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Mary Douglas

Purezza
e pericolo

Il Mulino
Mary Douglas

Purezza e pericolo
Un’analisi dei concetti
di contaminazione e tabù

il Mulino
ISBN 88-15-04075-7

Edizione originale: Purity and Vangar. An Analysis of Concepts of Pol-


lution and Taboo, Harmondsworth, Penguin Books, 1970. Copyright
© 1966 by Mary Douglas. Copyright © 1975, 1993 bv Società editrice
il Mulino, Bologna. Traduzione di Alida Vatta.
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettua­
ta, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non auto­
rizzata.
Indice

Introduzione alla nuova edizione p. 7

Prefazione 27

Introduzione 31

I. L ’impurità come rito 39

II. La contaminazione nella sfera profana 69

III. Gli abomini del Levitico 83

IV. Miracoli e magia 107

V. Nei mondi primitivi 129

VI. Pericoli e poteri 157

VII. I confini esterni 185

Vili. Le linee interne 205

IX. Il sistema in guerra con se stesso 219

X. Il sistema distrutto e ricostruito 245


Introduzione alla nuova edizione

Sono trascorsi più di venticinque anni da quando que-


sto libro è stato pubblicato per la prima volta. Molte cose
sono avvenute in questo intervallo di tempo e credo che
una introduzione a un vecchio libro dovrebbe essere ag-
giornata. Ritengo che ciò si possa fare nel migliore dei
modi iniziando con un esame retrospettivo del libro. Nei
dieci anni di ricerche che gli ho dedicato, pensavo che il
suo compito fosse quello di difendere i cosiddetti primiti-
vi dall’accusa di possedere una logica o un modo di pen-
siero diversi. La prova dell’esistenza di una specifica men-
talità premoderna va desunta, a quanto pare, dal diverso
atteggiamento nei confronti della cattiva sorte. L ’uomo
moderno, secondo questa tesi, segue una linea di ragiona-
mento che risale dagli effetti alle cause materiali, mentre i
primitivi seguono un percorso che conduce dall’evento
negativo a esseri spirituali '. Sostenere esplicitamente che
il pensiero primitivo è in sé diverso comporta notevoli
difficoltà. Sotto sotto, però, un forte pregiudizio inespres-
so ci fa rimanere legati a questa posizione, fino a che al-
meno non si riesca a dimostrare che le utilizzazioni politi-
che dei pericoli naturali rappresentano una consuetudine
che noi moderni condividiamo con i primitivi.
In Purezza e pericolo si rivendica l’esistenza di un
comportamento razionale nei primitivi: si scopre che i ta-
bù non sono indecifrabili, ma rivelano la comprensibile
preoccupazione di proteggere la società da comportamen-
ti che potrebbero distruggerla. Quando i miscredenti ven-
gono accusati di guastare il tempo, di uccidere con i ful-
mini o di provocare tempeste marine, non è una pecca
del modo di ragionare dei primitivi quello che dovrebbe
interessarci, ma qualcosa che ha a che fare con l’attribu-

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Introduzione alla nuova edizione

zione della colpa. Con estremo rammarico terminai il li-


bro senza tracciare alcun legame fra un modello di pen-
siero basato sui tabù che usa i pericoli naturali per raffor-
zare i valori comunitari e il nostro approccio moderno.
La connessione è rimasta così incompiuta: i primitivi af-
frontano politicamente il pericolo per salvaguardare il lo-
ro patto costitutivo, mentre noi abbiamo sganciato il peri-
colo dalla politica e dall’ideologia e lo affrontiamo alla lu-
ce della scienza. Quali sono i motivi alla base di questa
differenza? Ho avanzato l’ipotesi che la loro struttura po-
litica sia molto più fragile della nostra, tanto da costrin-
gerli a ricorrere alla colpa e al tabù, e ho accennato alla
possibilità che la loro fragilità politica renda conto di
quella che apparentemente potrebbe sembrare una incri-
natura nelle loro facoltà raziocinanti. E trascorso ormai
del tempo e gli eventi hanno fatto sì che quel legame allo-
ra tanto difficile da individuare oggi sia facile da rivendi-
care. E interessante comunque riflettere sui motivi per cui
esso era inizialmente tanto sfuggente ed è tuttora respinto
con forza quando la tesi di Purezza e pericolo viene espo-
sta in relazione al rischio2.
Al Massachusetts Institute of Technology ho parlato
nel 1968 con un mio amico studioso di scienza politica
che era rimasto molto sorpreso per aver trovato sotto la
voce «Pollution», nella nuova Enciclopedia delle scienze
sociali, un mio saggio sulla contaminazione rituale3. Il
mio accurato aggiornamento de II ramo d’oro e di altri
fraintendimenti della magia e del tabù non lo avevano
aiutato molto, perché in quel momento l’interesse per i
fiumi e per la sopravvivenza della fauna e della flora ma-
rine era diventato una questione politica di primo piano
negli Stati Uniti e il mio amico voleva sapere che cosa
comportava l’inquinamento dei fiumi. Ebbi l’impressione
che avrebbe voluto lamentarsi con i curatori deH’Ewcz'c/o-
pedia per la loro scelta degli autori. Sia pure cortesemen-
te, il politologo espresse chiaramente l’idea che il mio
modo di affrontare il tema della contaminazione non ave-
va alcun rapporto con gli scottanti temi dell’attualità.
Avevo sempre pensato che ci fosse un legame fra l’inqui-

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Introduzione alla nuova edizione

namento dei fiumi e il tabù, ma non sapevo come spiegar-


lo. Per molto tempo la connessione sembrava determinata
soltanto da una coincidenza linguistica, come se in inglese
un’unica parola - pollution - avesse finito con l’esprimere
due concetti diversi, l’inquinamento dell’ambiente e la
contaminazione religiosa. Ma ora le lancette dell’orologio
sono tornate al punto di partenza: il tabù è di nuovo atti-
nente al rischio e una sola parola - pollution - serve ad
esprimere entrambi. E questo l’aspetto paradossale che
vorrei mettere a fuoco nella mia introduzione a questa
nuova edizione di Purezza e pericolo.
Il tema del libro è che in ogni luogo e in ogni tempo
l’universo viene interpretato in termini di etica e di politi-
ca. Ai disastri che inquinano l’aria e la terra e avvelenano
le acque vengono generalmente attribuite valenze politi-
che: a qualcuno che è già poco popolare verrà data la col-
pa di ciò che è successo. Questa teoria giudiziaria del pe-
ricolo deriva dall’antropologia degli anni quaranta, anni in
cui ho studiato a Oxford 4, e tuttora è talmente diffusa
che quando mi capita di scriverne i miei colleghi si la-
mentano nelle loro recensioni che essa è fin troppo nota;
con maggiore sicurezza passo quindi a svilupparne le im-
plicazioni. I problemi nascono dalle diverse spiegazioni
che vengono date alla cattiva sorte 5. Poniamo il caso di
una donna che muore; le persone colpite dal lutto si chie-
dono: «Perché è morta?». Dopo aver osservato un certo
numero di casi, l’antropologo si accorge che per ogni dis-
grazia esiste un repertorio fisso di cause possibili, fra le
quali viene scelta una spiegazione plausibile, e un reperto-
rio fisso di azioni che seguono obbligatoriamente la scelta.
Le comunità tendono a essere organizzate secondo l’una
o l’altra forma di spiegazione che prevale 6.
Un tipo di spiegazione è moralistico: la donna è morta
perché ha offeso gli antenati, perché ha infranto un tabù,
perché ha peccato. L ’azione conseguente a una spiegazio-
ne di questo tipo è espiatrice e richiede alcuni rituali pu-
rificatori. Per evitare una sorte simile a quella della donna
morta, la comunità viene esortata a obbedire alle leggi. Se
la forma di spiegazione che prevale è questa, la comunità

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Introduziom’ alla nuova edizione

che l’accetta è organizzata in modo molto diverso da


quella che non fa ricadere la colpa di quello che è acca-
duto sulla vittima. Un modo alternativo di spiegare la cat-
tiva sorte è attribuirla all’opera di singoli avversari. La
morale di questa spiegazione è che per sopravvivere si de-
ve essere più scaltri dei propri rivali: la morte della donna
viene quindi attribuita al fatto che essa non è stata abba-
stanza veloce o intelligente nella cura dei suoi interessi; la
magia rivale è stata più forte della sua. Le persone che
l’hanno uccisa non vengono affatto biasimate quando ven-
gono scoperte, perché anche se le morti vengono politi-
cizzate, non destano alcuna preoccupazione di carattere
morale: ci si aspetta che tutti si comportino allo stesso
modo. Le decisioni post mortem istituiscono una comuni-
tà nella quale ogni membro si aspetta di essere assalito
dai propri avversari e nella quale si viene spinti all’azione
quanto meno da una legge di compensazione ma più pro-
babilmente dalla vendetta: una comunità, quindi, organiz-
zata sulla competizione individuale in cui si ribatte colpo
su colpo.
Ancora diversa nel suo impatto sociale è la spiegazio-
ne della cattiva sorte che fa ricadere la responsabilità su
un nemico esterno al gruppo. In questo caso si afferma
che la donna è morta perché un nemico della comunità
l’ha presa, non necessariamente qualcuno che proviene
realmente dall’esterno, ma un traditore sleale che si na-
sconde aH’interno della comunità. L ’azione che segue la
diagnosi consiste nell’individuare il nemico, infliggergli
una punizione a nome dell’intera comunità e pretendere
un risarcimento.
Questi tre tipi di attribuzione della colpa influenzano
il sistema giudiziario. O meglio, l’influenza è reciproca:
sia la colpa che il sistema giudiziario sono sintomi del
modo in cui la società è organizzata. Esistono comunità,
che a stento si possono definire tali, per nulla organizzate:
in esse la colpa si attribuisce in ogni direzione, in modo
imprevedibile. La causa della cattiva sorte può essere ogni
cosa: dischi volanti, invasori marziani, stregoneria, carenze
morali o tecniche; se non esiste alcun criterio standard

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Introduzione alla nuova edizione

per formulare la diagnosi, ne consegue che non verrà ri-


chiesta alcuna terapia standard. In breve, maggiore è la
solidarietà in una comunità, più prontamente i disastri na-
turali verranno codificati come segni di un comportamen-
to colpevole. Ogni morte e gran parte delle malattie da-
ranno l’opportunità di attribuire una colpa. Il pericolo
viene definito in modo tale da proteggere il bene pubbli-
co, mentre l’incidenza della colpa è un sottoprodotto di
meccanismi atti a persuadere i membri del gruppo a con-
tribuire al mantenimento del bene pubblico. La contami-
nazione, vista da questa prospettiva, è una potente risorsa
giudiziaria. Non c’è niente che possa stare alla pari con
essa per convincere i membri della comunità dei loro do-
veri. Un pericolo comune dà loro un pretesto, la minaccia
di una contaminazione per l’intera comunità costituisce
un’arma per la coercizione reciproca 1. Chi può resistere a
usarla se ha a cuore la sopravvivenza della propria comu-
nità?
In questa ottica, quell’insolita comunità che non getta
la colpa su nessuno può sopravvivere unicamente grazie a
un programma eroico di riconciliazione. Una comunità di
questo tipo, che evita di attribuire delle colpe, era a mio
parere una società impossibile da concepire. Ero convinta
che il processo costitutivo di una comunità creasse neces-
sariamente fra i suoi membri un rapporto di critica reci-
proca e si servisse della cattiva sorte per suscitare la soli-
darietà 8. Ero scettica sul fatto che una comunità si potes-
se fondare sul rifiuto assoluto di attribuire la colpa a
qualcuno, vittima, rivale o nemico che fosse. Quando mi
venivano portate delle prove, le guardavo con sospetto,
aspettandomi di trovare poco attendibile la raccolta dei
dati o incline a ritenere che la ricerca non fosse stata suf-
ficientemente attenta al conflitto. Ero perfino disposta a
credere che la dimensione fosse un fattore di rilievo, che
cioè solo nelle comunità più piccole si potesse raggiunge-
re questo risultato favorevole. Ora ho imparato ad oppor-
mi con forza alle teorie secondo le quali l’amore per la
pace è possibile in una comunità solo se questa è di pic-
cole dimensioni '. Michael Thompson mi ha persuaso del

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Introduzione alla nuova edizione

contrario nei suoi resoconti sulle comunità degli Sherpa


buddisti in N epal10 ed anche con gli sviluppi della teoria
culturale da lui elaborata per prendere in considerazione
una gamma più vasta di atteggiamenti nei confronti del
pericolo e della colpa Tale teoria culturale non avanza
l’ipotesi che le persone che formano una comunità scelga-
no in modo consapevole l’uno o l’altro modello di attri-
buzione della colpa. Essa sostiene invece che i pericoli
che minacciano la vita e i membri della comunità siano
automaticamente inglobati nel patto costitutivo e si ade-
guino a modelli ricorrenti a seconda del patto fondativo
in vigore.
Nella seconda metà degli anni cinquanta, quando ini-
ziai le mie ricerche per Purezza e pericolo, lo stato d’ani-
mo generale nei confronti dell’energia nucleare era di
grande eccitazione, nella certezza che essa avrebbe aperto
un’era di stabile prosperità per il mondo. Era per questo
motivo che si poteva accettare l’idea che solo le popola-
zioni studiate dagli antropologi usassero il pericolo a fini
giudiziari e che la differenza fra noi e loro sembrava esse-
re solo un problema cognitivo, che riguardava l’esatta
identificazione delle cause reali degli eventi. Si riteneva in
qualche modo che la scienza avesse davvero cambiato le
cose. Si riteneva che noi avessimo la capacità di ricono-
scere i pericoli reali, le cui cause venivano identificate
obiettivamente, sostenuti dall’autorità di teorie ed esperi-
menti validi. Il caso, il mistero e la malvagità erano in ag-
guato in angoli angusti, non ancora rivendicati dalla scien-
za, ma in generale, grazie alla nostra accurata conoscenza
del mondo e alla nostra potente tecnologia, riuscivamo ad
attribuire la colpa di un evento direttamente alle sue cau-
se reali invece di essere deviati verso quella funzione di
sostegno del patto costitutivo che la colpa svolgeva altro-
ve. A noi, come era intrinseco in questo modo di ragiona-
re, era accessibile quella che si poteva definire l’«attribu-
zione reale della colpa». I fondamenti oggettivi dell’attri-
buzione reale della colpa erano garantiti dalla conoscenza
a tal punto che essa non poteva più cadere nelle sordide
reti dell’ideologia. Questo assunto non venne mai messo

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Introduzione alla nuova edizione

in discussione dai critici di Purezza e pericolo, che presu-


mibilmente la pensavano allo stesso modo.
Anche se avevo accettato che la differenza fra tabù e
valutazione del rischio fosse uno specifico problema di
conoscenza, esaminai con entusiasmo la letteratura di so-
ciologia della conoscenza degli anni cinquanta con qual-
che rara eccezione. Il mio scopo era quello di raccogliere
tutte le informazioni possibili sulla ricezione distorta dei
messaggi. Supponevo che ci fossero ancora casi residui di
natura politicizzata anche nella nostra moderna democra-
zia industriale. Mi interessava il modo in cui l’informazio-
ne lascia aperte delle possibilità di interpretazione al rice-
vente. Si trattava di un tema già popolare in psicologia.
Ero rimasta colpita dagli esperimenti di Frenkel Bruns-
wick sui racconti di storie in cui i segnali ideologici erano
mischiati: a volte, ad esempio, l’uomo nero compie azioni
buone, altre volte azioni malvagie. La studiosa aveva sco-
perto che i bambini non riuscivano a ricordare la storia a
meno che non avessero in precedenza ricondotto i ruoli a
parti accettabili 12. Il fraintendimento della prova costitui-
va un tema di rilievo nella sLoria della scienza, quando la
stessa prova veniva a volte usata a sostegno di teorie di-
scordi. Nella filosofia della scienza, nella psicologia della
percezione e nella teoria deH’informazione che stava allora
sbocciando, il controllo deH’interpretazione era un pro-
blema considerato importante. Nonostante tutto l’interes-
se del momento per la percezione, non ho trovato nulla
che mi spingesse a ipotizzare che l’attribuzione della col-
pa nella società moderna potesse essere analizzata con le
stesse categorie dell’attribuzione della colpa valide per
ogni altra comunità. Non si ponevano dubbi sul fatto che
sotto questo aspetto noi fossimo unici nella nostra diversi-
tà. È per questo motivo che le sezioni di Purezza e perico-
lo nelle quali faccio riferimento alla teoria della percezio-
ne presentano un legame decisamente tenue con il tema
principale. Sono lì per mostrare che ho cercato almeno di
controllare.
Al tempo stesso, gli psicologi stavano elaborando una
teoria dell’attribuzione per studiare come gli individui di-

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Introduzione alla nuova edizione

stribuiscono le colpe. Quasi tutte le opere sulla percezio-


ne da me lette in quel periodo erano centrate sul proces-
so cognitivo individuale. Con un piccolo spostamento
d’attenzione verso la dimensione istituzionale, avremmo
potuto avere un’apertura in direzione di esperimenti che
ponessero chiaramente gli individui in un contesto cultu-
rale. Una ricerca indirizzata in tal senso avrebbe potuto
dimostrare che noi moderni abbiamo esattamente le stesse
motivazioni dei primitivi per interpretare politicamente il
pericolo. Negli anni sessanta i tempi erano ormai maturi
per un mutamento radicale nella nostra comprensione dei
processi cognitivi, così da conferire un giusto riconosci-
mento alla componente sociale nella formazione dell’uo-
mo. L ’economia e la psicologia erano tenute in altissima
considerazione ed entrambe utilizzavano fondamental-
mente lo stesso modello cognitivo individuale. All’inizio
degli anni cinquanta, la teoria individualista era stata con-
sacrata dalla sua inclusione nella teoria dell’intelligenza ar-
tificiale Non c’era allora alcun modo di comprendere
come l’attribuzione della colpa fosse inserita nel processo
di costruzione del consenso in una comunità. Oggi però,
incoraggiati dal fatto che le loro posizioni si sono dimo-
strate errate, avanzerei l’ipotesi ancor più radicale che
non solo l’attribuzione della colpa ma ogni processo co-
gnitivo sia politicizzato.
Se ci volgiamo a guardare indietro, notiamo come la
situazione fosse decisamente ironica. Per quanto progres-
siste fossero le loro opinioni e per quanto radicali le loro
affiliazioni politiche, tutti coloro che avevano allora preso
posizione sul problema dell’arretratezza dei primitivi pro-
ponevano un modello di stagnazione mentale, come se i
primitivi fossero bloccati in modi di pensiero appropriati
al loro ambiente. Ma per discutere seriamente del pensie-
ro primitivo, avremmo dovuto in qualche modo sbloccare
la nostra stagnazione. Uno degli ostacoli a un fruttuoso
scambio di idee sull’argomento è stato lo scarso interesse
a gettare un ponte fra il Ramo d’oro e la tecnologia mo-
derna.
Per spiegare la differenza fra l’atteggiamento dei pri-

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Introduzione alla nuova edizione

mitivi verso la contaminazione e il nostro, fra la nostra


civiltà e la loro, la nozione dominante era quella secondo
la quale i progressi occidentali nel campo della conoscen-
za avevano dissolto un legame che un tempo collegava
ovunque morale e pericolo: presso di noi la morale viene
semplicemente sanzionata con la persuasione morale,
mentre il pericolo viene controllato dalla tecnologia; la
precedente mancanza di tecnologia faceva sì che le accuse
più insensate di colpa venissero scagliate in ogni direzione
e che si dovessero inventare strani agenti spirituali per na-
scondere la mancanza di plausibilità. La magia e il tabù
nascevano dall’ignoranza. Un certo compiacimento verso
questi assunti costituiva la nostra eredità della filosofia he-
geliana del self-realization (autorealizzazione) dello Spiri-
to, giunta fino ai sociologi attraverso un retaggio hegelia-
no filtrato da Max Weber. Si riteneva che una maggiore
conoscenza di sé e una consapevolezza più piena proce-
dessero di pari passo con una crescita del controllo tecno-
logico. La concezione materialistica della storia era ancora
dominante nel 1968, quando scrivevo la mia voce sulla
contaminazione per l’Enciclopedia delle scienze sociali.
Quando ammettevo che una conoscenza superiore e
migliori comunicazioni avevano scavato un abisso fra noi
e le società tribali, mi trovavo in ottima compagnia. In
modo implicito, molti miei colleghi aderiscono ancora a
questa sorta di teoria toynbeeiana del progresso morale.
(Il pregiudizio etnico accademico non può spingersi oltre,
ma ho scoperto che la condanna del pregiudizio non atti-
ra consensi alla mia tesi. Invece di coltivare la tolleranza,
gli studiosi del postmoderno tracciano confini immutabili
fra periodi storici, rendendo illegittime le comparazioni
che a me tuttora interessano.)
Poi, tutt’a un tratto, la stessa tecnologia si è trovata
attaccata in quanto fonte di pericolo. Tutto è cambiato. È
diventato evidente che l’antico legame fra pericolo e mo-
rale non derivava dalla scarsa conoscenza. La conoscenza
è sempre scarsa. L ’ambiguità è sempre in agguato. Se si
vuole attribuire una colpa, ci sono sempre delle scappa-
toie che permettono di interpretare i dati come si vuole.

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Introduzione alla nuova edizione

La scienza non ha prodotto una categoria di persone che


non ambisce a dominare gli altri. L ’industrializzazione
non ha prodotto una razza di esseri umani restii a usare il
pericolo al fine di difendere il bene pubblico 14. La diffe-
renza non sta nella qualità della conoscenza ma nel tipo
di comunità che vogliamo creare, o piuttosto della comu-
nità che siamo in grado di creare, o ancor meglio di quel-
la comunità che la tecnologia ci rende possibile creare.
Quando nel 1977 mi trasferii per lavoro negli Stati
Uniti, sostenevo ancora, con disagio e per mancanza di
un’alternativa, opinioni influenzate dal pregiudizio etnico.
In effetti, si trattava di una concezione così insoddisfacen-
te che, sebbene l’avessi analizzata per una ventina di anni,
ero infine passata ad altri problemi 15. Le utilizzazioni po-
litiche del pericolo erano passate in secondo piano nella
mia ricerca. Si era ormai istituita una nuova specializza-
zione di studiosi del rischio, in risposta al bisogno che al-
lora si avvertiva di affrontare l’aperta politicizzazione del
rischio. La questione della percezione pubblica del peri-
colo colpiva ormai la consapevolezza di tutti. Gli usi giu-
diziari del rischio si potevano riscontrare ovunque. Da
una parte si aveva un aperto attacco alPindustria incuran-
te dei danni arrecati ai lavoratori, e un attacco al governo
per non aver tenuto a freno l’industria, come pure una
difesa delle risorse naturali, dell’ambiente e dei diritti
umani. Dall’altra, gli accusati rendevano noti i loro calcoli
sul rischio al fine di placare la collera generale e dimo-
strare che l’opinione pubblica stava esagerando e non
comprendeva quali rischi si correvano giornalmente attra-
versando la strada, bevendo una bottiglia di coca cola o
semplicemente standosene seduti al sole. Il rischio diven-
ne un settore accademico in espansione e lo è tuttora. Mi
sentivo molto inquieta. L ’argomento sul quale per anni
avevo cercato invano di interessare il pubblico si era fatto
d’un tratto scottante, troppo scottante. Molte persone che
si occupavano di antropologia non volevano essere coin-
volte in questioni politiche; se fosse stato quello il loro
interesse principale, avrebbero seguito con ogni probabili-
tà delle carriere diverse.

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Introduzione alla nuova edizione

Agitare il Ramo d’oro non aveva senso e non sapevo


assolutamente come dire qualcosa che potesse risultare
utile. Aaron Wildavsky, dopo aver abbandonato la carica
di presidente della Russell Sage Foundation, si prendeva
bonariamente gioco di me: tutta questa antropologia è
soltanto roba da museo? A che servono tutte queste teo-
rie sulla contaminazione? Sono valide solo per le tribù?
L ’antropologia funziona per la storia ma non per la socie-
tà contemporanea? Aveva toccato il punto dolente: il
comportamento contaminante è davvero diverso nella so-
cietà tribale? Siamo davvero superiori a cose di questo ge-
nere? A poco a poco Wildavsky mi ha aiutato a elaborare
un concetto più astratto che abbraccia sia noi moderni
che loro, le tribù, in un’unica teoria giudiziaria del ri-
schio 16. Era nostra speranza che essa sarebbe stata accol-
ta con favore, come un raggio di luce in una zona nebulo-
sa. Ma se pensate che gli studiosi del rischio si rallegrino
nel vedere un contributo radicalmente nuovo, vi sbagliate
di grosso l7. Queste opinioni sulla purezza e il pericolo
nell’era moderna sono state duramente contestate, come
conseguenza della preoccupazione per la purezza della
propria professione e per il pericolo di uscire dal paradig-
ma dominante della scelta razionale individuale.
L ’analisi contemporanea del rischio prese il via met-
tendone al bando ogni uso giudiziario. Quando ho cerca-
to di discutere con affermati analisti del rischio, ho appre-
so in breve che mettere in evidenza queste utilizzazioni
ambigue del rischio era perverso, un modo sporco di par-
lare di un argomento scientifico pulito. Pur ammettendo
che il sudiciume e il calore della politica sono presenti
nell’argomento del rischio, essi diligentemente li accanto-
nano. Il loro obiettivo professionale è di cogliere l’essenza
profonda della percezione del rischio prima che venga
contaminata dagli interessi e dall’ideologia. Gli analisti del
rischio hanno un’ottima ragione per ricercare l’obiettivi-
tà. Come tutti i professionisti, giustamente e opportuna-
mente, non hanno la minima voglia di essere accusati di
tendenziosità politica: è un aspetto importante per la loro
clientela. Per evitare accuse di questo genere, essi prescin-

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Introduzione alla nuova edizione

dono completamente dalla politica e dalla morale. Veder-


li studiare la propensione al rischio o l’avversione ad esso
in condizioni pure e immaginarie è demoralizzante per
chiunque sia attratto dall’aspetto «sporco» dell’argomen-
to. Ancor più frustrante per un antropologo della mia ge-
nerazione è rilevare come, quando il pericolo emerge infi-
ne nelle scienze sociali come oggetto di studio a pieno ti-
tolo, esso venga definito in modo da escludere l’importan-
za delle differenze culturali nella distribuzione della colpa.
La ricerca sul rischio ha risolto molti enigmi e altret-
tanti paradossi 1S. Ha scoperto che «il pubblico» non vede
certamente i rischi allo stesso modo in cui li vedono gli
esperti. Il divario fra l’opinione dei profani e quella degli
esperti ha creato un sottosettore completamente nuovo
della psicologia del rischio, una nuova branca specializza-
ta per l’educazione degli adulti, una nuova sottodisciplina
per far conoscere i rischi ed etichettarli e un’industria ve-
ra e propria per catalogarli. Ma il comportamento scon-
certante del pubblico, che rifiuta di stipulare assicurazioni
contro alluvioni o terremoti 19, che continua ad attraversa-
re strade pericolose20, a guidare automezzi inadatti per la
circolazione, ad acquistare per le proprie case oggetti che
possono provocare incidenti e a non dare ascolto alle
campagne contro i pericoli, continua ad essere quello che
è sempre stato.
La singola causa che spiega perché l’argomento conti-
nua a essere immerso nella confusione più totale è l’ade-
sione degli studiosi all’individualismo metodologico, che
consegue dal modo in cui gli stessi studiosi concepiscono
il loro bisogno di obiettività. Partire dall’individuale e re-
stare attaccati ad esso a oltranza è la via d’uscita che han-
no scelto per raggiungere l’obiettività. Senza creare imba-
razzo o disordine, il soggetto dell’esperimento di labora-
torio deve dimenticare le proprie esperienze personali e
cercare di manifestare i suoi processi cognitivi calcolando
il numero di palline presenti in un contenitore o un altro
dei tanti ben congegnati problemi che si trovano nei que-
stionari. Costui (o costei, dato che i soggetti usati nell’O -

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Introduzione alla nuova edizione

regon appartenevano spesso alla League of Women Vo-


ters) dovrebbe affrontare problemi che non suscitano al-
cun coinvolgimento emotivo e politico. Tutta la loro ca-
pacità di indignazione morale dovrebbe restare fuori dalla
porta del laboratorio. L ’assenza di motivazioni da parte
dei soggetti uguaglia la purezza delle motivazioni del ri-
cercatore. Questo però non garantisce l’obiettività. Non è
infatti questo il modo in cui vengono prese decisioni ri-
schiose, neppure quelle di minore portata ma tanto meno
quelle più importanti. La rabbia, la speranza e la paura
costituiscono parte integrante delle situazioni in cui il ri-
schio è maggiore. Nessuno prende una decisione che po-
trebbe comportare delle perdite senza consultare prima
vicini, familiari, compagni di lavoro. Sono questi i gruppi
di sostegno che saranno d’aiuto nel caso in cui le cose
andranno male. Essi però tendono a dare consigli con-
traddittori. Sarebbe interessante determinare nell’ambito
degli studi sul rischio il modo in cui si raggiunge il con-
senso. Concentrare l’attenzione sui processi cognitivi indi-
viduali elude la questione. Gli studiosi della percezione
del pericolo non ci dicono praticamente niente sulla inter-
soggettività, sulla formazione del consenso o sulle influen-
ze sociali nelle decisioni. Quando si avventurano in questi
campi, lo fanno senza il beneficio della considerevole raf-
finatezza oggi raggiunta nella più sociale delle scienze so-
ciali21.
Forse a causa dello stesso orientamento verso i pro-
cessi cognitivi individuali, quando l’analisi del rischio vie-
ne applicata alle istituzioni essa risulta carente nella tratta-
zione di ciò che viene definito «fattore umano». Da una
parte tutti sono concordi nell’affermare che il fattore
umano è di importanza fondamentale, dall’altra lo si ritie-
ne difficile da valutare. Forse ciò è legato alla definizione
che gli è stata data e che lo fa corrispondere al punto nel
quale l’affidabilità di una macchina è in balìa della errati-
ca vita emotiva dell’operatore, in altre parole, un concetto
completamente inadeguato del fattore umano. Per lo psi-
cologo, il fattore umano è una singola persona. Per l’an-

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Introduzione alla nuova edizione

tropologo, il fattore umano potrebbe indicare la struttura


generale dell’autorità nell’istituzione. Non è difficile stabi-
lire a cosa essa corrisponda: esistono sintomi, indizi, linee
di comunicazione, incentivi e sanzioni che si possono esa-
minare in modo del tutto sistematico in relazione alla per-
cezione del rischio. Le istituzioni si potrebbero classifica-
re in modo del tutto obiettivo come sistemi per garantire
la sicurezza. L ’analisi di Charles Perrow dei «normali in-
cidenti» è un passo in questa direzione ” , anche se egli
non si concentra sul «fattore umano» né a livello indivi-
duale né a livello dell’autorità istituzionale, ma piuttosto
su una tipologia industriale. Due istituzioni nello stesso
settore industriale, che si occupano degli stessi materiali e
che hanno un identico mercato, possono seguire dei mo-
delli di attribuzione della colpa completamente diversi,
come nel caso di due università, di due case editrici, di
due cantieri navali, di due porti. Anche se la ricerca so-
ciologica sulle organizzazioni è altamente sofisticata, essa
non viene generalmente utilizzata dagli studiosi del ri-
schio, ancora una volta a causa del loro atteggiamento di
difesa della loro obiettività.
Gli antropologi in genere concordano sul fatto che i
pericoli fisici, i pericoli per i bambini e quelli per la natu-
ra sono utilizzabili come altrettante armi da usare nella
lotta per il dominio ideologico. Non c’è niente di nuovo
in questa interpretazione, che è alla base dell’analisi criti-
ca di Michel Foucault sul «discorso» che impone la sua
disciplina al corpo. Sarebbe stranamente ingenuo oggi im-
maginare una società nella quale il discorso sul rischio
non sia politicizzato. In una società del genere sarebbe
necessariamente assente un libero dibattito sui valori. E s-
sa dovrebbe essere priva di un centro di discussione capa-
ce di generare un’ideologia condivisa. In una società del
genere i singoli membri incarnerebbero quell’ideale della
persona tratteggiata nella teoria psicologica della percezio-
ne del rischio. Per fortuna, una persona del genere è del
tutto irreale.
Quando esclude la cultura dalla sua analisi, il ben in-

20
Introduzione alla nuova edizione

tenzionato studioso del rischio si lega da solo le mani.


Vuole essere libero dai pregiudizi, ma preferisce fingere
che i pregiudizi non siano importanti piuttosto che spor-
carsi le mani cercando di classificare i tipi di pregiudizio.
Affermando che l’attribuzione secondo categorie standard
della colpa non ha niente a che vedere con la percezione
del pericolo, egli non ha alcun incentivo a superare i pro-
pri pregiudizi, né gli strumenti concettuali adeguati per
farlo. Egli in questo modo ha esposto la sua ricerca al
pieno impatto del suo pregiudizio specifico. Per non esse-
re accusato di razzismo, per non voler correre il rischio di
insinuare una superiorità culturale o essere tacciato di
simpatie conservatrici o progressiste, egli innocentemente
asserisce l’egemonia della sua stessa cultura. Ma non è più
tempo di innocenza. Il suo metodo si basa sull’assunto
che tutti gli esseri umani hanno quelle stesse reazioni e
preferenze che sono state santificate dalla filosofia utilita-
ristica. Al posto dell’obiettività, troviamo la difesa a ol-
tranza di un’ideologia. Per quanto ci riteniamo degli esse-
ri essenzialmente sociali, a sangue caldo e passionali, ve-
niamo presentati in questo contesto come calcolatori edo-
nistici che cercano freddamente di perseguire i loro inte-
ressi privati. Ci viene detto che siamo fondamentalmente
avversi al rischio, ma purtroppo anche talmente incapaci
di gestire le informazioni ricevute da assume-
re inintenzionalmente enormi rischi: fondamentalmente,
quindi, siamo degli sciocchi. L ’accusa di irrazionalità è ri-
caduta su di noi. Personalmente dubito che debbano es-
sere gli psicologi professionisti del rischio a spiegarci ciò
che siamo. Non dubito che il pericolo sia presente accan-
to a noi, e del tutto reale ma, per amor di Dio, come ci è
stato possibile sopravvivere tanto tempo su questo pianeta
se il nostro pensiero è essenzialmente imperfetto? «Purez-
za» e «pericolo» sono temi concentrati, scagliati con ardo-
re contro gli avversari in tutti i dialoghi di ogni comunità
sul proprio patto costitutivo.
M. D.

21
Introduzione alla nuova edizione

Note
1 Lucien Lévy-Bruhl, Les fonctions mentales dans les sociétés infé-
rieures, Paris, 1910.
2 Mary Douglas e Aaron Wildavsky, Risk and Culture, Berkeley,
California University Press, 1982.
3 Mary Douglas, Pollution, in International Encyclopedia o f thè So-
cial Sciences, Chicago, Encyclopaedia Britannica Educational Corp.,
1968.
4 Mary Douglas, Edward Evans-Pritchard, London, Fontana-Col-
lins, 1980.
5 Edward Evans-Pritchard, Witchcraft, Oracles and Magic among
thè Azande, Oxford, Clarendon Press, 1936; trad. it. Stregoneria, oraco-
li e magia tra gli Azande, Milano, Angeli, 1976.
6 Mary Douglas, Naturai Symbols, Explorations in Cosmologo,
Harmondsworth, Penguin, 1970; trad. it. Simboli naturali. Sistema co-
smologico e struttura sociale, Torino, Einaudi, 1979.
7 Mary Douglas e Marcel Calvez, The Self as Risk Taker: a Cultu-
ral Theory o f Contagion in Relation to AIDS, in «The Sociologica! Re-
view», XXXVIII (1990), 3, pp. 445-66.
8 Questa tesi costituisce un’applicazione agli usi politici della cat-
tiva sorte della teoria di Durkheim relativa agli usi politici del crimine.
Cfr. Emile Durkheim, De la division du travail social, Paris, Presses
Universitaires de France, 1893, pp. 74-76; trad. it. La divisione del la-
voro sociale, Milano, Edizioni di Comunità, 1977’ .
9 Mary Douglas, How Institutions Think , Syracuse, Syracuse Uni-
versity Press, 1987; trad. it. Come pensano le istituzioni, Bologna, Il
Mulino, 1990.
10 Michael Thompson, The Problem o f thè Cantre: an Autono-
mous Cosmology, in Mary Douglas, a cura di, Essays in thè Sociology o f
Perception, London, Methuen, 1982, pp. 302-28.
11 Michael Thompson e Michiel Schwarz, Divided We Stand,
London, Harvester Press, 1990.
12 Else Frenkel Brunswick, lntolerance oj Ambiguity as an Emo-
tional and Perceptual Personality Variable, in «Journal of Personality»,
XVIII (1949), pp. 108-43.
13 Mary Douglas, Come pensano le istituzioni, cit.
14 Mary Douglas e Aaron Wildawsky, Risk and Culture, cit.
15 Mary Douglas e Baron Isherwood, The World o f Goods, New
York, Basic Books, 1979; trad. it. Il mondo delle cose. Oggetti, valori,
consumo, Bologna, Il Mulino, 1984.
16 Mary Douglas e Aaron Wildavsky, Risk and Culture, cit.
17 Michael Thompson e Aaron Wildavsky, A Proposai to Create a
Cultural Theory o f Risk, in Howard Kunreuther e Eryl V. Ley, a cura

22
Introduzione alla nuova edizione

di, The Risk Analysis Controveny: An Institutional Perspective, Berlin,


Springer-Verlag, 1982, pp. 146-61; Michael Thompson, Post-script: A
Cultural Basis fo r Comparison, in Howard Kunreuther e Joanne Linne-
rooth, a cura di, Risk Analysis and Decision Processesi The Siting o f
Liquefied Energy Gas Facilities in Four Countries, Berlin, Springer-Ver-
lag, 1983.
18 Mary Douglas, Risk Acceptahility According to Social Sciences,
New York, Russell Sage - Routledge, 1986; trad. it. Come percepiamo il
pericolo , Milano, Feltrinelli, 1991.
19 Howard Kunreuther, a cura di, Disaster Insurance Protection,
Public Policy Lessons, New York, Wiley-Interscience, 1978.
20 John Adams, Risk and Freedom, The Record o f Road Safety Re-
gulation, New York, Transport Publishing Projects, 1985.
21 Cfr. l’introduzione a Come percepiamo il pericolo , cit.
22 Charles Perrow, Normal Accidents: Living with High-Risk Tech-
nologies, New York, Basic Books, 1984.
Purezza e pericolo
Prefazione

La prima volta che sentii parlare di comportamento


relativo alla contaminazione fu per merito di Srinivas e di
Franz Steiner: ciascuno dei due, infatti, l’uno come bra-
mino, il secondo come ebreo, cercavano nella loro vita
quotidiana di risolvere dei problemi inerenti alla pulizia
intesa come rito. Sono grata a queste persone per avere
risvegliato in me l’attenzione verso i gesti di separazione,
di classificazione e di pulizia. In seguito mi ritrovai alle
prese con una ricerca sul campo nel Congo, in un am-
biente culturale estremamente attento alla contaminazio-
ne, e scoprii in me stessa un pregiudizio contro le spiega-
zioni frammentarie. Consideravo frammentarie tutte quel-
le spiegazioni della contaminazione rituale essenzialmente
limitate al tipo di sporco e al tipo del suo contesto. Il mio
maggior debito di riconoscenza va appunto alla fonte di
questo pregiudizio che mi costringeva a cercare un ap-
proccio sistematico. Nessuna particolare serie di simboli
di classificazione si può spiegare isolatamente; tuttavia si
può sperare di comprenderne il senso mettendola in rela-
zione con la struttura globale delle classificazioni della
cultura in questione.
L ’approccio strutturale era già ampiamente diffuso fin
dai primi decenni del secolo, soprattutto grazie all’in-
fluenza della psicologia della Gestalt. Fu solo con l’analisi
condotta da Evans-Pritchard sul sistema politico dei
Nuer 1 che ne fui direttamente coinvolta.
Il significato che questo libro riveste nel campo del-
l’antropologia è simile all’invenzione dello chassis senza
telaio nella storia della progettazione automobilistica.
Quando lo chassis e la carrozzeria dell’automobile veniva-
no progettati separatamente, venivano tenuti assieme da
un telaio metallico centrale. Allo stesso modo la teoria

27
l ’njazione

politica era solita considerare gli organi del governo cen-


trale come il supporto dell’analisi sociale: le istituzioni so-
ciali e politiche si potevano considerare separatamente.
Gli antropologi si accontentavano di descrivere i sistemi
politici primitivi sulla traccia di un elenco di titoli ufficiali
e di assemblee; dove non era possibile accertare la pre-
senza di un governo centrale, scarso rilievo veniva attri-
buito all’analisi politica. Nel 1930 i progettisti di automo-
bili si accorsero che si poteva eliminare il telaio metallico
considerando l’intera macchina come una singola unità.
Le sollecitazioni e le spinte contenute a suo tempo dal
telaio potevano ora distribuirsi nel complesso della mac-
china stessa. All’incirca nella stessa epoca, Evans-Prit-
chard scoprì che si poteva condurre l’analisi politica di un
sistema anche quando non fosse presente un organo di
governo centrale e il peso dell’autorità e delle tensioni po-
litiche fosse distribuito nell’intera struttura del complesso
politico. Così l’antropologia respirava l’aria dell’approccio
strutturale ancor prima che Lévi-Strauss fosse spinto dalla
linguistica strutturale ad applicarla ai legami del sangue e
alla mitologia. Ne segue che oggigiorno chiunque si acco-
sti ai rituali di contaminazione dovrebbe cercare di inten-
dere le idee di purezza di un popolo come se fossero par-
te di un insieme più vasto.
La mia seconda fonte di ispirazione l’ho trovata in mio
marito. In fatto di pulizia la sua soglia di tolleranza è tanto
più bassa della mia che nessuno più di lui mi ha costretto a
prendere posizione sulla relatività dello sporco.
Ho discusso i capitoli di questo libro con molte perso-
ne a cui sono grata per le loro critiche: in modo partico-
lare la Bellarmine Society del Heythrop College, Robin
Horton, padre Louis de Sousberghe, Shifra Strizower, Ce-
cily de Monchaux, V.W. Turner e David Pole. Alcuni di
loro sono stati tanto gentili da leggere e commentare la
prima stesura di alcuni capitoli, e precisamente: G.A.
Welles per il I capitolo, Maurice Freedman per il IV ca-
pitolo, Edmund Leach, Ioan Lewis e Ernest Gellner per il
VI capitolo, Mervyn Meggit e James Woodburn per il IX
capitolo. Sono particolarmente grata a S. Stein, capo del

28
Prefazione

dipartimento di studi ebraici dell’University College, per


le pazienti correzioni da lui apportate alla prima stesura
del III capitolo. Mi sento inoltre molto riconoscente verso
Rodney Needham che mi ha fatto notare una lunga serie
di sviste nella precedente edizione, che spero siano ora
state corrette. Sono particolarmente grata a Daryl Forde
per le sue critiche e per l’incoraggiamento che mi ha dato
quando stendevo le prime versioni del libro.
Questo saggio rappresenta un punto di vista persona-
le, controverso e spesso prematuro. Spero che gli speciali-
sti dei quali ho invaso il campo perdonino lo sconfina-
mento dovuto al fatto che questo è uno di quei soggetti
cui hanno nociuto finora i limiti fin troppo stretti impo-
stigli da una singola disciplina.

Nota

1 E.E. Evans-Pritchard, The Nuer, Oxford, 1940; trad. it. Nuer,


Milano, Angeli, 19853.

29
Introduzione

Il secolo decimonono intrawide nelle religioni primiti-


ve due caratteristiche che le separavano in blocco dalle
grandi religioni di questa terra. La prima consisteva nel
fatto che esse erano ispirate dalla paura; l’altra che erano
inestricabilmente confuse con la contaminazione e l’igie-
ne. In quasi tutte le relazioni sulle religioni primitive di
missionari o di viaggiatori si narra della paura, dello spa-
vento o del terrore in cui vivono gli adepti. La fonte di
tutto ciò si fa risalire alla sensazione di orribili disastri
che assale chi inavvertitamente oltrepassa confini vietati o
vive una situazione impura. Ed il fatto che la paura inibi-
sca la ragione si può ritenere valido per le altre caratteri-
stiche del pensiero primitivo, particolarmente per l’idea di
contaminazione. Come afferma Ricoeur: « L ’impurità stes-
sa è appena una rappresentazione, e per di più confusa in
una paura specifica che blocca la riflessione. Con l’impu-
rità entriamo nel regno del Terrore»
Tuttavia gli antropologi che si sono addentrati più
profondamente nello studio di queste culture primitive
non hanno trovato molte tracce di paura. La ricerca di
Evans-Pritchard sulla stregoneria fu condotta presso la
popolazione che lo colpì come la più felice e la più serena
di tutto il Sudan, gli Zande. I sentimenti di uno Zande
che scopre di essere stato colpito da un maleficio non so-
no tanto di terrore quanto di profonda indignazione,
quella stessa che potrebbe provare uno di noi scoprendosi
vittima di un raggiro 2.
I Nuer, popolo profondamente religioso - ce lo confer-
mano i loro capi - considerano il loro Dio come un amico
di famiglia 3. Audrey Richards, quando assisteva ai riti di
iniziazione delle ragazze Bemba, fu colpito dalla noncuran-
za e dall’atteggiamento disinvolto delle partecipanti4. E si

31
Introduzione

potrebbero citare altri casi. Il nostro antropologo si aspetta


di assistere a rituali celebrati con una certa riverenza, quan-
to meno, e si ritrova nella condizione dell’agnostico visita-
tore di S. Pietro, che viene impressionato dal brusio irri-
spettoso degli adulti e dallo spettacolo dei bambini che
giocano con le monetine sul pavimento di pietra. In tal
modo la paura, nelle religioni primitive, assieme all’idea
che essa blocchi l’attività della mente, si rivela una guida
poco adatta alla comprensione di queste religioni.
Al contrario, l’igiene sembra un’ottima strada, sempre
che nel seguirla si conservi una certa consapevolezza. Co-
me ben sappiamo, lo sporco è innanzi tutto disordine.
Non esiste qualcosa come lo sporco in assoluto: esso
prende vita nell’ottica dell’osservatore. Se noi evitiamo lo
sporco ciò non vuol dire che lo facciamo per una vile
paura, meno che mai per timore o sacro terrore. Né le
idee che abbiamo sulla malattia rientrano nell’ambito del
nostro comportamento verso la pulizia o verso l’astensio-
ne dallo sporco. Lo sporco è incompatibile con bordine.
La sua eliminazione non è un atto negativo, ma è uno
sforzo messo in opera per organizzare l’ambiente.
Personalmente sono piuttosto tollerante nei confronti
del disordine. Ma mi ricorderò sempre del disagio prova-
to in una certa toilette che era tenuta particolarmente pu-
lita: non c’erano macchie di sporco o di unto. Essa era
stata ricavata in una vecchia casa sfruttando lo spazio ve-
nutosi a creare con il semplice espediente di mettere due
porte alle estremità di un corridoio che collegava due
rampe di scale. Se ne poteva osservare l’originaria siste-
mazione: l’incisione di un ritratto di Vinogradoff, i libri,
gli arnesi da giardino, la pedana per gli stivali di gomma.
Tutto ciò era normale in un corridoio, ma, in una stanza
da bagno, dava un senso di fastidio. Io, che raramente
sento il bisogno di sovrapporre un’idea alla realtà esterna,
cominciai come minimo a rendermi conto delle azioni de-
gli amici più schizzinosi. Nel dare la caccia allo sporco,
tappezzare di carta, decorare, rassettare non siamo spinti
dalla paura delle malattie, ma cerchiamo di riordinare in
maniera positiva il nostro ambiente, adattandolo ad un’i-

32
Introduzione

dea. In questo nostro evitare lo sporco non c’è paura o


irrazionalità: c’è un’azione creativa, uno sforzo messo in
opera per adeguare la forma alla funzione, per unificare
l’esperienza. Se questo è valido per il nostro separare, di-
pingere, purificare, alla stessa luce dovremmo interpretare
la purificazione dei primitivi.
In questo libro ho cercato di dimostrare che i riti del-
la purezza e dell’impurità creano l’unificazione dell’espe-
rienza. Ben lungi dal costituire delle aberrazioni del mo-
dello centrale religioso, essi rappresentano dei contributi
positivi all’espiazione. Per mezzo loro vengono elaborati e
resi pubblici dei modelli simbolici, nei quali sono posti in
relazione elementi disparati e esperienze disparate acqui-
stano significato.
Nella vita sociale le idee di contaminazione agiscono a
due livelli, uno ampiamente strumentale, l’altro di natura
espressiva. Al primo livello, quello più evidente, le perso-
ne cercano di influenzare il comportamento altrui. Le cre-
denze rafforzano le pressioni sociali: si fa ricorso a tutti i
poteri dell’universo quando si tratta di far rispettare gli
ultimi desideri di un vecchio agonizzante, la dignità di
una madre, i diritti dei deboli e degli innocenti. Il potere
politico viene tenuto di solito in maniera precaria e gli
amministratori primitivi non costituiscono un’eccezione a
questa regola. Così osserviamo che le loro legittime prete-
se sono sostenute dalla credenza in poteri straordinari che
emanerebbero dalle loro persone, dalle insegne dei loro
uffici o dalle parole che possono pronunciare. Analoga-
mente l’ordine ideale di una società viene garantito dai
pericoli che minacciano coloro che lo trasgrediscono.
Queste sensazioni di pericolo sono sia delle minacce che
si usano per costringere un’altra persona, sia dei pericoli
in cui si teme di incappare non appena si abbandona la
retta via. Esse rappresentano un violento linguaggio di
esortazione reciproca. A questo livello ci si richiama alle
leggi della natura per sanzionare il codice morale: questo
tipo di malattia viene causato dall’incesto, quest’altro dal-
l’adulterio; questa calamità naturale è effetto di malafede
politica, quest’altra è dovuta all’irreligiosità. L ’intero uni-

33
Introduzione

verso viene utilizzato dagli uomini per costringersi reci-


procamente ad essere buoni cittadini. Così osserviamo
che certe valutazioni morali sono tenute in gran conto e
certe regole sociali vengono stabilite dalle credenze nel
pericolo di contagio, come quando si pensa che lo sguar-
do o il contatto di un adultero sia foriero di disgrazia per
i suoi figli o per i vicini.
Non è difficile scoprire come le credenze nella conta-
minazione si possano usare in un dibattito di rivendica-
zioni e di controrivendicazioni di una posizione sociale.
Tuttavia se noi esaminiamo le credenze nella contamina-
zione, notiamo che il tipo di contatti che sono ritenuti
dannosi riveste anche un peso simbolico. Questo livello -
in cui le idee sulla contaminazione fanno riferimento alla
vita sociale - è di tipo più interessante. Io credo che alcu-
ne contaminazioni vengano usate come delle analogie per
esprimere un punto di vista generale sull’ordine sociale.
Per esempio vi sono delle credenze secondo le quali
ognuno dei due sessi reca danno all’altro con il contatto
delle secrezioni sessuali. Secondo altre è solo uno dei due
sessi che viene compromesso dal contatto con l’altro, di
solito quello maschile da quello femminile, ma talvolta
può accadere il contrario. Questi esempi di pericolo ses-
suale si possono interpretare come un’espressione di sim-
metria o di gerarchia. Non è affatto giustificabile interpre-
tarli come l’espressione di un vero tipo di rapporto tra i
sessi. Io penso che sia più corretto interpretare molte idee
sui pericoli derivanti dal sesso come simboli di una rela-
zione tra elementi della società, come immagini speculari
della gerarchia o della simmetria che viene applicata nel
sistema sociale globale. Ciò che abbiamo detto per la con-
taminazione legata al sesso vale anche per la contamina-
zione corporea. I due sessi possono servire come modello
di collaborazione e di distinzione tra le unità sociali. In
questo modo anche i processi di ingestione rispecchiereb-
bero l’assorbimento politico. Spesso gli orifizi corporei
sembrano rappresentare punti di entrata o di uscita per le
unità sociali, oppure la perfezione fisica può simboleggia-
re una ideale teocrazia.

34
introduzione

Ogni cultura primitiva costituisce un universo a sé


stante. Seguendo le indicazioni di Franz Steiner in Taboo,
ho cominciato con l’interpretare le norme dell’impurità in-
serendole nella complessa serie di pericoli possibili per
ognuno degli universi conosciuti; qualunque cosa possa
capitare ad un uomo sotto forma di disastro dovrebbe es-
sere catalogata secondo i princìpi che agiscono nell’uni-
verso della sua particolare cultura5. A scatenare i catacli-
smi possono essere le parole, i gesti, a volte le condizioni
fisiche. Vi sono pericoli gravi ed altri meno gravi: non
possiamo accingerci a esaminare le religioni primitive se
non conosciamo la gamma di poteri e di pericoli che esse
prendono in considerazione. La società primitiva è una
struttura che prende forza dal centro del suo universo.
Dai suoi punti di forza sprigionano poteri; poteri benigni
e poteri malefici per rintuzzare gli attacchi. Ma non esiste
una società immersa in un vacuimi libero e immutabile;
essa è soggetta alle pressioni esterne, vale a dire chi non è
con essa, parte di essa e soggetto alle sue leggi, è poten-
zialmente contro di essa. Nella descrizione di queste pres-
sioni sui confini esterni ammetto di aver presentato la so-
cietà con un’organizzazione più sistematica di quanto in
realtà non sia. Ma è appunto un’accentuata ipersistematiz-
zazione che ci aiuta ad interpretare le credenze in questio-
ne. Io credo infatti che le idee di separazione, purificazio-
ne, demarcazione e punizione delle trasgressioni svolgano
come funzione principale quella di sistematizzare un’espe-
rienza di per sé disordinata. E solamente esagerando la
differenza tra unito e separato, sopra e sotto, maschio e
femmina, con e contro, che si crea l’apparenza dell’ordine.
In questo senso non temo l’accusa di aver presentato una
immagine troppo rigida della struttura sociale.
Tuttavia per un altro verso non vorrei dare l’impressio-
ne che le culture primitive dove fioriscono queste idee di
influenza per contatto siano rigide, statiche e stagnanti.
Nessuno sa quanto siano vecchie le idee di puro e impuro
in una qualsiasi cultura prealfabetizzata: a chi ne fa parte
esse devono sembrare immutabili e senza età. Ma vi sono
tutte le ragioni per credere che esse siano sensibili al mu-

35
Introduzione

tamento. Si può pensare che lo stesso impulso di imporre


l’ordine, che ne sta all’origine, le cambi o le arricchisca di
continuo. Questo punto è molto importante. Infatti quan-
do dico che la reazione allo sporco è conseguente alle altre
reazioni all’ambiguità o all’anomalia, non sto riprendendo
in altra forma l’ipotesi della paura tipica del diciannovesi-
mo secolo. Le idee sulla contaminazione si possono far
risalire alla reazione all’anomalia; tuttavia esse rappresen-
tano qualcosa di più che l’irrequietezza di un ratto di labo-
ratorio che improvvisamente trova bloccato uno dei suoi
passaggi preferiti per uscire dal labirinto. Esse contano
ben di più che l’imbarazzo di uno spinarello che incontra
in un acquario un esemplare anomalo della sua specie. L ’i-
niziale riconoscimento deH’anomalia porta all’angoscia, e
di qui alla eliminazione o all’evitamento; fin qui niente da
dire. Ma dobbiamo cercare un principio organizzatore più
valido se vogliamo rendere giustizia alle elaborate cosmo-
logie che i simboli della contaminazione rivelano.
E ovvio che l’indigeno di una qualsiasi cultura pensi a
se stesso come a un essere che riceve passivamente le sue
idee di potere e di pericolo nell’universo e non tenga conto
di tutte le piccole modificazioni a cui possa aver personal-
mente contribuito. Non diversamente noi pensiamo a noi
stessi come individui passivamente ricettivi nei confronti
del nostro linguaggio nativo e decliniamo le nostre respon-
sabilità per i cambiamenti che lo stesso può eventualmente
subire nel corso della nostra esistenza. Lo stesso errore lo
compie l’antropologo se pensa che la cultura che sta stu-
diando costituisca un modello di valori da tempo stabiliz-
zato. In questo senso mi rifiuto assolutamente di credere
che il sorgere di idee riguardanti la purezza c l’influenza
per contatto implichi un atteggiamento mentale rigido o
istituzioni sociali rigide: semmai è vero il contrario.
Vi può essere l’impressione che, in una cultura in cui le
idee di contaminazione e di purificazione hanno favorito il
formarsi di una complessa organizzazione, l’individuo sia
vittima della morsa di ferree categorie di pensiero, pesante-
mente difese da norme di astensione e da punizioni. Può
sembrare impossibile che una tale persona possa scuotersi

36
Introduzione

di dosso le abitudini inveterate della sua cultura. Come


fare per trasformare i propri processi mentali e rendersi
conto dei propri limiti? E, anche ammesso che ciò sia pos-
sibile per lui, come si può paragonare la sua religione alle
grandi religioni di questo mondo?
Quanto più conosciamo delle religioni primitive, tanto
più appare evidente che nelle loro strutture simboliche vi è
uno spazio per la meditazione sui grandi misteri della reli-
gione e della filosofia. Riflettere sullo sporco comporta la
riflessione sul rapporto tra l’ordine e il disordine, l’essere e
il non essere, il formale e l’informale, la vita e la morte.
Dovunque le idee di sporco siano altamente strutturate, la
loro analisi dischiude un gioco su tali profondi temi. Ecco
perché la comprensione delle regole della purezza è una
vera e propria introduzione alla religione comparata. L’an-
titesi paolina tra sangue e acqua, natura e grazia, libertà e
necessità, oppure l’idea del Vecchio Testamento dell’origi-
ne di Dio può essere illuminata dalla interpretazione che i
Polinesiani o gli abitanti dell’Africa Centrale forniscono
dei temi che ne sono strettamente correlati.

Note

1 P. Ricoeur, Vimtude et cnlpabilité, Paris, 1960; trad. it. Finitudi-


ne e colpa, Bologna, 1970, p. 271.
2 E.E. Evans-Pritchard, Witchcraft, Oracles and Magic among thè
Azande , London, Oxford, 1937; trad. it. Stregoneria, oracoli e magia
tra gli Azande, Milano, Angeli, 1976.
3 E.E. Evans-Pritchard, The Nuer, cit.
4 A.I. Richards, Bemha Marriage and Present Economie Condi-
tions, in «Rhodes-Livingstone», IV (1940).
5 S.F. Steiner, Tahov , London, 1956; trad. it. Tabù, Torino, Bo-
ringhieri, 1980.

37
Capitolo primo

L ’impurità come rito

L ’amore per la pulizia e il rispetto per le convenzioni


sono i due elementi di cui si compone la nostra idea di
sporco. Naturalmente le norme igieniche cambiano col
mutare dello stato delle nostre conoscenze e, in nome del-
l’amicizia - a proposito dell’aspetto convenzionale presen-
te nell’evitare lo sporco - possono venir messe da parte.
Gli uomini della fattoria di Hardy lodarono il pastore che
aveva rifiutato un boccale pulito per il sidro poiché si era
dimostrato «uomo simpatico e non schizzinoso»:
- Una coppa pulita per il pastore, aveva ordinato il padro-
ne. No, assolutamente - disse Gabriel, con un tono misto di
sollecitudine e di riprovazione —non faccio mai storie per lo
sporco in sé e per sé, e, quando ne conosco l’origine... non
penserei mai di dare al prossimo la pena di lavare, quando c’è
già tanto lavoro da fare al mondo - ‘.

In uno stato di maggior esaltazione santa Caterina da


Siena, a quanto si racconta, si biasimò aspramente per lo
schifo ispiratole dalle ferite che stava curando; l’igiene as-
soluta non era compatibile con la carità ed ella bevette
intenzionalmente una ciotola di pus.
Nelle nostre regole di pulizia, siano esse rigorosamen-
te osservate oppure violate, non vi è nulla che suggerisca
una qualche relazione tra la sporcizia e il sacro; di conse-
guenza è assolutamente sconcertante apprendere che i
primitivi non fanno molta differenza tra il sacro e l’impu-
ro.
Secondo il nostro punto di vista i luoghi e le cose sa-
cri debbono essere protetti dalla contaminazione: la santi-
tà e l’impurità sono così diametralmente opposte che ci
sarebbe più facile confondere la fame con la sazietà ed il
sonno con la veglia. Eppure si ritiene che una caratteristi-

39
L'impurità come rito

ca della religione primitiva sia la mancanza di una netta


distinzione tra santità e impurità. Se così fosse, ciò rivele-
rebbe un profondo abisso tra noi e i nostri antenati, tra
noi e i popoli primitivi contemporanei. Indubbiamente ta-
le concezione è stata ampiamente sostenuta e viene tutto-
ra insegnata in forme più o meno ermetiche. Prendiamo il
seguente commento di Eliade:
L’ambivalenza del sacro non è soltanto di ordine psicologi-
co (attrazione o repulsione), ma esiste anche nell’ordine dei va-
lori; il sacro è nello stesso tempo «sacro» e «contaminato» 2.
L ’affermazione suonerebbe meno paradossale se fosse
interpretata in questo modo: la nostra idea di santità ha
raggiunto un notevole grado di specializzazione e in certe
culture primitive il sacro è un concetto molto generale
che significa poco più che proibizione. In questo senso
l’universo si divide in cose ed azioni che sono soggette a
restrizioni e altre che non lo sono. Tra le restrizioni ve ne
sono alcune che mirano a proteggere la divinità dalla pro-
fanazione, ed altre che proteggono il profano dalla perico-
losa intrusione della divinità. Le regole del sacro sono
quindi solo norme che delimitano la divinità, e l’impurità
costituisce il pericolo di contatto con essa, inteso nei due
sensi. Il problema si riduce ad una questione linguistica
ed il paradosso viene a cadere grazie ad un cambiamento
lessicale. Ciò può essere vero per determinate culture 3.
La stessa parola latina sacer, per fare un esempio, ha
questo significato di restrizione in quanto si riferisce agli
dei e, in alcuni casi, si può applicare tanto all’idea di dis-
sacrazione quanto all’idea di consacrazione. Analogamente
la radice ebraica k-d-sh, generalmente tradotta con «san-
to», si fonda sul concetto di separazione. Conscio del
problema di tradurre k-d-sh semplicemente con «santo»,
Ronald Knox, nella sua versione del Vecchio Testamento,
usa «separato». Così gli antichi, splendidi versi «Sii santo,
poiché io sono santo» sono resi in modo piuttosto scial-
bo: «Sono io, Jahvè, che vi ho fatto uscire alla terra d’E -
gitto per essere il vostro Dio: voi quindi sarete separati,
poiché io sono separato» 4.

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L ’impurità come rito

Sarebbe assai semplice se bastasse una nuova tradu-


zione a sistemare l’intera questione; ma ci sono molti casi
di più difficile trattazione. Infatti l’idea che l’impuro e il
sacro possano entrambi appartenere ad una sola più vasta
categoria linguistica è assurda nell’induismo. L ’idea indù
di contaminazione, tuttavia, suggerisce una nuova inter-
pretazione del problema. Il sacro e il profano, dopo tutto,
non devono essere sempre irriducibilmente opposti, ma
possono essere categorie relative: ciò che è puro per una
cosa può essere impuro per un’altra e viceversa. L ’espres-
sione «contaminazione» si presta a un calcolo complicato
che tenga conto delle variabili presenti in ciascun conte-
sto. Harper, per citare un caso, spiega come il rispetto
possa venir manifestato in questa forma presso gli Havik
del Malnad, nello stato di Mysore:

Il comportamento che generalmente dà luogo a contamina-


zione viene talvolta messo in atto appositamente per dimostrare
deferenza e rispetto; compiendo ciò che in altre circostanze sa-
rebbe contaminante, un individuo dimostra la sua posizione di
inferiorità. Il tema della subordinazione della moglie al marito,
per esempio, trova la sua espressione rituale nell’atto di mangia-
re dalla foglia da cui egli ha appena finito di mangiare... 5

In un caso anche più chiaro, quando una donna santa,


sadhu, visitava il villaggio, la consuetudine voleva che fos-
se trattata con il massimo rispetto; per dimostrarlo, il li-
quido in cui erano stati immersi i suoi piedi

veniva fatto passare tra i presenti in uno speciale recipiente di


argento riservato al culto e veniva versato nella mano destra
perché fosse bevuto come tirtha (liquido sacro), ad indicare che
le si attribuiva non la condizione di mortale, ma il rango di una
divinità... L’espressione più sconcertante di contaminazione-ri-
spetto incontrata con maggior frequenza consiste nell’uso dello
sterco di vacca come sostanza purificante. Le donne Havik ve-
nerano continuamente una vacca, ed anche gli uomini Havik, in
determinate occasioni cerimoniali... Ora si dice che le vacche
siano divinità, ora che siano la sede di un migliaio e più di dei.
Se la contaminazione non è grave viene cancellata con l’acqua;
se invece è di grado superiore, con sterco di vacca e acqua...

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if i r m i l i n i n i i t i l i m m i n t i m i iiimtmtimaiiuiiHiiimi
L ’impurità come rito

Lo sterco di vacca, come quello di ogni altro animale, è intrin-


secamente impuro e può essere causa di contaminazione - in-
fatti potrebbe profanare un dio - ma è puro relativamente ad
un mortale... la parte più impura di una vacca è abbastanza pu-
ra per cancellare le impurità persino da un sacerdote di Brah-
ma 6.
E chiaro che ci troviamo di fronte, in questo caso, ad
un linguaggio simbolico suscettibile di differenziazioni di
grado estremamente raffinate. Intesa in questo modo, la
relazione tra purezza e impurità è compatibile con il no-
stro linguaggio e non solleva alcun paradosso particolar-
mente imbarazzante. Pertanto, se là vi era confusione tra
il concetto di santità e quello di impurità, qui non vi è
che una distinzione della più meticolosa sottigliezza.
Le affermazioni di Eliade sulla confusione tra la con-
taminazione del sacro e l’impurità nella religione primitiva
non intendevano evidentemente riferirsi alle sottili conce1
zioni braminiche. A che cosa volevano riferirsi? A pre-
scindere dagli antropologi, vi sono delle popolazioni che
confondono realmente il sacro e l’impuro? Da dove scatu-
risce questa nozione?
Frazer sembra ritenere che la confusione tra impurità
e santità sia la caratteristica distintiva del pensiero primiti-
vo. In un lungo brano in cui prende in considerazione
l’atteggiamento che gli abitanti della Siria hanno verso i
porci, egli conclude:
Per alcuni 0 motivo era che i porci erano impuri; per altri
che erano sacri. Ciò rivela uno stato di confusione del pensiero
religioso nel quale non sono ancora nettamente distinti i con-
cetti di santità e di impurità: essi sono entrambi fusi in una
sorta di fumosa fluidità alla quale noi diamo il nome di tabù .
Ancora, egli torna sulla stessa affermazione quando
spiega il significato di tabù:
I tabù della santità ben si accordano con i tabù della conta-
minazione in quanto, per la mentalità selvaggia, le idee di santi-
tà e di contaminazione non sono ancora differenziate .
Frazer aveva molte buone qualità, ma l’originalità non

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L ’impurità come rito

è mai stata una di esse. Queste citazioni si rifanno diretta-


mente a Robertson Smith, ai quale egli dedicò Spirita of
thè Corri and of thè Wild. Più di venti anni prima Robert-
son Smith aveva usato la parola «tabù» per indicare le re-
strizioni «nell’uso arbitrario delle cose naturali da parte
deU’uomo, rafforzate dal timore delle pene soprannatura-
li» 9. Questi tabù, ispirati dal terrore, dall’esigenza di cau-
telarsi contro gli spiriti maligni, erano comuni a tutti i po-
poli primitivi e spesso si configuravano come norme rela-
tive all’impurità.

La persona tabù non è considerata sacra, poiché è allonta-


nata dall’accesso al santuario, dal contatto con gli uomini, ma la
sua azione o condizione è in qualche modo associata con peri-
coli soprannaturali che derivano, secondo la spiegazione comu-
ne presso i selvaggi, dalla presenza di terribili spiriti, aborriti
come una malattia infettiva. Nella maggior parte delle società
primitive nessuna linea di demarcazione sembra sia tracciata tra
i due tipi di tabù 10.

Secondo questo punto di vista la differenza principale


tra il tabù primitivo e le regole primitive del sacro consi-
ste nella differenza tra le divinità favorevoli e quelle ostili.
La separazione del luogo sacro e delle persone e cose
consacrate da quelle profane - aspetto tipico dei culti re-
ligiosi - coincide fondamentalmente con le separazioni
ispirate dalla paura degli spiriti maligni. La separazione è
l’idea essenziale in entrambi i contesti, solo il motivo è
diverso e neanche tanto diverso, dal momento che anche
le divinità benevole si devono di quando in quando teme-
re. Robertson Smith non diceva niente di stimolante o di
provocatorio per i suoi lettori quando aggiungeva che
«distinguere tra il sacro e l’impuro è segno di un effettivo
passo avanti nei confronti della barbarie». Sicuramente i
suoi lettori facevano una grossa distinzione tra impuro e
sacro e si trovavano al punto giusto del cammino evoluti-
vo. Ma egli andava più oltre: le norme primitive relative
all’impurità tengono conto delle condizioni materiali di
un’azione e la giudicano di conseguenza buona o cattiva.

