Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
¡/peccati
cafpitali
«MA LIBERACI DAL MALE»
V
ELUDICI
Titolo originale: Les 7 péchés capitaux ou ce mal qui nous tient tête
© Mame-Edifa, Paris 2002
Internet: www.elledici.org
E-mail: mail@elledici.org
7
Gli autori sono esperti riconosciuti dei peccati capitali. Ne sono
praticanti da lunga data, li hanno esperimentati in lungo e in largo
(alcuni di questi vizi sono anche andati loro per traverso). In questa
sede, il loro obiettivo non consiste nel rivelare la pratica personale di
una battaglia dolorosa (questo a livello commerciale avrebbe dato
garanzie di maggiori profitti), ma nel trarre da questa esperienza
indicazioni e consigli per essere più liberi e più felici.
Questo libro, infatti, è prima di tutto un manuale di liberazione
interiore.
Forse direte: Perché parlarci di peccato? Questa nozione vecchia
come la Genesi non è forse desueta e superata? Forse sta emergendo
un nuovo giansenismo? Sta forse tornando l'«ordine morale»? Non
aumenterete forse un senso di colpa già troppo presente in un mondo
contrassegnato dalla «fatica di essere se stessi»? Non sarebbe meglio
parlare della bontà di Dio, piuttosto che della malizia dell'uomo?
Siamo chiari: gli autori non intendono proporre uno studio storico
di un concetto teologico, né, soprattutto, di «fare della morale»: in
questo caso, comincerebbero a servire se stessi, convinti, come La
Rochefoucauld, che «è più facile dare buoni consigli, che buoni
esempi». L'obiettivo di questo libro consiste nello stanare, con l'aiuto
di grandi maestri spirituali, i falsi dèi che tentano l'uomo fin dalle
Origini, e di cui gli autori stessi hanno provato la seduzione in se
stessi.
I sapienti del tempo antico hanno elencato sette di questi grandi
idoli che il Tentatore agita nel cuore degli esseri umani per illuderli di
trovare così la loro felicità: superbia, gola, lussuria, avarizia, invidia,
ira, accidia. Sette grandi tentazioni, sette vizi principali. Sette malattie
dell'anima che sono state definite «capitali», perché ne generano altre.
Le loro radici sono profonde e nascoste. Sono difficili da diagnosticare;
ma che libertà nel curarle! Questo è il fine che si propongono queste
pagine.
Questo piccolo trattato medico-teologico dei peccati capitali è
nato da una doppia constatazione.
i •) Prima constatazione: noi incontriamo grandi difficoltà a di-
stinguere i nostri vizi. Non li vediamo più, o li vediamo troppo, o
ancora non li vediamo dove non si trovano veramente.
La tentazione più frequente consiste nel minimizzarli, nel sot-
tovalutarne la presenza nella nostra vita. Preferiamo dire a Dio, con
la piccola signora «mistica» raffigurata sul suo inginocchiatoio dal
pittore Sempé: «Come sai, la parola peccato deriva dal latino
peccatum, che molto probabilmente ha dato origine al termine
peccatuccio, che preferirei usare».
D'accordo, vi sono sbagli evidenti. Se abbiamo ucciso, mentito,
rubato, tradito il nostro coniuge (e si arriva perfino a giustificarli: per
esempio, l'adulterio sarà definito «cambiamento di fedeltà»), è
difficile che non ce ne rendiamo conto... Ma rimanere concentrati su
questi peccati è un circolo vizioso. Sono i peccati che si enunciano
durante la confessione, quando ci si accosta ancora a questo
sacramento: sempre gli stessi, triti e ritriti! Sorge lo sconfortante
sentimento di non progredire. Tutto questo, per non parlare dei
peccati assillanti e ripetitivi (spesso i peccati della carne) che
finiscono per occupare tutto l'ambito della coscienza,_al punto da
mettere in ombra e nascondere gli errori più gravi. Si ha
l'impressione di tagliare teste che ricrescono continuamente, senza
arrivare a uccidere l'idra. Di lì ad abbandonare la battaglia e a
disertare il sacramento della riconciliazione, che sembra così poco
efficace, c'è solo un passo, che spesso compiamo.
0 Un peccato può nasconderne un altro. Dietro la schiera dei vizi
consueti, dei peccati abituali, delle piccole «mascalzoncelle», si
nascondono i vizi principali, gli «sponsor»; vizi più interiori, più
sottili, meno visibili. Grosse idre, ben nascoste, che sanno come
proteggersi. Che hanno teste maligne e potenti. In breve: i peccati
capitali. Noi li braccheremo.
® Seconda constatazione: esistono opere eccellenti sul sacramento
della riconciliazione, ma non vi sono libri recenti e pratici sui peccati,
e in particolare sui peccati capitali. È come se fossero riusciti a farsi
dimenticare.
L'obiettivo delle pagine che seguono è essenzialmente concre
9
to: aiutare ognuno a discernere il proprio peccato principale,
quello che, nella maggior parte dei casi, non è quello che crediamo,
per sradicarlo e convertirci. I rimedi proposti mirano a integrare
questa lotta contro il cancro del peccato nella vita quotidiana, e
questo è il modo migliore per vivere la grazia sacramentale del
perdono. Infatti, se il perdono è una grazia, la grazia delle grazie
consiste nel sapere per che cosa siamo perdonati.
A fini pedagogici, abbiamo specificato le citazioni che proponiamo.
Ogni peccato capitale sarà esaminato con modalità simili. Questo
metodo può sembrare scolastico, ma permette di guadagnare in
chiarezza:
• In che cosa consiste questo peccato?
• Perché questo peccato è capitale, cioè quali conseguenze de-
termina e quali altri peccati genera?
• Come si dissimula? Come riconoscerlo?
• Come porvi rimedio, cioè quali sono i mezzi concreti per ab-
bandonare questo vizio dell'anima?
10
l'umorismo rallegra per costruire. «Nulla è più sciocco che trattare con
serietà argomenti frivoli, ma nulla è più spiritoso che far servire le
frivolezze a fini seri», sosteneva Erasmo da Rotterdam nel suo Elogio
della Pazzia. Il vero umorismo comincia dove l'orgoglio abdica:
relativizzando ciò che tendiamo troppo ad as- solutizzare, permette di
essere seri senza prendersi (troppo) sul serio.
Infine, lottiamo efficacemente contro il male solo rimanendo vicini
al bene, che è il suo contrario. Possiamo dunque leggere questo piccolo
trattato sui vizi capitali come un testo sulle grandi virtù: umiltà,
mitezza, ecc.
IL___
CAPITOLO JL
Il peccato è capitale?
11
delle conseguenze negative che ne derivano: pigrizia, maldicenza,
discordia, infedeltà, ambizione, menzogna, crudeltà... L'elenco è
infinito e si snoda lungo tutta la storia dell'umanità. Attraversa la
nostra storia e la profondità del nostro cuore.
J
naie è il loro dio; il loro potere è il loro dio, ecc. Alla base di ogni
peccato c'è un'idolatria: noi scegliamo di considerare come dio ciò
che non lo è. Preferiamo la creatura al Creatore.
Crocifiggere Gesù
Da quando Gesù ci ha rivelato chi è Dio suo Padre (cf Gv 1,18), noi
contempliamo in Lui le conseguenze devastanti del peccato: il peccato
crocifigge Dio. Questa rivelazione sarebbe insopportabile e anche
distruttiva, se non fosse preceduta da una rivelazione fondamentale:
la certezza del perdono. Nel suo Memoriale Pascal scrive: «La vita
eterna è riconoscere Te come unico vero Dio e Colui che Tu hai
mandato, Gesù Cristo. Io mi sono allontanato da Lui. L'ho sfuggito,
ho rinunciato a Lui, L'ho crocifisso». L'Autore può affermare: «io L'ho
crocifisso» solo perché ha pronunciato il nome di «Gesù», che in
ebraico significa «Dio salva».
Ci dominano
I peccati capitali sono all'origine di molti errori; prenderne co-
scienza permette di cogliere i legami tra peccati apparentemente
diversi; combatterli significa tagliare il male alla radice.
Cassiano, un monaco orientale del V secolo, paragona questa lotta
interiore a quella dei gladiatori che affrontano le belve nell'arena:
«Dopo aver considerato quali sono i più notevoli per il loro vigore o i
più terribili quanto a ferocia, iniziano a combattere prima di tutto
contro di essi. Quando li hanno uccisi, abbattono più facilmente gli
altri, che sono meno terribili e meno furiosi».
Un Padre del deserto confidava di aver combattuto per anni contro
la propria ira: «Un giorno me ne sono sbarazzato; quel giorno, con
sorpresa ho potuto vedere quanto gli altri miei difetti si erano ridotti».
Lottare contro il proprio peccato capitale è come disfare una maglia:
l'importante è tirare il filo giusto, il resto segue. Lo stesso Giovanni
Cassiano in una delle sue Conferenze diceva: «È impossibile che un
uomo che si preoccupa di purificare il suo cuore e, a questo fine,
indirizza tutte le risorse della sua anima contro gli assalti di un vizio
qualunque, non li avvolga tutti in un odio comune e non si metta
parallelamente in guardia contro di essi».
Si nascondono
Léon Bloy nella sua opera La Femme pauvre scriveva: «La nostra
incoscienza è così profonda che non sappiamo neppure di essere
idolatri». Chiudiamo gli occhi sulle nostre idolatrie per sei ragioni
essenziali:
- I peccati capitali spesso sono giustificati, scusati o tollerati dal
contesto sociale. Salire sull'autobus senza biglietto significa rubare,
quando lo Stato ci spreme tanto? Immaginare di vivere
un'avventura con la segretaria è veramente un peccato, quando
tanti attori si sposano per la settima volta in pompa magna e
questo sembra a tutti normale? «(Il malvagio) ha di sé una stima
troppo grande per scoprire e odiare il suo peccato», constata la
Bibbia (Sai 35,3).
16
- Certi peccati capitali, come l'invidia o l'accidia, sono molto in-
teriori e meno evidenti di altri.
- Questi peccati sono vizi. Un vizio è un'inclinazione negativa. Ma
un'inclinazione diventa presto un'abitudine. «Noi siamo ciò che
ripetiamo ogni giorno», sosteneva il filosofo greco Aristotele. Lo
constatiamo fin da quando apriamo gli occhi, quando schiacciamo
il pulsante della sveglia imprecando. Il bene come il male, a forza
di ripetizioni, diventano abitudini. E tutto ciò che è abituale
diventa come una seconda natura e si dissimula nel contesto del
quotidiano. Il vanitoso si abitua alla sua vanità, l'invidioso alla sua
invidia, la persona ossessionata dal sesso al suo bisogno di fantasie
erotiche...
- Certi peccati capitali comportano una notevole componente
affettiva, come l'ira o la gola, che è innanzitutto un piacere gu-
stativo. Un sentimento, però, è involontario. Non vi è peccato,
quando si prova il desiderio di concedersi un dolce, né quando ci
si irrita perché un automobilista distratto ha urtato violentemente
la nostra auto nuova. Discernere una responsabilità nella tristezza,
perfino nella depressione, che caratterizza l'accidia, non significa
forse aggiungere ingiustamente al peso della desolazione quello
del senso di colpa?
- I peccati capitali prosperano su un terreno psicologico favorevole:
sono frammisti a ferite o traumi che li predispongono e li
favoriscono.5 Come distinguere la ferita psicologica dal peccato
capitale? Il vizio non si contrappone forse alla ferita fino a lasciarsi
confondere con essa?
- Infine, questi peccati sono uno degli elementi chiave del com-
battimento spirituale (vedere di seguito); ma questa battaglia
spesso è misconosciuta, perché si nega non solo l'azione del
demonio, ma la sua esistenza; questi, di fatto, ha tutto l'interesse a
lavorare di notte, finché, scoperto, si agita e s'inquieta per
arrogarsi un potere che non ha.
7 Cf PASCAL IDE, «Le péché, maladie de l'âme», in COLL., Le Mystère du mal, Toulouse, Ed. du
8 Q. D. De Malo, q. 8, a. 2.
20
e difficilmente sradicabile. Qual è la sua frequenza? Ci è difficile
resistervi? Ne siamo dipendenti?
- l'estensione: di quali altre mancanze questo peccato capitale è
l'origine nella nostra vita? Quali ambiti della nostra esistenza
riguarda? Quali persone del mio contesto influenza?
- l'antichità: da quanto tempo siamo posseduti da questo vizio?
Quali ferite hanno favorito il suo radicarsi?
La presa di coscienza
Dopo il riconoscimento lucido, segue un'umile presa di coscienza.
Non si tratta, beninteso, di acconsentire al peccato, ma di prendere
coscienza dell'errore. Si presenta allora il pericolo di rimanere
disgustati. Questa disperazione è una trappola peggiore della cecità.
Accettare l'esistenza di questo vizio significa riconoscere che siamo
abitati da una fragilità spirituale di fondo. Questa miseria, lungi
dall'allontanare Dio, lo attira, purché non ci ripieghiamo su di essa.
Una tentazione frequente consiste nel dire a Cristo: «Tu non puoi più
amarmi, dopo quello che ho fatto, o che faccio da tanti anni». È il
peccato dell'apostolo Giuda, la più terribile delle offese. Dire a Dio:
«Tu non mi ami», è molto peggio che dirgli: «Io non ti amo». Significa
infatti impedire a Dio di essere Dio, lui che sa soltanto amare, lui il cui
essere è tutto amore (cf 1 Gv 4,8.16).
22
La T@ttica del diavolo
www.666Tentazioni.com!
24
smascherarci! Sbrigati dunque a fare in modo che il peccatore si
assimili al suo peccato. Dimenticherà che una persona non si riduce
mai ai suoi atti, per quanto siano abominevoli, e si crederà
condannato al male. Hip, hip, hurrà!
Infine, di tanto in tanto, allontanati un po'. Lascialo stare. L'uomo,
meno tentato, meno agitato, immagina di diventare più santo. Si
rilassa. Osserva allora i talloni d'Achille, i punti che si sforza meno di
migliorare: le mezze menzogne, le debolezze, la tiepidezza, ecc.
Attaccherai poi con maggior precisione. Te ne riparlerò.
E-mailzebull
Sugli schermi
Il riscatto di Mendoza
26
Gesuiti nel paese Guarani e, per espiare la sua colpa, trascina con
grande fatica un enorme pacco confezionato da lui. Il pacco contiene
alla rinfusa gli orpelli del suo «uomo vecchio»: armatura, spada,
pistole, scudo, ecc. Cose mostruose e informi, a immagine della sua
vita.
28
CAPITOLO Z.
30
per l'io» sia al termine o all'inizio delle azioni del superbo; in altri
termini, a seconda che il superbo viva per se stesso o da se stesso.
31
Vivere da se stessi o indipendenza
Esiste un'altra forma, più sottile, di superbia: l'indipendenza.
Infatti, è possibile essere generosi, prodigarsi per il prossimo, senza
smettere di essere superbi: certo, si vive per gli altri, persino per Dio,
ma non si smette di vivere per se stessi. In altri termini, ci si considera
l'origine del proprio essere.
Erin Brockovitch, il personaggio realmente esistito e interpretato
da Julia Roberts nel film omonimo, profonde un'ammirevole energia
per far vivere i suoi tre figli e salvare famiglie ingiustamente sfruttate,
ma non ha la forza di atteggiare le labbra a un «grazie» per chi le
rende un servizio. E l'archetipo dell'indipendente che controlla tutto e
non vuol essere controllato da nessuno. Padroneggia la propria
esistenza ed è riluttante ad accettare consigli. Questo modello è
esaltato dalla società contemporanea.
Questa forma di superbia s'insinua ovunque, persino nella bontà e
nella santità. Il curato d'Ars diceva: «Quando pecchiamo di superbia
[...] diciamo al buon Dio che siamo indipendenti da ogni cosa». E
significativo il fatto che «sufficienza» sia sinonimo di superbia: il
superbo è l'individuo che vuole bastare a se stesso. Questo è il peccato
del demonio. Il demonio non è megalomane, sa bene di non essere
Dio. La sua superbia (e la sua disperazione) sta nel non aspettarsi
nulla da Dio. E tutto il suo lavoro consiste nel costruire l'uomo a sua
immagine.
È veramente un peccato?
È però così evidente che l'egoismo e l'indipendenza, queste due
facce della superbia, siano peccati?
Innanzitutto, l'amore per se stessi non è negativo. Al contrario. L'io
non è detestabile. Anche odiare se stessi è una forma di superbia.
L'autostima è una qualità indispensabile per vivere. 10 E necessario
saper dire «io» prima di poter dire «tu»: l'ordine della coniugazione è
anche quello dell'etica. Cristo ci chiede di amare il nostro prossimo
come noi stessi (cf Mt 22,39). Diventare adulti significa affermare se
stessi, avere i propri gusti, le proprie opinioni, pensare da sé, decidere
da sé. Quante persone ritengono di essere schiacciate dagli altri
(coniuge, superiori, ecc.), mentre sono innanzitutto prive di un
L'egoismo
L'umorista Pierre Desproges diceva: «Io adoravo Brassens. Lui e io
avevamo un punto in comune: a lui piaceva molto quello che
10 facevo. Anche a me». L'egoista fa dell'amore di sé l'obiettivo delle
sue giornate. Dimentica che l'autostima legittima e necessaria ha come
obiettivo il servizio degli altri. Il concilio Vaticano II sostiene che
«l'uomo [...] può trovare pienamente se stesso solo attraverso il dono
33
sincero di sé»13.
Fate una prova: a che cosa pensate appena vi svegliate al mattino?
A voi stessi soltanto, o ai vostri amici, a quelli che si sono affidati alla
vostra preghiera e che vivono l'esperienza di una prova o di una
malattia, al vostro coniuge, ai vostri figli, a Dio?
L'indipendente
L'indipendente crede di essere libero quando si distacca da ciò che
lo circonda; la persona autonoma, invece (definiamo autonomia la
legittima indipendenza), sa che diventa più libera nutrendosi di tutti i
rapporti interpersonali che le si offrono. In fondo, l'indipendente
decide di affermarsi opponendosi, mentre l'autonomo sceglie di
offrirsi, sempre rimanendo se stesso.
Fate un'altra prova: quando una persona si offre di aiutarvi
gratuitamente, la vostra prima reazione è la gratitudine, o invece
11 sospetto, o addirittura il rifiuto?
13 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 24, § 4. In altri
34
Come si dissimula la superbia?
Nelle sue Riflessioni morali, La Rochefoucauld scrive: «L'acce-
camento degli uomini è l'effetto più pericoloso della loro superbia:
serve ad alimentarla e a incrementarla, e ci impedisce di conoscere i
rimedi che potrebbero sollevarci dalle nostre miserie e guarirci dai
nostri difetti». La superbia è un serpente che si insinua sotto le
migliori intenzioni del mondo. E difficile da individuare per tre
ragioni.
Innanzitutto, la superbia si maschera. L'amor proprio s'insinua
sotto apparenze sottili, come ad esempio il perfezionismo. Sa anche
dissimularsi sotto gli orpelli di un'apparente umiltà. «Si fa assurgere a
virtù (per compensare la propria inerzia o la vuota frenesia), la
sensazione di essere poco degni, il disprezzo di se stessi, in sintesi,
un'umiltà che inganna, ma che spesso cela un colossale narcisismo»,
denunciava il Dr Berge ne Les maladies de la vertu.
In un monastero buddista, un discepolo domanda al suo maestro:
«Che cos'è la vanità?». Il maestro risponde con tono sprezzante: «Che
domanda idiota!». Il discepolo rimane ferito e furioso. Il suo viso
s'imporpora. «Mio caro amico, la vanità è questa!», risponde il
maestro.
35
una tra le forme meno conosciute di superbia. «Che in una sera mi
interrompa per tre volte davanti ai nostri figli è troppo!», esclama
Nicole, esasperata da suo marito. «Per tutto il fine settimana non gli
parlerò più». Il giorno dopo, domenica, suo marito le offre il suo più
bel sorriso. Nicole sta per rispondere con gentilezza, quando si
riprende: «Ah, no, dimenticavo: sono arrabbiata con lui!». La prova
che la musoneria è una forma di superbia sta nel fatto che occorre
molta umiltà per avvicinarsi di nuovo all'altro. Tornare indietro
presuppone di ammettere il proprio torto a se stessi e agli altri;
almeno il torto di essersi chiusi. Ecco perché è molto più «economico»
e conveniente non tenere il muso...
Infine, la superbia è spesso strettamente intrecciata a ferite psi-
cologiche, in particolare al senso di abbandono, che forse sono state
provocate da separazioni durante la prima infanzia; queste ferite
determinano un forte bisogno di riconoscimento e di attenzione
esclusiva.
36
Come riconoscere la superbia?
Oltre ai segni di egoismo e d'indipendenza già menzionati, se-
guono alcuni indizi supplementari:
Il «name-dropping»
Questo procedimento consiste nel far passare come evidente il
fatto di frequentare persone del bel mondo. «Sai, l'ambasciatore della
Francia in Norvegia, com'è affascinante». «Come lo sai?». «Oh, scusa,
non te l'avevo detto? Ho cenato a casa sua ieri sera».
Mettersi in mostra
Durante le riprese del film La contessa scalza, Ava Gardner ebbe
una love-story con il torero Luis Miguel Dominguin. La prima sera,
nella camera in cui s'incontrarono, il torero si alzò, si vestì e scavalcò
la finestra. «Dove vai?», gli domandò la bella attrice. «A raccontarlo ai
miei amici!», rispose ingenuamente il matador.
Il superbo «ideale»
Il saggio Cassiano riassume diversi tratti del superbo in questo ritratto «ideale»:
«il nostro tono di voce alto, il nostro silenzio amaro, le nostre risa clamorose e
smodate, le nostre tristezze irragionevoli e pesanti, le nostre risposte acide, le
nostre conversazioni leggere [...]; impazienti, senza carità, offensivi nei confronti
degli altri, ma pusillanimi verso quelli che subiamo; disobbedienti, salvo quando
abbiamo già prevenuto con i nostri desideri quello che ci viene domandato; duri
37
quando occorre ricevere un consiglio; deboli quando occorre mortificare la
propria volontà; inflessibili quando si tratta di assoggettarci alla volontà degli altri;
sempre cercando di imporre le nostre opinioni e rifiutando di accondiscendere a
quelle degli altri. Così accade che non possiamo più ricevere consigli salutari, e
accordiamo sempre maggior fiducia al nostro giudizio piuttosto che a quello dei
nostri anziani».
(Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche, XII, 29, 2-3).
Come rimediare?
Oltre alla pratica dell'umiltà, i rimedi sono di tre tipi: la lotta
contro l'egoismo, la lotta contro lo spirito d'indipendenza, e la giusta
autostima.
Praticare l'umiltà
La superbia viene contrastata dal suo contrario: l'umiltà. Una virtù
si acquisisce con piccoli atti, ma i piccoli atti di umiltà non sono i più
facili da compiere...
Concretamente, si può decidere di accettare un'umiliazione al
giorno: la più sicura è quella che non si sceglie, quella che la vita
propone. Questa accettazione non sarà solo esteriore (non reagi
38
re, non difendersi, non giustificarsi), ma interiore (acconsentire,
constatando la parte di verità contenuta in ogni parola umiliante,
anche ingiusta).
L'umiltà umiliata
«Parlare di umiltà non è facile, in particolare oggi», sottolinea Don André Louf,
per trentanni abate dell'abbazia cistercense di Mont- des-Cats. Tutti i nostri
grandi «maestri del sospetto», o quasi, hanno voluto mettere in discussione
l'umiltà. Secondo Nietzsche, l'umiltà è la grande menzogna dei deboli che
trasformano con tanta astuzia la loro fiacchezza in apparente virtù. Secondo
Freud, è una variante masochistica del complesso di colpa. Per Adler, è vicina al
senso d'inferiorità. Le interpretazioni di questi studiosi hanno lasciato tracce nella
nostra cultura moderna. Come scegliere l'ultimo posto secondo il Vangelo, in una
società affascinata dai successi dei giovani lupi o dei golden boys? Tuttavia, già
Ruysbroek lo anticipava: «Essere immersi nell'umiltà significa essere immersi in
Dio, perché nel fondo dell'abisso c'è Dio... L'umiltà ottiene cose troppo alte per
essere insegnate; raggiunge e possiede ciò che la parola non raggiunge».
(André Louf, L'humilité, Parole et Silence, 2002, pp. 9 e 10).
Quali che siano i nostri sforzi, l'umiltà è una virtù più che umana:
trova origine in Cristo. Tutta la vita di Gesù testimonia la sua umiltà
e l'umiltà di Dio. Gesù dà l'esempio abbassandosi (Fil 2,6-11) e
facendosi servo. San Clemente papa afferma: «Il Signore Gesù Cristo
non è venuto con un atteggiamento di superbia e di sontuosa
apparenza, pur potendolo fare, ma nell'umiltà».16
39
nunziatura; Monsignor Ceretti non si troverà nella sala dove noi saremo ricevuti:
sarà delizioso. Infine, saliremo le scale dell'abitazione di Paul Bourget. Questi ci
respingerà con un sorriso amaro: torneremo a casa raggianti, sarà la gioia
perfetta». Florence Delay concluse: «E accadde proprio questo. [...] Di ritorno da
questi affronti, padre Plaze- net lasciava trasparire la sua soddisfazione».
Masochismo? No, eroismo, se è associato a un vero senso dell'umorismo...
(La Documentation Catholique, n. 2261, 6 gennaio 2002, p. 37).
Uscire dall'egoismo
Impariamo a donare in segreto, senza che nessuno lo sappia (Mt
6,1-4). Anche qui, è preziosa la decisione quotidiana. Se tendiamo a
essere più generosi quando passeggiamo con i nostri amici, decidiamo
di donare altrettanto e con la stessa frequenza quando siamo soli.
Soprattutto, non accontentiamoci mai di dare solo una parte dei
nostri beni: offriamo qualcosa di noi, un sorriso, uno sguardo, una
presenza. Doniamo noi stessi: offriamo il nostro tempo, la nostra
competenza, il nostro cuore; impegniamoci, accettiamo di legarci (nei
due significati del termine...).
Coltivare la discrezione
«Amico mio, non facciamoci notare», raccomandava il curato
d'Ars. Quanti uomini diventano insopportabili durante le cene,
quando ci sono delle belle donne? Nel III secolo, un monaco del
deserto domandò al suo padre spirituale: «Come dobbiamo com-
portarci nel luogo in cui ci troviamo?». Il saggio rispose: «Abbi la
discrezione di un estraneo, rispetto per gli anziani e, ovunque tu sia,
non cercare mai di imporre il tuo punto di vista. Così vivrai in pace».
