffe ama raccontare questo aneddoto che illustra la vittoria
della misericordia sulla disperazione che il Tentatore può suscitare:
«La sera prima di essere messo a morte dai nazisti, il 9 aprile 1945, nel campo
di concentramento di Flossenburg, quel grande uomo che è stato il teologo
luterano Dietrich Bonhoeffer potè far giungere questo messaggio a uno dei suoi
amici inglesi, George Bell, vescovo anglicano di Chichester: "La vittoria è certa".
[...] Qualunque sia la nostra vita, anche quando la nostra capacità di amare, il
nostro coraggio, sembrano distrutti, possiamo dire: "La vittoria è certa". [...] La
mattina di Pasqua, i discepoli hanno scoperto che l'amore ha vinto sull'odio,
l'amicizia sul tradimento, il senso sul nonsenso, che il Dio forte ci rende forti. "La
vittoria è certa". In una chiesa di Istanbul, un giorno ho visto un bellissimo
affresco del XIV secolo che rappresenta Cristo risorto che spezza le catene della
morte liberando Adamo ed Èva. Quali che siano le catene che ci stringono, le
prigioni che ci rinchiudono (e i peccati che ci imprigionano e ci avvelenano,
n.d.r.), possiamo rallegrarci e dire: "La vittoria è certa"».136 La vittoria contro il
peccato è certa: è la vittoria di Cristo stesso. Il cardinale Charles Journet si
esprimeva così al riguardo, con sorprendente trasparenza: «Non saprei parlarvi
di Gesù; bisognerebbe avere un amore assolutamente ardente e appassionato
per Lui , e in me c'è miseria. Ma ho provato una volta una cosa che non ho mai
dimenticato: che Lui ci ama, anche quando dimentichiamo di amarlo, anche
quando il nostro amore è derisione. Alla nostra morte, contro tutti i nostri

136 ]e vous appelle amis, op. cit., pp. 82-83.

209
tradimenti ci sarà il grido di san Paolo: "Dio mi ha amato e volle morire per me"
(Gal 2,20). E quando ho rivolto il cuore verso di Lui, ho visto che il suo sguardo
era diretto verso di me».137 Nel sacramento della riconciliazione il Signore ci offre
questo sguardo con una particolare intensità.

Chiedere il perdono sacramentale


Accogliere la misericordia significa passare attraverso il mezzo
che Dio, nella sua Chiesa, ha istituito per offrircela: il sacramento
della riconciliazione e della penitenza. Questo è il grande rimedio al
peccato (in particolare al peccato capitale).
È vero: confessarsi è spesso difficile e laborioso. Diciamo a noi
stessi: «Richiede tanto tempo», o «Mi vergogno troppo», o ancora
«Ripeto le stesse cose da anni», «Non so più come fare», ecc.
Tuttavia, la grazia sacramentale della confessione non solo unisce
nuovamente il peccatore a Dio, ma ricompone il cuore malato.
Il peccato recide la corda che ci unisce al Signore, ma la grazia del
perdono riannoda i due capi; grazie a questo nodo, la corda tra Dio e
noi è meno lunga. Il peccato, quando viene offerto nel pentimento e
perdonato, può così avvicinarci a Dio. (A questo proposito è
importante distinguere tra accoglienza spirituale e confessione. Si
può andare da un sacerdote per parlargli liberamente e chiedergli
consiglio; questo può essere un primo passo).138
Diventare santi?
«Spesso ci sentiamo attratti dalla santità. Forse è la grazia di Dio che opera
risvegliando in noi un desiderio del genere [...]. Tuttavia, mentre questa
aspirazione ci tormenta dolcemente, ci troviamo come davanti a un muro: i santi
sembrano così inaccessibili... Come fare per essere santi? Qual è la misura
della santità? Ci sono un metodo, mezzi, un percorso? Se bastasse la
penitenza, ci flagelleremmo dal mattino alla sera. Se occorresse la preghiera,
pregheremmo notte e giorno. Se il mezzo giusto consistesse nel predicare,
percorreremmo città e paesi e, senza darci pace e tregua, annunceremmo la
parola di Dio a tutte le persone in cui c'imbattessimo... ma non sappiamo, non
conosciamo il percorso... Ogni santo ha la sua fisionomia, e i santi si distinguono
l'uno dall'altro come le migliaia di fiori di un magnifico giardino botanico. Tuttavia,
forse esiste un cammino che tutti possono seguire.