43
L ’impurità come rito

Perciò il contatto con i cadaveri, col sangue e con la sali-


va può essere ritenuto un mezzo di trasmissione del peri-
colo. Le regole cristiane della santità, per contrasto, tra-
scurano le circostanze materiali e giudicano in base alle
ragioni e all’atteggiamento dell’agente.
... dal punto di vista della religione dello spirito o persino del
più avanzato paganesimo è così evidente l’irrazionalità delle leg-
gi che regolano l’impurità, che necessariamente dobbiamo con-
siderarle una sopravvivenza di una più antica forma religiosa e
sociale 11.
In questo modo venne stabilito un criterio per classifi-
care le religioni come primitive o avanzate: se primitive,
non si potevano distinguere le regole della santità dalle
regole dell’impurità; se avanzate, le regole della impurità
erano scomparse dalla religione. Esse furono relegate alla
cucina, alla stanza da bagno e alla nettezza urbana, senza
aver più nulla a che fare con la religione. Quanto meno
l’impurità era collegata alle condizioni fisiche e quanto
più ciò era sintomo di una condizione spirituale di inde-
gnità, tanto più decisamente si poteva considerare avanza-
ta la religione in questione.
Robertson Smith fu prima di tutto e innanzi tutto teo-
logo e studioso del Vecchio Testamento. Poiché la teolo-
gia si occupa del rapporto tra Dio e l’uomo, è naturale
che essa si pronunci sempre sulla natura dell’uomo. Ai
tempi di Robertson Smith, l’antropologia era di grande
attualità nelle discussioni teologiche e gli intellettuali della
seconda metà del secolo diciannovesimo, per la maggior
parte, erano di necessità degli antropologi dilettanti. Ciò
appare chiaramente nell’opera di Margaret Hodgen The
Doctrine of Survivals, guida indispensabile per compren-
dere il confuso dialogo che teologia e antropologia intrec-
ciarono nel secolo decimonono. In questo periodo di for-
mazione l’antropologia era ancora radicata nelle sale par-
rocchiali e nei pulpiti, ed i vescovi erano soliti utilizzarne
le scoperte per le loro citazioni esplosive.
Gli etnologi di parrocchia presero posizione come ot-
timisti o come pessimisti nella prospettiva del progresso

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L'impurità come rito

umano. I selvaggi erano in grado di progredire o ne erano


incapaci? Nelle sue opere John Wesley, secondo il quale
il genere umano allo stato naturale sarebbe stato fonda-
mentalmente malvagio, illustra con pittoresche immagini
dei costumi primitivi la degenerazione di chi non si era
salvato:
La religione naturale dei Creek, dei Cherokee, dei Chicka-
saw e di tutti gli altri Indiani consiste nel torturare tutti i loro
prigionieri da mattina a sera, finché questi non muoiono bru-
ciati...
Anzi, è comune presso di loro che il figlio spacchi la testa al
padre se pensa che sia vissuto troppo a lungo 12.

Mi astengo dal citare qui le lunghe discussioni tra


progressisti e degenerazionisti. La questione si trascinò
sterilmente per parecchi decenni, finché l’arcivescovo
Whately non si schierò in forma drastica e popolare dalla
parte dei degenerazionisti, per confutare l’ottimismo degli
economisti seguaci di Adam Smith. Come potevano, egli
si chiedeva, quei rinnegati nutrire un qualche sentimento
di nobiltà? Si poteva forse pensare che gli ultimi dei sel-
vaggi e i più civili esemplari delle razze europee fossero
membri della stessa specie? Era concepibile che, come
aveva sostenuto il grande economista, quelle genti impu-
diche potessero attraverso la divisione del lavoro «arrivare
a poco a poco a tutte le raffinatezze del vivere civile» 13?
La reazione a questo libello, come ce la descrive la Hod-
gen, fu intensa ed immediata:
Altri degenerazionisti, come W. Cooke Taylor, scrissero vo-
lumi a sostegno di questa tesi, accumulando prove su prove
laddove l’arcivescovo si era accontentato di un solo esempio...
Sorsero da ogni parte difensori dell’ottimismo settecentesco; in-
teri volumi furono riesaminati alla luce della tesi di Whately. E
i riformatori sociali di ogni campo, quei benintenzionati che
avevano trovato nella nozione di inevitabilità del progresso so-
ciale un comodo lenitivo alla loro compassione, di recente ac-
quisita, verso chi è economicamente oppresso, consideravano
allarmati che si stava praticamente affermando la visione oppo-
sta... Ancora più sconcertati apparivano quegli eruditi studiosi

45
L ’impurità come rito

della cultura e del pensiero umano i cui interessi personali e


professionali erano metodologicamente impostati sul concetto
di progresso 14.

Alla fine la controversia fu placata per il resto del se-


colo dalfemergere di un pensatore che recò un contribu-
to scientifico alla causa dei progressisti: Edward Burnett
Tylor (1832-1917). Egli formulò una teoria e raccolse si-
stematicamente una serie di dati per dimostrare che la ci-
viltà è il prodotto di una graduale evoluzione da una con-
dizione originaria simile a quella delle popolazioni primi-
tive contemporanee.

Tra le prove che ci aiutano a tracciare il corso che la civiltà


ha effettivamente seguito troviamo quella grande classe di fatti
che abbiamo trovato conveniente designare col termine di «so-
pravvivenze». Queste sono procedimenti, usanze, opinioni e co-
sì via, che sono stati conservati per forza d’abitudine nella nuo-
va società... e... rimangono così prove ed esempi di una condi-
zione precedente della cultura da cui se n’è sviluppata una nuo-
va I5.
I problemi importanti della società antica si possono vedere
calati nello spirito delle generazioni posteriori e le sue più serie
convinzioni perpetuarsi nelle favole infantili 16.

Robertson Smith fece uso del concetto di sopravviven-


za per riferirsi alla persistenza di regole irrazionali riguar-
danti l’impurità. L ’opera di Tylor fu data alle stampe nel
1871, dopo la pubblicazione di L ’origine delle specie, e vi
si può notare un certo parallelismo tra il modo in cui egli
considera le culture e quello di Darwin per le specie or-
ganiche. Darwin cercava di scoprire in quali condizioni si
determinasse l’apparizione di un nuovo organismo; si in-
teressava cioè alla sopravvivenza degli organi più adatti e
anche di quelli rudimentali la cui persistenza gli potesse
fornire uno spunto per ricostruire lo schema evolutivo.
Tylor invece era particolarmente interessato alla prolunga-
ta sopravvivenza del non adatto, a relitti culturali quasi
scomparsi. Non si curava di catalogare specie culturali di-
stinte, o di dimostrare come queste si erano adattate nel

46
L ’impurità come rito

corso della storia; egli cercò solo di dimostrare la generale


continuità della cultura umana.
Robertson Smith, che venne dopo, ereditò l’idea che
l’uomo moderno e civile rappresenta un lungo processo
di evoluzione. Egli convenne che qualche cosa di quello
che noi facciamo e crediamo attualmente possa essere un
fossile: appendice pietrificata e senza senso delle quotidia-
ne faccende dell’esistenza. Ma Robertson Smith non si oc-
cupava di sopravvivenze morte: quelle usanze che non
erano derivate dai nodi evolutivi della storia umana furo-
no da lui etichettate come primitive e irrazionali e consi-
derate quindi di poco conto. L ’impresa per lui più impor-
tante era di togliere la polvere e la patina tenace dalle cul-
ture primitive contemporanee e rivelarne le linfe vitali che
provassero, attraverso il loro reale stadio evolutivo, le loro
effettive funzioni nella società moderna. Questo è precisa-
mente ciò che egli si propone di fare con The Religion of
thè Semites. In quest’opera la superstizione dei primitivi
viene distinta dai primi accenni della vera religione e mes-
sa da parte con scarsa considerazione. Quanto Robertson
Smith dice a proposito della superstizione e della magia è
puramente incidentale rispetto al suo argomento principa-
le ed è un prodotto secondario della sua ricerca più im-
portante. In questo modo egli spostò l’accento posto da
Tylor: mentre Tylor era interessato a quanto pittoreschi
relitti possano dirci del passato, Robertson Smith cercava
gli elementi comuni alle esperienze moderne e primitive.
Tylor pose i fondamenti del folklore, Robertson Smith fu
l’iniziatore dell’antropologia sociale.
Un’altra importante corrente di pensiero dipese ancor
più strettamente dagli interessi professionali e personali di
Robertson Smith: alludo alla crisi di coscienza che assalì
quei pensatori che non riuscivano a conciliare le nuove
acquisizioni della scienza con la Rivelazione del cristiane-
simo tradizionale. La ragione e la fede sembravano essere
decisamente inconciliabili, a meno che non si trovasse una
nuova definizione del dogma religioso. Un gruppo di filo-
sofi che non si sentivano più di accettare la religione rive-
lata né accettavano di vivere senza la guida di un credo

47
L ’impurità come rito

trascendente cominciò ad elaborare la nuova formula. Di


qui prese origine quel processo, che è tuttora in atto, di
eliminazione graduale dei princìpi rivelati della dottrina
cristiana per erigere al loro posto dei princìpi etici come
nucleo centrale della vera religione. Cito nelle righe che
seguono la descrizione di Richter di come il movimento
trovò la sua sede ad Oxford. A Balliol T.H. Green tentò
di adottare la filosofia idealista di Hegel come soluzione
ai problemi della fede, della politica e della morale di al-
lora. Jowett aveva scritto a Florence Nightingale: «Biso-
gna fare per le persone colte qualcosa di simile a ciò che
J. Wesley fece per i poveri». Questo è proprio quello che
T.H. Green cercava di ottenere: ravvivare cioè lo spirito
religioso nella persona colta, rendere la religione degna di
considerazione dal punto di vista intellettuale, creare un
rinnovato fervore morale e dare quindi luogo ad una so-
cietà riformata. Il suo insegnamento ebbe un’accoglienza
entusiastica. Anche se le sue idee filosofiche erano com-
plesse e la loro base metafisica tortuosa, i suoi princìpi in
sé erano semplici. Essi trovarono espressione nel popola-
rissimo romanzo della Humphrey Ward, Robert Elsmere,
del 1888.
La filosofia della storia di Green era una teoria del
progresso morale: di epoca in epoca Iddio si incarnereb-
be nella vita sociale, sempre più perfetta sotto l’aspetto
etico. In un suo sermone destinato al pubblico si legge
che la coscienza che l’uomo ha di Dio

è stata in molteplici forme l’elemento moralizzatore dell’umana


società, se non il principio costitutivo di quella società stessa.
L’esistenza di specifici doveri e il riconoscimento di essi, lo spi-
rito del sacrificio di sé, la legge morale e il rispetto di essa nella
sua forma più astratta ed assoluta; tutto questo presuppone
senza dubbio una società: ma una società tale da renderlo pos-
sibile non è generata da appetiti e timori... Sotto questa influen-
za i bisogni e i desideri che hanno origine nella natura animale
si trasformano in impulso di miglioramento che crea, allarga e
riforma la società, additando sempre all’uomo, in diverse ma-
niere secondo il grado del suo sviluppo, un ideale non realizza-
to di Bene, che è Dio, e conferendo autorità divina a quelle

48
L'impurità come rito

usanze e a quelle leggi attraverso le quali qualche sembianza di


questo ideale viene a combinarsi con l’esistenza reale 17.

La tendenza generale della filosofia di Green era dun-


que di scostarsi dalla rivelazione e di elevare agli altari la
moralità, essenza della religione. Robertson Smith non si
allontanò mai dalla rivelazione. Negli ultimi anni della sua
vita egli credeva alla ispirazione divina del Vecchio Testa-
mento; dalla biografia che di lui scrivono Black e Chrystal
sembra che nonostante la sua fede egli si sia curiosamente
accostato alla nozione di religione degli idealisti di O x-
ford.
Nel 1870 Robertson Smith ricoprì la cattedra di ebrai-
co alla Free Church di Aberdeen, ed era all’avanguardia
di quel movimento critico che qualche tempo prima aveva
turbato le coscienze degli studiosi della Bibbia. Nel 1860
Jowett, anch’egli a Balliol, era stato diffidato dal pubbli-
care l’articolo On thè Interpretation of thè Bible, nel quale
sosteneva che il Vecchio Testamento doveva essere inter-
pretato come un qualsiasi altro libro; ma poiché le azioni
legali nei suoi confronti non furono portate avanti, egli
potè conservare il ruolo di Regius Professor. Quando in-
vece nel 1875 Robertson Smith scrisse la voce Bible per
l’Enciclopedia Britannica, l’indignazione della Frec Church
per la sua eresia gli procurò una sospensione e il licenzia-
mento. Robertson Smith, come Green, era in stretto con-
tatto con il pensiero tedesco, ma mentre Green non aveva
alcuna fede nella rivelazione cristiana, Robertson Smith
non dubitò mai che la Bibbia fosse il documento di una
specifica rivelazione soprannaturale. Non solo era dispo-
sto a sottoporre i libri del Vecchio Testamento allo stesso
tipo di critica che riservava ad altri libri, ma dopo l’allon-
tanamento da Aberdeen egli si recò in Siria per verificare
la sua interpretazione con la documentazione ricavata da
una ricerca sul campo. In base a questa indagine di prima
mano su vita e documenti dei Semiti nacquero le sue
«Burnett Lectures», la prima serie delle quali fu pubblica-
ta col titolo The Religion of thè Semites.
Dal modo in cui scrive è chiaro che questa ricerca

49
L ’impurità come rito

non voleva essere una torre d’avorio per evadere dai reali
problemi dell’umanità contemporanea; era importante
comprendere le credenze religiose di alcune oscure tribù
arabe in quanto queste potevano far luce sulla natura del-
l’uomo e sulla natura dell’esperienza religiosa. Da queste
lezioni emersero due temi importanti: uno è che gli avve-
nimenti mitologici e le teorie cosmogoniche esotiche han-
no poco a che vedere con la religione; vi è qui un’implici-
ta contraddizione con la teoria di Tylor, secondo la quale
la religione primitiva originava dal pensiero speculativo.
Per Robertson Smith coloro che perdevano il sonno a
tentar di riconciliare i particolari della creazione nel libro
della Genesi con la teoria evoluzionistica darwiniana pote-
vano smettere di arrovellarsi: la mitologia è essenzialmen-
te un ricamo superfluo intessuto sopra credenze più soli-
de. La religione vera è saldamente radicata nei valori mo-
rali della vita della comunità, fin dai tempi più antichi.
Anche i più confusi vicini d’Israele, ossessionati da demo-
ni e da miti, rivelavano tuttavia qualche traccia della vera
religione.
Il secondo tema era che la vita religiosa d’Israele era
fondamentalmente più morale di quella di ogni altra po-
polazione circostante. Consideriamo prima brevemente
questo secondo punto. Le ultime tre «Burnett Lectures»,
discusse ad Aberdeen nel 1891, non furono pubblicate e
ce n’è pervenuto ben poco: vi si analizzavano le apparenti
analogie tra le credenze dei Semiti e la cosmogonia del
libro della Genesi. Robertson Smith sosteneva che l’asseri-
to parallelismo con la cosmogonia dei Caldei era stato no-
tevolmente esagerato e preferiva classificare i miti babilo-
nesi non come i miti di Israele ma come miti di popola-
zioni selvagge. Inoltre le leggende dei Fenici potevano ri-
chiamare, ad una visione superficiale, le storie del libro
della Genesi, ma le analogie servivano a far meglio risalta-
re le profonde differenze di spirito e di significato:

Le leggende dei Fenici... erano legate ad una visione di Dio,


dell’uomo e del mondo essenzialmente pagana. Dal momento
che queste leggende erano prive di motivazioni etiche, nessun

50
L ’impurità come rito

credente poteva da esse pervenire ad una concezione spirituale


della divinità né ad alcuna elevata concezione del principale fi-
ne dell’uomo... Il difficile compito di risolvere tale contrasto
(con il concetto ebraico della divinità) non spetta a me, ma a
coloro che sono indotti da una falsa filosofia della Rivelazione a
vedere nel Vecchio Testamento niente più del punto più alto a
cui tendono le religioni semitiche. Non è questo il punto di vi-
sta che mi interessa analizzare: è una prospettiva che non meri-
ta fiducia ed è inoltre condannata dalle molte analogie partico-
lari tra la storia ed il rituale degli Ebrei e quelli dei pagani;
tutti questi punti materiali di contatto, infatti, rendono solo più
forte la contrapposizione che vi è in ispirito .
Questo a proposito della assoluta inferiorità della reli-
gione dei vicini di Israele e dei Semiti pagani. Quanto alla
base delle religioni semitiche pagane, essa ha due caratte-
ristiche: una sovrabbondante demonologia, fonte per gli
uomini di terrori viscerali, ed una confortante, stabile re-
lazione con il dio della comunità. I demoni rappresentano
Telemento primitivo respinto da Israele; la relazione stabi-
le, etica, con Dio costituisce la vera religione.
Per quanto sia vero che il selvaggio si sente circondato da
innumerevoli pericoli clic non comprende e a cui perciò attri-
buisce l’identità di nemici misteriosi e invisibili dotati di poteri
sovrumani, non è vero che il tentativo di placare questi poteri
sia il fondamento della religione. Dai tempi più antichi la reli-
gione, distinguendosi dalla magia e dalla stregoneria, si rivolse a
consanguinei e ad amici che potevano essere, sì, temporanea-
mente in collera con la loro gente, ma che erano sempre ricon-
ciliabili, tranne che per i nemici del loro popolo o per i membri
rinnegati della comunità... È soltanto in condizioni di disgrega-
zione sociale... che la superstizione magica, basata sul puro ter-
rore o su riti atti a placare divinità straniere, invade la sfera
della religione tribale o nazionale. In situazioni più favorevoli la
religione della tribù o dello stato non ha nulla in comune con
le superstizioni private e aliene o con i riti magici cui il terrore
selvaggio può spingere l’individuo. La religione non è una rela-
zione arbitraria tra l’individuo ed un potere soprannaturale: è la
relazione di tutti i membri di una comunità con il potere che
ha a cuore il bene della comunità stessa 19.
È chiaro che negli anni intorno al 1890 l’accoglienza

51
L'impurità come rito

riservata a questa autorevole tesi sul rapporto tra morale e


religione primitiva fu calorosa: essa riuniva in una combi-
nazione felice la rivelazione antica ed il nuovo idealismo
etico di Oxford. Non v’è dubbio che lo stesso Robertson
Smith era stato completamente conquistato dalla visione
etica della religione. La vicinanza delle sue posizioni con
quelle sostenute ad Oxford trova una piacevole conferma
nel fatto che non appena fu dimesso dalla cattedra di
ebraico di Aberdeen, Balliol gli propose un insegnamento.
Egli confidava che la superiorità del Vecchio Testa-
mento sarebbe stata vittoriosa nella diatriba, per quanto
severa potesse essere l’analisi scientifica. Egli poteva di-
mostrare infatti con impareggiabile erudizione che tutte le
religioni primitive rappresentavano forme e valori sociali;
e poiché l’elevatezza morale dei concetti religiosi ebraici
era fuori discussione, e poiché questi avevano dato origi-
ne, nel corso della storia, agli ideali della cristianità, che
in seguito si erano sviluppati da forme cattoliche a forme
protestanti, il percorso evolutivo era chiaro. La scienza
era in questo modo non opposta, ma abilmente finalizzata
al dovere cristiano.
Da questo momento in poi gli antropologi si sarebbe-
ro imbattuti in un arduo problema: infatti la magia è defi-
nita per loro in termini evoluzionistici, di residuo. In pri-
mo luogo essa è rituale, perché non fa parte del culto al
dio della comunità; in secondo luogo è un rituale da cui
ci si aspetta un effetto automatico. In un certo senso la
magia era per gli ebrei, come il cattolicesimo era per i
protestanti, un «abracadabra», un rituale senza senso, ir-
razionalmente considerato sufficiente in sé e per sé a pro-
durre risultati senza un’esperienza interiore di Dio.
Nella sua lezione inaugurale Robertson Smith sottoli-
neò la contrapposizione esistente tra l’intelligente approc-
cio calvinista e l’interpretazione magica che delle Scritture
diedero i cattolici romani, che caricarono il libro di attri-
buzioni superstiziose. Nella stessa lezione inaugurale egli
insiste su questo punto.

La chiesa cattolica aveva, fin quasi dall’inizio, abbandonato

52
L ’impurità come rito

la tradizione apostolica e impostato una concezione della cri-


stianità secondo una semplice serie di formule contenenti prin-
cìpi astratti ed immutabili; una convenzione intellettuale per la
quale era sufficiente plasmare le vite degli uomini che non ave-
vano alcuna esperienza di un rapporto personale con Cristo...
La Sacra Scrittura non è, come i cattolici tendono ad affer-
mare, «un fenomeno divino che impregna magicamente ogni
sua lettera con i tesori della fede e della conoscenza che danno
la salvezza» 20.

Secondo i suoi biografi l’associazione di magia e catto-


licesimo era un’abile mossa per costringere i suoi pedanti
oppositori protestanti a più azzardate mediazioni intellet-
tuali con la Bibbia. Quali che fossero i motivi degli scoz-
zesi, resta il fatto che lo studio comparato delle religioni
ha ereditato un’antica, settaria diatriba sul valore del ri-
tuale formale; ed era giunto allora il tempo di dimostrare
come un approccio al rituale pieno di pregiudizi e visce-
rale avesse ridotto l’antropologia ad una delle sue più ste-
rili prospettive: una preoccupazione angusta per la fede
nell’efficacia dei riti - argomento che svilupperò nel IV
capitolo. Seppure Robertson Smith avesse perfettamente
ragione a riconoscere nella storia della cristianità una ten-
denza sempre presente a cadere in un uso puramente for-
male e strumentale dei riti, i suoi presupposti evoluzioni-
stici lo indussero a commettere due errori. Le pratiche
magiche, intese come rituale automaticamente efficace,
non sono una caratteristica primitiva, come avrebbe dovu-
to suggerire la contrapposizione che egli stesso rilevò tra
la religione degli apostoli e quella del tardo cattolicesimo.
E neppure un alto contenuto etico è prerogativa delle re-
ligioni evolute, come mi auguro di poter dimostrare nei
capitoli seguenti.
L ’influenza esercitata da Robertson Smith si divide in
due correnti, se consideriamo il modo in cui Durkheim e
Frazer utilizzarono la sua opera: Durkheim accolse la sua
tesi centrale e apri una strada stimolante allo studio com-
parato delle religioni; per opera di Frazer, che sviluppò la
sua tesi secondaria ed accessoria, invece, lo studio compa-
rato delle religioni finì in un vicolo cieco.

53

[iTnniiiiuimiiimnniiiiinrnninn
Vimpurità come rito

In Le forme elementari della vita religiosa Durkheim


riconosce il suo debito verso Robertson Smith. L ’intero
libro rappresenta uno sviluppo dell’idea embrionale che le
divinità primitive sono parte integrante della comunità, in
quanto le loro forme esprimono i particolari precisi della
struttura di quest’ultima, e i loro poteri sono dispensatori
di punizioni e di ricompense per conto della comunità.
Nella vita primitiva

La religione era fatta di una serie di atti e cerimonie, la cor-


retta osservanza delle quali era necessaria o auspicabile per ga-
rantire il favore degli dei o per scongiurare la loro collera; e
per ogni membro della comunità era stabilita la misura della
partecipazione all’osservanza di esse, sia per essere nato in seno
alla famiglia o alla comunità, sia in virtù della posizione che era
giunto a ricoprire nell’ambito della famiglia o della comunità...
La religione non esisteva per la salvezza delle anime, ma per la
conservazione e per il benessere della società... Un individuo
nasceva con una determinata relazione con certe divinità, altret-
tanto sicuramente quanto veniva al mondo con una relazione
con i suoi compagni; e la sua religione, cioè quell’aspetto del
comportamento che era determinato dalla sua relazione con gli
dei, era semplicemente una parte dello schema generale di con-
dotta che gli era prescritto dalla sua posizione quale membro
della società... La religione antica non è che una parte dell’ordi-
ne sociale generale che abbraccia dèi e uomini allo stesso mo-
do 21.

Così scriveva Robertson Smith. Ma, a parte le diffe-


renze di stile e l’uso del passato, lo stesso brano potrebbe
essere stato scritto da Durkheim.
Mi sembra utile accogliere l’indicazione di Talcott
Parsons, secondo la quale Durkheim era inizialmente im-
plicato in una controversia con gli inglesi22. Egli si occu-
pava di un particolare problema che la filosofia politica
inglese, e in particolare quella rappresentata da Herbert
Spencer, gli poneva con le sue lacune e non poteva condi-
videre la teoria utilitaristica che la psicologia individuale
era importante per lo sviluppo della società. Durkheim
voleva dimostrare che per bene intendere la natura della

54
L ’impurità come rito

società era necessario qualcos’altro — un affidamento ge-


nerale ad un comune ordine di valori, una coscienza col-
lettiva. Contemporaneamente un altro francese, Gustav
Le Bon (1841-1931), era impegnato nel medesimo compi-
to di superare la tradizione benthamiana predominante.
Egli proseguì sviluppando una teoria della psicologia della
folla cui anche Durkheim sembra essersi liberamente ac-
costato. Si paragonino gli accenni di Durkheim alla forza
emotiva delle cerimonie totemiche 23 con la considerazio-
ne di Le Bon sulla «mentalità della folla», suggestionabile,
emotivamente selvaggia o eroica. Ma per dimostrare che
gli inglesi erano in errore, Durkheim trovò un mezzo an-
cor più adatto nell’opera di un altro inglese.
Durkheim adottò integralmente la definizione di Ro-
bertson Smith secondo la quale la religione primitiva era
la chiesa ufficiale, espressione dei valori della comunità.
Condivise inoltre incondizionatamente l’atteggiamento di
Robertson Smith verso i riti che non facevano parte del
culto tributato agli dèi della comunità. Egli si attenne an-
che alla sua classificazione di magia, atti magici e maghi
come credenze, pratiche e persone che operano al di fuo-
ri della comunione chiesastica e che spesso le sono ostili.
Sulle orme di Robertson Smith e forse anche influenzato
da Frazer, di cui erano già apparsi i primi volumi di II
ramo d’oro 24 quando fu pubblicato nel 1912 Le forme ele-
mentari della vita religiosa, egli convenne che i riti magici
fossero una forma di igiene primitiva:
Le cose che il mago raccomanda di tener separate sono
quelle che, a causa delle loro proprietà caratteristiche, non pos-
sono essere mescolate o avvicinate senza pericoli... massime uti-
litarie, prima forma delle interdizioni mediche ed igieniche 25.
Fu in questo modo riconfermata la distinzione tra
contaminazione e religione vera. Le regole dell’impurità
sono escluse dal filone principale dei suoi interessi: egli
non dedicò loro più attenzione di quanto fece Robertson
Smith.
Tuttavia ogni limitazione arbitraria della propria mate-
ria crea delle difficoltà allo studioso. Scartando una classe

55

in T T in T f r r n - r n iT r n n i
L ’impurità come rito

di separazione come igiene primitiva e un’altra classe co-


me religione primitiva, Durkheim aveva scalzato alla base
la sua stessa definizione di religione. Nei capitoli iniziali
egli sintetizza e abbandona le definizioni di religione che
non lo soddisfano; scarta i tentativi di definire la religione
secondo le nozioni di mistero e di timore, e così pure la
definizione che Tylor dà della religione come credenza in
esseri spirituali. Egli procede adottando due criteri che
dovrebbero, secondo la sua ipotesi, coincidere; il primo,
abbiamo visto, è l’organizzazione comune degli uomini
per il culto comunitario, e il secondo è la separazione fra
sacro e profano. Il sacro è oggetto di venerazione da par-
te della comunità e può essere riconosciuto da regole che
ne esprimono il carattere essenzialmente trasmissibile per
contatto (contagious).
Durkheim non segue le orme di Robertson Smith
quando insiste sulla totale frattura tra le sfere del sacro e
del profano, tra il comportamento religioso e quello laico.
Robertson Smith infatti partiva dal punto di vista opposto
e insisteva che non vi è «nessuna separazione tra le sfere
della religione e quelle della vita normale» 2b. Nella sua
teoria della integrazione sociale, sembra che sia stato un
passo necessario per Durkheim contrapporre in maniera
assoluta il sacro e il profano; ciò rappresentava infatti
l’opposizione tra individuo e società. La coscienza sociale
era proiettata al di là e al di sopra dei membri individuali
della società su qualche cosa d’altro, esterno e costrittiva-
mente potente. Troviamo così Durkheim ad insistere che
le norme della separazione sono i segni distintivi del sa-
cro, il polo opposto del profano. La sua argomentazione
lo costringe poi a chiedersi perché il sacro dovrebbe esse-
re trasmissibile per contatto: per rispondere egli chiama
in causa la natura fittizia, astratta, delle entità religiose.
Esse sono soltanto delle idee ridestate dalla esperienza del
sociale, soltanto idee collettive proiettate all’esterno, mere
espressioni di moralità; non hanno perciò alcun punto di
riferimento materiale e stabile. Anche le sculture che rap-
presentano le divinità sono solo simboli materiali di forze
immateriali generate dal processo sociale. In ultima analisi

56
L ’impurità come rito

esse sono dunque sradicate, fluide e inclini a divenire sfo-


cate e a confluire in altre esperienze. Fa parte della loro
natura che esse corrano sempre il rischio di perdere i loro
caratteri necessari e distintivi. Il sacro ha bisogno di esse-
re sempre protetto con proibizioni. Il sacro deve essere
sempre trattato come trasmissibile per contatto in quanto
i rapporti con esso devono obbligatoriamente essere
espressi da rituali di separazione e di demarcazione e da
credenze nel pericolo di attraversare confini vietati.
C’è una piccola difficoltà ad accettare questa interpre-
tazione. Se il sacro è caratterizzato dalla sua trasmissibilità
per contatto, in che cosa si differenzia dalla magia non
sacra, anch’essa ugualmente trasmissibile? Qual è la posi-
zione dell’altro tipo di trasmissibilità che non nasce dal
processo sociale? Perché le credenze magiche sono chia-
mate igiene primitiva e non religione primitiva? Questi
problemi non toccano Durkheim: egli seguì Robertson
Smith nell’escludere la magia dalla morale e dalla religio-
ne e contribuì a lasciarci un confuso groviglio di idee sul-
la magia. Da allora gli studiosi si sono lambiccati per tro-
vare una soddisfacente definizione delle credenze magi-
che, investigando quindi sulla mentalità della gente che
poteva aver fede in esse.
È facile vedere ora che Durkheim si richiamava in
fondo a una concezione troppo unitaria della comunità
sociale. Dovremmo cominciare con il riconoscere che la
vita comunitaria è come un’esperienza molto più comples-
sa di quanto egli ammettesse. Inoltre troviamo che l’idea
di Durkheim del rituale come simbologia dei processi so-
ciali può essere estesa a includere entrambi i tipi di cre-
denza nell’influenza per contatto, quello religioso e quello
magico. Se egli avesse potuto considerare un’analisi del ri-
tuale nella quale nessuna delle regole che egli chiamava
igieniche fossero prive del loro carico di simbolismo so-
ciale, sarebbe presumibilmente stato felice di scartare la
categoria del magico. Ritornerò su questo argomento, ma
non possiamo svilupparlo senza prima sgombrare il cam-
po da un’altra serie di preconcetti che derivano pure da
Robertson Smith.

57
L ’impurità come rito

Frazer non si curava delle implicazioni sociologiche


dell’opera di Robertson Smith: anzi egli non sembra sia
stato affatto interessato al suo argomento principale. Inve-
ce si affannò sul residuo magico che incidentalmente restò
escluso - come se lo fosse veramente - dalla definizione
di religione vera. Egli dimostrò che nelle credenze magi-
che si potevano individuare certe caratteristiche ricorrenti
e che queste si potevano classificare. La magia si rivelava
all’indagine molto di più che una serie di semplici regole
per evitare un’oscura infezione: alcuni atti magici tende-
vano a procurare benefici e altri a scongiurare il male.
Perciò il campo del comportamento al quale Robertson
Smith assegnò l’etichetta di superstizione comportava
qualcosa di più che regole di impurità; l’influenza per
contatto tuttavia sembrava essere uno dei suoi princìpi
fondamentali. L ’altro principio era la credenza nella co-
municazione di proprietà, per simpatia o per imitazione.
Secondo le cosiddette leggi della magia il mago può mo-
dificare gli eventi o per azione mimetica o lasciando liberi
di agire i suoi poteri. Alla fine della sua riflessione sulla
magia, Frazer non aveva fatto molto di più che elencare
le condizioni in cui una cosa può simboleggiarne un’altra.
Se non fosse stato convinto che il selvaggio ragiona secon-
do schemi completamente diversi dai nostri, egli avrebbe
potuto accontentarsi di considerare la magia come azione
simbolica, né più né meno. Avrebbe potuto poi stringere
la mano a Durkheim e alla scuola sociologica francese ed
il dialogo attraverso la Manica sarebbe stato più produtti-
vo per il pensiero inglese del secolo decimonono. Al con-
trario, egli si limitò banalmente a collegare insieme i pre-
supposti evoluzionistici impliciti in Robertson Smith e as-
segnò alla cultura umana tre stadi di sviluppo.
La magia era il primo stadio, la religione il secondo, la
scienza il terzo. La sua analisi evolve in maniera in certo
modo analoga alla dialettica hegeliana, dal momento che
la magia, classificata come scienza primitiva, a causa della
sua stessa inadeguatezza veniva superata e integrata dalla
religione nella forma di una frode sacerdotale e politica.
Dalla tesi della magia emerse l’antitesi, la religione, men-

58
L ’impurità come rito

tre la sintesi, la scienza moderna efficace, prese il posto


sia della magia che della religione. Una presentazione alla
moda, ma priva di un qualsiasi supporto empirico. Lo
schema evoluzionistico di Frazer era basato soltanto su
certi postulati indiscussi, espunti dai comuni discorsi del
suo tempo. Uno era che la raffinatezza morale fosse il se-
gno di una civiltà progredita; un altro che la magia non
avesse nulla a che vedere con la morale o con la religione.
Su questa base egli tratteggiò l’immagine dei nostri ante-
nati primitivi, il cui pensiero era dominato dalla magia;
per essi l’universo era mosso da princìpi meccanicistici,
impersonali; affannandosi a cercare la formula giusta per
controllarlo essi incapparono in certi princìpi validi, ma
altrettanto spesso il loro stato di confusione mentale li
portò a pensare che parole e segni potessero essere usati
come strumenti. La magia derivava dalla incapacità dei
primi uomini a distinguere tra le proprie associazioni sog-
gettive e la realtà obiettiva esterna. La sua origine si basa-
va su un errore: non c’era alcun dubbio, il selvaggio era
uno sciocco ingenuo.

Così le cerimonie che in molti paesi sono state celebrate


per affrettare la partenza dell’inverno o per fermare il volo del-
l’estate sono in un certo senso il tentativo di ricreare il mondo
come nuovo, di «riplasmarlo più simile al desiderio dell’ani-
mo». Ma se ci mettessimo nei panni dei saggi antichi che esco-
gitarono mezzi cosi deboli per attuare un progetto tanto smisu-
ratamente vasto, dovremmo spogliarci delle moderne concezioni
dell’immensità dell’universo e della piccolezza e insignificanza
del posto dell’uomo in esso... Agli occhi del selvaggio le monta-
gne che racchiudono l’orizzonte visibile, o il mare che si esten-
de fino ad incontrarlo rappresentano la fine del mondo. I suoi
piedi non si sono mai spinti al di là di questi angusti confini...
è difficile che egli pensi al futuro, e del passato sa solo ciò che
gli è pervenuto tramite la tradizione orale dai suoi progenitori
selvaggi. Immaginare che un mondo così circoscritto nello spa-
zio e nel tempo sia stato creato dalle fatiche o dall’afflato di un
essere simile a lui non comporta un grande sforzo per la sua
credulità; ed egli può senza molta difficoltà immaginare di po-

59

tu l i t it u it iit iim in r iT i
L ’impurità come rito

ter egli stesso annualmente riprodurre l’opera di creazione con


incanti ed artifici27.

È difficile perdonare a Frazer il suo compiacimento


neH’indiscriminato disprezzo della società primitiva. L ’ul-
timo capitolo di Taboo and thè Perils o f thè Soul si intitola
«11 nostro debito verso i selvaggi». Non è escluso che sia
stato aggiunto in risposta a corrispondenti che esortavano
l’autore a riconoscere la saggezza e la profondità filosofica
di culture primitive loro note. Frazer cita nelle note alcu-
ni interessanti brani di queste lettere, ma non riesce a
modificare i propri pregiudizi per prenderle in considera
zione. Il capitolo ha la pretesa di contenere un riconosci-
mento della filosofia primitiva, ma dal momento che Fra-
zer non potrebbe offrire alcun motivo per rispettare delle
idee che ha largamente dimostrato di considerare infantili,
irrazionali e superstiziose, il riconoscimento è soltanto
ipocrita. E difficile parlare con un’aria di superiorità più
ampollosa di questa:

Alla fin fine le nostre somiglianze coi selvaggi sono di gran


lunga più numerose delle nostre differenze... dopo tutto ciò che
chiamiamo verità è solo quell’ipotesi che ha dimostrato di fun-
zionare meglio. Di conseguenza nel rivedere le opinioni e le
pratiche di razze ed epoche più rozze faremmo bene a guarda-
re con clemenza ai loro errori come a cadute inevitabili com-
messe nella ricerca della verità...28

Frazer ebbe i suoi critici, che allora non rimasero ina-


scoltati, ma in Inghilterra il suo fu indubbiamente un
trionfo. Non è forse ancora un successo commerciale l’e-
dizione ridotta di II ramo d’oro? Non si tiene forse ancora
una conferenza commemorativa in onore di Frazer? In
parte fu l’estrema semplicità delle sue vedute, in parte l’i-
nesauribile energia con cui produceva un volume dopo
l’altro, ma soprattutto lo stile fiorito con cui scriveva a
procurare alla sua opera tanta diffusione. In quasi tutte le
ricerche su civiltà antiche si può esser certi di trovare rife-

60
L'impurità come rito

rimenti continui alla condizione primitiva e alla sua carat-


teristica, la superstizione magica, non etica.
Si veda Cassirer, quando scrive sullo zoroastrismo, co-
me ricalca questi temi da II ramo d ’oro:
La stessa natura riveste un nuovo aspetto perché viene vista
alla luce della vita etica. La natura... viene concepita come il
regno della legge e della conformità a legge... Per definire la
natura la religione di Zoroastro usò il concetto di Asha. Asha è
la saggezza della natura che riflette quella del suo creatore,
Ahtira Mazda, il «Saggio Signore». Un ordine eterno, inviolabi-
le e universale regge dunque il mondo e determina ogni singolo
evento: il corso del sole, della luna e delle stelle, la crescita del-
le piante e degli animali, la via dei venti e delle nubi. Non sono
forze fisiche ma è il potere di Dio a mantenere e a sostenere
tutti questi aspetti della realtà in un quadro completamente di-
verso, non più magico, ma etico29.

Oppure, se prendiamo una fonte più recente che trat-


ta dello stesso argomento, troviamo che Zaehner nota me-
stamente che i testi zoroastriani meno incompleti riguar-
dano soltanto regole di purezza e non sono quindi di in-
teresse alcuno:
... solo nel Vide'VdaÙ: con le sue monotone prescrizioni relative
alla purezza rituale e con le sue elencazioni di incredibili pene
per crimini assurdi, i traduttori dimostrano una comprensione
accettabile del testo

Questa è sicuramente la versione che avrebbe dato


Robertson Smith di queste regole, ma a settantanni di
distanza siamo certi che non ci sarebbe altro da dire in
materia?
Nelle analisi del Vecchio Testamento è comune la tesi
che i popoli primitivi usino i rituali con uno scopo magi-
co, cioè a dire in maniera meccanica, strumentale, «In
Israele originariamente esiste appena una distinzione tra
quello che noi chiamiamo peccato intenzionale e non in-
tenzionale nei confronti di D io »31. «Per gli Ebrei del
quinto secolo avanti Cristo», scrive James, «l’espiazione
non era altro che un procedimento meccanico consistente

61
L ’impurità come rito

nell’asportazione della sporcizia materiale» 32. La storia de-


gli Israeliti è spesso presentata come la lotta tra i profeti
che esortavano ad un’unione interiore con Dio e il popo-
lo sempre pronto a ricadere nell’antica magia, dalla quale
esso era attratto particolarmente quando veniva in contat-
to con altre culture più primitive. Paradossalmente la ma-
gia sembra alla fine prevalere con la compilazione del Co-
dice Sacerdotale. Se la credenza nella sufficiente efficacia
del rito si deve chiamare magia nelle sue manifestazioni
più recenti come in quelle più primitive, andrebbe perdu-
ta l’utilità della magia come misura della condizione pri-
mitiva. Si vorrebbe che la risposta risolutiva ci venisse da-
gli studi sul Vecchio Testamento; essi tendono invece,
con il tabù e il mana, ad accentuare la peculiarità dell’e-
sperienza religiosa di Israele contrapponendola al pagane-
simo dei Semiti. Eichrodt dimostra una particolare disin-
voltura con questi terminiì3:
Si è già fatto menzione dell’effetto magico attribuito ai riti e
alle formule di espiazione babilonesi e ciò diviene particolar-
mente chiaro quando si ricordi che la confessione del peccato
fa realmente parte del rituale di esorcismo ed ha efficacia ex
opere operato34.
Egli continua citando i Salmi 40,7 e 69,31 come
esempi di «opposizione alla tendenza del sistema sacrifi-
cale di fare del perdono dei peccati un processo meccani-
co». Ancora, egli afferma che i concetti religiosi primitivi
sono «materialistici» 35. Gran parte di quest’opera, per al-
tro notevole, si basa sul presupposto che il rituale che
funziona ex opere operato sia primitivo, anteriore dal pun-
to di vista cronologico a quei cerimoniali che sono simbo-
lici di stati d’animo interiori. Ma di tanto in tanto la na-
tura non verificata a priori di questa ipotesi sembra mette-
re a disagio l’autore:
L’espressione più comune per fare ammenda, mondare, è
un’ulteriore indicazione di quanto si è detto, se, sulla base di
concordanze babilonesi e assire, si può spiegare il significato
originario del termine come «spazzar via». Qui il concetto fon-
damentale di peccato è quello di un’impurità materiale, e il san-

62
L'impurità come rito

gue, sostanza sacra dotata di poteri miracolosi, si crede possa


nettare la macchia del peccato, quasi automaticamente36.

Segue un’idea luminosa che potrebbe dare il via a


non pochi commenti, se presa sul serio:

Tuttavia, dal momento che, se la derivazione si fa risalire


rifacendosi all’arabico, sembra altrettanto possibile attribuire il
significato di «ricoprire», non è escluso che il concetto sia di
proteggere con mezzi di riparazione la propria colpa dagli occhi
della parte offesa, cosa che accentuerebbe per contrasto il carat-
tere personale dell’atto di espiazione <7.

Così Eicbrodt propende in parte per i Babilonesi -


forse anch’essi sapevano qualcosa della vera religione inte-
riore; forse l’esperienza religiosa israelita non si era innal-
zata dal circostante paganesimo magico con tale esclusiva
singolarità.
Si possono trovare dei pregiudizi analoghi nelle inter-
pretazioni della letteratura greca. Finley, discutendo della
vita sociale e delle credenze del mondo omerico, adotta
una discriminante etica per distinguere in queste ultime
gli elementi più recenti dagli elementi antichi38.
Un erudito classicista francese, per citare un altro
esempio, è l’autore di una completa ricerca sulle idee di
purezza e di impurità nel pensiero greco 39. Libero dall’in-
fluenza di Robertson Smith, il suo tipo di approccio sem-
bra correttamente empirico secondo gli standard antropo-
logici attuali. Sembra che il pensiero greco sia stato relati-
vamente privo di rituali di contaminazione nel periodo
descritto da Omero (sempre che ci sia stato un tale perio-
do storico), mentre tracce di concetti di contaminazione
emergono in epoca posteriore e sono espressi dai tragici
classici. L ’antropologo, povero di cultura classica, attende
lumi da un esperto per sapere quanta fiducia meriti que-
sto autore: il suo materiale è stimolante, infatti, e convin-
cente per il profano. Ahimè, nel «Journal of Hellenic Stu-
dies» il libro è solennemente bocciato da un recensore in-
glese che lo trova insufficiente in antropologia del secolo
diciannovesimo:

63
L'impurità come rito

... l’autore si è voluto creare un ostacolo inutilmente. Sembra


che non conosca affatto la vasta mole di materiale comparativo a
disposizione di chiunque si dedichi allo studio di purezza, con-
taminazione e purificazione... gli sarebbe bastato un modesto
contributo di conoscenze antropologiche per sapere che una no-
zione così antica come quella della contaminazione del sangue
versato appartiene ad un’epoca in cui la comunità costituiva il
mondo intero... a p. 277 egli usa la parola «tabù», ma solo per
dimostrare che il suo significato non gli è affatto chiaro40.

Al contrario, un commentatore non costretto da dub-


bie conoscenze antropologiche, Whatmough, raccomanda
senza riserva l’opera di Moulinier4;.
Queste citazioni raccolte qua e là piuttosto a caso si
potrebbero facilmente moltiplicare: esse dimostrano quan-
to sia stata vasta l’influenza di Frazer. Anche nel campo
dell’antropologia la sua opera ha agito nel profondo. A
quanto pare, una volta che Frazer aveva dichiarato che il
problema più importante dello studio comparativo delle
religioni era costituito dalle false credenze nell’efficacia
magica, l’attenzione degli antropologi inglesi era rimasta
doverosamente china su questo impegnativo quesito, an-
che se da molto tempo essi avevano abbandonato l’ipotesi
evoluzionistica che lo rendeva interessante agli occhi di
Frazer. E così che noi ci troviamo di fronte a virtuose
esibizioni erudite sulla relazione tra scienza e magia, la
cui importanza teorica rimane oscura.
Tutto sommato l’influenza di Frazer è stata dannosa.
Egli accolse da Robertson Smith il suo insegnamento più
marginale e tramandò una distinzione poco apprezzata tra
religione e magia. Egli diffuse un falso pregiudizio a pro-
posito del punto di Asta primitivo dell’universo, manipo-
lato da simboli meccanici, e un altro preconcetto non ve-
ro secondo cui la morale è estranea alla religione primiti-
va. Prima di poter affrontare l’argomento della contami-
nazione rituale è opportuno correggere questi pregiudizi.
Nello studio comparato delle religioni i problemi più dif-
ficili sorgono perché l’esperienza umana è stata così erro-
neamente divisa. Cerchiamo con questo saggio di riunifi-
care le parti mozze, o almeno alcune.

64
L''impurità come rito

In primo luogo non ci aspetteremo di comprendere la


religione se ci limitiamo a considerare la fede in esseri
spirituali, per quanto si possa perfezionare la formula.
Nel contesto di certe indagini potrà darsi il caso che ab-
biamo bisogno di riassumere tutte le attuali credenze in
altri esseri, zombi, antenati, demoni, fate - la sorte. Ma
seguendo Robertson Smith non avremo l’ingenuità di cre-
dere che catalogando in massa la popolazione spirituale
dell’universo ci impadroniremo necessariamente dell’es-
senza della religione. Piuttosto che fermarci a tranciare
definizioni, tenteremo di fare un paragone tra i punti di
vista della gente sul destino dell’uomo e sul suo posto
nell’universo. In secondo luogo non ci aspetteremo di ca-
pire le idee delle altre persone a proposito della contami-
nazione sacra e profana, finché non avremo esaminato le
nostre.

Note

1 T. Hardy, Far from thè Madding Crotvd, London, 1874; trad. it.
Via dalla pazza folla, Milano, Garzanti, 1973.
2 M. Eliade, Le chamanisme et les techniques archaiques de l ’extase,
Paris, 1951, pp. 14-15; trad. it. Lo sciamanismo e le tecniche dell'estasi,
Roma, 1983.
1 F. Steiner, Taboo, cit.. p. 33.
4 Lenitico, 45 [le traduzioni dei passi dell’Antico e Nuovo Testa-
mento sono tratte da L a sacra Bibbia, 3 voli., Torino, 1963. N .d.T .Ì.
5 E.B. Harper, Ritual Pollution as an Integrator o f Caste and Reli-
gion, in «Journal of Asian Studies», XXIII (1964), pp. 151-97.
6 Ibidem, pp. 181-83.
7 J.G . Frazer, Spiriti o f thè Corti and o f thè Wild, London, 1912,
voi. II, p. 23 [corrisponde alla parte V di The Golden Bough, 12 voli.,
London, III ed., 1907-1915. N .d .T .Ì.
8 J.G. Frazer, Parte II, Taboo and thè Perils o f thè Soni, London,
1911, p. 224 [corrisponde alla parte II di The Golden Bough, cit.
N .d.T .Ì.
9 W. Robertson Smith, The Religion o f thè Semites (Burnett Lectu-
res, 1888-89), Edinburgh, 1889, p. 142.
111 Ibidem.

65
L'impurità come rito

11 ìbidem, nota C, p. 430.


12 J. Wesley, Works, prima edizione americana, 1826-27, voi. V,
p. 402.
15 R. Whately, On thè Origin o f Civilization, London, 1855, pp.
26-27.
14 M. Hodgen, The Doctrine o f Survivals: A Chapter in thè History
o f Scientific Method in thè Study o f M an, London, 1936, pp. 30-31.
15 E.B. Tylor, Primitive Culture, London, 18732, p. 16 (di quest’o-
pera esiste la trad. it. del cap. I, apparsa in II concetto di cultura, a
cura di P. Rossi, Torino, 1972).
16 E.B. Tylor, Primitive Culture, cit., p. 71.
17 M. Richter, The Politics of Conscience: T.H. Green and llis Age,
London, 1964, p. 105.
18 J.S. Black e G. Chrystal, The Life o f William Robertson Smith,
London, 1912, p. 536.
19 W. Robertson Smith, The Religio/i o f thè Semites, cit., p. 55.
2f: J.S. Black e G . Chrystal, The Life of William Robertson Smith,
cit., pp. 126-27,
21 W. Robertson Smith, The Religion o f thè Semites, cit., pp.
29-33.
22 Talcott Parsons, Durkheim’s Contribution io thè Theory o f Inte-
gration o f Social Systems, in Emile Durkheim, 1858 1917: A Collcction o f
Essays, wifh Translation and a Bibliography, a cura di Kurt H. Wolf,
Columbus, Ohio, 1960.
23 E. Durkheim, Les form es élémentaires de la vie religieuse, Paris,
1912; trad. it. Le form e elementari della vita religiosa, Milano, 1963, p.
227.
24 J.G . Frazer, The Golden Bough, 12 voli., London, 1911-15 (ed.
orig. 1890); trad. it. (parziale), Il ramo d ’oro. Studio della magia e della
religione, Torino, 1965.
25 E. Durkheim, Les form es élémentaires de la vie religieuse, trad.
it. cit., p. 329.
26 W. Robertson Smith, The Religion o f thè Semites, cit., pp. 29 ss.
2,1 J.G . Frazer, Spirits o f thè Corn and o f thè Wild, cit., p. 109.
28 J.G . Frazer, Taboo and thè Perils o f thè Soni, cit., ultimo cap.
29 E. Cassirer, An Essay on Man. An Introducami to a Philosophy o f
Human Culture, New Haven, 1944; trad. it. Saggio sull’uomo. Introdu-
zione ad una filosofia della cultura, Roma, 1968, pp. 189-90.
30 R.C. Zaehner, The Dawn and Timlight o f Zoroastrianism, Lon-
don, 1963; trad. it. Zoroastro e la fantasia religiosa, Milano, 1962.
31 W.O. Oesterley e G .H . Box, The Religion o f thè Synagogue,
London, 1911.

66
Vimpurità come rito

37 E.O. James, Comparative Religion, London, 1938.


3' W. Eichrodt, Theobgie des Alteri Testamenti, Gottingen, 1933;
trad. it. Teologia dell’Antico Testamento, Brescia, Paideia, 1979.
34 Ibidem.
35 Ibidem.
36 Ibidem.
37 Ìbidem.
38 M. Finley, The World o f Odysseus, Toronto, 1956, pp. 147,
151, 157; trad. it. Il mondo di. Odisseo, Bari. Laterza, 1978.
39 L. Moulinier, Le pur et Timpur dans la pensée des Grecs, d'Ho-
mère a Aristote, in «Etudes et Commentaires», XI (1952).
40 H .J. Rose, Review o f Moulinier, in «Journal of Hellenic Stu-
dies», LX XIV (1954).
41 J. Whatmough, Review of Moulinier, in «Erasmus», V ili
(1955), pp. 618-19.

67

t f iT r ìT m r u n n i iTTTrriTTTTTrrrf TTSTETTTTTTrrrnrm h i i h i i n r t t m m r r r n in tu ii: r m »! liiin u tii


Capitolo secondo

La contaminazione
nella sfera profana

Lo studio comparato delle religioni è stato sempre in-


quinato dal materialismo medico; secondo alcuni, tutti i
riti antichi, anche i più esotici, si fondano essenzialmente
sull’igiene; altri invece, pur essendo d’accordo sul fatto
che i rituali primitivi perseguono come loro oggetto l’igie-
ne, hanno opinioni divergenti a proposito della validità di
quest’ultima: per costoro infatti c’è un enorme abisso tra
le nostre fondate concezioni igieniche e le erronee fanta-
sie del primitivo. Pur tuttavia, questi due modi di acco-
starsi al rituale risultano entrambi sterili, a causa del man-
cato confronto delle nostre idee di igiene e di sporco.
Nella prima tesi è implicito che basterebbe semplice-
mente conoscere tutte le circostanze per scoprire che la
base razionale del rituale primitivo è ampiamente giustifi-
cata. Questa ipotesi interpretativa è intenzionalmente pro-
saica. Il significato dell’incenso non è quello di simboleg-
giare il fumo che sale dal sacrificio, bensì quello di rende-
re sopportabile il puzzo di umanità. L ’astensione dal ci-
barsi di carne di maiale in uso tra gli ebrei e gli islamici
viene spiegata chiamando in causa i pericoli di mangiare
in climi caldi la carne di questo animale.
E ben vero che ci può essere una meravigliosa corri-
spondenza tra l’evitare le malattie contagiose e l’astensio-
ne rituale. I lavacri e le separazioni che servono a un solo
scopo pratico possono al tempo stesso servire a esprimere
contenuti religiosi. Così si è sostenuto che siano state le
regole che prescrivevano di lavarsi prima di mangiare a
conferire agli ebrei l’immunità durante le pestilenze. Ma
un conto è sottolineare i benefici secondari degli atti ri-
tuali ed un altro è accontentarsi di utilizzare le conse-

69
La contaminazione nella sfera profana

guenze secondarie come spiegazione plausibile. Anche se


alcune delle regole dietetiche dettate da Mosè comporta-
vano dei vantaggi dal punto di vista igienico, è riduttivo
considerare Mosè come un illuminato amministratore del-
la salute pubblica piuttosto che come una guida spiritua-
le.
Cito da un commento alle regole dietetiche di Mosè:
... Il principio fondamentale che sta alla base delle leggi di
questo capitolo si può riconoscere probabilmente nel campo
dell’igiene e della salute pubblica... L’idea delle malattie paras-
sitane ed infettive, che è venuta a ricoprire un ruolo così im-
portante nella moderna patologia, sembra abbia rivestito grande
importanza nel pensiero di Mosè, finendo col prevalere su tutte
le regole igieniche. Egli esclude dalla dieta degli ebrei quegli
animali particolarmente attaccabili dai parassiti; e poiché è nel
sangue che circolano i germi o le spore delle malattie infettive,
egli ordina eli dissanguare gli animali che vengono consumati
come cibo '.
L ’autore prosegue mettendo in evidenza il fatto che
gli Ebrei d’Europa sono più longevi e più immuni nelle
epidemie, vantaggi questi che egli attribuisce alle loro re-
strizioni dietetiche. Quando parla di parassiti, è improba-
bile che si riferisca ai vermi responsabili della trichinosi,
dal momento che fino al 1828 questa malattia era scono-
sciuta, e fino al 1860 non era considerata pericolosa per
l’uomo 2.
Un parere analogo è contenuto nella comunicazione
riguardante la valutazione medica di certe antiche prati-
che nigeriane \ Il culto tributato dagli Yoruba alla divini-
tà del vaiolo, ad esempio, esige che i pazienti siano isolati
e assistiti da un sacerdote, che deve aver superato la ma-
lattia e possa essere perciò immune. Inoltre gli Yoruba
usano la mano sinistra per maneggiare tutto quello che
non è pulito, «perché la destra si usa per mangiare e la
gente si rende conto del rischio di contaminazione che
può derivare a chi non osserva questa distinzione».
Anche padre Lagrange era dello stesso avviso:
L’impurità dunque, non lo neghiamo, presenta un carattere

70
La contaminazione nella sfera profana

religioso, o almeno tocca pretese soprannaturali; ma alle sue


origini è forse diversa da una misura di prevenzione sanitaria?
L’acqua non è forse qui un sostituto degli antisettici? E lo spiri-
to temuto, non ha forse fatto dei danni propri della sua natura
di microbo? 4
Può ben darsi che le antiche tradizioni israelitiche
comprendessero la nozione secondo la quale la carne di
maiale costituisce un cibo nocivo per l’uomo; tutto è pos-
sibile. Bisogna però far presente che questa non è la ra-
gione fornita dal Levitico per la proibizione della carne di
inaiale ed evidentemente la tradizione, semmai ve ne fu
una, è andata perduta. Infatti lo stesso Maimonide, auto-
revole rappresentante del materialismo medico del dodi-
cesimo secolo, benché personalmente fosse convinto delle
ragioni igieniche che stavano alla base di tutte le altre re-
strizioni dietetiche delle leggi di Mosè, confessava la sua
perplessità per il divieto di mangiare carne di maiale ed
era costretto a dare delle spiegazioni estetiche, basate sul-
la dieta vomitevole del maiale domestico:
Ammetto che il cibo proibito dalla Legge sia immangiabile.
Nessuno mette in dubbio il carattere nocivo dei tipi di cibi
proibiti, ad eccezione del maiale e del grasso; ma anche in que-
sto caso il dubbio non è giustificato. Infatti il maiale contiene
acqua più del necessario (per un alimento destinato all’uomo) e
troppe sostanze superflue. La ragione principale per la quale la
Legge proibisce la carne di maiale va ricercata nella circostanza
che le sue abitudini e i suoi cibi sono molto sporchi e disgusto-
si... 5
Ciò almeno dimostra che il fondamento originario del-
le regole riguardanti la carne di maiale, quand’anche fosse
stato una volta individuato, non è stato trasmesso con il
resto dell’eredità culturale.
I farmacologi stanno ancora scervellandosi sul capitolo
undicesimo del Levitico. Cito a mo’ di esempio una co-
municazione di David I. Macht che mi è nota grazie a
Joceline Richard. Macht ha preparato degli estratti di mu-
scoli ricavati da maiali, cani, lepri, conigli (trattati alla
stessa maniera delle cavie da esperimento), cammelli ed

71

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La contaminazione nella sfera profana

anche da uccelli predatori e da pesci senza pinne né squa-


me. Egli ha sottoposto i liquidi degli estratti a prove di
tossicità che si sono rivelate positive. Le prove eseguite su
animali che nel Levitico erano considerati puliti dimostra-
rono una tossicità inferiore, ma anch’egli concluse che la
sua ricerca in ogni caso non dimostrava nulla quanto al
valore medico delle leggi di Mosè 6.
Un altro esempio di materialismo medico ci viene for-
nito da Kramer, che decanta una tavoletta sumerica di
Nippur come l’unico testo medico giunto a noi dal terzo
millennio avanti Cristo.
Il testo rivela, seppure indirettamente, una vasta conoscenza
di un certo numero di procedure e operazioni mediche piutto-
sto elaborate. Ad esempio, in molte prescrizioni si davano istru-
zioni per «purificare» le erbe medicinali prima della polverizza-
zione, un’operazione che doveva richiedere numerosi procedi-
menti chimici1.
Profondamente convinto che in questo contesto la pu-
rificazione non significasse l’aspersione con l’acqua santa
o la recitazione di una semplice formula magica, egli pro-
cede entusiasticamente:
I medici sumeri che scrissero questa tavoletta non ricorreva-
no alle formule magiche e agli incantesimi... resta il fatto sor-
prendente che il documento di argilla che è giunto fino a noi,
la più vecchia «pagina» di testo medico scoperta finora, sia
completamente privo di elementi mistici e irrazionali 8.
Questo a proposito del materialismo medico, un ter-
mine coniato da William James per così definire la ten-
denza di considerare l'esperienza religiosa in questi termi-
ni y: ad esempio un sogno o una visione vengono spiegati
come se a provocarli fossero state delle droghe o un’indi-
gestione. Non vi sono obiezioni a questa interpretazione,
purché essa non escluda altri approcci. I popoli primitivi
sono in gran parte sostenitori del materialismo medico in
senso lato, limitatamente alla loro tendenza a giustificare i
loro atti rituali nei termini del dolore e della pena che li
affliggerebbero qualora i riti fossero trascurati. Dimostre-

72
La contaminazione nella sfera profana

rò più avanti perché le regole rituali siano così spesso raf-


forzate da credenze in particolari rischi conseguenti alla
loro trasgressione. Quando avrò concluso la mia analisi
del pericolo rituale, penso che nessuno sarà tentato di far-
si ingannare dall’apparato esteriore di tali credenze.
Per quanto riguarda l’interpretazione opposta - che i
rituali primitivi non abbiano assolutamente niente in co-
mune con le nostre idee di pulizia - disapprovo quest’ul-
tima come ugualmente dannosa alla comprensione del ri-
tuale. Secondo questo punto di vista il nostro lavarci,
spazzolarci, isolarci e disinfettarci avrebbe soltanto una
somiglianza superficiale con le purificazioni rituali. Le no-
stre pratiche sarebbero solidamente ancorate all’igiene; le
loro sarebbero simboliche: noi uccidiamo i germi, i primi-
tivi tengono lontani gli spiriti. Questa sembra indubbia-
mente una contrapposizione; eppure tra alcuni dei loro ri-
ti simbolici e la nostra igiene si riscontra una somiglianza
che spesso è stranamente stretta. Harper, ad esempio, ri-
capitola il contesto apertamente religioso delle regole di
contaminazione dei bramini Havik. Queste riconoscono
tre gradi di purezza religiosa: quello più elevato è neces-
sario per compiere un atto di culto; un grado intermedio
è la condizione richiesta normalmente; ed infine vi è lo
stato di impurità. Il contatto con una persona dello stato
intermedio può far diventare impura una persona dello
stato più elevato, e il contatto con tutti quelli che si tro-
vano in una condizione impura può causare l’impurità di
tutte e due le categorie superiori. Allo stato più elevato si
può accedere solo attraverso il rito del lavacro.

Per un bramino è assolutamente essenziale fare almeno un


bagno quotidiano, perché senza di esso non può compiere gli
atti quotidiani di culto ai suoi dei. Teoricamente, dicono gli
Havik, bisognerebbe farsi il bagno tre volte al giorno, una volta
prima di ogni pasto; ma pochi riescono a fare ciò: in pratica
tutti gli Havik che ho conosciuto osservano rigidamente l’abitu-
dine di un bagno giornaliero, prima del pasto principale della
giornata e prima di venerare gli dei della casa... Gli Havik ma-
schi appartenenti ad una casta relativamente benestante, che in
certe stagioni godono di una notevole quantità di tempo libero,

73
La con laminazione nella sfera profana

ciononostante si sobbarcano gran parte del lavoro necessario al-


la conduzione dei loro possedimenti di noci d’areca. Si fa a ga-
ia per finire il lavoro considerato sporco o ritualmente contami-
nante - ad esempio trasportare il letame nel giardino o lavorare
accanto ad un inserviente intoccabile - prima di fare il bagno
quotidiano che precede il pasto principale. Se per qualche ra-
gione questo lavoro deve essere eseguito nel pomeriggio, biso-
gna fare un altro bagno quando si ritorna a casa 10.

I cibi vengono distinti in cotti e crudi a seconda se


siano o meno portatori di contaminazione. Il cibo cotto, a
differenza di quello crudo, può trasmettere la contamina-
zione: così i cibi non cotti si possono prendere dalle mani
dei componenti di tutte le caste o possono da questi esse-
re manipolati - una norma necessaria dal punto di vista
pratico di una società in cui la divisione del lavoro è cor-
relata al grado della purezza ereditata 11. La frutta fresca e
quella secca, finché è intera, non è soggetta alla contami-
nazione rituale, ma una volta che una noce di cocco è
rotta o una banana è tagliata, un Havik non può accettar-
la da un membro di una casta inferiore.

L’atto del mangiare è potenzialmente contaminante, ma è il


modo che determina il grado di contaminazione. La saliva - an-
che la propria - è estremamente contaminante. Se inavvertita-
mente un bramino si tocca le labbra con le dita dovrebbe lavar-
si o quanto meno cambiarsi d’abito. Ancora, la contaminazione
della saliva si può trasmettere con le sostanze solide. Queste so-
no le due credenze che stanno alla base dell’abitudine di bere
l’acqua versandola direttamente nella bocca invece di accostare
le labbra al bordo della tazza e di fumare le sigarette... attraver-
so le mani in modo che esse non tocchino mai direttamente le
labbra. (In questa parte dell’India i narghilè sono praticamente
sconosciuti)... L’ingestione di cibo, persino di una bevanda co-
me il caffè, deve essere preceduta dalla lavanda dei piedi e del-
le maniII12.

II cibo che si può introdurre in bocca intero provoca


una minore contaminazione della saliva di chi mangia che
non il cibo che si deve mordere. Una cuoca non può as-
saggiare il cibo che sta preparando poiché, toccando le

74
La contaminazione nella sfera profana

sue labbra con le mani, essa potrebbe perdere la condi-


zione di purezza richiesta per proteggere il cibo dalla
contaminazione. Mentre sta mangiando, una persona si
trova nella condizione intermedia di purezza e, se per ac-
cidente dovesse toccare la mano o il mestolo dell’inser-
viente, questi diventerebbe impuro e dovrebbe come mi-
nimo cambiarsi d’abito prima di continuare a servire il ci-
bo. Dal momento che la contaminazione si trasmette se-
dendosi a tavola sullo stesso sedile, l’ospite appartenente
ad un’altra casta siede normalmente in un posto apparta-
to. Un Havik che si trovi in condizione di grave impurità
dovrebbe cibarsi fuori casa e portarsi via da solo il piatto
di foglie su cui ha mangiato; nessun altro può toccarlo
senza esserne contaminato: l’unica persona che non viene
contaminata dal contatto e dal mangiare sullo stesso piat-
to di un altro è la moglie, che in questo modo, come ab-
biamo detto, rivela la sua relazione personale con il mari-
to. E così le regole si moltiplicano. Esse si ripartiscono in
suddivisioni sempre più sottili che prescrivono comporta-
menti rituali relativi alle mestruazioni, alla nascita e alla
morte. Tutto ciò che fuoriesce dal corpo - addirittura il
sangue o il pus di una ferita - è fonte di impurità. Per le
pulizie che seguono la defecazione si deve usare l’acqua e
non la carta c si deve usare soltanto la mano sinistra,
mentre il cibo va mangiato solo con la mano destra. Cam-
minare sulle feci di animali è causa di impurità. Lo stesso
effetto è provocato dal contatto con il cuoio: chi calza
sandali di cuoio non dovrebbe toccarli con le mani e do-
vrebbe toglierseli e lavarsi i piedi prima di entrare nel
tempio o in una casa.
I tipi di contatti indiretti che possono provocare la
contaminazione sono soggetti a precise regole. Un Havik
che sta lavorando insieme all’inserviente intoccabile si può
contaminare gravemente se tocca una corda o un bambù
contemporaneamente all’inserviente: ciò che contamina è
il contatto simultaneo con il bambù o la corda. Un Havik
non può ricevere direttamente da un intoccabile né frutta
né denaro. Ma vi sono alcuni oggetti che si mantengono
impuri e possono essere conduttori di contaminazione an-

75
La contaminazione nella sfera profana

che dopo che sono stati toccati: l’impurità persiste nelle


vesti di cotone, nel vasellame metallico, nei cibi cotti.
Fortunatamente per la cooperazione tra le caste, il terreno
non funziona da conduttore, come invece accade per la
paglia.
LJn bramino non dovrebbe stare nella stessa parte della stal-
la in cui si trova il suo inserviente intoccabile, per timore che
tutti e due possano calpestare degli spazi collegati tramite la pa-
glia che è sparsa sul pavimento. Anche ammesso che un Havik
e un intoccabile facciano il bagno simultaneamente in uno sta-
gno del villaggio, l’Havik riesce a mantenersi nello stato di Ma-
di (purezza) poiché l’acqua arriva al terreno e il terreno non
trasmette l’impurità 13.