In un libro suH'umorismo, il giornalista Alain Woodrow cita
questo aforisma: «Dio disse al suo Amico: "Vuoi conoscere il segreto
dell'umiltà? Domandalo a Satana". L'uomo fu dunque condotto a
incontrare il diavolo e a domandargli del suo segreto. Satana gli
rispose: "Mio caro, ricorda solo questo: se non desideri diventare me,
evita di dire io"».
17RENÉ LAURENTIN, Yvonne-Aimée de Malestroit Maître de vie spirituelle, O.E.I.L., 1990, p. 173.
18 Citadelle, Gallimard, 1951, p. 397.
41
risalire all'origine primigenia di tutte le cose, giunse a chiamare
fratello e sorella anche le creature più umili, poiché tutte erano uscite
dallo stesso e unico principio».19
Lo stesso accade per i nostri talenti. L'umile non è il modesto che
nega anche le qualità più evidenti, ma colui che non se ne attribuisce
mai il merito: «chi ama non si gonfia di orgoglio», dice san Paolo (1
Cor 13,4); non è escluso che l'uomo possa vantarsi, ma «chi vuol
vantarsi si vanti per quel che ha fatto il Signore» (1 Cor 1,31).
L'apostolo Paolo si loda per una o per l'altra qualità, perché Dio ne è
tanto l'origine quanto il destinatario (2 Cor 10,8). L'umiltà consiste in
questo: accogliere se stessi come un dono del Padre in tutto.
Concretamente: quando ci viene rivolto un complimento, sap-
piamo ringraziare (contro la falsa modestia), ma senza dilungarci,
senza coglierlo con diletto (contro la superbia). Si dice che Padre Pio
attribuisse la stessa importanza ai complimenti e alle critiche.
19 Legenda minor, 3, 6.
1
4,7). Tu non conosci Dio per merito della tua giustizia, ma Dio si è donato a te
per pura benevolenza [...]. Non raggiungi Dio con le tue forze, ma è Cristo che,
con la sua venuta, è sceso a prenderti [...]. Ti vanterai di aver ricevuto degli onori,
e la misericordia che ti è stata riservata diventerà una fonte di superbia? Conosci
te stesso, sappi chi sei, come Adamo che si nasconde nel paradiso terrestre,
come Saul abbandonato dallo spirito di Dio, come il popolo di Israele tagliato
dalle sue sante radici: "...ti sei messo al loro posto perché hai la fede. Tu per
questo non diventare superbo, ma piuttosto temi di perderti..." (Rm 11,20)».
(San Basilio di Cesarea, Omelia sull'umiltà).
Non denigrarsi
Lo abbiamo visto: l'umiltà è un giusto mezzo tra la superbia e la
modestia. La superbia è la preoccupazione smodata per la propria
perfezione, la modestia ne è il disprezzo. «A voler scendere troppo»,
scriveva Bernanos, «si rischia di passare la misura. Ma nell'umiltà,
come in ogni cosa, l'eccesso genera la superbia, e questa superbia è
mille volte più sottile e più pericolosa di quella del mondo, che nella
maggior parte dei casi è solo vanagloria». 20 Un giorno, mentre
predicava, san Bernardo sentì crescere in lui quel
lo che ritenne fosse un moto di vanagloria. Si apprestò a scendere
dalla cattedra, quando lo Spirito Santo gli ordinò: «Resta qui». Si
trattava di scrupolo, non di superbia.
43
San Leone Magno papa amava ripetere: «Cristiano, riconosci la tua
dignità». Lo si può fare con umorismo. Papa Giovanni XXIII un
giorno si recò a visitare l'ospedale romano del Santo Spirito. Una
religiosa, tutta commossa, lo accolse dicendo: «Santità, sono la
superiora dello Spirito Santo». Il papa rispose: «Congratulazioni! Io
sono solo il Vicario di Cristo!».
44
significa imparare da Gesù l'umiltà: ricevere tutto dal Padre e ri-
condurre tutto a Lui.
La corona di spine (il terzo mistero doloroso del Rosario) sim-
boleggia la mortificazione della superbia. Nella meditazione tra-
dizionale della Via Crucis, rappresentando Gesù che cade per tre
volte, la pietà popolare mostra che il Signore si assume umilmente la
nostra vulnerabilità; Cristo non ha paura di perdere la faccia di fronte
agli uomini, perché, con la sua umiltà, ci guarisce dalla superbia e
vanità.
In conclusione
Jean Nohain racconta che un produttore infatuato di sé continuava
a ripetere: «Sono tanto più felice del mio successo perché sono partito
dal nulla». Seccato da questa boria, uno dei presenti una volta
mormorò: «Probabilmente ha preso un biglietto di andata e ritorno!».
L'umiltà richiama quello che Pierre Dac diceva riferendosi alla
«vera modestia»: «consiste nel non considerarsi mai né meno né più
di quanto si ritiene di valere, né meno né più di quanto si vuol essere
considerati». Riuscite a seguire?
Un giusto umorismo non può forse offrire una via di guarigione al
superbo? C. S. Lewis nelle sue Lettere di Berlicche riporta questa frase
di san Tommaso Moro: «Il Diavolo, [...], lo Spirito di Superbia, [...]
non sopporta di essere deriso». L'umorismo comincia come umiltà e
termina come amore. Grazie all'umiltà, il superbo (e chi non lo è?)
impara che lui esiste non attraverso sé, ma attraverso gli altri; grazie
all'amore, impara che esiste non per sé, ma per gli altri. William
Thackeray non affermava forse che «l'umorismo è nato dal
matrimonio tra lo spirito e l'amore»?
45
La T@ttica del diavolo
46
ispirazioni di Q.D.D.! Tommaso d'Aquino sottolinea a ragione che
l'uomo prova il desiderio naturale di raggiungere la propria pienezza;
il peccato consiste solo nell'eccesso di questo desiderio di eccellenza.
È su questo punto che noi dobbiamo giocare con abilità.
Se vuoi guadagnare i gradi di diavolo capo, mio caro nipote, devi
diventare un manipolatore dell'ego. Primo, bisogna cominciare subito.
"L'essenziale nella vita è affermarti", dirà per esempio un papà a suo
figlio. Lui a scuola era stato superato dai suoi fratelli e dai suoi
compagni: ora può prendersi una buona rivincita mediante suo figlio.
Secondo, fa' in modo che l'educazione susciti l'orgoglio. Se i genitori ne
parlano, fa' che aggiungano formule di questo genere: "La superbia
muore un quarto d'ora dopo la nostra morte", o: "In ogni caso, tutti
sono superbi". Questi motti sciocchi e scoraggianti fanno cascare le
braccia. La superbia è come la menzogna o i manifesti erotici: si
finisce per adattarsi. Bisogna pur vivere, no?
Non inquietarti troppo quando senti qualcuno accusarsi in
confessione di essere superbo. La confessione di queste persone
spesso rimane così generica che non è imbarazzante; entrare nei
dettagli è troppo umiliante. Fa' solo in modo che il sacerdote non
chieda loro un esempio, per prodigare un consiglio concreto che
permetterebbe di progredire su un caso specifico.
Un'arma efficace consiste anche nello snaturare questa dannata (se
posso dire così) umiltà. Fa' in modo che circolino nelle famiglie
cristiane vite di santi come quella di Alessio. Si racconta di lui che,
dopo un lungo esilio, tornò a casa dei suoi genitori, i quali non lo
riconobbero. Per anni, visse sotto le scale della sua casa e fu
identificato solo dopo la sua morte. È abbastanza sovrumano tanto da
diventare inumano. Queste agiografie scoraggianti mi hanno fatto
avvicinare molti ex nemici.
Diffida invece come dell'acqua santa della piccola di Lisieux. È una
mia nemica personale. È concreta, racconta minutamente tutte le sue
battaglie contro la superbia, e lo fa per obbedienza alla sua superiora.
Mostra che non è nata santa. Inoltre, ha scritto la cosa peggiore contro
di noi: un'opera che ha per titolo II Trionfo dell'umiltà. Ho cercato di
distruggerla (di fatto, una parte del manoscritto è alterata, n.d.r), ma
quello che è rimasto continua a farci torto. Ho anche cercato di
soffocare la Carmelitana sotto i petali di fiori, di spegnere la sua
fiamma nell'acqua di rose... mi sono bruciato le ali! L'umiltà la rende
47
inattaccabile.
Comincio a capire perché Q.D.D. ha una passione per le pastorelle
e le contadine: queste ragazze non sono prese in considerazione, tutti
le lasciano fare, e questi cuori umili salvano il mondo sotto il nostro
naso!
E-Mailzebull
Sugli schermi
48
nemmeno da una ruga.
È esigente con se stessa come con gli altri («Per te siamo tanti
dipendenti», le rinfaccia sua figlia). Controlla tanto i suoi collabo-
ratori quanto i componenti della sua famiglia, cioè suo marito Robert
(Sam Neill) e la sua unica figlia Grace. Solo quest'ultima, però, osa
reagire: «Tu sai sempre tutto», le dice; «Io non ho una risposta a
tutto», dice una volta la madre Annie. «No, è solo un atteggiamento
che assumi», replica la figlia; «Non voglio essere la ragazzina
modello della madre modello». E Grace aggiunge, con pungente
lucidità: «Ho pregato Dio perché abbiate un altro figlio, per non
dover essere in tutto eccezionale».
Annie regna sul suo tempo come sul suo telefono. Infine, controlla
ogni sentimento e non tollera nulla che non sia conforme ai suoi
comandi. Disprezza chi non ha la sua stessa vigilanza. Questo
controllo assoluto ha come contropartita una perenne incapacità di
accordare fiducia a qualcuno: al capezzale di sua figlia, verificherà
persino le trasfusioni.
Sarebbe ingiusto sottolineare solo gli aspetti negativi della sua
personalità. La superbia come volontà di perfezione s'inserisce anche
nella continuità di un desiderio naturale di fare bene. Robert, suo
marito, avrebbe avuto tanta energia per combattere così per la
guarigione della figlia? Annie ha deciso: il cuore di sua figlia deve
cicatrizzarsi e guarire, come la gamba. Tuttavia, nella sua superbia,
Annie ignora che la felicità è lì a portata di mano. Oscilla co-
stantemente tra la tensione del dovere da compiere e la speranza
delusa. Fare bene non è sempre sinonimo di fare del bene.
Il vuoto della perdita
Il grave incidente a cavallo di Grace fa andare in frantumi la
fragile protezione di questa donna che «fa le domande e dà le ri-
sposte».
Innanzitutto, le sfugge il controllo degli altri: perla prima volta,
sua figlia le resiste. Ma il suo incidente (che è una trasgressione) non è
già un atto mancato, una sorta di fuga?
Annie deve anche perdere il controllo del tempo. Alla domanda:
«Per quanto ne avrà con il cavallo?», Booker risponde: «Dipende
dallo stesso Pilgrim». Il whisperer ha tempo, perché prende tempo.
L'ambientazione riesce a non dare alcun punto di riferimento
cronologico. Quanto tempo durano il viaggio o il soggiorno nella
49
fattoria? Lo spettatore non può rispondere a questa domanda: anche
lui deve rinunciare al suo desiderio di controllare il tempo. Con molta
astuzia, il regista ci fa così partecipare al processo di ricostruzione:
grande appassionato della natura e della lentezza dei suoi ritmi, sa
quanto i cittadini sono abituati a contare tutto, a cominciare dalle ore.
50
Soprattutto, Annie deve abbandonare l'onnipotenza su se stessa.
Quando s'innamora di Tom, nella sua vita fino ad allora controllata
entra il turbamento. Si può deplorare l'adulterio (solo abbozzato nel
film, mentre nel romanzo avviene concretamente), ma il sentimento
d'amore è drammaticamente importante: solo la sua potenza
irresistibile spossessa la giovane donna da questo controllo
intransigente su se stessa, e travolge la sua dittatura interiore.
L'ammirevole regia di Robert Redford mostra tre volti successivi
di Annie: il viso freddo della superba perfezionista, tirannica verso se
stessa quanto verso gli altri; il volto scomposto della persona che
perde il controllo della situazione; il viso illuminato della giovane
donna, tornata alla sua origine e che si lascia invadere dall'amore.
Un doppio aiuto
Tom, l'allevatore di cavalli, farà qualcosa di più che guarire Grace;
farà rinascere la madre a se stessa. La capacità di ques'uo- mo di
accogliere ciò che gli accade senza cercare di comprendere e di
controllare tutto, mostra ad Annie che c'è un altro modo di condurre
la propria vita. Quando Annie pone a Tom la domanda che la
tormenta costantemente («Ho fatto bene a venire qui?»), il cowboy
risponde con un'esattezza e un'umiltà che lasciano interdetti: «Non lo
so». Dopo, ma solo dopo, aggiungerà: «E stata coraggiosa a venire
qui». Tuttavia, in mancanza di modelli senza difetti, avendo infine
provato la propria fragilità, Annie rischia di idealizzare quest'uomo
seducente. L'osservazione della cognata di Tom, Diane Booker (Diane
Wiest), è molto opportuna: «Ha un gran dono; ma è solo un uomo».
Il superbo cerca di controllare i ritmi altrui, mentre l'umile si
mette alla sequela dell'altro. Tom ammansisce l'animale lasciandolo
arrivare da lui, rispettando i suoi ritmi. La guarigione del cavallo
avvenuta grazie a quest'uomo dolce e rispettoso della natura insegna
ad Annie l'atteggiamento da tenere verso il trauma della figlia, ma
anche nei confronti di se stessa. Mormorare o sussurrare significa
innanzitutto tacere per sentir palpitare la vita nell'altro, poi
accompagnarlo nei suoi primi balbettìi.
D'altro canto, Annie è il personaggio che ha più colpito Robert
Redford, come ha confermato lo stesso attore-regista in un'intervista
concessa al Figaro (3/9/1998): «...perché è lei a compiere il viaggio
più lungo, non solo verso un mondo diverso dal suo, ma dentro se
51
stessa».
L'evoluzione di Annie determina effetti positivi sulla sua coppia
quando essa attraversa una grave crisi. Di primo acchito, suo marito
Robert sembra piuttosto arrendevole e conciliante. Troppo? Annie lo
accusa implicitamente di essere molle e incapace. Prende le redini in
mano e lui crede di agire al meglio lasciandola fare. Si radica una
complementarità perversa che scava un fossato, perché ognuno
affonda nei suoi difetti. Annie finisce per disprezzare il marito per la
sua debolezza e la sua mancanza d'incisività. Non possono più
comunicare. Tutto questo fino al momento finale del ritorno, nella
fattoria di Tom, dove Robert trae beneficio dalla trasformazione di
sua moglie e le permette di manifestare la propria bontà di cuore:
«Ho sempre creduto di essere più innamorato di te di quanto tu lo
fossi di me». I due coniugi comunicano a una profondità nuova e
rinnovano la loro scelta di stare insieme.
Conclusione
Nel libro best-seller di Robert Evans, l'eroe muore tra le mon-
tagne, da cow-boy solitario. Il film non termina come il romanzo.
Perché? Robert Redford ha spiegato: «Volevo una conclusione più
forte, e mi sembrava che sarebbe stato più duro se il protagonista
fosse costretto a compiere scelte che esigessero sacrifici e fosse ob-
bligato a vivere con quei sacrifici».21 Perché il regista parla di «una
conclusione più forte»? La soluzione facile sarebbe consistita nel far
morire il cowboy Tom. Così Annie non avrebbe dovuto scegliere;
più ancora, avrebbe idealizzato quell'amore che una fatalità spietata
le aveva tolto. Invece, la presenza di Tom la invita a decidere e a
decidere di essere fedele nel grigiore del quotidiano senza l'ebbrezza
di una nuova grande passione, il che è doppiamente difficile. Ma
amore e amor proprio sono inversamente proporzionali: la scelta di
questa scuola di umiltà è dunque una promessa di amore vero tra
Annie e Robert.
La gola, un brutto vizio? Andiamo, cosa sarà mai una torta alla
crema? Non è il caso di attribuire tanta importanza a questo difetto.
Comunque, ...l'argomento è delicato come la crema bruciacchiata.
Camminiamo sulle uova. Provate ad affermare, nel corso di una cena,
che la gola è un peccato, o peggio, un peccato capitale che alimenta in
sé tanti altri diavoletti, e voi seccherete tutti!
Avrete un bel citare Ezechiele: «Ecco, questa fu l'iniquità di tua
sorella Sodoma: ...l'ingordigia». Sarete delusi: «Vuole scherzare? Dio
non ha inventato le papille gustative perché evitiamo di servircene!»,
sussurrerà una spilungona bionda mentre sta per assaporare, con la
bocca tinta di rosso, qualche fragola alla panna. Se c'è un male in
quest'ambito, riguarda più la medicina che la morale.
«Il peccato, signore caro, sta nel non gustare le delizie della
creazione e le meraviglie della gastronomia», osserverà un uomo
corpulento, con le labbra lustre.
«D'altra parte, Gesù, che è stato accusato di essere "un mangione e
un beone" (Mt 11,19), ha compiuto il suo primo miracolo a Cana, dove
il vino scorreva a fiumi (Gv 2,1-12) e che prefigura il regno eterno...
che viene paragonato a un banchetto di nozze!», approverà un
ecclesiastico subdolo, con il clergyman color caviale.
La gola è un «vizio mignon», come il filetto omonimo. Un peccato
infantile che si evoca con indulgenza e tenerezza. L'infanzia, questo
paese in cui il peccato non esisteva ancora... Gli occhi brillano; si
sussurra scusandolo: «È goloso!». In certi ambiti, «golosità» è
sinonimo di «dessert». Oggi questo è considerato un segno di civiltà,
di finezza. E se il termine «golosità» fosse usato per aggiungere al
piacere del palato quello della trasgressione? Il peccato si è veramente
sciolto come crema al sole?
La gola spirituale
È possibile essere golosi di tutto, anche di consolazioni divine. San
Giovanni della Croce, a proposito delle persone che indulgono a
questo vizio «nella vita spirituale», afferma che «cercano più la loro
soddisfazione che la purezza della grazia e della discrezio
25 San Gregorio Magno distingue non quattro, ma cinque specie di gola (cf Mo- ralia,
XXX, 60, PL 76,556D-557A).
56
ne»; questo vale anche per quelli che «si ammazzano di penitenza».
Questa tendenza si riscontra spesso tra i nuovi convertiti. Un goloso
non indulge più ai piaceri della tavola, ma cerca smodata- mente le
consolazioni della Sacra Mensa. Cerca le delizie spirituali per se
stesse, preferisce la consolazione al Consolatore, la sensazione di
benessere nella preghiera, più che l'esercizio sereno di quest'ultima.
Ma questa cupidigia affettiva fa concentrare la persona su se
stessa. Il segno? Se Dio toglie la sua presenza sensibile senza togliere
la sua presenza spirituale che non ha nulla di percepibile, l'anima è
tutta disorientata. Se il nostro cammino spirituale fosse pieno di rose,
diceva padre d'Elbée nel suo libro Croire à l'amour, che cosa ci
garantirebbe che andiamo verso Dio per lui stesso e non per le rose?
San Giovanni della Croce propone un altro criterio: i golosi accettano
tutte le mortificazioni a eccezione di una, l'obbedienza, di cui
«scansano il giogo [...], preferiscono le loro mortificazioni alla
discrezione e all'obbedienza, che è la penitenza della ragione». 26
58
può arrivare fino alla buffoneria; una trascuratezza e negligenza fisica
che influenza la dignità e ferisce l'educazione.
Ragioni sociologiche
La società non aiuta a essere temperanti. Le pubblicità sono al-
lettanti, le ricette che si trovano nelle riviste sono appetitose, gli
scaffali tentano, le esposizioni dei grandi magazzini sono guarnite di
dolcetti che si adocchiano facendo la coda, i reparti traboccano di
vivande e l'Italia rigurgita di prodotti tipici regionali che chiedono
solo di essere gustati, assaporati, apprezzati. Come osare definire
peccato tale «arte di vivere»?
Ragioni psicologiche
La psicologia aiuta a cogliere le ragioni nascoste delle nostre
frenesie papillari. L'alimento è la nostra prima esperienza di piacere.
Intorno ai piaceri orali si riprendono tutte le soddisfazioni della prima
infanzia. Non è forse attraverso l'esperienza della «maddalena»
59
inzuppata nel tè che comincia il grande romanzo di Marcel Proust Alla
ricerca del tempo perduto, un tempo di felicità nascosta ma rimasta
intatta nei meandri della memoria?
La felicità, ma anche tutte le frustrazioni. La minima privazione di
cibo risveglia mancanze profonde di consolazione. Certe ferite
provocate dall'abbandono sono compensate dal piacere culinario.
Offrendo il seno, la mamma non dà solo latte, ma affetto: nutre sia
l'anima che il corpo. Le difficoltà a privarsi del cibo che si
sperimentano in occasione dei digiuni volontari hanno spiegazioni
psicologiche e non solo morali. Per questo, un certo numero di
disfunzioni della sfera del mangiare e del bere riguardano più le ferite
dell'anima che il peccato. Queste ferite scusano, almeno in parte,
l'intemperanza. In questa sede, non è il caso di parlare dell'alcolismo
(vedere qui sotto) o di anoressia e bulimia, patologie gravi e
complesse.
L'alcolismo è un peccato?
In Pallottole su Broadway di Woody Alien, David e Helen arrivano in un bar. Helen
ordina: «Due martini». «Come, conosce i miei gusti?», si stupisce David. «Ah, ne
vuole anche lei?», replica la giovane donna senza scomporsi. Se questo scambio
di battute può far sorridere, l'alcolismo non fa ridere. In Italia, l'alcolismo è la
causa di morte di migliaia di persone all'anno e distrugge migliaia di famiglie.
Spesso si beve per sentirsi meglio, per attenuare un dolore, placare un'angoscia,
fuggire da se stessi, abbandonare le proprie inibizioni, a volte fino a perdere il
controllo.
San Paolo ha un'affermazione terribile: «...nel regno di Dio non entreranno... gli
ubriaconi...» (1 Cor 6,10; cf Rm 1 3,13). Perché una severità del genere, mentre
altri passi biblici celebrano il vino che «rallegra il cuore dell'uomo»? Il fatto è che il
peccato di ebbrezza (assunzione smodata di bevande alcoliche) è una rinuncia
volontaria a ciò che costituisce la nostra dignità di persone: l'uso della ragione e
la libera padronanza di noi stessi.
La persona alcolista è dunque votata alla gogna? No. L'espressione di san Paolo
riguarda il peccato di ebbrezza, non la malattia dell'alcolismo. Chi ne soffre è
dipendente, dunque alienato: non può fare a meno dell'alcool, altrimenti
soffrirebbe una carenza intollerabile. Se la patologia lo scusa, d'altro canto il suo
errore può consistere nel:
- rifiutare di ammettere la propria malattia. Qui è in gioco la superbia;
- rifiutare di curarsi, ad esempio partecipando regolarmente alle riunioni di un
60
gruppo di Alcolisti Anonimi;
- rifiutare di farsi seguire regolarmente, ad esempio non sottoponendosi a esami
medici. Questo atteggiamento spesso è dovuto alla paura di conoscere la verità,
ma può anche essere una questione di viltà;
- disperare; è la grande tentazione del malato di alcolismo (e delle persone che
vivono intorno a lui);
- collocare l'alcool, e non Dio, al centro della vita e delle sue preoccupazioni.
Una delle tappe fondamentali nel programma degli Alcolisti Anonimi consiste nel
riconoscere un Assoluto al di sopra di se stessi. Occorre scegliere tra culto divino
e culto del vino. Quello che è vero per l'alcolismo, lo è anche per le altre
dipendenze.
Come rimediare?
La gola, come la lussuria e l'avarizia, si basa su un desiderio
smisurato. Vi si può porre rimedio integrando il desiderio, ma ri-
nunciando ai suoi eccessi. In sintesi: orientando l'atto dell'alimen-
tazione verso il vero bene della persona e padroneggiandolo; questo
risultato non si ottiene senza sottoporsi a qualche privazione;
ma «con nulla non si ottiene nulla», come dice la saggezza popolare.
Alcuni suggerimenti possono essere:
61
sapere quale grado di intimità con Dio ha raggiunto una persona,
guardala a tavola. Se è attenta a tutti i presenti, sii certo che è presente
a Dio. Se invece pensa solo a riempirsi lo stomaco, si serve prima degli
altri, racconta le sue storie senza ascoltare quelle del suo vicino,
ricerca la compagnia dei grandi invece di stare seduto accanto a tutti,
si può dubitare della profondità della sua comunione con il Signore».
Infine, non si dovrebbe escludere troppo in fretta Dio dalle finalità
del pasto: «...sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate
qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1 Cor 10,31).
62
boccone», dice Evagrio Pontico.11 Ringraziamo Dio prima di ogni
pasto, in particolare per quelli che si sono impegnati a prepararlo (il
Benedicite) e dopo (il rendimento di grazie), in particolare perché al
dono del cibo corrisponda il dono della nostra persona.
Saper rinunciare
Non illudiamoci: è impossibile controllare il piacere gustativo
senza un minimo di rinuncia. Sapremo chi è padrone a casa nostra (la
nostra volontà o la nostra affettività) il giorno in cui impareremo a
dire «no» a certi piaceri. La nostra difficoltà a praticare il digiuno
quaresimale, oltre alle ragioni psicologiche già esposte, è motivata dal
fatto che non abbiamo più l'abitudine a privarci di qualcosa nel resto
dell'anno.
Oggi, alcuni dietologi giustamente raccomandano di non mar-
tirizzare il proprio corpo per dimagrire, ma temono di frustrare la
persona nel suo piacere orale, tanto che accettano la golosità. Ma il
peccato non riguarda l'alimento in quanto tale, bensì il piacere che
suscita: è questo che occorre regolare.
Praticare la rinuncia
Tre consigli semplici da applicare regolarmente (se possibile, a
ogni pasto):
• di un piatto di cose che piacciono, prendere poco o nulla;
• rinunciare a servirci una seconda volta di una portata per cui
andiamo matti;
• rinunciare a un alimento che apprezziamo.
I consigli di sant'Ignazio
Nei suoi Esercizi spirituali, sant'Ignazio di Loyola raccomanda «le regole per
trovare la giusta misura nell'alimentazione», che sono sempre valide. Eccone
alcune:
Misurare le parole
Il piacere culinario è prolungato (o preparato) dal ricordo: è
importante che il ricordo di un pasto delizioso non arrivi a occupare
tutti i nostri pensieri e le nostre parole. Può esserci mancanza di
misura nell'uso della memoria.