137Cornine uneflèche de feu, Le Centurion/Le Cerf, 1992, p. 19.


138Per una presentazione concreta e pedagogica di questo sacramento, cf Guil LAUME
DE MANTHIÈRE, Le sticrement de réconciliation. Guide du pénitent, Téqui, 2001.

210
Senza dubbio non è necessario cercare la propria strada, tracciare un piano,
costruirsi un programma. Basta immergersi nel momento presente
impegnandosi a compiere, in questo momento, la volontà di Colui che ha detto:
"lo sono la via" (Gv 14,6). L'istante passato non c'è più. L'istante futuro forse non
sarà mai in nostro potere. Però possiamo amare Dio nel momento presente che
ci è donato. La santità si costruisce nel tempo».
(Chiara Lubich, Vivere il momento presente, Città Nuova, 2002).

Offrire la nostra miseria


A Dio basta che gli chiediamo perdono. Ma a volte non basta
all'uomo, in particolare allo scrupoloso o al pelagiano, che imma-
ginano di dover meritare il perdono. Poiché il peccato è l'unica cosa
che l'uomo fa da solo, a volte ci tiene molto! Rimane allora un ultimo
passo da compiere: offrire il proprio peccato a Dio.
Questa proposta può sembrare sorprendente e anche blasfema:
come offrire a Dio, il Perfetto, l'Onnipotente, l'Amore e la Verità, ciò
che è il suo assoluto contrario: l'imperfezione, la debolezza, il non-
amore, la menzogna? E tuttavia...
San Girolamo, un Padre della Chiesa del IV secolo, visse da
eremita in una grotta del deserto di Giudea. Si era dedicato con
generosità a tutte le forme di ascesi in uso presso i monaci, ma il cielo
rimaneva muto e Dio restava lontano. Girolamo cominciava a
disperare, quando scorse un crocifisso fissato tra i rami secchi di un
cespuglio. Si gettò a terra e cominciò a supplicare Gesù. Infine, il
Crocifisso ruppe il silenzio: «Girolamo, che cos'hai da darmi?». Alla
voce di Cristo, suo amico, Girolamo riprese coraggio: «La solitudine
in cui mi dibatto, Signore». «Grazie, Girolamo, ma non hai nient'altro
da offrirmi?». L'asceta rispose con slancio, senza esitare: «I miei
digiuni, la fame, la sete; mangio solo al tramonto del sole». «Grazie,
Girolamo, ma non hai nient'altro da darmi?». Girolamo rifletté a
lungo, parlò a Cristo delle sue lunghe veglie, dei Salmi che recitava,
dello studio assiduo della Bibbia, del suo celibato, degli ospiti
imprevisti che cercava di accogliere senza brontolare. Ogni volta,
Gesù lo ringraziava, perché sapeva bene che Girolamo voleva fare
del suo meglio. Ma ogni volta, Gesù lo incalzava anche di più, con un
dolce sorriso sulle labbra: «Girolamo, non hai qualcosa di più da
darmi?». Alla fine, dopo aver esaurito l'elenco di tutte le sue opere
buone, il monaco non potè far altro che balbettare: «Signore, ti ho

211
dato tutto. Non mi resta più nulla». Allora, nel gran silenzio della
grotta e del deserto di Giudea, Gesù parlò un'ultima volta:
«Girolamo, hai dimenticato una cosa: dammi i tuoi peccati, perché io
possa perdonarli!».
Concludiamo con una storia. Un'umile signora che viveva in un
piccolo paese disse di aver sperimentato apparizioni di Cristo. Per
accertarsi della loro autenticità, il suo parroco la convocò e le disse:
«La prossima volta che Dio le apparirà, gli domandi di rivelarle i
miei peccati; sono l'unico a conoscerli. Questa sarà la prova». Un
mese dopo, la signora tornò dal sacerdote, che le domandò: «Dio le è
apparso di nuovo?». «Sì», rispose la signora. «E lei gli ha posto la
domanda che le ho suggerito?». «Sì, gliel'ho fatta». «E che cosa le ha
detto il Signore?». «Mi ha risposto: "Di' al sacerdote che i suoi peccati
li ho dimenticati"».