Quanto più profondamente analizziamo questa e simili


regole, tanto più ovvio appare che stiamo studiando dei
sistemi simbolici. E poi questa in realtà la differenza tra la
contaminazione rituale e le nostre idee di sporco? Sono
forse igieniche le nostre e simboliche le loro? Non è asso-
lutamente così: sto cercando di dimostrare che anche i
nostri concetti di sporco esprimono dei sistemi simbolici
e che la differenza tra I’una e l’altra parte del mondo per
quanto riguarda i comportamenti relativi alla contamina-
zione è solo questione di particolari.
Prima di incominciare a pensare alla contaminazione
rituale ci conviene vestire il saio e coprirci di cenere e
riesaminare scrupolosamente i nostri concetti di sporco:
scomponendoli nelle loro parti dovremmo distinguere cia-
scun elemento che riconosciamo come conseguenza della
nostra storia recente.
Vi sono due notevoli differenze tra le nostre idee di
contaminazione - tipiche di europei contemporanei - e
quelle, diciamo, delle culture primitive. La prima è che
per noi evitare lo sporco è una questione di igiene o di
estetica che non ha alcun rapporto con la nostra religione.
Nel capitolo V (Nei mondi primitivi) mi dilungherò sulla
specializzazione dei concetti che separa le nostre nozioni
di sporco dalla religione. La seconda differenza è che la
nostra concezione dello sporco è dominata dalla cono-

76
La contaminazione nella sfera profana

scenza degli organismi patogeni. La trasmissione delle ma-


lattie per via batterica fu una grande scoperta del dician-
novesimo secolo. Essa provocò la rivoluzione più radicale
nella storia della medicina; ed ha trasformato a tal punto
la nostra vita che è difficile pensare allo sporco fuori dal
contesto della patogenicità: ovviamente, le nostre idee di
sporco non sono così recenti. Dovremmo riuscire a torna-
re indietro col pensiero di almeno cento anni e analizzare
le basi della paura dello sporco, prima che questa fosse
stata trasformata dalla batteriologia; per esempio prima
che lo sputare con disinvoltura nella sputacchiera fosse
considerato un atto ami-igienico.
Se potessimo astrarre la patogenicità e l’igiene dalla
nostra nozione di sporco, ci resterebbe la nostra vecchia
definizione di sporcizia come di un qualcosa fuori posto -
una interpretazione molto suggestiva che implica due con-
dizioni: una serie di relazioni ordinate e una contravven-
zione a questo ordine. Ma lo sporco non è mai un evento
unico, isolato. Dove c’è lo sporco c’è il sistema. Lo spor-
co è il sottoprodotto di un’ordinazione e di una classifica-
zione sistematica delle cose, così come l’ordine compren-
de il rifiuto di elementi estranei. Questa idea dello sporco
conduce direttamente nel campo del simbolismo e antici-
pa un collegamento con più ovvi sistemi simbolici di pu-
rezza.
È facile riconoscere nelle nozioni di sporco che stiamo
usando una specie di compendio, valevole per tutti gli usi
in cui includiamo ogni elemento che i sistemi ordinati ri-
fiutano: è un’idea di relatività.
Le scarpe non sono sporche in sé, ma è sporco ap-
poggiarle sulla tavola, dove si mangia; il cibo non è spor-
co in sé, ma è sporco lasciare il vasellame di cucina nella
stanza da letto, o i vestiti imbrattati di cibo; così pure è
sporco lasciare nel salotto gli oggetti del bagno; i vestiti
buttati sulle sedie; mettere in casa ciò che deve stare all’a-
perto, o di sotto quello che deve stare di sopra; la bian-
cheria dove normalmente ci sono gli abiti, e così via. In
breve, il comportamento che noi seguiamo riguardo alla
contaminazione si fonda su una reazione negativa verso

77
La contaminazione nella sfera profana

ogni oggetto o idea che può confondere o contraddire le


classificazioni a cui siamo legati.
Non dovremmo sforzarci di concentrare la nostra at-
tenzione sullo sporco: così delimitato, esso appare come
una categoria residua, respinta dal nostro normale schema
di classificazione. Cercando di concentrarci su di esso ci
scontriamo con le nostre abitudini mentali più radicate:
sembra infatti che qualsiasi nostra percezione anteriore sia
organizzata in modelli di cui noi, i soggetti percipienti,
siamo abbondantemente responsabili. Percepire non vuol
dire prestare passivamente un organo - quello della vista
o dell’udito, ad esempio - per ricevere dall’esterno un’im-
pressione già pronta, alla stessa maniera che una tavolozza
riceve una chiazza di colore. Riconoscere e ricordare non
vogliono dire evocare vecchie immagini e impressioni pas-
sate. E generalmente ammesso che tutte le nostre impres-
sioni abbiano uno schema determinalo già in partenza.
Come soggetti percipienti noi selezioniamo tra gli stimoli
che cadono sotto i nostri sensi soltanto quelli che ci inte-
ressano e i nostri interessi vengono controllati da una ten-
denza a creare modelli che alcuni chiamano schema H. In
un caos di impressioni mutevoli ciascuno di noi costruisce
un mondo stabile in cui gli oggetti hanno delle forme ri-
conoscibili, sono situati a una certa profondità e sono
persistenti. Quando percepiamo noi costruiamo, prendia-
mo alcuni pezzi e ne scartiamo altri. I pezzi migliori sono
quelli che più facilmente si inseriscono nel modello che
stiamo costruendo. Quelli ambigui tendono ad essere con-
siderati come se si armonizzassero con il resto del model-
lo; quelli discordanti tendono ad essere scartati. Per inse-
rirli bisogna modificare la struttura dei postulati. Con lo
sviluppo dell’apprendimento, gli oggetti ricevono un no-
me; i nomi a loro volta influenzano il modo in cui vengo-
no percepiti la volta successiva; una volta etichettati, essi
vengono più facilmente incasellati nell’archivio per il futu-
ro.
Con il passare del tempo e con l’accumularsi dell’e-
sperienza, ci affidiamo sempre più al nostro sistema di
schedatura. Ci costruiamo in questo modo una tendenza

78
La contaminazione nella sfera profana

stabile che ci dà fiducia. In qualsiasi momento possiamo


avere la necessità di modificare la struttura dei nostri po-
stulati per adattare la nuova esperienza, ma quanto più
coerente è l’esperienza che offre il passato, tanto maggio-
re è la fiducia che nutriamo nei nostri postulati. Ci accor-
giamo di ignorare i fatti spiacevoli che stentano ad adat-
tarsi, in modo che essi non disturbino questi presupposti
stabilizzati. In genere tutto quanto noi notiamo è presele-
zionato e organizzato nell’atto stesso del percepire. Noi
disponiamo, come altri animali, di una sorta di meccani-
smo filtrante che, in un primo momento, lascia passare
soltanto delle sensazioni che sappiamo come usare.
Ma che cosa succede alle altre? Che cosa avviene delle
possibili esperienze che non passano attraverso il filtro? È
possibile costringere l’attenzione in percorsi meno abitua-
li? Possiamo esaminare anche come funzionano i filtri
stessi?
Certamente possiamo sforzarci di osservare delle cose
che le nostre tendenze alla schematizzazione non ci hanno
permesso di salvare; dà sempre fastidio scoprire che la
nostra prima facile osservazione era sbagliata. Persino
guardare fissamente attraverso uno strumento deformante
mette fisicamente a disagio alcune persone, come se fosse
minacciato il loro equilibrio. La Abercrombie riunì un
gruppo di studenti in medicina per un corso di esperi-
menti aventi lo scopo di dimostrare l’alto grado di sele-
zione presente anche nelle osservazioni più semplici. «Ma
non si può ridurre il mondo a gelatina!», protestava uno.
«E come se il mio mondo si fosse spaccato in due!», di-
ceva un altro. Altri reagirono in un modo più duramente
ostile 15.
Ma non sempre trovarsi di fronte all’ambiguità costi-
tuisce un’esperienza spiacevole. Ovviamente è più soppor-
tabile in certi campi che in altri. C ’è tutto un gradiente in
cui la risata, la repulsione e lo shock si possono riferire a
punti e a intensità diverse. L ’esperienza può essere stimo-
lante. La ricchezza della poesia dipende dall’uso della am-
biguità: lo ha dimostrato Empson. La possibilità di vedere

79
L a contaminazione nella sfera profana

altrettanto bene una scultura come un paesaggio o un nu-


do sdraiato arricchisce l’interesse dell’opera. Ehrenz-
weig 16 ha persino sostenuto che noi apprezziamo l’opera
d’arte perché ci permette di andare al di là delle esplicite
strutture della normale esperienza. Il piacere estetico deri-
va dalla percezione di forme disarticolate.
Mi si voglia perdonare l’uso che sta facendo di ano-
malia e ambiguità come se fossero sinonimi; in senso
stretto non lo sono: una anomalia è un elemento che non
rientra in una data serie o categoria; l’ambiguità è la ca-
ratteristica di quelle affermazioni che sono suscettibili di
due interpretazioni. Tuttavia se si pensa a degli esempi, ci
si accorge che c’è un ben misero vantaggio a distinguere
questi due termini nella loro applicazione pratica. Lo sci-
roppo non è né liquido né solido: si può dire di esso che
dà un’ambigua impressione sensoriale. Possiamo anche di-
re che lo sciroppo è anomalo nella classificazione dei li-
quidi e dei solidi, dal momento che non appartiene né
all’una né all’altra categoria.
Sempre che, poi, si sia in grado di affrontare l’anoma-
lia. Quando qualche cosa è decisamente classificata come
anomala, si chiariscono i limiti della categoria che non la
comprende. Per illustrare questo concetto cito da un sag-
gio di Sartre sulla viscosità. La viscosità, egli dice, di per
se stessa è repellente come esperienza primaria. Un bam-
bino che immerge le mani in un vaso di miele ne viene
immediatamente indotto a meditare sulle proprietà forma-
li dei solidi e dei liquidi e sulla relazione essenziale esi-
stente tra il proprio io che sperimenta soggettivamente il
mondo e il mondo sperimentato '7. Lo stato viscoso si
trova a metà tra il solido e il liquido; è come la sezione
nel punto di passaggio tra i due: è instabile ma non scor-
re; è soffice, cedevole e comprimibile. La sua superficie
non è scivolosa. La sua appiccicosità è una trappola, si
attacca come una sanguisuga, attacca i confini tra me e
lui. Lunghe colonne si staccano dalle mie dita creando
l’illusione che la mia materia coli nel lago vischioso. Im-
mergersi nell’acqua dà un’impressione del tutto differen-

80
L a contaminazione nella sfera profana

te: io resto un solido; ma toccare l’attaccaticcio è come


rischiare di venire diluiti nel mezzo viscoso. La viscosità è
appiccicaticcia come un cane troppo affettuoso o un’a-
mante troppo possessiva. In questo modo il primo contat-
to con la viscosità arricchisce l’esperienza del bambino.
Egli ha appreso qualcosa su se stesso e sulle proprietà
della materia ed ha capito l’interrelazione tra se stesso e
le cose.
Non posso rendere giustizia, abbreviando la citazione,
alle meravigliose riflessioni alle quali Sartre viene stimola-
to dall’idea della viscosità, come un liquido aberrante o
un solido in liquefazione. Ma ciò dimostra che non è im-
possibile riflettere e che noi di fatto riflettiamo con suc-
cesso sulle nostre classificazioni principali e sulle espe-
rienze che non corrispondono esattamente a esse. In ge-
nere queste riflessioni confermano la nostra fiducia nelle
classificazioni più importanti. Sartre sostiene che, alle sue
prime manifestazioni, la viscosità, fondente, appiccicatic-
cia, è giudicata come un’ignobile forma di esistenza. In
questo modo, da queste precoci avventure tattili, abbiamo
sempre saputo che la vita non si adegua alle nostre più
semplici categorie.
Vi sono parecchi modi di comportarsi di fronte alle
anomalie. In negativo possiamo ignorarle, non percepirle
affatto, o condannarle nel momento in cui le percepiamo.
In positivo, possiamo deliberatamente affrontare l’anoma-
lia e cercare di creare un nuovo modello di realtà in cui
inserirla. Non è impossibile per un individuo rivedere il
proprio schema personale di classificazione. Ma nessuno
vive in isolamento e gli schemi di qualcuno sono parzial-
mente accolti dagli altri.
La cultura - nel senso delle valutazioni pubbliche
standardizzate di una comunità - media le esperienze de-
gli individui. Essa fornisce anticipatamente alcune catego-
rie fondamentali, un modello positivo in cui le idee e le
valutazioni sono perfettamente ordinate. E soprattutto es-
sa possiede l’autorità, dal momento che ciascuno, dall’as-
senso dell’altro, viene indotto all’assenso: ma il suo carat-

81
La contaminazione nella sfera profana

tere pubblico rende più rigide le sue categorie. Un singo-


lo può rivedere o meno i modelli dei suoi preconcetti: si
tratta di un fatto privato; ma le categorie culturali sono
un fatto pubblico. Non si possono sottoporre altrettanto
facilmente a revisione. Inoltre esse non possono ignorare
il confronto con le forme aberranti. Un certo sistema di
classificazione deve necessariamente produrre delle ano-
malie e una certa cultura deve misurarsi con gli eventi che
sembrano sfidare i suoi postulati; non può ignorare le
anomalie che il suo schema produce, se non vuole correre
il rischio di perdere credibilità. Questa è la ragione per la
quale, secondo me, in ogni cultura degna di tal nome noi
troviamo numerosi provvedimenti per fronteggiare eventi
ambigui o anomali.
In primo luogo, l’ambiguità viene spesso attenuata
adeguandola all’uno o all’altro schema. Per esempio, in
caso di nascita di un bimbo deforme possono venir mi-
nacciati i confini che separano gli uomini dagli animali;
ma se la nascita di un bimbo deforme può essere etichet-
tata come un avvenimento di tipo speciale, allora si può
ricostituire la categoria. Così i Nuer considerano i neonati
deformi come dei piccoli ippopotami generati incidental-
mente dall’uomo e, con questa etichetta, è chiaro quale
sia il provvedimento del caso: lo depongono delicatamen-
te presso il fiume al quale essi appartengono l8.
In secondo luogo, l’esistenza dell’anomalia può venir
circoscritta fisicamente, come in alcune tribù dell’Africa
orientale, dove la regola che i gemelli devono essere uccisi
alla nascita elimina una anomalia sociale, dal momento
che si ritiene impossibile che due esseri umani nascano
contemporaneamente dallo stesso grembo. Oppure pren-
diamo i galli che cantano la notte. Se gli si tira subito il
collo essi non costituiscono una contraddizione vivente al-
la definizione di gallo, secondo la quale esso è un animale
che canta la mattina.
Terzo, la regola di evitare le anomalie conferma e raf-
forza le definizioni alle quali esse non si adeguano. Così,
dove il Levitico aborre le cose che strisciano, dovremmo

82
La contaminazione nella sfera profana

vedere l’abominio come il lato negativo del modello di


cose approvate.
Quarto, gli avvenimenti anomali si possono etichettare
come pericolosi. Ammettiamo pure che vi siano degli in-
dividui che talvolta provano angoscia di fronte all’anoma-
lia, ma sarebbe un errore considerare le istituzioni come
se queste evolvessero nella stessa maniera delle reazioni
spontanee di una persona. E più facile che tali pubbliche
credenze si producano quando si verifica una riduzione di
dissonanza tra le interpretazioni generali e quelle indivi-
duali. Secondo la ricerca di Festinger 19 è ovvio che allor-
ché una persona scopre che le proprie convinzioni non
coincidono con quelle degli amici, resta incerta, oppure
cerca di convincere gli amici che sono in errore. Definire
pericolosa la persona in questione è un modo per porre
l’argomento fuori discussione. Ciò concorre pure a ribadi-
re il conformismo, come dimostreremo più avanti nel ca-
pitolo sulla morale, il capitolo Vili.
Quinto, i simboli ambigui si possono usare nel rito
per gli stessi fini per cui sono usati nella poesia e nella
mitologia, per arricchire il significato o per richiamare
l’attenzione su altri piani di esistenza. Vedremo nell’ulti-
mo capitolo come il rituale, grazie al simbolo di anomalia,
possa inglobare demonio e morte insieme con vita e divi-
nità, in un unico, grande modello unificante.
Per concludere, se la sporcizia è una faccenda fuori
posto, dobbiamo accostarci a essa con ordine. La sporci-
zia e lo sporco sono ciò che non si deve includere in un
modello se quest’ultimo deve essere mantenuto. Ricono-
scere ciò è il primo passo verso la comprensione della
sporcizia e non ci coinvolge in alcuna distinzione netta fra
il sacro e il profano. Lo stesso principio si applica in en-
trambi i settori. Inoltre esso non comporta una particola-
re distinzione tra primitivi e moderni; tutti noi siamo sog-
getti alle medesime regole. Ma nella cultura primitiva la
regola di creare modelli agisce con maggior forza e un
maggior potere di generalizzazione. Nei moderni si appli-
ca ad aree staccate separate dell’esistenza.

83
L a contaminazione nella sfera profana

N ote

1 T.H. Kellog, The Expositor’s Tibie, London, 1841.


2 R. Hegner, F. Root, e D. Augustine, A nim ai Parsitology, New
York - London, 1929, p. 439.
3 O.A. Ajose, Preventive M edicine and Superstitìon in Nigeria, in
«Africa», XXVII (1957), pp. 268-74.
4 M.J. Lagrange, Etudes sur les religions Sém itiques, Paris, 19052,
p. 155.
5 Mosè Maimonide (Mosheh bar Maymon), Guide fo r thè Perple-
xed, a cura di M. Friedlander, London, 1881, PP- 370 ss. (l’opera, in
lingua araba, Mórèh Néhukim, è del 1170).
6 D.I. Macht, An Experim ental Pharm acological Appreciation of
Leviticus X I and Deuteronomy XIV , in «Bulletin of thè History of Me-
dicine», XXVII (1953), p. 444.
' N. Kramer, From thè ’T ahlets of Sumer, Denver, 1956, pp. 58-59.
h Ibidem , pp. 58-59.
9 W. James, The Variety ofR eligious Experience, London, 1901-02.
10 E.B. Harper, R itual Pollution as an Integrator o f Caste and Re-
ligion, cit., p. 153.
11 Vedi più avanti il capitolo VII.
12 E.B. Harper, R itual Pollution as an Integrator of Caste and Re-
ligion, cit., p. 156.
13 Ibidem, p. .173.
14 F.C. Barlett, Remembering: A Study in Experim ental and Social
Psychology, Cambridge, 1932.
11 M.L. Abercrombie Johnson, The Anatomy of ludgment, Lon-
don, 1960, p. 131.
16 A. Ehrenzweig, The Psychoanalysis o f A rtistic Vision and H ear-
ing, London, 1953; trad. it. La psicoanalisi della percezione nella musica
e nelle arti figurative, Roma, Astrolabio, s.d.
17 J.-P. Sartre, C ètre et le néant, Paris, 19433; trad. it. L'essere e
il nulla, Milano, 1958, pp. 725 ss.
IK E.E. Evans-Pritchard, Nuer Religion, London, 1956, p. 84;
trad. it. parziale L a religione dei Neur, in Uomo e mito nelle società
prim itive, a cura di C. Lesile, Firenze, 1965.
19 L. Festinger, A Theory o f Cognitive Dissonance, Evanston,
1957; trad. it. Teoria della dissonanza cognitiva, Milano, Angeli, 19772.

84
Capitolo terzo

Gli abomini del Levitico

La contaminazione non è mai un evento isolato: non


può verificarsi se non in riferimento ad un assetto concet-
tuale sistematico; ragion per cui qualsiasi interpretazione
frammentaria delle norme relative alla contaminazione di
un’altra cultura corre il rischio di essere errata. Infatti le
idee di con laminazione hanno senso soltanto se sono rife-
rite ad una struttura globale di pensiero la cui chiave di
volta, i cui confini, margini esterni e linee interne siano
mantenuti in relazione da rituali di separazione.
Prendiamo a titolo illustrativo un vecchio, annoso
rompicapo tratto dalla dottrina biblica: gli abomini del
Levitico, ed in particolare le regole dietetiche. Perché il
cammello, la lepre e il coniglio selvatico dovrebbero esse-
re impuri? Perché dovrebbero esserlo certi tipi di locuste
ma non tutti? Perché mai la rana dovrebbe essere pura e
il topo e l’ippopotamo impuri? Che cosa hanno in comu-
ne camaleonti, talpe e coccodrilli per essere elencati insie-
me? 1
Vorrei innanzi tutto citare, in ausilio alla discussione,
le interessanti versioni del Levitico e del Deuteronomio dal
testo della nuova revisione della traduzione ufficiale.

Non mangerete nulla di abominevole. Questi sono gli ani-


mali di cui potete mangiare: bue, pecora, capra, cervo, gazzella,
daino, stambecco antilope, bufalo, camoscio; potrete mangiare
di ogni animale che ha lo zoccolo spaccato e diviso in due un-
ghie e clic rumina. Tuttavia tra i ruminanti e tra quelli che han-
no lo zoccolo spaccato e diviso, non potrete mangiare il cam-
mello, la lepre e l’irace poiché ruminano, ma non hanno lo zoc-
colo spaccato. Per voi essi sono animali impuri. Così è impuro
per voi anche il porco che, sebbene abbia lo zoccolo spaccato,
non rumina. Non mangerete le loro carni e non toccherete i
loro cadaveri.

85
G li abomini del Lenìtico

Tra quanti sono nell’acqua potrete mangiare di tutti quelli


che hanno pinne e squame; ma non mangerete di tutti quelli
che non hanno pinne né squame. Per voi essi sono impuri.
Potrete mangiare di ogni uccello puro ma non potrete man-
giare di questi: l’aquila, l’ossifraga, la strige, il nibbio e tutti gli
uccelli rapaci, tutte le specie di coivi; lo struzzo, la civetta, il
gabbiano, tutti gli sparvieri, il gufo, il martin pescatore, l’ibis, il
cigno, il pellicano, la folaga, la cicogna, le varie specie di aironi,
l’upupa, il pipistrello, gli insetti alati sono impuri per voi. Di
essi non potrete mangiare. Potrete mangiare di ogni volatile pu-
ro 2.

Questi sono gli animali terrestri di cui potete mangiare. Po-


tete mangiare ogni quadrupede con lo zoccolo spaccato e l’un-
ghia divisa e ruminante. Ma tra i ruminanti o quelli che hanno
lo zoccolo spaccato, non mangerete i seguenti: sarà impuro per
voi il cammello poiché, sebbene sia un ruminante, non ha lo
zoccolo spaccato; sarà impuro per voi l’irace poiché, sebbene
sia un ruminante, non ha lo zoccolo spaccato; sarà impura per
voi la lepre poiché, sebbene sia un ruminante, non ha lo zocco-
lo spaccato; sarà impuro per voi il porco poiché, pur avendo lo
zoccolo spaccato e l’unghia divisa, non è un ruminante. Non
mangerete la loro carne e non toccherete le loro carogne: saran-
no impuri per voi.
Questi sono gli animali acquatici, di cui potete mangiare.
Potete mangiare tutto ciò che ha pinne e squame, nelle acque
dei mari e dei torrenti. Ma sarà in abominio per voi tutto ciò
che, nei mari e nei torrenti, non ha pinne o squame, ogni ver-
me che guizza nell’acqua e ogni animale che sta nell’acqua, sarà
in abominio per voi: non dovete mangiarne la carne e avrete in
orrore le loro carogne. Sarà in abominio per voi ogni animale
acquatico che non ha pinne e squame.
Tra i volatili avrete in orrore e non mangerete - questi sa-
ranno per voi in abominio - l’aquila, l’ossifraga, la strige, il nib-
bio e tutti gli uccelli rapaci, tutte le specie di corvi, lo struzzo,
la civetta, il gabbiano, tutti gli sparvieri, il gufo, il martin pesca-
tore, l’ibis, il cigno, il pellicano, la folaga, la cicogna, le varie
specie di aironi, l’upupa, il pipistrello.
Sarà in abominio per voi ogni bestiola alata che cammina su
quattro zampe. Ma, tra le bestiole alate che camminano su
quattro zampe, potrete mangiare quelle che hanno due zampe
sopra i piedi per saltare sulla terra, e cioè potrete mangiare le

86
Gli abomini del Lenitico

varie specie di locuste, di cavallette, di acridi, di grilli. Sarà in


abominio per voi ogni altra bestiola alata che cammina su quat-
tro zampe. Da esse contrarrete impurità: chiunque ne toccherà
la carogna diventerà impuro fino a sera e chiunque la trasporte-
rà si laverà le vesti e rimarrà impuro fino a sera.
Sarà impuro per voi ogni animale che ha lo zoccolo spacca-
to ma l’unghia non divisa e che non sia ruminante: chiunque lo
toccherà diventerà impuro. Sarà impuro per voi ogni animale
quadrupede che cammina sulle palme dei piedi: chiunque ne
toccherà la carogna diventerà impuro fino a sera e chiunque ne
trasporterà la carogna si laverà le vesti e rimarrà impuro fino a
sera. Essi sono impuri per voi.
Tra gli animali che strisciano sulla terra saranno impuri per
voi la talpa, il topo campestre e tutte le specie di lucertole, il
gèco, il toporagno, il ramarro, la tartaruga, il camaleonte. Tra
gli animali che strisciano, questi saranno impuri per voi: chiun-
que li toccherà, quando sono morti, sarà impuro fino a sera.
Sarà impura ogni cosa su cui cada, morto, uno di essi3.

Ogni bestiola che striscia sulla terra è in abominio: non la


mangerete. Non mangerete, perché è in abominio, tutto ciò che
si trascina sul ventre, cammina su quattro o più zampe, nessuna
bestiola insomma che striscia sulla terra 4.

Tutte le interpretazioni finora date rientrano in uno


dei due gruppi seguenti: o le norme sono senza senso, ar-
bitrarie, perché non hanno un intento dottrinale, bensì di-
sciplinare; o sono allegorie di vizi e virtù. Dal suo punto
di vista, secondo il quale le prescrizioni religiose sono in
gran parte svuotate di simbolismo, Maimonide affermava:
La Legge che prescrive di celebrare sacrifici c evidentemen-
te di grande utilità... ma non possiamo dire perché un’offerta
debba essere un agnello e un’altra un montone; e perché mai se
ne debba portare un numero fissato. Quelli che si tormentano
nell’intento di scoprire il motivo di ognuna di queste regole
particolari sono a mio parere degli insensati... 5

Maimonide, come medico del Medioevo, era anche di-


sposto a credere che le regole dietetiche avessero una lo-
gica base fisiologica, ma noi abbiamo già confutato nel II
capitolo l’approccio medico al simbolismo. Una versione

87
G li abomini del Levitico

moderna dell’opinione secondo la quale le regole dieteti-


che non sono simboliche, ma etiche, formative, si può
leggere nelle note inglesi di Epstein al Talmud babilonese
e anche nella storia popolare del giudaismo dello stesso
autore:
L’uno e l’altro ordine di leggi hanno un fine comune: la
santità. Mentre i precetti positivi servono a coltivare la virtù e a
sviluppare le più elevate qualità che contraddistinguono gli es-
seri veramente e sinceramente religiosi e morali, i precetti nega-
tivi sono intesi a combattere il vizio e a reprimere tendenze e
istinti malvagi che ostacolano gli sforzi dell’uomo per conqui-
stare la santità...
Analogamente, alle prescrizioni religiose negative sono affi-
date funzioni educative. Principale tra esse è la proibizione di
mangiare la carne di certi animali classificati tra gli «impuri»,
fissa non ha niente di totemico (culto degli animali). Nella
Scrittura è espressamente associata (per esempio, Lev. 11,45) al-
l’ideale della santità. Si propone in realtà di abituare gli israeliti
a quel dominio di sé che è il primo, indispensabile passo per la
conquista della santità 6.
Stando a quanto scrive Stein in The Dietary Laivs in
Rabbinic and Patristic Literature, l’interpretazione etica ri-
sale ai tempi di Alessandro Magno e dell’influenza elleni-
stica sulla cultura ebraica '. Nella lettera di Aristea, del
primo secolo dopo Cristo, leggiamo che le regole mosai-
che non sono solo una preziosa disciplina che «trattiene
gli ebrei dal commettere azioni dissennate e ingiustizie»,
ma che esse coincidono altresì con quanto prescrive la ra-
gione naturale per giungere a vivere bene. L ’influenza el-
lenistica favorisce pertanto la confluenza delle interpreta-
zioni medica ed etica. Filone sosteneva che il principio di
selezione su cui Mosè si era basato era per l’appunto
quello di scartare le carni più gustose:Il
Il legislatore aveva fermamente vietato tutti gli animali di
terra, di mare o di aria che hanno la carne più delicata e più
grassa, come quella del maiale o del pesce senza squame, sa-
pendo che erano una trappola per quello dei sensi che più ren-
de schiavi, il gusto, e che portavano sulla strada della ghiotto-
neria,

88
G li abomini del Lenitico

(e qui ci troviamo di fronte all’interpretazione medica)

una calamità dannosa all’anima e al corpo, poiché la gola procura


indigestione, fonte eli tutte le malattie e di tutte le infermità.

Secondo un’altra corrente interpretativa, fedele alla tra-


dizione di Robertson Smith e di Frazer, gli studiosi anglo-
sassoni del Vecchio Testamento tendevano semplicemente
ad affermare che le regole erano arbitrarie, in quanto irra-
zionali. Per esempio Nathaniel Micklem sostiene:

1 commentatori concedevano generalmente largo spazio alla


discussione dei motivi per cui le varie creature e le varie condi-
zioni o sintomi erano impuri. Non abbiamo forse noi, per
esempio, delle regole igieniche primitive? O certe condizioni e
creature erano impure perché rappresentavano o simboleggiava-
no determinati peccati? Si può ritenere per certo che non vi è,
alla base dell’impurità, né l’igiene né alcuna specie di tipologia.
Non bisogna assolutamente razionalizzare queste regolamenta-
zioni: possono essere di origine diversa e risalire al di là della
storia... K

Si confronti anche Driver:

Non è tuttavia stabilito il principio che fissa la linea di de-


marcazione tra animali puri e impuri, e si è molto discusso di
quale esso sia. Sembra che non si sia ancora trovato alcun prin-
cipio unico che includa tutti i casi e non è improbabile che in-
tervengano più princìpi insieme. Può darsi che taluni animali
siano stati proibiti a causa del loro aspetto repellente e delle
loro abitudini poco pulite; e altri in base a ragioni sanitarie; in
altri casi ancora il motivo del divieto può essere stato con gran-
de probabilità di carattere religioso; in particolare certi animali,
come il serpente in Arabia, possono essere stati ritenuti la sede
di esseri sovrumani e demoniaci, o possono aver avuto un valo-
re sacramentale nei riti pagani di altri popoli, e la proibizione
essere stata intesa come espressione di rifiuto verso tali creden-
ze... 9

Nel suo Catholic Commentary on Holy Scripture 10,


Saydon segue la stessa interpretazione, riconoscendo il
proprio debito verso Driver e verso Robertson Smith.

89
G li abomini del Levitico

Sembrerebbe che da quando Robertson Smith applicò i


concetti di primitivo, irrazionale e inspiegabile ad alcune
parti della religione ebraica, esse abbiano mantenuto tale
etichetta fino ad oggi né siano state mai più esaminate. E
inutile dire che queste interpretazioni non sono affatto ta-
li, dal momento che esse escludono che le norme abbiano
un qualche significato; esse non fanno che esprimere per-
plessità, seppur in forma erudita. Micklem lo dichiara più
esplicitamente quando dice del Levitico-,
I capitoli dall’undicesimo al quindicesimo sono forse i meno
attraenti di tutta la Bibbia. Ci sono in essi molte cose sgradevoli
o prive di senso per il lettore moderno. Si riferiscono all’impu-
rità rituale riguardante gli animali (XI), il parto (XII), le malat-
tie della pelle e gli indumenti sporchi (XIII), i riti per purificar-
si dalle malattie della pelle (XIV), dalla lebbra e dai vari pro-
dotti o secrezioni del corpo umano (XV). Di quale interesse
possono essere tali argomenti tranne che per l’antropologo?
Che cosa può avere a che fare tutto ciò con la religione? 11
Pfeiffer mantiene, nel complesso, una posizione critica
verso gli aspetti sacerdotali e giuridici della vita di Israele.
Perciò anch’egli presta la sua autorevole adesione alla teo-
ria che le norme del Codice Sacerdotale sono in massima
parte arbitrarie:
Solo dei sacerdoti che fossero anche uomini di legge avreb-
bero potuto concepire la religione come una teocrazia, regolata
da una legge divina, che stabilisce con esattezza, e quindi arbi-
trariamente, le sacre obbligazioni del popolo al suo Dio. In tal
modo essi santificavano sia gli ideali etici di Amos, sia i delicati
sentimenti di Osea - che erano stati emarginati e dimenticati
dalla religione - e riducevano il Creatore Universale alla statura
di un despota inflessibile... Da un’usanza immemorabile Israele
ricavò le due nozioni fondamentali che caratterizzavano la sua
legislazione: santità fisica e prescrizioni arbitrarie - concezioni
arcaiche che i profeti riformatori avevano scartato a favore della
santità spirituale e della legge morale 12.
Può essere vero che gli uomini di legge sono inclini a
ragionare in forme precise e codificate, ma è plausibile
sostenere che essi sono pronti a codificare l’assurdità pura

90
Gli abomini del Lenitico

- prescrizioni arbitrarie? Pfeiffer cerca di dimostrarlo in


entrambi i modi: insistendo sulla rigidità legalistica dei sa-
cerdoti autori e rilevando la disorganicità nella composi-
zione del capitolo, per giustificare il proprio punto di vi-
sta che le norme sono arbitrarie. L ’arbitrarietà è una ca-
ratteristica che decisamente non ci si aspetta di trovare
nel Levitico, come mi ha fatto osservare il reverendo Ri-
chards: l’esegesi attribuisce infatti il Levitico alle fonti sa-
cerdotali, e la preoccupazione principale di questi autori
era per l’ordine. Perciò, forti della autorevole approvazio-
ne degli studiosi delle fonti, passiamo a cercare una diver-
sa interpretazione.
Quanto al concetto che le norme siano allegorie di vi-
zi e di virtù, Stein fa risalire questa solida tradizione alla
stessa remota influenza alessandrina sul pensiero giudai-
co l3. Citando la lettera di Aristea, egli dice che il sommo
sacerdote Eleazar

ammette che la maggior parte della gente trova incomprensibili


le restrizioni alimentari della Bibbia; se Dio è il creatore di ogni
cosa, perché la sua legge deve essere così severa da escludere
certi animali perfino dal contatto? 14 La sua prima risposta rife-
risce ancora le limitazioni dietetiche al pericolo dell’idolatria...
La seconda risposta tenta di respingere specifiche accuse attra-
verso l’interpretazione allegorica. Ogni legge sui cibi vietati ha
la sua ragione profonda. Mosè non aveva enumerato il topo e la
donnola senza una ben precisa considerazione per essi 15. Al
contrario i topi sono particolarmente detestabili a causa della
loro nocività, e le donnole, un autentico simbolo del malevolo
maldicente, che una ne sente e cento ne dice 16. Piuttosto, que-
ste sante leggi sono state date in nome di giustizia per risveglia-
re in noi pensieri di devozione e per formarci il carattere 17. Gli
uccelli, per esempio, dei quali gli ebrei possono cibarsi, sono
tutti domestici e puliti, poiché si nutrono esclusivamente di gra-
no. Non così gli uccelli selvatici e carnivori che predano agnelli
e capretti e persino esseri umani. Mosè, definendoli impuri,
ammoniva i credenti a non far violenza al debole e a non confi-
dare nel proprio potere 18. Gli animali dallo zoccolo diviso stan-
no a significare che tutte le nostre azioni debbono rivelare una
giusta distinzione morale ed essere dirette verso la giustizia...
Ruminare, d’altra parte, sta per ricordare.

91
Gli abomini del Levitico

Stein prosegue citando l’uso che Filone fa dell’allego-


ria per interpretare le regole dietetiche:
Il pesce con pinne e squame, ammesso dalla legge, simbo-
leggia la resistenza e l’autocontrollo, laddove quello proibito
viene trascinato via dalla corrente, incapace di sopportarne la
violenza. I rettili, che si avvolgono nelle loro spire, strisciando
sul ventre, rappresentano le persone sempre dedite ai loro cupi-
di desideri e passioni. Le creature che si muovono sul terreno
con le zampe, in modo che possono fare dei balzi, sono pulite,
perché rappresentano il successo degli sforzi morali .

La tradizione allegorizzante ha avuto una immediata


accoglienza nell’insegnamento cristiano: l’Epistola di Bar-
naba, del primo secolo, scritta per convincere gli Ebrei
che la loro legge aveva trovato il suo compimento, si rife-
riva agli animali puri ed impuri come simbolo dei vari tipi
di uomini, alla lebbra come rappresentazione del peccato,
ecc. Un esempio più recente di questa tradizione lo forni-
sce il commento del vescovo Challoner alla Bibbia di
Westminster, che data dall’inizio di questo secolo:
Unghia spartita e il ruminare. La divisione dello zoccolo e il
ruminare significano divisione tra bene e male, e meditare la
legge di Dio; e quando uno dei due manca, l’uomo è impuro.
Analogamente i pesci che non hanno pinne né squame furono
ritenuti immondi: così come le anime che non si elevavano con
la preghiera e non si coprivano con le squame della virtù

Queste non sono tanto interpretazioni quanto pie


chiose: come interpretazioni sono carenti, non essendo né
coerenti né comprensive. Bisogna elaborare una spiegazio-
ne diversa per ogni animale, e il numero delle possibili
spiegazioni è illimitato.
Un’altra interpretazione tradizionale, risalente anch’es-
sa alla lettera di Aristea, è quella che afferma che ciò che
è proibito per gli Israeliti lo è soltanto per proteggerli
dall’influenza straniera. Per esempio Maimonide sosteneva
che ad essi era proibito far bollire il capretto nel latte del-
la madre, poiché questo era un atto di culto nella religio-
ne dei Canaaniti. Questo tipo di prova non può essere

92
! G li abomini del Levitico

esauriente, dal momento che non è sicuro che gli Israeliti


abbiamo respinto coerentemente tutti gli elementi delle
religioni straniere e abbiamo creato qualcosa di compieta-
mente originale per se stessi. Maimonide concordava con
chi sosteneva che alcuni dei più misteriosi imperativi della
legge avessero come obiettivo quello di dare un taglio
netto alle pratiche pagane. Così agli Israeliti era vietato
indossare abiti intessuti di lino e di lana, piantare insieme
alberi diversi, avere rapporti sessuali con animali, cuocere
la carne con il latte, semplicemente perché questi atti era-
no presenti nelle cerimonie dei loro vicini pagani. Fin qui
tutto bene: le leggi venivano sancite a guisa di barriere
contro la diffusione di rituali di stile pagano. Ma in que-
sto caso, perché erano consentite delle pratiche pagane?
E non solo consentite - se si considera il sacrificio, prati-
ca comune agli Israeliti e ai pagani - ma collocate in una
posizione assolutamente centrale nella religione. La rispo-
sta di Maimonide, almeno nella Guida per gli incerti, era
di giustificare il sacrificio come uno stadio di transizione,
deplorevolmente pagano, ma necessariamente permesso,
perché sarebbe stato impossibile distogliere bruscamente
gli Israeliti dal loro passato pagano. È un’affermazione
straordinaria per essere uscita dalla penna di uno studioso
della cultura ebraica, e in realtà, nei suoi scritti rabbinici
ufficiali, Maimonide non tentò di riproporre questa tesi:
al contrario, in quella sede egli considerò il sacrificio co-
me l’atto più importante della religione ebraica.
Maimonide si avvide dell'incocrenza e da essa fu trat-
to in contraddizione, ma gli studiosi che gli succedettero
sembrano accontentarsi di adottare l’argomento dell’in-
fluenza straniera in un modo o in un altro, secondo l’u-
more del momento. Hooke ed i suoi colleghi hanno stabi-
lito senza lasciar adito a dubbi che gli Israeliti accolsero
alcune forme di culto canaanite, e ovviamente i Canaaniti
avevano molto in comune con la cultura mesopotamica 21.
Ma non è una spiegazione rappresentare Israele ora come
una spugna ora come un repellente, senza dare ragione
del perché abbia assorbito questo elemento straniero ed

93
G li abomini del Levitico

abbia respinto quell’altro. Fino a che punto è valido dire


che far bollire capretti nel latte e accoppiarsi con vacche
è vietato dal Levitico in quanto questi sono i riti della fer-
tilità dei vicini stranieri, dal momento che gli Israeliti as-
sunsero altri riti stranieri? Siamo ancora in attesa di sape-
re se la metafora della spugna è giusta o sbagliata. In
Eichrodt lo stesso argomento crea altrettante perplessi-
tà 22. Nessuna cultura si crea dal nulla, naturalmente. Gli
Israeliti assorbirono liberamente dai loro vicini, ma non
proprio liberamente. Alcuni elementi delle culture stranie-
re erano incompatibili con i modelli fondamentali sui
quali essi venivano costruendo il loro universo; altri inve-
ce erano compatibili. Per esempio Zaehner avanza l’ipote-
si che la ripugnanza degli Ebrei per tutto ciò che striscia
possa derivare dallo zoroastrismo23. Quali che possano
essere le prove storiche dell’adozione di un elemento
estraneo da parte del giudaismo, noi constateremo che vi
era nel loro schema culturale una compatibilità precosti-
tuita tra questa particolare ripugnanza ed i princìpi gene-
rali sui quali era costruito il loro universo.
Ogni interpretazione che consideri i «non fare» del
Vecchio Testamento in maniera frammentaria sarà sba-
gliata. Il solo approccio valido è quello di dimenticare l’i-
giene, l’estetica, la morale e la repulsione istintiva, dimen-
ticare persino i Canaaniti e i Magi di Zoroastro, e comin-
ciare con i testi. Dal momento che ogni prescrizione è
preceduta dal comandamento di essere santi, ci deve esse-
re una certa contrapposizione tra santità e abominio che
possa spiegare la ragione generale di tutte le particolari
restrizioni.
La santità è l’attributo della divinità; la sua radice si-
gnifica «separato»; che cos’altro significa? In qualsiasi in-
dagine cosmologica noi cominceremmo col ricercare i
princìpi del potere e del pericolo. Nel Vecchio Testamen-
to troviamo che la benedizione è la sorgente di tutte le
cose buone e la perdita della benedizione è la fonte di
tutti i pericoli. La benedizione di Dio rende la terra ospi-
tale per gli uomini che vi abitano.
L ’opera di Dio attraverso la benedizione è essenziale

94
Gli abomini del Lenitico

per creare l’ordine, nel quale prosperano gli affari degli


uomini. La fertilità delle donne, il bestiame, i campi, sono
promessi in seguito alla benedizione e ciò deve essere ot-
tenuto rispettando il patto con Dio e osservando tutti i
suoi precetti e le sue cerimonie 24. Là dove la benedizione
viene tolta e lasciato libero il potere della maledizione, là
vi è sterilità, pestilenza, confusione. Infatti Mosè disse:

Ma se non ascolterai la voce di Jahvè tuo Dio, osservando e


mettendo in pratica tutti i suoi precetti e i suoi statuti che oggi
ti ordino, allora verranno su di te e ti raggiungeranno tutte le
seguenti maledizioni.
Sarai maledetto nella città e sarai maledetto nel campo. Sarà
maledetto il tuo cestino e la tua madia.
Sarà maledetto il frutto del tuo seno e il frutto del tuo suo-
lo, i patti delle tue vacche e i proventi del tuo gregge. Sarai
maledetto quando entri e sarai maledetto quando esci. Jahvè
manderà contro di te la maledizione, la costernazione e l’impre-
cazione in ogni impresa a cui metterai mano, finché tu non sia
distrutto e perisca rapidamente a causa delle azioni malvagie
per cui mi hai abbandonato. Jahvè attaccherà contro di te la
pestilenza, finché tu non sia scomparso dal suolo di cui vai a
prendere il possesso. Jahvè ti colpirà con la consunzione, con la
febbre, con la infiammazione, con l’arsura, con la siccità, con la
ruggine e il pallore e queste cose ti perseguiteranno fino alla
tua rovina.
Sul tuo capo il cielo sarà di bronzo e, sotto di te, la terra
sarà di fuoco. Jahvè farà sì che la pioggia sia sabbia e polvere
per la tua terra: scenderanno su di te finché tu non sia distrut-

Da ciò risulta chiaro che i precetti positivi e negativi


sono ritenuti efficaci e non puramente espressivi: la loro
osservanza porta prosperità, la loro infrazione attira il pe-
ricolo. Siamo perciò autorizzati a considerarli allo stesso
modo delle astensioni rituali dei primitivi, la cui infrazio-
ne scatena il pericolo contro gli uomini. I precetti, come
pure le cerimonie, sono incentrati sul concetto della santi-
tà di Dio che gli uomini devono creare nella loro vita.
Questo è dunque un universo in cui gli uomini sono felici
se si conformano a santità, e cadono in disgrazia quando

95
G li abomini del Levitico

se ne allontanano. Se non ci fossero altri spunti dovrem-


mo riuscire a scoprire il concetto ebraico della santità esa-
minando i precetti attraverso cui gli uomini si conforma-
no ad essa. E evidente che non coincide con la bontà, nel
senso di un umanitarismo onnicomprensivo: la giustizia e
l’onestà morale possono ben dare un’idea della santità ed
esserne parte, ma la santità comprende anche altri concet-
ti.
Appurato che il significato della sua radice è quello di
separazione, il concetto che emerge successivamente è
quello della santità come integrità e come completezza.
Gran parte del Levitico è occupata dallo stabilire la perfe-
zione fisica richiesta per le cose presentate al tempio e
per le persone che vi si avvicinano. Gli animali offerti in
sacrificio devono essere senza difetti, le donne devono es-
sersi purificate dopo il parto, i lebbrosi devono essere se-
parati e lavati secondo il rito, prima che sia loro concesso
di avvicinarsi, una volta che sono guariti. Ogni secrezione
corporea è contaminante e rende indegni di avvicinarsi al
tempio. I sacerdoti possono venire a contatto con la mor-
te soltanto quando muore un loro stretto parente; ma il
sommo sacerdote non deve mai avere contatti con la mor-
te.

Jahvè si rivolse a Mosè: «Dì ad Aronne: “Per l’avvenire,


nessuno della tua discendenza si accosti ad offrire il pane del
suo Dio se ha un difetto. Non deve, infatti, avvicinarsi chiun-
que abbia uno di questi difetti: cieco, zoppo, mutilato, defor-
me, un uomo che abbia una frattura ai piedi o alle mani, gob-
bo, consunto, affetto da albugine, da scabbia, da piaghe puru-
lente, colui che abbia i testicoli schiacciati.
Chiunque dei discendenti del sacerdote Aronne abbia qual-
che difetto non si potrà avvicinare per offrire i sacrifici di fuoco
per Jahvè...”» 26

In altre parole, egli deve essere perfetto come uomo


se deve essere un sacerdote.
Questo concetto dell’integrità fisica, tanto ripetuto,
viene applicato anche nella sfera sociale e particolarmente
negli accampamenti militari. La cultura degli Israeliti arri-

96
G li abomini del Levitico

vava al punto di massima intensità nell’atto della preghie-


ra e nel momento della lotta. L ’esercito non poteva vince-
re senza la benedizione e per mantenere la benedizione
sul campo i soldati dovevano essere particolarmente santi.
Il campo, quindi, doveva essere preservato dalla contami-
nazione come il tempio: anche qui tutte le secrezioni cor-
poree interdivano a un uomo l’accesso al campo così co-
me avrebbero reso un fedele indegno di avvicinarsi all’al-
tare. Un guerriero che avesse avuto una secrezione orga-
nica notturna doveva restare lontano dal campo tutto il
giorno e ritornare soltanto dopo il tramonto, dopo essersi
lavato. Al di fuori del campo dovevano svolgersi le fun-
zioni naturali che davano luogo a rifiuti corporei21. In
breve, al concetto di santità era attribuita un’espressione
fisica, esteriore, nella integrità del corpo visto come invo-
lucro perfetto.
L ’integrità è anche estesa a significare completezza in
un contesto sociale. Un’impresa tanto importante, una
volta incominciata, non deve essere lasciata incompleta;
mancare di completezza, anche in questo modo, rende un
uomo indegno di combattere. Prima di una battaglia il ca-
pitano proclamerà:

Chi è l’uomo che ha edificato una casa nuova e non l’ha


inaugurata? Vada e ritorni alla sua casa. Affinché, se egli muore
in guerra, non la inauguri un altro. Chi è l’uomo che ha pianta-
to una vigna e non ha goduto dei suoi frutti? Vada e ritorni
alla sua casa. Affinché, se egli muore in guerra, non goda di
essi un altro. Chi è l’uomo che si è fidanzato con una donna e
non l’ha sposata? Vada e ritorni alla sua casa. Affinché, se egli
muore in guerra, non la sposi un altro 2S.

Bisogna ammettere che non vi è nessuna indicazione


che questa norma comporti una contaminazione. Non è
detto che un uomo che abbia tra le mani un progetto fi-
nito a metà sia contaminato allo stesso modo in cui è con-
taminato un lebbroso; il verso successivo infatti continua
dicendo che gli uomini paurosi e pusillanimi debbono an-

97
G li abomini del Levitil o

dare a casa per evitare di diffondere i loro timori. Ma in


altri passi si insiste sul consiglio che un uomo non do-
vrebbe mettere le mani sull’aratro e poi tornare indietro.
Pedersen giunge a dire che

in tutti questi casi in cui un uomo ha iniziato una nuova impor-


tante impresa senza averla ancora finita... è venuta ad esistere
una nuova totalità. Creare prematuramente in essa una frattura,
vale a dire prima che sia giunta ad essere matura o che sia fini-
ta, comporta un serio rischio di peccato 29.

Stando a quanto dice Pedersen, la benedizione e il


successo in guerra richiedevano che un uomo fosse inte-
gro di corpo e di spirito e che non si trascinasse alcun
piano incompiuto. Nella parabola del Nuovo Testamen-
to 30 che narra dell’uomo che diede una gran festa e che
si arrabbiò perché gli ospiti che aveva invitato avevano
avanzato delle scuse, vi è un richiamo proprio a questo
passo 31. Uno degli ospiti aveva comperato una nuova fat-
toria, uno aveva comperato dieci buoi e non li aveva an-
cora provati, e uno aveva preso moglie. Se, in base alla
vecchia Legge, ognuno poteva aver validamente giustifica-
to il proprio rifiuto nel rispetto del ventesimo capitolo del
Deuteronomio, la parabola conferma il punto di vista di
Pedersen, secondo il quale l’interruzione di nuovi progetti
era considerata negativa in campo civile così come in
campo militare.
Altri precetti sviluppano il concetto di totalità in
un’altra direzione. Le metafore del corpo fisico e delle
nuove imprese si riferiscono alla perfezione e alla comple-
tezza dell’individuo e del suo lavoro. Altri precetti esten-
dono la santità a specie e categorie; sono aborriti gli ibri-
di ed altri tipi di confusione.

Non dare il tuo giaciglio a una bestia, così da divenire im-


puro. Una donna non starà davanti a una bestia per unirsi con
essa: è una cosa abominevole 32.

È significativo come la parola ebraica tebhel, che si-


gnifica mescolanza o confusione, sia stata tradotta erro-

98
Cdì abomini del Lenitico

neamente col termine «perversione». Lo stesso motivo è


ripreso nel diciannovesimo capitolo del Levitico.

Osserverete i miei statuti.


Non accoppiare animali di specie diverse; non seminare nel
tuo campo semente di specie diverse; non indossare una veste
di diverse specie di tessuto 33.

Tutte queste ingiunzioni sono precedute dal precetto


generale: «Sii santo, poiché io sono santo». Possiamo con-
cludere che la santità è simboleggiata dalla completezza;
santità richiede che gli individui si conformino alla classe
alla quale appartengono, e santità richiede che componen-
ti di classi diverse non vengano mescolate.
Un altro ordine di prescrizioni rende quest’ultimo
punto più chiaro. La santità significa tenere distinte le ca-
tegorie della creazione; ciò presuppone quindi corretta
definizione, discriminazione e ordine. In base a questo,
tutte le regole della moralità sessuale valgono come esem-
pio di santità; incesto e adulterio sono contrari alla santità
semplicemente nel senso dell’ordine giusto M. La moralità
non è in conflitto con la santità, ma la santità è più una
questione di separare ciò che dev’essere separato, che di
proteggere i diritti di mariti e fratelli.
Segue poi, nel capitolo diciannovesimo, un altro elen-
co di azioni che si oppongono alla santità. Sviluppando
l’idea di santità come ordine, e non confusione, questa
elencazione esalta la rettitudine e la correttezza come san-
te, e l’incoerenza e l’ambiguità come contrarie alla santità.
Il latrocinio, la menzogna, la falsa testimonianza, la truffa
in pesi e misure, ogni genere di simulazione - come par-
lare male del sordo (e presumibilmente ridere di lui) op-
pure odiare intimamente tuo fratello (mentre presumibil-
mente gli parli con cortesia) - tutte queste sono chiara-
mente contraddizioni tra ciò che sembra e ciò che è.
Questo capitolo dice anche molto a proposito della gene-
rosità e dell’amore, ma questi sono precetti positivi, men-
tre noi ci occupiamo di norme negative.
Abbiamo ora costruito una buona base per accostarci

99

TTrTTT7Tr7ì » ì « « . t ì ? ; r i T i n i 7 i f » » i i n ; » t t . i » ; r T HT TT r mT nT T Ti Tì i - E lit i I l i
G li abomini del Levitico

alle leggi riguardanti i cibi puri e impuri. Essere santo è


essere completo, essere uno; santità è unità, integrità, per-
fezione dell’individuo e della specie; le regole dietetiche
sviluppano semplicemente sulla stessa linea la metafora
della santità.
Dovremmo innanzi tutto cominciare con gli animali
della fattoria, i branchi di bestiame, di cammelli, di peco-
re e capre che fornivano il sostentamento agli Israeliti:
questi animali erano puliti in quanto il contatto con essi
non richiedeva la purificazione prima di avvicinarsi al
tempio. Le bestie, come la terra disabitata, ricevevano la
benedizione di Dio. Sia la terra sia le bestie erano fertili
grazie alla benedizione che accoglieva, così, l’una e le al-
tre nell’ordine divino. Preservare la benedizione era dove-
re del contadino: per prima cosa egli doveva preservare
l’ordine della creazione. Perciò nessun ibrido, come ab-
biamo visto, né nei campi né nei branchi e neppure nelle
vesti fatte di lana o di lino. In un certo senso gli uomini
stringevano un patto con la loro terra e le loro bestie così
come Dio aveva fatto con loro. Gli uomini rispettavano il
primo nato delle loro bestie e le obbligavano ad osservare
il Sabato; gli animali erano letteralmente addomesticati
come schiavi: dovevano essere inseriti nell’ordine sociale
per beneficiare della benedizione. La differenza tra il be-
stiame e gli animali selvatici era che questi ultimi non ave-
vano nessun patto che li proteggesse. E probabile che - al
pari di altri popoli dediti alla pastorizia - gli Israeliti non
amassero la caccia. I Nuer del Sudan meridionale, per
esempio, disapprovano l’uomo che vive di caccia: essere
costretto a mangiare selvaggina è per un pastore un segno
di incapacità. Sarebbe dunque sbagliato ritenere che gli
Israeliti desiderassero ardentemente le carni proibite e
considerassero le restrizioni una seccatura. Driver ha sen-
z’altro ragione a vedere in queste norme una generalizza-
zione a posteriori delle loro abitudini. Gli ungulati rumi-
nanti dallo zoccolo diviso sono il modello del genere di
alimentazione che si addice ad un pastore. Se è necessario
che si cibino di selvaggina, essi devono mangiarne di
quelle specie che condividono queste caratteristiche di-

100
Gli abomini del Levitico

stintive e che siano dunque della stessa famiglia. Questo


tipo di casistica lascia libertà di cacciare l’antilope e le ca-
pre e pecore selvatiche. Tutto sarebbe abbastan2 a sempli-
ce se non fosse che la ragione giuridica ha trovato oppor-
tuno regolare taluni casi limite. Certi animali sembrano
dei ruminanti, come la lepre e l’irace (coniglio selvatico) a
causa del loro continuo digrignare i denti, che fu scam-
biato per ruminare. Ma è certo che essi non hanno lo
zoccolo spaccato e perciò sono nominalmente esclusi; lo
stesso per gli animali che hanno l’unghia spaccata, ma che
non sono ruminanti, come il maiale e il cammello. Da no-
tare che la sola ragione data dal Vecchio Testamento per
astenersi dal maiale è questo suo non conformarsi ai due
criteri di classificazione del bestiame; non viene detto as-
solutamente nulla a proposito delle sue abitudini sozze di
cibarsi di immondizie. Poiché il maiale non produce latte,
pelle né lana, non c’è altra ragione per tenerlo se non per
la carne. E se gli Israeliti non lo avessero tenuto non ne
avrebbero conosciuto le abitudini: la mia ipotesi è che in
origine la sola ragione per classificarlo come immondo è
che non poteva rientrare, come cinghiale, nella classe del-
le antilopi, e che in questo si trova sullo stesso piano del
cammello e dell’irace, esattamente come è stabilito nel li-
bro.
Dopo essersi occupata di questi casi limite, la legge
prosegue considerando le creature secondo il modo in cui
vivono nei tre elementi, l’acqua, l’aria e la terra. I princìpi
qui applicati sono piuttosto diversi da quelli che com-
prendono il cammello, il maiale, la lepre e l’irace. Questi
ultimi sono esclusi dai cibi puri poiché hanno una sola
delle due caratteristiche che classificano il bestiame. Degli
uccelli non posso dire nulla in quanto - come ho detto -
sono nominati ma non descritti, e la traduzione del nome
lascia qualche dubbio. Ma in generale il principio di fon-
do della purezza degli animali è che essi devono essere
pienamente conformi alla loro classe: sono immonde
quelle specie che sono membri imperfetti della loro clas-
se, o la cui classe stessa rende ambiguo il disegno genera-
le del mondo.

101

iiiiT im iT T n T r r m m m in in n m n H iiim m m f in n im H iif t i'H iim H H H m im m M iiK iiH iH


G li abomini del Letifico

Per afferrare questo disegno dobbiamo risalire al libro


della Genesi e alla creazione. Si apre qui una triplice clas-
sificazione, diversa tra la terra, le acque e il firmamento.
Il Lenitico riprende questo schema ed assegna ad ogni ele-
mento il genere di vita animale appropriato. Nel cielo vo-
lano con le ali uccelli a due zampe; nell’acqua nuotano
pesci coperti di squame e dotati di pinne; sulla terra ani-
mali a quattro zampe balzano, saltano o camminano.
Ogni classe di creature che non sia attrezzata per il tipo
di locazione adatto al suo elemento è contraria a santità;
il contatto con essa rende indegni di accostarsi al tempio.
Perciò qualsiasi essere acquatico che non abbia pinne o
squame è impuro 35. Nulla si dice a proposito di abitudini
predatorie o del costume di cibarsi della sporcizia. L ’uni-
ca garanzia di purezza in un pesce è data dalle sue squa-
me e dall’uso delle pinne come mezzo di propulsione.
Quadrupedi che volano sono impuri 5<’. Ogni creatura che
abbia due gambe e due mani e che proceda carponi come
un quadrupede è impura Segue quindi un elenco molto
discusso 3S; in alcune versioni sembrerebbe consistere pre-
cisamente di creature dotate di mani al posto delle zampe
anteriori, che per camminare usano pervertitamente le
mani anziché i piedi: la donnola, il topo, il coccodrillo, il
toporagno, vari tipi di lucertole, il camaleonte e la talpa,
le cui zampe anteriori sono inspiegabilmente simili a ma-
ni Q Questa forma della lista citata si è perduta nella
nuova revisione della traduzione ufficiale, che usa la paro-
la «zampe» al posto di mani.
L ’ultimo tipo di animale impuro è quello che striscia,
si trascina, o brulica sopra la terra. Questo genere di mo-
vimento è esplicitamente contrario a santità40. Driver e
White usano «brulicare» per tradurre l’ebraico shérec, che
si riferisce sia a quegli animali che pullulano nell’acqua,
sia a quelli che brulicano sul terreno41. Sia che lo chia-
miamo pullulare, o trascinarsi, o strisciare, o brulicare, si
tratta sempre di una forma di movimento indefinita. Poi-
ché le principali categorie di animali sono definite dal lo-
ro movimento tipico, il «brulicare», che non è una forma
di propulsione appropriata ai singoli movimenti particola-

102
G li abomini del Levitico

ri, produce una frattura nella classificazione fondamenta-


le. Le cose che brulicano non sono né pesce, né carne, e
neppure volatili. Anguille e vermi vivono nell’acqua, ma
non come pesci; i rettili si muovono sulla terraferma, ma
non come quadrupedi; certi insetti volano, ma non come
uccelli. Non c'è alcun ordine in loro. Si ricordi che cosa
dice di queste forme di vita la profezia di Abacuc: «Hai
fatto l’uomo come i pesci del mare, come il verme che
non ha padrone» 42. il prototipo e il modello delle cose
che brulicano è il verme. Come i pesci appartengono al
mare, così i vermi sono del regno dei sepolcri insieme alla
morte e al caos.
Il caso delle locuste è interessante e viene a proposito.
Il criterio che stabilisce se una locusta sia di un genere
puro e quindi commestibile è dato dal modo in cui si
muove sulla terra. Se si muove trascinandosi è impura; se
a balzi è pura 45. Nel Mishnah si osserva che una rana non
è catalogata insieme alle cose che strisciano e non tra-
smette impurità alcuna. Vorrei insinuare che è grazie ai
suoi balzi che non è stata messa nella lista 44. Se i pinguini
vivessero in Medio Oriente non mi sorprenderebbe di ve-
derli classificati impuri, in quanto uccelli privi di ali. Se si
potesse ritradurre in questa prospettiva la lista degli uc-
celli impuri, potrebbe ugualmente risultare che sono ano-
mali perché nuotano e si tuffano, così come volano, o ad
ogni modo non sono del tutto come uccelli.
Sicuramente ora sarà difficile insistere nell’affermazio-
ne che «Sii santo» non significa altro che «Sii separato».
Mosè voleva che i figli d’Israele tenessero sempre in men-
te i precetti di Dio:
Ponete, dunque, queste mie parole sul vostro cuore e sulla
vostra anima, legatele come segno sulle vostre mani e siano co-
me pendenti tra i vostri occhi. Insegnatele ai vostri figli parlan-
do di esse quando ti trovi in casa, quando cammini per strada,
quando sei coricato e quando sei in piedi; le scriverai sugli sti-
piti della tua casa e sulle tue porte 45.

Se è corretta l’interpretazione che propongo circa gli


animali proibiti, le leggi dietetiche dovevano essere come

103
G li abomini del Lenitico

dei simboli che ogni volta inducevano alla meditazione


sull’unità, purezza e completezza di Dio. Attraverso le
norme dell’astensione la santità riceveva una espressione
fisica in ogni incontro con il regno animale, ad ogni pa-
sto. L ’osservanza delle regole dietetiche sarebbe stata in
questo modo una parte significativa del grande atto litur-
gico di riconoscenza e di adorazione che culminava col
sacrificio nel Tempio.

Note

1 Levitico, 11, 27.


2 Deuteronomio, 14.
5 Levitico, 11. 2-32.
4 Levitico, 11, 41-42.
1 Mosè M a im o n id e , Guide fo r Perplexed, cit.
6 I. E p ste in , fudaism. A Historical Presentatimi, L o n d o n , 1959;
tra d . il. Il giudaismo. Studio storico, M ila n o , 1967, p p . 19-20.
7 S. S ie in , The Dietary Laws in Rabbinic and Patristic Literature,
in « S t u d ia P a tr istic a » , L X I V (1 9 5 7 ), p. 141.
8 N . M ic k le m , The Inlerpreter’s Tibie, II, Leviticus, 1953.
9 R . D riv e r e I L A . W h ite, The Polychrome Bible, a c u ra d i P .
H a u p t, L o n d o n , 1898.
10 P .P . S a y d o n , Catholic Commentary on Holy Scripture, 1953.
11 N. M ic k le m , The Interpreters Bible, II, Leviticus, cìl.
12 R .H . P feiffer, Books o f thè Old Testament, L o n d o n , 1957, p.
91.
13 S. Stein , The Dietary Laws in Rabbinic and Patristic Literature,
cit., p p . 45 ss.
14 Ibidem, p p . 128 s.
15 Ibidem, p p . 143 s.
16 Ibidem, p p . 164 s.
17 Ibidem, p p . 161-68.
18 Ibidem, p p . 145-48.
19 Ibidem.
20 N o t a al v e rso 3.
21 Myth and Ritual, a c u ra di S .H . H o o k e , L o n d o n , 1933.
22 W . E ic h ro d t, 'l'heology of thè Old Testament, cit., p p . 2 3 0 -3 1 .

104
G li abomini del I.evitico

23 R.C. Zaehner, The Dawn and Twilight of Zoroastrianism, cit.,


p . 162.
24 Deuteronomio, 2 8 , 1-14.
25 Deuteronomio, 2 8 , 15-24.
26 Levitico, 2 1 , 17-21.
27 Deuteronomio, 2 3 , 10-15.
28 Deuteronomio, 2 0 . 5-7.
29 J.P.E. Pedersen, Israel: Its Life and Culture, 2 voli.. London,
1946-7, p a rte III, p. 10.
30 L u c a , 14, 16-24 e M a tte o , 22.
31 Clr. Peake’s Commentary on thè Bible, a cura di M . Black e
H .H . R ow ley, L o n d o n , 1 % 2 , p . 836.
32 Lenitico. 18, 23.
33 Lenitico, 19, 19.
34 Lenitico, 18, 6-20.
35 Lenitico, 11, 12-15.
36 Lenitico, 11, 2 0 -2 6 .
37 Lenitico, I I , 2 7 .
3,s I.evitico. I l , 29.
39 The Mishnah, trad . d i I L D an b y , O x fo r d , 1933.
40 Lenitico, 11, 41-44.
41 R .S . Driver e I L A . W h ite, The Polychrome Bible, cit.
42 Abacuc, 1, 14.
11 Lenitico, 11, 21.
44 H. Danby, The Misnah, cit., p. 722.
45 Deuteronomio, 11, 18-20.