D'altra parte, c'è un modo di lamentarsi del cibo che manca di
riserbo. Spesso, queste lamentele alimentano le conversazioni più
ancora del loro oggetto, lo stomaco. La temperanza comincia con
l'accettare il contenuto del proprio piatto, purché le norme dietetiche
siano rispettate.
Trovare diversivi
Il piacere gustativo è una compensazione. «Non si può vivere
senza piacere», affermava Aristotele; mangiare è il piacere più im-
mediato. Ci si può dunque aiutare a mangiare meno, trovando piacere
diversamente e diversificando le fonti di consolazione. Per esempio: la
stanchezza rattrista; dopo un lungo lavoro, siamo dunque tentati di
mangiucchiare; e se ci si offrisse piuttosto un'altra forma di
distensione: un bagno, una passeggiata, una telefonata a un amico, un
64
buon libro, un bel brano musicale...?
Pazientare
Il goloso spirituale ha sete di consolazione. Può meditare le parole
che Cristo rivolse a santa Caterina da Siena: dopo aver dato
soddisfazioni alla persona, «mi ritiro da lei, non con la grazia, ma con
il sentimento. [...] Per far uscire l'anima dall'imperfezione, mi ritiro da
lei, privandola della consolazione che provava in precedenza. [...] Se
lo faccio, è per farla esercitare a cercare Me in piena verità, per
provarla alla luce della fede e insegnarle la prudenza».31
Evagrio propone un rimedio all'intemperanza intellettuale: «Uno
dei saggi del tempo andò a trovare il giusto Antonio e gli disse: O
Padre, come puoi resistere, privo come sei della consolazione dei libri?
Antonio rispose: O filosofo, il mio libro è la natura delle creature ed è
presente quando voglio leggere le parole di Dio». 32
65
La meditazione di Gesù che sceglie di privarsi di ogni soddi-
sfazione può guarirci progressivamente dalle nostre forme di gola e
dai nostri desideri smisurati di consolazione gustativa. Lo Spirito
Santo vuole anche volgere i nostri desideri troppo terreni verso il
Padre e scavare il nostro desiderio spirituale: «...l'acqua che io gli darò
diventerà in lui una sorgente per l'eternità» (Gv 4,14). Innalzare lo
sguardo verso il Crocifisso significa domandargli quale deve essere la
vera misura delle nostre soddisfazioni e delle nostre rinunce.
In conclusione
Rassicuriamoci: la gola è senz'altro un brutto difetto, ma non è, in
sé, un peccato grave. È il più facile da commettere, è il disordine più
accessibile, a portata di mano, a portata di bocca. Il goloso è un
peccatore a cui si è tentati di perdonare molto e più in fretta che agli
altri. Anche sant'Agostino trova circostanze attenuanti: «E chi, o
Signore, [nel mangiare o nel bere] a volte non va al di là della
necessità?».34
Resta il fatto che è un vizio-chiave, una prova di padronanza di sé.
«Quando lo stomaco è controllato con prudenza e intelligenza, entra
nell'animo tutto un corteo di virtù», assicura san Nil
Sorsky. Certo, la gola è il meno grave dei peccati capitali, ma alcuni
Padri della Chiesa ritenevano che ne costituisse l'inizio. Se il grande
poeta Dante ci annuncia, nella Divina Commedia, che «Tutta està
gente, che piangendo canta,/ per seguitar la gola oltra misura,/ in
fame e 'n sete qui si rifà santa»,35 tuttavia non dimentichiamo che
questo riscatto si trova nel purgatorio, il nome del quale non è mai
stato più adatto.
La T@ttica del diavolo
«Troppo facile», dici. «Tutti i neofiti del vizio cadono in questa rete:
66
voi disprezzate la gola come un'arma di bassa lega e sognate
tentazioni più sottili. Tuttavia, figliolo diavoletto, la gola non è cosa da
poco. Hai sentito recentemente un sacerdote tuonare contro la carne
(che è debole) permettere in guardia da questo vizio? La nostra
disinformazione ha focalizzato il peccato in quello di gola del
ghiottone, facendo passare quella del buongustaio come una
raffinatezza. Il messaggio è semplice quanto geniale: "Il peccato sta
nella quantità". In sintesi, l'abbuffata ha messo in ombra tutti gli sbagli
sottili dissimulati dalla gola. Ma Dio sa (chiedo scusa per questa
parola grossa) se ce ne sono! Infatti la tattica consiste nel servirsi delle
papille gustative dell'uomo per suscitare in lui egoismo, impazienza,
recriminazioni, mancanza di carità.
Osserva sul canale M666 il corso tenuto magnificamente dal nostro
fratello e gran maestro Glubose e ti leccherai i baffi. Guarda, per
esempio, come manipola quella vecchia signora. Oh, non fa chissà che
cosa alla nonnina, solo il tè in casa Fauchon, servito alla tale ora, alla
determinata temperatura, con mezzo toast scaldato a puntino e
spalmato di marmellata d'arance amare, una specialità. Glubose è
molto forte. Quello che la signora desidera non pesa molto in uno
stomaco, ma essa lo desidera al punto da ridurre le persone che la
circondano a suoi schiavi. Non commette mai eccessi quantitativi:
ricerca solo la perfezione della degustazione con un'ostinazione che
terrorizza chi le sta accanto. Il suo stomaco domina tutta la sua vita e
quella dei suoi. È la tortura con un piccolo tè.
Glubose ha i denti lunghi e la lingua lunga. Tra i cristiani, è riuscito
a rendere ridicolo o superfluo il digiuno del venerdì. È festa tutti i
giorni! Hanno dimenticato le raccomandazioni di Ignazio de l'Aioli (o
di Loyola, non ricordo più) nel XVI secolo: "Si deve tener conto
dell'astinenza soprattutto per quanto riguarda i piatti cucinati...".
Guarda questa profusione di piatti preparati che questi uomini e
queste donne stressati non hanno nemmeno il tempo di gustare e
ingurgitano in fretta, con una sorta di triste avidità.
Guarda, Glubose sta incoraggiando questa donna tanto pia a
rispettare il digiuno del venerdì. Che colpo di genio! La signora sta
preparando (con il pretesto di mangiare di magro) una sogliola alla
Colbert e un gambero di mare alla maionese come antipasto! Oh, caro
legalismo, quante meraviglie compiono gli umani nel tuo nome!
E che dire del padre di famiglia a cui Glubose ha sottilmente
67
ispirato una lotta anti-sperpero "per rispetto verso i bambini che
muoiono di fame nel mondo"? Quel pover'uomo sta esasperando sua
moglie e i loro tre figli con avanzi indigesti, crostine di pane raffermo,
prediche morali e recriminazioni. L'unità familiare si frantuma grazie
a un'intenzione generosa!
Assapora anche lo spettacolo di questo giovane che gongola di
orgoglio servendo ai suoi ospiti le sue belle e buone pietanze. Glubose
l'ha indotto alla gola tramite la vanità. L'arte culinaria per lui è
diventata un sottile strumento di conquista e di dominio.
Naturalmente, mio caro nipote, i Cieli sono più grandi del ventre,
ma ti prego (se posso osare dirlo) di non lasciar cadere la gola. Rivedi
il tuo piano di studi e cerca di inserirvi uno stage da Glubose, io ti
raccomanderò. Scoprirai il piacere di ridurre un uomo a oggetto della
sua cupidigia: una sigaretta, un bicchiere di whisky, un piatto
appetitoso... Il giorno in cui l'assenza di uno di questi beni, a cui tiene
tanto, lo farà uscire dai gangheri, tu lo terrai per la gola, come un
pesce all'amo. Allora la sua carità, il suo senso della giustizia, la sua
obbedienza saranno alla tua mercé. E dire (questo rimanga tra noi) che
basta un piccolo sforzo quotidiano di moderazione per mettere
Glubose al tappeto!
Poi, quando avrai raggiunto il livello G+, sarai iniziato alla grande
arte della gola spirituale. Il tema è troppo complesso per essere
affrontato in conclusione di e-mail... ma, mio caro nipote, non hai
finito di gustare!».
E-mailzebull
Sugli schermi
La festa deiramore
68
novella di Karen Blixen predispone a una purificazione della gola:
orienta il piacere gustativo verso il gusto dell'altro e
dell'Assolutamente Altro.
• La storia: Filippa e Martine, figlie di un rispettato pastore che ha
fondato una comunità austera, sono rimaste nubili. Abitano in una
casa ubicata in un paese dello Jutland, una zona incontaminata della
Danimarca. Una notte dell'anno 1871, vedono arrivare Babette
(Stéphane Audran), una rifugiata francese fuggita dalla Commune.
Babette si offre di mettersi al loro servizio. Anni dopo, quando le due
«padrone» si preparano a festeggiare il centenario della nascita del
loro defunto padre, Babette, che ha appena vinto una grossa somma
alla lotteria, propone di offrire loro un «vero pasto francese». Sarà
molto più di una semplice festa dei sensi...
69
Il pasto è innanzitutto un'occasione di ringraziare per la generosità
di Martine e Filippa e, inoltre, per quella del loro padre, di cui viene
ricordata un'espressione: «Le uniche cose di questa vita terrena che
potremo portare con noi saranno quelle che avremo donato agli altri».
Sotto l'abito sobrio e austero delle due giovani donne batte un cuore
ricco di vera compassione: il loro volto riflette solo misericordia e
serenità.
L'arrivo inatteso del generale rivela un altro amore: quello che
anima l'organizzatrice della festa, Babette. Mentre gusta una quaglia
curiosamente cucinata in una sorta di feretro, il generale ricorda di
aver mangiato lo stesso piatto in un ristorante molto raffinato di
Parigi, il «Café français». Curiosamente, la cuoca era una donna, e la
sua specialità era la «quaglia al sarcofago». L'identità di Babette viene
così svelata, insieme con la sua umiltà: era la cuoca più famosa di
Parigi, un «genio culinario».
La rivelazione continua: era stato assicurato al generale che
«questa donna è capace di trasformare un pasto in una specie di affare
di cuore, che non fa differenza tra l'appetito fisico e l'appetito
spirituale». Questa formula è straordinaria nella sua esattezza: non
solo questo pasto è un affare di cuore, ma riconcilia le due dimensioni,
quella visibile e quella invisibile, quella fisica e quella spirituale, di
ogni realtà umana. L'origine del «genio culinario» di Babette è il suo
amore.
La festa, balsamo sui cuori feriti
Più ancora, questo pranzo è una liturgia dell'amore, perché
guarisce cuori feriti dall'amore. In particolare, quello del generale
Lorenz.
Lorenz, giovane ufficiale, giocatore pieno di debiti e bevitore
inveterato, era stato mandato nello Jutland da suo padre. Durante
un'uscita a cavallo, incontrò una delle due figlie del pastore. Al primo
sguardo, s'innamorò di lei. La giovane, però, che lo amava in segreto,
non osò mai parlarne per non dare un dispiacere a suo padre. Lorenz,
con il cuore spezzato, cercò di fuggire a quell'amore in un matrimonio
d'interesse, mentre la giovane puritana si dedicò completamente agli
altri per dimenticare il suo dolore.
Diventato generale, Lorenz non è sciocco: la sua vita è solo un
tentativo narcisistico di provare a se stesso il proprio valore. Al
momento di recarsi all'invito di Babette, dopo aver indossato il suo
70
abito più bello, rifiuta di mettere il monocolo mormorando le parole
dell'Ecclesiaste: «Vanità delle vanità, tutto è vanità». Poi si mette
davanti allo specchio e si rivolge, attraverso di esso, al giovane
ufficiale che era stato: «Ho raggiunto tutto quello a cui aspiravo. Ma a
che prò? Questa sera abbiamo un conto da regolare. Devi provare che
avevo scelto bene». Esce. Fuori c'è una tormenta.
Alla fine del pranzo, il generale propone un brindisi. Mentre parla,
gli sguardi brillano, non solo per l'esaltazione dell'agape: «Nella sua
debolezza e nella sua corta veduta delle cose, l'uomo crede di dover
fare la sua scelta in questo basso mondo e disprezza il rischio che
corre in questo modo. Arriva un momento in cui i nostri occhi si
aprono e comprendiamo che la Grazia è infinita. Dobbiamo
semplicemente attenderla con fiducia e riceverla con riconoscenza. La
Grazia non pone condizioni. Tutto quello che abbiamo scelto ci è stato
dato, e tutto ciò che abbiamo rifiutato ci è pure stato accordato. Sì,
anche ciò che abbiamo rifiutato ci è stato accordato», afferma Lorenz,
che conclude riprendendo il versetto biblico con cui aveva aperto il
discorso: «Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si
baceranno» (Sai 84,11).
Un po' più tardi, Lorenz si ritrova solo nella penombra simbolica
della camera, con la giovane che continua ad amare tanto. Il generale
confessa alla donna: «Sono stato vicino a lei ogni giorno della mia vita.
Mi dica che lo sa». Lei, che non è capace di mentire, risponde: «Sì, lo
so». La donna ignora che questa ammissione guarisce nel profondo il
generale e dà significato a tutta la sua esistenza passata. Ormai, quello
che era rimasto sospeso nel suo brindisi può realizzarsi: «Allora, sa
anche che sarò con lei sempre, ogni giorno che Dio vorrà accordarmi,
ogni sera... Non con il mio corpo (che non significa nulla), ma con la
mia anima. Infatti, cara sorella, stasera ho imparato che in questo
nostro mondo meraviglioso tutto è possibile».
Straordinaria dichiarazione d'amore che ritrova i toni del Cantico
dei Cantici, in cui le parole di disperazione espresse lasciando l'amata
decenni prima («In questa vita vi sono cose impossibili»), sono
cancellate da questo «Tutto è possibile». Il vero amore spera tutto.
Ma tra le parole del passato e quelle che sono appena state pro-
nunciate si inserisce il pranzo di Babette, la festa dell'amore che tocca
e guarisce i cuori.
71
La festa, metafora dell'Eucaristia
Infine, Il pranzo di Babette è una mirabile parabola dell'Eucaristia.
La similitudine esteriore non è priva d'importanza: la tovaglia
bianca, i preparativi accurati, le candele, i dodici invitati, le parole
ricche di significato: «Siamo pronti per il servizio» (invece di
«Possiamo metterci a tavola»), ecc.
Il pranzo di Babette è un rendimento di grazie (Eu-caristia in
greco). Portando avanti l'opera del padre con diligenza, Martine e
Filippa spendono il loro tempo e il loro denaro in atti di carità (dono
di indumenti, di cibo, ecc.). Con questo pranzo, Babette vuole
ringraziarle per questa bontà diventata virtù. Una delle rivelazioni
della festa è che questa rende omaggio al suo autore, più ancora che
alle due sorelle.
Se le sorelle sono in qualche modo le ministre del «sacramento»,
Babette (diminutivo di Elisabeth, che in ebraico significa «casa di
Dio») non simboleggia forse lo stesso Cristo? Babette è di origini
misteriose, ha un'identità segreta, ha dato tutto, senza ri- pensamenti.
E più grande di quanto la si possa rappresentare...
D'altra parte, questa festa è, come l'Eucaristia, un sacrificio nel
senso più pieno del termine: un'immolazione in vista di un'offerta di
sé. Lo si scopre alla fine. «Babette, è stata un'ottima cena», dice una
delle due sorelle. «Tutti sono stati molto contenti. Tutti noi
ricorderemo questa serata, quando sarai tornata a Parigi». Babette
risponde: «Non tornerò a Parigi, perché là non c'è nessuno che mi
aspetta. Sono tutti morti». E aggiunge: «Non ho più denaro». Di fronte
allo stupore delle sorelle, replica: «Ho speso i diecimila franchi. Era il
prezzo di un pasto per dodici persone al "Café français"».
Allora la festa diventa comunione. Opera la sua trasformazione
tramite lo stesso atto della manducazione (l'atto di mangiare): la
generosità del sacrificio si riflette su quelli che vi prendono parte. La
litigiosa Anna fa questa affermazione di una profondità sorprendente,
che sottolinea un silenzio rispettoso (e che annulla l'ammonimento di
partenza: «Ricordate che abbiamo perso il senso del gusto»): «Quando
l'uomo non solo rinuncia, ma rifiuta qualsiasi pensiero riguardante
cibi o bevande, allora può mangiare e bere nella giusta disposizione
d'animo». E vuota d'un fiato il bicchiere su questo aforisma pieno di
saggezza.
72
Conclusione
Un vizio si guarisce non con il vuoto, ma con la virtù contraria. Il
contrario della gola non è l'astinenza, ma la sobrietà. Questa riorienta
il piacere gustativo verso la salute del corpo, anch'essa finalizzata dal
dono di sé. Il pranzo di Babette illustra in modo magnifico che la
dilatazione dovuta al piacere gustativo predispone alla dilatazione
dell'anima che gusta la saggezza dell'amore.
73
CAPITOLO ‘T
78
la assolve quando riguarda solo la «pratica individuale» con un
partner consenziente. «Non c'è niente di male a farsi del bene», si
sente dire spesso. Analizziamo questo aspetto più da vicino.
Non c'è niente di nuovo sotto il sole del demonio di mezzogiorno.
L'Antico Testamento racconta la storia di una giovane donna di
grande bellezza, Susanna. La giovane ama passeggiare in un giardino
in cui si trovano a chiacchierare due anziani giudici la cui età
veneranda non ha ancora spento in loro il fuoco della carne. «Quei
due giudici la vedevano ogni giorno passeggiare nel giardino e la
desideravano ardentemente. A un certo punto persero la testa, non
pensarono più a Dio né alle proprie responsabilità di giudici. Anche
se tutti e due bruciavano di passione per Susanna, nessuno aveva mai
parlato all'altro del proprio tormento: infatti si vergognavano di
svelare il desiderio che avevano di possederla. Così, da un giorno
all'altro, facevano di tutto per poterla vedere» (Dn 13,8-12). I due
giudici peccano tre volte: contro la donna, che riducono al rango di
oggetto; contro se stessi, cedendo alla passione; contro Dio,
dimenticando la sua Legge.
80 La lussuria esteriore
Ogni peccato rende meno umani. E la lussuria disumanizza
separando il piacere erotico dalla comunione delle persone. Il Ca-
techismo della Chiesa Cattolica dà cinque esempi al riguardo: la ma-
sturbazione (vedere riquadro); la fornicazione, che è «l'unione
carnale al di fuori del matrimonio tra un uomo e una donna liberi»; la
pornografia, che consiste nel «portare gli atti sessuali, reali
o simulati, fuori dall'intimità dei partner per esibirli deliberata-
mente a terze persone»; la prostituzione; la violenza sessuale (n.
2352-2356). Si può aggiungere la pratica omosessuale, che deve essere
distinta dalla tendenza omofila che, nella stragrande maggioranza
dei casi, non dipende per nulla dalla volontà personale (n. 2357-
2359).
Ognuno di questi atti disumanizza anche perché riduce la persona
a pezzi. La parcellizza. Il piacere sessuale si fissa su una pulsione o su
un oggetto parziale: per esempio, il voyeur si eccita guardando una
data parte del corpo (soprattutto femminile), e non la totalità del
corpo in relazione con la persona.
81
co».39 Il secondo errore consiste nel drammatizzare. Daniel Ange afferma: «La
masturbazione è più una perturbazione che una perversione, ed è più o meno
profonda».
S'impone un doppio discernimento. Innanzitutto, in che misura sono presenti la
coscienza, la riflessione, il libero consenso? Non confondiamo l'eiaculazione
involontaria (che ad esempio avviene in un dormiveglia) e l'eccitazione
volontaria, che giunge fino all'orgasmo. Il problema è che l'atto puntuale si
moltiplica facilmente. Una volta diventata abituale, la masturbazione è un
handicap, un'alienazione, e inoltre dà origine a un senso di colpa. Il bisogno di
masturbarsi è spesso legato alla solitudine, al bisogno di essere amati. Risulta
esaltato in periodi di rifiuto da parte di altri. «Infine, è una ricerca, a volte
disperata, di semplice tenerezza, ma di una tenerezza impossibile: come amare
se stessi così senza tendere al narcisismo e, magari, all'egoismo, che ne è il
fratello gemello?».40 Infine, quali che siano le scusanti e le spiegazioni
psicosociologiche, la masturbazione rimane un peccato e, per sua natura, un
peccato grave. Da un lato, riduce la genitalità alla sua dimensione erotica,
negando che è per sua natura ordinata alla vita e all'amore dell'altro; dall'altro
canto, nega la relazione. Nel suo romanzo Vie secrète, lo scrittore Pascal
Quignard, non certo sospetto di rigorismo, scrive: «La masturbazione infantile,
poi adolescenziale, poi adulta, è un distacco attivo dalla solidarietà sociale».41
La lussuria interiore
Si può innanzitutto peccare con l'immaginazione. Se le fanta-
sticherie dell'uomo sono più direttamente erotiche (nel film Harry a
pezzi, Woody Alien afferma: «Alla fine ho trovato il personaggio
giusto: un miscuglio tra la donna che ho visto oggi sulla 6th ave- nue
e Svetlana Staiina, la figlia del dittatore. Questo ha funzionato»), la
creazione di personaggi fantastici non è una specialità maschile. Le
fantasticherie della donna si ammantano di maschere sottili cui lei
indulge più facilmente: la seduzione, l'avventura romantica, un certo
modo di fantasticare, come Biancaneve: «Un giorno arriverà il mio
principe azzurro».
Si può essere lussuriosi anche con lo sguardo. Si usa l'espressione
«spogliare una donna con gli occhi». La lussuria comincia con un
certo modo di guardare. Gesù dice: «...se uno guarda la donna di un
L'intelligenza a nudo
Voler piacere rende idioti? Due psicologi statunitensi, Barbara Fre- drickson
dell'Università del Michigan e Tomi-Ann Roberts del Colorado College, hanno
mostrato, a partire da un serio studio condotto su diverse decine di studenti,
che, nel corso di test intellettivi, le donne quando indossano un costume da
bagno ridotto (bikini) riportano risultati meno brillanti rispetto a quando
indossano un abito da città. Invece, gli uomini mostrano di avere lo stesso
Quoziente d'In- telligenza, che indossino camicia e cravatta o slip da bagno.
Perché? «Le donne crescono in un contesto culturale che, nella maggior parte
dei casi, le incita a prendersi cura del proprio corpo. Quando si spogliano,
pensano solo più al loro aspetto». Più ancora, questa immagine è
essenzialmente negativa. E i sentimenti negativi inibiscono l'intelligenza.
Come rimediare?
Come integrare l'energia positiva della sessualità e insieme tenersi
lontano da certe eruzioni devastanti?
Praticare la castità
Non lo si ripeterà mai abbastanza: si lotta contro un vizio pra-
ticando la virtù contraria. Dunque, si combatte la lussuria con la
castità. Questa parola è stata «resa noiosa», ridicolizzata, schernita.
Tuttavia, fa rima con libertà. Il Catechismo della Chiesa Cattolica le
dedica un bel paragrafo: «La castità è l'integrazione riuscita della
sessualità nella persona, e di conseguenza l'unità interiore dell'uomo
nel suo essere corporale e spirituale. [...] Non tollera né la doppia
vita, né il linguaggio doppio (cf Mt 5,37). [...] La castità presuppone
un apprendistato della padronanza di sé, che è una pedagogia della
44 Lettere,316
45 Omelie su 1 Corinzi, XI, 4.
46 Nel settimanale Le Point del 7 dicembre 2001, in occasione del bicentenario della
Rivedere le motivazioni
L'integrazione della sessualità presuppone di rivedere le proprie
motivazioni, perché è difficile che queste non siano messe alla prova,
sposati, celibi o consacrati che si sia. Timothy Radcliffe, già Maestro
dell'Ordine dei Domenicani, non nasconde, in un libro di colloqui, di
aver vissuto una crisi dolorosa relativamente al suo voto di castità,
sognando una famiglia e figli. Spiega di essere stato aiutato a
Come per la gola, non si può sognare una castità senza battaglie e
senza rinunce. Il padre cappuccino Benedici Groeschel osserva anche
che «quando le persone dicono di aver domandato la grazia della
Sorvegliare lo sguardo
Quando un manifesto eccita, un'immagine attira, un abito pro-
voca, non discutiamo e distogliamo subito lo sguardo. Risoluta-
mente. I pubblicitari non ignorano l'impatto delle fantasie che le
immagini spinte suscitano negli uomini. Un pubblicitario che la-
vorava per una marca di biancheria, ha incollato questa insegna su
una striscia di seta: «Mettete alla prova le sue resistenze».
Tuttavia, sorvegliare lo sguardo non significa diventare ciechi. C'è
il rischio di identificare il corpo tentatore con la donna tentatrice e di
demonizzare quest'ultima.
w Benedici Groeschel, Le courage à'ètre elitiste, Éd. des Béatitudes, 1997, p. 117.
uomini se ne vanno, Gesù continua a tenere lo sguardo fisso a terra, rifiutando
qualsiasi complicità con gli sguardi di desiderio o di violenza della folla raccolta
90
intorno a lui e alla donna.
Solo dopo, quando tutti gli uomini se ne sono andati, Gesù alza lo sguardo sulla
donna accusata. Allora, le parla. La persona è degna che le sia rivolta la parola.
Certo, Gesù nomina il peccato («Va' e non peccare più»), ma non riduce la
donna né al suo peccato, né al suo corpo desiderato.
Sorvegliare la lingua
Se certe conversazioni salaci in realtà non sono altro che com-
pensazioni parziali inconfessate, d'altra parte, una rigidità che boccia
ogni parola a questo proposito non si colloca in una situazione
migliore. È difficile parlare con serenità di una realtà che ci impegna
in modo così intimo: la sessualità non riguarda forse il mistero della
nostra origine? Tra facezie salaci ed eccessi di pudicizia, bisogna
trovare una libertà, e un umorismo di buona lega, che sappia
rispettare senza drammatizzare. Per esempio, questa perla di Woody
Alien: «Adesso vi racconto una storia terribile sulla contraccezione
orale. Ho chiesto a una ragazza di venire a letto con me. Lei mi ha
detto: "No"». Un esempio di facezia leggera: «Che differenza c'è tra
un amante e un marito?». «Sono il giorno e la notte».