212
Indice

Introduzione .............................................................................. pag. 7

CAPITOLO 1: Il peccato è capitale? ......................................... » 13


Che cosa significa peccare?.................................................... » 13
Che cos'è un peccato capitale? ............................................. » 16
Perché i peccati capitali sono sette? ...................................... » 17
Perché interessarsi ai peccati capitali? ................................ » 18
Come lottare contro il peccato capitale? ............................. » 23
- La T@ttica del diavolo: www.666Tentazioni.com! ............. » TI
- Sugli schermi: Il riscatto di Mendoza ................................ » 30

CAPITOLO 2: La superbia, capitano dei peccati capitali » 35


Che cos'è la superbia? ........................................................... » 36
È veramente un peccato? ...................................................... » 37
Perché la superbia è un peccato capitale? .......................... » 39
Come si dissimula la superbia? ........................................... » 40
Come riconoscere la superbia? ............................................. » 42
Come rimediare?..................................................................... » 43
In conclusione ......................................................................... » 50
- La T@ttica del diavolo: Bella superbia, amore mio! ............ » 51
- Sugli schermi: Viaggio agli estremi della superbia ............. » 54

CAPITOLO 3: La gola, la regina del palazzo ......................... » 59


Che cos'è la gola? ................................................................... » 60
Quali sono le diverse specie di gola? .................................. » 61
In che cosa la gola è un peccato capitale? ............................ » 62
Come si dissimula la gola? ................................................... » 64
Come rimediare?..................................................................... » 66
In conclusione ......................................................................... » 71
- La T@ttica del diavolo: Cadono tutti nel dolce! ................. » 73
- Sugli schermi: La festa dell'amore ...................................... » 75

213
Capitolo 4: La lussuria, corpo del reato ................ ............. Vag- 81
Che cos'è la lussuria? .............................................................. » 82
In che cosa la lussuria è un peccato capitale? .................... » 84
Quali sono le diverse specie di lussuria? ............................. » 87
In che cosa la lussuria è un peccato capitale? .................... » 89
Come rimediare? .................................................................... » 93
In conclusione ......................................................................... » 102
- La T@ttica del diavolo: Adulterio, istruzione per l'uso .. » 104
- Sugli schermi: Dalla lussuria all'amore .............................. » 107

CAPITOLO 5: L'oro duro dell'avarizia ................................... » 113


Che cos'è l'avarizia? ............................................................... » 114
Quali sono le diverse specie di avarizia? ............................. » 115
In che cosa è un peccato capitale? ....................................... » 117
Come si dissimula l'avarizia? ................................................ » 120
Come riconoscerla?................................................................. » 122
Come rimediare?..................................................................... » 125
Conclusione ............................................................................ » 130
- La T@ttica del diavolo: Vago sul denaro ............................. » 132
- Sugli schermi: L'avido e l'autistico .................................... » 135

CAPITOLO 6: La gelosia, o morire d'invidia ......................... » 141


Che cos'è la gelosia? .............................................................. » 142
E veramente un peccato? ...................................................... » 145
In che cosa la gelosia è un peccato capitale? ....................... » 146
Come si dissimula? ................................................................ » 148
Come riconoscere la gelosia? ................................................ » 149
Come rimediare? .................................................................... » 151
In conclusione ......................................................................... » 156
- La T@ttica del diavolo: Prediligerai sempre l'amaro ........... » 158
- Sugli schermi: Morte d'invidia in Italia .............................. » 161

CAPITOLO 7: Il giorno dell'ira................................................. » 167