105
Capitolo quarto

Miracoli e magia

I Boscimani Kung avevano appena eseguito i loro ri-


tuali della pioggia che una piccola nuvola apparve sull’o-
rizzonte, si ingrossò e si oscurò. La pioggia cadde. Tutta-
via vennero pubblicamente derisi quegli antropologi che
avevano chiesto se i Boscimani pensavano che la pioggia
fosse caduta grazie ai loro riti '. Fino a che punto si può
prestar fede alle credenze degli altri? Le vecchie fonti an-
tropologiche sono ispirate al concetto che i popoli primi-
tivi sperano dai loro riti un intervento immediato nei pro-
pri affari e si prendono bellamente gioco di coloro che
integrano i loro rituali di guarigione con la medicina eu-
ropea, come se questo fatto comprovasse una mancanza
di fiducia. I Dinka eseguono tutti gli anni una cerimonia
per curare la malaria. Questa cerimonia viene predisposta
per il mese in cui si presume che la malaria non tarderà a
scoppiare. Un osservatore europeo al corrente della situa-
zione sottolineava non senza una certa crudezza che l’offi-
ciante finiva col sollecitare chiunque sperava di guarire a
sottoporsi a cure cliniche regolari2.
Non è difficile scoprire da che cosa deriva il concetto
che i primitivi sperano dal rito una qualche efficacia
esterna: la nostra cultura si basa fondamentalmente sul-
l’assunto semplicistico che gli stranieri non conoscano al-
cuna vera religione spirituale. E proprio grazie a questo
preconcetto che la grandiosa rappresentazione della magia
primitiva di Frazer trovò un terreno adatto a crescere e a
prosperare. La magia veniva rigorosamente separata dagli
altri cerimoniali, come se le tribù primitive fossero popo-
late di Ali Babà e Aladini intenti a pronunciare formule
magiche e a strofinare le loro magiche lanterne. Le opi-
nioni europee sulla magia primitiva hanno creato una fal-
sa distinzione tra culture moderne e culture primitive e

107

TilTTTTmiTTTTTrTiriTTi l ì t i « TITTI H i T . U I H Ì Ì . i l l i i i t f i t iT U I U I U H i l f ! ? ! • I ! I l i i 4 i l 1 f t i f f «f **» i l i 1«M


Miracoli e magia

hanno gravemente ritardato lo studio comparato delle re-


ligioni. Non è mia intenzione dimostrare come il termine
«magia» sia finora stato usato dai vari ricercatori; si è già
spesa fin troppa erudizione per definire ed etichettare le
azioni simboliche che si pensa siano capaci di modificare
il corso degli eventi \
La magia, discussa ma mai rigorosamente definita, è
rimasta in Europa un termine vagamente letterario. È
chiaro che nella tradizione della Teoria della magia di
Humbert e Mauss la parola non significa una particolare
categoria di rituali, quanto piuttosto l’intero corpo dei ri-
tuali e delle credenze dei popoli primitivi: né vi si trova
alcun interesse specifico per la sua efficacia 4. Dobbiamo
a Frazer l’aver isolato c rafforzato l’idea della magia come-
simbolo di efficacia 5. Malinowski sviluppò ulteriormente
tale concetto in maniera acritica e ne prolungò l’attualità.
Per Malinowski la magia trae origine dalla rappresentazio-
ne delle emozioni soggettive: la passione, che contrae il
volto allo stregone e gli fa battere i piedi e agitare le ma-
ni, lo induce poi a esprimere il suo forte desiderio di vit-
toria o di vendetta. Questa rappresentazione fisica, all’ini-
zio quasi involontaria, la delusione per un desiderio inap-
pagato, era per lui la base del rito magico b. Malinowski
ebbe un’intuizione così originale a proposito dell’effetto
creativo del linguaggio quotidiano che influenzò profon-
damente la linguistica contemporanea. Come avrebbe mai
potuto avere una concezione così sterile del rito magico
da considerarlo isolato dagli altri riti e perché avrebbe
dovuto discutere della magia nei termini di una bevanda
euforizzante per i poveri, usata per facilitare le relazioni
conviviali e per acquistare coraggio contro eventuali terri-
bili avvenimenti? Questa è un’altra aberrazione di cui
possiamo ascrivere a Frazer la paternità: eppure si vanta-
va di esserne il discepolo.
Robertson Smith tracciò un parallelo tra il rituale cat-
tolico romano e la magia primitiva, e noi gli siamo grati
di questo spunto, poiché la magia ci permette di leggere il
miracolo e di riflettere sulla relazione che esisteva tra rito

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Miracoli e magia

e miracolo per la massa di credenti di quell’epoca della


cristianità in cui si credeva ai miracoli. A quei tempi l’e-
ventualità del miracolo era sempre presente: esso non di-
pendeva necessariamente dal rito, ma lo si poteva atten-
dere in ogni luogo e in ogni occasione in risposta a un
desiderio virtuoso o al bisogno di giustizia. Esso era insito
in alcuni oggetti materiali, luoghi o persone con particola-
re intensità, ma non lo si poteva tenere sotto controllo
automatico; pronunciare le parole giuste o spruzzare con
l’acqua santa non era sufficiente per una guarigione. Si
credeva che esistesse il potere dell’intervento miracoloso,
tuttavia non vi era alcun modo di disporne con sicurezza.
Esso era tanto differente e tanto simile all’islamico baraka
o alla Fortuna dei Teutoni o al maria polinesiano in quan-
to ognuno si differenzia da tutti gli altri. Ciascun universo
primitivo spera di sfruttare qualcuno di tali meravigliosi
poteri per i bisogni degli uomini, e ciascuno pensa che
occorra tener conto di differenti ordini di legami, come
potremo vedere nel prossimo capitolo. In questo periodo
miracolistico della nostra tradizione cristiana il miracolo
non avveniva solo grazie all’esecuzione del rito, né si cele-
bravano sempre dei riti in attesa del miracolo. Se voglia-
mo essere realistici dobbiamo dunque supporre che una
relazione altrettanto libera intercorra tra il rito e l’effetto
magico nella religione primitiva. Dovremmo riconoscere
che nella mente dei credenti è sempre presente la possibi-
lità di un intervento magico; che è naturale e umano spe-
rare in benefici naturali in conseguenza della rappresenta-
zione di simboli cosmici; ma si commette un errore se si
considerano i rituali primitivi come se riguardassero prin-
cipalmente la produzione di effetti magici; il sacerdote in
una cultura primitiva non è necessariamente un operatore
magico di prodigi; questo concetto ha ostacolato la com-
prensione di altre religioni anche se è soltanto il prodotto
secondario di un pregiudizio.
Nella storia dell’ebraismo e del cristianesimo si può
trovare un’antica contrapposizione tra volontà interiore e
rappresentazione esterna. Ogni religione per sua stessa
natura non può non oscillare tra questi due poli. Se una

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Miracoli e magia

nuova religione resiste anche solo dieci anni dopo i suoi


primi fervori rivoluzionari, vi sarà necessariamente uno
spostamento dalla vita religiosa interiore a quella esterio-
re; finché l’indurimento della crosta esterna non sia causa
di scandalo, e provochi nuove rivoluzioni.
Così l’esibizione di vuote forme esteriori invece di
umiltà e di intima contrizione suscitava sempre nuova col-
lera nei profeti del Vecchio Testamento. Fin dal tempo
del primo concilio di Gerusalemme, gli apostoli cercarono
di mantenere una interpretazione spirituale della santità e
il Sermone della Montagna fu inteso come una deliberata
controparte messianica della legge di Mosè. Le frequenti
allusioni di san Paolo alla Legge come a una parte del
vecchio sistema religioso, una schiavitù e un giogo, sono
troppo note perché valga la pena di ricordarle. Da allora
in poi la condizione fisiologica di una persona, vuoi leb-
brosa, sanguinante o sciancata, non avrebbe più dovuto
condizionare il suo accesso al tempio. Il cibo mangiato, i
giorni in cui venivano compiuti atti materiali, le cose toc-
cate, queste condizioni accidentali non avrebbero dovuto
incidere sulla condizione spirituale dei fedeli. Il peccato
andava inteso come qualcosa che riguardava la volontà e
non le circostanze esterne. Tuttavia le tendenze spirituali
della chiesa primitiva venivano continuamente frustrate
dalla naturale resistenza all’idea che le condizioni fisiche
fossero irrilevanti per il rituale. Sembra che l’idea della
contaminazione prodotta dal sangue abbia tardato molto
a morire, stando ad alcuni penitenziali primitivi. Secondo
il penitenziale dell’arcivescovo Teodoro di Canterbury,
che data dal 668-690 d.C.,

se uno mangia senza saperlo ciò che è contaminato dal sangue


o una cosa impura, non importa; ma se ne è a conoscenza egli
deve fare una penitenza conforme al grado di contaminazione...

Esige inoltre dalle donne quaranta giorni di purifica-


zione dopo la nascita di un bambino ed impone per peni-
tenza tre settimane di digiuno a tutte quelle donne, reli-

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Miracoli e magia

giose o laiche, che entrano in chiesa o si comunicano du-


rante il periodo mestruale 7.
Non occorre dire che queste regole furono escluse dal
corpo delle leggi canoniche ed è difficile ora riscontrare
degli esempi di rituali per l’impurità nella pratica cristia-
na, I comandamenti che in origine potevano riguardare
l’eliminazione della contaminazione del sangue vengono
interpretati solamente come un’espressione del significato
simbolico e spirituale. Ad esempio, si usa riconsacrare
una chiesa se entro i suoi recinti sia stato versato del san-
gue, ma san Tommaso d’Aquino spiega che «spargimento
di sangue» si riferisce all’ingiuria volontaria che si conclu-
de con uno spargimento di sangue; ciò implica il peccato,
ed è il peccato commesso in luogo santo che sconsacra il
luogo stesso, ma non certo la contaminazione che deriva
unicamente dal sangue versato. Analogamente, il rito della
purificazione della puerpera deriva in ultima analisi con
ogni probabilità da una pratica giudaica. Tuttavia il mo-
derno rituale romano che risale a papa Paolo V (1605-
1621) considera la visita delle donne in chiesa semplice-
mente come un atto di ringraziamento.
La lunga storia del protestantesimo è una prova della
necessità di tenere sotto controllo costante la tendenza
che ha la forma rituale a consolidarsi e a sostituire i senti-
menti religiosi: la Riforma ha continuato a condannare,
con fasi successive, le vuote incrostazioni del rituale. Fin
quando la cristianità avrà vita non ci si stancherà mai di
ripetere la parabola del Fariseo e del Pubblicano, né di
dire che le forme esteriori possono diventare vuote e falsi-
ficare le verità da esse rappresentate. Ogni secolo che-
passa noi diventiamo eredi di una tradizione antiritualisti-
ca sempre più lunga e vigorosa.
Questo è giusto e positivo fintantoché riguarda la no-
stra vita religiosa, ma facciamo attenzione a non traspor-
tare acriticamente il timore di una formalità in disuso
presso di noi nei nostri giudizi sulle altre religioni. Dal
movimento evangelico abbiamo appreso la tendenza a
supporre che ogni rituale sia una forma vuota, che ogni
codifica della condotta sia aliena da naturali trasporti di

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Miracoli e magia

simpatia, e che ogni sorta di religiosità esteriore tradisca


la vera religione interiore. Di qui al pregiudizio riguardo
le religioni primitive il passo è breve. Se esse sono abba-
stanza formali da essere prese in considerazione, allora so-
no troppo formali e prive di una religiosità interiore. Ad
esempio, in Books of thè Old Testament, Pfeiffer non ri-
nuncia a questa concezione antiritualistica fondamentale
che lo induce a contrapporre la «vecchia religione del cul-
to» alla «nuova religione della condotta» dei profeti. Se-
condo quanto egli scrive, non ci sarebbe stato alcun con-
tenuto spirituale nel culto antico 8. Egli presenta la storia
religiosa d’Israele come se degli austeri legislatori senza
alcuna sensibilità fossero stati in conflitto con i profeti e
non ammette mai che tanto gli uni quanto gli altri abbia-
no potuto svolgere una stessa funzione, o che il rituale e
la codificazione potessero aver qualcosa a che fare con la
spiritualità. Secondo Pfeiffer i sacerdoti legislatori
santificavano sia gli ideali etici di Amos - che erano stati emar-
ginati e dimenticati dalla religione - sia i delicati sentimenti di
Osea; e riducevano il Creatore Universale alla condizione di un
despota inflessibile... Da un’usanza immemorabile Israele derivò
le due nozioni fondamentali che caratterizzavano la sua legisla-
zione: santità fisica e sanzione arbitraria - concezioni arcaiche
che i profeti riformatori avevano scartato a favore della santità
spirituale e della legge morale

Questa non è storia, è mero pregiudizio antiritualista.


Infatti è un errore pensare che ci possa essere una religio-
ne che sia tutta interiore, senza regole, senza liturgia, sen-
za segni esterni di stati d’animo interiori. Come per la so-
cietà, così per la religione, la forma esteriore è la condi-
zione della sua esistenza. Gli eredi della tradizione evan-
gelica sono stati educati a sospettare della formalità e a
cercare delle espressioni spontanee, come la sorella del
Pastore, alla quale Mary Webb fa dire: «Le ciambelle e le
preghiere fatte in casa sono sempre le migliori». In quan-
to animale sociale l’uomo è un animale rituale. Soppresso
in una forma, il rituale riaffiora in altre, tanto più forte
quanto più intensa è l’interazione sociale. Senza le lettere

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Miracoli e magia

di condoglianze, i telegrammi di congratulazione, e persi-


no senza le occasionali cartoline, l’amicizia di due persone
lontane non è una realtà sociale: non può esistere senza i
riti dell’amicizia. I riti sociali creano una realtà che sareb-
be inesistente senza di loro. Non è un’esagerazione dire
che il rituale rappresenta per la società più di quanto rap-
presentino le parole per il pensiero: infatti è possibile sa-
pere una cosa e poi trovare delle parole per esprimerla,
ma è impossibile avere delle relazioni sociali senza degli
atti simbolici.
Possiamo comprendere meglio i rituali simbolici se in-
terpreteremo con maggior chiarezza le nostre idee circa i
riti profani. Ogni rappresentazione simbolica quotidiana
comporta per noi, individualmente, diverse cose: ci forni-
sce un meccanismo di messa a fuoco, un metodo mnemo-
nico e di controllo dell’esperienza. Tanto per iniziare con
la messa a fuoco, un rituale fornisce una cornice. Un’indi-
cazione di tempo e di luogo risveglia un particolare tipo
di attesa, proprio come il proverbiale «c’era una volta»
crea un’atmosfera recettiva a racconti fantastici. Possiamo
meditare su questa funzione di contorno nei nostri casi
personali più banali, e constatare come possa essere signi-
ficativa anche la più piccola azione. Inquadrando e inca-
sellando noi limitiamo l’esperienza, includiamo gli argo-
menti preferiti e lasciamo fuori quelli che danno fastidio.
Quante volte dobbiamo fare la valigia per il weekend pri-
ma di scoprire come si fa a lasciar definitivamente a casa
tutti i simboli di una indesiderata vita di ufficio? Uno
schedario d’ufficio, infilato nella valigia in un momento di
debolezza, può distruggere tutto l’effetto di una vacanza.
Mi riferisco qui a quanto afferma Marion Milner a questo
proposito:

La cornice sottolinea la differenza tra il tipo di realtà che


sta all’interno di essa e quella che ne sta fuori; ma una cornice
spazio-temporale sottolinea la particolare realtà tipica di una se-
duta psicoanalitica... rende possibile l’illusione creativa chiama-
ta transfert 10

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Miracoli e magia

L ’autrice discute della tecnica dell’analisi infantile e si


riferisce al cassetto in cui il piccolo tiene gli oggetti con
cui è solito giocare; il cassetto crea una cornice spazio-
temporale che gli favorisce la continuità tra una seduta e
l’altra.
Il rituale non ci aiuta solamente a selezionare delle
esperienze per concentrare l’attenzione: esso è creativo
anche a livello dell’esecuzione, in quanto un simbolo este-
riore può misteriosamente agevolare la coordinazione tra
cervello e corpo. Le biografie degli attori rievocano spes-
so dei casi in cui un simbolo materiale trasmette un effet-
tivo potere. L ’attore conosce la sua parte, sa esattamente
come vuole interpretarla, ma una conoscenza intellettuale
di ciò che va fatto non gli è sufficiente per passare all’a-
zione; prova e riprova, e sbaglia. Un giorno gli viene con-
segnato un arredo da teatro, un cappello o un ombrello
verde e, grazie a questo simbolo, improvvisamente la co-
noscenza e l’intenzione si realizzano in un’esecuzione per-
fetta.
Il pastore Dinka, che si affretta verso casa per la cena,
lega un fascio d’erba ai lati della strada, come simbolo del
suo ritardo; così egli esprime apertamente il suo desiderio
che la preparazione del pasto sia prolungata fino al suo
ritorno. Il rito non comporta la promessa magica che così
farà in tempo ad essere a casa per la cena, e non è che
egli perda altro tempo nel ritorno, pensando che questa
azione abbia di per sé efficacia; egli si affretta invece an-
cor più, e la sua azione non è stata uno spreco di tempo,
poiché gli è servita a concentrarsi maggiormente sul desi-
derio di arrivare in tempo ". L ’azione mnemonica dei riti
è molto nota: quando facciamo un nodo al fazzoletto non
operiamo magicamente sulla nostra memoria, ma la tenia-
mo sotto il controllo di un segnale esterno.
Così il rituale concentra l’attenzione, come con una
cornice; esso ravviva la memoria e lega il presente con il
passato che conta. In tutto ciò è di aiuto alla percezione;
o piuttosto modifica la percezione perché cambia i princì-
pi selettivi: perciò non basta dire che il rituale ci aiuta a
dare alla nostra esperienza un’intensità maggiore di quan-

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Miracoli e magia

to non potremmo altrimenti lare; non è solo un ausilio


visivo, simile all’illustrazione grafica apposta alle istruzioni
verbali per aprire barattoli e contenitori. Se fosse soltanto
una sorta di mappa drammatica o di diagramma di quan-
to si conosce, esso dovrebbe sempre seguire l’esperienza.
Di fatto invece il rituale non sostiene questo ruolo secon-
dario. Può essere antecedente alla formulazione dell’espe-
rienza. Può permettere la conoscenza di ciò che diversa-
mente non si sarebbe potuto conoscere. Esso non si limi-
ta ad esteriorizzare l’esperienza portandola alla luce del
giorno ma, esprimendola in quel determinato modo, la
modifica. Questo vale anche per il linguaggio. Ci sono dei
pensieri che non si sarebbero mai tramutati in parole, ma
una volta che le parole vengono formulate in un certo
modo il pensiero viene trasformato e limitato dalle parole
effettivamente scelte. Così il discorso ha creato qualcosa,
un pensiero che avrebbe potuto non essere lo stesso. Vi
sono alcune cose che non possiamo sperimentare senza
un rituale: eventi che si succedono in regolare sequenza
acquistano un significato in rapporto agli altri componenti
della sequenza e senza l’intera sequenza gli elementi indi-
viduali si disperdono, non sono più percepibili. Per esem-
pio, i giorni della settimana, nella loro successione regola-
re, coi loro nomi e le loro caratteristiche: a parte il valore
pratico che hanno di indicare la divisione del tempo, cia-
scuno di loro ha significato come parte di un modello.
Ogni giorno ha il suo significato particolare e se vi sono
abitudini che stabiliscano l’identità di un giorno particola-
re, queste regolari osservanze hanno l’effetto di un rituale.
La domenica non è solamente il giorno del riposo, è il
giorno che viene prima del lunedì, e lo stesso vale per il
lunedì rispetto al martedì. In senso proprio, non possia-
mo dire che è martedì se per un qualche motivo non ab-
biamo preso formalmente nota che il lunedì è già passato.
Attraversare una parte del modello è una procedura ne-
cessaria per rendersi conto della parte successiva. Per chi
viaggia in aereo questo vale per le ore del giorno e per la
sequenza dei pasti. Sono tutti esempi di simboli che ven-
gono recepiti e interpretati senza essere compresi; se am-

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Miracoli e magia

mettiamo che essi condizionino l’esperienza, dobbiamo


ammettere che anche i rituali accettati coscientemente in
sequenza regolare possano svolgere tra le altre questa im-
portante funzione.
Ora possiamo ritornare ai riti religiosi. Durkheim si
era reso conto di questo loro effetto di creare e di con-
trollare l’esperienza. La sua principale preoccupazione fu
quella di ricercare in che modo il rito religioso rende ma-
nifesta agli uomini la loro identità sociale e crea così la
società. Ma il suo pensiero fu inglobato nella corrente
dell’antropologia inglese per opera di Radcliffe-Brown che
vi introdusse una modifica. Grazie a Durkheim il rituali-
sta primitivo non veniva più visto come uno stregone-mi-
mo: questo fu un notevole passo avanti rispetto a Frazer.
Per di più Radcliffe-Brown rifiutò di separare il rituale re-
ligioso da quello profano - un altro passo avanti. Lo stre-
gone di Malinowski non era molto dissimile dal patriota
che sventola la bandiera o dal superstizioso che getta il
sale dietro di sé, e questi fenomeni vennero considerati
come l’astensione dalla carne dei cattolici romani, o come
la deposizione di riso sulle tombe dei cinesi: il rito non
era più né misterioso, né esotico.
Abbandonando le due parole «sacro» e «magico»,
Radcliffe-Brown sembrò ritrovare il filo che legava il rito
profano a quello religioso. Ma sfortunatamente non riuscì
ad allargare il campo della ricerca. Infatti egli voleva usa-
re il termine «rituale» in un senso molto stretto e molto
particolare: si proponeva in questo modo di sostituire con
esso il culto del sacro di Durkheim e di limitarne il senso
alla rappresentazione di valori socialmente significativi 12.
Si ritiene che tali costrizioni ad usare determinate parole
agevolino la comprensione: al contrario, spesso esse de-
formano e confondono. Ora siamo arrivati al punto in
cui, negli scritti degli antropologi, il rituale sostituisce la
religione: questo termine viene usato con circospezione e
con un riferimento costante ad azioni simboliche che ri-
guardano il sacro. Ne consegue che l’altro tipo più comu-
ne di rituale, quello non sacro, privo di efficacia religiosa,
deve essere chiamato con un altro nome per poterlo in

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Miracoli e magia

qualche modo esaminare. In tal modo Radcliffe-Brown


eliminava da una parte la barriera tra sacro e profano e la
reintroduceva dall’altra; inoltre non gli riuscì di aderire
alla concezione di Durkheim secondo cui il rituale rientra
in una teoria sociale della conoscenza, e lo considerò in-
vece come parte di una teoria dell’azione, raccogliendo
acriticamente alcune asserzioni infondate degli psicologi
suoi contemporanei a proposito dei «sentimenti». Dove ci
sono dei valori comuni, egli dice, i rituali esprimono e fo-
calizzano l’attenzione su di essi. Dai rituali sorgono dei
sentimenti necessari a mantenere gli uomini nei loro ruoli.
I tabù della nascita rappresentano per gli abitanti delle
isole Andamane il valore del matrimonio e della maternità
e il pericolo di vita durante il travaglio del parto. Nelle
danze di guerra prima di una tregua gli Andamani ester-
nano i loro sentimenti di aggressività; i tabù del cibo in-
stillano sentimenti di rispetto per la senilità, e così via 13.
Una interpretazione stupefacente questa, il cui princi-
pale valore consiste nel chiederci di prendere sul serio i
tabù, in quanto essi esprimono un interesse. Ma perché i
tabù del cibo, o quelli visivi, o quelli tattili dovrebbero
proibire proprio questi particolari cibi, visioni o contatti,
non ci è dato sapere. Radcliffe-Brown, un po’ nello spiri-
to di Maimonide, sembra suggerire che la domanda è
sciocca, o che la risposta non può essere che arbitraria.
Ma ciò che ci procura ancor più insoddisfazione è che noi
restiamo con ben pochi indizi circa gli interessi di questo
popolo. E ovvio che la morte e la nascita dovrebbero es-
sere una questione di interesse. Scrivendo sotto l’influenza
di Radcliffe Brown, Srinivas così si esprime in merito alle
astensioni e alle purificazioni dei Coorg:
La contaminazione derivante dal parto è meno grave di
quella che consegue alla morte, ma in tutti e due i casi la conta-
minazione riguarda solamente i parenti interessati, ed è questo
il modo in cui l’interesse viene precisato e viene reso noto a
tutti H.
Ma egli non può fare lo stesso ragionamento per tutti
i tipi di contaminazione. Qual è il tipo di interesse che

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Miracoli e magia

deve essere precisato e fatto conoscere a tutti per quel


che concerne escrezioni corporee quali le feci e lo sputo?
Alla fine l’antropologo inglese accolse l’insegnamento
di Durkheim, quando un miglior lavoro sul campo portò
la sua comprensione al livello dell’intuito di Durkheim.
L ’intera discussione di Lienhardt sulla religione Dinka è
ampiamente dedicata a dimostrare come i rituali produca-
no e controllino l’esperienza. Scrivendo delle cerimonie
della pioggia dei Dinka, celebrate durante le siccità pri-
maverili, egli afferma:

Gli stessi Dinka sanno, ovviamente, quando si avvicina la


stagione delle piogge... questo punto ha una certa importanza
per il corretto apprezzamento dello spirito con cui i Dinka ese-
guono le loro regolari cerimonie. In queste cerimonie l’azione
simbolica degli uomini si muove con il ritmo del mondo natu-
rale che li circonda, ricreando quel ritmo in termini morali e
non semplicemente cercando di costringerlo a conformarsi ai
desideri umani 15.

Con lo stesso stile Lienhardt si accosta ai sacrilici per


la salute, per la pace e per annullare gli effetti dell’ince-
sto; e, per finire, giunge a considerare la sepoltura in vita
dei Maestri dell’Arpione, il rito con cui i Dinka affronta-
no e trionfano sulla morte stessa. Egli ribadisce via via la
funzione che il rituale avrebbe nel modificare l’esperien-
za; esso agisce spesso in maniera retroattiva: può accadere
che gli officianti neghino solennemente i litigi e la cattiva
condotta che sono l’effettiva ragione di un sacrificio, ma
ciò non rappresenta un cinico spergiuro commesso sullo
stesso altare; lo scopo del rituale non è quello di inganna-
re Dio, bensì quello di dare una nuova formulazione della
esperienza passata. Grazie alle parole del rito tutto ciò
che è passato viene riaffermato, cosicché ciò che sarebbe
dovuto essere prevale su ciò che è stato; le buone inten-
zioni durevoli prevalgono sull’aberrazione temporanea.
Quando viene commesso un atto incestuoso, il sacrificio
può modificare la comune discendenza della coppia e così
eliminare la colpa. La vittima, ancora viva, viene tagliata
longitudinalmente attraverso gli organi genitali. Così la

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Miracoli e magia

comune origine della coppia incestuosa viene negata sim-


bolicamente. Analogamente, nelle cerimonie di celebrazio-
ne della pace vi sono azioni di purificazione e di benedi-
zione, come pure delle rappresentazioni mimiche di batta-
glie:

Sembra che il gesto non accompagnato dalla parola fosse


sufficiente a confermare nell’universo fisico esterno un’intenzio-
ne concepita intimamente dallo spirito... L ’azione simbolica in-
fatti mima la situazione globale in cui le parti in lotta si ricono-
scono nell’atto di riunire insieme l’ostilità e la disposizione alla
pace, senza le quali la cerimonia non potrebbe venire celebrata.
In questa rappresentazione simbolica della situazione essi la
controllano, secondo il loro desiderio di pace, trascendendo
nell’azione simbolica l’unico tipo di azione pratica (cioè conti-
nuare le ostilità) che deriva, per i Dinka, dalla situazione di
omicidio.

Ancora, più avanti, egli continua ad insistere sul pun-


to che uno degli obiettivi del rituale è quello di controlla-
re le situazioni e di modificare l’esperienza 16.
Soltanto ribadendo questo punto l’autore può inter-
pretare la sepoltura da vivi dei maestri fiocinatori Dinka,
per cui può ricavarne il principio fondamentale che certi
uomini, strettamente in contatto con la divinità, non do-
vrebbero essere visti entrare nella morte fisica.

Le loro morti devono essere o devono apparire intenzionali,


e devono rappresentare l’occasione per una forma di solennità
pubblica... le cerimonie non impediscono in alcun modo il rico-
noscimento del definitivo invecchiamento e della morte di colo-
ro per i quali vengono celebrate: questa morte viene riconosciu-
ta, ma è la pubblica esperienza di essa che, per quelli che so-
pravvivono, viene deliberatamente modificata dall’esecuzione di
queste cerimonie. La morte decisa liberamente, benché ricono-
sciuta come morte, li dispensa in questo caso daH’ammettere la
morte involontaria che tocca agli uomini comuni e alle bestie.Il

Il Maestro dell’Arpione non si suicida: egli esige una


speciale forma di morte che gli viene data dalla sua gente,
per la salvezza del popolo, non per la sua. Se egli dovesse

119
Miracoli e magia

morire di morte naturale la vita del suo popolo, che è


nelle sue mani, se ne andrebbe con lui. La sua morte,
contratta attraverso il rito, separa la sua vita personale da
questa vita pubblica. Ognuno dovrebbe rallegrarsi, perché
in questa occasione si assiste al trionfo sociale sopra la
morte.
Leggendo questo resoconto sugli atteggiamenti dei
Dinka nei confronti dei loro rituali si ricava l’impressione
che l’autore sia come un nuotatore che affronta una cor-
rente impetuosa: deve continuare a tener testa alla massa
degli argomenti che gli oppongono gli osservatori più in-
genui, che considerano il rituale sotto il suo aspetto più
superficiale di Lampada di Aladino. È naturale che i Din-
ka sperino che i riti della pioggia faranno piovere, che
quelli di guarigione terranno lontana la morte e che le ce-
rimonie del raccolto produrranno messe. Ma l’efficacia
strumentale non è il solo tipo di efficacia che si può rica-
vare dall’azione simbolica: l’altro tipo di efficacia viene
ottenuto nell’azione di per sé, nelle asserzioni che pro-
nuncia e nell’esperienza che reca la sua impronta.
Ora che queste nozioni sono state così incisivamente
chiarite per l’esperienza religiosa dei Dinka, non possiamo
sottrarci alla loro verità; possiamo anzi applicarle ancor
più profondamente in noi stessi. Per prima cosa dovremo
ammettere che ben poco del nostro comportamento ritua-
le viene vissuto nel contesto della religione. La cultura
Dinka è unificata, in quanto tutti i principali contesti di
esperienza di questo popolo si sovrappongono e si com-
penetrano, quasi tutta la loro esperienza è religiosa come
pure di conseguenza, i loro rituali. Dobbiamo dunque
considerare la moda e le pulizie di primavera delle nostre
città come dei riti di rinnovamento che focalizzano e con-
trollano l’esperienza allo stesso modo dei riti Swazi per i
primi raccolti.
Se riflettiamo onestamente sotto questa luce sui nostri
laboriosi lavaggi e rassetti, possiamo renderci conto che
non stiamo semplicemente cercando di tener lontane le
malattie: facciamo delle separazioni, stabiliamo dei confi-
ni, diamo delle visibili disposizioni alla casa che intendia-

mo
Miracoli e magia

mo creare al di là della casa materiale. Se teniamo gli ar-


nesi di pulizia del bagno separati da quelli di cucina, e
mandiamo gli uomini nella toilette di sotto e le signore in
quella di sopra, stiamo solo facendo le stesse cose della
moglie boscimana quando arriva in un nuovo accampa-
mento 17. Essa sceglie il posto dove sistemerà il fuoco e
poi conficca un bastone nel terreno; questo orienta il fuo-
co e gli dà un lato destro e un lato sinistro. Così la casa è
divisa in zona maschile e femminile.
Noi moderni operiamo in molti differenti campi di
azione simbolica. Per i Boscimani, i Dinka e molte culture
primitive il campo dell’azione simbolica è uno solo. L ’uni-
tà che essi creano con la separazione e la pulizia non è
solamente una piccola casa, ma un universo totale in cui
viene ordinata tutta l’esperienza. Tanto noi quanto i Bo-
scimani giustifichiamo il nostro astenerci dalla contamina-
zione con la paura del pericolo: essi credono che se un
uomo siede a fianco di una donna la sua virilità ne sarà
sminuita; noi temiamo l’azione patogena trasmessa dai mi-
croorganismi. Spesso le giustificazioni igieniche che diamo
delle nostre astensioni sono pura fantasia. La differenza
tra noi e loro non è che il loro comportamento si basa sul
simbolismo ed il nostro sulla scienza, poiché anche il no-
stro comporta significati simbolici. La vera differenza sta
nel fatto che noi non trasferiamo lo stesso ordine di sim-
boli, sempre più potenti, da un contesto all’altro: la no-
stra esperienza è frammentata. I nostri rituali creano una
quantità di sottomondi, senza relazione tra essi, mentre i
loro creano un unico universo, coerente dal punto di vista
simbolico. Nei prossimi due capitoli dimostreremo quali
tipi di universi si producono quando i bisogni rituali agi-
scono liberamente assieme a quelli politici.
Adesso ritorniamo alla questione dell’efficacia. Mauss
scrisse che le società primitive si ricompensano da sé con
la falsa moneta della magia. Questa metafora della moneta
riassume mirabilmente quanto vogliamo asserire a propo-
sito del rituale. Il denaro conferisce un elemento fisso,
esteriore, riconoscibile a ciò che apparirebbe come una
serie di operazioni confuse e contraddittorie; il rituale

121
Miracoli e magia

crea dei visibili segni esterni a stati d’animo interiori. Il


denaro media le transazioni, il rituale media l’esperienza,
compresa l’esperienza sociale. Il denaro fornisce un metro
per misurare il merito; il rituale stabilisce delle situazioni
standard e così aiuta a valutarle. Il denaro crea un legame
tra il presente e il futuro e lo stesso fa il rituale. Più si
riflette sulla metafora della ricchezza e più appare chiaro
che non è una metafora: il denaro non è che un tipo
estremo e specializzato di rituale.
Mauss sbaglia a paragonare la magia alla moneta falsa.
L ’unico ruolo che può svolgere il denaro è quello di in-
tensificare i rapporti economici se il pubblico gli dà credi-
to; la moneta è inutile se ne viene messo in dubbio il va-
lore. Così con il rituale: i suoi simboli possono avere ef-
fetto solo in quanto ispirano fiducia. In questo senso tut-
to il denaro, vero o falso, dipende dal trucco della fidu-
cia: non esiste denaro falso se non per contrasto con
un’altra moneta che gode di maggior circolazione. Così il
rituale primitivo assomiglia alla valuta pregiata, non a
quella falsa, nella misura in cui si accattiva il consenso.
E da notare che il denaro può dar luogo all’attività
economica soltanto in virtù della reazione di risposta che
gli viene dalla pubblica fiducia. E per quanto riguarda il
rituale? Che tipo di efficacia è prodotta dalla fiducia nel
potere e nei suoi simboli? Utilizzando il paragone con il
denaro possiamo riproporre la questione dell’efficacia ma-
gica. Vi sono due possibili punti di vista: o il potere ma-
gico è una mera illusione o non lo è. Se non è un’illusio-
ne, allora i simboli hanno il potere di operare dei cambia-
menti. A parte i miracoli, un tale potere potrebbe agire
soltanto a due livelli: quello della psicologia individuale e
quello della vita sociale; noi sappiamo molto bene che i
simboli hanno potere sulla vita sociale - l’analogia con la
moneta ne è un esempio. Ma il tasso di sconto ha forse
qualche cosa a che vedere con le guarigioni delle sciama-
no? Gli psicoanalisti rivendicano il merito di saper curare
utilizzando dei simboli, ma il paragone con il subconscio
ha forse qualcosa a che vedere con gli incantesimi e le
liberazioni magiche dei primitivi? Ecco due meravigliose

122
Miracoli e magia

ricerche che daranno un’idea di quanto sia fuori luogo lo


scetticismo.
Una è l’analisi di Turner di una guarigione sciamani-
ca: An Ndembu Doctor in Fradice, che riassumerò breve-
mente. Il metodo di cura era quello famoso del salasso
con la simulazione dell’estrazione di un dente dal corpo
del paziente. I sintomi consistevano in palpitazioni, forti
dolori alla schiena e una gran debolezza. Il paziente inol-
tre era convinto che gli altri abitanti del villaggio gli fos-
sero ostili e si asteneva perciò completamente dalla vita
sociale: si trattava quindi di un insieme di disturbi fisici e
psicologici. Il dottore cominciava con l’indagare su tutto
quanto riguardava la storia passata del villaggio, condu-
cendo delle sedute in cui ognuno era invitato a discutere i
propri motivi d’astio verso il paziente, mentre quest’ulti-
mo dava sfogo alle proprie animosità contro di loro. Alla
fine il trattamento col salasso coinvolgeva drammatica-
mente l’intero villaggio in una crisi di attesa che esplode-
va nell’eccitazione della estrazione del dente del paziente,
mentre costui sanguinava e veniva meno. Febei, tutti si
congratularono con lui della guarigione, compiaciuti di
avervi contribuito: avevano ragione di gioire, poiché que-
sto lungo trattamento aveva messo a nudo i principali
motivi di tensione del villaggio. In futuro il paziente
avrebbe potuto sostenere un ruolo accettabile nelle loro
faccende: gli elementi di contrasto erano stati individuati
e in breve tempo sparirono dal villaggio. La struttura so-
ciale fu analizzata e riordinata cosicché per il momento i
rancori vennero attenuati.
In questa stimolante ricerca ci viene indicato un caso
di sapiente terapia di gruppo. L ’invidia e la calunnia degli
abitanti del villaggio, simboleggiata dal dente nel corpo
dell’uomo malato, si dissolveva in un’ondata di entusia-
smo e di solidarietà. Come egli guarì dai suoi sintomi fisi-
ci, così tutti loro guarirono dal male sociale. Questi sim-
boli agivano per la figura centrale - l’uomo malato - a
livello psicosomatico e per gli abitanti del villaggio a un
livello psicologico generale, che mutava il loro atteggia-
mento; e ancora, a livello sociologico, in quanto venne

123
Miracoli e magia

modificato nel villaggio il modello di posizioni sociali e in


quanto nuovi abitanti ne vennero a far parte c altri lo ab-
bandonarono, proprio in seguito al trattamento.
In conclusione, dice Turner:

Spogliata dei suoi aspetti soprannaturali la terapia Ndembu


può dare una buona lezione alla pratica clinica occidentale. In-
fatti sarebbe un grande sollievo per i molti sofferenti di malattie
nervose se tutti coloro che partecipano di uno stesso sistema di
relazioni sociali potessero incontrarsi e confessare pubblicamen-
te le loro cattive intenzioni nei confronti del paziente, e a loro
volta permettere che egli esprima tutti i suoi rancori. Ma forse
solo delle sanzioni rituali per un simile comportamento e la cre-
denza nei mistici poteri del dottore potrebbero provocare una
tale umiltà e costringere la gente a mostrarsi caritatevole verso
il dolore del vicino 1 .

Questo racconto di una cura sciamanica dimostra che


la sua efficacia deriva dalla manipolazione della situazione
sociale. L ’altra illuminante ricerca non dice assolutamente
nulla circa la situazione sociale, ma analizza come il diret-
to potere dei simboli possa influenzare la personalità del
sofferente. Lévi-Strauss ha esaminato un canto dello scia-
mano Cuna, recitato per alleviare le difficoltà di un parto
travagliato. Il dottore non tocca la paziente: l’incantesimo
sta nell’ottenere un effetto con la sola recitazione. Il canto
inizia descrivendo le difficoltà della levatrice e il suo ap-
pello allo sciamano; poi lo sciamano, alla testa di un
gruppo di spiriti protettori, si avvia (nella canzone) verso
la casa di Muu, una potenza responsabile del feto e che
ha imprigionato l’anima della paziente. La canzone descri-
ve la ricerca, gli ostacoli, i pericoli e le vittorie dello scia-
mano e del suo gruppo, finché essi non giungono a dar
battaglia a Muu e ai suoi alleati. Quando Muu è vinto e
libera l’anima della paziente, la partoriente si libera del
bambino e la canzone finisce. L ’interesse della canzone è
che il paesaggio nel quale si svolge il viaggio verso Muu è
costituito letteralmente dalla vagina e dall’utero della don-
na gravida, nelle cui profondità egli combatte finalmente
per lei vittoriosamente. Con ripetizioni e accenni estrema-

124
Miracoli e magia

mente dettagliati, il canto costringe la paziente a prestar


attenzione ad un elaborato resoconto delle difficoltà che
sono sorte durante le doglie. In un certo senso, il corpo e
gli organi interni della paziente sono il teatro dell’azione
nella storia; ma, con la trasformazione del caso in un pe-
ricoloso viaggio e in una battaglia contro le potenze co-
smiche, con continui richiami ora alla sfera del corpo ora
a quella dell’universo, lo sciamano riesce ad imporre il
suo punto di vista sul problema. Il terrore della paziente
è concentrato sulla forza degli avversari mitici e le sue
speranze di riprendersi sono rivolte esclusivamente ai po-
teri e agli stratagemmi dello sciamano e dei suoi fidi.
La cura consisterebbe quindi nel rendere pensabile una si-
tuazione che in partenza si presenta in termini emotivi: e nel
rendere accettabili alla mente dolori che il corpo si rifiuta di
tollerare. Che la mitologia dello sciamano non corrisponda ad
una realtà oggettiva è un fatto privo di importanza: l’ammalata
ci crede ed è un membro di una società che ci crede. Gli spiriti
protettori e gli spiriti maligni, i mostri soprannaturali e gli ani-
mali magici, fanno parte di un sistema coerente che fonda la
concezione indigena dell’universo. La malata li accetta, o, più
esattamente, non li ha mai messi in dubbio. Quel che non ac-
cetta sono i dolori incoerenti ed arbitrari, che, invece, costitui-
scono un elemento estraneo al suo sistema, ma che, grazie al
ricorso al mito, vengono sostituiti dallo sciamano in un insieme
in cui tutto ha una ragione d’essere.
Ma l’ammalata, avendo capito, non si limita a rassegnarsi;
guarisce 19.
Anche Lévi-Strauss, come Turner, conclude la sua ri-
cerca con osservazioni psicoanalitiche molto opportune.
Questi esempi dovrebbero essere sufficienti per far
crollare un certo disprezzo troppo presuntuoso verso le
credenze religiose primitive. Non è tanto il paradossale
Alì Babà, quanto l’autorevole figura di Freud che ci forni-
sce il modello per apprezzare il ritualista primitivo. Il ri-
tuale è davvero creativo; più fantastica delle caverne e dei
palazzi esotici delle fiabe, la magia dei rituali primitivi
crea dei mondi armoniosi in cui le popolazioni, schierate
bene in ordine, recitano le loro parti prestabilite. Ben lun-

125
Miracoli e magia

gi dall’essere vuota di significati, la magia primitiva è


quella che dà un senso all’esistenza; e ciò vale sia per i
riti positivi che per quelli negativi. I divieti segnano i con-
fini del cosmo e l’ordine sociale ideale.

Note

1 L . M a rsh all, N.'ow, in « A fr ic a » , X X V I I (1 9 5 7 ), p p . 2 3 2 -4 0 .


2 R .G . L ie n h a rd t, Divinity and Experience: The Religion o f thè
Dinka, L o n d o n , 1961.
3 J . G o o d y , Religion and Rituali thè Definitional Problem, in «B ri-
tish Jo u r n a l o f S o c io lo g y » , X I I (1 9 6 1 ), p p . 142-64; e Essays un thè R i-
tm i o f Social Relations, a cu ra di M . G lu c k m a n , M a n c h e ste r, 1962;
tra d . it. II rituale nei rapporti sociali, R o m a , 1972.
4 M . M a u ss e H . H u b e rt, Esquisse d'une théorie générale de la
magie, in « L ’an n ée s o c io lo g iq u e » , V II (1 9 0 2 -3 ), r ista m p a to in Sociolo-
gie et anthropologie, P a ris, 1 950; trad . it. in Teoria generale della magia
e altri saggi, T o rin o , 1 9 7 2 3.
5 C fr. il c a p ito lo I.
6 S .F . N a d e l, Malinowski on Magic and Religion, in Man and Cul-
ture: An Evaluation o f thè Work o f Bronislaw Malinowski, a c u ra di
R .W . F irth , L o n d o n , 1957, p. 194.
7 J . T . M c N e ill e H .M . G a m e r, Medieval Handbooks o f Penance,
N e w Y o r k , 1938.
8 R .H . P fe iffe r, Books o f thè Old Testament, cit., p p . 55 ss.
9 Ìbidem, p . 91.
10 M . M iln er, The Role o f lllusion in Symbol Eormation, in New
Directions in Psychoanalysis, a cu ra d i M . K le in , L o n d o n , 1955.
11 R .G . L ie n h a r d t, Divinity and Experience, cit.
12 A .R . R ad cliffe -B ro w n , Taboo, C a m b r id g e , 1939, ristam p a to in
Structure and Function in Primitive Society, L o n d o n , 1952; trad . it.
Struttura e funzione nella società primitiva, M ila n o , 19722.
13 A .R . R ad cliffe -B ro w n , The Andaman Islanders, C a m b r id g e ,
1933 (ed . o rig . 1922).
14 M .N . Srin ivas, Religion and Society among thè Coorgs o f South
India, L o n d o n , O x fo r d , 1952, p . 102.
15 R .G . L ie n h ard t, Divinity and Experience, cit.
16 Ibidem, p. 2 9 1 .
17 E. M a rsh a ll T h o m a s, The Harmless People, N e w Y o r k , 1959,
p. 41.

126
Miracoli e magia

18 V .W . T u m e r , An Ndembu Doctor in Fradice, in Magic, Faith


and Healing, a cu ra di A . K iev , G le n c o e , Illin o is, 1964.
19 C . L é v i-S tra u ss, L ’efficacité symbolique, in « R e v u e d e l’h isto ire
d e s re lig io n s», C X X X V (1 9 4 9 ), p p . 5 -2 7 ; r ista m p a to in Anthropologie
structurale, P a ris, 1 9 5 8 ; trad . it. in Antropologia strutturale , M ila n o ,
1 9 8 0 8, cap . X .

127
Capitolo quinto

Nei mondi primitivi

«Orbene, quali caratteristiche ha l’anemone di mare,


tali da farlo passare dalle mani dei botanici a quelle degli
zoologi?». Così riflette George Eliot.
Per noi le specie ambigue riescono solo ad ispirare
agli scrittori delle eleganti meditazioni; per il Levitico il
tasso delle rocce, o irace, della Siria è impuro e abomine-
vole. Certamente è un’anomalia. Assomiglia ad un coni-
glio senza orecchie, ha i denti come il rinoceronte e i mi-
nuscoli zoccoli degli alluci fanno pensare che abbia qual-
che parentela con l’elefante. Tuttavia, non è che la sua
esistenza minacci di farci crollare addosso l’intera struttu-
ra della nostra cultura. Ora che abbiamo riconosciuto ed
assimilato la nozione della nostra comune discendenza
con i primati non può più accadere nulla che desti il no-
stro interesse nel campo della tassonomia animale. Questa
è una delle ragioni per cui la contaminazione cosmica è
per noi più difficile da comprendere che non le contami-
nazioni sociali di cui abbiamo una certa esperienza perso-
nale.
Un’altra difficoltà è rappresentata dalla lunga tradizio-
ne che abbiamo di minimizzare la differenza tra la nostra
posizione favorevole e la posizione delle culture primitive;
si considerano insignificanti le differenze effettive tra
«noi» e «loro», e persino la parola «primitivo» è usata ra-
ramente. Eppure è impossibile fare passi avanti se non si
affronta il problema del perché una cultura primitiva ha
una tendenza verso la contaminazione che la nostra cultu-
ra non ha. Per noi la contaminazione è un problema di
estetica, di igiene o di galateo, che può diventare grave
nella misura in cui può creare imbarazzo in società. Le
sanzioni consistono in sanzioni sociali, disprezzo, ostraci-
smo, pettegolezzi, o forse anche nell’intervento della poli-

129
Nei mondi primitivi

zia. Ma in un altro vasto gruppo di società umane le con-


seguenze della contaminazione hanno una portata molto
più ampia; una contaminazione grave è un’offesa religio-
sa. Da che cosa deriva questa differenza? Non possiamo
evitare il problema, e dobbiamo inoltre cercare di precisa-
re una distinzione obiettiva verificabile tra i due tipi di
cultura, quella primitiva e quella moderna. Forse gli an-
glosassoni hanno un maggior interesse ad accentuare il
senso della comune umanità: hanno l’impressione che vi
sia qualcosa di poco cortese nel termine «primitivo» e
pertanto lo evitano ed evitano parimenti l’intero argomen-
to. Per quale motivo altrimenti Herskovits avrebbe reinti-
tolato la seconda edizione di Primitive Economist come
Economie Anthropology, se i suoi raffinati amici dell’Afri-
ca occidentale non avessero manifestato il loro disappunto
per venir indiscriminatamente inclusi - con questa desi-
gnazione generale - insieme con dei discinti Fueghini e
Aborigeni? Tale atteggiamento è anche in parte dovuto
ad una salutare reazione alla vecchia antropologia: «Forse
niente distingue così nettamente il selvaggio dall’uomo ci-
vile quanto il fatto che il primo osserva i tabù, mentre il
secondo non li osserva» \ Nessuno può essere biasimato
se sussulta davanti a una frase come quella che segue, per
quanto non so chi possa prenderla seriamente:
Noi sappiamo che l’uomo primitivo contemporaneo dispone
di un apparato mentale molto diverso da quello dell’uomo civi-
le. E molto più frammentato, molto più discontinuo, con una
struttura gestaltica molto più libera. Il professor Jung mi disse
una volta come, durante i suoi viaggi nella foresta africana, egli
avesse notato che i bulbi oculari delle sue guide indigene tre-
mavano: non era lo sguardo fermo dell’europeo, ma una conti-
nua mobilità di visione, dovuta forse alla costante aspettativa di
qualche pericolo. Tali movimenti oculari devono essere coordi-
nati con una vigilanza mentale e un tale repentino mutamento
delle immagini che rimane poco spazio per il ragionamento di-
scorsivo, per la contemplazione e per il confronto 2.
Se ciò fosse stato scritto da un professore di psicolo-
gia potrebbe essere significativo, ma non lo è. Ho il so-
spetto che la nostra discrezione professionale nell’evitare

130
Nei mondi primitivi

il termine «primitivo» sia provocata da segreti sentimenti


di superiorità. Gli studiosi di antropologia fìsica hanno un
problema analogo: mentre cercano di sostituire «gruppo
etnico» alla parola «razza» 3, i loro problemi terminologici
non li distolgono tuttavia dal loro compito, che è quello
di distinguere e di classificare le forme delle variazioni
umane. Ma gli antropologi sociali, fintantoché si rifiutano
di riflettere sulle grandi distinzioni esistenti tra le culture
umane, pongono gravi ostacoli al loro stesso lavoro. Per-
ciò vale la pena di chiedersi perché il termine «primitivo»
dovrebbe contenere una qualche accezione denigratoria.
La difficoltà che si deve affrontare in Inghilterra è in
parte dovuta al fatto che Lévy-Bruhl, che per primo solle-
vò tutti i principali problemi a proposito delle culture pri-
mitive e della possibilità di distinguerle come una classe,
ebbe ad esprimersi con accenti deliberatamente critici
contro gli Inglesi del suo tempo, e in particolare contro
Frazer. Per di più Lévy-Bruhl si espose a un veemente
contrattacco: quasi tutti i testi di religione comparata
mettono in evidenza gli errori da lui commessi, e non di-
cono nulla circa il valore del problema da lui indagato 4.
A mio modo di vedere egli non meritava un tale atteggia-
mento.
Lévy-Bruhl era interessato a documentare e a spiegare
uno stile particolare di pensiero. Aveva iniziato col dedi-
carsi ad un problema posto da un paradosso apparente 5.
Da una parte esistevano dei documenti attendibili che
provavano l’alto livello di intelligenza degli Eschimesi o
dei Boscimani (o di altri raccoglitori e cacciatori come lo-
ro, o di agricoltori primitivi o pastori), e dall’altra si ave-
vano notizie di strani salti nel loro ragionamento e nella
loro interpretazione degli eventi, tali da far pensare che il
loro pensiero seguisse un corso molto differente dal no-
stro. Egli insisteva che l’asserita avversione per il ragiona-
mento discorsivo non era dovuta a incapacità intellettuale,
ma a standard di rilevanza altamente selettivi che produ-
cevano in essi «una insopprimibile indifferenza per argo-
menti che non avessero alcuna apparente relazione con
ciò che li riguardava». Il problema stava allora nello sco-

131
N ei mondi primitivi

prire i princìpi di selezione e di associazione che tacevano


sì che la cultura primitiva preferisse una spiegazione in
termini di lontani agenti mistici invisibili e che dimostras-
se una scarsa curiosità per i legami intermedi in una cate-
na di eventi. Talvolta Lévy-Bruhl sembra porre il proble-
ma in termini di psicologia individuale, ma è chiaro che
10 vide in primo luogo come un problema di confronto di
culture, e come un problema psicologico solo nella misu-
ra in cui la psicologia individuale è condizionata dall’am-
biente culturale. Egli si dedicava all’analisi delle «rappre-
sentazioni collettive», cioè dei pregiudizi e delle categorie
standardizzate piuttosto che all’analisi degli atteggiamenti
individuali. E precisamente su questo punto che criticò
Tylor e Frazer, che cercavano di spiegare le credenze pri-
mitive in termini di psicologia individuale, mentre egli,
sulla scorta di Durkheim, vide le rappresentazioni colletti-
ve come fenomeni sociali, come comuni modelli di pen-
siero correlati alle istituzioni sociali. In questo egli aveva
senza dubbio ragione, ma poiché la sua forza sta più nella
imponente documentazione che nell’analisi, non fu poi in
grado di applicare i propri princìpi.
Ciò che Lévy-Bruhl avrebbe dovuto fare, ebbe a dire
Evans-Pritchard, era esaminare le variazioni nella struttu-
ra sociale, e metterle in relazione con le concomitanti va-
riazioni nei modelli di pensiero. Invece egli si accontentò
di dire che tutti i popoli primitivi presentano modelli di
pensiero uniformi se paragonati a noi; si espose inoltre ad
ulteriori critiche allorché - a quanto pareva - rese le cul-
ture primitive ancor più mistiche di quanto non fossero e
11 pensiero dei civilizzati ancor più razionale di quello che
non fosse in realtà6. Sembra che lo stesso Evans-Prit-
chard sia stato la prima persona ad ascoltare con com-
prensione Lévy-Bruhl e ad indirizzare la propria ricerca in
modo tale da portare i problemi di Lévy-Bruhl nel campo
più fecondo che era sfuggito allo studioso. La sua analisi
delle credenze nella stregoneria tra gli Zande è proprio
un tentativo di questo tipo. Eu la prima ricerca che de-
scrisse un particolare ordine di rappresentazioni collettive
e che le mise in relazione in modo intellegibile con le isti-

132
N ei mondi primitivi

tuzioni sociali7. Ora molte altre ricerche hanno seguito


strade parallele a questa, sicché dall’Inghilterra all’Ameri-
ca un vasto corpo di analisi sociologiche delle religioni ha
reso giustizia alle intuizioni di Durkheim. Dico intuizioni
di Durkheim e non di Lévy-Bruhl intenzionalmente: se è
vero che Lévy-Bruhl apportò un originale contributo a
questi studi, è anche vero che molte critiche a lui rivolte
colsero nel giusto. Fu di quest’ultimo l’idea di contrap-
porre la mentalità primitiva al pensiero razionale, per evi-
tare di restare ancorato al problema ispiratogli dal mae-
stro. Se egli si tosse fermato al punto di vista durkheimia-
no del problema non sarebbe stato trascinato nella confu-
sa contrapposizione di pensiero mistico e pensiero scienti-
tico, ma avrebbe paragonato l’organizzazione sociale pri-
mitiva alla complessa organizzazione sociale moderna e
forse avrebbe fatto qualcosa di utile per chiarire la diffe-
renza tra la solidarietà organica e la solidarietà meccanica,
i due tipi di organizzazione sociale che Durkheim aveva
considerato fossero alla base delle varietà delle credenze.
Da Lévy-Bruhl in poi la tendenza generale in Inghil-
terra è stata quella di studiare ogni cultura come un tutto
sui generis, un fenomeno unico e più o meno riuscito di
adattamento ad un particolare ambiente b. Ha molto col-
pito la critica di Lvans-Pritchard, secondo la quale Lévy-
Bruhl aveva considerato le culture primitive come se fos-
sero più uniformi di quanto siano in realtà. Ma è ora di
vitale importanza riprendere questo argomento. Non pos-
siamo comprendere la contaminazione nel campo del sa-
cro se non distinguiamo una classe di culture, nelle quali
fioriscono le idee di contaminazione, da un’altra classe di
culture, comprendenti la nostra, dove esse non esistono.
Gli studiosi del Vecchio Testamento non esitano a ravvi-
vare le loro interpretazioni della cultura ebraica parago-
nandola alle culture primitive. Gli psicoanalisti da Freud
in poi e i metafisici da Cassirer in poi non sono stati da
meno nel tracciare paralleli tra la nostra attuale civiltà ed
altre molto diverse: gli antropologi non possono perciò
evitare questo tipo di distinzioni generali.
Per poter fornire una base corretta a un paragone, bi-

133
N ei mondi primitivi

sogna insistere sull’unità dell’esperienza umana, e nello


stesso tempo sulla sua varietà, cioè sulle differenze che
rendono valido tale paragone. Il solo modo di fare ciò è
riconoscere la natura del progresso storico e la natura del-
la società moderna e primitiva; il progresso significa diffe-
renziazione: così i mezzi primitivi sono indifferenziati,
quelli moderni differenziati. Il progresso tecnologico com-
porta una differenziazione in ogni campo, nelle tecniche e
nei materiali, nei ruoli produttivi e politici.
Noi potremmo in teoria costruire un grossolano gra-
diente lungo il quale collocare i differenti sistemi econo-
mici, secondo il grado di specializzazione delle istituzioni
economiche che hanno prodotto. Nelle economie più in-
differenziate i ruoli non sono attribuiti, all’interno del si-
stema produttivo, in base a considerazioni di mercato, e
pochi sono i lavoratori o gli artigiani specializzati. Un uo-
mo fa il lavoro che fa, come parte di un ruolo che svolge
in quanto, ad esempio, figlio, o fratello, o capofamiglia.
Lo stesso vale per il processo di distribuzione: non essen-
dovi scambio di lavoro, non vi è nessun supermarket. Gli
individui ricevono la loro parte della produzione comuni-
taria in virtù del fatto che ne sono membri, della loro età,
sesso, anzianità, relazione con gli altri. I modelli di status
sono fissati da tradizioni di donazioni obbligatorie nelle
quali vengono convogliati i loro diritti alla ricchezza.
Sfortunatamente per il confronto tra economie, ci so-
no molte società di piccole dimensioni, basate su tecniche
primitive, che non sono organizzate in questo modo, ma
piuttosto secondo princìpi di competizione mercantile 9.
In ogni caso, lo sviluppo della sfera politica si presta in
modo molto soddisfacente al modello che voglio introdur-
re. Non ci sono istituzioni politiche specializzate nelle so-
cietà più piccole. Il progresso storico è segnato dallo svi-
luppo di diverse istituzioni: giuridiche, di polizia militare,
parlamentari e burocratiche; perciò è abbastanza facile
delineare che cosa significherebbe la differenziazione in-
terna per le istituzioni sociali.
Sulla traccia di questo si dovrebbe poter abbozzare lo
stesso processo nella sfera intellettuale; sembra improba-

134
Nei mondi primitivi

bile che le istituzioni debbano diversificarsi e proliferare


senza un movimento analogo nel mondo delle idee: e noi
sappiamo che questo non succede. Un lungo cammino se-
para lo sviluppo storico degli Hadza delle foreste del
Tanganica, che ancora non sanno contare fino a più di
quattro, da quello degli abitanti dell’Africa occidentale,
che per secoli hanno dovuto contare multe e tasse serven-
dosi di migliaia di conchiglie. Quelli di noi che non si so-
no impadroniti delle moderne tecniche di comunicazione,
come il linguaggio della matematica e quello dei calcola-
tori, possono porsi nella categoria degli Hadza, a parago-
ne di chi ha acquisito una certa abilità in questi media.
Conosciamo fin troppo bene il carico di conoscenze che
comporta la nostra società nella forma di compartimenti
specializzati del sapere. Ovviamente, la domanda di cono-
scenze specialistiche e dell’istruzione adatta a procurarle
creano degli ambienti culturali dove possono fiorire certi
tipi di pensiero e non altri. La differenziazione in modelli
di pensiero si verifica parallelamente a condizioni sociali
differenziate.
Sulla base di quanto detto, è necessario affermare
chiaramente che nel mondo delle idee esistono dei sistemi
differenziati di pensiero che si contrappongono a quelli
indifferenziati, e non aggiungere altro. Ma è proprio qui
la trappola. Che cosa potrebbe esserci di più complesso,
differenziato ed elaborato della cosmologia Dogon? o del-
la cosmologia Murinbata australiana? o della cosmologia
dei Samoani o degli Hopi del Pueblo occidentale, in
quanto a questo? Il criterio che andiamo cercando non è
certo dato dal barocchismo o dalla pura complessità delle
idee.
C’è un solo tipo di differenziazione del pensiero che
ha rilevanza e che stabilisce un criterio applicabile tanto a
culture diverse, quanto alla storia delle nostre stesse idee
scientifiche. Un criterio basato sul principio kantiano se-
condo il quale il pensiero può progredire soltanto se si
libera dalle catene delle proprie condizioni soggettive. La
prima rivoluzione copernicana, la scoperta che solo il
punto di vista umano e soggettivo faceva sembrare che il

135
N ei mondi primitivi

sole ruotasse intorno alla terra, si ripete di continuo. Nel-


la nostra cultura la matematica prima, e la logica poi, ora
la storia, ora il linguaggio e ora gli stessi processi del pen-
siero, e finanche la conoscenza di sé e della società, sono
altrettanti campi del sapere via via liberati dai limiti sog-
gettivi della mente. Nella misura in cui la sociologia, l’an-
tropologia e la psicologia sono possibili nel nostro tipo di
cultura, noi dobbiamo distinguere quest’ultima dalle altre
che mancano di tale coscienza di sé e che non si prefiggo-
no tale consapevole ricerca dell’obiettività,
La linea interpretativa usata da Radin per il mito del
Briccone degli Indiani Winnebago serve bene ad illustrare
questo punto. Troviamo qui un’analogia, tratta dal mondo
primitivo, con la tesi di Teilhard de Chardin, per cui il
movimento evolutivo si è diretto verso una complessità ed
una coscienza di sé sempre maggiori.
Questi Indiani vivevano nelle condizioni più semplici
e più indifferenziate dal punto di vista tecnico, economico
e politico. Questo mito è l’espressione delle loro specula-
zioni profonde sull’argomento della differenziazione nel
suo complesso. Il Briccone è all’inizio un essere amorfo,
senza alcuna coscienza di sé. Col procedere della storia
egli scopre a poco a poco la sua identità e gradualmente
riconosce e controlla le sue parti anatomiche: egli oscilla
tra mascolinità e femminilità, ma alla fine stabilisce il suo
ruolo sessuale maschile e impara a determinare il proprio
ambiente per quello che è. Radin dice nella prefazione:

Eppure non cerca mai coscientemente di arrivare a qualche


cosa. Impulsi che non può dominare lo forzano ogni momento
a comportarsi come fa... è trascinato dai suoi desideri e dalle
sue passioni... non ha una forma determinata e nettamente defi-
nibile... prima di tutto (come) una creatura dallo sviluppo in-
completo; è un essere dalle proporzioni indeterminate, una fi-
gura che lascia presentire la forma umana. Nella nostra versione
i suoi intestini sono arrotolati intorno al suo corpo ed egli porta
il pene, altrettanto lungo, arrotolato ugualmente attorno al suo
corpo, con lo scroto in alto 10.

Due esempi delle sue strane avventure illustreranno

136
N ei mondi primitivi

questo motivo. Il Briccone uccide un bufalo e, col coltello


nella mano destra, lo sta scuoiando:

Mentre il Briccone stava scuoiando il bufalo, la mano sini-


stra afferrò l’animale. «Lascia andare», esclamò la mano destra.
«Il bufalo è mio. Fermati se non vuoi che ti ferisca col coltel-
lo». Poi proseguì: «Ti taglierò a pezzi, a pezzi ti farò». Allora la
mano sinistra lasciò la presa. Ma poco dopo si rifece avanti e
afferrò la destra... La cosa si ripetè parecchie volte. Alla fine il
Briccone lasciò che le sue mani si litigassero. Ma la disputa de-
generò ben presto in una lotta furiosa, e la mano sinistra fu
ferita seriamente... 11

In un’altra storia il Briccone tratta il suo ano come se


potesse fungere da agente ed alleato indipendente; aven-
do cacciato delle anatre, prima di addormentarsi lascia il
suo ano a guardia del cibo, ma mentre egli dorme si avvi-
cinano delle volpi:

Ma quando giunsero vicino al fuoco sentirono da qualche


parte esplodere dei gas. Era un rumore che faceva «Puh». «At-
tenzione! Si deve essere svegliato!» E fuggirono. Dopo un po'
una delle volpi disse: «Credo che dorma di nuovo. Era un falso
allarme. Il Briccone gioca sempre di questi tiri». Scivolarono
quindi di nuovo verso il fuoco. Di nuovo ci fu una detonazione
e le volpi fuggirono correndo. Il gioco si ripetè tre volte... 11
rumore delle scoregge si fece sempre più minaccioso: «Puh!
Puh! Puh!» Ma le volpi non fuggirono. Al contrario si misero a
divorare le anatre arrostite... 12.

Quando il Briccone si svegliò e non vide più le anatre:


«E tu, miserabile, che cosa hai fatto? Non ti avevo ordinato
di badare al fuoco? Me la pagherai! Come punizione per la tua
negligenza ti brucerò la bocca, così che non te ne potrai più
servire!» Quindi afferrò un tizzone ardente e bruciò la bocca
dell’ano... e ... gridava: «Ahi, ahi, è troppo! Ecco che mi sono
bruciato» ".

Inizia la storia del Briccone, isolato, amorale e non co-


sciente di sé; goffo, incapace, un pagliaccio animalesco.
Vari episodi trasformano gli organi del suo corpo e li si-

137
Nei mondi primitivi

stemano meglio, in modo da dargli, alla fine, le sembianze


di un uomo. Nello stesso tempo egli incomincia ad avere
una serie di relazioni sociali più salde e ad imparare ad
adattarsi a sue spese all’ambiente fisico. E interessante l’e-
pisodio in cui egli scambia un albero per un uomo e gli
risponde come a una persona, finché alla fine scopre che
si tratta solo di un oggetto inanimato. Così egli apprende
gradualmente le funzioni ed i limiti del suo essere.
Considero questi miti una elegante espressione poetica
del processo che porta dai primi stadi culturali alla civiltà
contemporanea, differenziata in così numerosi aspetti. Il
primo tipo di cultura non è prelogico, come sfortunata-
mente ebbe a definirlo Lévy-Bruhl, ma precopernicano. Il
suo mondo gira intorno all’osservatore, che cerca di inter-
pretare le proprie esperienze. Gradualmente questi distin-
gue se stesso dall’ambiente e percepisce i suoi limiti effet-
tivi ed i suoi poteri. Essenzialmente tutto questo mondo
precopernicano è personale. Il Briccone parla a creature,
cose e parti di cose indiscriminatamente, come se fossero
esseri intelligenti e animati. Questo universo personale è il
tipo di universo descritto da Lévy-Bruhl; è anche la cultu-
ra primitiva di Tylor, la cultura animistica di Marett e il
pensiero mitologico di Cassirer.
Nelle poche pagine che seguono cercherò di dare il
maggior rilievo possibile all’analogia tra culture primitive
e i primi episodi del mito del Briccone. Cercherò di pre-
sentare le caratteristiche aree di non-differenziazione che
sono tipiche della visione primitiva del mondo. Sviluppe-
rò l’ipotesi che la visione primitiva del mondo sia sogget-
tiva e personale, che vi siano mescolati diversi stili di esi-
stenza, e che vi siano sconosciuti i limiti dell’essere uma-
no. E questo il modo in cui Taylor e Frazer consideraro-
no il mondo primitivo e da cui sorse il problema della
mentalità primitiva. Tenterò quindi di dimostrare come
questa interpretazione distorce la verità.
In primo luogo questa visione del mondo è antropo-
centrica, nel senso che la spiegazione degli eventi è celata
nelle nozioni di buona e cattiva sorte, nozioni implicita-
mente soggettive, di riferimento egocentrico. Le forze

138
Nei mondi primitivi

fondamentali in un universo siffatto sono viste come lega-


te così strettamente ai singoli esseri umani che non si può
quasi parlare di un ambiente fisico esterno: ogni indivi-
duo reca dentro di sé legami così stretti con l’universo
che lo si può considerare il centro di un campo di forze
magnetiche. Gli eventi si possono spiegare nei termini del
suo essere ciò che è, e nel suo fare ciò che ha fatto. In un
simile mondo il re della fiaba di Thurber può aver ragio-
ne a lamentarsi che le stelle cadenti vengano scagliate ad-
dosso a lui, e non stupisce che Giona si faccia avanti a
confessare che è lui la causa della tempesta. Il punto foca-
le qui non è se si ritiene che l’attività dell’universo sia di-
retta da esseri spirituali o da poteri impersonali. Ciò non
è molto rilevante: anche quei poteri che sono ritenuti as-
solutamente impersonali si crede che reagiscano diretta-
mente al comportamento degli individui.
Un esempio calzante di credenza nei poteri antropo-
centrici è la fede del Boscimani Kung nel N!ow, una for-
za che viene ritenuta responsabile delle condizioni meteo-
rologiche almeno per la zona Nyae-Nyae del Bechuana-
land. N!ow è una forza impersonale, amorale, sicuramente
una cosa e non una persona. Viene liberata quando un
cacciatore che ha un particolare abbigliamento mimetico
uccide un animale che ha nel proprio mantello l’elemento
corrispondente. Le effettive condizioni meteorologiche
vengono in teoria spiegate dalla complessa interazione dei
diversi cacciatori con differenti animali l4. E un’ipotesi at-
traente e si può pensare che sia soddisfacente sotto l’a-
spetto intellettuale dato che è potenzialmente verificabile
in teoria, anche se non sarebbe assolutamente possibile al-
cun serio controllo.
Per ulteriori esempi dell’universo antropocentrico rife-
risco quanto dice padre Tempels della filosofia Luba: egli
subì delle critiche per aver voluto estendere a tutti i Ban-
tu ciò che tanto autorevolmente affermava - grazie alla
sua profonda conoscenza - circa il pensiero Luba. Ho
tuttavia il sospetto che nelle sue linee generali la sua con-
cezione delle nozioni Bantu sulla forza vitale non siano
valide solo per questo popolo ma abbiano un’applicazione

139
N ei mondi primitivi

molto più vasta: si possono probabilmente estendere a


tutti i tipi di pensiero che sto cercando di contrapporre al
pensiero moderno differenziato delle culture europee e
americane.
Per i Luba l’universo creato è incentrato sull’uomo 15.
Le tre leggi della causalità vitale sono:
1) Che un essere umano (vivo o morto) può diretta-
mente rinforzare o diminuire l’essere (o forza) di un altro
essere umano.
2) Che la forza vitale di un essere umano può diretta-
mente influenzare esseri-forze inferiori (animali, vegetali o
minerali).
3) Che un essere razionale (uno spirito, un essere
umano, vivo o morto) può agire indirettamente su un al-
tro comunicando il suo influsso vitale a una forza inferio-
re intermediaria.
Naturalmente sono numerosissime le forme che può
assumere il concetto di universo antropocentrico. Le idee
che esprimono come gli uomini influiscano sugli altri uo-
mini non possono non riflettere certe realtà politiche.
Perciò, da ultimo, troveremo che queste credenze nel
controllo antropocentrico dell’ambiente variano a seconda
delle tendenze prevalenti nel sistema politico 16. Ma in ge-
nere noi possiamo distinguere delle credenze secondo le
quali gli uomini sono egualmente partecipi dell’universo
da credenze nello speciale potere cosmico di particolari
individui. Certe credenze riguardo il destino sono ritenute
universalmente valide per tutti gli uomini. Nella cultura
della letteratura omerica, agli dèi non stava a cuore solo il
destino di certi individui eccezionali, ma nel loro grembo
stava la sorte di tutti, indistintamente, intrecciata con la
sorte degli altri nel bene e nel male. Tanto per citare un
esempio contemporaneo, l’induismo insegna oggi, come
ha fatto per secoli, che per ogni individuo la precisa con-
giunzione dei pianeti al momento della nascita è molto si-
gnificativa per la sua buona o cattiva sorte personale: per
tutti ci sono degli oroscopi. In entrambi questi casi, per
quanto l’individuo possa venir messo in guardia dagli in-
dovini sul destino che gli è riservato, egli non può mutar-

140
N ei mondi primitivi

lo radicalmente ma solo attutirne un poco i colpi di sven-


tura, procrastinare o abbandonare desideri senza speran-
za, tener d’occhio le possibilità che troverà sul suo cam-
mino.
Altri concetti circa il modo in cui la sorte individuale
è legata al cosmo possono essere meno rigidi. In numero-
se zone dell’Africa occidentale si ritiene che l’individuo
abbia una complessa personalità composta da parti che
agiscono come persone distinte. Una parte della persona-
lità rivela il corso della vita di un individuo prima della
sua nascita: se, dopo la nascita, l’individuo lotta per aver
successo in un campo la cui previsione era sfavorevole, i
suoi sforzi resteranno sempre vani. Un indovino può dia-
gnosticare questo destino predeterminato che è la causa
degli insuccessi e può quindi esorcizzare quella scelta pre-
natale. La natura di questo insuccesso predestinato di cui
un uomo deve tener conto è differente a seconda delle
varie società dell’Africa occidentale. I Tallensi dell’entro-
terra del Ghana pensano che la personalità cosciente sia
mite e non competitiva: se la sua componente inconscia,
che ha predetto il destino prima della nascita, viene dia-
gnosticata come iperaggressiva e competitiva, egli diviene
un deviarne in un sistema di status stabilizzati. Per con-
trasto gli Ijo del delta del Niger, la cui organizzazione so-
ciale è fluida e competitiva, ritengono che la componente
conscia dell’io sia carica di aggressività e amano la com-
petizione e la vittoria. In questo caso è la personalità in-
conscia che può venir predestinata all’insuccesso perché
preferisce l’oscurità e la pace. La divinazione può scoprire
la divergenza di finalità in una persona e il rituale può
risolverla 17.
Questi esempi evidenziano un’altra mancanza di diffe-
renziazione nella visione del mondo personale. Abbiamo
visto precedentemente che l’ambiente fisico non è conce-
pito in termini chiaramente distinti ma solo in riferimento
ai destini delle personalità umane. Ora vediamo che l’io
non è un agente nettamente separato: la portata e i limiti
della sua autonomia non sono definiti; così l’universo è
parte dell’io, in un senso complementare, se partiamo dal

141
N ei mondi primitivi

punto di vista dell’idea che l’individuo ha non della natu-


ra, questa volta, ma di se stesso.
Le idee dei Tallensi e degli Ijo sulle molteplici perso-
nalità in conflitto nell’io sembrano più differenziate che
non il concetto che ne avevano i Greci omerici. Presso
queste culture dell’Africa occidentale è l’individuo stesso
che pronunzia le immodificabili parole del suo destino:
quando egli viene a sapere che cosa ha fatto può anche
ripudiare la sua scelta precedente; mentre nell’antica Gre-
cia l’io era visto come una vittima passiva di agenti ester-
ni:

In Omero colpisce il fatto che i suoi eroi con tutta la loro


splendida vitalità ed attività si sentano sempre non tanto perso-
ne che agiscono liberamente ma strumenti passivi o vittime di
altri poteri... un uomo sentiva che non poteva controllare i pro-
pri sentimenti. Gli veniva un’idea, un sentimento, un impulso:
egli aveva compiuto un’azione e ora se ne compiaceva o se ne
lamentava. Un dio l’aveva ispirato o l’aveva accecato. Aveva fat-
to fortuna, poi era caduto in povertà, forse in schiavitù: una
malattia lo aveva stremato o era morto in battaglia. Tutto ciò
era stato decretato in cielo, la sua parte gli era stata assegnata
molto prima. Il profeta o l’indovino possono scoprirlo in prece-
denza: il brav’uomo non sapeva molto di presagi, e, al solo ve-
dere la sua lancia colpire il bersaglio o il nemico prendere il
sopravvento, concludeva che Zeus aveva riservato la sconfitta a
sé e ai suoi compagni. Non rimaneva a combattere ancora ma
fuggiva 1&.