Sorvegliare la curiosità
«Per criticare un film pornografico, è necessario averne visto
almeno uno», si sente dire. Non bisogna forse conoscere ciò di cui si
parla, sussurra il Tentatore? Non è raro che la lussuria s'introduca
nell'animo tramite un pretesto spirituale: il desiderio di sapere. Un
individuo guarda una cassetta pornografica in cui scopre un sito di
scambisti «tanto per vedere» e mette così in opera il primo atto di
quella che diventerà rapidamente una dipendenza. 91
Non è bene (e nemmeno necessario) conoscere tutto. I nostri
progenitori non sono forse stati tentati dalla curiosità nel giardino
dell'Eden (Gn 3,6)? Il filosofo Maurice Blondel spiega che è necessario
purificare le passioni, «tutte, a eccezione di una che si conosce
veramente solo evitando di affrontarla, anche con l'immaginazione: il
turbamento della carne che acceca lo spirito e chiude tutti gli alti
orizzonti».53
Nell'ambito del sesso, ogni «prova» è fatale. Se gustate quel
piacere, ci ritornerete.54 Un pasto indigesto si vomita, ma un'im-
magine perversa s'incide nella memoria. Ed è molto difficile, dopo,
purificare la memoria.
raccolte da Daniel Ange sulla bellezza della castità a volte vissuta nelle condizioni più eroiche,
92 in Les Noces de Dieu où le pauvre est roi, Le Sarment-Fayard, 1998.
buona notizia!», esclama il popolo all'unisono. Mosè risponde: «La
buona notizia è che sono riuscito a ridurre i comandamenti da
quindici a dieci... Quella cattiva è che per quanto riguarda l'adulterio
non ho potuto fare nulla!». Gli sbagli nell'ambito della lussuria hanno
il «vantaggio» di mantenerci in una certa umiltà. Nietzsche diceva:
«Il basso ventre fa sì che l'uomo abbia qualche difficoltà a
considerarsi un dio».
Ravvivare la speranza
La disperazione è una tentazione frequente in questa lotta. Una
pratica compulsiva della masturbazione, per esempio, scoraggia
l'individuo. E la disperazione toglie le forze per combattere. Jean
Vanier sottolinea: «Nella misura in cui gli adolescenti combattono
per la purezza dell'amore, giungeranno a compiere il passaggio verso
la vera maturità e potranno assumersi una responsabilità nelle lotte
più profonde del nostro mondo».56
Tuttavia, malgrado le cadute, la battaglia non è mai perduta.
Daniel Ange sostiene: «La sessualità è molto più controllabile di
quanto si creda. Le pulsioni sessuali sono molto meno compulsive di
quanto si dica».57 Certe pulsioni tolgono la lucidità, ma in fondo al
cuore possono rimanere il desiderio di non cedere e la capacità di
non acconsentire al male.
Dopo la caduta, la misericordia
La vergogna spesso spinge a nascondere le tentazioni lussuriose e
a scoraggiare l'ammissione di errori in questo ambito. Non
dimentichiamo mai la potenza trasformatrice del sacramento della
riconciliazione. È importante che la confessione eviti tanto lo scrupolo
quanto l'approssimazione. Daniel Ange raccomanda: «Se soccombi,
non disperarti. Il peggio non sta nel cadere, ma nel rimanere nel
fossato».
In conclusione
95
La T@ttica del diavolo
E-mailzebull
Sugli schermi
99
del suo appartamento: l'assenza d'interiorità si accompagna a una
carenza d'intimità. E questo il motivo per cui non si rivolta per le
molteplici ingiustizie che Tomek commette nei suoi confronti, per
esempio rubando la sua corrispondenza?
100
Nasce in lei un sentimento nuovo, che non riesce a comprendere.
Come può Tomek amare lei, che si odia? Certo, come tutti gli
uomini, la spoglia con lo sguardo. Tuttavia, contrariamente agli altri,
glielo confessa umilmente. Lei approfitta di questa vulnerabilità per
«sputare» tutto il suo disprezzo per gli uomini. Provoca Tomek ed è lei
stessa a ridursi al proprio corpo. Spinge uno dei suoi amanti a essere
strumento della sua vendetta: l'uomo colpisce Tomek, che ha come
unica arma il suo amore. Il giovane torna a casa con un occhio nero
doppiamente significativo: l'occhio simboleggia la capacità di conoscere
e il fatto che sia nero è indizio della coscienza di aver sbagliato.
In Magda, invece, è ferito il desiderio di essere vista: al voyeurismo
dell'uomo corrisponde spesso l'esibizionismo della donna (tanto meno
colpevolizzato perché è passivo e giustificato dal desiderio di piacere).
Magda infine parla a Tomek come a una persona. Si stupisce del suo
amore. La sua vita pulsionale la disgusta tanto che non ricorda più il
nome dei suoi amanti. Quando Tomek glieli descrive, lei non riesce
ancora a credergli; aggredisce il giovane, cercando di suscitare il suo
desiderio. Di fatto, aggredisce se stessa: ridotta com'è a essere solo un
corpo per gli sguardi degli uomini, si detesta.
Tomek si mette a piangere. Solo più tardi Magda comprenderà
queste lacrime: Tomek rifiuta di ridurre l'amore al desiderio, e più
ancora, rifiuta di ridurre la donna che ama al suo corpo («Non faccio
altro che pensare a lei»). Quando lui se ne va, lei comprende la logica di
autodistruzione in cui si è chiusa. In un'ansia estrema, Magda
comprende che, per la prima volta nella sua vita, è amata e lo rifiuta
con tutto il suo corpo ferito. Ed è lei a spiare il giovane, febbrilmente,
con un binocolo, e lo chiama: «Torna, scusa!». In sintesi, Magda cerca di
vedere e non più solo di essere guardata. Comprende anche che essere
amata significa scegliere: quando torna un suo antico amante, lo manda
via.
Un amore che salva
Un'inquadratura mirabile è quella in cui Magda scivola lungo un
muro e si ritrova schiacciata sotto il peso del sentimento che la invade:
l'amore. Con questo amore nascono il pudore, la riservatezza, il rispetto
di sé e dell'altro. È simbolico il fatto che, tornando da casa di Tomek, la
giovane donna dorma completamente vestita; quando gli telefona, è
vestita di bianco.
Riferendosi a questo film, Kieslowski affermò: «Il sentimento
amoroso qui nasce da una perversione? D'accordo. Ma il voyeurismo è
legato al desiderio. E il desiderio è uno dei motori dell'amore.
Osservando Magda, Tomek scopre zone della personalità che
raramente sono destinate agli altri. Credeva che Magda fosse forte e
insensibile, e la scopre fragile mentre sta piangendo. Quel
lo che intravede, allora, è un po' della sua verità. E per questo comincia
ad amarla. Il vero protagonista del film è la solitudine. Ci sono molti
vetri tra i personaggi. Ognuno soffre nel suo angolo, poi soffre ancora
per giungere a incontrare l'altro veramente. Prima di essere faccia a
faccia, c'è un prezzo da pagare: quello del vetro rotto. [...]. Dopo le loro
prove, Tomek e Magda sono diventati migliori»
«Avevi ragione... Volevo dirti... Non so più che cosa dirti», balbetta
Magda. Di fronte alla realtà dell'altro, perde le parole e le sue pseudo-
certezze. Tomek potrà riprendersi dallo choc del suo tentato suicidio?
Potrà guarire? Un'intollerabile inquietudine attanaglia la giovane
donna, che vive solo per sapere se Tomek sopravvivrà. Infine, Magda
torna all'ufficio postale; una persona le impedisce di guardare
attraverso lo sportello, frappone un ultimo ostacolo tra lei e la persona
che la ama e che scopre di amare. Tomek è là? La donna sorride; sì. Il
film termina nello stesso luogo in cui è cominciato. Tutto però è
cambiato: il giovane all'inizio divorava la donna con lo sguardo e i suoi
occhi andavano febbrilmente dal suo viso al suo décolleté; il giovane
uomo alla fine dichiara: «Non la guardo più». Tomek è guarito. Il suo
amore ha salvato Magda?
Conclusione
«Sai che è un peccato!», urla una volta Magda a Tomek. La parola
viene pronunciata senza dubbio con ironia e per dispetto, ma
testimonia di una verità. Kieslowski prende l'uomo nel punto in cui si
trova: nel suo peccato. Senza mai essere moralista, il film mostra come
la lussuria sia uno sbaglio perché disumanizza, ma è anche un peccato
capitale: Tomek ruba (il cannocchiale, la posta), mente (chiamando gli
impiegati dell'ente di distribuzione del gas), ecc. Il regista però parte
dal peccato per presentare la liberazione. Racconta l'itinerario simile e
insieme diverso percorso da entrambi i protagonisti: dal voyeurismo al
pudore, dall'esibizionismo al dono, passano dall'intento di appropriarsi
102
al dono, dall'egoismo gaudente all'amore vero concentrato sull'altro.
«Credo che i comandamenti siano incisi profondamente, da sempre,
nell'uomo, anche in chi non crede in Dio», dichiarò Kie- slowski in
occasione dell'uscita di questo film. «Le persone sono da sempre alla
ricerca di un certo ordine, se non altro per bisogno di sicurezza. Il
decalogo costituisce una sorta di manifesto di base dell'umanità, su cui
ci si può accordare. E tuttavia, noi li trasgrediamo continuamente. E ne
soffriamo».
103
CAPITOLO U
105
Nella Comunione degli Apostoli, il pittore Luca Signorelli rap-
presenta Giuda nell'atto di far scivolare un'ostia nella sua borsa.
Questa profanazione mostra simbolicamente quanto il traditore
adorasse il denaro. Fu il denaro a indurlo a tradire? Il denaro è il dio
dell'avaro. E se fossimo tanto liberi nei confronti del denaro, ci
risulterebbe così difficile pagare le tasse o le contravvenzioni?
L'ego e l'euro
Una discussione per motivi di precedenza? San Paolo assicura che
«L'attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10). Ma la Bibbia
afferma che all'origine di ogni peccato c'è l'orgoglio (cf Sir 10,13). Chi ha
ragione?
San Tommaso d'Aquino risponde distinguendo: l'orgoglio è la fine dei fini. Tutti i
peccati portano a gonfiare l'ego. La cupidigia è la prima nell'ordine dei mezzi: il
denaro, fulcro della guerra, permette di realizzare tutti i desideri. Dalla serie del
Padrino al recente Traffic, il cinema mostra con grande efficacia che il mondo
della droga lega le tre grandi concupiscenze (1 Gv 2,16) e porta al loro estremo
il sesso,
il denaro, il potere; il denaro serve come espansione del potere.
Quali sono le diverse specie di avarizia?
Si possono distinguere due specie di avarizia:
L'avarizia materiale
Louis de Funès non pagava mai i taxisti. L'attore brillante Pierre
106
Richard racconta: «Aveva infatti osservato che gli autisti, invece di
incassare gli assegni firmati da lui, preferivano conservarli per
pavoneggiarsi esibendoli: "Hai visto? E un assegno firmato da Louis
de Funès!". Risultato: Louis risparmiava».59 Ne aveva davvero
bisogno?
Quello che è vero per il denaro vale anche per ogni sorta di beni
materiali: mobili, auto, abiti, soprammobili, scarpe, francobolli,
vecchi libri... Li si accumula, li si custodisce, li si ricerca in modo
sfrenato, come se potessero placare la cupidigia che ci divora. In
ogni caso, queste diverse forme di avarizia sono radicate innanzi-
tutto nell'amore per il denaro: senza di esso, nessuno di questi beni
sarebbe accessibile. La cupidigia per il denaro sottende tutte le altre
cupidigie materiali. «Se il denaro è il nervo della guerra, l'oro ne è il
muscolo», diceva Pierre Dac.
1 Padri della Chiesa distinguono tre volti di questa avarizia
materiale: l'attaccamento del cuore al denaro, cioè l'avarizia in senso
proprio; il desiderio di acquisire incessantemente nuovi beni, cioè la
cupidigia o avidità; infine, la tenacia nel possesso, cioè l'assenza di
generosità.
107
così leggero che chi lo subisce non possa ragionevolmente considerarlo non
significativo» (n. 2413).
L'avarizia spirituale
La possessività non si limita al denaro; può riguardare:
• Il tempo. Certe persone non sopportano di essere disturbate
senza essere avvertite con molto anticipo. Esiste un'avarizia del
proprio tempo, della propria intelligenza, delle proprie forze. Ri-
ferendosi al padre di Eugénie Grandet, Balzac affermava che «dava
l'impressione di economizzare tutto, anche i movimenti». Al
contrario, santa Teresina del Bambino Gesù offriva momenti del suo
tempo perché Dio ne disponesse a sua discrezione.
• I servizi. Nella vita associativa e nella vita politica ci sono
volontari che non riescono ad «appendere i guanti al chiodo» per
lasciare spazio ai giovani. Nell'ambito del volontariato, capita spesso
di incontrare persone molto generose che diventano proprietarie
della loro responsabilità. Anche nella Chiesa, in cui molti cristiani si
attaccano ai loro servizi e ai loro piccoli poteri come
il falco alla sua roccia. Un sacerdote diceva: «Ci sono volontari che
danno tutto... salvo le loro dimissioni». Questa possessività genera
disagio, irritazione, impazienza. San Francesco d'Assisi lo de-
nunciava spesso.
Facciamo una prova: opponiamo resistenza (poniamo condizioni
del tipo: «Io sono pronto ad andarmene, ma non pensate che sarebbe
opportuno un momento di riflessione ?») quando ci viene
domandato di abbandonare i remi, di lasciare un dato servizio? Se
sì, pratichiamo un utile esercizio: ogni anno, rimettiamo
esplicitamente il nostro incarico nelle mani del responsabile.
• La stessa vita spirituale. San Giovanni della Croce sapeva
individuare nei fedeli questi segni di cupidigia spirituale: ad
esempio, fa riferimento a quelli che sono «insaziabili di direzione, di
libri che trattino argomenti spirituali». E precisava: «In questo
io deploro l'attaccamento del cuore, l'importanza attribuita alla
foggia o al numero o alla bellezza degli oggetti, cose molto contrarie
alla povertà di spirito [...]. Conosco una persona che per più di dieci
anni si è servita di una croce realizzata grossolanamente con due
rami benedetti fissati con una spilla ricurva. L'aveva por-
tata sistematicamente su di sé, senza lasciarla, fino al giorno in cui
108
gliela tolsi. Ed era un uomo di grande giudizio e serio». 60
60 La Notte oscura, L. 1, c. 3, n. 1 e 2.
109
disgregano in occasione di un'eredità?); il furto e anche il tradimento
(Giuda Iscariota che tradisce il suo maestro per trenta denari). Per
non parlare della tristezza: «... ché tutto l'oro ch'è sotto la luna/e che
già fu, di quest'alme stanche/non poterebbe farne posare una»,
scrive Dante riferendosi agli avari.61 «Chi ama il denaro non sarà mai
soddisfatto», ricorda la Bibbia (Qo 5,9).
Infine, l'avarizia è una palla che appesantisce il cuore. Ritarda la
conversione, il cambiamento di vita, impedisce l'adesione a Dio. Nel
Vangelo, un giovane, animato da un grande desiderio di perfezione,
incontra Gesù. Il Maestro posa sul giovane uno sguardo pieno
d'amore e risponde alla sua domanda: «Per essere perfetto, vai a
vendere tutto quello che hai, e i soldi che ricavi dalli ai poveri...». Ma
dopo aver ascoltato queste parole, il giovane se ne andò via con la
faccia triste, perché era molto ricco. Allora Gesù disse ai suoi
discepoli: «Vi assicuro che difficilmente un ricco entrerà nel regno di
Dio» (Mt 19,16-23).
Come riconoscerla?
Siete avari «se desiderate a lungo, ardentemente e con inquie-
tudine i beni che non avete», assicura san Francesco di Sales nella
sua Introduzione alla vita devota.
113
Desiderare a lungo
«Dare, è una parola per cui prova tanta avversione, che non dice
mai "Le do", ma "Le presto il buongiorno"», dice La Flèche
riferendosi al suo avaro Arpagone. 65 L'avaro teme costantemente di
non possedere abbastanza; dunque, esita sempre a dare. E se dà, il
suo spirito elabora conti. Arpagone non smette mai di pensare,
parlare, contare e ricontare i soldi della sua cara cassetta.
Desiderare ardentemente
Nel desiderio di denaro vi è un che di infinito. Se ne vuole
sempre di più! «Tutte le persone che possiedono in abbondanza si
considerano ancora troppo povere», sottolinea con finezza san-
t'Ambrogio.66 Negli ultimi cinquant'anni, il nostro potere di acquisto
si è sestuplicato; tuttavia, non ci siamo mai sentiti così carenti... Uno
studio statistico ha dimostrato che la maggior parte dei dipendenti
ritiene di dover avere un aumento del 20% almeno, per vivere
tranquillamente; questa percentuale è più o meno costante per ogni
tipo di stipendio percepito! In altri termini, non abbiamo mai
abbastanza.
I Padri della Chiesa vedevano in questa cupidigia insaziabile una
vera piaga. San Giovanni Crisostomo denunciò con vigore questa
«bulimia dall'anima» che soffoca i cristiani: «più si rimpinza di
alimenti, più desidera. Porta sempre i suoi desideri al di là e oltre di
ciò che possiede».67
115
vedendo i nostri pensieri assoggettati al denaro». Questa tristezza a
volte rasenta la prostrazione, quando dimentichiamo il consiglio
della Bibbia: «Non affannarti per arricchire, togliti dalla testa questo
pensiero» (Prv 23,4).
Come rimediare?
I rimedi si riferiscono ai due versanti dell'avarizia, a seconda che
si persegua il denaro come origine di ogni sicurezza o come fine di
ogni possesso. In entrambi i casi, si tratterà di lavorare in positivo
(integrare il giusto amore per il denaro) e in negativo (praticare la
rinuncia).
Praticare la sobrietà
Beato chi «si contenta di quel che ha. Perché non abbiamo portato
nulla in questo mondo e non potremo portar via nulla» (1 Tm 6,6-7).
E poiché l'attività professionale è il primo mezzo di remunerazione,
sappiamo anche mettere un freno alla nostra cupidigia onorando il
riposo di cui abbiamo bisogno, in particolare quello della domenica.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: «Il sabato sospende le
attività quotidiane e concede una tregua. E un giorno di protesta
contro le schiavitù del lavoro e il culto del denaro» (n. 2172).
Praticare la fiducia
Dietro il bisogno di sicurezza, spesso si nasconde un'inconfes-
sata mancanza di fiducia, persino una disperazione della Provvi-
denza. Ma la tesaurizzazione è una sicurezza illusoria. Il Vangelo
racconta la storia di un uomo che accumula ricchezze. Gesù con-
clude: «Stolto! Proprio questa notte dovrai morire, e a chi andranno
le ricchezze che hai accumulato?» (Le 12,20). Pochi versetti prima,
Cristo diceva: «Badate di tenervi lontano dal desiderio delle
ricchezze, perché la vita di un uomo non dipende dai suoi beni,
Praticare la generosità
Diamo senza aspettarci un contraccambio, senza ritardo e senza
restrizioni. La Bibbia lo ripete incessantemente: «Non ritardare a
offrirmi i raccolti del tuo campo e i prodotti del tuo frantoio» (Es
22,28); «Date gratuitamente» (Mt 10,8); «Date agli altri e Dio darà a
voi [...] Con la stessa misura con cui voi trattate gli altri Dio tratterà
voi» (Le 6,38).
I ministri di Dio, nella sua Chiesa, sono tra i beneficiari di questo
dono. L'Antico Testamento domanda di versare a Dio la decima, cioè
un decimo delle entrate (e non degli utili!) (MI 3,6-12). Questa
indicazione è preziosa. Ma l'entità del proprio dono alla Chiesa deve
essere fissata innanzitutto per gratitudine nei confronti di Cristo
salvatore.
119
ta. Sottolineano così la responsabilità del ricco che sa e non fa. La
pena sarà terribile: il ricco agonizzerà in eterno nella tristezza
bruciante dello sheol; Lazzaro vivrà felice nel seno di Abramo.
Alcuni consigli pratici per dare a chi chiede: avere un po' di
denaro in tasca; se i questuanti sono troppo numerosi, fissare in
anticipo il numero di persone a cui si darà qualcosa; dare senza
giudicare («Non a lui, che andrà a berseli...»); dare, soprattutto,
offrendo se stessi, con un sorriso o una parola (che potrebbe essere:
«Mi dispiace, ma oggi non posso darle nulla»). Infatti, come dice
Pierre Dac, «Se il modo di dare vale più di ciò che si dà, il modo di
non dare non vale nulla».
Ribaltare le prospettive
Invece di promettere: «Darò quando mi sarò assicurato il ne-
121
Meditare sulla croce
La Passione è un impoverimento sempre maggiore. Gesù ac-
consente a essere spogliato dei suoi abiti, in particolare della tunica
senza cuciture, tessuta d'un solo pezzo, che indossava (Gv 19,23).
Abbandona ogni dignità nell'abbigliamento e anche la ricchezza
incomparabile che è il sostegno dell'amicizia umana: Pietro,
Giacomo e Giovanni dormono mentre lui agonizza nel Getsemani
(Mt 26,36-46), e i discepoli «fuggirono tutti» (Me 14,50). Gesù è anche
privato della consolazione di suo Padre, come testimonia il suo grido
straziante: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» (Me
15,34).
La croce ci guarisce dal nostro attaccamento smisurato ai beni
terreni e ci salva da tutte le nostre cupidigie indebite. Testimonia
anche della generosità infinita di Gesù: dando la vita per noi, Egli ha
dato tutto (cf Gv 15,13); lui, che era ricco, si fa povero per arricchirci
della sua povertà (cf 2 Cor 8,9).
Conclusione
«Il denaro è un buon servo, ma un cattivo padrone», dice
Françoise Sagan. Se preferiamo riferimenti più «celesti»: non siate
come i farisei, «amici del denaro» (Le 16,14), ma piuttosto, usate il
denaro per «farvi amici» (Le 16,9).
Dopo aver elencato gli effetti devastanti della passione per il
denaro, san Giovanni Climaco consiglia un buon rimedio: «Un
122
piccolo fuoco basta a bruciare molta legna; e con l'aiuto di una so-
la virtù, si sfugge a tutte le passioni di cui abbiamo parlato. Questa
virtù si chiama distacco: è generata dall'esperienza e dal gusto di Dio
e dal pensiero che si dovrà rendere conto nel momento della
morte».79 Ponendoci di fronte all'infinito, la morte riporta i conti a
zero.
La T@ttica del diavolo
«Allora, mio caro figliolo, grazie per le notizie del tuo stage da
Banco, Sicave e Chourave, i nostri agenti di cambio... che danno bene
il cambio, vero? Il loro primo investimento frutta immediatamente:
si tratta, come per gli altri peccati, di confondere le frontiere, rendere
elastici i limiti... e ampliarli. Sii dunque vago sul denaro! L'avarizia,
oggi, si riduce a una vaga mancanza di generosità? Beh, non è
grave... La maggior parte dei cattolici ha a questo proposito una
coscienza elastica. E quale sacerdote andrebbe a ricordare che essere
assillati dal denaro fa parte di quello che Q.D.D. definisce un peccato
capitale?
Capitale? Investi a lungo termine, figliolo. Fa' in modo che il tuo
cliente si preoccupi per il futuro. Soprattutto, nessuno si premuri di
mostrargli che non gli è mai mancato nulla, e che Q.D.D. si è sempre
occupato di lui. Se uno dei cattolici della sua cerchia gli parla di
fiducia nella Provvidenza, attinga al buon senso: "Essere cristiani
significa non essere né ottimisti, né pessimisti, ma realisti". Oppure
potrai ispirargli questa replica: "Sai, io sono un essere umano, non
pretendo di essere un santo!". In più, il tuo cliente crederà di dare
prova di umiltà!
Fa' in modo che il suo bancario di fiducia o il suo consulente
finanziario sia ansioso o non gli ispiri una gran fiducia. Il tuo cliente
perderà così tempo prezioso ed energie considerevoli a riprendere
124
appuntite: hai ragione. È straordinario vedere queste buone famiglie
cristiane dividersi per qualche cucchiaio d'argento o per qualche
fazzoletto di terra.
Se mai dimenticherai che i quattrini fanno andare avanti il mondo
(è veramente difficile, anche per un novellino del vizio, una
matricola di Belzebù!) ricorda che è grazie alla cupidigia che il mio
amico Giuda Iscariota ha compiuto il mio colpo migliore. Vendere
Cristo per trenta denari, che imbecille... Molto prima di passarsi la
corda intorno al collo, aveva già strangolato il cuore. È quello che io
definisco "aprire un conto infernale"!».
E-mailzebull
Sugli schermi
L'avido e l'autistico
126
Questi non è che un nome in più nell'elenco di persone- strumento
che Charlie usa come base nel suo tentativo di salire. Suo fratello ha
doti straordinarie, che gli permettono di imparare in una sera i
numeri dell'elenco telefonico? Charlie approfitta dei suoi talenti nel
contare per intascare una grossa somma in un casinò di Las Vegas. Il
vizio è compulsivo.
Ma la vulnerabilità di Raymond invita Charlie a prendere a poco
a poco coscienza della propria. L'angoscia di Raymond è così
incontrollabile che Charles non può trasformarla: non può fare altro
che constatare, acconsentire, accettare. È costretto a mettersi in
ascolto delle necessità del fratello: la sua trasmissione televisiva
preferita, che deve assolutamente guardare, i suoi gusti in fatto di
alimenti e abiti, le sue manie, ecc. Charlie, che ha sempre forzato le
persone che gli stavano accanto a procedere al suo ritmo sfrenato,
deve mettersi al passo di Raymond. C'è un episodio simbolico a
questo proposito: al volante della Buick, Charlie il veloce si ferma
quando Raymond gli chiede di fermarsi, o guida, accanto a lui, a
velocità ridottissima.
La scoperta decisiva che apre il cuore indurito di Charlie dà il
titolo al film: il giovane comprende bruscamente che il Rainman, il
gentile ragazzo che andava a consolarlo quando aveva paura, da
piccolo, era proprio suo fratello Raymond. Quello che aveva svolto
per lui il doppio ruolo del padre e della madre è diventato quel
bambino grande, spaventato, che tutto spingeva a disprezzare.
Charlie potrà riannodare i fili con quel passato esecrato e negato? Il
«Rainman che è scomparso quando sono cresciuto» è sempre
presente; più ancora, è ormai lui ad aver bisogno di essere consolato.
Dopo averlo amato, da piccolo, Raymond domanda a sua volta di
essere amato da lui. Invita così Charlie a scoprire una delle più
grandi ricchezze che il suo cuore aveva sfuggito e nascosto: amare
ed essere amato.