Che cos'è l'ira? ......................................................................... » 168
In che cosa l'ira è un peccato? .............................................. » 168
In che cosa l'ira è un peccato capitale? ................................ » 172
Quali sono le diverse specie di ira? ............................... pag. 174

214
Come si dissimula? ................................................................. » 176
Come riconoscerla?................................................................. » 179
Come rimediare?..................................................................... » 182
In conclusione ......................................................................... » 191
- La T@ttica del diavolo: Stufato di corruccio ...................... » 192
- Sugli schermi: Ira nell'arena ............................................. » 194

CAPITOLO 8: L'accidia non fa nulla ....................................... » 199


Che cos'è l'accidia? ................................................................. » 200
In che cosa l'accidia è un peccato capitale? ......................... » 204
Come si dissimula? ................................................................ » 207
Come riconoscerla?................................................................. » 211
Come rimediare? .................................................................... » 213
In conclusione ......................................................................... » 219
- La T@ttica del diavolo: Accidiosi in sciopero ..................... » 221
- Sugli schermi: Disgusto e dolori ........................................ » 224

Epilogo ...................................................................................... » 229

215
Questo libro è prima di tutto un
manuale di liberazione interiore.
Vi domanderete: Perché parlarci
di peccati? Questa nozione vec-
chia come la Genesi non è forse
desueta e superata? Non
sarebbe meglio parlare della bontà di Dio, piuttosto che della
malizia dell'uomo?
Gli autori non si propongono lo studio storico di un concetto
teologico, né, soprattutto, di "fare della morale". L'obiettivo di
questo libro consiste nello stanare, con l'aiuto di grandi maestri
spirituali, i falsi dei che tentano l'uomo fin dalle Origini.
l sapienti del tempo antico hanno elencato sette di questi
grandi idoli che il Tentatore agita nel cuore degli esseri umani
per illuderli di trovare così la loro felicità: superbia, gola,
lussuria, avarizia, gelosia, ira, accidia. Sette grandi tentazioni,
sette vizi principali. Sette malattie dell'anima che sono state
definite "capitali", perché ne generano altre. Le loro radici sono
profonde e nascoste. Sono difficili da diagnosticare; ma che
libertà offre curarle! Questo è il fine che si propongono queste
pagine.

Pascal Ide, prete della Comunità dell'Emmanuele, associa il ri-


gore della riflessione teologica ad_ una conoscenza profonda
dell'uomo e della realtà pastorale. E autore di numerose pubbli-
cazioni di successo.
Luc Adrian, giornalista, autore di best seller religiosi.

ISBN 88-01-03178-5
Il settimo peccato capitale non è quello che
comunemente si dice. È molto più grave della
pigrizia, quel difetto quasi banale che ci induce a
rimanere a letto quando suona la sveglia, o a
rimandare a domani quello che bisognava fare ieri. È
un vizio misterioso dal nome bizzarro: accidia. La sua
definizione latina, la «tristitia de bono divino», richiama
più un buon vino degustato sotto i pergolati di Capua
che un pericolo mortale. La «tristezza del bene
divino» procede mascherata: si adorna di un'etichetta
da vino pregiato e si nasconde sotto gli orpelli della
pigrizia come una vipera mascherata da biscia.J1 suo
morso è indolore, ma il suo vele- (i no paralizza
l'anima nel suo slancio verso Dio, insensibilmente.
Questo assopimento spirituale è il peccato dei
discepoli di Cristo nel Getsemani. Ci tocca tutti, un
giorno o l'altro.
Gli Antichi definivano l'accidia «demonio del
mezzogiorno», o
Il gusto smodato per la distensione
Giovanni Cassiano racconta che un anziano
religioso parlava di un argomento spirituale ai suoi
confratelli; vedendo che si intorpidivano e si
addormentavano, inserì nel suo discorso una storia
frivola. Subito gli ascoltatori drizzarono le orecchie. Il
saggio fece allora comprendere loro che la loro
differenza di attenzione era legata a ragioni umane,
troppo umane: «Grazie a questo, comprendete almeno
qual è stato l'avversario di questa conferenza

217

Potrebbero piacerti anche