Anche i Dinka, popolo di pastori del Sudan, conside-


rano, a quanto pare, l'io come una fonte indipendente di
azione e di reazione. Non riflettono sul fatto che essi stes-
si reagiscono con sensi di colpa e di angoscia e che questi
sentimenti scatenano altri stati d’animo: l’io agirebbe
spinto da emozioni che essi ascrivono a poteri esterni, es-
seri spirituali che provocano sventure di vario tipo. Per-
tanto, nel tentativo di rendere ragione della complessa
realtà che nasce dall’interazione dell’io con se stesso, l’u-
niverso Dinka è popolato di estensioni personali pericolo-
Nei mondi primitivi

se per l’io. È così pressappoco che Jung descrisse la visio-


ne primitiva del mondo quando affermò:
Una quantità illimitata di ciò che ora noi consideriamo par-
te integrante del nostro essere psichico si scioglie tranquilla-
mente, per il primitivo, in proiezioni che si estendono per un
raggio estremamente vasto 19.
Vorrei citare ancora un esempio di un mondo nel
quale tutti gli individui sono concepiti come se fossero
personalmente legati al cosmo, per dimostrare quanto
possano essere vari tali legami. Nella cultura cinese è di
primaria importanza il concetto dell’armonia universale.
Se un individuo riesce a trovarsi in un rapporto il più ar-
monioso possibile con l’universo, allora può sperare nella
buona sorte; mentre una disgrazia può essere attribuita
semplicemente alla mancanza di una felice condizione del
genere. L ’influenza dell’acqua e dell’aria, chiamata Fèng
Shui, gli porterà bene se la sua casa e le tombe degli an-
tenati si trovano in un buon posto. In caso contrario i
geomanti di professione possono divinare le ragioni della
sua malasorte in modo che egli possa dare una miglior
sistemazione alla sua casa o una miglior sepoltura ai suoi
morti, per un effetto più favorevole. Freedman ribadisce
nel suo libro 20 che la geomanzia ha un ruolo di grande
importanza nelle credenze dei Cinesi, accanto al culto de-
gli antenati: la fortuna che uno può manipolare con que-
ste arti geomantiche non ha implicazioni morali, ma deve
alla fine essere riportata nei termini del riconoscimento di
merito che, nell’ambito dello stesso ordine di credenze, è
distribuito dal cielo. Infine poi l’intero universo è inter-
pretato come legato, nel suo funzionamento particolare,
alle vite delle persone. Certi individui hanno più successo
di altri nel rapporto con Fèng Shui, proprio come a certi
Greci è stato assegnato un destino più glorioso e in Africa
occidentale ad alcuni viene ascritto un destino di successo
più che non ad altri.
Ci sono talvolta solo degli speciali individui che sono
importanti, e non tutti. Pochi seguono le orme di questi
individui segnati, sia nella buona che nella cattiva sorte.

143
Nei mondi primitivi

Per l’uomo comune che non ha nessuna dote del genere


sussiste il problema pratico di studiare gli altri e di sco-
prire quali di essi è meglio seguire e quali invece evitare.
In tutti i sistemi cosmologici finora menzionati si cre-
de che la sorte degli individui possa essere modificata da
poteri che essi stessi o altri uomini possiedono. Il cosmo
è imperniato, per così dire, sull’uomo; la sua energia di
trasformazione è connessa con le vite individuali in mo-
do tale che nulla accade nell’ambito delle tempeste, delle
malattie, delle pestilenze e delle siccità se non in virtù di
questi legami personali. Così l’universo è antropocentrico
nel senso che dev’essere interpretato in riferimento agli
uomini.
Ma c’è un senso affatto diverso nel quale la visione
del mondo primitiva e indifferenziata può essere descritta
come personale. Essenzialmente le persone non sono co-
se: hanno volontà e intelligenza; con la volontà amano,
odiano e provano reazioni emotive; con l’intelligenza in-
terpretano i segni. Ma nel tipo di universo che vado con-
trapponendo alla nostra visione del mondo, gli oggetti
non sono chiaramente distinti dalle persone. Le relazioni
tra persona e persona sono caratterizzate da certi tipi di
comportamento. In primo luogo le persone comunicano
tra loro attraverso dei simboli, nel discorso, nel gesto, nel
rito, nel dono ecc. In secondo luogo reagiscono a situa-
zioni morali: per quanto impersonale possa essere la defi-
nizione che si dà delle potenze cosmiche, quando sembra
che esse rispondano ad un appello simile a quello inter-
personale, la loro qualità di cose non è del tutto differen-
ziata dalla loro personalità. Potrebbero non essere perso-
ne ma non sono neppure del tutto cose.
A questo punto bisogna fare attenzione a non cadere
in trappola. Un certo modo di parlare delle cose può dare
all’osservatore poco accorto l’impressione che si alluda a
una persona. Nulla si può necessariamente inferire a pro-
posito delle credenze, partendo da mere distinzioni - o
confusioni - linguistiche. Per esempio un antropologo
proveniente da Marte potrebbe trarre delle conclusioni
errate se udisse un idraulico inglese chiedere al collega

144

nTTTTTTTTTTT ITOTI
Nei mondi primitivi

della parte maschile o femminile di una spina. Per non


cadere in trappole linguistiche intendo circoscrivere i miei
interessi a quel tipo di comportamento che si ritiene pro-
duca una reazione da parte delle forze impersonali impli-
cate.
Può non essere per nulla importante per la nostra di-
scussione il fatto che i Boscimani Nyae-Nyae attribuiscano
alle nuvole caratteristiche maschili e femminili: non certo
più di quanto sia importante che i Pigmei della foresta
Ituri dicano, quando capita una sventura, che la foresta è
di malumore e si diano la pena di cantare tutta la notte
per lei, per rallegrarla, con la speranza che le loro faccen-
de si rimettano al meglio 21. In questo senso nessun mec-
canico europeo spererebbe di aggiustare un guasto al mo-
tore con delle serenate o con le maledizioni.
Ecco dunque un altro modo in cui l’universo primiti-
vo indifferenziato è personale: ci si attende che si com-
porti come se fosse intelligente, sensibile a segni, simboli,
gesti, doni, e come se potesse discernere tra i rapporti so-
ciali.
L ’esempio più evidente di poteri impersonali ritenuti
responsabili di comunicazione simbolica è la credenza
nella stregoneria. Lo stregone è il mago che tenta di tra-
sformare il corso degli eventi attraverso un’azione simbo-
lica; nelle sue formule e incantesimi egli può usare gesti o
semplici parole. Ora, le parole sono un mezzo adatto per
comunicare tra persone: se è valido il concetto che parole
correttamente pronunciate sono essenziali all’efficacia di
un’azione, allora, benché la cosa a cui ci si rivolge non
possa rispondere, si può anche credere in un tipo limitato
di comunicazione verbale unidirezionale. Questa credenza
afferma allora l’evidente condizione di oggetto della cosa
cui ci si appella. Ne possiamo trovare un valido esempio
nello Zandeland, dove si usa il veleno per smascherare gli
jettatori per mezzo dell’oracolo 22. Gli stessi Zande ricava-
no il veleno da certe cortecce, e non ne parlano come di
una persona, ma come di una cosa. Non credono che vi
sia dentro un omuncolo che esegue l’oracolo: eppure per-
ché l’oracolo abbia efficacia bisogna chiamarlo a gran vo-

145
N ei mondi primitivi

ce e bisogna che il richiamo si riferisca senza possibilità


di errore al fatto in questione e, per eliminare un errore
di interpretazione, la stessa domanda deve essere invertita
in una seconda fase di consultazioni. In questo caso il ve-
leno non solo ode e comprende le parole, ma ha una cer-
ta possibilità di risposta: può uccidere il pollo o non ucci-
derlo, può rispondere sì o no, dunque. Non può iniziare
una conversazione o condurre un dialogo diretto, eppure
questa limitata risposta all’interrogazione modifica radical-
mente la sua condizione di cosa nell’universo degli Zande.
Non è un veleno comune, ma è piuttosto come un inter-
vistato costretto a riempire un questionario con segni e
croci.
Il ramo d’oro è pieno di esempi di credenze in un uni-
verso impersonale che, ciononostante, ascolta e risponde
alle parole che gli vengono rivolte, in un modo o in un
altro; stando almeno a quanto riferiscono i resoconti delle
moderne ricerche sul campo. Dice Stanner:
L’imponente apparato della terra e del firmamento è conce-
pito per lo più dagli aborigeni come un grande sistema di se-
gni. Qualunque persona dotata di una certa sensibilità che si sia
recata nella foresta australiana in compagnia di aborigeni acqui-
sta coscienza di questo fatto. Essa non si muove in un paesag-
gio ma in un regno umanizzato carico di significati23.
Alcune credenze infine comportano il fatto che l'uni-
verso impersonale abbia discernimento: esso può com-
prendere le sottili sfumature delle relazioni sociali, come
per esempio se tra i partner di un rapporto sessuale vi sia
un grado di parentela non lecito, o può anche compren-
dere delle sfumature più raffinate - se è stato commesso
un omicidio contro un membro della tribù o contro uno
straniero, o se una donna è maritata o non lo è. Può an-
che comprendere dei sentimenti segreti celati nel cuore
degli uomini. Si danno molti esempi di discernimento im-
plicito di certe condizioni sociali. I cacciatori Chevenne
credevano che i bufali che fornivano loro i principali
mezzi di sussistenza fossero turbati dall’odore nauseabon-
do proveniente da un uomo che aveva ucciso uno della

146
Nei mondi -primitivi

tribù e perciò si spostavano altrove mettendo seriamente


in pericolo la possibilità di sopravvivenza della loro gente.
Non pensavano però che i bufali reagissero all’odore del-
l’assassinio di uno straniero. Gli aborigeni australiani di
Arnhemland concludono le cerimonie di fertilità e di ini-
ziazione con la copulazione cerimoniale, credendo che il
rito abbia più efficacia qualora si verifichi un rapporto
sessuale tra persone tra le quali di norma questo è severa-
mente vietato 24. I Lele credono che un indovino che ha
avuto un rapporto sessuale con la moglie del suo pazien-
te, o la cui moglie ha avuto rapporti amorosi con un pa-
ziente di lui, non può guarire il malato, perché la medici-
na datagli per guarirlo lo ucciderebbe; questo indipen-
dentemente dalle intenzioni o dalla conoscenza del dotto-
re. I Lele pensano che sia la stessa medicina a reagire con
questo atteggiamento discriminante; per di più credono
che se viene somministrata una cura ed il paziente non
ripaga immediatamente il suo guaritore per il servizio re-
sogli, avrà una pronta ricaduta o anche una complicazio-
ne più letale della malattia stessa. Così i Lele ascrivono
alla loro medicina la capacità di accorgersi di un debito, o
di un segreto adulterio. Ancor più intelligente è la vendet-
ta per magia attuata dall’Azande che scopre senza possibi-
lità di errore lo jettatore responsabile di una certa morte,
e lo punisce togliendogli la vita. E così che a certi ele-
menti impersonali dell’universo è attribuita una capacità
di discernimento che consente loro di intervenire nelle
faccende degli uomini e mantenere il loro codice morale.
In questo senso l’universo è apparentemente capace di
giudicare il valore morale delle relazioni umane e di agire
in conformità. Malweza, tra i Tonga dell’altopiano della
Rhodesia settentrionale, è la malasorte che affligge chi
commette certi particolari delitti contro il codice morale.
Questi delitti sono di norma di un genere tale che le san-
zioni punitive normali non si possono applicare contro di
essi. Per esempio, un omicidio commesso all’interno di un
gruppo di parentela matrilineare non può essere vendica-
to perchè il gruppo è organizzato in modo tale che l’as-
sassinio dei suoi membri può essere vendicato solo se è

147
Nei mondi primitivi

stato compiuto da individui esterni al gruppo 25. Malweza


punisce le offese che non sono perseguibili dalle sanzioni
ordinarie.
Riassumendo, una visione primitiva del mondo si af-
faccia su un tipo di universo che è personale in molti sen-
si. Si crede che le forze fisiche siano intrecciate alle vite
delle persone. Le cose non sono completamente distinte
dalle persone e le persone non sono del tutto distinte dal
loro ambiente esterno. L ’universo risponde alle espressio-
ni verbali o mimiche, sa discernere l’ordine sociale e in-
terviene per mantenerlo.
Ho cercato di fare del mio meglio per trarre dalla let-
teratura sulle culture primitive un elenco di credenze che
comportano una mancanza di differenziazione; tutto il
mio materiale deriva dal più recente lavoro di ricerca sul
campo. Eppure il quadro generale rispecchia molto fedel-
mente quello che anche Tylor o Marett hanno tratteggiato
nelle loro discussioni relative all’animismo primitivo. E
questo il tipo di credenze per cui Frazer pensò che la
mente primitiva confondesse le esperienze oggettive con
quelle soggettive. Sono le stesse credenze che ispirarono
Lévy-Bruhl a riflettere sul modo in cui le rappresentazioni
collettive impongono un principio selettivo all’interpreta-
zione: l’intera discussione su tali credenze è stata sempre
inquinata da oscure implicazioni psicologiche.
Se queste credenze vengono presentate come il risulta-
to di altrettante incapacità di discriminare correttamente,
esse ricordano, in modo sorprendente, i goffi tentativi dei
bambini di padroneggiare l’ambiente che li circonda. Sia
che seguiamo la Klein o Piaget il motivo è lo stesso: con-
fusione di interno ed esterno, di cosa e di persona, di sé e
di ambiente, di segno e strumento, di parola ed azione.
Confusioni del genere possono essere stadi necessari e
universali nel passaggio dell’individuo dall’esperienza cao-
tica ed indifferenziata dell’infanzia alla maturità intellet-
tuale e morale.
È importante perciò evidenziare nuovamente, come si
è detto più volte in precedenza, che queste connessioni
tra persone ed eventi che caratterizzano la cultura primiti-

148
Nei mondi primitivi

va non derivano da insufficiente differenziazione; non si


può neppure dire che esse esprimano necessariamente il
pensiero degli individui: è sicuramente possibile che gli
individui appartenenti a questa cultura abbiano delle opi-
nioni molto divergenti riguardo alla cosmologia. Vansina
ricorda con simpatia tre pensatori estremamente indipen-
denti da lui incontrati presso i Bushong e a cui piacque
esporgli le loro filosofie personali. Un vecchio era giunto
alla conclusione che la realtà non esisteva, e che tutta l’e-
sperienza non era che una mutevole illusione. Il secondo
aveva elaborato un tipo di metafisica numerologica ed il
terzo aveva sviluppato un modello cosmologico di tale
complessità che nessuno tranne lui riusciva a capirlo 26. E
fuorviarne pensare a idee quali il destino, il sortilegio, il
maria, la magia, come a parti di filosofie o come a concet-
ti sistematicamente definiti. Esse non sono proprio legate
ad istituzioni, come vorrebbe Evans-Pritchard, ma sono
istituzioni, un po’ come YHabeas Corpus e Halloiue’en 21;
sono tutte composte in parte da credenze e in parte da
pratiche e non sarebbero state registrate dagli etnografi se
non fossero collegate con delle pratiche. Al pari di altre
istituzioni esse sono da un lato resistenti al mutamento, e
dall’altro sono sensibili a forti pressioni: trascurandole o
conservando per loro un interesse, gli individui possono
modificarle.
Se non dimentichiamo che ciò che ha prodotto queste
credenze è un interesse pratico per la vita e non un inte-
resse accademico nella metafisica, ci accorgiamo che il lo-
ro significato complessivo cambia. Chiedere a uno Zande
se l’oracolo del veleno è una persona o una cosa è come
fargli una domanda senza senso che egli non farebbe mai
a se stesso... Il fatto che egli si rivolga oralmente all’ora-
colo del veleno non implica nessun tipo di confusione
nella sua mente tra le cose e le persone: ciò significa sola-
mente che egli non si preoccupa della coerenza intellet-
tuale, e che in questo campo gli pare appropriata un’azio-
ne simbolica. Egli può esprimere la situazione, come la
vede, attraverso la parola e la rappresentazione mimica e
questi elementi rituali sono stati incorporati in una tecni-

149
Nei mondi primitivi

ca che, per molti versi e scopi, è simile all’elaborazione di


un problema tramite computer. Io penso che questo argo-
mento sia stato in parte affrontato da Radin 28, oltre che
da Gellner 29, quando si riferisce alla funzione sociale del-
le incongruenze nelle dottrine e nei concetti.
Robertson Smith fu il primo a incentrare i propri inte-
ressi sulle credenze in quanto tali e non più sulle pratiche
connesse, e da allora si sono accumulate molte altre testi-
monianze sui limiti strettamente pratici posti alla curiosità
degli individui. Ma non si tratta di una peculiarità della
cultura primitiva: è vero per «noi», come è vero per «lo-
ro», nella misura in cui «noi» non siamo dei filosofi di
professione: come uomini d’affari, contadini, casalinghe,
nessuno di noi ha il tempo o la disponibilità per elaborare
un sistema metafisico. La nostra visione del mondo si è
formata pezzo per pezzo, in risposta a particolari proble-
mi pratici.
Nel discutere le idee zande a proposito del maleficio,
Evans-Pritchard evidenzia questa concentrazione di curio-
sità sulla peculiarità di un evento individuale. Se un gra-
naio vecchio e cadente crolla e uccide uno che stava se-
duto alla sua ombra, l’evento è attribuito a un maleficio.
Gli Zande non hanno difficoltà ad ammettere che è nella
natura dei granai vecchi e cadenti il fatto di rovinare, e
ammettono che se una persona siede per diverse ore alla
sua ombra, per diversi giorni, è probabile che rimanga
schiacciata dal suo crollo. La regola generale è ovvia e
non costituisce un interessante campo speculativo. La
questione più interessante per loro è il fatto che emerga
un evento unico dal punto d’incontro di due sequenze di-
stinte. Per parecchio tempo nessuno era seduto sotto il
granaio e allora esso sarebbe potuto cadere senza fare al-
cun danno e senza uccidere nessuno; per molto tempo vi
erano sedute nelle vicinanze molte persone che avrebbero
potuto perire nel crollo del granaio, ma che per caso non
erano là. Il problema affascinante sta nel perché sia dovu-
to cadere proprio quando cadde, proprio quando tutto
avvenne come avvenne e quando nessun altro era seduto
colà. Le regolarità generali della natura vengono osservate

150
Net mondi primitivi

abbastanza accuratamente e sottilmente per le risorse tec-


niche della cultura zande, ma quando non basta l’infor-
mazione tecnica vi supplisce la curiosità, indagando nel
coinvolgimento di una persona particolare con l’universo:
perché è dovuto capitare a lui? che cosa può fare per op-
porsi alla sventura? è colpa di qualcuno? Questo si verifi-
ca naturalmente nel caso di una visione teistica del mon-
do, poiché con la stregoneria si può rispondere solo a
certe domande rifacendosi agli spiriti. La regolare succes-
sione delle stagioni, il rapporto tra nuvole e pioggia, tra
pioggia e raccolto, tra siccità ed epidemie, e così via, sono
riconosciuti; non vengono messi in dubbio e sono accetta-
ti come lo sfondo su cui possono essere risolti problemi
più personali e pressanti. Le questioni vitali in ogni visio-
ne del mondo teistica sono le stesse che per gli Zande:
perché il raccolto è andato male per questo contadino e
non per il suo vicino? perché proprio quest’uomo è stato
trafitto dal bufalo e non un altro dei suoi compagni di
caccia? perché a quest’uomo sono morti i bambini o le
vacche? perché proprio me? perché oggi? che cosa si può
fare per questo? Queste insistenti domande di spiegazione
sono incentrate sull’interesse che l’individuo ha per sé e
per la comunità. Ora noi sappiamo ciò che Durkheim sa-
peva, e che Frazer, Tylor e Marett ignoravano: queste do-
mande non sono poste soprattutto per soddisfare la curio-
sità dell’uomo sulle stagioni e sul resto del suo ambiente
naturale; esse sono formulate per soddisfare un prevalente
interesse sociale: il problema cioè di come organizzarsi in-
sieme nella società. Si può rispondere, è vero, a queste
domande nei termini del posto dell’uomo nella natura,
ma la metafisica è un sottoprodotto, per così dire, degli
interessi pratici urgenti. L ’antropologo che ricava l’intero
disegno dell’universo implicito in queste pratiche fa una
grande violenza alla cultura primitiva se presenta la co-
smologia come un sistema filosofico accettato consapevol-
mente dagli individui. Noi possiamo studiare la nostra co-
smologia come un settore specifico dell’astrologia, ma non
possiamo mettere le cosmologie primitive sotto una cam-
pana di vetro per esibirle, come farfalle esotiche, senza

151
Nei mondi primitivi

deformare la natura di una cultura primitiva. In una cul-


tura primitiva i problemi tecnici sono stati più o meno
stabili per le generazioni passate, ma attualmente il pro-
blema vitale è come organizzare le altre persone e se stes-
si in rapporto a loro: come controllare la gioventù turbo-
lenta, come mitigare il rancore dei vicini, come conqui-
starsi i propri diritti, come impedire l’usurpazione dell’au-
torità, o come giustificarla. Ogni genere di credenze nella
onniscienza e onnipotenza dell’ambiente è chiamato in
causa per ottenere questi pratici scopi sociali. Se la vita
sociale di una particolare comunità si è stabilizzata in una
forma costante, i problemi sociali tendono ad accadere
nella stessa area di tensione o di conflitto. Così, in quanto
parte dell'apparato finalizzato a risolverli, tali credenze
sulla punizione automatica, sul destino, sulle vendette at-
tuate dai fantasmi e sul malefìcio, si cristallizzano in isti-
tuzioni. Pertanto la visione del mondo primitiva, che ho
sopra definito, è raramente essa stessa oggetto di contem-
plazione e di speculazione nella cultura primitiva, ma si è
evoluta ad appannaggio di altre istituzioni sociali. In que-
sta misura è prodotta indirettamente, e in questa misura
la cultura primitiva deve essere ritenuta non cosciente di
sé; incosciente delle sue stesse condizioni.
Nel corso dell’evoluzione sociale le istituzioni prolife-
rano e si specializzano. Vi è un movimento duplice, per
cui un aumento del controllo sociale rende possibile un
maggiore sviluppo tecnico e, d’altro canto, apre la strada
parallelamente a un aumento del controllo sociale. Alla fi-
ne arriviamo al mondo moderno nel quale l’indipendenza
economica è giunta al più elevato grado finora mai rag-
giunto dal genere umano. Una conseguenza inevitabile
della differenziazione sociale è la coscienza sociale, l’auto-
coscienza circa i processi della vita comunitaria. E, insie-
me alla differenziazione, si verificano forme speciali di co-
strizione sociale, speciali incentivi monetari a conformarsi,
particolari tipi di sanzioni punitive, polizie e sorveglianti
speciali, cronometristi che scandiscono le nostre esecuzio-
ni, e così via. Un intero armamentario di controllo sociale

152
Nei mondi primitivi

che non sarebbe mai concepibile nel contesto di condizio-


ni economiche indifferenziate e su scala ridotta. Questa è
l’esperienza di solidarietà organica che ci rende così diffi-
cile interpretare gli sforzi degli uomini delle società primi-
tive per ovviare alle debolezze della loro organizzazione
sociale. Senza moduli da riempire in triplice copia, senza
permessi e passaporti e radiomobili della polizia, essi deb-
bono in qualche modo creare una società e affidare uomi-
ni e donne alle sue norme. Spero di aver dimostrato ora
perché Lévy-Bruhl si ingannò a paragonare un tipo di
pensiero con un altro invece che mettere tra loro a con-
fronto le istituzioni sociali.
Possiamo anche comprendere perché i credenti nella
fede cristiana, mussulmana ed ebraica non devono essere
classificati primitivi sulla base delle loro credenze; e nep-
pure lo devono essere gli induisti, i buddisti o i mormoni.
È vero che i loro credo di fede sono stati sviluppati per
rispondere alle domande «Perché ciò è accaduto proprio
a me? perché ora?» e quanto segue; è vero che il loro
universo è antropocentrico e personale, ma forse potrà
parere un’anomalia per il mondo moderno il porre a tutte
queste religioni delle questioni metafisiche; infatti i non
credenti non si curano probabilmente di questi problemi;
ma ciò non significa che coloro che credono siano delle
isole di cultura primitiva emergenti, per qualche strana ra-
gione, fuori dal mondo moderno. Le loro credenze sono
state formulate e riformulate nel corso dei secoli e si è
ormai sciolto lo stretto legame di interconnessione con la
vita sociale. Un esempio di tutto questo movimento dal
primitivo al moderno è la storia della Chiesa europea che
si è ritratta dalla politica e dai problemi intellettuali seco-
lari per confinarsi alla specifica sfera religiosa.
Per finire dovremmo riproporre la domanda se si deb-
ba o meno abbandonare la parola «primitivo»; spero di
no: nel campo artistico la parola ha un significato preciso
e di tutto rispetto e potrebbe acquisirne uno valido anche
nel campo della tecnologia ed eventualmente in quello
dell’economia. Che cosa si può obiettare all’affermazione

153
Nei mondi primitivi

che una cultura primitiva è caratterizzata da una visione


del mondo personale, antropocentrica, indifferenziata?
L ’unica possibile obiezione è che il termine ha un senso
peggiorativo se ci si riferisce alle credenze religiose, ma
non lo ha se ci si riferisce alla tecnologia e all’arte. In
questo ci può essere forse qualcosa che interessa un certo
settore del mondo anglofono.
L ’idea di economia primitiva è un po’ romantica. E
vero che dal punto di vista materiale e tecnico noi siamo
incomparabilmente meglio attrezzati, ma non si può stabi-
lire una distinzione culturale su basi puramente materiali-
stiche - prescindiamo in questa sede dal problema della
povertà e della ricchezza relative. Ma il concetto di eco-
nomia primitiva è che essa fornisce merci e servizi senza
l’intervento del denaro. Perciò il vantaggio che i primitivi
hanno su di noi è che essi affrontano direttamente la real-
tà economica, mentre noi siamo sempre deviati dalla no-
stra condotta dal complicato, imprevedibile e indipenden-
te comportamento del denaro. Ciò tuttavia si volge a no-
stro vantaggio, a quanto pare, nella sfera dell’economia
spirituale. 1 loro rapporti con l’ambiente esterno sono in-
fatti mediati da demoni e fantasmi che si comportano in
modo complicato e imprevedibile, mentre noi ci incon-
triamo col nostro ambiente in modo più semplice e diret-
to. Quest’ultimo vantaggio lo dobbiamo alla ricchezza e al
progresso materiale che hanno reso possibile il verificarsi
di altri tipi di evoluzione. Perciò in quanto a questo il
primitivo è svantaggiato, in ultima analisi, sia nel campo
spirituale che in quello economico. Chi si accorge di que-
sta duplice superiorità è naturalmente inibito dall’osten-
tarla ed ecco perché probabilmente preferisce non distin-
guere affatto una cultura primitiva.
Sembra che nel continente non siano così schizzinosi.
Le primiti! è celebrato nelle pagine di Lienhardt, di Lévi-
Strauss, di Ricoeur e di Eliade: la sola conclusione che mi
è lecito trarre è che essi non siano intimamente persuasi
della loro superiorità, e che siano grandi ammiratori delle
forme di cultura diverse dalle loro.

154
Nei mondi primitivi

Note

1 H.J. Rose, Primitive Culture in 1/aly, London, 1962, p. 111.


2 H.E. Read, Icori and Idea: The Function of A rt in thè Develop-
ment ot Human Consciousness, London, 1955.
3 Cfr. «Current Anthropology», 1964.
4 Per es, cfr. F.C. Bartlett, Psychology and Primitive Culture,
Cambridge, 1923. pp. 283-84; e P. Raditi, The Trickster: A Study in
American Indiati Mythology, London, 1956; trad. ìt. Il briccone divino,
Milano, 1965, pp. 230-31.
5 L. Lévy-Brubl, La mentalità primitive. Paris, 1922; trad. it. La
mentalità primitiva, Torino, 19814.
6 E.E. Evans-Pritchard, Lévy-Bruhl’s Theory o f Primitive Mentali-
ty, in «Bulletin of thè Faculty of Arts», Cairo, II (19341.
I E.E. Evans-Pritchard, Witchcraft, Oracles and Magic among thè
Azande, cit.
8 Cfr. J. Beattie, Bunyoro: A h African Kingdom, New York 1960,
p. 83; trad. it. Un reame africano: Bunyoro e le difficoltà per compren-
derlo, Roma, 1974; e, dello stesso autore, Other Cultures, New York,
1964; trad. it. Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sonale,
Bari, 1972, p. 376.
9 Cfr. L. Pospisil, Kapuak.u Papuan Economy, in «Yale University
Publications in Anthropology», LXVII (1963).
10 P. Raditi, Il briccone divino, trad. it. cit., p. 26.
II Ibidem, p. 37.
12 Ibidem, p. 50.
13 ìbidem, p. 51.
14 L. Marshall, Nfoiv, cit.
15 P. Tempels, La philosophie bantoue, Présence Africaine, Paris,
1945.
16 Vedi capitolo VI.
17 M. Fortes, Oedipus and job in West African Religion, Cambrid-
ge, 1959; trad. it. lidipo e Giobbe in una religione dell’A frica Occiden-
tale, in C. Leslie, Uomo e mito nelle società primitive, Firenze, 1965; e
R. Horton, Destiny and thè Unconscious in West Africa, in «Africa»,
X X X I (1961), pp. 110-16.
J8 R.B. Onians, Origins of European Thought about thè Body, thè
Mind, etc., Cambridge, 1951, p. 302.
19 C.G. Jung, The Integration of Personalità, London, 1940, p. 74.
20 M. Freedman, Chinese Lineage and Society: Fukien and Kwang-
tung, London, 1966.
21 C. Turnbull, The Foresi People, London, 1961.

155
N ei mondi primitivi

22 E.E. Evans-Pritchard, Witchcraft, Oracles and Magic among thè


Azande, cit.
23 W.E.H. Stanner, Religion, Totemism and Symbolism, in Abori-
ginal Man in Australia, a cura di R.M. e C.H. Berndt, London, 1965.
24 R. Berndt, Kunapipi: A Study o f un Australiani Aboriginal Reli-
gious Cult, Melbourne, 1951, p. 49.
23 E. Colson, The Plateau Tonga o f Northern Rhodesia: Social and
Religious Studies, Manchester, 1962, p. 107.
26 J. Vansina, Le Royaume Ruba, in «Annales - Sciences humai-
nes», Musée Royale de PÀfrique Centrale, X LIX (1964).
27 Hallowe’en è una ricorrenza nordamericana di origine scozzese
che cade la vigilia di Ognissanti | N.d.T. ].
28 P. Radin, Primitive Man as a Philosopher, New York, 1927.
29 F„ Gellner, Concepts and Society, in Transactions of thè Fifth
World Congress ofSociology, 1962, voi. I.

156
Capitolo sesto

Pericoli e poteri

i Ammesso che il disordine rovini il modello, esso for-


nisce anche del materiale al modello. L ’ordine implica re-
strizione; infatti da tutti i materiali possibili è stata fatta
una selezione limitata ed è stata usata una serie limitata
tra tutte le possibili relazioni. Così, per definizione, il di-
sordine è illimitato: nel disordine non vi è alcun modello,
ma un infinito potere di crearne. Ecco perché, benché si
cerchi di creare ordine, non si riesce a condannare il di-
sordine: e si riconosce che è distruttivo per i modelli esi-
stenti, ma anche che ha delle potenzialità. Esso simboleg-
gia sia il pericolo che il potere^
Il rituale riconosce la potenza del disordine. Nel di-
sordine della mente, nei sogni, nel delirio e nella frenesia
i rituali sperano di trovare poteri e verità che non si pos-
sono raggiungere con sforzi coscienti. L ’energia del co-
mando e particolari facoltà di guarigione arridono a colo-
ro che possono abbandonare temporaneamente il control-
lo razionale. Avviene talvolta che un abitante delle isole
Andamane abbandoni il suo gruppo e vaghi nella foresta
come un folle. Quando ritorna in sé e alla società umana,
egli ha conquistato l’occulto potere di guarire '. Questa è
una nozione assai comune che trova ampie conferme.
Webster ce ne fornisce numerosi esempi nel suo Magic: A
Sociological Study 2. Voglio inoltre ricordare gli Ehanzu,
una tribù della Tanzania centrale, fra i quali uno dei mo-
di più comuni per raggiungere la capacità divinatoria è
quello di andare nella foresta e di perdervi la ragione.
Virginia Adam, che svolse una ricerca presso questa tribù,
mi riferisce che il loro ciclo rituale si conclude con l’an-
nuale cerimonia della pioggia. Se per il periodo previsto
la pioggia non arriva, allora la gente sospetta che si tratti
di stregoneria: per annullare gli effetti del maleficio essi

157
Pericoli e poteri

prendono un idiota e lo mandano a vagare nella foresta.


Nel corso delle sue peregrinazioni egli distrugge, senza
rendersene conto, l’opera dello stregone.
In queste credenze vi è una doppia azione su ciò che
non è differenziato. In primo luogo c’è l’avventura nelle
regioni disordinate della mente, quindi vi è l’avventura ol-
tre i confini della società. L ’uomo che torna indietro da
queste inaccessibili regioni porta con sé un potere non ac-
cessibile a coloro che sono rimasti nel controllo di se stes-
si e della società.
Questa azione rituale di forme differenziate e non dif-
ferenziate è essenziale per comprendere la contaminazio-
ne. Nel rituale la forma viene considerata come se avesse
una grande capacità di continuare a esistere, anche se
continuamente esposta agli attacchi. Anche a ciò che è
privo di forma sono attribuiti dei poteri: alcuni buoni, al-
tri pericolosi. Abbiamo visto come gli abomini del Leviti-
lo costituiscano gli elementi oscuri e inclassificabili che
non rientrano nel modello del cosmo: sono incompatibili
con la santità e la benedizione. Il gioco dell’informale e
del formale è ancora più evidente nei rituali relativi alla
società.
Consideriamo dapprima le credenze riguardanti le
persone che vivono in una condizione marginale; sono co-
loro che vengono in un certo qual modo lasciati fuori dal
modello della società: sono persone senza un posto. Esse
forse non fanno niente di male dal punto di vista morale,
ma la loro condizione è indefinibile, come ad esempio un
bambino non ancora nato. La sua posizione è ambigua, e
tale è il suo futuro. Infatti nessuno può dire di che sesso
sarà, o se soprawiverà ai rischi dell’infanzia. Spesso lo si
considera come un essere vulnerabile e, al tempo stesso,
pericoloso. I Lele considerano la madre e il bambino che
deve nascere come se fossero in costante pericolo ed attri-
buiscono inoltre al bambino un capriccioso malanimo che
Io rende pericoloso per gli altri. Si crede che quando una
donna incinta si avvicina a delle granaglie la loro quantità
diminuisca, poiché il feto che ella porta in sé, con la sua
voracità, se le porta via. Essa perciò non deve parlare a

158
Pericoli e poteri

chi sta mietendo o sta facendo fermentare la birra senza


prima compiere dei gesti rituali di buon augurio per scon-
giurare il pericolo. I Lek parlano del feto come di uno
«con le mandibole aperte» per addentare il cibo, e spiega-
no il fatto con l’inevitabilità che il «seme interno» com-
batta con il «seme esterno».
Il bambino nella pancia è come uno stregone; come una fat-
tura danneggerà il cibo; la birra si guasta e prende un cattivo
sapore; i cibi buoni non crescono; il ferro del fabbro non si
può più lavorare facilmente; il latte non si può bere.
Persino il padre è in pericolo per via della gravidanza
della moglie quando è in guerra o a caccia \
Lévy-Bruhl ebbe a notare che il sangue mestruale e
l’aborto conducono talvolta allo stesso tipo di credenza. I
Maori considerano il sangue mestruale come una specie
di essere umano mancato. Se il sangue non fosse andato
perduto sarebbe diventato una persona e così si trova ora
nell’impossibile condizione di persona morta pur non es-
sendo mai vissuta: a questo proposito riferisce una diffusa
credenza, secondo cui il feto morto prematuramente pos-
siede uno spirito malevolo, pericoloso per i viventi4. Se
Lévy-Bruhl non generalizzò il fatto che il pericolo consiste
nelle condizioni di marginalità, Van Gennep ebbe una
maggior intuizione sociologica: egli immaginò la società
come una casa con delle stanze e dei corridoi, in cui pas-
sare dalle une agli altri è pericoloso 5. Il pericolo sta negli
stati di transizione, semplicemente perché la transizione
non è più uno stato e non è ancora l’altro: è indefinibile.
La persona che passa dall’uno all’altro è essa stessa in pe-
ricolo e trasmette il pericolo agli altri. L ’individuo può
dominare il pericolo attraverso il rituale che lo separa net-
tamente dalla condizione precedente, lo tiene appartato
per un certo periodo di tempo e poi dichiara pubblica-
mente che egli è entrato nella sua nuova condizione. Non
è solo la transizione che è di per sé fonte di pericoli, ma
anche i rituali di segregazione costituiscono la fase più pe-
ricolosa dei riti. Ci accade tanto spesso di leggere di ra-
gazzi che muoiono nelle cerimonie di iniziazione, o delle

159
Pericoli e poteri

loro sorelle o madri che temono per la loro vita; oppure


che, in altri tempi, erano soliti morire per le sofferenze o
per paura, o per una punizione soprannaturale delle loro
cattive azioni. Allora è con un certo sollievo che si accol-
gono i resoconti delle effettive cerimonie, le quali si svol-
gono con una tale sicurezza che le minacce di pericolo
suonano un po' come una presa in giro 6. Ma possiamo
esser certi che i fantomatici pericoli esprimono qualche
cosa di importante in merito alla condizione di marginali-
tà. Dire che i ragazzi rischiano la vita significa precisa-
mente dire che uscire dalle strutture formali ed introdursi
nelle zone marginali equivale ad esporsi a un potere che
può o ucciderli o fare di loro degli uomini. Il tema della
nascita e della resurrezione comprende naturalmente altre
funzioni simboliche: gli iniziati muoiono alla loro vecchia
vita e rinascono alla nuova. L’intero repertorio dei con-
cetti riguardanti la contaminazione e la purificazione vie-
ne usato per sottolineare la gravità dell’evento e il potere
del rituale di ricreare un uomo - su questo non vi può
essere dubbio.
Durante il periodo marginale che separa la morte ri-
tuale e la nuova vita rituale, i novizi, nel momento dell’i-
niziazione, sono temporaneamente dei fuoricasta; per tut-
ta la durata del rito essi non hanno un posto nella società.
A volte essi vanno effettivamente a vivere lontano, fuori
dalla società stessa. Talora vivono abbastanza vicini per-
ché avvengano dei contatti casuali tra gli esseri sociali a
tutti gli effetti e i fuoricasta, e allora li vediamo compor-
tarsi come dei pericolosi criminali. Essi sono infatti auto-
rizzati al vagabondaggio, al latrocinio, alla rapina; anzi,
questo comportamento viene loro addirittura imposto. Il
comportamento antisociale è l’espressione più adatta della
loro condizione di marginali 7. Essersi trovati ai margini
vuol dire essere stati in contatto con il pericolo, essere
stati prossimi a una fonte del potere. Coerentemente con
i concetti relativi alla forma e all’informalità, gli iniziandi
che escono dalla segregazione vengono trattati come se
fossero di per se stessi investiti di un potere impetuoso e
pericoloso, che ha bisogno dell’isolamento e di un certo

160
Pericoli e poteri

tempo per acquietarsi. La sporcizia, l’oscenità e Pillegalità


sono tanto rilevanti per i riti di segregazione, dal punto di
vista simbolico, quanto lo sono altre espressioni rituali
della condizione di questi individui: essi non devono esse-
re rimproverati per la loro cattiva condotta più di quanto
non lo debba essere il feto nel grembo per il suo atteggia-
mento avido e malevolo.
Sembra che, se una persona non ha posto nel sistema
sociale ed è perciò emarginata, tutte le precauzioni contro
il pericolo debbano venire dagli altri; essa non può fare
nulla per la sua situazione anomala. Questo è pressappo-
co il modo in cui noi stessi - in un contesto profano anzi-
ché rituale - consideriamo la gente che vive in uno stato
di marginalità. Gli operatori sociali ai quali è affidato il
recupero degli ex prigionieri riferiscono le difficoltà di
reinserire queste persone in occupazioni stabili; una diffi-
coltà che deriva dall’atteggiamento generale della società.
Un uomo che ha trascorso tutto il tempo «dentro» viene
posto permanentemente «fuori» dall’organizzazione socia-
le normale. In mancanza di riti di aggregazione che possa-
no dichiaratamente assegnargli una nuova posizione, egli
rimane ai margini, insieme ad altra gente cui viene analo-
gamente accreditata poca fiducia e scarsa attitudine ad
imparare: tutti atteggiamenti sociali negativi. Lo stesso ac-
cade a chi sia entrato in istituti per la cura delle malattie
mentali: finché stavano a casa il particolare comportamen-
to di queste persone veniva accettato; una volta che ven-
gono formalmente classificate come anormali, lo stesso
identico comportamento è giudicato intollerabile. Secon-
do il relatore di un progetto canadese del 1951, avente lo
scopo di modificare l’atteggiamento verso la malattia
mentale, vi sarebbe una soglia di tolleranza che corrispon-
de al ricovero nell’ospedale psichiatrico. Fino a che una
persona non ha varcato la soglia di questo stato di margi-
nalità, qualsiasi sua eccentricità viene facilmente tollerata
dai suoi vicini. Un comportamento che uno psicologo non
esiterebbe a definire patologico viene di solito liquidato
con: «è solo un capriccio», oppure: «si riprenderà», o an-
cora: «ce n’è di tipi strani a questo mondo!». Ma una

161
Pericoli e poteri

volta che il paziente viene internato in un ospedale per


malati di mente, la tolleranza gli viene negata. Il suo com-
portamento, che prima veniva giudicato tanto normale
che le supposizioni dello psicologo sollevavano forti ostili-
tà, ora viene considerato anormale 8. Così, chi opera nel
campo della salute mentale si imbatte esattamente nello
stesso problema della riabilitazione dei pazienti dimessi
che incontrano anche le organizzazioni operanti a favore
dei carcerati. Il fatto che queste comuni osservazioni circa
gli ex carcerati e i folli si confermino a vicenda non è di
particolare rilevanza in questa sede. E più interessante sa-
pere che gli stati di emarginazione provocano in tutto il
mondo le stesse reazioni e che queste sono intenzional-
mente rappresentate nei riti di marginalità.
Per disegnare una mappa dei poteri e dei pericoli di
un universo primitivo ci è utile mettere in rilievo l’interre-
lazione tra i concetti di formale e di informale. Un gran
numero di concetti che riguardano il potere è basato sul-
l’idea di società, intesa come una serie di forme che si
contrappongono alla non forma circostante. C’è un potere
nelle forme ed un altro potere nell’area non organizzata,
marginale, nelle linee confuse e oltre i confini esterni. Se
la contaminazione è una speciale categoria di pericolo, ci
sarà utile, per vedere dove collocarla nell’universo dei pe-
ricoli, un inventario di tutte le possibili fonti di potere. In
una cultura primitiva l’agente fisico di una disgrazia non è
così significativo come l’intervento personale in cui essa
va rintracciata. Gli effetti sono gli stessi dappertutto: la
siccità è la siccità; la fame è la fame; l’epidemia, i dolori
del parto, l’infermità, la maggior parte delle esperienze
vengono considerate comuni, ma ogni cultura conosce
uno specifico ordine di leggi che regola il modo in cui
accadono queste calamità. I legami principali tra le perso-
ne e le disgrazie sono legami personali: pertanto, il nostro
inventario di poteri deve cominciare col classificare tutti i
tipi di intervento personale nel destino degli altri.
I poteri spirituali che l’azione umana può suscitare si
possono dividere approssimativamente in due classi: pote-
ri interni e poteri esterni. I primi si trovano all’interno

162
Pericoli e poteri

della psiche dell’agente - come il malocchio, il maleficio,


le doti della visione e della profezia. I secondi sono sim-
boli esterni su cui l’agente deve agire coscientemente: pa-
role magiche, benedizioni, maledizioni, formule e incante-
simi, evocazioni; questi poteri richiedono delle azioni da
cui venga emanato il potere spirituale.
La distinzione tra fonti di potere interne ed esterne è
spesso correlata con un’altra distinzione: quella tra potere
controllato e potere incontrollato. Secondo le più comuni
credenze, i poteri interni non sono necessariamente pro-
vocati dalle intenzioni dell’agente. Questi può non essere
affatto cosciente di possederli o sapere che essi siano atti-
vi: a questo proposito le credenze variano da luogo a luo-
go. Per esempio, Giovanna d’Arco non sapeva quando le
sue voci le avrebbero parlato, non poteva richiamarle a
volontà, e spesso era spaventata da ciò che esse le diceva-
no e dal corso che prendevano gli eventi prodotti dalla
sua obbedienza ad esse. Gli Zande credono che un agente
malefico non sia necessariamente al corrente del fatto che
il suo potere sia all’opera, e tuttavia, se viene avvertito,
può esercitare un certo controllo su di esso.
Al contrario il mago non può pronunciare una formu-
la per sbaglio, poiché la condizione del successo è l’inten-
zione specifica. La maledizione del padre deve di norma
essere pronunciata perché abbia efficacia.
Dov’è che la contaminazione interviene nella contrap-
posizione tra il potere controllato e quello incontrollato,
tra la psiche e il simbolo? A mio modo di vedere, la con-
taminazione è fonte di pericolo in una categoria del tutto
diversa: non sono importanti le distinzioni di volontario e
involontario, interno ed esterno; essa deve essere identifi-
cata altrimenti.
Per continuare innanzitutto con l’inventario, vi è un’al-
tra classificazione che riflette la posizione sociale di colo-
ro che mettono in pericolo e sono in pericolo. Certi pote-
ri sono esercitati a favore della struttura sociale; proteggo-
no la società da chi fa il male ed è contro costoro che è
diretto il pericolo rappresentato dai poteri stessi. L ’uso di
questi poteri deve essere approvato da tutti gli uomini in

163
Pericoli e poter!

buona fede. Altri poteri sono ritenuti pericolosi per la so-


cietà e il loro uso viene disapprovato; quelli che li usano
sono malfattori, le loro vittime sono innocenti e tutti gli
uomini di buona fede dovrebbero cercare di distruggerli:
sono quelli che operano malefici, le streghe e gli stregoni.
E questa la vecchia distinzione tra magia nera e magia
bianca.
Queste due classificazioni sono forse completamente
indipendenti? Propongo qui di tentare una correlazione:
laddove il sistema sociale riconosce esplicitamente posi-
zioni di autorità, chi detiene queste posizioni è dotato di
un potere spirituale dichiarato, controllato, consapevole,
esteriore ed approvato, il potere di benedire o di maledi-
re. Dove invece il sistema sociale esige che le persone so-
stengano dei ruoli pericolosamente ambigui, a queste per-
sone vengono attribuiti poteri incontrollati, inconsci, peri-
colosi e vietati, come il maleficio e il malocchio.
In altre parole, dove il sistema sociale è ben differen-
ziato, si potranno cercare dei poteri differenziati annessi
ai punti di autorità; dove il sistema sociale non è ben dif-
ferenziato si possono cercare dei poteri indifferenziati in
coloro che costituiscono una fonte di disordine. A mio
parere, il contrasto tra la forma e la non forma circostante
rispecchia la distribuzione dei poteri simbolici e psichici:
il simbolismo esterno sostiene la struttura sociale esplicita,
mentre i poteri psichici interni, destrutturati, la minaccia-
no con la non struttura.
Questa correlazione è, se vogliamo, difficile da stabili-
re. Per un verso è difficile essere precisi riguardo alla
struttura sociale esplicita. Senza dubbio le persone si por-
tano dentro la coscienza della struttura sociale, controlla-
no le proprie azioni secondo le simmetrie e le gerarchie
che vedono al suo interno e cercano continuamente di
imporre la loro visione della porzione di struttura rilevan-
te agli altri attori sulla scena. Questo tipo di consapevo-
lezza sociale è stata dimostrata così bene da Goffman che
non ci dovrebbe essere bisogno di approfondire ulterior-
mente questo punto 9. Non vi sono tipi di vestiti o di cibi
o altri tipi di usanze pratiche che noi non sfruttiamo, co-

164
Pericoli e poteri

me degli impresari teatrali, per valorizzare il modo di pre-


sentare il nostro ruolo e la scena in cui recitiamo. Ogni
cosa che facciamo ha un significato e non c’è nulla che
non abbia il suo peso simbolico conscio. Per di più niente
va perduto per il pubblico. Goftman si serve della strut-
tura drammaturgica, con le sue divisioni tra attori e pub-
blico, scena e retroscena, per dare una cornice alla sua
analisi delle situazioni quotidiane. Un altro vantaggio del-
l’analogia con il teatro è che una struttura drammaturgica
esiste all’interno di divisioni temporali: ha un inizio, un
apice e una fine. Per questa ragione Turner trovò utile
introdurre l’idea del dramma sociale per descrivere costel-
lazioni di comportamenti che ognuno riconosce come co-
stituenti delle unità temporali distinte Indubbiamente il
sociologo ha ancora molto da dire sull’idea di rappresen-
tazione teatrale come immagine della struttura sociale, ma
per quanto mi propongo di dimostrare può essere suffi-
ciente dire che per struttura sociale non intendo di solito
una struttura che abbracci l’intera società in modo conti-
nuativo e comprensivo; mi riferisco piuttosto a situazioni
particolari in cui i singoli attori sono coscienti di un mi-
nore o maggiore grado di implicazione. In queste situazio-
ni essi si comportano come se si muovessero in posizioni
prestabilite rispetto agli altri, e come se operassero una
selezione tra i modelli di relazione possibili. Il loro senso
della forma richiede l’uno o l’altro tipo di comportamen-
to, determina la valutazione dei loro desideri, permetten-
done alcuni ed escludendone altri.
Un punto di vista locale, personale, dell'intero sistema
sociale non deve necessariamente coincidere con quello
del sociologo. Talvolta, quando nelle pagine seguenti par-
lerò di struttura sociale, sarà perché mi riferisco agli sche-
mi principali, alle linee e alle gerarchie dei gruppi di di-
scendenza; o ai principati e alla classificazione dei distret-
ti; alle relazioni tra i re e i comuni cittadini. Qualche vol-
ta parlerò di piccole sottostrutture, quasi delle scatole ci-
nesi che ne contengono altre che a loro volta rappresenta-
no l’ossatura della struttura portante. Sembra che gli indi-
vidui siano consapevoli dei contesti che sono appropriati

165
Pericoli e poteri

a tutte queste strutture e della loro relativa importanza.


Non tutti hanno la stessa idea di quale particolare livello
di struttura sia rilevante in un dato momento; sanno che
c’è da superare un problema di comunicazione se si vuole
che una società esista. Tramite cerimonie, parole e gesti,
c’è in loro lo sforzo costante di esprimersi e di accordarsi
sul modo di concepire la struttura sociale rilevante. Tutte
le attribuzioni di pericolo e di potere fanno parte di que-
sto sforzo di comunicare e di creare in tal modo delle for-
me sociali.
L ’idea che vi possa essere una correlazione tra l’auto-
rità dichiarata e il potere spirituale controllato mi fu sug-
gerita dapprima dall’articolo di Leach in Rethinking Anth-
ropology ", ma poi, sviluppandola, ho preso una direzione
leggermente diversa. Secondo Leach, il potere controllato
a scopi offensivi spesso investe degli espliciti punti chiave
del sistema di autorità e viene contrapposto al potere in-
consapevole di offendere che si suppone si nasconda nelle
zone meno esplicite e meno differenziate della stessa so-
cietà. Leach era soprattutto interessato alla contrapposi-
zione tra i due tipi di potere spirituale usati in situazioni
sociali parallele e contrapposte; egli presentava certe so-
cietà come ordini di sistemi internamente strutturati e in-
teragenti gli uni con gli altri: la gente che vive all’interno
di uno di questi sistemi è dichiaratamente cosciente della
sua struttura - i suoi punti chiave si reggono infatti sulle
credenze nelle forme controllate di potere di cui sono in-
vestite le posizioni di controllo. Per esempio i capi Nya-
kyusa possono attaccare i loro avversari con una specie di
stregoneria che scatena contro di loro degli invisibili pito-
ni. Presso i Tallensi, che hanno una struttura patrilineare,
il padre di un uomo ha il diritto controllato, grazie alla
sua stessa parentela, di accedere a poteri ancestrali contro
il figlio e, presso i matrilineari Trobriandesi, si crede che
lo zio materno mantenga la sua autorità con formule ma-
giche e incantesimi che egli usa consapevolmente. È come
se le posizioni di autorità venissero installate con interrut-
tori che possono essere manovrati da chi raggiunge i posti
giusti per fornire potere al sistema globale.

166
Pericoli e poteri

Questo si può intuire seguendo le familiari analisi di


Durkheim: le credenze religiose esprimono la consapevo-
lezza che la società ha di se stessa; la struttura sociale vie-
ne investita di poteri punitivi che la mantengono in esse-
re. Questo è risaputo, ma vorrei aggiungere che a coloro
che ricoprono una carica nella parte esplicita della strut-
tura si tende ad attribuire dei poteri che essi controllano
consapevolmente, al contrario di quelli che hanno un ruo-
lo meno esplicito, i quali tendenzialmente sono ritenuti in
possesso di poteri inconsci e incontrollabili che rappre-
sentano una minaccia per quanti si trovano in posizioni
meglio definite. Il primo esempio di Leach è la moglie
Kachin. Mettendo in comunicazione due gruppi di pote-
re, quello del marito e quello del fratello, ella riveste un
ruolo interstrutturale e si pensa che sia un agente incon-
scio, involontario, di malefici. Analogamente, il padre per
i Trobriandesi e per gli Ashanti, entrambi matrilineari, ed
il fratello della madre per i patrilineari Tikopia e Tale-
land, vengono considerati come se fossero involontaria-
mente una fonte di pericolo. Questa gente non sarebbe
niente di tutto ciò se non avesse una particolare colloca-
zione nella società globale. Ma, nella prospettiva di un
subsistema interno al quale non appartengono, ma in cui
devono operare, essi sono degli intrusi. Nel loro sistema
non sono sospetti, ed è possibile che esercitino i poteri di
tipo intenzionale in nome del sistema stesso. Può anche
darsi che non venga mai attivato il loro inconscio potere
di offesa, può darsi che se ne stia assopito mentre essi
vivono in pace la loro vita in un angolo del subsistema,
che rappresenta il posto più adatto per loro e in cui, tut-
tavia, sono degli intrusi. Ma nella pratica è difficile soste-
nere questo ruolo con la necessaria imperturbabilità. Se
succede qualcosa di brutto, se essi provano del risenti-
mento o dell’amarezza, allora la loro doppia lealtà e la lo-
ro condizione ambigua nella struttura in cui sono inseriti
li fa apparire come un pericolo per coloro che vi appar-
tengono a pieno diritto. Ciò che è pericoloso è l’esistenza
di una persona arrabbiata in una posizione interstiziale, c

167
Pericoli e poteri

questo non ha nulla a che fare con le intenzioni di quella


persona.
In questi casi i punti differenziati, coscienti, della
struttura sociale vengono armati di poteri differenziati,
consci, per proteggere il sistema. Le aree indifferenziate,
destrutturate, emanano poteri inconsci che provocano ne-
gli altri l’esigenza di ridurre il grado di ambiguità. Quan-
do queste persone che occupano una posizione interstizia-
le, essendo infelici e scontente, vengono accusate di male-
ficio è come un’ammonizione a contenere i loro sentimen-
ti di ribellione in accordo con la loro situazione corretta.
Se si riscontrasse che questa accusa è valida in senso più
lato, allora il maleficio, definito come una forza psichica
dichiarata, potrebbe anche essere determinato struttural-
mente. Sarebbe quel potere psichico, antisociale, che vie-
ne attribuito alle persone appartenenti ad aree della socie-
tà relativamente destrutturate; l’accusa potrebbe essere un
mezzo per esercitare il controllo laddove una forma di
controllo è praticamente difficile. Il potere malefico allora
viene scoperto nella non struttura. Streghe e stregoni so-
no l’equivalente sociale degli scarafaggi e dei ragni che vi-
vono nelle spaccature delle pareti e dei soppalchi di le-
gno. Essi si attirano le paure e il disprezzo che altre am-
biguità e contraddizioni richiamano in altre strutture del
pensiero, e il tipo di poteri a loro attribuito ne simboleg-
gia la condizione ambigua e confusa.
Soffermandoci su questa linea di pensiero possiamo
distinguere diversi tipi di indifferenziazione sociale. Fino-
ra abbiamo considerato soltanto gli stregoni che hanno
una posizione ben definita in un subsistema e un’altra
ambigua in un altro, in cui hanno però ugualmente dei
doveri. Essi sono degli intrusi legittimi. Un esempio illu-
minante può essere Giovanna d’Arco: contadina a corte,
donna entro l’armatura, emarginata nei consigli di guerra,
l’accusa di essere una strega la pone definitivamente al-
l’interno della sua categoria. Ma spesso si crede che il po-
tere malefico occulto operi in un altro tipo di relazione
sociale ambigua. L ’esempio più calzante ci viene dalle
credenze sul maleficio vigenti presso gli Zande. La strut-

168
Pencoli e poteri

tura formale della loro società era imperniata sui prìncipi,


con le loro corti, tribunali ed eserciti, in una rigorosa ge-
rarchia che andava dai delegati del principe, attraverso i
governatori locali, fino ai capi delle famiglie. Il sistema
politico offriva un ordine organizzato di campi di compe-
tizione, in modo tale che i plebei non si trovavano in
competizione con i nobili, né i poveri con i ricchi, né i
figli con i padri, né le donne con gli uomini. Solo in quel-
le aree della società che il sistema politico lasciava de-
strutturate gli uomini si accusavano reciprocamente di
maleficio. Un uomo che avesse sconfitto il suo diretto ri-
vale, con cui era in competizione per una carica, poteva
accusare l’altro di avergli fatto un maleficio con la sua in-
vidia e le rispettive mogli potevano accusarsi a vicenda di
maleficio. Gli stregoni Zande venivano ritenuti pericolosi
senza che essi fossero consapevoli di esserlo: i loro poteri
venivano scatenati anche solo dai sentimenti di astio o di
rancore che essi provavano. L ’accusa tendeva a regolare la
situazione vendicando l’uno e condannando l’altro rivale.
1 prìncipi non venivano considerati stregoni, ma si accusa-
vano l’un l’altro di esserlo, seguendo in tutto il modello
che sto cercando di tratteggiare.
Un altro tipo di potere offensivo inconscio che emana
da aree indifferenziate del sistema sociale è quello esem-
plificato dai Mandar!, i cui clan di proprietari terrieri fon-
dano la loro forza sull’assunzione di clienti. Questi clienti
sfortunati hanno perduto per una ragione o per l’altra il
diritto ai loro territori e devono portarsi in territorio stra-
niero per chiedere protezione e sicurezza. Essi sono dei
senza terra, degli inferiori, delle persone dipendenti dal
loro patrono che è un membro del gruppo dei proprietari
terrieri. Tuttavia essi non sono completamente dipenden-
ti: il prestigio e la posizione sociale del patrono in una
certa misura dipendono proprio dal devoto seguito dei
suoi clienti. 1 clienti che diventano troppo numerosi e po-
tenti possono comunque minacciare la discendenza del lo-
ro patrono. La struttura ufficiale della società è basata sui
clan dei proprietari terrieri, che considerano i clienti co-
me dei probabili operatori di malefici: il loro potere oc-

169
Pericoli e poteri

culto deriverebbe dall’invidia per i protettori ed agirebbe


involontariamente. Un agente di malefici non può con-
trollarsi: è nella sua natura essere arrabbiato ed è da lui
che proviene il male. Non tutti i clienti sono operatori
malefici, ma le stirpi di costoro sono riconosciute e temu-
te. Si tratta di persone che vivono negli interstizi della
struttura del potere, sentite come una minaccia per coloro
che appartengono a una condizione meglio definita. Poi-
ché vengono loro attribuiti poteri pericolosi e incontrolla-
bili, esiste il pretesto per annientarli: possono essere accu-
sati ed essere fatti fuori senza preamboli né formalità. Ci
fu un caso in cui i familiari del patrono non fecero che
preparare un gran fuoco, fecero venire il sospettato di
avere poteri malefici a mangiare del maiale arrosto e, da
un momento all’altro, lo legarono e lo buttarono nel fuo-
co. Così veniva ribadita la struttura formale delle stirpi di
proprietari terrieri contro il mondo relativamente fluido
dei clienti senza terra in cerca di protezione.
Nella società inglese gli Ebrei sono un po’ come i
clienti dei Mandari. La credenza nella loro sinistra ma in-
spiegabile superiorità nel commercio giustifica la discrimi-
nazione nei loro confronti - mentre l’unica offesa da loro
realmente commessa è sempre stata quella di essere al di
fuori della struttura formale della cristianità.
Vi sono probabilmente molti e molto più vari tipi di
condizioni socialmente ambigue e poco definite alle quali
viene attribuito l’involontario potere di operare dei male-
fici. Sarebbe facile raccoglierne degli esempi ma - è su-
perfluo dirlo - non mi interessano le credenze di carattere
secondario o le idee di breve durata che rapidamente fio-
riscono e muoiono. Se questa correlazione dovesse essere
generalmente valida per quanto riguarda la distribuzione
di forme dominanti e persistenti di potere spirituale, si
potrebbe chiarire con essa la natura della contaminazione.
Infatti, secondo la mia opinione, anche la contaminazione
rituale deriva dall’interazione del formale con l’informale
circostante. I pericoli che derivano dalla contaminazione
ci colpiscono quando viene attaccata la forma. Così po-
tremmo avere una triade di poteri che controllano la for-

170
Pericoli e poteri

tuna e la sventura: primo, poteri formali posseduti da


persone che rappresentano la struttura formale ed eserci-
tati in favore della struttura formale stessa; secondo, pote-
ri informali rappresentati da persone interstiziali; terzo,
poteri non posseduti da alcuna persona, ma inerenti alla
struttura, che colpiscono ogni infrazione alla forma. Que-
sto triplice schema per lo studio delle cosmologie primiti-
ve viene sfortunatamente a cadere quando si esaminano
delle eccezioni troppo importanti per essere tralasciate.
Una grossa difficoltà sta nel fatto che la stregoneria, che è
una forma di potere spirituale controllato, è attribuita in
molte parti del mondo a persone che, stando alla mia ipo-
tesi, dovrebbero essere accusate di malefici involontari.
Le persone malevole che detengono posizioni interstiziali,
le persone antisociali, giudicate negativamente, quelle che
cercano di far del male agli innocenti, non dovrebbero
poter far uso di poteri simbolici controllati e coscienti. In
più, vi sono dei capi reali che emanano dei poteri incon-
sci e involontari, atti a scoprire la slealtà e a colpire i loro
nemici; capi che, secondo la mia ipotesi, dovrebbero ac-
contentarsi di possedere dei poteri in forma esplicita e
controllata. Pertanto la correlazione che ho tentato di
tracciare non regge, e tuttavia non voglio scartarla defini-
tivamente fino a che non avrò analizzato più a fondo i
casi negativi.
Una delle ragioni per cui è difficile correlare le strut-
ture sociali con un certo tipo di potere mistico è che gli
elementi a confronto sono molto complessi. Non è sem-
pre facile riconoscere l’autorità dichiarata. Per esempio,
l’autorità presso i Lele è molto debole; il loro sistema so-
ciale si può descrivere come un incrocio di piccole autori-
tà, nessuna delle quali molto efficace in termini profani.
Molti dei loro status sociali sono basati sul potere spiri-
tuale di benedire o di maledire, che consiste poi nel pro-
nunciare una formula verbale e sputare. Benedizione e
maledizione sono attributi dell’autorità; un padre, una
madre, un fratello della madre, una zia, un creditore, il
capo del villaggio e così via possono maledire; non può
darsi il caso che un individuo qualunque possa aspirare a