127
Così, vuole ritrovare Susanna. Prende umilmente l'iniziativa di
telefonarle e le esprime il suo desiderio non di riconquistarla, ma di
riallacciare il rapporto con lei: Susanna non è più una cosa tra le altre
da gestire, ma è una persona da rispettare e amare. Abbandonando
la sua possessività, entra alla scuola della dolcezza.
Soprattutto, Charlie si riconcilia con il padre scomparso. Per
questo, si mette «nei suoi panni». Comprende così perché è stato
diseredato. Ogni forma di livore si dissolve bruscamente: «È sor-
prendente; non ce l'ho più con lui». Del resto, è intorno alla Buick,
simbolo del padre, che avviene il primo incontro tra Raymond e
Charlie: questo dono post mortem è il punto di partenza che per-
metterà il ritorno di Charlie, il figliol prodigo, nella casa del padre.
Barry Levinson non è ingenuo. In Charlie non è morta ogni
megalomania: il giovane immagina di poter tenere con sé il fratello
autistico. Il medico è più ragionevole: gli permette di fargli visita
una volta ogni quindici giorni. L'improvviso affetto che spinge
Charlie a spalmare un po' di crema sul naso di Raymond, ad
abbracciarlo, a preparargli il letto, non è estraneo al suo interesse:
come non provare gratitudine per chi gli ha fatto vincere
ottantacinquemila dollari in poche ore al casinò? Resta il fatto che
Charlie ha appena fatto una scoperta che vale un tesoro: il denaro si
prende, ma l'amore si dà.
La variazione di un elemento può comportare quella dell'insieme.
Tanto Charlie vuole ignorare il passato, quanto Raymond resta
chiuso in esso: i suoi automatismi ripetitivi placano la sua angoscia.
Charlie lo aiuterà a staccarsi dal suo passato e a creare una breccia in
cui si riversa lo spirito di suo fratello. Quando Charlie scherza sullo
sciroppo d'acero, Raymond giunge a distinguere la realtà dallo
scherzo e così, per la prima volta, può sorridere. Questo felice
squarcio nello spirito di Raymond non è forse il simbolo della
feconda apertura che si è appena realizzata nel cuore di Charlie?
Conclusione
Jean Vanier distingue due tipologie di handicap: in primo luogo
quelli evidenti, gli handicap che istituti specializzati aiutano a
«gestire», come anche, talvolta, a mascherare agli occhi dei cosiddetti
sani. È il caso dell'autismo di Raymond Babbit. E vi sono poi ferite
128
(handicap) più segrete, quelle di ognuno di noi. Si tratta, ad esempio,
del risentimento di Charlie contro il padre, che gli suggerisce
un'esistenza-rivincita piena d'insolenza e di audacia, che non è
nient'altro che una fuga da se stesso. Infatti, il più ferito non è quello
che è creduto tale, soprattutto quando la chiusura volontaria del
peccato raddoppia la chiusura involontaria della ferita.
L'autismo è un simbolo: questo male impedisce a chi ne soffre
ogni contatto con il mondo esterno, lo chiude in se stesso impe-
dendogli di comunicare. La cupidigia (e in generale il peccato ca-
pitale) non è forse una forma volontaria di autismo?
129
CAPITOLO
130
Che cos'è la gelosia?
131
Invidia e gelosia
La differenza tra invidia e gelosia di fatto è stata elaborata solo dai moralisti francesi
dei secoli XVI e XVII. L'invidioso prova dispiacere vedendo gli altri gioire dei beni e
dei vantaggi che lui non possiede, mentre il geloso desidera gioire da solo e senza
condividerli i beni e
1 vantaggi che possiede.82 In altri termini, l'invidioso non ha nulla e guarda gli
altri che hanno tutto, mentre il geloso possiede e vuol essere l'unico a trarne
vantaggio.
Di fatto, la differenza non è così grande. Lo psicanalista Daniel La- gache spiega:
«La gelosia non esclude l'invidia, perché io sono geloso del bene che possiedo in
quanto è suscettibile di essere desiderato e posseduto da altri; e il timore almeno
pone virtualmente il geloso nella situazione dell'invidioso; l'innamorato geloso prova
gelosia per la sua amata e invidia i successi reali o presunti del suo rivale; d'altra
parte, non si prova gelosia solo nei confronti di ciò che si possiede, ma anche per
ciò che si desidera, i beni o le persone su cui il desiderio ha già posato l'ombra del
possesso. Invece, invidiando i beni altrui, li si considera in quanto sono suscettibili di
essere desiderati e posseduti da sé, e l'impossibilità di sostituirsi all'altro è appunto
ciò che rende l'invidia intollerabile».83
82 Cfper esempio San Francesco di Sales, Trattato dell'amore di Dio, L. X, c. 13. Cartesio, Le passioni
dell'anima, III parte, art. 167. La Rochefoucauld, Riflessioni moinli,27.
83 La Jaloitsie amoiireuse, psychologie et psychanalyse, II. La jalousie vécite, PUF, 1947, p. 5.
132
altra cosa, ma la stima del proprio bene. In uno dei suoi romanzi, Mary
Higgins Clark presenta una giovane donna non priva di fascino; nel
corso di una serata, sopraggiunge una splendida modella. Tutti gli
uomini presenti si voltano verso la bellissima donna. L'eroina del
romanzo confida: «Non so se tutte le donne presenti abbiano provato la
stessa sensazione che ho provato io, ma, in quel preciso istante, mi sono
sentita molto scialba».
Quale uomo, di fronte a chi tesse l'elogio di un suo collega per il
successo professionale che ha conseguito, la sua intelligenza, le relazioni
che è riuscito a stringere, non sente una voce che gli sussurra: «E io? E
io?». Tocchiamo qui uno dei motivi ispiratori essenziali della gelosia,
intesa tanto come peccato quanto come ferita che la favorisce: la
mancanza di autostima. In fondo, la gelosia è sempre una forma
d'ingratitudine. L'invidioso misconosce il proprio valore. Soffrendo
perché la sua bottiglia è mezza vuota, dimentica che è mezza piena.
Prima di proteggersi dalla luce che brilla da altri, il geloso è cieco
relativamente alla propria capacità d'illuminare.
133
non consiste nell'interpretare bene il suo spartito, ma nel fatto che ogni
strumentista interpreti bene il proprio in armonia con gli altri.
È veramente un peccato?
Non è forse legittimo che un celibe si senta un po' geloso, assistendo
al matrimonio del suo migliore amico, e provi frustrazione e solitudine?
E la coppia che non riesce ad avere bambini senta il cuore stringersi,
all'annuncio della nascita del quarto figlio dei vicini? La gelosia è
veramente un peccato? Infatti, la tristezza dell'invidia è prima di tutto
una passione,84 una reazione della sensibilità che sopraggiunge senza
avvertire.
La gelosia diventa peccato solo quando ci compiacciamo in essa.
L'errore comincia quando acconsentiamo alla passione e diventiamo suoi
complici, favorendola con pensieri, parole o atti che sembrano innocui.
Stamattina al mercato ho sentito questo dialogo: «Martine, l'hai vista? E
sempre pimpante, curata, con tre figli impeccabili». «Sì, ma ha una
collaboratrice domestica, e suo marito guadagna una fortuna. A
proposito, non sono certa che sia molto felice, con lui...».
C'è solo un termine per designare la ferita e l'errore (gelosia), e se ne
può provare rammarico. Ma questo termine unico significa anche la
continuità di una storia che può andare dalla chiusura subita (è la ferita)
alla chiusura cui si consente (è il peccato).
Tuttavia, la gelosia non è forse l'accompagnamento obbligato- rio
dell'amore? Carmen, Otello, la musica, il teatro, la letteratura hanno
sempre sublimato le gelosie degli innamorati, appassionate e ardenti fino
alla morte. «Se Tito è geloso, Tito è innamorato», riassume Racine in
Berenice.85 Lo scrittore Christian Bobin in La plus que vive scrive: «La
gelosia: nulla somiglia di più all'amore e nulla è ad esso più contrario,
violentemente contrario». La perso-
84 E poiché si tratta di una passione, la si ritrova negli animali (A. Ley e M. L. Vauthier,
Études de psycltologie instinctive et affective, 1946, c. 5: «La jalousie».
85 Berenice, Atto II, scena 5.
na gelosa crede di testimoniare, con le sue lacrime e i suoi strilli, i a
grandezza del suo amore. Così, non fa altro che esprimere la pre-
ferenza arcaica che ognuno ha per se stesso [...]. E il bambino in me
che pestava i piedi e faceva valere il suo dolore come moneta di
scambio».86
86 la plus cjtte vive, Coll. «L'un et l'autre», Gallimard, 1996, pp. 32 e 33.
146
La gelosia genera anche peccati contro se stessi. E essa a nutrire il
risentimento. Può rendere ingiusti nei confronti dei propri talenti e della propria
storia. Per esempio, cambiando l'orientamen- to'dfuha vita. Philippe, 38 anni,
dirigente, lo testimonia: «Un giorno, fu elogiato in misura notevolissima, davanti
a me, un collega che stava facendo una brillante carriera nell'ambito del
marketing. Nell'arco di una giornata, pensai di cambiare occupazione, di
scegliere quel settore. La sera ne parlai a mia moglie, presentandole questa idea
come un sogno. Lei mi ascoltò, poi mi disse giustamente: "Caro, io ho sposato te
e amo te, non un altro uomo". Subito non compresi. Tuttavia, quelle parole mi
tranquillizzarono. Il giorno dopo, compresi che io proiettavo me stesso
nell'immagine del collega e che non ero più me stesso, animato com'ero da un
forte bisogno di riconoscimento. E dire che avrei potuto mandare all'aria tutta la
mia carriera professionale per gelosia!».
Questo malanimo può portare fino al suicidio, reale o simbolico. Nella favola
di Biancaneve) la regina che tutte le sere domanda al suo specchio: «Specchio,
specchio delle mie brame, dimmi, chi è la più bella del reame?», cerca di uccidere
la sua rivale. Poiché il suo primo tentativo fallisce, la malvagia decide di
trasformarsi irreversibilmente in una brutta strega. Come può arrivare a perdere
la bellezza che non ha mai smesso di bramare? Questo atteggiamento rimane
incomprensibile, finché non si tiene presente che la gelosia è un'intima
autodistruzione. Che importa rimanere sfigurata, se trascina la sua rivale nella
morte? 135
peggiori veicoli dijiivisioni intèrne.
Abbinata alla cupidigia, l'invidia crea fratture all'interno delle
famiglie più unite in occasione della divisione di eredità. È la pentola
in cui cuoce l'amarezza, come illustra con molta finezza un disegno
di Sempé: Un uomo che cammina per strada a fianco di un amico
dice: «È una goliardata, è evidente. Qualche anno fa, al lavoro, le
segretarie decisero di eleggere il "Signor Fascino". La signora
Yvonne, poco prima di andare in pensione, mi rivelò che ero stato
eletto io, ma era stato annunciato vincitore Ménart, il capo del
personale. Non è una cosa così importante, è ovvio, ma getta una
luce buffa sugli ingranaggi del potere». O piuttosto sugli ingranaggi
del risentimento...
Spinta ail'estremo, la gelosia assassina, I crimini passionali sono i
più diffusi, ma anche i più comuni, e mietono un numero di vittime
infinitamente maggiore dei regolamenti di conti tra «specialisti» del
settore, o delle guerre tra gang rivali. In Italia, più della metà degli
omicidi sono commessi per gelosia nell'ambito familiare. D'altra
parte, tutto coopera a banalizzare il crimine passionale, a cui oggi
vengono dedicate solo poche righe in fondo alle pagine di cronaca.
Nulla di nuovo: nella Bibbia, la gelosia ucci-
de fin dall'inizio. Caino uccide suo fratello Abele per invidia. "Questo omicidio è
il primo di un elenco interminabile. Quando il giovane pastore Davide uccide il
gigante Golia, eroe dei Filistei che decimano l'esercito d'Israele, «le donne
uscirono incontro ai soldati del re Saul. Cantavano e danzavano, suonavano
timpani e acclamavano con gioia. Danzando, si alternavano nel coro e can-
tavano: "Saul ha ucciso mille nemici e Davide dieci volte mille!"... Da allora, Saul
cominciò a essere geloso di Davide». In seguito, cercò addirittura di ucciderlo (1
Sam 18,6-11).
Come si dissimula?
Il geloso inganna se stesso, per almeno quattro ragioni.
- La gelosia nasconde la vergogna. Dei sette vizi capitali, è l'unico di cui non ci
si vanta, salvo se si è innamorati! Tradisce un attaccamento smisurato,
caratteristico dei bambini. La vergogna è un prezioso indicatore affettivo
dell'invidia. Ma la vergogna fa vergognare e spinge a dissimulare.
- La gelosia si nasconde specializzandosi. Infatti, si esercita sempre nei
confronti di una persona «presa di mira» (un fratello, un collega, una
vicina...), di una categoria di persone (madri di famiglia, giocatori di golf...),
in un ambito preciso (auto, abiti, talenti...). Dunque, basta considerare gli
ambiti relativamente ai quali non si è gelosi per pensare di non essere gelosi
affatto. O (più malignamente) è sufficiente considerare solo gli aspetti non
invidiati della persona che suscita gelosia: «Io non sono geloso, perché
riconosco che mio cognato è più intelligente di me». Però una vocina interiore
replica: «Ma tu, che sei soprannominato "l'artigiano" della famiglia, ti sei af-
frettato a costruire un armadio, il giorno in cui hai saputo che tuo cognato
aveva montato la libreria da solo!».
- L'invidioso giustifica se stesso tenendo in considerazione le sue virtù: «I
gelosi sono egoisti, ripiegati su se stessi. Io invece sono generoso».
Distinguiamo: generoso nei confronti di chi? Il geloso di fatto è altruista...
soltanto nei confronti di quelli che sono più sfortunati di lui. Può rendersi
indispensabile, se ha la certezza di essere nel cuore della felicità dell'altro. La
fonte della sua generosità non è sempre pura...
- La gelosia, che può diventare malata e paranoica, spesso nasconde una ferita
risalente all'infanzia. Il peccato s'innesta allora su un'immaturità psicologica.
Infatti, nel geloso si riattiva l'amore captativo del bambino per sua madre.
Questo Otello non solo vuol essere l'unico amato, ma vuol essere l'unica cau-
sa della felicità dell'altro: questo megalomane esige di essere al centro
dell'amore ricevuto e dell'amore dato. «Nella gelosia vi è più amor proprio
che amore», diceva La Rochefoucauld, 87 e
il filosofo Georges Gusdorf osservava che il geloso «degrada
l'essere in avere».88
Nadine Trintignant racconta: «Al mattino, quando mio padre usciva per
andare al lavoro, io andavo nel letto di mia madre. Quando arrivava il momento
in cui mia madre doveva alzarsi (si occupava della casa, dei cinque figli, di
tutto), ogni volta per me era una terribile sofferenza. La ricordo come una
violenza». E prosegue: «E continuo a vivere questa violenza con gli uomini». 89
Il bambino amato male che sonnecchia nel geloso, vivrà la lontananza a volte
inevitabile dal coniuge come un rifiuto insopportabile, e le amicizie del coniuge
stesso come minacce e tradimenti. L'esegeta Paul Beauchamp spiega: «Il geloso è
la persona che non può credere alla bontà altrui, anche quando ha segni del suo
amore [...]. La gelosia porta a considerare ogni persona come un rivale e a non
credere all'amicizia».90
138
" PAUL BEAUCHAMP, Parler d'Écritures saintes, Seuil, 1987, p. 94.
La gioia di fronte alla sfortuna altrui
Arriva una cattiva notizia? Il geloso prova un moto di gioia segreta o, il che
è equivalente, rimane stranamente tranquillo. Può perfino provare
un'improvvisa sollecitudine nei confronti della persona che invidia, mentre in
precedenza provava solo indifferenza o rancore. Ma questa benevolenza dura
solo il tempo della sfortuna: basta che quella persona ritrovi la gioia perché il
geloso torni a essere triste. Ne II cavaliere di Lagardère di Philippe de Bro- ca,
Fabrice Luchini tratteggia una figura straordinaria di geloso nella persona di
Filippo Gonzaga: questi si circonda solo di persone brutte e più sfortunate di
lui; di qui il suo affetto per il gobbo. Il genio di Lagardère sta nel comprendere
che questa dissimulazione è il modo migliore per sviare la vigilanza del
nemico.
Lo spirito critico
I L'invidioso ha spontaneamente uno spirito più critico che por- j tato alla
lode. Ha bisogno di denigrare le persone apprezzate, bril- | lanti. Quelle di
cui si dice che «sono riuscite». Nel suo romanzo Uomini e topi, John Steinbeck
scrive: «Curley è come un gruppo di ragazzini. Non ama quelli che sono
grandi. Passa il tempo a litigare con i grandi».
La dispersione
] Il geloso è agitato; la sua tranquillità dura solo quanto dura
I l'infelicità altrui. Non è mai al suo posto, perché vuol prendere ; quello altrui.
Vive solo per accumulare garanzie del suo valore e la certezza che i suoi simili
valgano meno di lui. Questa dispersione rende difficile la vita interiore, dunque
139
la preghiera, il silenzio e l'ascolto della volontà di Dio.
^ ------------------------ —
Come rimediare?
Riconoscere la propria gelosia
Non negare questa forma di tristezza e chiamarla per nome. Perché sfogliate
l'annuario della prestigiosa università di cui siete un illustre ex-allievo,
attardandovi a esaminare l'età e la carriera delle persone citate? Ammettete che
volete il confronto e cercate di rassicurare voi stessi.
Evitare di evitare
Spesso scegliamo di evitare la persona che suscita la nostra invidia: «Basta,
non trascorrerò più le vacanze con mia cognata, i suoi figli non vanno d'accordo
con i nostri (Sottinteso: lei mi dà l'impressione di gestire tutto: il suo lavoro, i
suoi figli, suo marito... mi crea troppi complessi e mi schiaccia)». «Ne ho
abbastanza di lavorare con Rossi, che tratta gli altri come imbecilli (sottinteso: è
il miglior venditore della ditta e il suo successo mi mette in ombra)», ecc. La fuga
non è una tattica migliore della calunnia o della maldicenza. Al contrario, la
vicinanza della persona invidiata, se all'inizio è dolorosa, persino insopportabile,
sulla lunga distanza è terapeutica: è un invito costante tanto all'autostima quanto
a una giusta valutazione dell'altro.
140
Accettare che l'altro sia l'altro
Prendiamo coscienza che le qualità altrui non ci mettono per nulla in ombra.
Attribuire un quoziente d'intelligenza di 80 al vostro collega che sapete che vale
il doppio non farà mai aumentare il vostro. E quando avrete sottolineato che le
misure della vostra amica sono 60-90-60, non avrete perso 300 grammi di peso!
L'altro è altro; anche lui è unico, con i suoi talenti.
Il confronto con gli altri, dunque, radice della gelosia, è da bandire
assolutamente. Non diamo neppure appigli a quelli che cercano di suscitare la
vostra invidia.
Accettare la carenza
Abbandoniamo l'illusione che un giorno saremo soddisfatti da una situazione
professionale, dal possesso di determinati beni materiali o anche da una persona.
Un artista geniale come Raffaello era geloso di Michelangelo... tanto da
domandare a papa Giulio II di terminare il soffitto della Cappella Sistina al suo
posto.
Coltivare Vautostima
Prendiamo coscienza che la gelosia è un peccato d'ingratitudine nei confronti
dei doni ricevuti. E se trovassimo il tempo di scrivere tre nostre qualità reali,
durature? E se non ci riusciamo, perché non chiedere a un amico, a un vicino, di
aiutarci?
Il film Amadeus di Milosz Forman mette in scena Salieri, musicista rivale del
«divino Mozart». Salieri è così geloso da non vedere più i propri doni. Crede di
provare finalmente la serenità portando Mozart alla morte, ma trova solo il
tormento del rimorso che lo distruggerà tanto quanto il risentimento.
Farsi aiutare
Se la gelosia è troppo dolorosa e la tristezza è troppo scura, un sostegno
psicologico può rivelarsi molto benefico: probabilmente si manifestano ferite
dell'infanzia sulle quali nessuno sforzo di volontà risulterà efficace. Diverse
forme di depressione sono causate da gelosie alle quali non è stato dato un nome
e che non sono state riconosciute.
Scegliere di benedire
Bando all'ipocrisia: tutti noi, o quasi tutti, proviamo questa tristezza.
Approssimativamente, è possibile individuare tre atteggiamenti personali:
criticare; evitare l'altro; benedire.
Solo l'ultimo atteggiamento porta la pace, anche se è frutto di una lunga
battaglia. Smettiamo non solo di minimizzare i meriti di colui che invidiamo, ma
domandiamo a Dio di benedire quella persona perché sia più felice. «Signore,
benedici mia cognata per tutti i talenti che le hai donato e colmala dei tuoi
benefici».
Quando sentiamo la tristezza del confronto invadere il nostro cuore,
ringraziamo Dio e lodiamolo per la felicità dell'altro.
Ma non siamo masochisti, non insistiamo troppo; la benedizione potrebbe
trasformarsi nel suo contrario!
91 ALAIN ASSAILLY, Marthe Robin (1902-1981). Testimonianza di uno psichiatra, Ed. de l'Emmanuel, 1996, p.
83.
92 Per i dettagli, cf le fini osservazioni di SAN TOMMASO D'AQUINO, Commento al vangelo di san Giovanni, n.
508-512. 143
Giovanni: «Ecco tua madre» (Gv 19,27). Eppure, Giovanni ha abbandonato Gesù,
come gli altri discepoli: «I discepoli
lo abbandonarono tutti» (Me 14,50). Gesù risponde all'abbandono con un dono
ancora più grande. D'altra parte, proprio nel momento della sua morte, dona e
trasmette il suo Spirito (Gv 19,30), quello che Giovanni Paolo II definisce la
«Persona-Dono».
Il Crocifisso non giudica: salva. Incrociando il suo sguardo nella preghiera
(Gv 3,16-17), la persona gelosa cessa di disistimare se stessa e accetta infine di
essere pazzamente cara. Contemplando Colui che si è donato per lei (cf Gal 2,20),
cessa di chiedere garanzie su garanzie; crede (nel senso forte del termine) che
Dio non possa darle prova d'amore più grande e che è degna di essere amata.
Posando lo sguardo sulla piaga aperta del costato, ascolta e accoglie il grido di
Gesù: «Se uno ha sete si avvicini a me, e chi ha fede in me, beva!» (Gv 7,37).
Quest'acqua viva non delude; essa sola disseta: «Se uno beve dell'acqua che gli
darò, non avrà mai più sete» (Gv 4,14). Come essere gelosi, quando si è
soddisfatti?
In conclusione
In paradiso, non ci sarà più invidia! Scopriremo che ognuno ha il suo posto e
ne saremo infinitamente felici. Di più, un mistico confida: «In cielo, la mia felicità
più grande non sarà la mia, ma quella di tutti gli altri». La comunione dei santi è
il contrario dell'invidia per eccellenza.93 «Elimina la gelosia e il bene che io faccio
diventa tua proprietà. Se l'amore possiede il tuo cuore, tutto è tuo!», raccomanda
sant'Agostino. «Ovunque si compie un'opera buona, essa appartiene anche a noi,
se sappiamo rallegrarcene».94 E spiega così a Proba che non ha più la forza di
digiunare: «Quel
lo che uno non può fare, lo fa nell'altro che può, se ama nell'altro quello che la
sua debolezza non gli permette di compiere personalmente».95
In attesa del cielo, che fare? San Paolo non dice forse che Dio è «tutto in tutti»
(1 Cor 15,28) e che Cristo è «per noi la sapienza, giustizia, santificazione e
redenzione» (1 Cor 1,30)? Questo significa che una data virtù riscontrata
nell'uno o nell'altro, come spiega Giovanni Cassiano, «è Cristo che è ora
distribuito in ognuno dei santi», realizzando «la pienezza del suo corpo
nell'armonia e nell'originalità di ognuno dei suoi membri». Infatti, «non preten-
diamo che uno possa, da solo, acquisire tutti i doni che sono ripartiti tra
93 Cf il bel capitolo di padre PIERRE DESCOUVEMONT in Guide des chemins de In prière, Marne, 1993, pp. 131-
137.
94 SANT'AGOSTINO, In Jo. Ev. tr., 32,8; PL 35,1646.
144
95 Lettera a Proba, 130, 31; PL 33, 507.
molti».96 In sintesi, c'è di che essere gelosi di quelli che sono già in cielo!
La T@ttica del diavolo
Guardami bene negli occhi, caro nipote: la gelosia è una questione di sguardi.
Lo sguardo d'invidia si esercita fin dalla culla, dal parco, dai primi giochi. Fa' in
modo che i genitori del tuo cliente comincino molto presto a fare paragoni tra il
loro piccolo e altri neonati; un giorno, il tuo cliente sentirà dire: «Se fossi gentile
come il tuo amico, saresti invitato più spesso a feste di compleanno». Anche i
complimenti sono molto efficaci: «Per fortuna, non sei come quello scansafatiche
di tuo fratello!». Che freccia avvelenata, soprattutto se il fratello sta ascoltando!
Così, il tuo cliente non cercherà di essere se stesso, ma semplicemente di non
essere... come suo fratello.
E il discorso continua a scuola. Le feste organizzate dalla scuola, che piacere! I
genitori si rovinano, i bambini ruminano... Adocchiano la borsa del vicino, con
biglie e gadget della play-station. A tavola, papà e mamma denigrino i vicini, si
confrontino con i cugini e rafforzino nel bambino la convinzione che si deve
essere più forti, più intelligenti, più ricchi degli altri!
In età adulta, da' al tuo cliente qualche modello impossibile da seguire. Finita
l'epoca dei santi, evviva i geni! Se il tuo cliente è un musicista, mostragli ciò che
Mozart ha composto a dodici anni, per non parlare del numero di lingue che
conosceva!
Largo alle top model! Sono riuscito a far credere in tutto il pianeta che queste
creature hanno il corpo perfetto che tutte le donne devono avere, e che tutti gli
uomini hanno il diritto di desiderare. Si crede che il primo rischio sia la lussuria;
no, è la gelosia.
Lo sguardo, dicevo. Sai qual è la differenza tra gli uomini e le donne? Gli
uomini guardano le donne e le donne guardano... le donne. E le invidiano. Non
preoccuparti: non se ne rendono nemmeno conto.