171
Pericoli e poteri

maledire e applicare arbitrariamente la maledizione. Un


figlio non può maledire il padre e, se tentasse di farlo, la
maledizione non avrebbe effetto. Questo modello si ade-
gua quindi alla regola generale che sto cercando di stabili-
re. Ma, se una persona che ha diritto di maledire si trat-
tiene dal formulare la sua maledizione, si crede che la sa-
liva trattenuta in bocca gli possa recar danno. Piuttosto
che covare segretamente un rancore, tutti quelli che ab-
biano una recriminazione da fare dovrebbero esprimerla e
chiedere riparazione, affinché la saliva del loro malanimo
non crei di nascosto dei guai. In questa credenza noi tro-
viamo tutti quei poteri spirituali, quelli controllati e quelli
incontrollati, attribuiti nelle stesse circostanze alla stessa
persona. Ma, dato che il loro modello di autorità è così
poco differenziato, questo non costituisce propriamente
un caso negativo. Al contrario, serve ad ammonirci che
l’autorità può essere un potere estremamente vulnerabile
che si può facilmente ridurre a un nulla. Dovremo quindi
tenere maggiormente conto delle varietà di autorità.
Vi sono molte analogie tra la maledizione non detta
dei Lele e le credenze nei malefici dei Mandati. Ambedue
sono legate ad un particolare status, ambedue sono psi-
chiche, interne, involontarie: ma la maledizione non detta
è una forma di potere spirituale ammessa, mentre l’opera-
tore di malefici è disapprovato. Laddove la maledizione
non detta si rivela essere la causa dell’offesa, essa viene
restituita all’agente: quando invece si scopre il maleficio,
l’agente viene violentemente attaccato. Così, la maledizio-
ne trattenuta è dalla parte dell’autorità; i suoi legami con
la maledizione ce lo rendono chiaro. Ma l’autorità è de-
bole nel caso dei Lele ed è forte in quello dei Mandari.
Questo fa pensare che per verificare adeguatamente l’ipo-
tesi noi dovremmo esaminare l’intera gamma da un estre-
mo - dove non vi è assolutamente autorità formale - al-
l’altro estremo - dove esiste un’autorità secolare forte ed
efficace. Né per l’uno né per l’altro estremo sono in gra-
do di prevedere la distribuzione dei poteri spirituali, per-
ché l’ipotesi non si può applicare dove non esiste autorità
formale, e dove invece l’autorità è saldamente stabilita es-

172
Pericoli e poteri

sa richiede un minor supporto spirituale e simbolico. In


una condizione primitiva l’autorità è sempre incline alla
precarietà: è per questa ragione che si dovrebbe essere
preparati a tenere conto dei fallimenti di chi ricopre una
carica.
Consideriamo dapprima il caso di quell’uomo che si
trova in una posizione di autorità e abusa dei poteri seco-
lari della sua carica. Se risulta che egli agisce scorretta-
mente, al di fuori del suo ruolo, egli viene privato del po-
tere spirituale inerente al ruolo stesso. Allora ci dovrebbe
essere la possibilità di qualche cambiamento nel modello
delle credenze per farvi rientrare la sua defezione. Egli
dovrebbe entrare nella classe degli operatori malefici che
emanano involontariamente dei poteri ingiusti invece dei
poteri controllati intenzionalmente contro chi si comporta
male. L ’ufficiale che abusa della sua carica è infatti illega-
le come un usurpatore, uno spirito maligno, un intralcio
nei lavori, un peso morto per il sistema sociale. Spesso
noi riscontriamo il summenzionato cambiamento nel peri-
coloso tipo di potere che si pensa egli abbia in sé.
Nel Libro di Samuele Saul è presentato come un capo
che abusa dei poteri che gli sono stati trasmessi da Dio.
Quando non riesce a sostenere il ruolo che gli è stato as-
segnato e porta i suoi uomini alla disobbedienza, il suo
carisma lo abbandona ed egli diviene preda di collere ter-
ribili, di depressione e pazzia. Così quando Saul abusa
della sua carica, perde il controllo cosciente e diventa una
minaccia anche per gli amici. Se perde il controllo della
ragione, il leader diventa inconsapevolmente un pericolo.
La figura di Saul esprime appropriatamente il concetto
che il potere spirituale consapevole viene attribuito alla
struttura esplicita e che ai nemici della struttura viene in-
vece attribuito un pericolo incontrollato inconscio.
I Lugbara hanno un’altra maniera analoga di adattare
le loro credenze nel caso di abuso di potere; essi assegna-
no agli anziani della loro stirpe degli speciali poteri di in-
vocare gli avi contro i più giovani che non agiscono nel
più ampio interesse della stirpe stessa. Anche qui riscon-
triamo dei poteri controllati consciamente che rafforzano

173
Pericoli e poteri

la struttura esplicita. Ma se si sospetta che un anziano sia


motivato dai propri interessi personali ed egoistici, gli avi
non lo ascoltano, né gli concedono di disporre del loro
potere. Questo è dunque il caso di un uomo in una posi-
zione di autorità che utilizza illegalmente i poteri della
sua carica. Se viene messa in dubbio la legittimità delle
sue azioni, egli deve essere deposto, e a questo scopo i
suoi nemici lo accusano di corruzione e di essere la causa
di malefici, cioè di un misterioso perverso potere che agi-
sce di notte n. L ’accusa è di per se stessa un’arma per
chiarire e rafforzare la struttura; essa permette di inchio-
dare la colpa come fonte di confusione e di ambiguità.
Così questi due esempi sviluppano simmetricamente la
nozione che il potere consapevole viene esercitato da par-
te delle posizioni chiave della struttura e che dalle sue
aree buie ed oscure scaturisce un pericolo di tipo diverso.
La stregoneria è un’altra cosa. Come forma di potere
offensivo che fa uso di formule magiche, di parole, di
azioni e di materiali fisici, può essere usata solo conscia-
mente e deliberatamente. In base al nostro ragionamento
la stregoneria dovrebbe essere usata da chi domina le po-
sizioni chiave della struttura sociale, essendo questa una
forma intenzionale, controllata, di potere spirituale. Ma
non è così: la stregoneria si riscontra negli interstizi strut-
turali in cui abbiamo localizzato il maleficio, come pure
nei punti di autorità. Ad un primo sguardo sembra che
ciò contraddica la correlazione tra coscienza e struttura
differenziata. Ma ad un’analisi più approfondita questa di-
stribuzione della stregoneria è coerente con il modello di
autorità rispettato dalle credenze nella stregoneria stessa.
In alcune società le posizioni di autorità sono aperte
alla competizione. La legittimità è difficile da stabilire,
difficile da mantenere ed è sempre incline ad essere tra-
volta. In tali sistemi politici molto fluidi ci dovremmo
aspettare un tipo particolare di credenze nel potere spiri-
tuale. La stregoneria non è come la maledizione e revoca-
zione degli avi, in quanto non possiede implicitamente i
mezzi per premunirsi dagli abusi; nella cosmologia Lug-
bara, ad esempio, è essenziale la nozione che gli antenati

174
Pericoli e poteri

sostengono il valore della stirpe, e la cosmologia ebraica


era dominata dall’idea della giustizia di Geova. Tutte e
due queste fonti di potere si basano sul presupposto che
non possono essere ingannate né commettere abusi. Se il
responsabile di una carica abusa del suo potere, gli viene
tolto uno dei suoi sostegni spirituali. Per contrasto, la
stregoneria è soprattutto una forma di potere controllato
e consapevole, pronto a ogni abuso. Nelle culture dell'A-
frica centrale, dove fioriscono le credenze nella stregone-
ria, questa forma di potere spirituale viene sviluppata nel-
l’ambito del linguaggio della medicina. Essa è liberamente
accessibile: tutti quelli che si prendono la briga di conqui-
starsi il potere di stregoni, possono farne uso. La strego-
neria in sé è moralmente e socialmente neutrale e non
contiene alcun principio per difendersi dall’abuso. Siano
pure o corrotte le intenzioni dell’agente, essa agisce con
pari efficacia, ex opere operato. Se il concetto di potere
spirituale nella cultura è dominato da questo linguaggio
medico, l’uomo che abusa della sua carica e la persona
che vive nelle crepe destrutturate hanno identica possibili-
tà di accesso allo stesso tipo di potere spirituale che ha il
capolignaggio o il capo del villaggio. Ne deriva che, se la
stregoneria è aperta a chiunque desideri acquisirla, do-
vremmo dedurne che anche le posizioni di controllo poli-
tico sono disponibili, aperte alla competizione, e che in
tali società non vi siano delle distinzioni molto chiare tra
l’autorità legittima, l’abuso di autorità e la ribellione ille-
cita.
Le credenze nella stregoneria dell’Africa centrale, da
occidente ad oriente, dal Congo al lago Niassa, considera-
no come generalmente accessibili i poteri spirituali mali-
gni della stregoneria. In principio questi poteri sono rap-
presentati dai capigruppo dei discendenti matrilineari e si
presume che vengano usati da questi uomini in posizioni
di autorità contro gli estranei ostili. Ci si aspetta general-
mente che il vecchio rivolga i suoi poteri contro i suoi
seguaci o contro i parenti e, se è un uomo assai antipatico
e mediocre, la loro eventuale morte è probabilmente da
attribuirsi a lui. Egli corre sempre il rischio di venire de-

175
Pericoli e poteri

gradato dalla limitata supremazia che gli consente la sua


posizione di anziano, di essere esiliato o sottoposto alla
prova del veleno u. In questo caso un altro candidato as-
sumerà il suo ruolo ufficiale e cercherà di esercitarlo in
modo più accorto. Queste credenze, come ho cercato di
dimostrare nella mia ricerca sui Lele, corrispondono a un
sistema sociale in cui l’autorità è scarsamente definita, e
ha di fatto una limitata influenza 14. Marwick sosteneva, a
proposito di credenze analoghe a queste presso i Cewa,
che esse hanno un effetto liberatorio, dal momento che
ogni giovane può in modo plausibile accusare di stregone-
ria un vecchio reazionario titolare di una carica che egli
stesso è qualificato a ricoprire, quando sia stato rimosso
l’ostacolo dell’anziano 15. Se le credenze nella stregoneria
servono realmente come strumento di autopromozione,
esse fanno d’altronde capire come la scala di tale autopro-
mozione sia corta e malsicura.
Il fatto che ciascuno possa allungare le mani sui poteri
dello stregone e che essi possano essere usati sia contro
che in favore della società suggerisce un’altra importante
classificazione incrociata dei poteri spirituali. Infatti nel-
l’Africa centrale la stregoneria è spesso una appendice ne-
cessaria di un ruolo di autorità: il fratello della madre de-
ve avere una certa pratica di stregoneria se vuole combat-
tere gli stregoni nemici e proteggere i suoi discendenti; si
tratta di una prerogativa a doppio taglio, poiché se egli la
usa a sproposito può rovinarsi. In tal modo vi è sempre la
possibilità e persino la speranza che l’uomo che ricopre
una carica ufficiale non riesca a svolgerla meritevolmente.
La credenza funziona da controllo sull’uso del potere se-
colare. Se un capo Lele o Cewa diventa impopolare, le
credenze nella stregoneria prevedono una scappatoia che
dà ai dipendenti la possibilità di liberarsi di lui. E così
che vanno interpretate, a parer mio, le credenze tsav dei
Tiv, che controllano, così come sanciscono, l’eminente au-
torità del più anziano del lignaggio 16. Pertanto la strego-
neria liberamente accessibile è una forma di potere spiri-
tuale che tende a produrre un insuccesso. Questa classifi-
cazione incrociata pone il maleficio e la stregoneria sullo

176
Pericoli e poteri

stesso piano. Le credenze nel maleficio sono anch’esse


orientate al fallimento del ruolo, che viene considerato in
maniera punitiva, come abbiamo visto. Ma queste creden-
ze prevedono l’insuccesso dei ruoli interstiziali, mentre le
credenze nella stregoneria prevedono il fallimento dei
ruoli ufficiali. L ’intero schema di correlazione tra poteri
spirituali e struttura diventa più coerente se contrapponia-
mo questi poteri orientati all’insuccesso con quelli orien-
tati al successo.
Le nozioni teutoniche di Fortuna ed alcune forme di
baraka e di maria sono credenze orientate al successo che
possono considerarsi parallele alla stregoneria, in quanto
credenza orientata all’insuccesso. Il maria e l’islamico ba-
raka escludono dalle posizioni ufficiali, a prescindere dalle
intenzioni di chi ne è investito: sono tanto poteri maligni
fatti per colpire, quanto poteri benigni per fini buoni. Vi
sono, sì, dei capi e dei prìncipi che hanno il maria o il
baraka, per cui il solo contatto con loro equivale a una
benedizione oppure alla garanzia di un successo e la loro
presenza personale determina la vittoria oppure la sconfit-
ta in battaglia; ma questi poteri non sono sempre così
ben ancorati al disegno del sistema sociale. Talora il bara-
ka può essere un potere benigno, libero e vago, che agi-
sce in maniera indipendente dalla distribuzione formale
del potere e della sottomissione a esso nella società.
Se noi pensiamo che una tale influenza benigna e indi-
pendente giochi un ruolo rilevante nelle credenze popola-
ri, ci dobbiamo aspettare o che l’autorità formale sia de-
bole o mal definita, o che, per una ragione o per l’altra,
la struttura politica sia stata neutralizzata ad un punto ta-
le che dai suoi punti chiave non possono sprigionarsi i
poteri di benedizione.
Lewis ha descritto un esempio di struttura sociale non
sacralizzata. In Somalia vi è una generale distinzione con-
cettuale relativamente al potere spirituale e a quello seco-
lare 17. Nei rapporti profani il potere deriva dalla forza
nella lotta e i Somali sono combattivi e competitivi. Ma
nella sfera religiosa essi sono musulmani e pensano che
sia male combattere alPinterno della comunità musulma-

177
Pericoli e poteri

na. Queste credenze profondamente radicate deritualizza-


no la struttura sociale, cosicché per i Somali le benedizio-
ni o i pericoli divini non vengono elargiti dai loro perso-
naggi rappresentativi: la religione non è amministrata dai
guerrieri ma dagli uomini di Dio. Questi uomini santi,
esperti di religione e di legge, fanno da intermediari tra
gli uomini, come pure mediano tra gli uomini e Dio. Essi
sono coinvolti solo con una certa riluttanza nella struttura
militare della società; come uomini di Dio, essi sono inve-
stiti di poteri spirituali. Ne segue che la loro benedizione
(baraka) è tanto più grande quanto più essi si ritirano dal
mondo secolare e quanto più sono umili, poveri e deboli.
Se questo ragionamento è corretto, potrebbe essere
valido anche per gli altri popoli islamizzati la cui organiz-
zazione sociale è basata su violenti conflitti interni. Tutta-
via i Berberi del Marocco presentano una analoga distri-
buzione del potere spirituale senza alcuna giustificazione
ideologica. Gellner mi riferisce che i Berberi ignorano che
la comunità musulmana non ammette di combattere. Per
di più è un aspetto comune in sistemi politici frammentati
e competitivi il fatto che i due leader di forze allineate
godano di meno credito di potere spirituale a paragone di
certe persone che si trovano in posizioni interstiziali dello
schieramento politico. Gli uomini santi della Somalia si
potrebbero considerare come il corrispettivo dei sacerdoti
Tallensi del santuario della Terra, o delPUomo della Ter-
ra presso i Nuer. Il paradosso del potere spirituale attri-
buito alla fragilità fisica si spiega con la struttura sociale
piuttosto che con la dottrina locale che la giustifica 18.
Il baraka, in questa forma, è una sorta di maleficio al-
la rovescia: è un potere che non appartiene alla struttura,
politica formale, ma che oscilla tra i segmenti di essa. Co-
me le accuse di maleficio vengono usate per rafforzare la
struttura, così la gente all’interno della struttura cerca di
utilizzare il baraka. Non diversamente dal maleficio e dal-
la stregoneria, la sua potenza e la sua esistenza vengono
provate empiricamente a posteriori! Un agente malefico o
uno stregone vengono identificati quando capita una di-
sgrazia a quella persona contro cui hanno del rancore. La

178
Pericoli e poteri

disgrazia è un segno che è in atto una fattura. Un risenti-


mento risaputo indica l’eventuale autore del maleficio: è
soprattutto la sua fama di litigioso che attira le accuse
contro costui. Anche il baraka viene identificato empirica-
mente a posteriori: ne indica la presenza un incredibile
colpo di fortuna, spesso piuttosto inatteso 19. La fama di
bontà e di sapienza di un sant’uomo concentra l’interesse
su di lui. Proprio come la cattiva nomea di un agente ma-
lefico peggiora a ogni disastro che si abbatte sui suoi vici-
ni, così il buon nome di un santo aumenta ad ogni venta-
ta di buona sorte. L ’effetto a valanga è lo stesso. I poteri
orientati all’insuccesso provocano una reazione negativa:
se uno che potenzialmente li possiede cerca di superare se
stesso, l’accusa lo ridimensiona; la paura di essere accusa-
to agisce come un termostato su chiunque desideri evitare
anticipatamente dei veri e propri litigi; è uno strumento
di controllo. 1 poteri orientati al successo invece hanno la
possibilità di provocare reazioni positive. Essi possono
crescere sempre più fino ad esplodere. Come il maleficio
è stato chiamato invidia istituzionalizzata, così il baraka
può agire come ammirazione istituzionalizzata. Per questa
ragione esso si autoconvalida quando agisce in un sistema
liberamente competitivo: si trova a fiancheggiare i grandi
eserciti. Confermato empiricamente dal successo, esso at-
tiva adesioni ottenendo un successo ancora maggiore. «Si
arriva di fatto a possedere il baraka se si crede di posse-
derlo» 20.
Dovrei precisare che non credo che il baraka sia sem-
pre accessibile agli elementi competitivi dei sistemi sociali
tribali. È un’idea, relativa al potere, che varia in differenti
condizioni politiche. In un sistema autoritario esso viene
emanato dai detentori dell’autorità e può convalidare la
loro posizione sociale stabilita, fino alla sconfitta dei riva-
li, ma ha in sé anche un potenziale distruttivo contro i
concetti relativi all’autorità e a ciò che è giusto e ingiusto,
dal momento che l’unica prova sta proprio nel suo suc-
cesso. Chi possiede il baraka non è soggetto alle stesse re-
strizioni morali vigenti per le altre persone21. Lo stesso
vale per il maria e per la Fortuna. Questi possono stare

179
Pericoli e poteri

dalla parte dell’autorità costituita o dalla parte dell’oppor-


tunismo. Raymond Firth arrivò alla conclusione che, al-
meno per i Tikopia, matta volesse dire successo 22. Il ma
na tikopiano esprime l’autorità dei capi ereditari. Firth si
chiese se la dinastia avrebbe corso i rischi nel caso che il
regno del capo non fosse stato fortunato, e concluse (cor-
rettamente, a quanto pare) che l’autorità sarebbe stata ab-
bastanza forte da resistere a questa tempesta. Uno dei
grandi vantaggi del far della sociologia in un campo ri-
stretto è quello di poter distinguere con tranquillità ciò
che in un panorama più vasto potrebbe ingenerare confu-
sione. Ma non essere in grado di osservare nessun vero
uragano o nessun terremoto costituisce uno svantaggio. In
un certo senso tutti gli antropologi coloniali lavorano in
un campo limitato; le condizioni artificiali di pace delle
colonie hanno fiaccato probabilmente questo potenziale
di conflitto e di ribellione implicito nei poteri orientati al
successo. L ’antropologia non è mai stata troppo forte nel-
le analisi politiche. Talvolta in luogo delle analisi di un
sistema politico viene offerta una sorta di carta costituzio-
nale senza alcuna stima dell’equilibrio delle forze, per
quanto superficiale, contestata o seria essa possa essere. A
ciò si devono necessariamente certe interpretazioni poco
chiare. Sarà dunque opportuno riferirci ad un esempio
precoloniale.
La Fortuna dei nostri avi teutonici, così come le for-
me opportunistiche, o «free lance», di maria e di baraka,
sembra anch’essa aver operato liberamente in una struttu-
ra politica competitiva, fluida, con scarse implicazioni con
il potere ereditario. Tali credenze possono adattarsi ai ra-
pidi cambiamenti nelle linee gerarchiche e possono modi-
ficare il giudizio su ciò che è bene e ciò che è male.
Ho cercato di sfruttare il più possibile il parallelo tra
questi poteri orientati al successo e la jettatura e la strego-
neria, ambedue orientate all’insuccesso e in grado di ope-
rare indipendentemente dalla ripartizione dell’autorità.
Un’altra analogia con il maleficio è il carattere involonta-
rio di queste forme di successo. Un uomo scopre di pos-

180
Pericoli e poteri

sedere il baraka a causa dei suoi effetti. Parecchia gente


può mantenersi devota e vivere al di fuori del sistema
competitivo, ma non tutti hanno un grande baraka. Anche
il mana si può esercitare abbastanza inconsciamente, addi-
rittura da parte di un antropologo come Raymond Firth,
il quale racconta, con una sfumatura di ironia, di quando
una eccezionale retata di pesce fu attribuita al suo mana.
Le saghe scandinave riferiscono moltissime crisi risolte da
uomini che improvvisamente scoprono la loro Fortuna o
capiscono che la Fortuna li ha abbandonati23.
Un’altra caratteristica del potere di successo è che
spesso è «contagioso». Esso viene trasmesso materialmen-
te; tutto ciò che è stato in conflitto con il baraka può di-
ventare baraka. Anche la Fortuna veniva in parte trasmes-
sa con le eredità e con i tesori, e se questi cambiavano
mano anche la Fortuna cambiava possessore. Sotto questo
aspetto tali poteri sono come la contaminazione che tra-
smette il pericolo attraverso il contatto. Tuttavia, gli effet-
ti potenzialmente accidentali e distruttivi di questi poteri
di successo si contrappongono alla contaminazione, rigo-
rosamente delegata a rappresentare i confini del sistema
sociale esistente. Per concludere, le credenze che attribui-
scono un potere spirituale a degli individui non sono mai
neutrali, né libere dai modelli dominanti della struttura
sociale. Se apparentemente alcune credenze attribuiscono
in maniera casuale dei poteri spirituali liberi da ogni lega-
me, un’analisi più approfondita ne dimostra la coerenza.
L ’unica circostanza in cui i poteri spirituali fioriscono in-
dipendentemente dal sistema formale della società è quan-
do il sistema stesso viene eccezionalmente svuotato della
struttura formale, quando la legittima autorità viene messa
continuamente in dubbio o quando le parti rivali di un
sistema politico acefalo ricorrono a un compromesso. Al-
lora i principali concorrenti al potere politico devono cor-
teggiare i possessori di tale potere spirituale libero per
cercare di attirarli dalla loro parte. Così è fuor di dubbio
che al sistema sociale venga attribuita una straordinaria
capacità di manipolare i poteri creativi e di sostegno.

181
Vericoli e poteri

Ora è giunto il momento di definire la contaminazio-


ne. Ammesso che tutti i poteri spirituali facciano parte
del sistema sociale, essi lo esprimono e forniscono delle
istituzioni per manipolarlo. Ciò significa che il potere del-
l’universo è legato alla società, tutto sommato, poiché
molti cambiamenti di fortuna derivano da persone che ri-
coprono l’uno o l’altro tipo di posizione sociale. Ma vi
sono altri pericoli da affrontare: quelli che vengono spri-
gionati consciamente o inconsciamente dalle persone, che
non fanno parte della psiche e che non si possono ottene-
re o apprendere con l’iniziazione o con l’esercizio. Questi
sono i poteri della contaminazione inerenti alla stessa
struttura concettuale; questi poteri puniscono la rottura
simbolica di ciò che dovrebbe essere unito e l’unione di
ciò che dovrebbe essere separato. Ne consegue che la
contaminazione è un tipo di pericolo che non ha probabi-
lità di verificarsi, ad eccezione del caso in cui siano chia-
ramente definite le linee di struttura del cosmo o della
società.
Una persona responsabile di contaminazione è sempre
in torto. Essa ha prodotto delle condizioni ingiuste o sem-
plicemente ha varcato dei confini che non avrebbe dovuto
varcare, e questo sconfinamento è cagione di pericolo per
qualcuno. Contaminare, a differenza della stregoneria o
del maleficio, è una capacità che gli uomini condividono
con gli animali; infatti la contaminazione non deriva sem-
pre dagli uomini. La contaminazione si può trasmettere
intenzionalmente, ma l’intenzione non è importante per
gli effetti che provoca - è più facile che la contaminazio-
ne si verifichi inavvertitamente.
Con questo ho cercato di avvicinarmi il più possibile
alla definizione di una particolare categoria di pericoli che
non sono poteri di cui sono investiti degli esseri umani e
che possono, tuttavia, venire liberati dall’azione umana. Il
potere che rappresenta un pericolo per individui poco ac-
corti è molto evidentemente un potere inerente alla strut-
tura delle idee, un potere da cui si presuppone che la
struttura si voglia proteggere.

182
Pericoli e poteri

Note
1 A.R. Radcliffe-Brown, The Andaman Islanders, eit., p. 139.
2 H. Webster, Magic: A Sociological Study, Stanford, 1948.
3 M. Wilson, Rituals and Kinship among thè Nyakyusa, London,
1957, pp. 138-39.
4 L. Lévy-Bruhl, Le surnaturel et la nature dans la mentalità primi-
tive , Paris, 1931; trad. it. Soprannaturale e natura nella mentalità primi-
tiva, Roma, 1973, pp. 339-44.
I A. Van Gennep, Les rites de passage, Paris, 1909; trad. it. I riti
di passaggio, Torino, Boringhieri, 19852.
6 J. Vansina, Initiation Rituals ot thè Bushong, in «Africa», XXV
(1955), pp. 138-52.
' H. Webster, Primitive Secret Societies: A Study in Early Politics
and Religion, New York, 1908 (II ed. 1932), cap. HI.
8 Citato in E. e J. Cumming, Closed Ranks: An Experiment in
Mental Health Education, Cambridge, Mass., 1957.
9 E. Goffman, The Presentation o f Self in Everyday Life, New
York, 1959; trad. it. La vita quotidiana come rappresentazione, Bolo-
gna, 19862.
10 V.W. Turner, Schism and Continuity in an African Society,
Manchester, 1957.
II E.R. Leach, Rethinking Anthropology, London, 1961; trad. it.
Nuove vie dell’antropologia, Milano, 1973.
12 J. Middleton, Lugbara Religion, R itm i and Authority among an
East African Pcopie, London, I960.
13 J. Van Wing, Etudcs Bakongo, Bruxelles, 1921 (voi. I), 1938
(voi. II), pp. 359-60; e I. Kopytoff, Family and Lineage among thè Su
ku o f thè Congo, in The Family Estate in Africa, a cura di R.F. Gray e
P.H. Gulliver, London, 1964, p. 90.
14 M. Douglas, The Lcle of thè Rasai, London, 1963.
15 M.G. Marwick, The Social Context o f Cewa Witch Beliefs, in
«Africa», XX II (1952), pp. 215-33.
16 P. Bohannan, Justice and ]udgment among thè Tiv, London,
1957.
17 I.M. Lewis, Dualistii in Somali Notions o f Power, in «Journal of
thè Royal Anthropology Institute», XCIII (1963), pp. 109-16.
18 African Politicai Systems, a cura di M. Fortes e E.E. Evans-
Pritchard, London, 1940, p. 22.
19 E. Westermark, R itm i and Beliefs in Morocco, London, 1926,
I, cap. 2.
20 E. Gellner, Concepts and Society, cit.
21 E. Westermark, R itm i and Beliefs in Morocco, cit., I, p. 198.

183
Pericoli e poteri

22 R. Firth, The Analysis o f Matta: An Empirical Approach, in


(1940), p p . 483-510.
« J o u r n a l o f P o ly n esian S o c ie ty », X L I X
23 V P L Grònbech, The Culture o f thè Teutons, London, 1931
(ed. originale danese 1909-12), voi. I, cap. 4.

184
Capitolo settimo

I confini esterni

Il concetto di società è un’immagine potente: è poten-


te nel suo stesso diritto di controllare o di spingere gli
uomini all’azione. Questa immagine è dotata di forma, di
confini esterni, di margini, di una struttura interna. Il suo
schema ha il potere di premiare il conformismo e di re-
spingere ogni attacco. Vi è dell’energia nei suoi margini e
nei suoi spazi non strutturati. Ogni esperienza che l’uomo
ha di struttura, margini o confini è pronta ad essere ado-
perata come simbolo della società.
Van Gennep dimostra come le soglie simboleggino l’i-
nizio di nuovi status '. Perché lo sposo porta la sposa in
braccio dentro la casa? Perché il gradino, la trave e gli
stipiti della porta creano una cornice che è la condizione
necessaria ogni giorno per entrare in casa. L ’esperienza
casalinga di attraversare una porta può esprimere tanti ti-
pi di entrate, e così pure i crocicchi e gli archi, le nuove
stagioni, gli abiti nuovi e così via. Nessuna esperienza è
troppo bassa da non poter essere assunta a rituale e rive-
stire così un significato sublime. Più personale e intima è
la fonte del simbolismo rituale, più espressivo è il messag-
gio; tanto più il simbolo è tratto da un fondo comune di
esperienza umana, tanto più ampia e sicura sarà la sua
ricezione.
La struttura degli organismi viventi è più adatta a ri-
specchiare delle forme sociali complesse di quanto non
siano gli stipiti e gli architravi. Pertanto si riscontra che i
rituali del sacrificio specificano quale tipo di animale do-
vrà essere usato, se giovane o vecchio, se maschio o fem-
mina o castrato, e che queste norme esemplificano i vari
aspetti della situazione da cui è richiesto un sacrificio.
Anche il modo di uccidere l’animale viene determinato: i
Dinka tagliano la bestia nel senso della lunghezza attra-

185
I contini esterni

verso gli organi sessuali se il sacrificio è fatto allo scopo


di annullare gli effetti di un incesto; la tagliano trasversal-
mente lungo la linea mediana per celebrare una tregua; la
strozzano in certe occasioni e la calpestano fino ad ucci-
derla in certe altre. Ancora più diretto è il simbolismo
che si opera sul corpo umano. Il corpo è un modello che
può valere per qualsiasi sistema circoscritto: i suoi confini
possono servire a raffigurare tutti i confini minacciati e
precari. Il corpo è una struttura complessa: le funzioni
delle sue diverse parti e le relazioni tra esse forniscono
una gamma di simboli per altre strutture complesse. Noi
non possiamo interpretare i rituali che riguardano gli
escrementi, il latte materno, la saliva e così via, se non
siamo preparati a guardare al corpo come a un simbolo
della società e a vedere i poteri e i pericoli su cui si fonda
la struttura sociale riprodotti in miniatura nel corpo unta-
no.
È facile constatare come il corpo di un bove sacrifica-
le venga usato come diagramma di una situazione sociale;
ma quando noi cerchiamo di interpretare allo stesso mo-
do i rituali del corpo umano, la tradizione psicologica di-
stoglie il suo interesse dalla società rivolgendosi nuova-
mente all’individuo: i rituali pubblici possono esprimere i
pubblici interessi quando usano stipiti inanimati o sacrifi-
ci animali, ma i rituali pubblici operati sul corpo umano
esprimono - a quanto si ritiene - interessi privati e perso-
nali. Non si può giustificare questo cambiamento di inter-
pretazione solo con il fatto che i rituali passano per la
carne umana. Per quanto ne sappiamo, questo problema
non è mai stato analizzato con metodo. I suoi sostenitori
partono semplicemente da presupposti mai messi in dub-
bio e che derivano dalla marcata analogia di certe forme
rituali con il comportamento degli psicopatici. Si parte
quindi dal presupposto che in un certo senso la cultura
primitiva corrisponde agli stadi infantili dello sviluppo
della psiche umana. Di conseguenza tali riti si interpreta-
no come se esprimessero le stesse preoccupazioni che af-
follano la mente degli psicopatici o dei bambini.
Mi si conceda ora di prendere in considerazione due

186
I confini esterni

recenti tentativi di utilizzare le culture primitive per aval-


lare delle intuizioni psicologiche: scaturiscono tutti e due
da una lunga serie di discussioni analoghe e sono entram-
bi fuorviami, poiché la relazione tra la cultura e la psiche
umana non è stata ancora chiarita.
L ’opera di Bettelheim, Symbolic Wounds, è soprattutto
un’interpretazione di riti di circoncisione e di iniziazio-
ne 2. L ’autore si propone di utilizzare i rituali stereotipati
degli Australiani e degli Africani per far luce sui fenomeni
psicologici. Il suo interesse si rivolge in particolare a di-
mostrare che gli psicoanalisti hanno eccessivamente ac-
centuato l’invidia del pene nelle bambine e hanno chiuso
gli occhi sull’importanza dell’invidia maschile del sesso
femminile. L ’idea gli fu originariamente offerta dallo stu-
dio di gruppi di bambini schizofrenici prossimi all’adole-
scenza. Questo concetto è assai probabilmente valido ed
importante, e non ho certo la pretesa di criticare la capa-
cità dell’autore di interpretare la schizofrenia; ma quando
egli sostiene che i rituali che sono esplicitamente designati
a produrre un’emorragia dei genitali nei maschi intendo-
no esprimere l’invidia maschile dell’apparato riproduttivo
femminile, l’antropologo dovrebbe obiettare che questo
tipo di interpretazione del rito pubblico non è appropria-
ta; non è appropriata perché è puramente descrittiva. Ciò
che è scolpito nella carne umana è un’immagine della so-
cietà, e nelle tribù che egli considera, i Murgnin e gli
Arunta - tribù divise in metà e in sezioni - sembra più
probabile che i riti pubblici intendano simboleggiare la
simmetria delle due metà della società.
L ’altro libro è Life Against Death, nel quale Brown
tratteggia un paragone esplicito tra la cultura dell’«uomo
arcaico» e la nostra, nei termini delle fantasie infantili e
nevrotiche che quest’ultima esprime 3. Il pregiudizio che
esse hanno in comune riguardo le culture primitive deriva
da Roheim 4: la cultura primitiva è autoplastica, la nostra
è alloplastica. I primitivi cercano di soddisfare i loro desi-
deri con l’automanipolazione, ed eseguono sul proprio
corpo dei rituali chirurgici per ottenere la fertilità nella
natura, la subordinazione delle donne o il successo per i

187
I conjini esterni

cacciatori. Nella cultura moderna noi cerchiamo di soddi-


sfare i nostri desideri agendo direttamente sull’ambiente
esterno, con gli imponenti risultati tecnici che costituisco-
no la più evidente distinzione tra i due tipi di cultura.
Bettelheim accetta questa schematica distinzione tra il ri-
tuale e l’orientamento tecnicistico proprio della civiltà, ri-
tenendo però che la cultura primitiva sia prodotta da per-
sonalità incapaci e immature, e inoltre che le carenze psi-
cologiche del selvaggio siano una causa delle sue limitate
acquisizioni tecniche:
Se le popolazioni prealfabetizzate avessero avuto una strut-
tura della personalità com plessa come quella dell’uom o m oder-
no, se le loro difese fossero state altrettanto elaborate e la loro
coscienza così raffinata ed esigente, se l’interrelazione dinamica
tra ego, superego e id fosse stata così com plessa, e se il loro
ego fosse stato così ben adattato a scontrarsi con la realtà ester-
na e a modificarla, allora esse avrebbero sviluppato delle società
egualmente com plesse, per quanto con ogni probabilità diffe-
renti. L e loro società sono com unque rimaste piccole e relativa-
m ente impotenti ad affrontare l’am biente esterno. Forse una
delle ragioni sta nella tendenza che hanno questi popoli a tenta-
re di risolvere i problem i con una m anipolazione autoplastica
invece che alloplastica 5.

Ci sia concesso di affermare ancora, come hanno fatto


prima di me molti antropologi, che non c’è alcuna base
per sostenere che la cultura primitiva come tale è il pro-
dotto di un tipo primitivo di individuo, la cui personalità
rassomiglia a quella dei bambini o dei nevrotici, e sfidia-
mo gli psicologi a dirci su quale ragionamento si possa
basare tale ipotesi. L ’intera discussione si basa sul presup-
posto che i problemi da risolvere attraverso i rituali sono
problemi psicologici personali. Bettelheim infatti continua
paragonando il ritualista primitivo al bambino che si pic-
chia la testa quando è frustrato, e tale presupposto forma
la base di tutto il libro.
Brown accetta lo stesso presupposto, ma la sua discus-
sione è più sottile; egli non si basa sull’assunto che la
condizione primitiva della cultura sia determinata da tratti
personali individuali; al contrario, egli ammette molto

188
I confini esterni

correttamente l’effetto che il condizionamento culturale


ha sulla personalità individuale. Tuttavia, col procedere
della sua analisi egli guarda all’intera cultura come se, nel-
la sua totalità, essa potesse essere paragonata a un bambi-
no o a un adulto ritardato. Il primitivo ricorre alla magia
corporale per esaudire i suoi desideri: sarebbe uno stadio
di evoluzione culturale paragonabile a quello dell’eroti-
smo anale infantile. Partendo dall’assioma che «la sessua-
lità infantile è una compensazione alloplastica per la per-
dita dell’Altro; la sublimazione è una compensazione allo-
plastica della perdita del Sé» 6, egli continua col sostenere
che la «cultura arcaica» tende allo stesso scopo della ses-
sualità infantile, cioè alla fuga dalla dura realtà della per-
dita, della separazione e della morte. Gli epigrammi sono
oscuri, per loro stessa natura; questo, poi, è un altro mo-
do di accostarsi alla cultura primitiva che mi piacerebbe
vedere espresso chiaramente. Brown sviluppa il tema solo
brevemente, come segue:

L’uomo arcaico si preoccupa del complesso di castrazione,


del tabù dell’incesto e della desessualizzazione del pene, cioè
della trasformazione degli impulsi genitali in quella libido inibi-
ta degli scopi che regge il sistema delle parentele in cui è in-
quadrata la vita arcaica. Il basso grado di sublimazione, che
corrisponde al basso livello tecnologico, significa, alla luce delle
nostre precedenti definizioni, un Io più debole, un Io che non
ha ancora risolto (mediante la negazione) il problema degli im-
pulsi pregenitali del proprio corpo ... Ne risulta che questi im-
pulsi, cioè tutti i desideri fantastici del narcisismo infantile, si
esprimono in una forma non sublimata, di modo che l’uomo
arcaico conserva il corpo magico dell’infanzia 1.

Queste fantasie presuppongono che il corpo potrebbe


esaudire da sé il desiderio infantile di un piacere intermi-
nabile che si appaga di se stesso: sono una fuga dalla real-
tà, un rifiuto di affrontare la perdita, la separazione, la
morte. L ’ego si sviluppa sublimando queste fantasie: mor-
tifica il corpo, nega la magia degli escrementi, e in questa
misura riesce ad affrontare la realtà; ma la sublimazione
presenta un’altra serie di fini e mete irreali sostitutivi, of-

189
1 confini esterni

frendo al Sé un altro tipo di falsa salvezza dalla perdita,


dalla separazione e dalla morte, se ho ben compreso lo
svolgimento della discussione. Tanto maggiore è la quan-
tità di materiale che una tecnologia elaborata ha posto tra
noi e la soddisfazione dei nostri desideri infantili, tanto
più lavoro avrà fatto la sublimazione. Ma il postulato con-
trario sembra discutibile: possiamo forse sostenere che
meno sviluppata è la base materiale della civiltà, minore è
stata l’attività della sublimazione? Quale precisa analogia
con le fantasie infantili si può ritenere valida per una cul-
tura primitiva basata su una tecnologia primitiva? Come
mai un basso livello tecnologico implica «un Io che non
ha ancora risolto (mediante la negazione) il problema de-
gli impulsi genitali del proprio corpo»? In che senso una
cultura è più sublimata di un’altra?
Queste sono evidentemente questioni tecniche in cui
l’antropologo non può impegnarsi, ma almeno su due
punti egli ha qualcosa da dire: uno è il problema se si
possa veramente affermare che le culture primitive si di-
vertono con la magia degli escrementi, ma a ciò si può
rispondere sicuramente di no. L ’altro problema è se le
culture primitive siano in cerca di una fuga dalla realtà.
Forse che esse adoperano la magia, quella degli escremen-
ti o un’altra, per compensare lo scarso successo dei loro
sforzi sull’ambiente esterno? La risposta è di nuovo no.
Quanto alla magia degli escrementi, innanzi tutto, l’in-
formazione è deformata, in primo luogo per quanto ri-
guarda l’enfasi relativa che si pone sul tema simbolico del
corpo, distinguendolo da altri temi simbolici, e in secon-
do luogo per quanto riguarda l’atteggiamento positivo o
negativo verso il rifiuto del corpo che si osserva nel ritua-
le primitivo.
Consideriamo in primo luogo l’ultimo punto: l’uso de-
gli escrementi e di altri rifiuti corporei nelle culture pri-
mitive è di solito incompatibile con i temi della fantasia
erotica infantile. Ben lungi dal trattare escrementi e altro
materiale del genere come una fonte di gratificazione, si
tende invece a condannarne l’uso. Il potere che risiede ai
margini del corpo non viene per nulla ritenuto uno stru-

190
I confini esterni

mento di piacere, ma deve piuttosto essere evitato. Una


lettura disattenta dei testi di antropologia può dar adito
ad impressioni erronee, per due ragioni fondamentali: la
prima a causa delle deformazioni indotte dall’informatore,
e la seconda a causa di quelle introdotte dall’osservatore.
Si crede che gli stregoni usino i rifiuti corporei per
perseguire i loro desideri nefandi; certo in questo senso la
magia degli escrementi viene incontro ai desideri di colui
che ne fa uso, ma le informazioni sulla stregoneria sono
di norma fornite dal punto di vista della vittima. Si posso-
no sempre ottenere dei resoconti estremamente vividi sul-
la materia medica della stregoneria, da parte delle suppo-
ste vittime, ma sono sempre più rari i ricettari di incante-
simi dettati da stregoni dichiarati. Si può sospettare che
altri usino rifiuti corporei illegalmente contro di sé, ma
ciò non significa che gli informatori pensino di poter di-
sporre essi stessi di questi materiali. Così una specie di
illusione ottica la apparire sulla parte positiva del bilancio
ciò che sta sulla parte negativa.
C ’è anche una tendenza dell’osservatore ad esagerare
la misura in cui le culture primitive fanno un uso magico
dei resti corporei. Per varie ragioni più note agli psicolo-
gi, ogni riferimento alla magia che riguarda gli escrementi
sembra balzare all’occhio del lettore e assorbire la sua at-
tenzione. Si introduce così una seconda deformazione.
L ’estrema ricchezza ed estensibilità del simbolismo tende
ad essere sottovalutata, o ad essere assimilata a pochi
princìpi escatologici. Consideriamo come esempio di que-
sta tendenza la discussione dello stesso Brown del mito
del Briccone degli Indiani Winnebago di cui abbiamo
parlato nel V capitolo. Nella lunga serie delle avventure
del Briccone avvengono solo due o tre volte degli episodi
di analità, uno dei quali è quello da me citato in cui il
Briccone tratta il suo ano come una persona distinta da
sé. L ’impressione che Brown trae dal mito è così diversa
che in un primo tempo avevo creduto erroneamente che,
per un’esigenza di erudito, egli avesse voluto risalire ad
una fonte ancor più originaria di quella di Radin, dal mo-
mento che afferma che «Il Briccone delle mitologie primi-

191
I confini esterni

tive è circondato da un’analità non sublimata e non ma-


scherata» \
Secondo quanto sostiene Brown, il Briccone dei Win-
nebago, che è anche un grande eroe culturale, «può crea-
re il mondo con uno sporco trucco, con le feci... il fango
e l’argilla» 9. Egli cita come esempio un episodio in cui il
Briccone disobbedisce all’avvertimento di non mangiare
un certo bulbo che gli a\rrebbe riempito di aria la pancia,
per cui, ad ogni eruzione, si solleva sempre più in alto;
egli chiama gli uomini perché lo tengano giù, ma poi, per
tutta riconoscenza per il loro tentativo di aiutarlo, con
un’ultima, definitiva eruzione egli li scaraventa tutti in
ogni direzione. Si cercherà invano nella storia, così come
è narrata da Radin, un segno che la defecazione del Bric-
cone sia in qualche modo creativa: essa è piuttosto di-
struttiva. Si vedano il glossario e l’introduzione di Radin e
si apprenderà che il Briccone non ha creato il mondo e
non è affatto un eroe culturale in alcun senso. Radin attri-
buisce all’episodio citato una morale negativa, nel com-
plesso, e coerente col tema dello sviluppo graduale del
Briccone come essere sociale. Questo può bastare per la
tendenza a leggere nelle culture primitive troppa magia
degli escrementi.
Il punto successivo, che riguarda i paralleli culturali
con l’erotismo anale, sta nel chiedersi in che senso le cul-
ture primitive sono in fuga dalle realtà di separazione e di
perdita. Cercano forse di ignorare l’unità della vita e della
morte? Al contrario, la mia impressione è che questi ri-
tuali che più esplicitamente attribuiscono dei poteri alla
materia corrotta sono invece quelli che più si sforzano di
ammettere la completezza fisica della realtà. Ben lungi
dall’adoperare la magia del corpo come una fuga, le cul-
ture che apertamente elaborano dei simbolismi corporei
se ne servono, a ben guardare, per fronteggiare l’esperien-
za, con tutte le sofferenze e le perdite che essa inevitabil-
mente comporta. Questi sono i mezzi con cui i primitivi
affrontano i grandi paradossi dell’esistenza, come dimo-
strerò nel prossimo capitolo. Qui sfioro solo brevemente
l’argomento, poiché si riconduce a quello della psicologia

192
I confini esterni

infantile come segue: nella misura in cui l’etnografia affer-


ma che le culture primitive considerano la sporcizia come
un potere creativo, ciò è in contraddizione con l’idea che
questi temi culturali possano essere paragonati alle fanta-
sie della sessualità infantile.
Per correggere le due deformazioni del dato empirico
cui è incline questo argomento, noi dovremmo attenta-
mente classificare i contesti in cui la sporcizia corporea è
ritenuta potente. Essa può venir impiegata ritualmente, a
scopi benefici, nelle mani di chi ha il potere di benedire.
Il sangue, nella religione ebraica, era considerato fonte di
vita, né doveva essere toccato se non nelle condizioni san-
te del sacrificio; talvolta lo sputo di una persona che oc-
cupa una posizione chiave si crede abbia l’effetto di bene-
dire; talvolta il cadavere dell’ultimo sovrano fornisce il
materiale per ungere il suo regale successore. Per esem-
pio, il cadavere putrefatto dell’ultima regina Lodevu, dei
monti del Drakensberg, è utilizzato come ingrediente per
cuocere certi unguenti che conferiscono alla regina suc-
cessiva un potere sulle condizioni meteorologiche 10. Que-
sti esempi si potrebbero moltiplicare; essi ripropongono
l’analisi, fatta nel capitolo precedente, dei poteri attribuiti
alla struttura religiosa o sociale per sua stessa difesa. Lo
stesso valga per l’impiego del sudiciume corporeo come
strumento rituale di offesa. Esso può essere attribuito ai
titolari di posizioni chiave al fine di difendere la struttura,
o a stregoni che abusino del ruolo che rivestono nella
struttura stessa o, ancora, agli emarginati che, trovandosi
nei punti deboli della struttura, lancino pezzi di osso ed
altro materiale.
Ma a questo punto abbiamo in mano gli strumenti per-
mettere in discussione la questione centrale: perché i ri-
fiuti corporei dovrebbero essere un simbolo di pericolo e
di potere? Perché mai la qualifica di stregone si dovrebbe
acquisire attraverso un'iniziazione che comporta spargi-
menti di sangue, incesti e antropofagia? Perché, dopo tale
iniziazione, la loro arte dovrebbe consistere in gran parte
nel manovrare dei poteri che si ritengono inerenti ai mar-
gini del corpo umano? Perché i margini del corpo umano

193
I confini esterni

si dovrebbero ritenere investiti in modo speciale di poteri


e di pericoli?
In primo luogo possiamo escludere la nozione che i
rituali pubblici esprimano comuni fantasie infantili. Que-
sti desideri erotici, che si dice rappresentino il sogno del
bambino di trovare soddisfazione all’interno dei confini
corporei, sono presumibilmente comuni alla razza umana.
Di conseguenza la simbologia corporea fa parte della co-
mune riserva di simboli che, grazie all’esperienza dell'in-
dividuo, è profondamente legata all’emotività. Ma i rituali
attuano una selezione in questa comune riserva di simbo-
li. Certi si sviluppano in un luogo, altri in un altro, e le
spiegazioni psicologiche, per loro stessa natura, non pos-
sono decidere che cosa è culturalmente significativo.
In secondo luogo, tutti i margini sono fonte di perico-
lo. Se vengono modificati in un modo o in un altro, ne
viene alterata la struttura della esperienza fondamentale.
Ogni struttura concettuale è vulnerabile ai suoi confini.
Ci si dovrebbe aspettare che gli orifizi del corpo simbo-
leggino i suoi punti di speciale vulnerabilità. Il materiale
che essi emettono è sostanza marginale del tipo più ovvio:
sputo, sangue, latte, urina, feci o lacrime hanno attraver-
sato i confini del corpo uscendo semplicemente all’ester-
no. La stessa cosa vale per i pezzi tagliati, come le unghie,
la pelle, i capelli recisi e per il sudore. L ’errore sta nel
considerare i margini del corpo isolatamente da tutti gli
altri margini. Non c’è ragione di supporre che vi sia per
l’atteggiamento dell’individuo verso il proprio corpo e la
propria esperienza emotiva una priorità rispetto alla sua
esperienza culturale e sociale. E questo il punto che spie-
ga la disparità con cui vengono considerati i diversi aspet-
ti del corpo nei rituali del mondo: in certuni la contami-
nazione mestruale è temuta come un pericolo mortale; in
altri non lo è affatto n. In taluni di essi, la contaminazio-
ne conseguente alla morte costituisce la preoccupazione
di ogni giorno, in altri no. Secondo certi riti gli escremen-
ti sono pericolosi; secondo altri non sono che un oggetto
di scherzo. In India il cibo cotto e la saliva sono facili a
contaminarsi, ma i Boscimani conservano i semi di melo-

194
I conlini edemi

ne che si tolgono dalla bocca per arrostirli e mangiarli in


seguito l2. Ogni cultura presenta specifici rischi c proble-
mi; a quali particolari confini corporei le sue credenze at-
tribuiscano potere dipende da qual è la situazione che il
corpo rispecchia: a quanto pare, i nostri timori e desideri
più profondi si manifestano con una sorta di geniale abili-
tà. Per comprendere la contaminazione corporale dobbia-
mo cercare di ragionare partendo dagli ignoti pericoli del-
la società per giungere alla nota selezione di temi corpo-
rei, e cercare così di riconoscere quale corrispondenza vi
sia.
Perseguendo un’estrema riduzione di tutti i comporta-
menti alle preoccupazioni personali degli individui per il
proprio corpo, gli psicologi stanno semplicemente facen-
do fino in fondo il loro mestiere.
Contro la psicoanalisi è stata fatta l’ironica osservazione che
l’inconscio vede un pene in ogni oggetto convesso e una vagina
o un ano in ogni oggetto concavo. Mi pare che questa defini-
zione caratterizzi bene i fatti come stanno 13.
È dovere di ogni artigiano adoprare fino all’ultimo i
suoi strumenti: i sociologi hanno il dovere di misurare il
proprio con un altro tipo di riduzionismo. Come è vero
che ogni cosa è simbolo del corpo, è altrettanto vero (e lo
è tanto più per questa ragione) che il corpo simboleggia
ogni altra cosa. Al di là di questo simbolismo - se ci ad-
dentriamo sempre più nei suoi significati più reconditi ci
si rivela l’esperienza del Sé con il suo corpo - il sociologo
è giustificato se tenta di lavorare nella direzione opposta
per trarne dei piani interpretativi sull’esperienza del Sé
nella società.
Se l’erotismo anale si esprime a livello culturale, non
per questo saremo autorizzati ad aspettarci una popola-
zione di individui erotici anali. Dobbiamo cercare invece
tutto quanto ha reso opportuna qualsiasi analogia cultura-
le con l’erotismo anale. Il procedimento è simile, in forma
più modesta, a quello che Freud applica all’analisi dei
motti di spirito. Cercando una connessione tra la forma
verbale ed il divertimento che ne deriva, egli aveva fatico-

195
I confini esterni

samente ridotto l’interpretazione delle battute spiritose a


poche regole generali. Nessun commediografo si servireb-
be di tali regole per inventare delle battute, ma esse ci
aiutano tuttavia a trovare certe connessioni tra il riso, l’in-
conscio e la struttura delle storielle. L ’analogia è valida
perché la contaminazione è come una forma di umorismo
capovolta: non è una battuta perché non diverte, ma la
struttura del suo simbolismo si avvale del paragone e del
doppio senso proprio come la struttura di una battuta.
Sembra sia utile distinguere quattro tipi di contamina-
zione sociale: il primo è il pericolo che preme sui confini
esterni; il secondo è il pericolo che deriva dalla trasgres-
sione delle linee interne del sistema; il terzo è il pericolo
presente nei margini delle linee; il quarto è il pericolo
causato dalla contraddizione interna, quando certi postu-
lati fondamentali vengono negati da altri postulati fonda-
mentali, in modo tale che in certi punti il sistema sembra
in conflitto con se stesso. Nel presente capitolo mi pro-
pongo di dimostrare come il simbolismo dei confini del
corpo è utilizzato, in questo tipo di spirito che non diver-
te, per esprimere il pericolo per i confini della comunità.
La vita rituale dei Coorg dà l’impressione di un popo-
lo ossessionato dal timore che pericolose impurità penetri-
no nel loro sistema 14. Essi considerano il corpo come se
fosse una città stretta d’assedio e come se ogni entrata
fosse insidiata da spie e da traditori. Ogni prodotto del
corpo non deve mai esservi reimmesso e deve essere asso-
lutamente evitato. La contaminazione più pericolosa ri-
guarda tutto ciò che, essendone originariamente uscito,
cerchi di ritornarvi. Un piccolo mito, banale sotto altri
punti di vista, è così utile per giustificare gran parte del
comportamento e del sistema di pensiero dei Coorg che
l’etnografo è costretto a citarlo più volte. Una dea sconfis-
se i suoi due fratelli in ogni genere di gare di forza e di
astuzia. Poiché la futura supremazia dipendeva dall’esito
di queste dispute, essi decisero di sconfiggerla con uno
stratagemma. Ella si lasciò giocare togliendosi di bocca il
betel che stava masticando, per vedere se era più rosso
del loro, e rimettendolo in bocca. Quando si accorse di

1%
I confini esterni

aver mangiato qualcosa che era già stato nella sua bocca
ed era quindi contaminato dalla saliva, ruppe in pianti e
in lamenti, ma accettò pienamente la propria sconfitta.
Questo errore aveva annullato tutte le sue vittorie prece-
denti, per cui fu stabilita di diritto l’eterna supremazia dei
fratelli su di lei.
I Coorg hanno un posto nel sistema delle caste indù.
Vi sono buone ragioni per non considerarli un’eccezione
o un’aberrazione nell’India indù 15. Essi, pertanto, conce-
piscono lo status in termini di purezza e di impurità, poi-
ché questi concetti sono indistintamente validi in tutto il
regime delle caste. Le caste più basse sono le più impure,
e sono proprio gli umili servizi dei loro membri che ren-
dono le caste superiori libere dalle impurità corporali; es-
si infatti lavano i panni, tagliano i capelli, vestono i cada-
veri, e così via. L ’intero sistema rappresenta un corpo in
cui, grazie alla divisione del lavoro, il capo pensa e prega
e le parti più disprezzate rimuovono i rifiuti. Ogni comu-
nità di sottocasta in una certa località è consapevole della
sua posizione relativa nella scala della purezza. Visto dalla
posizione che ha il soggetto, il sistema della purezza ca-
stale è strutturato verso l’alto. Quelli che lo sovrastano so-
no i più puri. Tutte le posizioni inferiori, sia pure a mala-
pena distinguibili luna dall’altra, sono per lui fonte di
contaminazione. Così, per ogni soggetto nel sistema, la
minacciosa non struttura contro la quale devono venire
erette delle barriere si trova sotto di sé. Il tetro spirito
della contaminazione, esprimendosi a proposito delle fun-
zioni corporee, simboleggia una discesa lungo la struttura
castale attraverso il contatto con feci, sangue e cadaveri.
I Coorg condividevano con altre caste questo timore
di ciò che era al di fuori e al di sotto di loro, ma, vivendo
nel rifugio della loro montagna, essi erano una comunità
isolata che aveva solo dei contatti occasionali e controlla-
bili con il mondo circostante. Per loro l'esempio costitui-
to dalle uscite e dalle entrate del corpo umano è un cen-
tro simbolico di timori, doppiamente adatto per rappre-
sentare la loro minoranza all’interno della società più va-
sta. Voglio intendere con questo che quando i rituali

197
I confini esterni

esprimono un’angoscia per gli orifizi corporei, il corri-


spondente sociologico di tale angoscia è la preoccupazio-
ne di proteggere l’unità strutturale e politica di una mino-
ranza. Gli Ebrei furono sempre, nella loro storia, una mi-
noranza soggetta a forti pressioni. Nelle loro credenze tut-
ti i prodotti corporei erano contaminanti, come il sangue,
il pus, gli escrementi, lo sperma e così via. Le minacce
che premevano ai confini della loro struttura politica ben
si riflettono nella loro preoccupazione per l’integrità, l’u-
nità e la purezza del loro corpo fisico.
Il sistema castale indù, includendo tutte le minoranze,
comprende ognuna di esse come una sub-unità culturale
caratteristica. E probabile che in una certa località ogni
sottocasta divenga una minoranza. Quanto più pura e più
alta è la sua posizione castale, tanto più essa deve essere
una minoranza. Di conseguenza la repulsione provocata
dal contatto con i cadaveri e con gli escrementi non espri-
me esclusivamente l’ordine castale nel sistema complessi-
vo: l’angoscia per i margini esterni esprime il pericolo per
la sopravvivenza del gruppo.
Che l’approccio sociologico alla contaminazione casta-
le sia molto più convincente di un approccio psicoanaliti-
co è chiaro quando consideriamo quali siano gli atteggia-
menti privati degli Indiani nei confronti della defecazione.
Noi sappiamo che, secondo il rito, toccare l’escremento
significa essere contaminato e che i pulitori di latrine si
trovano nel grado più basso della gerarchia castale. Se
questa regola di contaminazione esprimesse le angosce in-
dividuali dovremmo aspettarci che gli indù siano control-
lati e discreti circa l’atto della defecazione. Ci lascia ester-
refatti leggere invece che il loro normale atteggiamento
prevede una sciatta indifferenza, a tal punto che i pavi-
menti, le verande e i luoghi pubblici sono insudiciati dalle
feci finché non arriva lo spazzino.

Gli Indiani defecano ovunque; per lo più lungo i binari del-


la ferrovia, ma anche sulle spiagge, senza mai cercare di coprir-
si... Di queste figure accosciate - eterne ed emblematiche dopo
qualche tempo agli occhi del visitatore, come il Pensatore di

198
I confini esterni

Rodin - non si parla mai, non si scrive mai; e neppure se ne fa


cenno nei racconti e nei romanzi, non appaiono neppure nei
film di costume o nei documentari; e ciò può essere dovuto a
motivi abbastanza comprensibili. Ma la verità è che gli Indiani
non vedono queste persone accoccolate e possono con assoluta
sincerità negarne l’esistenza 16.
Più che erotismo orale o anale è verosimile che la
contaminazione tra le caste sia ciò che dice di essere: un
sistema simbolico, basato suU’immagine del corpo, il cui
fine principale è l’ordine di una gerarchia sociale.
Vale la pena di usare l’esempio degli Indiani per chie-
derci come mai la saliva e le escrezioni genitali siano più
contaminanti delle lacrime. «Se posso bere fervidamente
le sue lacrime», scrisse Jean Genet, «perché non posso
bere la limpida goccia sulla punta del suo naso?» 17. A ciò
possiamo rispondere che, in primo luogo, le secrezioni
nasali non sono limpide come le lacrime: assomigliano più
a sciroppo che non ad acqua. Il denso muco che stilla
dagli occhi non è più poetico del muco nasale. Ma am-
mettiamo che le lacrime che sgorgano limpide e copiose
meritino tutto l’interesse della poesia romantica e che non
contaminino; ciò è dovuto parzialmente al fatto che le la-
crime sono naturalmente preinvestite dal simbolismo del
lavacro: le lacrime sono come fiumi di acqua corrente.
Purificano, detergono, bagnano gli occhi e quindi come
possono contaminare? Ma, cosa più significativa, le lacri-
me non sono connesse con le funzioni corporali della di-
gestione o della procreazione. Pertanto le possibilità che
esse hanno di simboleggiare i rapporti e i processi sociali
è più ristretta. Ciò appare evidente se pensiamo alla strut-
tura castale. Il posto nella gerarchia della purezza viene
trasmesso per via biologica, e quindi il comportamento
sessuale è importante per preservare la purezza della ca-
sta. Questa è la ragione per cui nelle caste superiori la
contaminazione dei confini si accentra particolarmente
sulla sessualità. L ’appartenenza di un individuo a una ca-
sta è determinata dalla madre; infatti, anche se suo marito
appartenesse a una casta più elevata, i figli appartengono
alla casta di lei. Perciò le donne sono il mezzo per entrare

199
I confini esterni

in una casta. La purezza femminile è accuratamente con-


trollata e una donna che abbia avuto rapporti sessuali con
un uomo di casta inferiore alla sua viene punita brutal-
mente. La purezza sessuale maschile non ha questo tipo
di responsabilità; ragion per cui la promiscuità maschile è
meno grave. Un semplice bagno rituale è sufficiente per
purificare un uomo dal contatto sessuale con una donna
di bassa casta. Ma la sua sessualità non sfugge del tutto al
carico di preoccupazioni che la contaminazione dei confi-
ni comporta per il corpo. Le credenze indù conferiscono
al seme una qualità sacra che non deve essere sciupata. In
un penetrante saggio sulla purezza femminile in India
Yalman dice 18:
Mentre nelle donne la purezza castale deve essere protetta e
agli uomini può essere concessa molta più libertà, è natural-
mente meglio per gli uomini non sciupare la qualità sacra del
loro seme. Si sa bene che li si consiglia di tenersi lontani non
solo da donne di bassa casta, ma da tutte le donne 19. Poiché la
perdita del seme significa la perdita di questa sostanza poten-
te... è meglio non andare mai assolutamente a letto con donne.

Tanto la fisiologia maschile che quella femminile si


prestano all’analogia con il recipiente che non deve spar-
gere né diluire i suoi liquidi vitali. A dire il vero le donne
sono considerate letteralmente come l’apertura attraverso
la quale si può adulterare la purezza del contenuto. Gli
uomini sono considerati come i pori dai quali può stillare
all’esterno la sostanza preziosa e andare perduta, indebo-
lendo in tal modo tutto il sistema.
Alle infrazioni sessuali si applica spesso un duplice
metro di giudizio. In un sistema di discendenza patrilinea-
re le mogli rappresentano la porta d’entrata al gruppo.
Quanto a questo, esse detengono una posizione analoga a
quella delle sorelle nelle caste indù. Con l’adulterio di
una moglie si introduce sangue impuro nella stirpe, per
cui il simbolismo del vaso difettoso non a caso è più pe-
sante per le donne che non per gli uomini.
Se consideriamo la protezione rituale degli orifizi cor-
porei come simbolo della preoccupazione sociale riguar-

200
I confini esterni

dante le uscite e le entrate, diviene importante la purezza


dei cibi cotti. Riferisco un passo a proposito della facilità
del cibo cotto ad essere contaminato o a trasmettere la
contaminazione.
Quando un uomo usa un oggetto, questo diviene parte di
lui, partecipa della sua persona; quindi, senza dubbio, questa
appropriazione è molto più intima nel caso del cibo, ed è im-
portante che l’appropriazione precede l’assimilazione e accom-
pagna la coltura. Si può pensare che la cottura implichi la com-
pleta appropriazione del cibo da parte della famiglia: è come
se, prima di essere «assorbito internamente» dall’individuo, il
cibo fosse, con la cottura, collettivamente predigerito. Non si
può dividere un pasto preparato da persone di cui non si con-
divide la natura. Questo è un aspetto della situazione; l’altro è
che il cibo cotto è estremamente permeabile alla contaminazio-
„„ 20

Troviamo qui una corretta trascrizione del simbolismo


indiano riguardante la contaminazione del cibo cotto: ma
che vantaggio c’è nel presentare un’analisi descrittiva co-
me se fosse esplicativa? In India il procedimento di cottu-
ra dei cibi è visto come l’inizio dell’ingestione e, di conse-
guenza, l’atto del cucinare è suscettibile di contaminazio-
ne allo stesso modo in cui lo è quello del mangiare. Ma
perché questo complesso si riscontra in India, in certe zo-
ne della Polinesia, nei contesti giudaici e in altri luoghi,
ma non si trova dovunque gli uomini si siedano a mangia-
re? A mio parere il cibo non è affatto contaminante, pro-
babilmente, a meno che i confini esterni del sistema so-
ciale non siano sottoposti a pressioni. Possiamo anche
tentare di spiegare perché in India il solo fatto di cucina-
re il cibo debba essere puro per motivi rituali. La purezza
delle caste è correlata con una complicata divisione del
lavoro, che è ereditaria. Il lavoro svolto da ogni casta ha
un peso simbolico: dice qualcosa in merito alla condizio-
ne di relativa purezza della casta in questione. Certi tipi
di lavoro corrispondono alle funzioni escretorie del corpo,
per esempio quello dei lavandai, dei barbieri, degli spazzi-
ni, come abbiamo visto. Certe attività hanno a che fare
con spargimenti di sangue, o con alcoolici, come quelle

201
I confini esterni

dei tintori, dei soldati, dei venditori di vino di palma; co-


storo si trovano perciò in un basso gradino della scala
della purezza, in quanto le loro attività sono contrarie agli
ideali braminici. Ma il punto in cui il cibo è preparato
per la tavola è quello nel quale deve essere chiarita l’inter-
relazione della struttura della purezza con la struttura oc-
cupazionale. Infatti il cibo è prodotto daU’insieme delle
attività di diverse caste che hanno differenti gradi di pu-
rezza: il fabbro, il falegname, il cordaio e il contadino.
Prima di essere ammesso nel corpo è necessaria una chia-
ra frattura simbolica per esprimere la separazione del cibo
dai contatti, necessari ma impuri. Il procedimento di cot-
tura affidato alle sole mani fornisce questa frattura rituale.
Si prevede che vi sarà una frattura del genere tutte le vol-
te che la produzione del cibo sarà nelle mani del relativa-
mente impuro.
Queste sono le linee generali secondo le quali i rituali
primitivi si devono mettere in relazione con l’ordine so-
ciale e con la cultura in cui si incontrano. Gli esempi che
ho citato sono schematici per poter esemplificare una dif-
fusa obiezione a un certo modo attuale di considerare i
temi rituali. Ne aggiungo ancora uno, ancor più schemati-
co, per avvalorare la mia tesi. Molto è stato scritto dagli
psicologi sulle idee di contaminazione degli Y urok21:
questi Indiani del nord della California, che vivevano pe-
scando salmone nel fiume Klamath, sembra siano stati os-
sessionati dal comportamento dei liquidi, se si può dire
che le loro regole di contaminazione esprimano un’osses-
sione. Essi fanno una grande attenzione a non mescolare
l’acqua buona con la cattiva, a non orinare nei fiumi, a
non mescolare l’acqua di mare con l’acqua dolce, ecc. Ri-
badisco che queste regole non possono essere i sintomi di
nevrosi ossessive, e che non possono essere interpretate se
non si tien conto della fluida inlormalità della loro vita
sociale, fortemente competitiva
Per concludere, c’è un’indubbia relazione tra le preoc-
cupazioni individuali e il rituale primitivo, ma la relazione
non è così semplice come hanno postulato taluni psicoa-
nalisti. Il rituale primitivo è tracciato naturalmente in base

202
/ confini esterni

all’esperienza individuale e questa è una verità lapalissia-


na; ma è tracciato in base ad essa in modo così selettivo
che non si può dire che il rituale sia essenzialmente ispi-
rato dall'esigenza di risolvere i problemi individuali comu-
ni alla razza umana e ancora inesplorati dalla ricerca clini-
ca. I primitivi non cercano di curare o di prevenire le lo-
ro nevrosi personali con i rituali pubblici. Gli psicologi
sapranno dirci se la pubblica espressione delle angosce in-
dividuali possa o non possa risolvere i problemi personali.
Certo, non dobbiamo escludere l’eventualità di un’intera-
zione del genere, ma non è questo l’oggetto della nostra
discussione. Non si può intraprendere l’analisi del simbo-
lismo rituale se non si riconosce che il rituale è un tentati-
vo di creare e di mantenere una cultura particolare, un
particolare ordine di postulati attraverso il quale si con-
trolla l’esperienza.
Ogni cultura è una serie di strutture correlate che
comprendono forme sociali, valori, cosmologie, il com-
plesso della conoscenza, e attraverso le quali viene media-
ta tutta l’esperienza. Certi temi culturali trovano espres-
sione in riti di manipolazione corporea. In questo senso
estremamente generale la cultura primitiva si può chiama-
re autoplastica. Ma l’obbiettivo di questi rituali non consi-
ste in un negativo ritrarsi dalla realtà. Le asserzioni fatte
dai rituali non sono utilmente paragonabili alle regressioni
infantili del succhiarsi il pollice e della masturbazione. I
rituali sanciscono la forma delle relazioni sociali e, nel da-
re a queste relazioni una espressione visibile, mettono le
persone in grado di conoscere la loro stessa società. I ri-
tuali influenzano la struttura politica attraverso il medium
simbolico del corpo fisico.

Note

1 A. Van Gennep, Les rites de passage, cit.


2 B. Bettelheim, Symbolic Wounds: Puberty Rites and thè Envious
Male, Glencoe, Illinois, 1954; trad. it. Ferite simboliche, Firenze, San-
soni, 1973.

203
I confini esterni

3 N.O. Brown, Life Against Death, London, 1959; trad. il. La vita
contro la morte, Milano, 1968.
4 G . Roheim, Australian Totemism: A Psycho-analytic Study in
Anthropology , London, 1925.
5 B. Bettelheim, Symbolic Wounds, cit., p. 87.
6 N.O. Brown, La vita contro la morte, cit., p. 253.
7 Ìbidem, p. 427.
8 Ibidem, p. 430.
9 Ibidem, p. 431.
10 E.J. e f.D. Krige, The Realm o f thè Rain Queen, London, 1943,
pp. 273-74.
11 Gir. cap. IX.
12 E. Marshall Thomas, The Harmless People, cit.
13 S. Ferenczi, Sex in Psycho-attalysis, citato da N.O. Brown, La
vita contro la morte, cit., p. 253.
14 M.N. Srinivas, Religion and Society among thè Coorgs of thè
South India, cit., p. 273.
13 L. Dumont e D. Pocock, Pure and Impure, in «Contribution to
Indiati Sociology», li (1959), pp. 7-39.
16 V.S. Naipaul, An Area of Darkness, London, 1964, cap. ni.
17 J. Cenci, Journal dii voleur, Paris, 1949; trad, it. Diario del la-
dro, Milano, Mondadori, 1978.
18 N. Yalman, The Purity of Women in Ceylon and Southern In-
dia, in «Journal of thè Royal Anthropological Institele», XCIII (1963),
pp. 25-58.
19 Cfr. Q.M. Carstairs, Hindu Personality Formatura Unconscious
Processes, in «Revue internationale d’ethno-psychologie normale et pa-
thologique», I (1956), n. 1, pp. 5-18; dello stesso autore, The Twice-
Born: A Study of a Community of High-Caste Hindus, London, 1957; e
E.K. Gough, Female lnitiation Rites on thè Malabar Coast, in «Journal
of thè Royal Anthropological Institene of Great Britain and Ireland»,
LX XX V (1955), nn. 1-2 (dicembre-gennaio).
20 Citato in un articolo non firmato a recensione del citato Pure
and Impure, di L. Dumont e D. Pocock, in «Contribution to Indiati
Sociology», III, luglio 1959, p. 37.
21 Cfr. Erikson e Posinskv, in «Psvchiatric Quarterly», X X X
(1956), p. 598.
22 C. Dubois, The Wealth Concept as an Integrative Factor in To-
lowa-Tututni Culture, in Essays in Anthropology Presenled to A L.
Kroeber, a cura di R.H. Lowie, Berkeley, 193b.

204
Capitolo ottavo

Le linee interne

All’inizio di questo secolo si riteneva che le idee pri-


mitive riguardanti la contaminazione non avessero niente
a che vedere con la morale. Ecco il motivo per cui nel
corso delle discussioni scientifiche si stabilì una particola-
re categoria di rituali chiamata magia. Se si fosse potuto
dimostrare che i riti di contaminazione avevano una qual-
che relazione con la sfera morale, il loro posto sarebbe
stato fissato nel campo della religione. Per completare la
nostra indagine su come la religione primitiva sia passata
nelle mani della prima antropologia, resta da dimostrare
che la religione ha davvero molti punti di contatto con la
morale. E vero che le regole della contaminazione non
corrispondono esattamente alle regole morali. Alcuni tipi
di comportamento possono venire giudicati sbagliati e co-
munque non dare origine a credenze di contaminazione,
mentre altri che non sono considerati molto deprecabili
vengono ritenuti contaminanti e pericolosi. Può accadere
di trovare poi che ciò che è male è anche contaminante.
Le regole di contaminazione illuminano a pieno soltanto
un aspetto limitato del comportamento moralmente biasi-
mato. Ma dobbiamo ancora rispondere alla domanda se i
contatti tra la contaminazione e la morale siano o meno
arbitrari.
Per rispondere a ciò è necessario considerare le situazio-
ni morali più da vicino e riflettere sulla relazione tra co-
scienza e struttura sociale. In generale, succede che la co-
scienza privata e il codice pubblico della morale si influen-
zino continuamente a vicenda. Come dice David Pole:
Il codice pubblico che crea e modella la coscienza privata
viene ricreato e riplasmato a sua volta... Nella reale reciprocità
del processo il codice pubblico e la coscienza privata, come due
corsi d’acqua, scorrono assieme: nascono l’uno dall’altro e si

205
Le linee interne

scambiano i loro contributi; ciascuno di loro canalizza e viene


canalizzato... L’uno e l’altro vengono indifferentemente ridiretti
e allargati

Di solito non è necessario lare troppe distinzioni tra i


due. Tuttavia constatiamo che non si può comprendere
questo campo della contaminazione a meno di non pene-
trare nella sfera che si interpone tra ciuci comportamento
che un individuo approva per sé e quello che approva ne-
gli altri; tra quello che approva come questione di princi-
pio e quello che desidera ardentemente per se stesso in
quel preciso istante, e in contraddizione con il suddetto
principio; tra quello che approva a lungo termine e quello
che approva entro un termine piuttosto breve. Tra tutto
ciò vi è una possibilità di scarto.
Dovremmo cominciare col riconoscere che non è faci-
le definire le situazioni morali. Esse sono più spesso oscu-
re e contraddittorie che non ben delineate. E essenziale
che una regola morale sia generale, e non deve essere si-
cura la sua applicazione ad un contesto particolare. Per
esempio i Nuer credono che l’omicidio e l’incesto all’in-
terno della comunità siano un male, tuttavia un uomo
può essere spinto a infrangere le regole riguardanti l’omi-
cidio dall’ossequio a un’altra norma del comportamento
lecito. Poiché fin dalla fanciullezza i Nuer vengono educa-
ti a difendere i loro diritti con la forza, può succedere
che, senza volerlo, chiunque possa uccidere in una conte-
sa un altro abitante del villaggio. Anche le regole dei di-
vieti sessuali sono complicate e il computo genealogico in
certe direzioni è piuttosto approssimativo. Un uomo non
può esser sicuro di avere o meno un grado proibito di
parentela nei confronti di una donna. Così, spesso vi può
essere più di un punto di vista su quale azione sia giusto
compiere, a causa del contrasto tra ciò che è importante
per il giudizio morale e la conseguenza dell’atto. Al con-
trario delle regole morali, quelle della contaminazione so-
no inequivocabili. Esse non dipendono dall’intenzione o
da un corretto equilibrio tra diritti e doveri: l’unica que-
stione materiale è se il contatto vietato ha avuto luogo o

206
Le linee interne

no. Se i pericoli della contaminazione fossero collocati


strategicamente nei punti cruciali del codice morale, essi
teoricamente potrebbero consolidarlo. Tuttavia una tale
distribuzione strategica di regole di contaminazione è im-
possibile, dal momento che per sua natura il codice mora-
le non potrà mai essere ridotto a qualche cosa di sempli-
ce, coerente e sbrigativo.
Tuttavia, se consideriamo più da vicino il rapporto tra
la contaminazione e le regole morali, ci accorgiamo di
qualcosa di molto simile a dei tentativi di rafforzare, in
questo modo, un codice morale semplificato. Tanto per
rimanere nella stessa tribù, non sempre i Nuer possono
dire di avere o non avere commesso incesto, ma credono
che l’incesto produca una disgrazia sotto forma di malat-
tia della pelle, la quale tuttavia si può prevenire con il
sacrificio. Se sanno di aver corso questo rischio, possono
fare in modo che il sacrificio sia consumato; se poi rico-
noscono che il grado della parentela era molto lontano e
di conseguenza il rischio molto lieve, possono aspettare
che la cosa si decida a posteriori con l’apparizione o la
non apparizione della malattia cutanea. Così le norme
della contaminazione possono servire a convalidare dei
princìpi morali incerti.
Gli atteggiamenti che i Nuer hanno verso contatti che
considerano pericolosi non sono sempre di disapprovazio-
ne: essi inorridirebbero di fronte a un caso di incesto tra
madre e figlio, ma molte delle relazioni loro vietate non
giungono a meritare una riprovazione del genere. Un
«piccolo incesto» è una cosa che può sempre capitare nel-
le migliori famiglie. Analogamente gli effetti dell’adulterio
sono considerati pericolosi per il marito oltraggiato, che
rischia di contrarre dei dolori ai reni se in seguito ha dei
rapporti con la moglie; questo si può evitare soltanto con
un sacrificio consumato su di un animale offerto dall’a-
dultero. Ma benché un adultero che venga sorpreso in
flagrante possa venir ucciso senza che l’omicida sia poi
tenuto a riparare, i Nuer non danno mostra di condanna-
re l’adulterio in sé e per sé. Si ricava l’impressione che
dare la caccia alle donne degli altri sia uno sport rischioso

207
Le linee interne

a cui ogni uomo può essere normalmente tentato di in-


dulgere 2.
Ora, sono gli stessi Nuer che temono la contaminazio-
ne e formulano i giudizi morali; l’antropologo non crede
che le punizioni spesso mortali dell’incesto e dell’adulte-
rio siano decretate esternamente contro di loro dalla loro
severa divinità, al fine di mantenere la struttura sociale.
L ’integrità della struttura sociale viene messa a dura pro-
va quando sono commesse delle infrazioni alle regole del-
l’adulterio e dell’incesto, in quanto la struttura sociale è
interamente costituita da categorie di persone definite dal-
le regole di incesto, dai pagamenti matrimoniali e dallo
stato maritale. Per aver prodotto una tale società i Nuer
devono evidentemente essersi trovati nella necessità di
creare delle complicate norme per l’incesto e l’adulterio, e
per conservarla hanno rafforzato queste regole sottopo-
nendo a minaccia i contatti vietati. Queste regole e san-
zioni esprimono la coscienza pubblica, il pensiero genera-
le dei Nuer. Ciascun caso particolare di adulterio e di in-
cesto ha tutto un altro interesse per i Nuer: gli uomini
sembrano identificarsi più nell’adultero che nel marito of-
feso. I loro sentimenti di disapprovazione morale di fron-
te a un caso particolare non sono esattamente finalizzati a
salvare il matrimonio o Je strutture sociali. E una delle
tante cause di dissonanza tra le regole di contaminazione
e i giudizi morali. In questa ottica, le regole di contamina-
zione hanno un’altra funzione socialmente utile: quella di
organizzare la disapprovazione morale quando questa
manchi. Il marito Nuer, menomato o addirittura morente,
per la contaminazione provocata dall’adulterio, è la vitti-
ma riconosciuta dell’adultero; e, se questi non versa del
suo e non provvede al sacrificio, egli avrà un morto sulla
coscienza.
Un’altra osservazione ci viene suggerita dall’esempio
che segue. Abbiamo visto degli esempi di comportamento
che i Nuer spesso considerano come moralmente neutrali
e tuttavia capaci di scatenare, secondo le loro credenze,
delle pericolose manifestazioni di potere. Vi sono anche
dei tipi di comportamento che i Nuer considerano del

208
Le linee interne

tutto riprovevoli, ma che, secondo loro, comportano auto-


maticamente un pericolo. Per esempio, onorare il padre è
per il figlio un dovere indiscusso e gli atti di insubordina-
zione filiale vengono considerati assai degni di biasimo,
ma non vengono perseguiti da punizioni automatiche, a
differenza di quanto avviene per la mancanza di rispetto
verso i suoceri. La differenza sociale tra le due situazioni
è che il padre di un uomo, in quanto capo della famiglia
congiunta e amministratore del suo gregge, si trova in una
posizione economicamente forte per poter affermare il
suo status di superiorità, mentre il suocero e la suocera
non lo sono. Ciò è in armonia con il principio generale
secondo cui, dove il significato dell’offesa comporta delle
meritate sanzioni pratiche nell’ordine sociale, è meno pro-
babile che insorga contaminazione. Nei casi in cui - da
un punto di vista umano - l’offesa ha probabilità di resta-
re impunita, si tendono a chiamare in causa le credenze
riguardanti la contaminazione per sopperire alla mancanza
di altre sanzioni.
Per concludere, se potessimo ricavare da tutta la serie
dei comportamenti dei Nuer quei particolari tipi di com-
portamento che essi condannano, potremmo avere una
mappa del loro codice morale. Se potessimo disegnare
un’altra mappa delle loro credenze sulla contaminazione,
potremmo trovare che in questo o quel punto essa tocca i
confini della moralità, ma che in nessun modo è coerente
con essa. Gran parte delle loro regole di contaminazione
riguarda il comportamento formale tra marito e moglie e
tra i parenti acquisiti. Le punizioni che dovrebbero colpi-
re coloro che infrangono queste regole si possono riassu-
mere nella formula di Radcliffe-Brown per il valore socia-
le, e cioè che le regole esprimono il valore del matrimo-
nio in quella società. Sono regole di contaminazione spe-
cifiche, come quella che vieta alla moglie di bere il latte
delle mucche che sono state pagate per prenderla in spo-
sa. Tali regole non coincidono con le norme morali, ben-
ché possano bene esprimere l'ossequio verso atteggiamen-
ti comuni (ad esempio, il rispetto per il bestiame del pro-
prio marito). Queste regole si riferiscono soltanto indiret-

209
Le linee interne

tamente al codice morale nella misura in cui esse richia-


mano l’attenzione sul valore del comportamento che ha
un certo peso sulla struttura della società, dato che il co-
dice morale di per sé è correlato con la stessa struttura
sociale.
Vi sono poi altre regole di contaminazione che tocca-
no molto da vicino il codice morale, come quelle che vie-
tano l’incesto o l’omicidio all’interno della comunità loca-
le. Il fatto che le credenze nella contaminazione fornisca-
no un tipo di punizione impersonale per le azioni illecite
offre un mezzo per consolidare il sistema di moralità ac-
cettato. Per esempio, sempre nel caso dei Nuer, i modi in
cui le credenze nella contaminazione possono rafforzare il
codice morale sono i seguenti:
1) quando una situazione viene considerata moralmen-
te negativa, la credenza nella contaminazione può fornire
una regola per determinare a posteriori se l’infrazione ab-
bia avuto luogo o meno;
2) quando i princìpi morali entrano in conflitto, la re-
gola di contaminazione può essere fonte di chiarezza,
semplicemente offrendo un punto di riferimento;
3) quando un’azione è considerata moralmente scon-
veniente ma non provoca l’indignazione morale, credere
alle dannose conseguenze della contaminazione può avere
l’effetto di aggravare l’entità dell’offesa, e in questo modo
guidare l’opinione pubblica dalla parte del giusto;
4) quando l’indignazione morale non viene sostenuta
da sanzioni pratiche, le credenze nella contaminazione
possono costituire un deterrente per i contravventori.
Quest’ultimo punto si può generalizzare. In una socie-
tà di dimensioni ridotte non accade mai che l’ingranaggio
della punizione sia molto forte e di sicuro effetto: vedia-
mo come le credenze nella contaminazione possano con-
solidarlo in due modi distinti. O è il trasgressore che è
ritenuto vittima delle sue stesse azioni, o è una vittima in-
nocente che viene minacciata di pericolo. In questo ci
aspetteremmo delle variazioni regolari: in ogni sistema so
ciale vi possono essere alcune norme morali profonda-
mente radicate, la cui trasgressione non può essere puni-

210
Le linee interne

ta. Per esempio quando il far da sé è l’unico modo per


raddrizzare il torto, la gente per proteggersi si raccoglie in
gruppi che vendicano i loro membri. In un tale sistema
non è facile ottenere riparazione quando viene commesso
un omicidio all’interno dello stesso gruppo; uccidere, o
anche dichiarare deliberatamente fuori legge uno dei
componenti, significherebbe contravvenire al principio
più forte. In casi del genere si riscontra, di solito, un’a-
spettativa che il pericolo della contaminazione si abbatta
sul fratricida.
Questo è un problema assai diverso da quello in cui il
pericolo della contaminazione non colpisce il trasgressore,
ma l’innocente. Abbiamo visto che presso i Nuer è il ma-
rito innocente che si trova in pericolo di vita se la moglie
commette un adulterio, ma vi possono essere parecchie
variazioni sul tema; spesso è la vita della moglie colpevo-
le, talora quella del marito offeso, altre volte quella dei
figli che viene messa a repentaglio. Spesso l’adultero non
è creduto in pericolo, ad eccezione che presso i Giavanesi
Ontong, che hanno questa credenza \ Nel caso del fratri-
cidio di cui si è detto in precedenza non manca l’indigna-
zione morale: il problema riguarda la questione pratica di
come punire, piuttosto che quella di come sollevare la pu-
nizione morale contro il crimine. Il pericolo sostituisce la
punizione attiva da parte degli uomini. Nel caso della
contaminazione conseguente a un adulterio, la credenza
che siano in pericolo degli innocenti contribuisce a bolla-
re il colpevole e a suscitare una violenta reazione morale
contro di lui. Così in questo caso le idee riguardanti la
contaminazione danno maggior vigore alla richiesta di una
punizione attiva da parte degli uomini.
Esula dagli intenti di questa nostra ricerca raccoglie-
re e mettere a confronto un gran numero di esempi. Ma
c’è un campo in cui sarebbe interessante intraprendere
una ricerca documentaria: quali sono le circostanze esatte
in cui la contaminazione dell’adulterio viene considerata
una minaccia per il marito offeso, per il bambino vivente
o in procinto di nascere, o per la moglie, innocente o col-

211
L e linee interne

pevole che siti? Tutte le volte clic un pericolo è conse-


guente a un ignoto adulterio, in un sistema sociale in cui
si ha il diritto di esigere riparazione se si scopre un fatto
di questo genere, le credenze nella contaminazione fun-
zionano come dei rivelatori a posteriori del crimine. Ciò
vale per il caso, già citato, dei Nuer. Un altro esempio ci
è dato dalla testimonianza di un marito Nyakyusa:
Se sono stato sempre bene e in lorze e mi accorgo di far
fatica a camminare e a zappare, devo pensare: «Che cosa mi
succede? Vedi un po’, sono sempre stato bene e adesso mi sen-
to molto stanco». Gli amici mi dicono: «E una donna, sei stato
con una che aveva le mestruazioni»; e se, dopo aver mangiato
del cibo mi prende la diarrea, mi dicono: «Sono le donne: han-
no commesso adulterio!». Le mie mogli lo negano. Andiamo
dall’indovino e una viene scoperta. Se conferma, accade quello
che accade, ma, se essa nega, un tempo si faceva ricorso alla
prova del veleno. Solo la donna beveva, io no; se vomitava io
ero sconfitto e la donna era innocente, ma se il veleno le faceva
effetto, allora il padre mi doveva pagare il prezzo di una muc-
ca 4.
Analogamente, quando si crede che una donna aborti-
sca perché ha commesso un adulterio durante la gravi-
danza e che il suo bambino muoia perché ha commesso
adulterio mentre lo allattava, per ogni adulterio confessa-
to qualcuno può avere il pretesto per un risarcimento di
sangue. Se le ragazze si maritano normalmente prima del-
la pubertà e si prevede che esse passino dalla gravidanza
al parto e dal parto al periodo dell’allattamento che dura
tre o quattro anni, e in seguito ad una nuova gravidanza,
il marito è teoricamente assicurato contro l’infedeltà lino
alla menopausa della moglie. Per di più il comportamento
della stessa moglie, in questo modo, è gravemente sotto-
posto alle punizioni dei pericoli che corrono i suoi figli e
di quelli che corre la sua vita stessa al momento del trava-
glio. Tutto ciò ha un senso: le credenze nella contamina-
zione favoriscono qui le relazioni maritali, ma noi non sia-
mo ancora arrivati a rispondere sul perché in certi casi
dovrebbe essere la vittima il marito e in altri la moglie
durante il parto, o i figli; e perché in altri ancora, come

212
Le linee interne

tra i Bemba, la parte innocente, vuoi il marito, vuoi la


moglie, viene automaticamente a essere in pericolo.
La risposta va ricercata in un esame particolareggiato
bella distribuzione dei diritti e dei doveri all’interno del
matrimonio, e dei vari interessi e vantaggi di ciascuna
parte. La diversa incidenza del pericolo consente al giudi-
zio morale di indirizzarsi su differenti individui: se è la
moglie che corre pericolo, anche al punto di rischiare la
propria vita nel travaglio del parto, l’indignazione si con-
centra sul suo seduttore; ciò si verifica più probabilmente
in una società in cui non accade molto facilmente che la
moglie sia picchiata per la sua cattiva condotta. Se è la
vita del marito quella che viene messa a repentaglio, è
probabile che la riprovazione ricada sulla moglie e sull’a-
mante di lei. È forse un’illazione azzardata (più per il gu-
sto di proporre un’ipotesi da verificare che non perche
abbia molta fiducia nella sua validità) dire che il pericolo
minaccia la moglie quando, per una ragione o per l’altra,
essa non può venire punita pubblicamente? Forse perché
la presenza della sua gente nel villaggio la protegge? Allo-
ra, nel caso opposto, dovremmo attenderci che quando il
pericolo colpisce il marito, questo fatto gli fornisca una
scusa supplementare per darle una buona bastonatura o,
come minimo, sollevi l’opinione della comunità contro il
suo comportamento licenzioso. A questo punto, mi sem-
bra che la società in cui il matrimonio è stabile e in cui le
mogli sono tenute sotto controllo possa essere quella in
cui il pericolo dell’adulterio ricade sul marito oltraggiato.
Fin qui abbiamo discusso di quattro modi in cui la
contaminazione tende a rafforzare i valori morali: il fatto
che la contaminazione sia più facile da cancellare delle
colpe morali ci offre un’altra serie di situazioni. Alcuni ti-
pi di contaminazione sono troppo gravi perché all’offen-
sore sia concesso di sopravvivere, ma molti altri hanno un
rimedio molto semplice per annullare i loro effetti: vi so-
no riti di trasposizione, di scioglimento, di sepoltura, di
lavacro, di asportazione, di fumigazione e così via, che
con una minima perdita di tempo e di fatica possono
scongiurare questi effetti in modo soddisfacente. Il can-

213
Le linee interne

celiare un’offesa morale dipende dalla disponibilità psichi-


ca della parte offesa e dalla mitezza dei sentimenti di ven-
detta. Le conseguenze sociali di alcune offese si propaga-
no in tutte le direzioni e non se ne può mai invertire il
processo. I riti di riconciliazione che sanciscono il seppel-
limento della colpa hanno l’effetto creativo di tutti i ritua-
li: contribuendo a rimuovere il ricordo dei sentimenti cat-
tivi, essi incoraggiano l’emergere di buoni sentimenti. In
generale, la società ha un certo interesse a ridurre il delit-
to morale alla dimensione di reato di contaminazione che
il rituale può lavare immediatamente. Lévy-Bruhl, che
raccolse diversi esempi di rituali purificatori, ebbe la per-
spicacia di osservare che l’atto di riparazione in sé e per
sé assume la qualità di un rito di annullamento, e fa pre-
sente che la legge del taglione viene fraintesa se la si con-
sidera semplicemente come la soddisfazione di un brutale
bisogno di vendetta \

A questa necessità di una contro-azione uguale e simile al-


l’azione si collega strettamente la legge del taglione... Per il fat-
to che ha subito un attacco, una ferita, un torto, o un pregiudi-
zio, si sente esposto ad un influsso nefasto. Una minaccia di
disgrazia pesa su di lui. Perché si possa sentire ancora sicuro e
perché ritrovi la sua calma e tranquillità, bisogna che l’influsso
nefasto così liberato venga arrestato, neutralizzato. Ora, questo
risultato sarà ottenuto solo se l’azione che ha subito è annullata
da un’azione uguale e contraria.
Precisamente questo rappresenta il taglione per i primitivi 6.

Lévy-Bruhl non commise l’errore di pensare che fosse


sufficiente un puro e semplice atto esteriore; egli si rese
conto - come da allora gli antropologi si sono sempre resi
conto - degli strenui sforzi che vengono messi in atto per
fare in modo che i pensieri interni della mente e del cuo-
re si conformino con gli atti pubblici; la contraddizione
tra il comportamento esterno e i sentimenti intimi è spes-
so fonte di angoscia e di timori di sventura. Questa è una
nuova contraddizione che può insorgere anche dall’atto
della purificazione: perciò dovremmo riconoscerla, a tutti
gli effetti, come una contaminazione a sé stante. Lévy-

214
Le linee interne

Bruhl ci propone molti esempi di ciò che egli chiama «gli


incantesimi del malanimo» 7.
Queste contaminazioni, che allignano tra l’atto visibile
e il pensiero invisibile, sono come i malefici: sono pericoli
venutisi a creare negli interstizi della struttura e, analoga-
mente ai malefici, i loro impliciti poteri di offesa non di-
pendono né da un’azione esterna, né da una qualche in-
tenzione deliberata. Essi sono pericolosi in sé.
Vi sono due modi diversi di cancellare una contamina-
zione: uno è il rituale che non si cura di indagare sulla
causa della contaminazione e non cerca di stabilire le re-
sponsabilità; l’altro è il rito confessionale. Di fronte a ciò,
ci si aspetterebbe che queste cerimonie venissero applica-
te in situazioni del tutto differenti. Il sacrificio dei Nuer
costituisce un esempio del primo caso: i Nuer associano
le disgrazie con le offese che le hanno causate, ma non
cercano di collegare una particolare disgrazia con una
particolare offesa: sarebbe un problema ozioso, poiché in
ogni caso la loro unica via d’uscita è la stessa, il sacrificio,
tranne nel caso eccezionale di adulterio che abbiamo cita-
to. Allora è necessario conoscere l’adultero in modo che
questi possa offrire la bestia per il sacrificio e possa, inol-
tre, fare ammenda pagando una multa. Riflettendo su
questo caso, possiamo pensare che la confessione è una
base estremamente adatta per la richiesta di risarcimento,
poiché precisa sempre la natura dell’offesa e offre un og-
getto alla riprovazione.
Quando la sola purificazione viene considerata un
trattamento adeguato alla colpa morale, tra la contamina-
zione e la morale si stabilisce un nuovo tipo di rapporto:
allora l’intero complesso di idee che comprende la conta-
minazione e la purificazione si trasforma in una rete di
sicurezza che permette alla gente di eseguire delle evolu-
zioni acrobatiche al trapezio, se così si può dire parlando
di struttura sociale: l’equilibrista osa l’impossibile e sfida
apertamente le leggi di gravità. Potendo facilmente ricor-
rere alla purificazione, si sa di poter sfidare impunemente
le difficili realtà del proprio sistema sociale. I Bemba, per
esempio, hanno una tale cieca fiducia nella loro tecnica di

215
Le linee interne

purificazione dall’adulterio che, pur credendo che ne de-


rivino dei pericoli mortali, si abbandonano tuttavia alle
infatuazioni di breve durata; ciò che mi preme sottolinea-
re qui è l’apparente contraddizione fra la paura del sesso
ed il piacere del sesso, come fece notare A.I. Richards s, e
il ruolo che i riti di purificazione hanno per far superare
tali paure. L ’autrice rileva inoltre che non vi è nessuno
presso i Bernba che pensi che la paura della contamina-
zione creata dall’adulterio possa trattenere dal commetter-
lo.
Di qui passiamo all'ultimo punto che mette in rappor-
to la contaminazione con la morale. Ogni complesso di
simboli può assumere una vita culturale sua propria e an-
che farsi promotore dello sviluppo delle istituzioni sociali.
Per esempio, le regole di contaminazione sessuale dei
Bemba potrebbero sembrare a prima vista un’espressione
di approvazione alla fedeltà tra marito e moglie. All'atto
pratico, è ora diffuso il divorzio, e si ha l’impressione che
essi ricorrano al divorzio e a un nuovo matrimonio come
a un mezzo per evitare le contaminazioni dell’adulterio ”,
Questo scarto radicale da obiettivi un tempo perseguiti è
possibile solamente quando sono attive altre forze di di-
sintegrazione. Non possiamo pensare che i timori della
contaminazione, improvvisamente, addentato il boccone,
se ne fuggano via con tutto il sistema sociale. Tuttavia
queste forze possono fornire, paradossalmente, uno spazio
indipendente per infrangere il codice morale che contem-
poraneamente cercano di difendere.
Le idee di contaminazione possono distogliere dagli
aspetti morali e sociali di una situazione focalizzandosi su
di un semplice fatto materiale. I Bemba credono che la
contaminazione dell’adulterio venga trasmessa col fuoco.
Perciò la premurosa donna di casa sembra sia ossessiona-
ta dalla necessità di proteggere il suo focolare dalla conta-
minazione dell’adulterio e dalla contaminazione mestruale,
oltre che dagli omicidi.

È difficile esagerare la forza di queste credenze o la misura


nella quale esse influenzano la vita di ogni giorno. In un villag-

216
Le linee interne

gio, nell’ora della cottura dei cibi, i bambini piccoli vengono


mandati di qua e di là a prendere il «fuoco nuovo» dai vicini
che sono ritualmente puri 10.

Il motivo per cui le loro angosce sul sesso si sarebbero


trasferite dal letto alla tavola sarà l’argomento del prossi-
mo capitolo. Ma il fatto che il fuoco abbia la necessità di
essere protetto dipende dalla configurazione dei poteri
che dominano il loro universo. Morte, sangue e freddo
sono contrapposti ai loro contrari, vita, sesso e fuoco. I
tre poteri positivi sono pericolosi se non sono separati tra
loro e sono in pericolo se vengono in contatto con la
morte, il sangue o il freddo. L ’atto sessuale deve essere
sempre separato dal resto della vita tramite un rito di pu-
rificazione che soltanto marito e moglie possono eseguire
l'uno per conto dell’altro. L ’adultero è un pericolo pub-
blico, perché il suo contatto profana tutti i focolari in cui
si cucina e non può essere purificato. Da cui si deduce
che le angosce che riguardano la loro vita sociale spiega-
no soltanto parzialmente la contaminazione sessuale dei
Bemba. Per spiegare perché il fuoco, e non piuttosto il
sale, per esempio, come presso alcuni loro vicini, dovreb-
be trasmettere la contaminazione, dovremmo esaminare,
più dettagliatamente di quanto sia ora possibile, l’interre-
lazione sistematica degli stessi simboli.
Questo rapido schizzo riassume il punto fino a cui so-
no arrivata nel delineare il rapporto tra contaminazione e
morale. È stato necessario dimostrare che tale rapporto è
lontano dall’essere chiaro e diretto per poter ritornare alla
rappresentazione della società come una serie complicata
di scatole cinesi con ciascun sub-sistema circondato da
sottosistemi minori, e così di seguito, all’infinito, fino a
dove ci interessa applicare questa analisi. Personalmente,
sono dell’opinione che la gente creda realmente che il
proprio particolare ambiente sociale sia formato da altre
persone unite o separate da linee che vanno rispettate. Al-
cune di queste linee sono protette da sanzioni fisiche sta-
bilite. Esistono delle chiese in cui i vagabondi non dor-
mono sui banchi perché il sacrestano chiamerebbe la poli-

217
Le linee interne

zia. In fondo, le caste indiane più basse erano abituate a


starsene al loro posto per via di sanzioni sociali analoga-
mente efficaci e, da cima a fondo, tutto l’edificio delle
forze economiche e politiche delle caste concorre a man-
tenere il sistema. Ma dove le linee sono incerte, noi vedia-
mo venire in loro aiuto le idee di contaminazione. Il su-
peramento fisico delle barriere sociali è considerato come
una contaminazione pericolosa, con tutte le conseguenze
che abbiamo appena esaminato. Il responsabile della con-
taminazione diventa un oggetto di riprovazione doppia-
mente malvagio, prima perché ha varcato le linee e poi
perché ha messo in pericolo gli altri.

Note

1 D . Pole, Conditions o f Rational Enquiry: A Study in thè Philo-


sophy o f Vaine, London, 1961, pp. 91-92.
2 li. li. Evans-Pritchard, Kinship and Marriage among thè Nuer,
London, 1951.
3 H.I. Hogbin, Law and Order in Polynesia, London, 1934, p. 153.
4 M. Wilson, Rituals and Kinship among thè Nyakyusa, cit., p.
133.
5 L. Lévy-Bruhl, Le surnatarel et la nature dans la mentalità primi-
tive, trad. it. cit., cap. Vili.
6 Ibidem, p. 423.
7 Ibidem, p. 190.
8 A.I. Richards, Chisungu: A G irl’s Initiation Ceremony among thè
Bemba o f Northern Rhodesia, London, 1956, pp. 154-55.
9 A.I. Richards, Bemba Marriage and Presetit Economie Condi-
tions, cit.
10 Ibidem, p. 33.

218
Capitolo nono

Il sistema in guerra con se stesso

Quando la comunità viene attaccata dall’esterno, il pe-


ricolo rafforza quanto meno la solidarietà all’interno di
essa; quando viene attaccata dall’interno da persone de-
viami, queste possono essere punite e la struttura viene
così ad essere riaffermata pubblicamente. Ma la struttura
può anche autosconfiggersi: un tema questo con cui gli
antropologi hanno familiarità da lunga data \ Forse tutti i
sistemi sociali si fondano sulla contraddizione: sono, in
un certo senso, in guerra con se stessi. Ma, in certi casi,
gli obiettivi che gli individui sono incoraggiati a persegui-
re sono più armoniosamente correlati che in altri.
La relazione sessuale è per sua natura fertile, costrutti-
va, ed è la base comune della vita sociale, ma qualche
volta troviamo che, invece di dipendenza e di armonia, le
istituzioni sessuali esprimono una rigida separazione e un
violento antagonismo. Finora abbiamo notato un tipo di
contaminazione sessuale che rivela la volontà di mantene-
re intatto il corpo (fisico o sociale); le sue norme sono
formulate in modo da poter controllare le uscite e le en-
trate. Un altro tipo di contaminazione sessuale deriva dal-
l’esigenza di osservare rigidamente le linee interne del si-
stema e, nel capitolo precedente, abbiamo osservato come
vi siano delle regole per i contatti individuali che distrug-
gono queste linee - adulteri, incesti e così via. Ma i tipi di
contaminazione sessuale non sono certo tutti qui: può
sorgerne un terzo tipo dal conflitto di obiettivi che posso-
no coesistere in una stessa cultura.
Nelle culture primitive, quasi per definizione, la diffe-
renza tra i sessi è la distinzione sociale primaria. Ciò si-
gnifica che alcune importanti istituzioni sono sempre ba-
sate sulla differenza tra i sessi. Se l’organizzazione della
struttura sociale fosse debole, gli uomini e le donne po-

219
Il sistema in guerra con se stesso

trebbero anche sperare di assecondare i propri capricci


scegliendo e abbandonando i loro partner sessuali, senza
alcuna conseguenza spiacevole per la società in generale;
ma se la struttura sociale primitiva è rigidamente articola-
ta, essa viene quasi costretta a interferire pesantemente
nel rapporto tra uomini e donne. Così troviamo le idee di
contaminazione schierate a costringere uomini e donne
nei ruoli che sono stati loro assegnati, come abbiamo vi-
sto nel capitolo precedente.
Vi è un’eccezione che dobbiamo subito notare: il ses-
so ha una probabilità di essere immune dalla contamina-
zione in una società in cui i ruoli sessuali vengono fatti
rispettare in maniera diretta; in questo caso, chiunque mi-
nacciasse di deviare verrebbe prontamente punito col ri-
corso alla forza fisica. Ciò presuppone un’efficienza am-
ministrativa e un tipo di consenso che sono rari ovunque,
e lo sono in special modo nelle società primitive. Consi-
deriamo, per esempio, i Walbiri dell’Australia centrale, un
popolo che non esita ad usare la forza per garantire che il
comportamento sessuale dei singoli non comprometta
quella parte della struttura sociale che riposa sulle relazio-
ni maritali2. Come nel resto dell’Australia, gran parte del
sistema sociale dipende dalle regole che governano il ma-
trimonio: i Walbiri vivono in un’aspra zona desertica e,
poiché sanno quali difficoltà comporti la sopravvivenza
della comunità, la loro cultura si pone come obiettivo che
tutti i membri della comunità stessa debbano lavorare e
abbiano cura di conciliare i loro bisogni con la loro peri-
zia: ciò significa che la responsabilità degli infermi e degli
anziani ricade sulle spalle dei più validi; l’intera comunità
è soggetta a una rigida disciplina, per cui i giovani sono
sottoposti agli anziani e, soprattutto, le donne sono sotto-
messe agli uomini. Una donna sposata vive di solito lonta-
na dal padre e dai fratelli. Questo significa che, per quan-
to teoricamente essa possa appellarsi alla loro protezione,
questa praticamente non vale nulla; la donna si trova sot-
to il controllo del marito. Di norma, se il sesso femminile
fosse completamente soggetto a quello maschile, il princi-
pio del dominio maschile non dovrebbe far sorgere alcun

220
Il sistema in guerra con se stesso

problema e, tutte le volte che fosse applicato, potrebbe


essere direttamente imposto con la forza, senza pietà.
Presso i Walbiri sembra che accada proprio questo: feri-
scono o picchiano le loro donne per il minimo lamento o
la minima negligenza del proprio dovere. Né si può esige-
re alcun risarcimento di sangue per una donna uccisa dal
proprio marito, e nessuno ha il diritto di intervenire tra
marito e moglie; l’opinione pubblica non rimprovera mai
l’uomo che abbia imposto violentemente, magari con con-
seguenze mortali, la propria autorità alla moglie. E perciò
impossibile per una donna aizzare un uomo contro l'altro:
per quanta energia essi impieghino nel tentare di sedursi
reciprocamente le donne, gli uomini sono perfettamente
d’accordo su di un punto: non permettere mai che i loro
desideri sessuali procurino ad una singola donna un pote-
re di contrattazione o lo spazio per un intrigo amoroso.
Questo popolo non ha nessuna credenza riguardo alla
contaminazione sessuale; non si astengono neppure dal
sangue mestruale, né credono che il suo contatto sia peri-
coloso. La definizione dello status maritale, che pure è
importante nella loro società, è protetta in modo eviden-
te. La supremazia maschile non è inficiata da nulla di pre-
cario o di contraddittorio.
Nessuna costrizione è imposta individualmente ai
Walbiri maschi. Se si presenta loro la possibilità, essi se-
ducono la donna dell’altro, senza mostrare alcun partico-
lare riguardo per la struttura sociale basata sul matrimo-
nio; quest’ultimo è salvaguardato dalla incondizionata su-
bordinazione della donna all’uomo e dal sistema accettato
dell’arrangiarsi. Quando un uomo sconfina nella riserva
sessuale di un altro sa che cosa rischia: una zuffa e forse
la morte; il sistema è molto semplice. Ci sono conflitti tra
gli uomini, ma non tra princìpi. Non si chiama in causa
in una situazione un giudizio morale che può essere con-
traddetto in un’altra. La gente è costretta a questi partico-
lari ruoli dalla minaccia del ricorso alla forza fisica. Nel
capitolo precedente è stata avanzata l’ipotesi che, quando
esiste una minaccia di questo tipo, possiamo aspettarci

221
Il sistema in guerra con se stesso

che il sistema sociale resti saldo senza il supporto delle


credenze nella contaminazione.
E importante riconoscere che la supremazia maschile
non si stabilisce sempre con tale spietata semplicità. Nel
capitolo precedente abbiamo visto che, se le norme mora-
li sono oscure e contraddittorie, le credenze nella conta-
minazione tendono a semplificare il punto in questione. Il
caso dei Walbiri suggerisce una correlazione: quando il
dominio maschile viene accettato come principio centrale
di organizzazione sociale e viene applicato senza inibizioni
e col pieno diritto della coercizione fisica, le credenze nel-
la contaminazione sessuale non sono probabilmente molto
sviluppate. D ’altra parte, quando il principio del predo-
minio maschile viene applicato all’ordinamento della vita
sociale ma è contraddetto da altri princìpi, come quello
dell’indipendenza femminile o del diritto inerente alle
donne di essere maggiormente protette, in quanto sesso
più debole, dalla violenza, allora è più probabile che si
manifesti la contaminazione sessuale. Prima di considerare
questo caso vi è un altro tipo di eccezione da non trascu-
rare.
In molte società si può notare che gli individui non
sono costretti con la forza o comunque strettamente vin-
colati ai ruoli sessuali loro assegnati e che, tuttavia, la
struttura sociale è basata sulla associazione tra i sessi. In
questi casi, il rimedio viene da una sottile elaborazione
giuridica di istituzioni speciali. Gli individui possono se-
guire in certa misura le loro personali inclinazioni, poiché
la struttura sociale è ammortizzata da questo o quel tipo
di finzioni.
L ’organizzazione politica dei Nuer non è affatto for-
mulata. Essi non hanno esplicite organizzazioni di gover-
no o di amministrazione. La strutturazione politica fluida
e impalpabile che essi presentano è l’espressione sponta-
nea, mutevole dei conflitti che si creano nella gerarchia.
L ’unico principio di una certa saldezza che informa la lo-
ro vita tribale è quello genealogico. Considerando le loro
unità territoriali come i tratti di una singola struttura ge-

222
Il sistema in guerra con se stesso

nealogica, essi impongono un certo ordine ai loro rag-


gruppamenti politici. I Nuer ci offrono un esempio natu-
rale di come gli individui possano costituire e conservare
una struttura sociale nella sfera delle idee e non principal-
mente, o soltanto, nel regno esterno, fisico, dei cerimonia-
li, dei palazzi o delle corti di giustizia
Il principio genealogico che i Nuer applicano alle rela-
zioni politiche di un’intera tribù è per loro importante in
un altro contesto, a livello personale e soggettivo della ri-
vendicazione del bestiame e delle mogli; in tal modo le
sudditanze strette con il matrimonio determinano per il
Nuer non solo la sua posizione nel più vasto schema poli-
tico, ma anche le sue eredità personali. È dai diritti di
paternità che dipende la loro struttura di parentela e la
loro struttura politica complessiva; eppure i Nuer non at-
tribuiscono all’adulterio e all’abbandono la stessa impor-
tanza di certe altre popolazioni che si reggono sui sistemi
di discendenza agnatizia, in cui la paternità viene stabilita
dal matrimonio. E pur vero che il marito Nuer può arri-
vare ad uccidere il seduttore di sua moglie che venga sor-
preso in flagrante adulterio, ma, d’altra parte, può anche
solo richiedere, se viene a sapere dell’infedeltà, due capi
di bestiame, uno per il risarcimento e l’altro per il sacrifi-
cio, una pena non severa se confrontata con quella di altri
popoli che, stando ai resoconti, erano soliti bandire gli
adulteri4 o renderli schiavi, oppure se la si confronta con
quanto accade per un Beduino, al quale non sarebbe con-
cesso di risollevare la testa nella società finché la parente
disonorata non sia stata uccisa 5. La differenza è che il
matrimonio legale dei Nuer è relativamente invulnerabile
ai desideri dei singoli partner. Si può permettere ai mariti
e alle mogli di separarsi e di vivere isolati senza modifica-
re lo status legale del loro matrimonio o dei figli della
moglie h. Le donne Nuer godono di una condizione estre-
mamente libera ed indipendente: se una di loro resta ve-
dova, i fratelli del marito hanno il diritto di prenderla in
matrimonio levirato per allevare la prole nel nome del
marito morto, ma se la donna non vuole accettare questa
sistemazione essi non possono forzarla; è libera di sce-

223
Il sistema in guerra con se stesso

glicrsi gli amanti che vuole: l’unica garanzia assicurata alla


discendenza del marito morto è che la prole, da chiunque
sia stata generata, venga considerata come affiliata a quel
lignaggio da cui fu pagato il bestiame del matrimonio ori-
ginario. La legge secondo cui chiunque abbia pagato il
bestiame ha diritto ai figli è quella che distingue il matri-
monio legale, praticamente indistruttibile, dalle relazioni
coniugali. La struttura sociale si fonda su una serie di ma-
trimoni legali, stabiliti dal trasferimento di proprietà del
bestiame, e viene così protetta con mezzi istituzionali pra-
tici da ogni incertezza che la possa minacciare a causa del
libero comportamento di uomini e donne. In contrasto
con la salda e spontanea semplicità della loro organizza-
zione politica, i Nuer rivelano una strabiliante sottigliezza
giuridica nella definizione del matrimonio, del concubina-
to e della separazione coniugale.
E questo tipo di evoluzione, a mio modo di vedere,
che permette ai Nuer di organizzare le loro istituzioni so-
ciali sfuggendo a gravose credenze di contaminazione ses-
suale. È vero che essi proteggono il loro bestiame dalle
donne che hanno le mestruazioni, ma non è obbligatorio
che un uomo si purifichi se ne tocca una; tutt’al più, do-
vrà evitare i rapporti sessuali con la moglie durante i suoi
periodi mestruali, ma questa regola, che si dice sia un’e-
spressione di riguardo per il figlio non nato, è molto più
mite di certe norme di astensione che avremo occasione
di ricordare in seguito.
Abbiamo notato in precedenza un altro esempio di
finzione giuridica per ridurre l’oppressione della struttura
sociale sui rapporti sessuali, in riferimento all’analisi di
Nur Yalman della purezza delle donne dell’India meridio-
nale e di Ceylon 1, Qui la purezza delle donne viene pro-
tetta in quanto esse sono la porta d’entrata alle caste; la
madre è decisiva per stabilire l’appartenenza alla casta; il
sangue e la purezza della casta vengono perpetuati attra-
verso le donne. La loro purezza sessuale è, dunque, di
estrema importanza, e tutto ciò che accenni a minacciarla
viene prevenuto e proibito. Da tutto ciò dobbiamo dedur-
re che alle donne sia riservata una insopportabile vita di

224
l i sistema in guerra con se stesso

restrizioni, e questo è effettivamente ciò che troviamo


presso le caste più elevate e più pure.
I Bramirli Nambudiri del Malabar costituiscono una
casta piccola, ricca ed esclusiva di sacerdoti latifondisti:
essi sono rimasti tali grazie all’osservanza di una regola
che vieta la divisione delle loro proprietà. In ogni famiglia
è solamente il figlio più anziano quello che si sposa, gli
altri possono avere delle concubine di casta inferiore, ma
mai contrarre matrimonio. Il loro destino è, al pari delle
loro sfortunate donne, quello di una rigorosa segregazio-
ne. Solo poche riescono a sposarsi a tutti gli effetti prima
che un rito nuziale celebrato sul letto di morte affermi la
loro libertà dal controllo dei loro guardiani. Se escono di
casa hanno il corpo interamente coperto dagli abiti e il
volto celato. Quando uno dei fratelli si sposa, possono
guardare la cerimonia attraverso delle fessure nelle pareti.
Persino al proprio matrimonio la donna Nambudiri deve
essere sostituita da una ragazza Nayar nella tradizionale
apparizione in pubblico della sposa. Solo un gruppo mol-
to ricco potrebbe permettersi di comminare alle proprie
donne una condanna di sterilità per gran parte di esse e
di segregazione per tutte. Questa crudeltà corrisponde a
suo modo alla spietatezza con cui i Walbiri maschi fanno
rispettare i propri princìpi.
Ma benché nelle altre caste prevalgano idee analoghe
sulla purezza femminile, non è stata adottata una soluzio-
ne così crudele. I Bramini ortodossi, che non cercano di
mantenere intatti i loro patrimoni terrieri e concedono ai
loro figli di sposarsi, preservano la purezza delle loro
donne esigendo che le ragazze si scelgano un marito adat-
to prima della pubertà. Essi intervengono, l’uno verso
l’altro, con forti pressioni morali e religiose per assicurarsi
che tutte le ragazze bramine concludano un buon matri-
monio quando la loro prima mestruazione non è ancora
apparsa. Presso altre caste, se non è possibile concludere
un vero e proprio matrimonio prima della pubertà, allora
è assolutamente necessario un rito nuziale sostitutivo: nel-
l’India centrale le ragazze si possono sposare dapprima
con una freccia o con un pestello di legno, e questo vale

225
Il sistema in guerra con se stesso

come un primo matrimonio, che conferisce alla donna


uno status di sposata, in modo tale che ogni sua colpa
possa essere trattata dalla casta o dal tribunale locale co-
me fosse stata compiuta da una donna maritata.
Le ragazze del Nayar meridionale sono famose in In-
dia per la libertà sessuale di cui godono: non viene loro
riconosciuto alcun marito fisso; le donne vivono in casa e
possono intrattenere rapporti liberi con un gran numero
di uomini. La posizione castale di queste donne e dei loro
figli è assicurata ritualmente da una cerimonia prepubera-
le di nozze sostitutive; l’uomo che interpreta la parte del-
lo sposo rituale ha egli stesso una parallela posizione ca-
stale e provvede alla paternità rituale della futura prole
della fanciulla. Ma, se mai si sospettasse che una ragazza
Navar ha toccato un uomo di casta inferiore, ella sarebbe
punita con la stessa violenza di una donna dei Bramini
Nambudiri. Ma, a parte le precauzioni contro simili debo-
lezze, la sua vita è priva di controlli come forse per nessu-
n’altra donna nel sistema delle caste, e in pieno contrasto
con il regime di segregazione delle sue vicine Nambudiri.
La finzione del primo matrimonio l’ha notevolmente al-
leggerita della responsabilità di proteggere la purezza del
sangue di casta.
Questo a proposito delle eccezioni.
Dovremmo ora occuparci di qualche caso di strutture
sociali che si fondano su grandi paradossi o contraddizio-
ni; in questi casi, dove la libertà sessuale non viene pro-
tetta da alcun trucco giuridico che funge da ammortizzan-
te, si sviluppano intorno ai rapporti tra i sessi delle esage-
rate proibizioni.
Le teorie sul potere cosmico che sono accolte dalle
varie culture riservano all’energia sessuale un posto più o
meno esplicito. Nelle culture dell’India indù, e in quelle
della Nuova Guinea, il simbolismo relativo al sesso rico-
pre nella cosmologia una posizione di primaria importan-
za ma, al contrario, presso i Niloti dell’Africa sembra sia
molto meno sviluppata l’analogia con il sesso. Sarebbe va-
no pretendere di stabilire una correlazione tra le linee
sommarie di queste variazioni metafisiche con le differen-

226
Il sistema in guerra con se stesso

ze nell’organizzazione sociale e, tuttavia, in ciascuna di


queste aree culturali si possono riscontrare delle ulteriori
variazioni in tema di simbolismo e di contaminazione ses-
suale: variazioni che noi possiamo e dobbiamo cercare di
correlare con altre differenziazioni locali.
Il timore della contaminazione sessuale è una caratte-
ristica culturale della Nuova Guinea Ma all’interno del-
lo stesso idioma culturale c’è un grande contrasto nel mo-
do in cui gli Arapesh del fiume Sepik c i Mae Enga degli
Altipiani Centrali trattano il tema della differenza sessua-
le. I primi, a quanto pare, cercano di impostare una totale
simmetria tra i sessi: si ritiene che ogni tipo di potere si
conformi al modello dell’energia sessuale; la femminilità è
pericolosa per gli uomini tanto quanto la virilità lo è per
le donne. Le femmine sono quelle che danno la vita e che
nutrono i tigli col loro sangue mentre li portano in grem-
bo ma, dopo che i bambini sono nati, sono i maschi che
li nutrono con sangue vitale che traggono a tale scopo dal
pene. Margaret Mead rileva che entrambi i sessi devono
usare le stesse attenzioni con i propri terribili poteri; cia-
scun sesso si accosta all’altro con deliberata circospezio-
ne 9.
I Mae Enga, d’altra parte, non cercano nessuna sim-
metria: temono la contaminazione femminile per i loro
maschi e per tutte le imprese maschili, e non si parla as-
solutamente di equilibrio tra i due tipi di pericolo e di
potere sessuale 10. Su tali differenze possiamo tutt’al più
tentare delle correlazioni sociologiche.
I Mae Enga vivono in una zona densamente popolata;
la loro organizzazione locale è basata sul clan, una unità
militare e politica compatta e ben definita. Gli uomini del
clan scelgono la moglie in clan diversi, e sposano perciò
delle straniere. La legge dell’esogamia clanica è abbastan-
za comune: dipende da come sono localizzati e da come
sono tra loro esclusivi e rivali i clan intermaritali, se l’eso-
gamia comporti o meno per il matrimonio tensioni e diffi-
coltà. Nel caso Enga i clan sono non soltanto stranieri,
ma tradizionalmente nemici tra loro. Gli uomini Mae En-
ga sono individualmente coinvolti in una strenua lotta per

227
Il sistema in guerra con se stesso

il prestigio: combattono fieramente per lo scambio di


maiali e di oggetti di valore. Cercano una moglie tra i
gruppi meno affini, con cui abitualmente scambiano maia-
li e conchiglie e con cui di solito si battono. Così può
accadere che i parenti maschi acquisiti di un uomo siano
la sua controparte negli scambi cerimoniali (un rapporto
competitivo), e che il loro clan sia nemico del suo in
guerra. La relazione maritale deve quindi subire le tensio-
ni di questo sistema sociale fortemente competitivo. Se-
condo le credenze Enga relative alla contaminazione ses-
suale, i rapporti tra i sessi hanno il carattere di un conflit-
to tra nemici, in cui l’uomo si vede minacciato dal part-
ner sessuale, un membro del clan nemico, che si è inseri-
to nel proprio. Vi è una credenza profondamente sentita
per cui la donna indebolisce la forza maschile, e gli uomi-
ni sono così preoccupati di evitare il contatto femminile
che la paura della contaminazione sessuale riduce in prati-
ca i rapporti tra i sessi. La Meggitt dimostra che l’adulte-
rio era sconosciuto e che non si avevano praticamente no-
tizie di divorzi.
Fin dalla prima fanciullezza gli Enga vengono educati
ad evitare la compagnia femminile e periodicamente si ri-
tirano in clausura per purificarsi dal contatto con le don-
ne. Le credenze predominanti nella loro cultura sono la
superiorità del principio maschile e la vulnerabilità dello
stesso alla influenza femminile. Solo l’uomo sposato può
rischiare di avere rapporti sessuali, dal momento che solo
un uomo sposato può disporre di speciali rimedi per pro-
teggere la propria virilità. Ma anche nel matrimonio gli
uomini temono l’attività sessuale, e sembra che essi la li-
mitino al minimo necessario per la procreazione. Ma so-
prattutto essi rifuggono dal sangue mestruale:

Essi sono convinti che il contatto con questo o con una


donna che abbia le mestruazioni, in assenza di un contro-incan-
tesimo adatto, debiliti un uomo e gli provochi un vomito conti-
nuo, «uccida» il suo sangue fino a farlo diventare nero, avveleni
le sue linfe vitali rendendogli la pelle scura e raggrinzita e cor-

228
Il sistema in guerra con se stesso

rompendogli le carni, ottunda per sempre la sua mente e infine


lo porti a una lunga agonia e alla morte u.
Il parere personale della Meggitt è che «l’equazione
Mae della femminilità, della sessualità e del pericolo» 12 si
possa risolvere considerando il tentativo degli Enga di
fondare il matrimonio su un’alleanza che abbraccia i rap-
porti più competitivi nel loro sistema sociale fortemente
competitivo.
Fino a poco tempo fa, i clan combattevano sempre per le
scarse risorse terriere, i furti di maiali e per l’impossibilità di
pagare i debiti e, in ogni singolo clan, la maggior parte degli
uomini perduti in battaglia erano stati uccisi dai vicini più pros-
simi. Allo stesso tempo, a causa del terreno montagnoso e acci-
dentato, la vicinanza era un elemento importante per determi-
nare le effettive scelte matrimoniali. Pertanto, vi è una correla-
zione piuttosto alta tra i matrimoni tra clan e la frequenza degli
omicidi, relativamente alla vicinanza dei clan. I Mae sottolinea-
no in modo piuttosto crudele questa coincidenza, quando dico-
no: «Noi ci sposiamo con la gente con cui combattiamo» 13.
Abbiamo osservato come il timore che i Mae Enga
nutrono per la contaminazione femminile si contrapponga
alla credenza nell’equilibrio dei poteri e dei pericoli ine-
renti ai due sessi, come appare nella cultura degli Ara-
pesh della montagna. E molto interessante notare inoltre
che gli Arapesh disapprovano l’esogamia locale; se un uo-
mo deve sposare una donna degli Arapesh di pianura, egli
adotta delle complicate precauzioni per acquietare la sua
più pericolosa sessualità.
Qualora ne sposi una, non dovrebbe maritarsi in fretta, ma
lasciarla vivere presso la casa per qualche mese, perché impari
ad abituarsi a lui e a reprimere l’eventuale ostilità che deriva
dalla poca familiarità e dall’estraneità. Allora può fare all’amore
con lei e stare a vedere: prosperano le sue patate dolci? trova
selvaggina se va a caccia? Se sì, tutto va bene; ma in caso nega-
tivo, si astenga dall’avere rapporti con questa donna pericolosa
e iperdotata sessualmente per molte altre lune ancora, altrimen-
ti parte della sua potenza, la sua stessa forza fisica, e ciò che
più gli sta a cuore, la sua abilità di procacciare il cibo agli altri,
sarebbero compromesse per sempre ” .

229
Il sistema in guerra con se stesso

Questo esempio sembrerebbe convalidare l’ipotesi del-


la Meggitt che l’esogamia locale, nelle condizioni di vita
stressanti e competitive degli Enga, comporti per il matri-
monio un grave carico di tensioni. Se è così, allora gli En-
ga potrebbero forse liberarsi delle loro scomode credenze
ed eliminare le loro angosce radicalmente, all’origine; ma
affermare questo significa azzardare un’osservazione deci-
samente poco pratica: ciò significherebbe rinunciare ai lo-
ro scambi violentemente competitivi con i clan rivali, o ai
loro matrimoni esogami, o smettere di combattere, o
smettere di sposare le sorelle di quelli contro i quali com-
battono. L ’una e l’altra scelta comporterebbero una rifor-
mulazione generale del loro sistema sociale. In pratica,
come storicamente si verificò, quando tale spinta venne
dall’esterno, con l’arrivo dei missionari e le loro prediche
sul sesso e con l’avvento della pace imposta dall’ammini-
strazione australiana, gli Enga abbandonarono senza mol-
te difficoltà le loro credenze sui pericoli del sesso femmi-
nile.
La contraddizione che gli Enga cercano di risolvere ri-
correndo all’astensione è il tentativo di costituire il matri-
monio sull’inimicizia. Ma dalla formulazione contradditto-
ria dei ruoli maschili e femminili deriva un’altra difficoltà,
forse più comune nelle società primitive: se il principio
della supremazia maschile viene elaborato con assoluta
coerenza, esso non deve necessariamente contraddire nes-
sun altro principio fondamentale. Abbiamo citato due casi
molto differenti in cui il predominio maschile viene appli-
cato con spietata semplicità; ma tale principio viene con-
traddetto quando compare un altro principio che proteg-
ge le donne dalla violenza fisica, poiché ciò dà alle donne
l’opportunità di mettere un uomo contro l’altro, intaccan-
do così il principio del predominio maschile.
E estremamente probabile che l’intera società sia fon-
data su una contraddizione, se il sistema è di quelli in cui
gli uomini definiscono il loro status in termini di diritti
sulle donne. Nel caso vi sia libera competizione tra gli uo-
mini, ciò dà la possibilità alla donna scontenta di rivolger-
si ai rivali del marito o del suo guardiano per procurarsi

230
Il sistema in guerra con se stesso

nuovi protettori e una nuova subordinazione, e di dissol-


vere così nel nulla la struttura di diritti e di doveri che è
stata precedentemente costruita intorno a lei. Questo ge-
nere di contraddizione insorge nel sistema sociale solo se
non esiste alcuna possibilità di intervenire de facto sulle
donne per la coercizione. Per esempio, questa contraddi-
zione non compare in presenza di un sistema politico cen-
tralizzato che rivolge contro il sesso femminile il peso del-
la sua autorità; dove il sistema giuridico si può esercitare
contro le donne, esse non possono distruggere il sistema.
Ma un sistema politico centralizzato non è certo quello in
cui la posizione sociale maschile è formulata essenzial-
mente nei termini di un diritto sulle donne.
Il caso dei Lele è un esempio di sistema sociale che
tende continuamente a cadere nelle contraddizioni che i
raggiri femminili creano ai danni della supremazia maschi-
le. Tutte le rivalità maschili si esprimono nella competi-
zione per le mogli: un uomo senza moglie si trova al di
sotto dell’ultimo gradino della scala sociale; con una mo-
glie comincia ad essere qualcuno, generando dei figli e ac-
quisendo così un titolo per entrare a far parte delle asso-
ciazioni per il culto che sono remunerative; se gli nasce
una figlia può iniziare a rivendicare i servigi di un genero;
con diverse figlie e con i relativi futuri generi, ma soprat-
tutto con le nipoti, egli arriva in cima alla scala del privi-
legio e della considerazione, perché le donne che ha gene-
rato possono essere offerte in matrimonio ad altri, per-
mettendogli di crearsi un seguito di uomini. Ogni uomo
maturo può sperare di prendere due o tre mogli, mentre
nel frattempo i giovani devono attendere nel celibato. La
poligamia di per sé esaspera la competizione per le mogli,
ma non sarebbe semplice riferire in questa sede i vari altri
modi in cui il successo di un uomo nella sfera maschile si
è spostato sul controllo delle donne D. Tutta la loro vita
sociale era prevalentemente regolata da un’istituzione se-
condo la quale i compensi venivano pagati col trasferi-
mento dei diritti sulle donne. Conseguenza diretta era che
le donne venivano trattate, da un certo punto di vista, co-
me una sorta di denaro contante col quale gli uomini re-

231
Il sistema in guerra con se stesso

clamavano e saldavano il pagamento dei debiti che strin-


gevano fra loro. I debiti che gli uomini avevano accumu-
lato l’uno verso l’altro erano così ingenti che essi poteva-
no rivendicare dei diritti sulle figlie che sarebbero nate
generazioni e generazioni dopo: un uomo che non avesse
alcun diritto sulle donne da poter trasferire si trovava in
una posizione difficile quanto quella di un uomo d’affari
di oggi privo del conto in banca. Da un punto di vista
maschile le donne erano gli oggetti più desiderabili che la
loro cultura potesse offrire e, dal momento che tutte le
offese e i doveri potevano essere dimenticati col trasferi-
mento dei diritti posseduti sulle donne, era perfettamente
corretto affermare, come essi facevano, che l’unico motivo
per cui essi andavano in guerra erano le donne.
Una ragazzina Lele veniva educata a fare la civetta; fin
dall’infanzia era circondata di attenzioni affettuose, petu-
lanti, galanti. Il suo promesso sposo non riusciva mai ad
avere su di lei niente di più di un limitatissimo controllo;
aveva, sì, il diritto di castigarla, ma se lo faceva con trop-
pa violenza, e soprattutto se perdeva il suo amore, la ra-
gazza poteva sempre trovare un pretesto per convincere i
fratelli che il marito la trascurava. La mortalità infantile
era alta e, in caso di aborto o di morte del neonato, i
parenti della donna non esitavano a bussare alla porta del
marito per chiedergli spiegazioni. Dal momento che gli
uomini erano in competizione tra loro per le donne, c’era
sempre la possibilità per queste ultime di intessere raggiri
e intrighi; non mancavano speranzosi seduttori, e nessuna
donna dubitava di potersi prendere un altro marito se le
faceva piacere. Un marito, le cui mogli gli restassero fede-
li fino alla mezza età, non doveva mai trascurare né la
moglie né sua madre; le relazioni maritali erano regolate
da un’etichetta piuttosto complicata che prevedeva mille
occasioni in cui il marito doveva offrire alla moglie dei
doni più o meno importanti. Quando la moglie era in sta-
to interessante o malata, o quando aveva partorito di re-
cente, egli era tenuto a prestare assiduamente l’assistenza
medica del caso. Se si veniva a sapere che una donna era
insoddisfatta della sua vita, veniva subito corteggiata, e le

232
Il sistema in guerra con se stesso

si aprivano molte strade per decidere di troncare il suo


matrimonio.
Quanto ho detto è sufficiente per dimostrare perché
gli uomini Lele erano angosciati dai loro rapporti con le
donne; benché in certi contesti essi pensassero alle donne
come a dei tesori desiderabili, ne parlavano anche come
di esseri indegni, cani o, peggio ancora, intrattabili, igno-
ranti, petulanti, infide. Dal punto di vista sociale, le don-
ne erano veramente così: non avevano il minimo interesse
per il mondo degli uomini in cui insieme alle loro figlie
venivano scambiate come delle pedine nei giochi di pre-
stigio maschili, e sfruttavano abilmente le opportunità che
si offrivano loro. Se si mettevano d’accordo, madre e fi-
glia insieme potevano mandare all’aria qualsiasi piano che
non fosse di loro gradimento. Ragion per cui gli uomini
alla fine dovevano affermare la loro vantata supremazia ri-
correndo a vizi, allettamenti e adulazioni; e quando parla-
vano con le donne usavano uno speciale tono carezzevole
di voce.
L ’atteggiamento dei Lele nei riguardi del sesso era un
misto di piacere, desiderio di fertilità e riconoscimento
del pericolo. Avevano tutte le ragioni per desiderare la fe-
condità, come ho già notato, ed era a questo scopo che
celebravano i loro culti religiosi. L ’attività sessuale era ri-
tenuta pericolosa di per sé, non tanto per i due partner,
quando per il malato e il debole. Tutti quelli che avessero
da poco intrattenuto un rapporto sessuale dovevano star-
sene lontani dai malati, ai quali il contatto indiretto pote-
va aumentare la febbre. I neonati potevano morire per un
tale contatto. Di conseguenza si appendevano delle fron-
de di rafia gialla all’entrata di un recinto per avvertire tut-
ti gli individui responsabili che all’interno vi era una per-
sona malata o un neonato. Questo era un pericolo genera-
le, ma ve n’erano di speciali per gli uomini. Una moglie
aveva il dovere di pulire il marito dopo un rapporto ses-
suale e quindi di lavarsi prima di toccare i cibi da cucina-
re. Ogni donna sposata teneva una bacinella di acqua na-
scosta nel prato fuori del villaggio, dove poteva lavarsi in

233
Il sistema in guerra con se stesso

segreto. La bacinella doveva essere ben nascosta e in un


luogo in cui non passasse nessuno, in quanto, se a un uo-
mo accadeva di inciampare per caso sul recipiente, il suo
vigore sessuale ne sarebbe stato indebolito. Se la donna
avesse dimenticato le sue abluzioni e l’uomo avesse man-
giato il cibo da lei cucinato, avrebbe perduto la sua virili-
tà. Tutti questi pericoli derivavano dai rapporti sessuali
legittimi. Ma bisogna aggiungere che una donna non po-
teva cuocere il cibo o accendere il fuoco durante il perio-
do mestruale, se non voleva che il marito cadesse amma-
lato; poteva preparare il cibo, ma quando era il momento
di metterlo sul fuoco doveva chiamare in aiuto un’amica.
Questi erano i pericoli a cui solo gli uomini erano sogget-
ti, ma non le altre donne o i bambini. Infine, una donna
metteva in pericolo tutta la comunità se entrava nella fo-
resta quando aveva le mestruazioni. Non solo le sue me-
struazioni avrebbero latto finir male qualsiasi cosa lei vo-
lesse fare nella foresta, ma si pensava che essa avrebbe
creato delle condizioni sfavorevoli per gli uomini: la cac-
cia sarebbe stata difficile in seguito per molto tempo, e i
riti fatti con le piante della foresta non avrebbero avuto
effetto. Le donne trovavano queste norme estremamente
antipatiche, specialmente perché erano regolarmente in
poche e sempre indietro con i lavori di coltivazione, di
sarchiatura, di mietitura e nella pesca.
Il pericolo del sesso veniva contenuto anche attraverso
regole che proteggevano le azioni maschili dalla contami-
nazione femminile, e quelle femminili dalla contaminazio-
ne maschile. Tutto il rituale doveva essere protetto dalla
contaminazione femminile, proibendo agli officianti ma-
schi (le donne venivano generalmente escluse dalle opera-
zioni di culto) di avere dei rapporti sessuali la notte pre-
cedente i riti. Lo stesso avveniva per la guerra, la caccia,
l’estrazione del vino di palma. Analogamente, le donne
dovevano evitare i rapporti sessuali prima di piantare le
arachidi o il granoturco, prima di andare a pesca o di fare
il sale o le terrecotte. Queste paure toccavano simmetrica-
mente sia gli uomini che le donne. Le condizioni general-
mente imposte per fronteggiare una grande crisi rituale