La gelosia è un giocattolo da maneggiare con tatto! Puoi anche portare il tuo
146
'
E-mailzebull
Sugli schermi
Senza mai essere didattico, senza mai smettere di raccontare una storia su un
ritmo febbrile, Il talento di Mr. Ripley, thriller americano di Anthony Minghella,
tratto dal romanzo di Patricia Highsmith (1999), offre una descrizione brillante e
quasi clinica del geloso.
• La storia: per Herbert Greenleaf (James Rebhorn), un ricco armatore
americano, Tom Ripley (Matt Damon) è un ragazzo modesto ma ambizioso e
degno di fiducia. Lo incarica dunque di riportare a casa suo figlio Dickie (Jude
Law), che è andato a dilapidare la fortuna paterna sotto il sole italiano con la
fidanzata Mar- ge (Gwyneth Paltrow). Sulla spiaggia a sud di Napoli, Tom sco-
pre il fascino della «dolce vita». Più che da questo mondo paradisiaco, Ripley è
affascinato dalla personalità brillante di Dickie. Divorato dall'invidia, vuole
diventare Dickie. Fino a che punto degenererà la gelosia?
La tristezza
Prima di essere una colpa, la gelosia è un sentimento di profonda tristezza.
Dalla prima all'ultima inquadratura, Tom mostra sempre la stessa espressione
grave, triste. La lascerà solo indossando la «pelle» di Dickie: ma allora la sua
gioia sarà come presa a prestito da un altro, non sorgerà dal suo cuore.
«Ciao, divertiti», lancia Dickie a Tom, nel negozio di musica jazz; queste
147
parole riassumono tutta la vita di Dickie. Senza dubbio, è questa gioia di vivere
che divampa a ogni istante, roboante, creativa, in Dickie e nel suo amico Freddy
Miles. Come per divertimento, quest'ultimo andrà a visitare un museo e il Foro,
in un'infinita malinconia e in una pesante solitudine.
Un peccato capitale
Tom vive solo tramite l'altro, ma non vive che per se stesso. Concentrato
com'è su di sé, non lo si vede mai compiere un atto di dono gratuito. Il suo
errore consiste in questo.
La gelosia non è solo un peccato, ma un peccato capitale. A poco a poco
compare la galleria di mostri generati da questo errore molto prolifico: le
menzogne, i tradimenti e le forme di slealtà si moltiplicano, presto sostituite
dagli omicidi. Tutto su uno sfondo di autodistruzione cui Ripley acconsente.
Non inganniamoci: la morte di Dickie non è la malaugurata conseguenza
dell'ira. Anche se Tom non aveva premeditato questo gesto, portava da tempo
un odio omicida nel cuore. D'altra parte, è travolto dalla sua rabbia assassina
quando Dickie osa dirgli: «Quando ti ci metti, sei una noia mortale!». Questa
verità che non cessa di nascondersi sotto- linea tutta la differenza che lo
distingue dal tanto invidiato Dickie. Non è forse questa la frase che torna a
ossessionarlo nei suoi incubi?
Una speranza
Al contrario della maggior parte dei film presentati in questo libro, II talento
di Mr. Ripley non descrive un itinerario di redenzione. Tom si chiude fino
all'inferno interiore nella sua gelosia, nelle sue identità prese a prestito, nella sua
menzogna, nella sua spinta interiore assassina.
Tuttavia, il film non chiude ogni speranza. Un triplice sguardo 149
lo attraversa: quello geloso di Tom, quello esteta di Dickie, quello innamorato di
Marge. Tom non cessa di copiare, imitare firme, voci, vite che non sono sue,
come Dickie non smette di inventare la sua vita. Tanto Tom è triste, quanto
Dickie balla, canta, gioca, arrivando ad abbracciare il frigorifero, tanto brucia di
passione. Tom si applica laboriosamente, come Dickie non tocca terra, non più di
quanto la sua scrittura tocchi le righe. Se le sue fedeltà sono successive, cioè
inesistenti, almeno sa essere generoso, a immagine di questa vita che gli offre
tanti regali: mentre Tom, lo «scroccone di terza classe» vive solo alle spalle degli
altri, Dickie lo invita a casa sua, gli propone affari, lo copre di doni, ecc.
Più ancora, il vero contrappunto alle scure pupille gelose di Tom è lo sguardo
innamorato di Marge. Il primo imprigiona nella sua rete, il secondo è
completamente rivolto verso colui che ama, perdonando e pazientando. Questo
amore, lungi dall'accecare, rende lucidi: Marge indovina la verità; è convinta
della colpevolezza di Tom. Di fronte a un padre che vive al livello zero dell'a-
scolto, che ha previsto da sempre il futuro di suo figlio come ha ricostruito la sua
personalità, non è un caso che gli unici ad aver finalmente smascherato il doppio
gioco di Tom siano i due amici più vicini a Dickie, Marge e Freddy.
Conclusione
Il mondo del geloso è un mondo freddo e senza sole. Tom confessa all'amico
omosessuale di Marge, Peter Smith-Kingely: «Vo- rei poter sistemare il passato
in una camera buia. Chiudere la porta a chiave e non tornarci mai più [...]. Ci
penso sempre: lasciar entrare il sole, pulire tutto».
Il mondo di Dickie, invece, è luminoso come i paesaggi della Calabria, di
Roma e di Venezia, dove ama vivere: «Dickie, basta che ti si guardi per credere
al sole», dice Marge con una spietata lucidità. «Vi si leggono calore e felicità.
Quando una persona si interessa di te, ha l'impressione di essere unica al
mondo. Per questo la gente ti vuole tanto bene».
150
CAPITOLO /
Il giorno dell'ira
Sta per esplodere. La sentiamo salire in noi come una lava. È l'ira. Un
ribollire di vulcano, la violenza di un uragano. Non possiamo fermarla, è lei
che ci afferra. Questa forza cieca e brutale, che proviene dalle profondità di
noi stessi come un Alien, esplode in noi e ci sfigura.
La tempesta della rabbia è solo il volto oscuro del vulcano. L'ira può
anche essere bianca. In apparenza, non si muove nulla. Ma sotto il ghiaccio
immobile, il veleno entra nel cuore e lo irrigidisce nel rancore, come il
veleno del ragno.
Rossa, nera o bianca: esistono forme d'ira di ogni colore, e quando
vogliamo guardare bene nel profondo di noi stessi, ne vediamo di tutti i
colori !
Gli Antichi la definivano «breve follia». Può anche essere lunga. Furiosa
o astiosa. È un piatto che si mangia freddo o bollente. Che sia fuoco della
rabbia o ghiaccio del risentimento, l'ira distrugge. Tuttavia, questa
aggressività che sorge in noi, malgrado noi, non fa forse parte della nostra
natura? Hegel diceva: «Nel mondo non si compie nulla di grande senza
passione». Allora, questa passione divorante è davvero un peccato?
ARISTOTELE, Retorica,
L. II, c. 2,1378 a 30-31; SANT'AGOSTINO, Confessioni, L. II, VI, 13.
153
97 Cf
Come essere certi che l'ira sia al servizio di una causa legittima?
Sono indispensabili tre condizioni: un obiettivo giusto, una retta
intenzione, una reazione proporzionata.104 L'ira diventa dunque un peccato
quando è ingiusta, vendicativa o smisurata. Come l'acqua in una bevanda
alcolica, uno solo di questi fattori negativi basta a rovinarla.
Un obiettivo giusto?
Duchmoc, il candidato francese della lista «Le progrès en marche» ha
superato per qualche decina di voti Dubruc, de «La marche en progrès»,
per la quale da un mese attaccava manifesti di notte. È ignobile! Volano
insulti, e sorge un'ira feroce. Questa ira è legittima? No. Le elezioni si sono
svolte nel rispetto delle regole e l'atto compiuto non è ingiusto.
104 Cf Stimma theoìogiae, Ila-IIae, q. 158, a. 2. La sistematizzazione in tre aspetti deriva da AD.
TANQUEREY, Précisde théologie ascétique et mystique, Desclée et Cie, 1924, p. 544. 155
urtano involontariamente un altro veicolo e si ritrovano minacciati, persino
feriti da un'arma da fuoco impugnata dall'altro automobilista esacerbato! Se
si può presumere che la causa sia giusta e l'intenzione retta, la reazione
manca crudelmente di misura.
In pensieri
II primo effetto negativo dell'ira è il giudizio interiore. Il peccato
comincia qui. Secondo gli psicologi, i tre quarti delle nostre parole interiori
sarebbero giudizi...
In parole
Raramente l'ira rimane nascosta nell'intimo della persona; vuole
esprimersi! I «peccati di lingua» non cominciano con la calunnia (mentire
parlando di altri), ma con la maldicenza (dire di altri un male che è vero).
Diffamando, si distrugge la reputazione di un altro; peggio, si intacca la sua
fecondità, la sua capacità di brillare, perché una buona reputazione
permette di fare del bene. Per questo san Francesco di Sales riteneva che la
maldicenza fosse un peccato grave. A una persona che dichiarava questo
peccato in confessione, san Filippo Neri diede la penitenza di spiumare un
pollo per le strade della città e poi di raccogliere e portare a lui le piume. La
donna (ma avrebbe potuto essere un uomo!) alcune ore dopo tornava da lui,
confessando che era impossibile, perché
156 aveva disperso le piume. Filippo rispose: «Le parole di maldicenza
il vento
sono molto più difficili da rimediare delle piume!».
Monsignor Bourdaloue, vescovo di Orléans, sosteneva che il maldicente
uccide tre persone: la persona di cui parla male, se stesso, e la persona a cui
riporta le maldicenze. Per Gesù, le parole espresse in preda all'ira
equivalgono all'omicidio: «Sapete che nella Bibbia è stato detto ai nostri
padri: Non uccidere. [...] Ma io vi dico: chiunque va in collera contro suo
fratello sarà portato davanti al giudice. E chi dice a suo fratello: "Sei un
cretino" sarà portato di fronte al tribunale superiore» (Mt 5,22). Secondo un
commento rabbinico, uccidere una persona significa spargere il sangue; dire
una parola dura significa farlo illividire. Illividire significa svuotarlo del suo
sangue, ma dall'interno. Per questo Gesù non esita a stabilire una
equivalenza tra ira e omicidio. Vi sono parole che uccidono.
Negli atti
L'ira si sfoga nelle vie di fatto: dal semplice litigio alla violenza spietata.
Il desiderio di vendetta di fronte a un'ingiustizia porta ad aggredire la
persona che si considera ingiusta, o un membro della comunità o del popolo
che fa pesare l'ingiustizia, come i kamikaze palestinesi che si fanno
esplodere negli autobus israeliani. La radicalizzazione del conflitto in Terra
Santa illustra tragicamente questa escalation della violenza.
Quando non è regolata dalla ragione, l'ira sfocia nell'irragio- nevolezza
e nell'eccesso. A volte si spinge fino all'omicidio, come nel caso di Lamech,
personaggio biblico della Genesi: «per una ferita ricevuta io ho ucciso un
uomo e per una scalfittura un ragazzo» (Gn 4,23). Le pagine di cronaca dei
quotidiani sono piene di resoconti di crimini del genere. «Dopata» dalla
paura, l'ira è all'origine di esplosioni d'odio, cacce alle streghe, linciaggi di
capri espiatori, ecc. Decuplicata dalle torbide motivazioni della gelosia,
l'ira cerca solo più di distruggere. Questa violenza può essere l'origine di
un piacere potente, che giunge a generare una dipendenza. Ricordiamo
l'ebbrezza di Lawrence d'Arabia alla vista del sangue, nel film di David
Lean (1962)? Il protagonista perde ogni controllo di se stesso durante la
battaglia, esce dalla mischia macchiato, titubante, ancora ebbro per la
carneficina.
106 DENISVASSE, La chair envisagée. La generation symbolique, Seuil, 1998, p. 78. In corsivo nel testo.
107 La Divina Commedia. Inferno, canto VII, vv. 112-114 e 63.
158
108 Ross CAMPBELL, Ami tuo figlio? Come guidare l'adolescente a diventare un adulto
essendosi adirate, si crucciano di essere crucciate». Queste forme d'ira
secondaria sono peggiori delle prime; «così, [queste persone] tengono il loro
cuore conficcato e immerso nell'ira. [...] Dobbiamo dunque nutrire un
dispiacere per i nostri errori che sia sereno, ragionato e fermo». 109
Come si dissimula?
Molti impeti d'ira si mascherano. Le forme d'ira nascosta sono le più
temibili, perché la prima vittima è l'iracondo stesso. Per quali ragioni può
avvenire un'esplosione d'ira?
È diventata abituale, e dunque un vizio, nel senso proprio del termine.
Abbiamo l'abitudine di vivere con essa, non ce ne rendiamo più conto. In
molte aziende, la maldicenza, frutto dell'ira e grande distruttrice del bene
comune, si è trasformata in sport quotidiano.
È condivisa dall'ambiente: «Tutti la pensano come me: il responsabile
Come riconoscerla?
Quando l'ira è diventata abituale, individuarla diventa difficile.
Riprendiamo i tre criteri che permettono di diagnosticare una forma d'ira-
peccato.
Un obiettivo ingiusto
Una collera peccaminosa trasgredisce la giustizia; giudica a priori, senza
pezze giustificative. La sua preoccupazione principale è cercare delle scuse,
e non parliamo d'indulgenza! Quanti scoppi d'ira nascono perché ci161 si è
soffermati troppo in fretta solo sull'apparenza! E quanti giudizi non sono
altro che pregiudizi!
Un signore deve partecipare a una cena importante, ha fretta, cerca
invano i suoi gemelli da polso, se la prende con sua moglie che «mette tutto
in posti impossibili»... Finché lei gli ricorda che è stato lui a metterli nel
cassetto della scrivania il mese prima, perché i bambini non li toccassero.
Una grande lezione dalla «piccola» Teresa
«Ah! come è vero che non bisogna giudicare niente su questa terra. Guarda che mi è
capitato in ricreazione, qualche mese fa. È una cosa da nulla, ma mi ha insegnato
parecchio:
La campana aveva suonato due colpi, e giacché non c'era la Depositaria, Sr. Teresa di
S. Agostino aveva bisogno di un'aiutante. Di solito non è gradevole fare da aiutante, ma
quella volta la cosa mi tentava parecchio, perché bisognava aprire la porta per prendere i
rami d'albero per il presepio.
Accanto a me c'era Sr. Maria di S. Giuseppe, ed io capii che anche lei aveva il mio
stesso desiderio innocente. "Chi è che mi vuole aiutare?" disse Sr. Teresa di S.
Agostino. Allora io ho cominciato subito a ripiegare il lavoro che stavo facendo, ma
lentamente, affinché Sr. Maria di S. Giuseppe potesse finire prima di me ed essere lei a
fare quello che era richiesto, come in effetti avvenne.
Sorridendo, allora, e guardando verso di me, Sr. Teresa di S. Agostino disse: "Eh! è
chiaro che sarà Sr. Maria di S. G. che aggiungerà questa perla alla sua corona. Lei si è
mossa con troppa lentezza". Risposi soltanto con un sorriso, e ricominciai il mio lavoro,
dicendo in cuor mio: "0 mio Dio, quanto sono diversi i tuoi giudizi da quelli degli uomini!
Ecco perché sulla terra noi ci inganniamo così spesso, e a proposito delle nostre sorelle
prendiamo come mancanze ciò che invece davanti a Te è merito!"».
Un'intenzione distorta
L'ira può sembrare legittima e il suo obiettivo giusto (una manifestazione
contro l'effetto serra, per esempio), ma l'intenzione può essere diversa da
quella di riparare un torto ed essere mossa da motivazioni discutibili:
invidia nascosta, regolamento di conti... In fondo, questa azione
esteriormente giusta è una reazione interiormente spinta dal risentimento.
Si ritrova questo contrasto in certi conflitti sociali. Si afferma di difendere
la giustizia sociale, ma quanti scioperi nel settore pubblico non sono altro
che tentativi di difesa meschina di diritti acquisiti di categoria? Una
manifestazione «antiglobalizzazione» può nascondere frustrazioni e invidie
che portano alla distruzione. Quello che a volte è stato definito il «Gandhi»
giapponese,
Paolo Takashi Nagai, manifestava dubbi di fronte alla veemenza di certi
movimenti «pacifisti», e agli «scatti d'ira» di certi militanti: « [...] Le grida di
collera, nelle strade, a favore della pace, erano sovente solo espressioni di
162
cuori in cui la pace mancava», commentò. Affermazioni del genere non
piacevano a tutti!
Di fatto, un peccato è tanto più grave se passa dal pensiero alla parola, e
poi all'azione. Gli eccessi dell'ira sono dunque graduati nella loro gravità a
seconda dell'esteriorizzazione, ma anche secondo la durata: dall'ira
occasionale e circoscritta (quando si richiama un pregiudizio, per esempio)
all'ira ossessiva e abituale, che ci trasforma in giustizieri permanenti.
Come rimediare?
La causa principale del peccato d'ira è duplice: l'ingiustizia del suo
obiettivo e l'eccesso della reazione. I rimedi saranno dunque duplici:
Prendere le distanze...
«Allontanatevi il più possibile, subito, dall'oggetto che suscita la vostra
ira. Mantenete un profondo silenzio per tutto il tempo in cui dura
l'esplosione d'ira», consigliava il curato d'Ars. 110 Invece di picchiare vostro
figlio che vi stressa con la sua lezione di matematica, andate a prendere un
po' d'aria!
164
110 Jean-Marie Vianney, Pensées, op. cit., p. 155.
evita la tristezza senza accettarla e senza elaborarla; soprattutto, prosegue
Evagrio, «si separano i pensieri dalla carità»;111 si perde così un'occasione
divina di crescere nell'amore fraterno.
Esercitare la dolcezza
Si lotta contro l'ira tramite le virtù a essa opposte: la pazienza, il rifiuto
di coltivare rancori, la dolcezza. E per addolcirsi, si può cercare di arginare
la collera a monte, impedendole di passare dal pensiero alle parole e dalle
parole alle azioni. Un padre del deserto consiglia: «Se è possibile, si deve
impedire all'ira di entrare fino al cuore; se è già nel cuore, fare in modo che
non si manifesti sul volto; se si manifesta, tenere a freno la lingua; se è già
sulle labbra, impedirle di passare alle azioni e cercare di eliminarla il più in
fretta possibile dal cuore».
Come l'umiltà, la dolcezza non è triste. La seconda Beatitudine assicura
che la mansuetudine è fonte di felicità. Più ancora, ci assicura che solo la
dolcezza ottiene quello che l'ira cerca con rabbia e non trova mai: «Beati
quelli che non sono violenti: Dio darà loro la terra promessa» (Mt 5,5). Il
Salmo 37 (36) è come un ampio commento di questa beatitudine; l'iracondo
dovrebbe copiarlo per intero e meditarlo spesso: «Non adirarti contro i
malvagi...» (v. 1).
Praticare l'umiltà
Per cominciare, ci si può ispirare agli esempi biblici di Mosè, «una
persona umile, più umile di ogni altro uomo che c'era sulla terra» (Nm 12,3);
di Davide, «Signore, il mio cuore non ha pretese, non è superbo il mio
sguardo...» (Sai 131,1); e di Gesù: «Accogliete le mie parole e lasciatevi
istruire da me. Io non tratto nessuno con violenza e sono buono con tutti.
Troverete la pace...» (Mt
166
11, 29). Gesù unisce l'umiltà e la dolcezza attribuendole a sé. Di fatto, le
persone umili sono dolci. San Francesco di Sales afferma: «L'ira, le ripicche e
l'asprezza contro se stessi tendono all'orgoglio e hanno origine solo
dall'amor proprio, che si turba e s'inquieta nel vederci imperfetti».114
Come risponde Cristo ai farisei nell'episodio della donna adultera (Gv
8,1-11)? Uno degli affreschi della cripta della cattedrale di Salerno
rappresenta Gesù inginocchiato, che scrive sulla sabbia in silenzio, mentre i
dottori della Legge lo sovrastano, sicuri del loro buon diritto. La vicinanza
degli accusatori è tale che questo umile gesto somiglia a una lavanda dei
piedi, con cui Gesù smorza la loro aggressività.
Smettere di idealizzare
L'idealizzazione è un altro alimento dell'ira. Essa è più frequente di
quanto si creda. «Per molto tempo sono stato adirato con il mio diretto
superiore perché mi aspettavo che comprendesse ogni mia aspettativa, che
fosse sempre di buonumore, pronto ad ascoltarmi. In sintesi, poiché era il
mio diretto superiore, doveva essere perfetto», confida un dipendente. Lo
stesso accade nella vita coniugale, dove ci si attende, spesso inconsciamente,
che l'altro sia privo di difetti e ci soddisfi in tutto. Che dire delle nostre
aspettative relativamente a sacerdoti e persone consacrate?
Smettere di idealizzare significa fare concessioni. Il monaco benedettino
Anselm Grün osserva: «Molti giovani adulti non possono più andare a
trovare i loro genitori, perché appena arrivano cominciano a litigare. A ogni
augurio formulato dai genitori, i figli subodorano un regresso. Hanno la
sensazione di essere sempre trattati come bambini e si difendono con
recriminazioni. Pensano di reagire così in nome della loro libertà. Di fatto, se
fossero davvero liberi dall'influenza dei loro genitori, potrebbero fare
qualche concessione, di tanto in tanto».115 Siamo però chiari: accettare il
compromesso non significa tollerare l'intromissione.
Rinunciare al perfezionismo
Quante esplosioni d'ira nascono da progetti che non sono giunti a
compimenti percepiti come ingiustizie, mentre erano so
lo illusioni cullate sulle nostre capacità, il nostro lavoro, la nostra coppia, le
nostre amicizie?
Possiamo uscire dalla trappola dell'ira solo rinunciando aH'«immagine
orgogliosa di noi stessi», 116 per usare un'espressione dello psicanalista Denis
Vasse, all'ideale del nostro io, alla nostra volontà di padroneggiare ogni
Farsi aiutare
I nostri scoppi d'ira sono involontari, spropositati, frequenti, duraturi?
La causa prossima (il coniuge, un superiore, un figlio, ecc.) forse può essere
solo una molla: risveglia un trauma antico e suscita l'occasione di rievocare
il passato ferito (vedere oltre). In questo caso, la sola volontà non basterà a
eliminare l'ira.
In conclusione
Un ometto, disegnato da Sempé, sperso neH'immensa campagna, fissa il
cielo dall'alto di una montagnola e lancia all'Invisibile queste parole: «Ho
sempre perdonato alle persone che mi hanno offeso. Però ho l'elenco!».
La benevolenza e il perdono sono i migliori rimedi per l'ira. Instillano la
dolcezza nel cuore, come la lettura del grande inno all'unità che è la lettera
agli Efesini di san Paolo. Soprattutto questo passo: «... la vostra ira sia
170 prima del tramonto del sole, altrimenti darete una buona occasione
spenta
al diavolo. [...] Nessuna parola cattiva deve mai uscire dalla vostra bocca;
piuttosto, quando è necessario, dite parole buone, che facciano bene a chi le
ascolta. [...] Fate sparire dalla vostra vita l'asprezza, lo sdegno, la collera.
Evitate i clamori, la maldicenza e le cattiverie di ogni genere. Siate buoni gli
uni con gli altri, pronti sempre ad aiutarvi; perdonatevi a vicenda, come Dio
ha perdonato a voi, per mezzo di Cristo» (Ef 4,26-32). Sono parole da
assimilare senza attenuanti e da mettere in pratica assiduamente.
La T@ttica del diavolo
Stufato di corruccio
E-mailzebull
172
Sugli schermi
Ira nell'arena
Un uomo di coraggio
Fin dall'inizio del film, nell'impressionante battaglia contro i Goti,
Massimo rivela di essere non solo un abile stratega, ma un uomo di
alta levatura morale, un individuo coraggioso, che padroneggia le
sue paure e orienta la sua aggressività verso il bene, il dominio dei
suoi avversari. La macchina da presa mostra un uomo pieno di forza,
fisica, certo, ma soprattutto interiore: ordina con calma e con
un'autorità che non ha bisogno di alzare la voce.
Il suo coraggio non è una negazione della paura, ma un modo di
173
padroneggiare la rabbia.
Dove attinge questa capacità di gestire l'energia della sua ira? Da
tre fonti.
Innanzitutto, dalla sua terra e dalla sua famiglia. Quando Marco
Aurelio gli chiede da quanto tempo non vede i suoi cari, Massimo
risponde con sorprendente precisione: «Due anni, duecen-
tosessantaquattro giorni a stamattina». Prima di cominciare a
combattere, «Massimo il contadino», come lo soprannomina ami-
chevolmente uno dei suoi generali, raccoglie un po' di terra non solo
per cospargersene le mani (e per tenere meglio la sua arma), ma
anche per percepirla.
Poi, dal suo amore per Roma. All'imperatore che gli domanda:
«Che cos'è Roma?», Massimo risponde: «Ho visto molto del resto del
mondo. È brutale, violento e sanguinario. Roma è la luce».
Infine, queste due fonti esisterebbero senza la fedeltà agli dèi? La
sera, Massimo prega con fervore: «O miei antenati, vi chiedo di
guidarmi. Madre amata, dimmi come gli dèi vedono il mio futuro. O
miei antenati, io vi onoro, cerco di vivere con la dignità che mi avete
insegnato».
Un uomo di violenza
Poi, il generale Massimo è colpito da molte ingiustizie con
estrema violenza: è destituito mentre Marco Aurelio gli aveva ap-
pena affidato il comando dell'impero; è condannato a morte mentre è
un eroe; la sua famiglia è atrocemente eliminata, mentre è innocente.
Lo abbiamo detto: l'ingiustizia suscita l'ira. Ma quando è
spropositata, diventa violenza e vendetta. Schiacciato dall'iniquità, il
generale diventato gladiatore è animato solo più dalla sete di
vendetta. La sua ira, l'aggressività che in passato era tutta orientata al
servizio di Roma, cerca solo di placare il suo odio: l'obiettivo è
annientare Commodo diventato imperatore. Roma l'ha tradito? Lui
la cancella. Ratifica, con una libera decisione, questa rottura e gratta
via simbolicamente la sigla SPQR che ha tatuata sulla spalla, segno
della sua appartenenza. A Prossimo, il proprietario dei gladiatori,
risponde freddamente che è un gladiatore e fa quello che gli si
domanda: uccidere.
Di ritorno a Roma, messo di fronte a Commodo nell'arena del
174
Colosseo, Massimo s'identifica con il «Gladiatore» senza volto.
Quando l'imperatore gli intima di togliersi il casco e di declinare le
sue generalità, Massimo elenca solo i titoli della sua vendetta: «Padre
di un figlio assassinato, marito di una donna assassinata, servo
fedele del vero imperatore», per concludere con: «E avrò la mia
vendetta, in questa vita o nell'altra».
Ma cercando di distruggere il suo peggior nemico, prima di tutto
distrugge se stesso. A Lucilla, la figlia di Marco Aurelio e sorella di
Commodo, che l'ha amato, confida la verità e dichiara chi è, o chi
crede di essere diventato: «Io sono uno schiavo». Peggio
dell'alienazione, non ha più identità: «Quest'uomo [che serviva
Roma] non esiste più. Tuo fratello ha fatto bene il suo lavoro. Vuoi
aiutarmi? Dimentica di avermi conosciuto e non tornare più qui».
Infatti, è nota la segreta complicità del giustiziere e del criminale, del
vigile e del teppista. «A furia di cacciare draghi, diventi anche tu un
drago», diceva Nietzsche.
Un uomo di giustizia
Tuttavia, le radici rimangono come addormentate. Grazie a esse
Massimo recupera la sua identità. Ne è prova l'emozione di
quest'uomo, normalmente così padrone dei suoi sentimenti, quando
il suo servo devoto gli fa scivolare in mano le statuette che
rappresentano sua moglie e suo figlio. Massimo crede in una vita
oltre la vita di quelli che ama. Giuda l'Etiope, uno dei suoi amici
gladiatori, gli domanda: «Possono sentirti dopo la vita?» «Sì,
ascoltano», risponde Massimo.
Anche tramite la mediazione di Lucilla, Massimo riscopre l'ideale
che abitava in lui e a cui indirizzava la sua prodigiosa energia.
Lucilla gli dice: «Un tempo ho conosciuto un uomo di forti principi,
a cui mio padre voleva bene e che voleva bene a mio padre.
Quest'uomo serviva Roma». Ricordandogli la sua origine che è segno
della sua chiamata, Lucilla restituisce Massimo a se stesso:
«Generale, ricordati della tua dignità. Smetti di compiangerti nella
tua situazione di vittima o di carnefice». Di fatto, Lucilla lo riconcilia
con le sue radici e con la sua vocazione patriottica. Infine,
mettendolo in contatto con il senatore Gracco, gli offre i mezzi per
compiere la missione alla quale vuol essere fedele, la preoccupazione
175
per Roma.
Prova ne è il fatto che, prima di morire, Massimo dirà al capo
della guardia pretoriana le poche parole che gli permettono di dare
un significato alla morte dell'imperatore-dittatore e di aprire le porte
a un futuro meno sanguinoso. «Gracco deve essere liberato. Lo ha
chiesto Marco Aurelio. Aveva un sogno che si chiamava Roma». La
sua ira purificata si è liberata della vendetta per mettersi al servizio
della giustizia. Il Gladiatore è tornato a essere Massimo il giusto. È
pronto a ritrovare la sua amata moglie e suo figlio nelle grandi
pianure eterne.
Conclusione
Il regista di Biade Runner e di Alien dice che ama «creare uni-
versi». E noto che si è preso una certa libertà con la Storia: i Romani
non hanno mai pregato statue, Commodo non fu ucciso nell'arena,
Marco Aurelio non fu assassinato, ecc., ma poco importa. Nel
Gladiatore ci racconta una storia, una magnifica storia: quella di una
violenza subita che si trasforma in desiderio di vendetta, fino a
diventare un'ira nobile messa al servizio del bene comune.
176
CAPITOLO O
178
tristezza che non sopporta il bene altrui (cf cap. 7), l'accidia è una
tristezza che non sopporta più il bene divino. Più che la speranza,
attacca in noi la carità, rifiuta la comunione con Dio, che è l'effetto
proprio di questa virtù teologale che è appunto la carità. Ne deriva
una caduta di tensione dell'Amore in noi, un languore spirituale, una
mancanza di gusto nei confronti della preghiera. La vita interiore
diventa arida e priva di gusto. La Messa infastidisce, la preghiera
disgusta.
«Quando preghiamo, l'accidia ci ricorda qualche impegno in-
dispensabile», spiega san Giovanni Climaco. Quale madre di famiglia
non ha mai vissuto un'esperienza del genere: nel preciso istante in
cui s'inginocchia davanti a un'icona per pregare, ricorda di dover fare
una telefonata urgente? Marthe Robin osava dire che, tra la Messa in
un giorno feriale e un momento di preghiera individuale, è meglio
scegliere la preghiera individuale: la Messa può camuffare l'accidia.
Per lei non si trattava assolutamente di mettere in questione il
primato della Messa, che è «la fonte e il culmine della vita cristiana»,
come sottolinea il Vaticano II, ma di interrogarci sul nostro modo di
viverla. Infatti, noi possiamo partecipare all'Eucaristia tutti i giorni
senza una vera unione di cuore con Cristo: per il piacere estetico
della liturgia, per l'interesse intellettuale dell'omelia, ecc. Invece, non
riusciamo a rimanere fedeli e attenti alla preghiera quotidiana senza
una comunione intima di fede, di speranza e di amore di carità con il
Signore.
C'è gioia!
Per cogliere bene l'angolatura d'attacco del virus dell'accidia, arrischiamo una
breve lezione di teologia. Di fronte a un bene (cioè tutto ciò che sembra un
bene), san Tommaso d'Aquino distingue tre moti affettivi: l'amore, il desiderio e la
gioia.
L'amore è l'inclinazione molto generale che sopraggiunge di fronte a qualcosa
che sembra buono, dal gelato, al cioccolato, all'infinità di Dio, passando per le
auto da competizione o il pattinaggio. Per questo Tommaso afferma che il
peccato nasce da un amore (disordinato, ma comunque un amore: per esempio,
l'amore per il denaro o per il piacere). A causa di questa inclinazione molto
generale, l'amore è anche indifferente al tempo: amate le Seychelles, sia perché
ci siete stati, sia perché ci andrete.
Il desiderio compare di fronte a un bene più preciso, cioè un bene futuro, un
179
bene che si avvicina. Il vostro innamorato torna da un viaggio durato qualche
giorno? Il vostro desiderio cresce. Vi preparate a partire per le Seychelles dopo
averlo sognato per mesi? Siete tutti entusiasti, perché il vostro desiderio prende
forma.
Infine, il desiderio si trasforma in gioia quando il bene sperato si realizza, cioè
diventa presente. La porta si apre: lui (lei) è là; subito, la vostra attesa si
trasforma in esultanza. La gioia è il sentimento che _ nasce dalla presenza del
bene. È in noi il segno indubbio che quello che è stato desiderato è arrivato.
Archimede esclamò Eureka (che somiglia molto a un Alleluia), quando scoprì la
legge della statica dei fluidi. Quando esulta di gioia, Gesù parla al presente: «Ti
ringrazio, o Padre, perché tu hai nascosto queste cose ai grandi e ai sapienti...»
(Le 10,21-22).
Quando si passa dall'amore alla gioia, attraverso il desiderio, il bene si avvicina
fino a diventare nostra condivisione. La gioia nasce dalla comunione con l'amato.
Per il cristiano, l'Amato (Ct 2,8s) ha un volto: il Figlio del Padre. La gioia cristiana
è la gioia che nasce dalla nostra comunione con Dio. Paolo VI nella sua
esortazione sulla gioia cristiana scrive: «Quando Gesù manifesta e irradia [...]
una tale esultanza, è a causa dell'amore ineffabile con cui sa di essere amato dal
Padre [...] In Dio stesso come nei santi, tutto è gioia, perché tutto è dono».120 San
Francesco d'Assisi è un uomo gioioso non tanto a causa del suo carattere felice,
quanto per un sentimento quasi perma- .nente della presenza divina in lui.
L'acido dell'accidia corrode insidiosamente questa presenza.
120 Esortazione apostolica Gaudete in Domino sulla gioia cristiana del 9 maggio 1975,
in.
180
cosa fa?», domanda il visitatore. «Costruisco una cattedrale!»,
risponde l'operaio. La finalità si approfondisce a poco a poco. Se si
continuasse, si arriverebbe al fine ultimo, che guida segretamente
tutte le nostre azioni: la felicità. L'uomo agisce sempre per essere
felice (anche chi si toglie la vita!): cerca una pienezza, il bene perfetto.
Ma l'unico bene che soddisfa tutti i nostri desideri è la comunione
con Dio. Attenzione! Questo fine non è solo esteriore; è innanzitutto
interiore. In ogni cuore batte il desiderio di vedere Dio: «Tu ci hai fatti
per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te»,
diceva sant'Agostino all'inizio delle Confessioni. Questa frase
giustamente celebre è un compendio di tutta la morale cristiana. Non
è forse anche la domanda del giovane ricco: «Maestro, che cosa devo
fare ancora per avere la vita eterna?» (Mt 19,16).
Per il Vangelo, dunque, non c'è la possibilità di rimanere neutrali:
nessun atto è indifferente; tutte le nostre azioni ci avvicinano o ci
allontanano dal nostro fine, l'unione al Dio-Trinità, a seconda che
siano o no vissute nella verità e nell'amore. Ogni nostro passo ci
indirizza verso il Mistero dei misteri. Ogni nostro istante terreno è
una promessa della Visione eterna.
Procediamo. La felicità non è uno stato, come si crede spesso, ma
un atto. Molte persone temono di annoiarsi in cielo, perché
immaginano la beatitudine come uno stato passivo. Non è così. Jean-
Marie Rouart, accademico e romanziere di fama, in una tribuna
letteraria scrisse che preferiva le distrazioni dell'inferno alla calma
piatta del paradiso. Questo significa confondere, come fanno molti, il
riposo del cielo con l'assenza di attività. Gesù «definisce» così la vita
eterna: «conoscere te, l'unico vero Dio, e conoscere colui che ti hai
mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). La conoscenza, come l'amore, è un
atto. La felicità del cielo è dunque dinamica. Lungi dall'essere
passiva, nella gloria del cielo la persona sarà costantemente attiva, ma
per nulla attivista. Per questo l'azione umana è così nobile: non si
accontenta di preparare la felicità del cielo, ma la anticipa, la precede.
Dunque, non vi è nulla di peggio del disgusto di agire. L'accidia
però non è un semplice girare a vuoto, uno spleen che ci fa sospirare
di fronte a questa «vita da cani»; è molto più in profondità, un rifiuto
di dirigerci verso il nostro porto divino, una rinuncia alla vera
Felicità, e un'assenza di ascolto dei desideri profondi del proprio
cuore. Come dice Evagrio Pontico, è il peccato «più pesante di tutti»:
con la nostra passività, non ristagniamo, ma ci lasciamo attirare verso
181
il basso, nel buco nero, invece di slanciarci verso l'alto. L'accidioso è,
nel senso etimologico, un fannullone.
182
Il tedio nella letteratura
La letteratura ha raffigurato con una certa predilezione il tedio dell'accidia. È la
malattia di Madame Bovary, descritta da Gustave Flaubert: «La sua vita era
fredda come una soffitta il cui lucernario è a nord e il tedio, ragno silenzioso,
filava nell'ombra la sua tela in tutti gli angoli del suo cuore».
Anche il teatro di Cechov è pieno di personaggi dispensati da ogni impegno
domestico e abbandonati all'ozio. «La mia parrocchia è divorata dal tedio». Sono
le prime parole del Diario di un parroco di campagna. Georges Bernanos ha
analizzato acutamente e presentato questo vizio «teologale» dell'accidia: «Il
tedio dell'uomo giunge alla fine di tutto, signor parroco, infiacchirà la terra», si
legge in Monsieur Ouine, opera sorprendentemente moderna.
Infine, dell'apatico Yves Frontenac François Mauriac diceva: «Il riposo, [...] non
sentire più di amare... [...] L'irrimediabile [...] sta nell'a- ver perso il conforto di
rifugiarsi nel nulla».121
204
Oggi, l'accidia si trova a essere rimpiazzata da due forme di tristezza più
secolarizzate: la pigrizia e la malinconia. Questa sostituzione è frutto di una delle
opere di disinformazione più riuscite di questi ultimi secoli. Ne soffre le
conseguenze anche il recente Catechismo della Chiesa cattolica, che presenta
come ultimo peccato capitale «la pigrizia o accidia», come se fosse la stessa
cosa. Ma è urgente distinguere le due realtà, perché la seconda è di gran lunga
più grave della prima.
«Chi è un pigro?», fu domandato a Tristan Bernard. «È una persona che non fa
finta di lavorare», fu la risposta. Più seriamente, il padre gesuita Michel Sales
ama ripetere che «Il pigro non è una persona che non fa nulla, ma una persona
che fa solo quello che vuole».
Il cuore della pigrizia è la tristezza nel compimento di quello che dobbiamo fare.
Alcuni pigri si agitano molto, sembra perfino che compiano un grande lavoro. Ma
fanno solo quello che vogliono e rimandano continuamente le esigenze
prioritarie: la posta in ritardo si accumula; l'adolescente taglia l'erba del giardino
mentre deve ripassare per l'esame; il padre di famiglia si dedica al bricolage
invece di far ripetere la lezione al figlio... Il pigro rimanda all'indomani quello che
deve fare il giorno stesso. A lui sono indirizzate queste severe parole di san
Paolo: «Chi non vuol lavorare, non deve neanche mangiare» (2 Ts 3,10).
184
frustrazione e aggressività», spiega il cardinale Christoph Schònborn.
Questo «demonio» si manifesta «sotto forma di pigrizia spirituale, ma
anche e nello stesso tempo attraverso un attivismo trepidante. [...] Il
demonio del mezzogiorno è anche presente nella nostra vita sotto
forme facilmente riconoscibili: la paura di trovarsi soli di fronte a se
stessi, la paura di sé, la paura del silenzio. Verbositas et curiositas, il
gusto della chiacchiera e la curiosità, sono «figlie» dell'accidia. Altre
conseguenze sono l'agitazione interiore, la continua ricerca di novità
come surrogato dell'amore di Dio e della gioia di servire; l'incostanza,
la mancanza di fermezza nelle proprie decisioni, a cui si aggiungono
l'indifferenza di fronte a ciò che attiene alla fede e alla presenza del
Signore, la pusillanimità, il rancore, tutte cose così presenti tra noi
oggi nella Chiesa, fino alla cattiveria deliberata».122
Depressione o accidia?
La depressione e l'accidia si somigliano: sono forme di tristezza che presentano
gli stessi sintomi: malinconia, fastidio di fronte a tutto, incapacità di agire, e che
possono sopraggiungere nello stesso momento. È però necessario distinguerle:
la depressione è una malattia, un male subito; l'accidia è un peccato, un male
responsabile. Nella depressione, la tristezza accompagna una incapacità a volte
totale, di agire. Nell'accidia, questa tristezza è un disgusto per l'azione, mentre la
capacità di agire rimane; cercando solo il proprio piacere, l'accidioso si indirizza
verso azioni più gratificanti.
L'accidia è un peccato «teologale»: infrange lo slancio dinamico verso Dio, ci
porta a disperare di poter realizzare la nostra vocazione di figli di Dio. La
depressione invece non riguarda immediatamente la relazione con Dio. È spesso
la conseguenza di uno choc psicologico
o affettivo, di una ferita profonda.
Per questo, gli stati di desolazione, le tristezze che proviamo richiedono un
discernimento: certe forme di depressione non potrebbero essere modalità di
gelosia o di accidia non avvertite e non dichiarate? Dom Jean-Charles Nault,
monaco benedettino dell'abbazia normanna di Saint-Wandrille, che ha dedicato
un'importante tesi di teologia morale all'accidia, sottolinea: «Il criterio ultimo di
discernimento sarà l'amore. Si manifesta una caduta, una diminuzione dell'a-
more, del dono di sé, dell'oblio di se stessi? Allora si tratta di accidia. La persona
depressa non può agire, né uscire dalla sua situazione da sola; l'accidioso non
vuole uscirne. Osserviamo tuttavia che l'accidia può restare una tentazione, una
prova. Finché non vi si cede, naturalmente non è un peccato, e, proprio come da
185
una forma di depressione, occorre chiedere al Signore di aiutarci a guarire».123
Come si dissimula?
L'accidioso ignora il suo male per almeno quattro ragioni.
Le giustificazioni
Innanzitutto, l'accidioso giustifica la sua instabilità, la sua ipe-
rattività. Non è troppo difficile, in una società produttiva in cui il
«fare» è sacralizzato.
Ma l'insoddisfazione riguarda anche la vita spirituale. È la ten-
tazione dello «zapping spirituale» che colpisce molti cristiani: si
cambia parrocchia, si cambia confessore, si passa da gruppi di
preghiera a comunità nuove... Ci si giustifica piluccando nella Bibbia:
«Viene il momento in cui l'adorazione di Dio non sarà più legata a
questo monte o a Gerusalemme» (Gv 4,21). Evagrio Pon- tico smonta
l'alibi dell'accidioso: «Piacere al Signore non è que
123 Cf l'articolo in «Le démon de midi guette les croyants», in Fnmille chrétienne n°
1207,3 marzo 2001.
186
stione di luogo: infatti è stato detto che Dio può essere adorato
ovunque».7
Si sente dire: «Non ho bisogno di andare in chiesa per pregare:
lavoro alla presenza di Dio, Egli è costantemente al mio fianco». E
anche: «Io prego al volante della mia auto». Bene. Ma che cosa ri-
sponderebbe una fidanzata al suo innamorato che le dicesse: «Ti amo
tanto, sai? Penso spesso a te quando lavoro, mentre guido, ma non ho
tempo di telefonarti, di scriverti e di venire a trovarti»? La fiamma
dell'amore di Dio in noi non chiede di essere alimentata, come la
fiamma di ogni amore?
L'accidioso trova così eccellenti ragioni per fuggire dalla pre-
ghiera. Come questo pretesto, che non è nato ieri, dato che lo si deve
a un Padre del deserto, Giovanni Cassiano: «Non è meglio dedicarsi
a opere buone che rimanere inutilmente nella propria cella?». 8
Quante forme di scoraggiamento, di tristezza profonda sono la
conseguenza di un attivismo pastorale, e questo quanto spesso non è
conseguenza di un'accidia depressiva ignorata?
Accidioso Occidente
«L'accidia è il demonio della nostra epoca», afferma Dom Nault, che propone in
particolare un'interpretazione complementare del «demonio di mezzogiorno». «Il
mezzogiorno è il momento della piena luce. Osa, se la mancanza di luce è
nociva, lo è anche l'eccesso. Il demonio dell'accidia fa dire all'uomo
contemporaneo: "io rifiuto il mistero, perché non posso comprenderlo con la mia
ragione; rifiuto la luce, perché non ne sono l'artefice". In nome della verità-
evidenza, il razionalismo ha rifiutato la fede; in nome del "credo solo a ciò che
vedo" l'apostolo Tommaso ha rifiutato di credere e gli scientisti (gli adoratori della
scienza) negano l'esistenza di un mistero che li supera. In nome del "voglio
sapere tutto" l'invidioso non ha mai fiducia».
La nostra società accidiosa diffonde il disgusto per Dio per un'altra ragione:
l'uomo del XXI secolo, soprattutto l'Occidentale, non crede più alla grandezza e
188
immensità della sua vocazione. Roso da un dubbio metafisico profondo, «non
vuole credere che Dio si occupi di lui,
10 conosca, lo ami, lo guardi, sia al suo fianco», spiega il cardinale Ratzinger in
una penetrante analisi della nostra società.124 Una vocazione così bella, una
felicità così grande? È troppo bello per essere vero!
11 demonio dell'accidia instilla alla nostra epoca un «curioso odio dell'uomo
contro la propria grandezza», prosegue il Prefetto della Congregazione per la
Dottrina della Fede. Una rivolta intima e profonda. Al punto che arriva a
«considerarsi di troppo». S'immagina guastafeste della natura, creatura mancata,
segnata dal nulla. «La sua liberazione e quella del mondo consisterebbe dunque
nel dissolversi». L'accidia porta alla disperazione. Cela una cultura di morte.
189
Come riconoscerla?
L'impazienza
All'accidioso il tempo non solo sembra lungo, ma terribilmente
tetro e monotono. Evagrio Pontico usa un'immagine famosa: nel bel
mezzo della giornata, all'accidioso «il sole sembra lento a muoversi o
immobile». Per questo si parla anche di «demonio del mezzogiorno».
L'impazienza contemporanea è una forma di accidia. L'adole-
scente si stupisce di non riuscire ancora a saltare m 1,50 in alto dopo
aver praticato l'atletica per 3 settimane e di non saper eseguire la
Sonata al chiar di luna dopo un anno di lezioni di piano. Tutto, tutto
subito e sempre più in fretta. Alcune pubblicità promettono
l'apprendimento di una lingua straniera in un mese. Risultato: la
confessione-strizzatina d'occhio di Woody Alien, utente di metodi di
lettura rapida: «Ho letto Guerra e pace in venti minuti: parla della
Russia!».
L'instabilità
Per non girare a vuoto, l'accidioso non sta mai fermo. Blaise Pascal
definiva «divertissement» (che non è il nostro «divertimento»!) questo
atteggiamento con il quale l'uomo sfugge la sua miseria, la sua
angoscia, ma soprattutto il suo cuore e le domande essenziali che esso
pone.
L'accidioso vuol muoversi per ingannare la noia: il monaco ac-
cidioso vuole lasciare il suo monastero; il lavoratore accidioso cambia
occupazione ogni tre anni; il celibe accidioso cambia amici non
appena quelli che ha non gli piacciono più e passa da una donna
all'altra; il coniuge accidioso considera subito belle tutte le donne,
salvo la propria moglie; il sacerdote accidioso vuole cambiare
parrocchia o partire per le missioni, ecc.
Dispersione e diversivi
Parente prossima dell'instabilità, la dispersione è la sorella minore
della ricerca di diversivi. L'accidioso si attiva, ma trascura l'unica
attività necessaria: il suo dovere presente.
190
svolta esistenziale che somiglia a un muro o a un tunnel, e ha
ripercussioni sul piano fisico, psicologico e spirituale. Si dice che
questa crisi può sopraggiungere tra i 40 e i 50 anni. A volte,
soprattutto quando non è riconosciuta, può determinare divorzi,
fratture, depressione... Alcune domande profonde arrivano a se-
minare il dubbio, scuotono le certezze, sconvolgono gli impegni
fondamentali in tutte le situazioni di vita: perché vivere, se tutto si
conclude con la morte? Per chi? A che cosa sono servite le nostre
scelte di vita? Non erano forse strade sbagliate, vicoli ciechi? Non è
meglio fermarsi qui e cominciare una nuova vita?
Questi atteggiamenti scuotono la coppia, toccando uno o l'altro
degli individui che la costituiscono, ma non risparmiano sacerdoti,
religiosi e religiose.
spirituale, e chi è che ha introdotto questa conversazione sterile e
umana».125
Molte forme di accidia provocano la facilità ad addormentarsi
durante le omelie o durante i momenti di preghiera, giustificate, in
più, dalle parole del Salmista: «Ai suoi amici il Signore elargisce i
suoi doni nel sonno» (Sai 126,2). Questo non esime i predicatori dallo
sforzarsi per animare le loro omelie, presentando più immagini ed
esempi! Gesù parlava in parabole.
Resta il fatto che la nostra epoca ha sostituito in misura eccessiva
la convinzione con la seduzione.
Come rimediare?
«A grandi mali, umili rimedi», per parafrasare un noto proverbio.
Fin dai tempi di Evagrio Pontico, nel IV secolo, i monaci si sono
sforzati di cercare rimedi a questo peccato; i rimedi proposti sono
stati verificati da generazioni di maestri spirituali.
191
Dio. L'accompagnamento spirituale, e a volte psicologico, qui si
rivela molto utile.
Riscoprire la preghiera
192
Non illudiamoci: spesso la preghiera è una battaglia.127 Non
aspettiamoci di ritrovare il gusto della preghiera per ricominciare a
pregare; pregando, questo gusto tornerà... oppure no. L'essenziale è la
fedeltà quotidiana. Teresina di Lisieux conobbe quasi costantemente
l'aridità della preghiera nel corso dei nove anni che trascorse al
Carmelo; questo non impediva che Dio abitasse sempre di più nel suo
cuore.
Perseverare
Tutti gli esperti sono unanimi: il demonio della disperazione si
combatte con la perseveranza, nella preghiera e nei doveri dello stato.
I vecchi maestri dello spirito definivano questo rimedio hy- pomoné:
letteralmente, rimanere sotto il giogo. È soave come l'olio di fegato di
merluzzo, ma non è stato inventato nulla di più efficace.
San Paolo è formale: «Attendete alle cose vostre» (1 Ts 4,11).
«Perseverate, attaccatevi alla ringhiera nella notte, rimanete sotto il
giogo, continuate sullo slancio. Rinnovate il vostro dono a Dio nella
fedeltà alle piccole cose», raccomanda Dom Nault. Infatti, «la
perseveranza è già una forma di speranza», dice Monsignor
Schònborn. La resistenza ristabilisce la pace.
Piangere
Giovanni Cassiano avverte: «Quando ci scontriamo con il demonio
dell'acddia, allora, con le lacrime, dividiamo la nostra anima in due
193
parti: una che consola e l'altra che è consolata e, seminando in noi
buone speranze, pronunciamo con il santo re Davide questa formula:
«Perché sei triste, anima mia, e perché mi turbi? Spera in Dio, perché
potrò lodarlo, Lui, Salvezza del mio volto e mio Dio».
Praticare l'umiltà
Il Catechismo della Chiesa cattolica lega l'accidia alla superbia:
«Un'altra tentazione, alla quale la presunzione apre la porta, è
l'accidia. I Padri spirituali la intendono qui come una forma di de-
pressione dovuta al rallentamento dell'ascesi, al venir meno della
vigilanza, alla mancata custodia del cuore. «Lo spirito è pronto, ma la
carne è debole» (Mt 26,41). Più si è in alto, più, quando si cade, ci si fa
male. Lo scoraggiamento, doloroso, è l'opposto della presunzione.
Chi è umile non si stupisce della sua miseria: questa
lo porta a una maggior fiducia, a rimanere fermo nella costanza» (n.
2733).
194
sacramenti del momento presente».130
Prendere iniziative
Non capite che gli altri (coniuge, amici, colleghi) ne hanno ab-
bastanza di decidere sempre per voi? Lo spirito di conciliazione non
coincide con il disimpegno. Smettete di essere vagoni, di tanto in
tanto fungete da locomotiva. Smettete anche di lasciare che gli
avvenimenti decidano al vostro posto e le situazioni si guastino,
giustificandovi: «Questa relazione metà amichevole e metà amorosa
con la mia segretaria non è sana, ma, comunque, lei se ne andrà tra tre
mesi. Precipitare le cose farebbe male a tutti e due», oppure: «Ho
fiducia nella Provvidenza, non cerco di controllare tutto». Resta il
fatto che voi state perdendo totalmente il controllo!
Combattere l'ozio
L'ozio è il padre di tutti i vizi. I Padri del deserto insistevano
sull'importanza del lavoro manuale per il monaco e proibivano ai
novizi di rimanere inattivi: «Il monaco che lavora è tentato da un solo
demonio, ma quello che sta in ozio è preda di innumerevoli spiriti»,
dice Giovanni Cassiano.
Un consiglio di papa Giovanni XXIII: «Devo fare ogni cosa, re-
citare ogni preghiera, osservare ogni regola, come se non avessi
nient'altro da fare, come se il Signore mi avesse messo al mondo
unicamente per fare bene questa azione, e al buon compimento di
essa fosse legata la mia santificazione, senza tener conto di ciò che
precede o di ciò che segue».131
195
marito. Se dovessi rifare oggi quel passo, non lo sposerei. Sono così
cambiata! Mi sento molto più lucida. Non è ipocrita rimanere con
quest'uomo che non ho veramente scelto, tanto più che non abbiamo
figli?».
Che cosa rispondere? Si può chiamare in causa la realtà invisibile
ma efficace del sacramento del matrimonio e di quello dell'ordine;
della grazia legata ai voti solenni, e dell'impegno con la Chiesa nei tre
casi. Soprattutto, è normale che le nostre motivazioni, ma anche i
nostri limiti del passato, si manifestino sempre meglio con il passare
degli anni: dopo, si vede con sempre maggior chiarezza. Se
dovessimo prendere tutte le nostre decisioni in un'evidenza perfetta,
non ci impegneremmo mai. (Purtroppo, è quello che aspettano
disperatamente alcuni celibi oggi: la luce totale, la garanzia a vita!).
Infine, chi assicura che, tra dieci anni, il nostro passato non ci
sembrerà ancora diverso? Dovremmo allora cambiare di nuovo
coniuge, monastero, comunità?
132 GHISLAIN LAFONT, art. «Sensibilité», in Dìctìonnaìre de spiritualité, Beauche- sne, 1.15,1989,
622-623.
196
discepoli dormono, Gesù è colto dalla tristezza, dallo sconforto,
dall'angoscia: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice di
dolore». Gesù vince la tentazione accettando totalmente la volontà del
Padre. Scegliendola, non subendola. Non nega la prova, vi acconsente
orientando, eroicamente, tutto il suo essere verso Dio: «...Però non sia
fatta la mia volontà, ma la tua» (Le 22,42). Gesù vive questa prova, e
la supera per noi.
Quello che sant'Agostino dice riferendosi alla tentazione nel
deserto, vale per il Getsemani: «Se è in lui che siamo tentati, è in lui
che dominiamo il diavolo [...]. Riconosci che tu sei tentato in lui; e
allora riconosci che tu sei vincitore in lui». 133 A causa delle nostre
pigrizie, del nostro disgusto per l'azione, Gesù accetta di agonizzare.
Per guarirci pronuncia le sue ultime parole: «Tutto è compiuto» (Gv
19,30). Ci assicura così che ha compiuto tutto ciò che il Padre gli ha
domandato.
Una volta abbattuto, il demonio dell'accidia si allontana e lascia
l'anima in pace. Evagrio Pontico conclude la sua descrizione con
questa promessa: «Questo demonio non è seguito immediatamente
da nessun altro: dopo la lotta, succedono nell'anima uno stato di
serenità e una gioia ineffabile».
In conclusione
L'eremita sant'Antonio un giorno si lamentò contro il Signore
mentre non cessava di combattere contro il Tentatore durante una
notte oscura: «Signore, dov'eri durante queste interminabili ten-
tazioni?». Il cielo rimase silenzioso. Sant'Antonio continuò, a voce più
alta: «Perché non ti sei manifestato prima per far cessare i miei
tormenti?». Risposta di Dio: «Io ero presente, Antonio, ma aspettavo,
per vederti combattere».
Un vecchio monaco trappista di grande esperienza dell'abbazia di
Bricquebec, padre Amédée, consiglia fermamente a quelli che vanno
a confidargli i loro dubbi: «In queste ore cruciali, dobbiamo
pazientare, accettare la prova, consentire all'abbandono senza
condizioni, e perseverare. Nella tempesta, niente colpi di spranga
impulsivi! Soprattutto, niente decisioni radicali: rischie- rebbero di
essere fatali. Resisti aspettando che passi; e soprattutto, prega; prega
come vuoi, ma prega! Chi prega, vive!», assicura questo saggio che si
197
attacca ostinatamente al rosario nelle sue ore di deserto.
Non è un caso che l'elenco dei nostri cari peccati cominci con la
superbia e si chiuda sull'accidia.18 Questi peccati capitali sono i più
«antiteologali»: quelli che staccano più radicalmente ma anche nel
modo più sottile l'uomo da Dio. L'accidia è l'ultimo vizio perché la
sua prima figlia è la disperazione. E la disperazione è la fine di ogni
tentazione. Un'anima che dispera non crede più che la salvezza sia
possibile; non si affida più a Dio, si guarda e prova disgusto. Diventa
preda della «bestemmia contro lo Spirito Santo» (Mt 12,31), il rifiuto
di credere che la misericordia divina sia più grande del nostro
peccato. Ma Dio andrà sempre più in basso del fondo di miseria in
cui la bassezza del peccato ci avrà lasciati cadere.
19 Invece, l'accidia è il primo peccato capitale di cui parla san Tommaso nella Stimma
theologiae (Ila-IIae, q. 35), e lo fa nel trattato della carità: questo indica l'importanza di questo
peccato ai suoi occhi.
Accidiosi in sciopero
198
dall'elettrochoc.
Una delle mie imprese consiste nell'aver cancellato dai libri di
morale (non è nemmeno il caso di parlare delle omelie!) il termine
"accidia" da circa cinque secoli e di averlo sostituito con la molle
"pigrizia" e con la psicologica "malinconia". Ora, far scomparire una
parola impedisce di pensare alla cosa, ma non di viverla...
Per inoculare il virus, niente è meglio di un dissenso che si riesce a
motivare, di un conflitto ben percepito tra il tuo cliente e una persona
che vive accanto a lui (famiglia, collega, vicino, amico...). Lascialo
ruminare il suo risentimento, poi suggeriscigli: «L'unica soluzione è
partire: cambia posto, lavoro, coniuge...». L'uomo ha una capacità
infinita di credere che il cambiamento esteriore determinerà un
cambiamento interiore.
Coltiva l'attitudine a passare da un'attività all'altra: "Solo gli
imbecilli non cambiano!". La "sindrome Ushuaia" è una dipendenza
sottile: un nuovo paese da scoprire ogni sei mesi! Organizzati perché
il tuo cliente sia sempre più in dissenso con le persone che vivono
accanto a lui, giudichi gli altri, li guardi dall'alto in basso, si senta
diverso, tanto "più aperto" di quelle persone "dalla mentalità poco
aperta".
Alimenta l'amarezza, coltiva il suo disprezzo: "In Italia, la gente è
intollerante, meschina. Altrove, invece...". Beninteso, evita che
qualcuno gli ponga la domanda chiave: "Perché? Che cosa cerchi
veramente?". Non deve cogliere il prodigioso egoismo della sua fuga.
Se mai il tuo cliente incontrasse uno zelatore del Nazareno, ri-
cordagli tutti i cristiani ipocriti in cui si è imbattuto. Lascialo idea-
lizzare pensando a una Chiesa di perfetti, che non esiste.
Allora, al momento buono (occorre saper attendere fino alla mezza
età della vita, a volte anche fino al crepuscolo), mostragli il vuoto
totale della sua esistenza. Questo spettacolo può portarlo alla
disperazione. Allora forse sarà tuo.
Ma vorrei insistere, in quest'ultima e-mail scritta alla diavola, su
quelli che si sono consacrati totalmente a Q.D.D.: i sacerdoti, le
religiose... All'inizio, non puoi contare sullo scoraggiamento: sono
tutti fuoco e fiamme, ma non d'inferno! Fa' leva anche sulla loro
buona volontà. Stancali, fa' in modo che non si fermino neppure un
istante. Come prendersi un giorno di riposo alla settimana, quando ci
sono tanti ammalati da andare a visitare, tante persone da
accompagnare? Madre Teresa e Vincenzo de' Paoli forse si ri-
199
posavano?
Il nostro veleno è l'attivismo. Poiché la loro azione è per Q.D.D.
(incontri, riunioni, opere di carità), credono che sia azione di Q.D.D.,
ispirata, voluta da Lui! L'ideale è che la «riunionite» rubi
progressivamente il tempo del breviario, poi quello della messa
quotidiana.
Accumulano stanchezza? Spingili a cercare compensazioni facili.
Non trascurare i momenti vuoti in cui si ritrovano spesso la sera,
tardi, soli, a mangiare, troppo, a fare zapping, troppo, tra programmi
insulsi (non abbastanza), di cui certi mi devono molto. In molti
presbiteri, il posto della televisione ha finito per sostituire il
tabernacolo.
Se perseverano nel fare un ritiro all'anno, rimangano il meno
possibile in silenzio: moltiplica passeggiate, incontri, momenti
d'insegnamento.
Naturalmente, all'inizio del loro ministero pregano. Cerca di
ridurre al minimo questo tempo di preghiera. Trasformalo in pre-
parazione di omelie, riunioni, cerimonie. Anche in letture pie! Se
perdono il senso della gratuità, perderanno il gusto dell'amore, e
dunque di Q.D.D.
Infine, fa' credere al tuo cliente, alla conclusione della sua vita, che
tutto ciò a cui si è consacrato non è servito a nulla. Ha raccolto solo
spine e bastoni per farsi picchiare (mi viene in mente un brutto
ricordo...). Scoraggiato, privo di risorse, il tuo accidioso cercherà
rifugio nell'amarezza e nel rancore. Oh, non fare il Maligno! Non si è
mai vinto, con Q.D.D. (anzi, si è perso per sempre, ma non te lo dico,
figliolo, se no ne farai una malattia...).
Per cogliere allora il tuo cliente, evita che si metta di fronte a
quell'abominevole invenzione (voglio dire la Croce); non ricordi più
che «un altro è il seminatore, un altro è il mietitore»; e che un
apparente insuccesso è spesso seme di vita. Ma mi fermo qui: adesso
mi metto a parlare come loro! Ed è il colmo, mio caro nipote, e con
mio grande danno ti dico "addio"...».
E-mailzebull
200
Sugli schermi
Disgusto e dolori
201
soffre un'intensa aggressività contro questa «esistenza boia» che,
in questo cieco, s'incarna nel rifiuto della vicinanza e del contatto:
«Se mi tocchi ancora, ti uccido, piccolo merdoso. Sono io che tocco
te!», lancia alla sua giovane guida.
Tuttavia, Frank non morde forse la mela della vita nella Big Apple
(la «Grande Mela», soprannome di New York)? È trasportato dal
contatto delle donne («Chi ha fatto le donne? Dio è un genio!»), dalla
cena nel celebre hotel Waldorf Astoria (l'«apogeo della civiltà»), si
esibisce in un tango meravigliosamente eseguito con una ragazza
timida (un momento di grazia) o nella guida insensata di una
Ferrari, a 110 chilometri all'ora, nelle vie di New York. Dotato di
grande attenzione verso tutto e verso tutti, Slade coglie ogni
dettaglio e lo analizza con rara intelligenza e acume. Ma questa
vitalità è solo una facciata, perché è priva di senso: «Ti espongo il
mio piano: un viaggio nei piaceri, andare in un palazzo, vedere mio
fratello, fare l'amore con una ragazza meravigliosa. Poi mi stenderò
nel mio letto per farmi saltare il cervello». Avendo perso la luce degli
occhi, Slade ha perso la vita e ogni ragione per vivere. La sua
esistenza si è fermata quando ha perso la vista: non vive forse solo
riferendosi al suo mondo di soldato («Chiamami colonnello»)?
Ma la sua accidia è veramente un peccato? Frank è veramente
responsabile del suo male? Non è vittima di un incidente ingiusto?
La ragione profonda del suo disgusto di vivere ci viene rivelata
nel corso della scena della cena improvvisata condivisa con suo
fratello e la famiglia, il Giorno del Ringraziamento. Si comprende allora
che a suo fratello e solo a lui Frank deve la menomazione di essere
cieco; questo scialacquatore è anche un imprudente. Non è una
vittima dei condizionamenti sociali o del caso degli avvenimenti. Ha
segretamente acconsentito al disprezzo di sé, e molto prima
dell'incidente: «Non sono un dono... ma non lo sono mai stato»,
confida Frank a Charles. Frank accoglie, senza battere ciglio, con una
rabbiosa autodecisione, tutte le critiche che il marito di sua nipote gli
rivolge con un odio spaventoso: si può allora valutare da quanto
tempo si sia reso interiormente complice della morte. La ferita di
guerra non ha fatto altro che innestarsi su un vizio d'accidia già
presente.
L'empatia o la vita nuovamente scelta
Qualunque sia l'entità dell'energia di una persona, non è infinita.
202
Frank ha raggiunto il suo punto di rottura: non sa più trovare in sé
una ragione che gli restituisca il gusto di vivere. Ha bisogno di un
altro per uscire dalla depressione dell'accidia. «Gli sguardi che ci
salvano sono quelli che ci aspettano», amava dire Paul Baudiquey.
Bisogna ancora essere capaci di un'ombra di empatia...
Il regista segnala, discretamente e senza giudicare, che Frank non
trova questa compassione nella sua cerchia immediata di persone.
Certo, la sua donna lo ama e sa discernere che «sotto la sua aria
burbera, è dolce come un agnello». Ma questo amore non è altro che
una pietà inefficace. Si sente che la giovane donna è sfinita: che aiuto
riceve da suo marito (assente dalla sua vita come lo è dallo
schermo)? Soprattutto, vede in suo padre un uomo da aiutare; non
riconosce in lui una persona che potrebbe offrire il suo aiuto. Ora,
l'accidioso non ha bisogno che si faccia qualcosa per lui, ma che
qualcuno creda in lui.
Paradossalmente, Charles riscopre la vita quando Frank tenta di
suicidarsi: in quel momento, si sente amato. Quanto a Frank, ha
deciso di uccidersi, allontana Charles, ma non spera forse in segreto
che l'intelligenza del ragazzo e più ancora il suo cuore fermino il suo
gesto? Esprime allora, finalmente, una vera sofferenza: «Sono
malvagio, sono rovinato». In realtà, intende dire un'altra cosa. «Lei
non è malvagio», risponde Charles. «Credo che lei soffra». Queste
parole di compassione sarebbero insopportabili, se non fossero
pronunciate da una persona vulnerabile come Charles.
Tuttavia, la sofferenza dell'accidioso è ancora più profonda:
«Dammi una buona ragione per vivere». «Gliene do due: lei balla
il tango e guida la Ferrari meglio di tutte le persone che conosco».
Questa risposta è ridicola e sincera insieme. Basta a spiegare il
motivo per cui Frank decide di posare la pistola? No. Certo, ci sono
anche le lacrime di Charles. Ma ogni atto di libertà è un mistero
abissale e fràgile. In ogni caso, quando Frank ammette di essere
combattuto («Ti è mai capitato di aver voglia di partire e di rimanere
nello stesso tempo?»), ha di nuovo scelto la vita.
Restituito alla vita, Frank dà la vita: aiuta Charles a uscire dal suo
senso di colpa e darà testimonianza del proprio valore di fronte alla
scuola (il film inizia con il caso di coscienza di Charles in un
tribunale universitario). In sintesi, «darà alla luce» un giovane a cui il
203
padre, divorato dal suo lavoro, manca crudelmente. Questa fecondità
è il criterio fondamentale: Frank è uscito dal buco nero della sua
accidia.
Conclusione
Abbandonare il proprio peccato significa passare dalla morte alla
vita. Questo è ancora più vero per l'accidia, questa «anti-vi- ta».
Frank impara nuovamente a vivere scoprendo una ragione di vita;
Charles si sveglia alla vita scoprendo che ha il diritto di vivere. I due
eroi passano dalla morte alla vita e sono l'uno per l'altro un invito
alla risurrezione. Di fatto, due giorni, tre notti, non sono... il tempo di
un week-end?
204
Epilogo
206
questi quattro principi:
Felice caduta
Uno dei benefici spirituali dei nostri errori è l'indulgenza per quelli altrui, sostiene
Giovanni Crisostomo. Secondo questo Padre della Chiesa, Dio non ha chiesto
agli angeli di essere sacerdoti perché questi esseri senza peccato sarebbero
stati senza pietà nei confronti dei poveri peccatori che siamo noi.
Giovanni Crisostomo porta l'esempio dell'apostolo Pietro: l'intrepido che per tre
volte giura un'indefettibile fedeltà a Cristo, e poi lo rinnega per tre volte. «Dio ha
permesso la caduta di Pietro, la colonna della Chiesa, il porto della fede, per
insegnargli a trattare gli altri con misericordia», scrive.
In un'omelia sull'umiltà, anche san Basilio richiama la caduta dell'apostolo Pietro
che si era vantato un po' troppo del suo amore per Cristo. Dio dunque «lo lasciò
libero nella sua debole natura di uomo ed egli cadde nel rinnegamento, ma la
sua caduta lo rese saggio e
lo indusse a rimanere sempre vigile. Imparò a essere misericordioso con i
deboli, avendo sperimentato la propria debolezza, e sapeva al- lora chiaramente
che era stato sostenuto dalla forza di Cristo, mentre correva il rischio di perire
per la sua mancanza di fede, in quella tempesta di scandali, come era stato
salvato dalla mano destra di Cristo quando stava per affondare nelle acque del
lago». E san Basilio conclude: «È spesso l'umiltà a liberare chi ha peccato
207
spesso e gravemente».134
Accogliere la misericordia
Il gesuita Jéròme Nadal (morto nel 1580) aveva un compagno di
viaggio che gli domandava «suggerimenti» per vincere i suoi difetti.
Padre Nadal finì per rispondere: «I difetti conservano la virtù»!135 E i
peccati conservano la misericordia!
Parlare di Dio senza parlare mai del peccato è una menzogna, ma
richiamare il peccato senza parlare di Dio porta alla disperazione.
Come potrebbe Dio esercitare la sua misericordia se l'uomo non gli
manifestasse la sua miseria?
Per questo, seguendo santa Teresa di Gesù Bambino, dobbiamo
metterci alla scuola dell'infinita fiducia nella dolcezza e nella
tenerezza del perdono di Dio.
La piccola Carmelitana dice: «Ispiriamoci all'"amorosa audacia" di
Maria Maddalena, che si gettò ai piedi di Gesù a casa di Simone il
Fariseo e gli bagnò i piedi con il suo profumo. Sento che
il suo cuore comprese l'abisso d'amore e di misericordia del Cuore di
Gesù e capì che, benché fosse peccatrice, questo Cuore era disposto
non solo a perdonarla, ma anche a prodigarle i benefici della sua
intimità divina». Teresa prosegue: «Da quando mi è stato dato di
comprendere anche l'amore del Cuore di Gesù, confesso che esso ha
scacciato ogni timore dal mio cuore! Il ricordo dei miei errori mi
umilia, mi porta a non fare mai affidamento sulla mia forza, che non è
altro che debolezza; ma più ancora, questo ricordo mi parla di
misericordia e d'amore. Quando gettiamo i nostri errori con una
fiducia tutta filiale nel braciere divoratore dell'Amore, come pensare
che non siano consumati compieta- mente e per sempre?».
Potremmo obiettare: santa Teresina commetteva solo peccatucci! E
se il peccato è grave e ripetuto? Leggiamo, rileggiamo (e, per
penitenza, imparate a memoria!) questa sorprendente confidenza che
è la penultima frase dell'autobiografia di Teresina: «Sento che, se
anche avessi sulla coscienza tutti i peccati che si possano commettere,
con il cuore spezzato dal pentimento andrei a gettarmi fra le braccia
di Gesù, perché so quanto ama il figliol prodigo che torna da Lui».
Questo pensiero le era così caro che Teresa lo ripeterà in seguito a
134 Omelia, XX, 4, citata da ANDRE LOUF, L'Humilité, op. cit., p. 34.
135 Fontes narrativi, Roma, Tomo 1,1943, p. 622.
208
madre Agnese: «Madre mia, se io avessi commesso tutti i crimini
possibili, avrei sempre la stessa fiducia, sentirei che questa
moltitudine di offese sarebbe come una goccia d'acqua gettata in un
braciere ardente».
Ora, non solo questa fiducia amorevole cancella i peccati più
gravi, ma offre immediatamente la salvezza. Santa Teresina confidò a
Maria della Trinità: «Se il più grande peccatore della terra,
pentendosi per i suoi peccati in punto di morte, spira in un atto
d'amore, subito, senza calcolare da un lato le tante grazie di cui
questo sciagurato ha abusato e dall'altro tutti i suoi misfatti, [Dio]
conterebbe solo più la sua ultima preghiera e lo accoglierebbe senza
indugio tra le braccia della sua Misericordia». In altri termini, forse
non sperimenterebbe neppure il purgatorio!
209
tradimenti ci sarà il grido di san Paolo: "Dio mi ha amato e volle morire per me"
(Gal 2,20). E quando ho rivolto il cuore verso di Lui, ho visto che il suo sguardo
era diretto verso di me».137 Nel sacramento della riconciliazione il Signore ci offre
questo sguardo con una particolare intensità.
210
Senza dubbio non è necessario cercare la propria strada, tracciare un piano,
costruirsi un programma. Basta immergersi nel momento presente
impegnandosi a compiere, in questo momento, la volontà di Colui che ha detto:
"lo sono la via" (Gv 14,6). L'istante passato non c'è più. L'istante futuro forse non
sarà mai in nostro potere. Però possiamo amare Dio nel momento presente che
ci è donato. La santità si costruisce nel tempo».
(Chiara Lubich, Vivere il momento presente, Città Nuova, 2002).
211
dato tutto. Non mi resta più nulla». Allora, nel gran silenzio della
grotta e del deserto di Giudea, Gesù parlò un'ultima volta:
«Girolamo, hai dimenticato una cosa: dammi i tuoi peccati, perché io
possa perdonarli!».
Concludiamo con una storia. Un'umile signora che viveva in un
piccolo paese disse di aver sperimentato apparizioni di Cristo. Per
accertarsi della loro autenticità, il suo parroco la convocò e le disse:
«La prossima volta che Dio le apparirà, gli domandi di rivelarle i
miei peccati; sono l'unico a conoscerli. Questa sarà la prova». Un
mese dopo, la signora tornò dal sacerdote, che le domandò: «Dio le è
apparso di nuovo?». «Sì», rispose la signora. «E lei gli ha posto la
domanda che le ho suggerito?». «Sì, gliel'ho fatta». «E che cosa le ha
detto il Signore?». «Mi ha risposto: "Di' al sacerdote che i suoi peccati
li ho dimenticati"».
212
Indice
213
Capitolo 4: La lussuria, corpo del reato ................ ............. Vag- 81
Che cos'è la lussuria? .............................................................. » 82
In che cosa la lussuria è un peccato capitale? .................... » 84
Quali sono le diverse specie di lussuria? ............................. » 87
In che cosa la lussuria è un peccato capitale? .................... » 89
Come rimediare? .................................................................... » 93
In conclusione ......................................................................... » 102
- La T@ttica del diavolo: Adulterio, istruzione per l'uso .. » 104
- Sugli schermi: Dalla lussuria all'amore .............................. » 107
214
Come si dissimula? ................................................................. » 176
Come riconoscerla?................................................................. » 179
Come rimediare?..................................................................... » 182
In conclusione ......................................................................... » 191
- La T@ttica del diavolo: Stufato di corruccio ...................... » 192
- Sugli schermi: Ira nell'arena ............................................. » 194
215
Questo libro è prima di tutto un
manuale di liberazione interiore.
Vi domanderete: Perché parlarci
di peccati? Questa nozione vec-
chia come la Genesi non è forse
desueta e superata? Non
sarebbe meglio parlare della bontà di Dio, piuttosto che della
malizia dell'uomo?
Gli autori non si propongono lo studio storico di un concetto
teologico, né, soprattutto, di "fare della morale". L'obiettivo di
questo libro consiste nello stanare, con l'aiuto di grandi maestri
spirituali, i falsi dei che tentano l'uomo fin dalle Origini.
l sapienti del tempo antico hanno elencato sette di questi
grandi idoli che il Tentatore agita nel cuore degli esseri umani
per illuderli di trovare così la loro felicità: superbia, gola,
lussuria, avarizia, gelosia, ira, accidia. Sette grandi tentazioni,
sette vizi principali. Sette malattie dell'anima che sono state
definite "capitali", perché ne generano altre. Le loro radici sono
profonde e nascoste. Sono difficili da diagnosticare; ma che
libertà offre curarle! Questo è il fine che si propongono queste
pagine.
ISBN 88-01-03178-5
Il settimo peccato capitale non è quello che
comunemente si dice. È molto più grave della
pigrizia, quel difetto quasi banale che ci induce a
rimanere a letto quando suona la sveglia, o a
rimandare a domani quello che bisognava fare ieri. È
un vizio misterioso dal nome bizzarro: accidia. La sua
definizione latina, la «tristitia de bono divino», richiama
più un buon vino degustato sotto i pergolati di Capua
che un pericolo mortale. La «tristezza del bene
divino» procede mascherata: si adorna di un'etichetta
da vino pregiato e si nasconde sotto gli orpelli della
pigrizia come una vipera mascherata da biscia.J1 suo
morso è indolore, ma il suo vele- (i no paralizza
l'anima nel suo slancio verso Dio, insensibilmente.
Questo assopimento spirituale è il peccato dei
discepoli di Cristo nel Getsemani. Ci tocca tutti, un
giorno o l'altro.
Gli Antichi definivano l'accidia «demonio del
mezzogiorno», o
Il gusto smodato per la distensione
Giovanni Cassiano racconta che un anziano
religioso parlava di un argomento spirituale ai suoi
confratelli; vedendo che si intorpidivano e si
addormentavano, inserì nel suo discorso una storia
frivola. Subito gli ascoltatori drizzarono le orecchie. Il
saggio fece allora comprendere loro che la loro
differenza di attenzione era legata a ragioni umane,
troppo umane: «Grazie a questo, comprendete almeno
qual è stato l'avversario di questa conferenza
217