234
Il sistema in guerra con se stesso

erano quelle di richiedere l’astinenza sessuale da parte di


tutto il villaggio. Così, quando nascevano dei gemelli, o
quando per la prima volta entrava nel villaggio un gemel-
lo proveniente da un altro villaggio, o nel corso di altre
cerimonie per la fertilità o contro gli incantesimi, gli abi-
tanti del villaggio potevano udire per più notti di seguito
Pavvertimento: «Ciascun uomo, ciascuna donna stiano so-
li sullo stuoino». Nello stesso tempo si poteva sentire un
altro grido: «Stanotte non litigate, e se dovete litigare non
fatelo in segreto. Fateci sentire il rumore, in modo che
possiamo farvi pagare una multa». Il litigio veniva consi-
derato, alla stregua del rapporto sessuale, come qualcosa
di deleterio per le buone condizioni rituali del villaggio;
infatti rovinava le cerimonie e la caccia. Ma mentre il liti-
gio era sempre un male, il rapporto sessuale lo era soltan-
to in certe occasioni, piuttosto frequenti.
L ’angoscia dei Cele per i pericoli rituali prodotti dal
sesso va, a mio parere, considerata come un ruolo effetti-
vamente distruttivo assegnato al sesso nel loro sistema so-
ciale. I loro uomini formavano una scala sociale i cui suc-
cessivi stadi venivano raggiunti mano a mano che essi ac-
quisivano il controllo su un numero sempre maggiore di
donne; ma essi aprivano tutto il sistema alla competizio-
ne, consentendo così alle donne di assumere un doppio
ruolo: quello di pedine passive e quello di attive intrigan-
ti. Ciascun uomo aveva ben ragione di temere che ogni
altra donna avrebbe potuto guastare i suoi piani, e la pau-
ra dei pericoli del sesso rivela fin troppo precisamente
quanto esso fosse potente nella loro struttura sociale.
La contaminazione femminile in una società di questo
tipo è da riferire, in gran parte, al tentativo eli trattare le
donne allo stesso tempo come persone e come denaro
contante nelle contrattazioni maschili. Gli uomini e le
donne sono separati come se appartenessero a sfere di-
stinte e reciprocamente ostili; ne deriva inevitabilmente
un antagonismo sessuale, e ciò si esprime nel concetto
che ciascun sesso comporti un pericolo per l’altro. I peri-
coli specifici che minacciano i maschi in seguito al contat-
to femminile riflettono la contraddizione insita nel cercare

235
Il sistema in guerra con se stesso

di usare le donne come moneta di scambio, senza però


ridurle in stato di schiavitù. Se in una cultura commercia-
le si è talvolta avuta la sensazione che il denaro è fonte di
ogni male, tanto più giustificata per i Lele è la sensazione
che le donne siano la causa di tutti i mali. Indubbiamente
la storia del Giardino dell’Eden ha toccato profondamen-
te l’animo dei Lele maschi: narrata una volta dai missio-
nari, essa fu ripetuta in tale contesto pagano, non senza
un vanitoso compiacimento.
Gli Yurok della California settentrionale hanno meri-
tato più di una volta l’attenzione degli antropologi e degli
psicologi per il carattere radicale delle idee di purezza e
di impurità, come abbiamo detto. La loro è una cultura
che sta morendo. Quando Robins studiò il linguaggio de-
gli Yurok nel 1951, vi erano cinque adulti di lingua Yu-
rok ancora vivi 16. Sembra sia stato un altro esempio di
cultura fortemente incentrata sui valori acquisitivi e com-
petitivi. Gli uomini erano tutti presi dal procacciarsi la
ricchezza sotto forma di oggetti che procurassero loro
prestigio, come conchiglie-monete, piume e pellicce rare,
lame d’ossidiana d’importazione. A parte quelli che pote-
vano accedere alle vie di comunicazione lungo le quali ve-
nivano commerciate le merci straniere, la maniera norma-
le di arricchire era quella di essere abili a rivendicare dei
torti e a chiederne riparazione. Ogni insulto aveva il suo
prezzo più o meno determinato; c’era un certo margine
per la contrattazione, dal momento che ci si accordava al-
la fine su un prezzo ad hoc secondo il valore che un uo-
mo poteva attribuire a se stesso e secondo l’appoggio che
poteva trovare fra i suoi parenti più stretti17. Notevoli
fonti di ricchezza erano gli adultèri delle mogli e i matri-
moni delle figlie. Un uomo che perseguitava le donne di
un altro poteva dilapidare la sua fortuna nel risarcimento
dell’adulterio.
Gli Yurok erano a tal punto convinti che il contatto
con le donne avrebbe tolto loro ogni potere di acquisire
ricchezze, che, secondo loro, donne e denaro non doveva-
no mai stare vicini. Fatale alla futura prosperità dell’uomo
veniva considerato soprattutto avere rapporti sessuali nel-

236
Il sistema in guerra con se stesso

la casa in cui egli conservava i suoi fili di conchiglie-mo-


nete. D ’inverno, quando faceva troppo freddo per starse-
ne all’aperto, facevano tutti astinenza, a quanto pare; in-
fatti i bambini Yurok nascevano di solito nello stesso pe-
riodo dell’anno, nove mesi dopo i primi caldi. Una così
rigorosa separazione tra affari e piaceri ispirò a Walter
Goldschmidt un paragone tra i valori Yurok e quelli del-
l’etica protestante 18. La ricerca lo coinvolse in una defor-
mazione piuttosto speciosa della nozione di economia ca-
pitalistica, a un punto tale da farle comprendere tanto la
pesca del salmone degli Yurok quanto l’Europa del sedi-
cesimo secolo. Egli dimostrò che ambedue le società era-
no caratterizzate da un alto concetto della castità, della
parsimonia e della ricerca di ricchezza. Inoltre, diede
grande rilevanza al fatto che gli Yurok si potevano classi-
ficare come i primi capitalisti, poiché ammettevano il con-
trollo privato dei mezzi di produzione, a differenza di al-
tri popoli primitivi. Ebbene, è vero che i singoli Yurok
vantavano i propri diritti sulla pesca e sui luoghi di rac-
colta delle bacche, e che questi diritti potevano essere tra-
sferiti da un individuo all’altro, come estrema risorsa, in
pagamento dei debiti; ma questa è una pretesa un po’
particolare, se deve essere la base per classificare la loro
economia come capitalistica. Tali trasferimenti avevano
luogo solo eccezionalmente a titolo di ipoteca, quando un
uomo non aveva denaro in conchiglie o altra ricchezza
mobile con cui pagare i suoi debiti, ed è ovvio che non
esisteva un regolare mercato del patrimonio terriero. I de-
biti contratti di solito dagli Yurok non erano debiti com-
merciali, ma debiti d’onore 19. Cora Dubois ci ha dato un
illuminante resoconto delle popolazioni vicine presso le
quali la fiera competizione per il prestigio si esprimeva in
una sfera più o meno isolata dalla sfera di sussistenza del-
l’economia. E, ancor più significativo per la comprensione
del loro concetto della contaminazione femminile, è il fat-
to che per gli uomini Yurok c’era veramente un senso in
cui la ricerca della ricchezza e il desiderio delle donne si
trovavano in contraddizione.
Abbiamo rintracciato questo complesso di Dalila, la

237
Il sistema in guerra con se stesso

credenza secondo cui le donne debilitino oppure inganni-


no, nelle sue forme più estreme presso i Mae Enga della
Nuova Guinea, presso i Lele del Congo e presso gli In-
diani Yurok della California. Dove tale complesso è pre-
sente, noi troviamo che le angosce maschili a proposito
del comportamento delle donne sono giustificate, e che la
situazione dei rapporti fra maschio e femmina è impostata
in modo tale che le donne sono considerare fin dall’inizio
come delle ingannatrici.
Non sempre sono gli uomini ad avere paura della con-
taminazione sessuale; per mantenere la simmetria, do-
vremmo considerare un esempio in cui sono le donne che
si comportano come se l’attività sessuale fosse terribil-
mente pericolosa. Audrey Richards sostiene che i Bemba
della Rhodesia settentrionale si comportano come se fos-
sero ossessionati dal timore dell’impurità sessuale: ma
l’autrice osserva che si tratta di un comportamento cultu-
ralmente stereotipato, e in effetti nessun timore ostacola
apparentemente la loro libertà individuale. A livello cultu-
rale, la paura del rapporto sessuale sembra dominante
nella misura in cui «non sia troppo esagerata». A livello
personale, «i Bemba esprimono un aperto piacere nei rap-
porti sessuali» 2". In altri luoghi la contaminazione sessua-
le si contrae per contatto diretto, ma qui si ritiene che sia
mediata dal contatto con il fuoco. Non vi è alcun pericolo
nel toccare o nel vedere una persona che sia sessualmente
attiva, che non si sia purificata, qualcuno che sia caldo di
sesso, come dicono i Bemba; ma non appena questa per-
sona si avvicina al fuoco, tutti i cibi cotti saranno perico-
losamente contaminati.
Per un rapporto sessuale sono necessarie due persone,
ma ne basta una per cucinare un pasto: se si suppone che-
la contaminazione si trasmetta coi cibi cotti, è decisamen-
te sulle donne Bemba che ricade la responsabilità. Una
donna Bemba deve stare sempre attenta a difendere il suo
focolare da ogni persona adulta che possa aver avuto rap-
porti sessuali e non abbia eseguito le purificazioni di rito.
Il pericolo è mortale: se un bambino mangia del cibo cu-
cinato su un fuoco contaminato, rischia di morire; presso

238
Il sistema in guerra con se stesso

i Bemba una madre ha il suo daffare nello spegnere i fuo-


chi sospetti per accenderne di nuovi e puri.
Anche se i Bemba credono che ogni tipo di attività
sessuale sia fonte di pericolo, tendenzialmente le loro cre-
denze indicano l'adulterio come il pericolo effettivo e
concreto. Due sposi possono somministrare l’uno nei ri-
guardi dell’altra la purificazione rituale dopo ogni atto
sessuale; ma un adultero non può essere purificato a me-
no che non possa chiedere la collaborazione della moglie,
dal momento che questo rito non si può celebrare da soli.
La Richards non ci dice come venga cancellata l’impu-
rità dell’adulterio o in che modo a lungo andare l’adultera
possa dar da mangiare ai suoi bambini; l’autrice ci assicu-
ra comunque che queste credenze non li scoraggiano dal
commettere adultèri. Tale è il pericolo che si pensa sia
generalmente prodotto dagli adùlteri che, per quanto
scrupolosamente possano guardarsi dal toccare quei foco-
lari in cui viene cucinato del cibo per i bambini, essi re-
stano sempre potenzialmente un pericolo pubblico.
Si noti che in questa società la contaminazione sessua-
le è fonte di angoscia più per le donne che per gli uomi-
ni; esse possono venir rimproverate di negligenza da parte
degli uomini se i loro bimbi muoiono (e il tasso di morta-
lità infantile è molto alto). Presso gli Yao e i Cewa del
Nyasaland è presente un analogo complesso di credenze
che riguarda la contaminazione del sale. Tutte e tre que-
ste tribù riconoscono la discendenza per linea femminile,
ed in tutte gli uomini sono tenuti ad abbandonare il loro
villaggio nativo per raggiungere il villaggio della moglie.
Questo crea un modello strutturale di villaggio in cui un
nucleo di donne legate fra loro da una discendenza diret-
ta attrae da altri villaggi degli uomini che vi si sistemano
in qualità di mariti. Il futuro del villaggio come unità po-
litica dipende dalla possibilità di trattenere questi maschi
estranei a vivere all’interno di esso. Ma noi ci aspetterem-
mo che gli uomini abbiano molto meno interesse a co-
struire un matrimonio stabile; la stessa regola della suc-
cessione matrilineare fa sì che il loro interesse si rivolga ai
figli delle sorelle; mentre il villaggio, infatti, è costruito

239
Il sistema in guerra con se stesso

sul legame coniugale, ciò non avviene per la discendenza


matrilineare, infatti gli uomini vengono introdotti nel vil-
laggio in seguito al matrimonio e le donne vi sono nate.
In tutta l’Africa centrale il concetto del buon villaggio
che cresce e resiste è un valore fortemente radicato tanto
negli uomini che nelle donne, ma le donne hanno un du-
plice interesse a conservare i mariti: una donna Bemba
adempie al suo ruolo più gratificante quando, giunta alla
maturità, divenuta una matriarca del suo villaggio, può
sperare di invecchiare circondata dalle figlie e dalle figlie
delle sue figlie. Ma se un uomo Bemba trova pesanti i
primi anni di matrimonio, non farà che abbandonare sua
moglie per tornarsene a casa21.
Per di più, se tutti gli uomini se ne vanno, o anche
solo metà di loro, il villaggio non funzionerà più come
unità economica. La divisione del lavoro impone una po-
sizione particolarmente dipendente alle donne Bemba. In-
dubbiamente in questa regione, in cui ora è normale che
il cinquanta per cento dei maschi adulti venga a mancare
perché emigra in cerca di lavoro, i villaggi dei Bemba do-
vettero patire un maggior grado di disgregazione che i vil-
laggi delle altre tribù della Rhodesia settentrionale 22.
L'istruzione delle ragazze Bemba nelle cerimonie della
pubertà ci aiuta a mettere in relazione questi aspetti della
struttura sociale e delle ambizioni femminili con i loro ti-
mori della contaminazione sessuale. La Richards riferisce
che le ragazze subiscono un severo indottrinamento sulla
necessità di comportarsi coi loro mariti in modo sotto-
messo; la cosa è interessante dal momento che esse sono
considerate particolarmente insopportabili e intrattabili.
Le candidate vengono umiliate e contemporaneamente si
esalta la virilità dei loro mariti; ciò ha senso se noi consi-
deriamo che il ruolo del marito Bemba presenta un’analo-
gia in senso inverso al ruolo della moglie Mae Enga. Egli
è solo ed è un estraneo nel villaggio di sua moglie, ma è
un uomo e non una donna: se non è felice se ne va e
tutto finisce lì; egli non può essere castigato come una
moglie che abbandona il tetto coniugale. Non vi sono
trucchi legali che consentano di preservare la simulazione

240
// sistema in guerra con se stesso

di un matrimonio legale senza che vi sia un fondamento


nella realtà: la sua presenza fisica nel villaggio della mo-
glie è per quel villaggio più importante di quanto siano
per lui i diritti che ottiene col matrimonio e nessuno lo
può costringere a rimanere là. Se la moglie Enga è una
Dalila, egli è Sansone nel campo dei Filistei. Se si sente
umiliato può far crollare le colonne della società, poiché
se tutti i mariti dovessero insorgere e andarsene il villag-
gio ne sarebbe rovinato. Nessuna meraviglia che le donne
siano ansiose di adularlo e di intrappolarlo. Nessuna me-
raviglia che esse desiderino difendersi dagli effetti dell’a-
dulterio. Il marito appare non tanto pericoloso o sinistro,
ma timido, facile a spaventarsi, bisognoso di rassicurazio-
ni sulla sua virilità e sui pericoli che la minacciano. Egli
ha bisogno di convincersi che sua moglie si preoccupa di
lui, lo assiste per purificarlo e tiene d’occhio il fuoco.
L ’uomo non può fare nulla senza di lei, neppure quando
si tratta di accostarsi agli spiriti dei suoi antenati. La mo-
glie Bemba, con le angosce che si autoimpone per via del-
la contaminazione sessuale, si presenta come la categoria
opposta del marito Mae Enga. Tutti e due incontrano nel
matrimonio delle angosce provocate da una situazione
connessa con la struttura della società globale. Se la don-
na Bemba non volesse starsene a casa e assumersi il ruolo
della matrona influente, se fosse disposta a seguire docil-
mente il marito nel villaggio di lui, essa potrebbe risolvere
le proprie angosce di contaminazione sessuale.
In tutti gli esempi citati di questo tipo di contamina-
zione, il problema fondamentale è quello di volere la bot-
te piena e la moglie ubriaca. Gli Enga vogliono combatte-
re i clan loro nemici e, nello stesso tempo, vogliono spo-
sare le donne di quei clan. I Tele intendono usare le don-
ne come delle pedine nelle mani degli uomini e, cionono-
stante, prenderanno le parti di singole donne a svantaggio
di altri uomini. Le donne Bemba amano essere libere e
indipendenti e scelgono un comportamento che rischia di
distruggere il loro matrimonio, e tuttavia vogliono che i
mariti stiano con loro. In ognuno di questi casi la situa-
zione di pericolo che si deve trattare con lavacri e con

241
Il sistema in guerra con se stesso

astensioni ha in comune con le altre la contraddittorietà


delle norme di comportamento. La mano sinistra combat-
te contro la destra, proprio come accade nel mito del
Briccone degli Indiani Winnebago.
C’è una ragione per la quale tutti questi casi in cui il
sistema sociale appare in guerra contro se stesso sono
tratti dalle relazioni sessuali? Vi sono molti altri contesti
in cui i canoni normali della nostra cultura ci portano ad
un comportamento contraddittorio. La politica del reddi-
to nazionale è uno dei campi recenti in cui si può facil-
mente applicare questo tipo di analisi e, tuttavia, non
sembra che certe contraddizioni che non implicano il ses-
so siano circondate da paure di contaminazioni. A ciò si
può rispondere che nessun’altra pressione sociale sia così
potenzialmente esplosiva come quella che reprime i rap-
porti sessuali. Possiamo persino accogliere con favore la
straordinaria aspirazione di san Paolo che non vi siano
nella nuova società cristiana né maschi né femmine.
Gli esempi che abbiamo considerato possono farci
meglio comprendere l’importanza esagerata che si attri-
buiva alla verginità nei primi secoli del cristianesimo. La
chiesa primitiva, come ci appare dagli Atti, andava isti-
tuendo, nel modo in cui trattava le donne, un modello di
libertà e di uguaglianza che era contrario al tradizionale
costume ebraico. A quel tempo in Medio Oriente la bar-
riera del sesso era una barriera di oppressione, come si
può dedurre dalle parole di san Paolo:
Poiché quanti foste battezzati nel Cristo avete rivestito il
Cristo: non conta più l’essere giudeo o greco, né l’essere schia-
vo o libero, né l’essere uomo o donna; poiché voi tutti siete un
essere in Cristo Gesù 23.
In questo tentativo di creare una nuova società che sa-
rebbe stata libera, senza legami e senza costrizioni o con-
traddizioni, era indubbiamente necessario instaurare un
nuovo ordine di valori positivi. L ’idea che la verginità
avesse un valore particolarmente positivo era destinata a
cadere in un terreno fertile, nel caso di quel piccolo grup-
po minoritario di perseguitati. Abbiamo visto infatti che

242
Il sistema in guerra con se stesso

queste condizioni sociali alimentano delle credenze secon-


do le quali il corpo è simboleggiato come un recipiente
difettoso, che sarebbe perfetto solo se lo si potesse rende-
re impermeabile. Inoltre, il concetto dell’alto valore della
verginità sarebbe stato scelto ottimamente per il progetto
di trasformare il ruolo che i due sessi ricoprivano nel ma-
trimonio e nella società in generale 24. L ’idea della donna
come prima Èva, associata ai timori della contaminazione
sessuale, appartiene a un certo tipo di organizzazione so-
ciale specifica. Se questo ordine sociale viene mutato, la
seconda Èva, una vergine che è fonte di redenzione e che
schiaccia il male sotto i suoi piedi, è il nuovo potente sim-
bolo del presente.

Note
1 Essays on thè Ritual o f Social Relations, a cura di M. Gluckman,
Manchester, 1962.
2 M. Meggitt, Desert People: A Study o f thè Walbiri Aborigines o f
Central Australia, Sydney, 1962.
3 E.E. Evans-Pritchard, The Nuer, cit.
C.K. Meek, Law and Authority in a Nigerian Tribe, Oxford,
1937, pp. 218-19.
5 S.M. Salim, Marshdwellers o f thè Euphrates Delta, London,
1962, p. 61.
6 E.E. Evans-Pritchard, Kinship and Marriage among thè Nuer ,
cit., cap. 3.
7 N. Yalman, The Purity ofW omen in Ceylon and Southern India,
cit.
8 K.E. Read, Cultures in Central Highlands, in «South Western
Journal of Anthropology», X (1954), pp. 1-43.
9 M. Mead, The Mountain Arapesh, in «Anthropological Papers
of thè American Museum of Naturai History», XXXVII (1940).
10 M. Meggitt, Male Female Relationships in thè Highlands of
Australian New Guinea, in New Guinea: The Central Highlands, a cura
di J.B. Watson, Lancaster; numero speciale dell’«American Anthropol-
ogist», II (1964).
11 Ibidem.
12 Ibidem.
13 Ibidem.

243
Il sistema in guerra con se stesso

14 M. Mead, The Mountain Arapesh, cit., p. 345.


15 Cfr. M. Douglas, The Lele of thè Rasai, cit.
16 R.H. Robins, The Yurok Language, Grommar, Texts, Lexicon,
in «University of California Publications in Linguistics», XV (1958).
17 A.L. Kroeber, Handbook o f thè Indiani o f California, in «Bulle -
tin of thè Bureau of American Ethnology», Washington, LXXVIII
(1925).
18 W. Goldschmidt, Ethics and thè Stradare o f Society, in
«American Anthropologist», LUI (1951), pp. 506-24.
19 C. Dubois, The Wealth Concepì as an Integrative Factor in To-
lowa-Tututni Culture, cit
20 A.L Richards, Chisungu: /I GitTs Initiation Ceremony among
thè Bemba o f Northern Rhodesia, cit., p. 154.
21 Ibidem, p. 41.
W. Watson, 7 rihai Cohesion in a Money Economy, Manchester.
1958.
Paolo, Lettera a i Calati, 3, 28.
~4 E. Wangermann, Women in thè Church, in «Life of thè Spirit»,
XXVII (1963), p. 201.

244
Capitolo decimo

Il sistema distrutto e ricostruito

È giunto ora il momento di affrontare il nostro pro-


blema iniziale. Può esistere della gente che confonde il sa-
cro con l’impurità? Abbiamo visto come l’idea di influen-
za per contatto sia attiva nella religione e nella società;
abbiamo visto come vengano attribuiti poteri a ogni strut-
tura concettuale e come le regole di astensione costitui-
scano un riconoscimento pubblico, visibile, dei suoi confi-
ni. Ma ciò non significa affermare che il sacro sia impuro.
Ogni cultura deve avere le proprie nozioni di sporcizia e
di contaminazione che vengono a contrapporsi alle sue
nozioni di struttura positiva, senza che queste ultime sia-
no negate. Non ha alcun senso parlare di confuse mesco-
lanze di sacro e di impuro, ma resta valido il fatto che le
religioni spesso considerano sacre cose molto impure e re-
spinte con orrore. Pertanto dobbiamo chiederci come mai
lo sporco, che di solito è distruttivo, talvolta divenga crea-
tivo.
In primo luogo notiamo ciré non tutte le cose impure
vengono usate nel rituale con una funzione costruttiva:
non basta che una certa cosa sia impura perché venga
considerata una potenza positiva. In Israele era impensa-
bile che cose immonde come i cadaveri e gli escrementi
potessero venir inserite nelle cerimonie del Tempio, ma
solo il sangue, e soltanto quello versato nel sacrificio.
Presso gli Oyo Yoruba, per i quali la mano sinistra viene
usata per i lavori poco puliti ed è estremamente offensivo
offrire la sinistra, i riti normali sacralizzano la precedenza
del lato destro, in particolar modo con la danza verso de-
stra. Ma nei rituali del grande culto Ogboni, gli iniziati
devono allacciare i loro abiti dalla parte sinistra e danzare
solo verso sinistra l. L ’incesto è un’azione contaminante
per i Bushong, ma un atto di incesto rituale fa parte della

245
Il sistema distrutto e ricostruito

sacralizzazione del loro re, il quale, dal canto suo, sostie-


ne di essere la feccia della nazione: «Moi, ordure nyec» 2.
E così via. Benché siano soltanto particolari individui in
particolari occasioni quelli che possono infrangere queste
regole, è importante tuttavia chiedersi perché questi con-
tatti pericolosi siano richiesti dal rituale.
Una delle risposte sta nella natura della sporcizia stes-
sa; l’altra si può trovare nell’essenza dei problemi metafi-
sici e in quella di particolari tipi di riflessione che hanno
bisogno di essere chiariti.
Occupiamoci per prima cosa della sporcizia. Nel cor-
so di una qualsiasi imposizione di ordine, sia nella mente
che nel mondo esterno, l’atteggiamento verso pezzi e
frammenti respinti attraversa due stadi: primo, essi sono
manifestamente fuori posto, una minaccia per il buon or-
dine, e perciò vengono considerati una causa di disturbo
ed energicamente spazzati via. In questo stadio essi pos-
siedono una certa identità: si possono vedere come i
frammenti indesiderati di una cosa - quale che sia - da
cui essi provengono: capelli, cibo o involucri. Questo è lo
stadio in cui sono pericolosi: conservano ancora una loro
semi-identità e la chiarezza della scena in cui si trovano è
turbata dalla loro presenza. Ma un lungo processo di pol-
verizzazione, di dissoluzione e di putrefazione attende fa-
talmente tutte quelle materie fisiche che sono state rico-
nosciute come sporche e, alla fine, ogni identità scompa-
re. L ’origine dei vari frammenti e dei vari pezzi è andata
perduta ed essi sono entrati nella massa dell’immondizia
generale. Non è piacevole andare a frugare nei rifiuti per
cercare di recuperare qualcosa, poiché ciò fa rivivere l’i-
dentità: finché l’identità è assente l'immondizia non è pe-
ricolosa; non si creano neppure delle percezioni ambigue,
perché essa appartiene chiaramente a un posto definito,
un cumulo di immondizie di vario tipo. Persino le ossa
dei re sepolti suscitano un certo timore reverenziale, ep-
pure il pensiero che l’aria sia piena della polvere dei ca-
daveri di stirpi trapassate non ha il potere di smuovere
nulla. Dove non c’è differenziazione non c’è neppure con-
taminazione.

246
Il sistema distrutto e ricostruito

Ma dove sono tutte le loro ossa? Eppure ne son più


che i viventi:
per ogni vivo ne son mille volte mille i morti,
ma è terra ormai la loro polvere che mai nessuno vide?
La densa polvere toglierebbe il fiato
né spazio lascerebbe a vento o pioggia:
la terra una nube di polvere, il suolo compatto di ossa,
neppure i nostri scheletri troverebbero dimora.
Ma è vano pensare, e contarne i granelli,
che sono nini uguali, l’uno all’altro fratelli3.

In questo estremo stadio di disintegrazione totale, lo


sporco è assolutamente indifferenziato: così il ciclo è
completo. La sporcizia si è creata grazie a processi menta-
li di differenziazione, come sottoprodotto della creazione
dell’ordine; è iniziata così da uno stadio di non differen-
ziazione e, attraverso tutto il processo di differenziazione,
il suo ruolo è stato quello di minacciare le distinzioni sta-
bilite; alla fine essa ritorna al suo vero carattere indiscri-
minabile. L ’informale è perciò un simbolo adatto della
nascita e della crescita, così come lo è della morte.
In base a ciò, Lutto quello che si è detto per spiegare
il ruolo vivificatore dell’acqua nel simbolismo religioso si
può affermare anche dello sporco:

Nell’acqua ogni cosa si «dissolve», ogni «forma» si disgrega,


ogni cosa che è accaduta cessa di esistere; dopo l’immersione
nell’acqua nulla rimane di ciò che era prima, non un contorno,
non un «segno», non un evento. L’immersione è l’equivalente a
livello umano di quello che, a livello cosmico, è la morte, il ca-
taclisma (il Diluvio) che periodicamente dissolve il mondo nel-
l’oceano primevo. Distruggendo tutte le forme, cancellando il
passato, l’acqua possiede questo potere di purificare, di rigene-
rare, di ridare nuova vita... L’acqua purifica e rigenera perché
annulla il passato e ristabilisce, anche se solo per un momento,
l’integrità originaria delle cose 4.

Nello stesso libro Eliade continua assimilando all’ac-


qua altri due simboli di rinnovamento che noi possiamo,
senza troppo insistere sulla questione, egualmente associa-
re alla polvere e alla corruzione. Uno è il simbolismo del

247
// sistema distrutto e ricostruito

buio, e l’altro è la celebrazione orgiastica dell’Anno Nuo-


vo \
Nella sua ultima fase, dunque, lo sporco si presenta
come un simbolo idoneo a rappresentare la creatività del-
l’informale, ma è dalla sua prima fase che esso trae la sua
forza. Il pericolo che si corre nella trasgressione dei confi-
ni equivale al potere. Quei margini vulnerabili e quelle
forze offensive che minacciano di distruggere il buon or-
dine rappresentano i poteri insiti nel cosmo. Il rituale che
riesce a sfruttare questi ultimi in senso positivo è davvero
un potere efficace.
Questo vale per la validità del simbolo in sé; quanto
alle situazioni reali a cui si applica e che sono irremedia-
bilmente inclini al paradossi), la ricerca di purezza è per-
seguita dal rifiuto; ne segue che, quando la purezza non è
un simbolo ma è qualche cosa di vissuto, essa deve essere
povera e sterile. E proprio della nostra condizione il fatto
che la purezza per cui tanto lottiamo e ci sacrifichiamo si
riveli essere dura e morta come pietra, una volta che l’ab-
biamo raggiunta. Tutto ciò va molto bene per il poeta,
quando celebra l’inverno come

Specchio dell’arte,
che uccide ogni forma di vita e di sentire,
ma non ciò che è puro e che sopravviverà 6.

Non è proprio così quando noi cerchiamo e riusciamo


a dare alla nostra esistenza una forma precisa e immutabi-
le: la purezza è nemica del mutamento, dell’ambiguità e
del compromesso. Molti di noi si potrebbero davvero sen-
tire più sicuri se la nostra esperienza avesse forme rigide e
stabilite. Come Sartre scrisse con tanto sarcasmo degli an-
tisemiti:

Come mai si può eleggere di ragionare falsamente? Gli è


che si ha nostalgia dell’impermeabilità... Ma ci sono invece al-
cuni che sono attratti dalla stabilità della pietra. Vogliono esse-
re massicci ed impenetrabili, non vogliono cambiare: dove li

248
Il sistema distrutto e ricostruito

condurrebbe mai un cambiamento?... È come se la loro propria


esistenza fosse continuamente differita. Ma essi vogliono esiste-
re tutto in una volta e subito. Non ne vogliono sapere di opi-
nioni acquisite, le desiderano innate;... vogliono adottare un
modo di vita in cui il ragionamento e la ricerca non abbiano
che una parte subordinata, dove si cerca solo quello che è già
trovato, dove si diventa solo ciò che si era 1.
Questa diatriba comporta una divisione tra il nostro
pensiero e quello rigidamente manicheo degli antisemiti;
ma, naturalmente, il desiderio della rigidità è presente in
tutti noi; è proprio della nostra condizione umana aspira-
re a linee rigide e a concetti chiari. Quando li possedia-
mo, dobbiamo o affrontare il fatto che alcune realtà li
eludono, oppure chiudere gli occhi di fronte all’inadegua-
tezza dei concetti.
Il paradosso finale della ricerca di purezza è che essa
è un tentativo di forzare l’esperienza entro categorie logi-
che di non-contraddizione: ma l’esperienza non è mallea-
bile, e chi si lascia attrarre da questo tentativo cade in
contraddizione.
Quando si tratta della purezza sessuale, è ovvio che se
essa esclude il contatto tra i sessi, non solo è una negazio-
ne del sesso, ma deve anche essere letteralmente sterile.
Anch’essa genera contraddizione. Desiderare che tutte le
donne siano caste, in ogni tempo, è contrario ad altri de-
sideri, e seguire tali aspirazioni con coerenza conduce ad
inconvenienti simili a quelli cui si sottopongono gli uomi-
ni Mae Enga. Nella Spagna del secolo decimosettimo, le
fanciulle di alto lignaggio si trovavano in un dilemma tale
per cui il disonore stava in entrambe le alternative: santa
Teresa di Avila crebbe in una società in cui la seduzione
di una fanciulla doveva essere vendicata dal fratello o dal
padre; così, se ella riceveva un amante rischiava il disono-
re e metteva a repentaglio delle vite umane. Tuttavia il
suo onore personale esigeva che ella fosse generosa e che
non si negasse al suo amante, in quanto rifiutare assoluta-
mente gli amanti era inconcepibile. Vi sono molti altri
esempi di come la ricerca di purezza crei dei problemi e
fornisca il pretesto per alcune curiose soluzioni.

249
Il sistema distrutto e ricostruito

Una soluzione è quella di godere della purezza in mo-


do indiretto. Qualcosa di simile ad una soddisfazione per
procura dava indubbiamente un senso al rispetto per la
verginità vigente presso i primi cristiani, procura un pia-
cere supplementare ai bramini Nambudiri quando rin-
chiudono le loro sorelle, ed aumenta il prestigio dei bra-
mini presso le caste inferiori in genere. In alcuni reami i
Pende del Kasai pretendono che i loro capi vivano in
continenza sessuale; un uomo solo quindi preserva il be-
nessere del regno a favore dei suoi sudditi poligami. Per
assicurarsi che non cada in fallo, il capo, che ha notoria-
mente superato l’età della maggiore attività sessuale quan-
do assume la carica, accetta che i suoi sudditi gli fissino
un fodero al pene per il resto della vita 8.
Talvolta la finzione di essere superlativamente puri è
basata sull’inganno. Gli adulti della tribù Chagga erano
soliti fingere che, con l’iniziazione, il loro ano si bloccasse
per tutta la vita: si presumeva che gli uomini già iniziati
non defecassero mai, a differenza delle donne e dei bam-
bini che restavano soggetti alle loro esigenze corporali 9.
Ci si può immaginare quali complicazioni comportasse
questa finzione nei membri della tribù Chagga. La morale
di tutto ciò è che i fatti della vita formano un caos inde-
scrivibile. Se noi scegliamo dall’immagine del corpo quei
pochi aspetti che non offendono, dobbiamo essere dispo-
sti a soffrire della distorsione: il corpo non è un vaso leg-
germente poroso; capovolgendo la metafora, un giardino
non è un arazzo: se si tolgono tutte le erbacce, il suolo
impoverisce. Il giardiniere deve conservare la fecondità in
qualche modo, restituendo quello che ha tolto. Lo specia-
le tipo di trattamento che talune religioni riservano alle
anomalie e agli abomini per trasformarli in potenze positi-
ve è come restituire le erbacce e gli sterpi sotto forma di
concime.
Questo è lo schema generale di una risposta alla do-
manda: perché nelle cerimonie di rinnovamento si fa
spesso ricorso alle contaminazioni?
Tutte le volte che alla nostra esistenza viene imposto
un rigido modello di purezza, si danno due casi: o esso è

250
Il sistema distrutto e ricostruito

estremamente scomodo, oppure, se è seguito fedelmente,


induce in contraddizione o costringe all’ipocrisia. Ciò che
viene negato non viene per ciò stesso rimosso; la rima-
nente parte della vita che non si adatta perfettamente alle
categorie accettate resta inascoltata ed esige attenzione. LI
corpo, come abbiamo cercato di dimostrare, fornisce uno
schema di base per ogni simbolismo. Non è facile che vi
sia un tipo di contaminazione che non abbia dei riferi-
menti fisiologici primari. Poiché il corpo è la sede della
vita, non lo si può rifiutare del tutto, e poiché la vita deve
essere affermata, i filosofi piti completi, secondo le parole
di William James, devono trovare il modo di accettare de-
finitivamente ciò che è stato rifiutato.
Se ammettiamo che il male è una tappa essenziale del no-
stro essere e la chiave per interpretare la vita, ci sottoponiamo
ad un carico di difficoltà che si è sempre rivelato gravoso nelle
filosofie della religione. Il teismo, laddove si sia costituito come
una filosofia sistematica dell’universo, è stato riluttante ad am-
mettere che Dio potesse essere un po’ meno che Tutto di Tut-
to... contrariamente a quanto afferma il teismo popolare (è una
filosofia) che è apertamente pluralistico... l’universo è composto
di più princìpi originari... Dio non è necessariamente responsa-
bile dell’esistenza del male. La fede del sano di mente si pro-
nunzia senza dubbio per questa visione pluralistica. Mentre il
filosofo monistico si trova più o meno costretto a dire, come
già Hegel, che tutto ciò che è reale è razionale, e che il male è
richiesto come elemento dialettico, e mantenuto, e consacrato, e
ha una funzione che gli è attribuita dal sistema finale della veri-
tà; all’opposto il sano di mente rifiuta di dire cose di questo
genere. Il male, egli dice, è fortemente irrazionale e non deve
essere inserito, o mantenuto, o consacrato in nessun tipo di si-
stema finale di verità. E una pura bestemmia verso Dio, una
non-realtà estranea, un elemento da scartare, da distruggere, da
negare... l’ideale, ben lungi dall’essere coestensivo con il reale, è
una mera astrazione dal reale stesso, contrassegnato dalla sua
libertà da ogni contatto con questa materia corrotta, inferiore,
escrementizia.
Troviamo qui un interessante concetto... che vi siano degli
elementi dell’universo che possono non costituire alcuna totalità
razionale se in congiunzione con gli altri elementi, e che, dal
punto di vista di ogni sistema creato da tali elementi, possono

251
Il sistema distrutto e ricostruito

solo essere considerati irrilevanti e accidentali, una «sozzura»,


se così si può dire, roba fuori posto 10.

Questo splendido brano ci invita a paragonare le filo-


sofie che accettano la sporcizia con quelle che la rifiuta-
no. Se fosse possibile fare questo confronto tra le culture
primitive, che cosa potremmo aspettarci di trovare? Se-
condo Norman Brown la magia primitiva è una fuga dalla
realtà, non diversamente dalle fantasie sessuali infantili n.
Se ciò fosse esatto, dovremmo dedurne che le culture pri-
mitive sono, insieme con la scienza cristiana, l’unico
esempio di sanità mentale, come l’ha descritta William Ja -
mes. Ma, invece di un atteggiamento coerente di rifiuto
dello sporco, noi troviamo quei curiosi esempi di accetta-
zione della sporcizia con i quali ho iniziato il capitolo.
Sembra che in una data cultura alcuni tipi di comporta-
mento o di fenomeni naturali vengano riconosciuti come
assolutamente scorretti in base a tutti i princìpi che go-
vernano l’universo. Si tratta di vari tipi di incompatibilità,
di anomalie, errate mescolanze e di abomini; questi casi,
per lo più, subiscono riprovazioni e divieti di vario grado
e poi, improvvisamente, scopriamo che uno dei più ripu-
gnanti e inconcepibili tra loro è isolato e inserito in un
tipo assai particolare di cornice rituale che lo distingue
dal resto dell’esperienza. Lo schema di contorno garanti-
sce che le categorie fondate sulla normale astensione non
vengono messe in crisi o intaccate in alcun modo. All’in-
terno della struttura rituale l’abominio viene dunque uti-
lizzato come una sorgente di terribili poteri. Stando a
quanto afferma William James, questo mescolare e combi-
nare cose contaminanti a scopo rituale dovrebbe costitui-
re la base per una «religione più completa».
Potrebbe darsi invero che non sia possibile nessuna riconci-
liazione religiosa con la totalità assoluta delle cose. Certi mali
sono senza dubbio i rappresentanti di alcune forme di bene più
elevate, ma può essere che ci siano forme di male così estreme
da non poter rientrare in alcun criterio di bene, quale che sia, e
che per rispetto di questo male Tunica risorsa pratica possa es-
sere data dall’ottusa sottomissione, o anche dalla trascuratezza a

252
Il sistema distrutto e ricostruito

rilevarle... Ma... poiché gli eventi malefici sono parti autentiche


della natura, così come quelli buoni, il filosofo dovrebbe presu-
mere che essi abbiano un qualche significato razionale, e la sa-
nità mentale sistematica, che non riesce ad accordare nessuna
attenzione attiva e positiva che sia alla tristezza, al dolore e alla
morte, è formalmente più incompleta di quei sistemi che fanno
almeno il tentativo di includere questi elementi nella loro pro-
spettiva. Sembra dunque che le religioni più complete siano
quelle in cui sono meglio sviluppati gli elementi pessimistici... 12

Ci sembra di possedere con quanto detto sopra una


traccia programmatica per lo studio comparato delle reli-
gioni: andrà tutto a scapito degli antropologi se essi si
sottrarranno al dovere di compilare una tassonomia delle
religioni tribali. Ma ci rendiamo conto che non è semplice
elaborare i princìpi più validi per distinguere le religioni
«incomplete e ottimistiche» da quelle «più complete e
pessimistiche». Si prospettano gravi problemi metodologi-
ci: è chiaro che bisognerebbe essere così pedissequamente
scrupolosi da catalogare tutte le astensioni rituali in ogni
singola religione, senza trascurare nulla; oltre a ciò, di
quali altre norme si deve valere la scienza accademica og-
gettiva per distinguere, in base a questi criteri generali,
dei tipi di religione così diversi?
La risposta è che tale compito va molto al di là delle
possibilità di una disciplina scientifica: e non per la ragio-
ne tecnica che non si fa abbastanza ricerca sul campo; di
fatto, quanto più è ridotto il campo della ricerca, tanto
più appare realizzabile il programma comparativo. Il mo-
tivo sta nella natura stessa del materiale. Tutte le religioni
vive rappresentano molte cose. Il rito formale delle festi-
vità pubbliche esprime un certo ordine dottrinale; non vi
sono ragioni per supporre che il suo messaggio sia neces-
sariamente coerente con quello dei rituali privati, o che
tutti i rituali pubblici siano coerenti fra loro, a differenza
di quasi tutti i riti privati. Non vi è alcuna garanzia che il
rituale sia omogeneo e, se non lo è, soltanto l’intuizione
soggettiva dell’osservatore potrà decidere se l’effetto com-
plessivo sia ottimistico o pessimistico. L ’osservatore può
basarsi su determinate regole per trarre le sue conclusio-

253
Il sistema distrutto e ricostruito

ni; può ritenere giusto sommare ciascun lato del bilancio


dei riti che rifiutano il male e di quelli che lo affermano,
calcolando che ciascuno abbia uguale valore; oppure può
stabilire un punteggio a seconda dell’importanza dei riti.
Ma qualsiasi regola adotti, egli sarà costretto all’arbitrio,
ed anche allora non si sarà occupato di altro che del rito
formale. Esistono altre credenze che non si possono asso-
lutamente tradurre in rito e che possono oscurare del tut-
to il messaggio dei riti. La gente può non ascoltare le pre-
ghiere; le sue reali credenze-guida possono essere piace-
volmente ottimistiche e contrarie all’impurità e, contem-
poraneamente, apparire fondate su una religione nobil-
mente pessimistica.
Se dovessi decidere in quale punto dello schema di
William James va classificata la cultura Lele, sarei alquan-
to imbarazzata. E un popolo che crede profondamente
nella contaminazione, sia nelle attività non rituali che in
quelle rituali. La loro abitudine di separare e di classifica-
re non è mai così evidente come nel loro modo di acco-
starsi al cibo animale. Gran parte della loro cosmologia e
del loro ordine sociale si riflette nelle loro categorie ani-
mali; certi animali e certe parti di essi sono un cibo adat-
to solo agli uomini, altri soltanto alle donne, altri solo ai
bambini ed altri ancora solo alle donne gravide. Alcuni
altri, poi, sono del tutto immangiabili. In un modo o in
un altro gli animali che essi rifiutano perché non sono
adatti per essere consumati da uomini o da donne si rive-
lano ambigui secondo il loro schema di classificazione. La
tassonomia animale che hanno fissato distingue gli animali
notturni da quelli diurni; gli animali del cielo (uccelli,
scoiattoli, scimmie) da quelli della terra; gli animali ac-
quatici da quelli terrestri. Quelli che hanno un comporta-
mento ambiguo vengono considerati anomalie di vario ti-
po e sono esclusi dalla dieta di certe persone; per esem-
pio, gli scoiattoli volanti sono ambigui sia come animali
che come uccelli e così vengono evitati dagli adulti, che
hanno la facoltà di fare delle discriminazioni, mentre i
bambini li possono mangiare; ma nessuna donna degna di
questo nome li potrebbe mangiare e gli uomini potrebbe-

254
Il sistema distrutto e ricostruito

ro cibarsene solo se costretti dalla fame: ma non vi è al-


cuna sanzione per questo atteggiamento.
Le loro principali divisioni potrebbero essere schema-
tizzate come due cerchi concentrici. Il cerchio della socie-
tà umana comprende gli uomini, cacciatori ed indovini, le
donne e anche i bambini e, caso anomalo, gli animali che
vivono nella società umana. Questi non umani del villag-
gio sono sia gli animali domestici, come i cani e i polli,
sia gli indesiderabili parassiti, ratti e lucertole. Mangiare
cani, topi o lucertole è impensabile. Il cibo per gli uomini
dovrebbe essere costituito dalla selvaggina catturata nella
foresta con le trappole e con le frecce dei cacciatori. I
polli sollevano quasi un caso di eccezionalità, che i Lele
risolvono giudicando il cibarsi di pollo come cosa indeco-
rosa per le donne per quanto la carne sia un cibo possibi-
le e buono persino per gli uomini. Le capre, introdotte
recentemente, vengono allevate per gli scambi con le altre
tribù e i Lele non le mangiano.
Tutti questi atteggiamenti schifiltosi e discriminanti, se
portati avanti con coerenza, potrebbero far apparire la lo-
ro cultura come una di quelle che respingono l’impurità,
ed è proprio ciò che accade a conti fatti, e questa è la
cosa più importante. Per la massima parte i loro riti sono
basati sulla discriminazione di categorie: uomini, animali,
maschi, femmine, vecchi, giovani, ecc. Ma queste cerimo-
nie introducono una serie di culti che permettono ai loro
iniziati di mangiare ciò che è pericoloso e proibito: gli
animali carnivori, il petto della selvaggina e gli animali
giovani. In un culto più esclusivo degli altri, gli iniziati
mangiano con riverenza e considerano la più potente fon-
te di fecondità un mostro ibrido che si supporrebbe essi
aborriscano nella loro vita non rituale. A questo punto ci
si accorge che questa è, dopo tutto, per continuare la me-
tafora del giardino, una religione composita: ciò che viene
rifiutato viene poi reinserito al fine di rinnovare la vita.
Questi due mondi, l’umano e l’animale, non sono per
nulla indipendenti. Gli animali in gran parte esistono, co-
me pensano i Lele, per essere preda dei cacciatori; taluni
animali, sotterranei, notturni o acquatici che siano, sono
Il sistema distrutto e ricostruito

spiriti che hanno una speciale connessione con gli abitanti


non animali del mondo animale: gli spiriti. Gli esseri
umani dipendono da questi spiriti per tutto quanto ri-
guarda prosperità, fecondità e salute. Per gli uomini è
normale uscire a procacciarsi ciò di cui abbisognano nella
sfera animale; è invece caratteristico di animali e di spiriti
essere timorosi degli uomini e non venire spontaneamente
fuori per entrare nel mondo degli uomini. Gli uomini, in
quanto cacciatori e indovini, sfruttano ambedue gli aspetti
di questo altro mondo per avere cibo e medicine. Le don-
ne, che sono deboli e vulnerabili, hanno particolarmente
bisogno dell’intervento degli uomini nell’altro mondo: es-
se fuggono gli animali spiriti e non mangiano la loro car-
ne; non possono mai andare a caccia e divengono indovi-
ne solo se sono nate da un parto gemellare o se hanno
generato dei gemelli esse stesse. Nell’interazione dei due
mondi esse ricoprono un ruolo passivo, anche se hanno
particolarmente bisogno del favore degli spiriti; esse, in-
fatti, hanno la tendenza a essere sterili e, seppure conce-
piscono, ad abortire, e gli spiriti possono favorirle con dei
rimedi.
Al di là di questo rapporto normale di aggressione da
parte degli uomini e dei rituali maschili a favore delle
donne e dei bambini, ci sono tra gli umani e il mondo
della foresta due ponti di collegamento: uno è a fini male-
fici e l’altro a scopo benefico. Il ponte pericoloso è costi-
tuito dal diabolico patto di lealtà stretto da quegli uomini
che diventano stregoni. Questi volgono le spalle alla loro
specie e passano dalla parte dei cacciati; combattono i
cacciatori, e operano contro gli indovini per produrre
morte anziché guarigione. Essi si sono spostati nella sfera
animale e hanno fatto in modo che alcuni animali dalla
sfera animale passassero in quella umana. Questi ultimi
sono i loro parenti carnivori che rubano il pollame dal
villaggio degli uomini, svolgendovi così il lavoro dello
stregone.
L ’altro ambiguo modo di essere è connesso con la fer-
tilità. È proprio della natura umana riprodursi con dolore
e a rischio della vita e, normalmente, le donne partorisco-

256
Il sistema distrutto e ricostruito

no un figlio per volta: al contrario, si pensa che i parti


animali siano fecondi e che essi generino, senza provare
dolore né correre alcun pericolo, due o più piccoli per
volta. Quando una coppia umana genera dei gemelli o ad-
dirittura tre figli in una volta, ciò significa che è stata in
grado di superare i normali limiti umani; in un certo sen-
so sono anomali, ma nella maniera più fausta; questi geni-
tori hanno un corrispondente nel mondo animale, che è
proprio il mostro benigno al quale i Lek rendono un cul-
to formale: il pangolino o formichiere squamato. La sua
esistenza contraddice tutte le più ovvie categorie animali:
ha le squame come un pesce ma si arrampica sugli alberi;
è più simile a una lucertola ovipara che a un mammifero,
eppure allatta la prole. E, ciò che è più significativo, i
suoi sono parti singoli. Invece di attaccare o di scappare,
esso si arrotola in una piccola palla e aspetta che il cac-
ciatore sia passato. I genitori dei gemelli umani e il pan-
golino della foresta sono ritualizzati come fonte di fertili-
tà; invece di essere aborrito e fuggito come totalmente
anomalo, il pangolino viene mangiato nel corso di una ce-
rimonia solenne dai suoi iniziati, che in tal modo sono in
grado di dispensare la fertilità alla loro stirpe.
E questo un mistero di mediazione da una sfera ani-
male che corrisponde ai molti casi di mediatori umani di
incantesimi descritti da Eliade nella sua analisi dello scia-
manesimo. Quando descrivono il comportamento del pan-
golino e il loro atteggiamento verso tale culto, i Lele dico-
no cose che rispecchiano stranamente dei passi del Vec-
chio Testamento, così come furono interpretati dalla tra-
dizione cristiana. Proprio come il montone di Abramo
nella selva, e come il Cristo, si parla del pangolino come
di una vittima volontaria; esso non viene catturato, ma
piuttosto si presenta al villaggio: è quindi una vittima re-
gale; il villaggio tratta il suo cadavere come se fosse la
persona di un capo vivente, e richiede per lui il tratta-
mento rispettoso destinato ad un capo, a scapito di future
disgrazie. Se i suoi riti vengono eseguiti con la necessaria
fede, le donne concepiranno, gli animali cadranno nelle
trappole dei cacciatori e gli uccelli verranno abbattuti dal-

257
Il sistema distrutto e ricostruito

le loro frecce. I misteri del pangolino sono misteri doloro-


si.
«Ora entrerò nella casa del lutto», cantano gli iniziati
portando il suo cadavere in giro per il villaggio, e niente
altro che questo verso mi è stato riferito dei canti rituali
del pangolino. Questo culto ha naturalmente molti e vari
significati. Mi limito in questa sede a commentarne due
aspetti: uno è il modo in cui si raggiunge l’unione degli
opposti, che è una fonte di potere benigno; l’altro è l’ap-
parente sottomissione volontaria dell’animale alla propria
morte.
Ho spiegato nel I capitolo come, per analizzare la
contaminazione, avrei avuto bisogno di un approccio più
ampio alla religione. Definire quest’ultima come una cre-
denza in esseri spirituali è troppo limitante; innanzi tutto
è impossibile discutere l’argomento di questo capitolo se
non alla luce del comune bisogno degli uomini di unifica-
re tutte le loro esperienze e di superare con atti di espia-
zione tutte le loro distinzioni e separazioni. La drammati-
ca conciliazione degli opposti è un tema psicologicamente
soddisfacente e ricco di possibilità interpretative a vari li-
velli. Ma, allo stesso tempo, un rituale che esprima la feli-
ce conciliazione degli opposti è anche uno strumento
adatto a temi essenzialmente religiosi; il culto Lele del
pangolino è solo uno degli esempi, ma si potrebbero cita-
re molti altri casi di culti che invitano i loro iniziati a
guardarsi intorno, a esaminare le categorie sulle quali è
stata costruita tutta la cultura che li circonda e a ricono-
scerle per quello che sono, creazioni arbitrarie, artificiali e
fittizie. Nel corso della loro vita quotidiana, e in special
modo in quella rituale, i Lele si preoccupano della forma:
essi non si stancano mai di riprodurre le discriminazioni
grazie alle quali esiste la loro società e il suo ambiente
culturale, e sistematicamente puniscono o comminano fu-
ture possibili disgrazie alle infrazioni delle norme di
astensione. Il peso delle prescrizioni non è forse oppressi-
vo ma, con un tentativo cosciente, i Lele reagiscono, at-
traverso di esse, al concetto che la natura delle creature
del cielo sia diversa da quella delle creature della terra;

258
Il sistema distrutto e ricostruito

cosicché si crede pericoloso per una donna gravida man-


giare le creature terrestri, mentre si crede che le creature
del cielo siano un buon alimento per lei, e così via. Nel-
Paccostarsi al cibo essi mettono visibilmente in pratica la
discriminazione centrale del loro cosmo, non meno di
quanto facevano gli antichi Ebrei quando sancivano una
liturgia della santità.
Segue quindi il culto più cruciale di tutta la loro vita
rituale, nella quale gli iniziati del pangolino, immuni da
pericoli che ucciderebbero i non iniziati, si avvicinano,
stringono e uccidono Panimale, che, nel suo essere, com-
bina tutti gli elementi che la cultura Lele tiene separati.
Se essi potessero scegliere tra le nostre filosofie quella che
è più congeniale ai momenti di tale rito, gli iniziati del
pangolino sarebbero degli esistenzialisti primitivi. Attra-
verso il mistero del rito essi riconoscono in parte la natu-
ra convenzionale e fortuita delle categorie che modellano
la loro esperienza. Se fossero coerenti nel tenersi lontani
dall’ambiguità, essi cadrebbero nella divisione tra l’ideale
e il reale. Essi invece affrontano l’ambiguità in una forma
estrema e concentrata: osano afferrare il pangolino e sot-
toporlo all’uso rituale, proclamando che questa cerimonia
ha più potere di ogni altra. Perciò il culto del pangolino
può ispirare delle profonde meditazioni sulla natura del
puro e dell’impuro e sui limiti dell’umana contemplazione
dell’esistenza.
Non solo il pangolino supera le distinzioni che esisto-
no nell’universo, ma, con la sua morte, esso libera i suoi
poteri benigni e sembra che scelga intenzionalmente que-
sto destino. Se la religione dei Lele fosse un tutto unico,
potremmo, per quanto si è detto sopra, classificare la loro
religione come quella che afferma l’impuro, e presumere
che essi subiscano i lutti con rassegnazione, facendo della
morte l’occasione per celebrare i consolanti rituali dell’e-
spiazione e del rinnovamento. Ma le considerazioni meta-
fisiche, che bene si inseriscono nel contesto rituale a sé
stante del culto del pangolino, sono di tutt’altro tipo
quando la morte vera colpisce un membro della famiglia:
allora i Lele rifiutano integralmente l’evento di morte.

259
Il sistema distrutto e ricostruito

Si sente spesso dire che in questa o quella tribù del-


l’Africa la gente non riconosce la possibilità della morte
naturale. I Lele non sono pazzi; essi riconoscono che la
vita è destinata a finire, ma se le cose dovessero seguire il
loro corso naturale, secondo loro, ognuno dovrebbe vive-
re fino al compimento del suo tempo naturale, e lenta-
mente abbandonarsi, una volta raggiunta la senilità, verso
la fine. Quando questo si verifica, essi ne sono felici, poi-
ché uomini o donne tanto vecchi sono riusciti a trionfare
su tutte le difficoltà che hanno incontrato lungo il cammi-
no e hanno raggiunto la completezza. Ma ciò accade rara-
mente: la gran parte della gente, secondo i Lele, resta vit-
tima della stregoneria prima di poter raggiungere la pro-
pria meta, e la stregoneria non appartiene all’ordine natu-
rale delle cose, secondo la visione dei Lele, ma fu piutto-
sto un tardo ripensamento, un accidente della creazione.
In questo aspetto della loro cultura, i Lele costituiscono
un buon esempio della sanità mentale descritta da Wil-
liam James. Il male, per i Lele, non va incluso nel sistema
complessivo dell’universo, ma va eliminato senza compro-
messi. Tutto il male è causato dalla stregoneria e, dato
che possono chiaramente raffigurarsi come sarebbe la
realtà senza di essa, cercano continuamente di realizzare
questa immagine eliminando gli stregoni.
Una forte tendenza millenaristica è implicita nel modo
di pensare di ogni popolo la cui metafisica esclude il male
dal mondo della realtà. Presso i Lele, la tendenza millena-
ristica esplode nel corso dei ricorrenti culti contro la stre-
goneria. L ’arrivo di un nuovo culto sconvolge momenta-
neamente l’intero apparato delle loro tradizioni religiose:
l’elaborato sistema delle anomalie rifiutate e di quelle ac-
cettate che appare nei loro culti viene regolarmente sosti-
tuito dall’ultimo culto contro la stregoneria, nient’altro
che un tentativo di introdurre da un momento all’altro il
millennio.
Dobbiamo quindi tener presenti due tendenze nella
religione Lele: una pronta a strappare anche i veli imposti
dalle necessità e a guardare direttamente alla realtà; l’altra
che nega la necessità, che nega al dolore e persino alla

260
Il sistema distrutto e ricostruito

morte un posto nella realtà. Così il problema di William


James si trasforma nella domanda di quale delle due ten-
denze sia la più forte.
Se il posto che il culto del pangolino ha nella loro vi-
sione del mondo è quello che ho descritto, si dovrebbe
aspettare che esso sia in un certo modo orgiastico, una
distruzione temporanea della forma apollinea. Forse origi-
nariamente la festa di comunione legata a questo rito era
una celebrazione più chiaramente dionisiaca. Ma non vi è
nulla di anche lontanamente incontrollato nei riti Lele.
Non usano né droghe, né danze, né ipnosi, né altri artifizi
che riducano il controllo cosciente del corpo. Anche una
categoria di indovini che si pensa sia in diretto contatto,
per trance, con gli spiriti della foresta, e che canta per essi
tutta la notte quando quelli vengono a fare loro visita,
canta in uno stile austero e grave. Questa gente ha molto
più interesse per quanto la religione può concedere in te-
ma di fecondità, guarigioni e di successo nella caccia, che
non nel perfezionamento dell’uomo e nel raggiungimento
di una comunione religiosa. Molti dei loro riti sono real-
mente dei riti magici, celebrati per ottenere una guarigio-
ne specifica oppure per riuscire a catturare un certo ani-
male, e hanno il fine di procurare un successo tangibile e
immediato. Per lo più gli indovini Lele non sembrano
molto migliori di tanti Aladini che strofinano le loro lam-
pade magiche attendendo che il genio si materializzi. Sol-
tanto i loro riti di iniziazione a tale culto danno l’idea di
un altro livello di intuizione religiosa. Ma l’insegnamento
di questi riti è oscurato dalla smisurata passione della
gente per la stregoneria e l’antistregoneria: violente di-
scussioni politiche e personali dipendono dalla formula-
zione di un’accusa di stregoneria. Le cerimonie che più
assorbono gli interessi del pubblico sono quelle che sma-
scherano gli stregoni, o li discolpano, o li difendono, o
riparano a ciò che hanno danneggiato. La gente è costret-
ta, per le forti pressioni sociali, a biasimare tutte le morti
in odore di stregoneria. Di conseguenza, qualsiasi cosa
possa dire la loro religione formale sulla natura dell’uni-
verso e sul posto che il caos, la sofferenza e la disgrega-

261
Il sistema distrutto e ricostruito

zione hanno nella realtà, i Lele sono socialmente portati a


una visione diversa; secondo tale visione il male è fuori
dallo schema normale delle cose, non fa parte della realtà.
Sembra dunque che i Lele si presentino con il sorriso
controllato dei seguaci di certe sette americane. Se si do-
vessero classificare non secondo le loro pratiche di culto,
ma secondo le credenze che periodicamente li sconvolgo-
no, essi apparirebbero manifestamente dei sani di mente,
dei nemici dello sporco, degli insensibili alla lezione del
pangolino gentile.
Ma non sarebbe corretto considerare i Lele come l’e-
sempio di un popolo che tenta assolutamente di evitare
l’argomento della morte: se mi riferisco al loro caso, è es-
senzialmente per dimostrare quanto sia difficile stabilire
verso queste cose un atteggiamento culturale. Non cono-
sco molto delle loro dottrine esoteriche, poiché queste so-
no dei segreti attentamente custoditi dai membri maschi
del culto; tale dottrina esoterica è importante di per sé: la
segretezza religiosa dei Lele è in aperto contrasto con le
norme di ammissione e di pubblicizzazione dei rituali di
culto che, presso i Ndembu, abitanti nella regione a sud-
est dei Lele, sono molto più aperte. Se i sacerdoti, per
varie ragioni sociali, tengono segrete le loro dottrine, il
fatto che il materiale antropologico ne risulti carente è il
danno meno grave che ne possa seguire: è meno probabi-
le che la paura della stregoneria oscuri l’insegnamento re-
ligioso se la dottrina religiosa è più pubblicizzata. Sembra
allora che per i Lele le principali riflessioni ispirate loro
dalla morte siano dei pensieri di vendetta: ogni singola
morte è considerata non necessaria, si fa risalire a un cri-
mine malvagio ad opera di un essere depravato e antiso-
ciale. Dal momento che tutti i simbolismi della contami-
nazione sono imperniati sul corpo, il problema finale al
quale porta la prospettiva di contaminazione è la disinte-
grazione corporea; la morte lancia una sfida a ogni siste-
ma metafisico, ma la sfida non va accettata in pieno. Vor-
rei avanzare l’ipotesi che, considerando ogni decesso co-
me l’esecuzione di un atto individuale di tradimento e di

262
i l sistema distrutto e ricostruito

malizia umana, i Lele sfuggano alle implicazioni metafisi-


che della morte. Il loro culto del pangolino fa pensare al-
l’inadeguatezza delle categorie del pensiero umano, ma
pochi sono gli invitati a questo culto ed esso non è espli-
citamente connesso alla loro esperienza di morte.
Si potrebbe avere l’impressione che io abbia dato
troppa importanza al culto Lele del pangolino; non esisto-
no libri Lele di teologia o di filosofia che stabiliscano il
significato del culto. Non è che i Lele me ne abbiano mai
esposto con dovizia di particolari le implicazioni metafisi-
che, né ho mai potuto ascoltare di nascosto una conversa-
zione tra indovini a questo proposito; in realtà ho scritto
di aver incominciato ad occuparmi del simbolismo anima-
le dei Lele con un approccio cosmologico, visto che erano
state frustrate le mie indagini dirette sui motivi delle loro
astensioni alimentari n. Mai essi non direbbero: «Noi evi-
tiamo gli animali anomali perché essi, sfidando le catego-
rie del nostro universo, ci ispirano profondi sentimenti di
inquietudine». Essi si inoltrerebbero invece in intermina-
bili disquisizioni sulla storia naturale di ciascun animale a
cui sfuggono. Con l’elenco completo delle anomalie ho
potuto chiarire i semplici princìpi tassonomici usati; ma il
pangolino era sempre citato come l’essere più incredibile:
la prima volta che me ne parlarono mi sembrò una bestia
così fantastica che non potevo credere alla sua esistenza.
Quando chiesi loro perché esso dovesse rappresentare il
centro del culto della fertilità, fui ancora una volta delusa:
era un mistero degli antenati, di tanti, tanti anni prima.
Che tipo di prova per il significato di questo culto o
di qualsiasi culto si può ragionevolmente cercare? Esso
può avere molti livelli e molti diversi tipi di significato,
ma quello su cui si fonda la mia analisi è il significato che
emerge da un modello le cui parti, come si può inconte-
stabilmente dimostrare, sono regolarmente correlate. Nes-
sun membro della società è necessariamente consapevole
del modello globale più di quanto uno che parla sappia
essere esplicito riguardo ai modelli linguistici che adope-
ra. Lue de Heusch ha analizzato il mio materiale e ha di-
mostrato che il pangolino concentra nel suo essere più di-

263
Il sistema distrutto e ricostruito

scriminazioni centrali per la cultura dei Lele di quanto ho


potuto comprendere io stessa. Forse posso giustificare la
mia interpretazione del motivo per cui essi uccidono e
mangiano ritualmente il pangolino dimostrando che in al-
tre religioni primitive sono state scoperte analoghe pro-
spettive metafisiche. Come se ciò non bastasse, tali sistemi
di credenze probabilmente non sopravviveranno, se non
daranno adito a riflessioni su di un piano più profondo di
quello che si suole attribuire alle culture primitive u.
Quasi tutte le religioni promettono di produrre dei
cambiamenti negli eventi esterni per mezzo dei riti, ma
quali che siano le promesse che fanno, esse devono, bene
o male, riconoscere che la morte è inevitabile. General-
mente ci si aspetta che le più grandi costruzioni metafisi-
che si accompagnino al più profondo pessimismo e al di-
sprezzo delle buone cose di questa vita. Certe religioni
che, come il buddismo, insegnano che la vita individuale
è piccola cosa e che i piaceri che essa offre sono effimeri
e insoddisfacenti, si trovano in una forte posizione filoso-
fica che consente di contemplare la morte nei fini univer-
sali di un Essere che tutto pervade. Vi è generalmente
una coincidenza tra le religioni primitive e la normale ac-
cettazione di più elaborate filosofie religiose da parte del-
l’uomo comune: in entrambi i casi, infatti, non c’è tanto
interesse per la filosofia, quanto per i benefici materiali
che derivano dal conformismo rituale e morale. Tuttavia,
ne consegue che le religioni che più hanno accentuato gli
effetti strumentali del loro rituale sono più vulnerabili allo
scetticismo. Se i fedeli finiscono col pensare ai riti come a
degli strumenti per ottenere la salute e la prosperità, co-
me ad altrettante lampade che vanno strofinate per farle
funzionare, allora, prima o poi, l’intero apparato rituale
apparirà come un’insulsa pagliacciata. Le credenze vanno
in qualche modo salvaguardate dalla disillusione, altri-
menti può accadere che non riscuotano più il consenso.
Uno dei modi per proteggere il rituale dallo scetticismo è
quello di immaginare che un nemico, dall’interno o dall’e-
sterno della comunità, stia continuamente tramando per
annullare i benefici effetti dei riti. Tale responsabilità va

264
I l sistema distrutto e ricostruito

fatta cadere su operatori di malefici e su stregoni. Si tratta


solo di una protezione limitata, in quanto si afferma che i
fedeli fanno bene a considerare il rituale come uno stru-
mento dei loro desideri, ma confessa anche la debolezza
del rituale nell’ottenere quanto si prefigge. Così le religio-
ni che spiegano il male facendo ricorso alla demonologia
o alla magia falliscono quando si tratta di offrire una
comprensione globale dell’esistenza. Esse si awicinano ad
una visione dell’universo che è ottimistica, sana, pluralisti-
ca; è curioso che la filosofia cristiana, che era il prototipo
delle sane filosofie descritte da William James, tendesse
ad inserire un tipo di demonologia inventata ad hoc per
supplire alle carenze del proprio approccio al problema
del male. E stata Rosemary Harris, e gliene sono grata, a
segnalarmi il caso di Mary Baker Eddy, un caso di cre-
denza nel «magnetismo animale malefico», che, a parer
suo, era rappresentativo di certi mali che non avrebbe po-
tuto ignorare 15.
Un altro modo per difendere la credenza che la reli-
gione possa concedere da un momento all’altro la prospe-
rità è quello di far dipendere l’effetto del rito da condi-
zioni difficili. Da una parte il rito può essere molto com-
plicato e difficile da eseguire: al minimo dettaglio fuori
posto l’intero procedimento viene annullato; ci si riferisce
con ciò a un approccio strettamente strumentale, magico
nel senso più negativo del termine. D ’altra parte il succes-
so del rito può dipendere dalle condizioni spirituali adat-
te: l’esecutore e il pubblico dovrebbero trovarsi in una
condizione mentale ideale: liberi da colpe, da malanimo e
così via. I requisiti necessari all’efficacia del rito spesso
impongono ai credenti le più nobili finalità della loro reli-
gione. I profeti di Israele facevano ben di più che fornire
una spiegazione del motivo per cui i riti non erano riusci-
ti a dare pace e prosperità quando gridavano: «Rovina!
Rovina! Rovina!». Nessuno di quelli che li udivano avreb-
be potuto considerare il rito da un punto di vista stretta-
mente magico.
Il terzo modo consiste in un cambiamento di rotta da
parte dell’insegnamento religioso: quasi ogni giorno que-

265
I l sistema distrutto e ricostruito

sto ammonisce i fedeli che otterranno la prosperità nei


campi e in famiglia se non violeranno il codice morale ed
eseguiranno i servizi rituali previsti. Poi, si verifica un’al-
tra occasione in cui ogni tentativo devoto viene screditato,
il retto comportamento è fatto segno di disprezzo e gli
obiettivi materiali vengono improvvisamente condannati.
Non possiamo dire che queste religioni si trasformino da
un momento all’altro in religioni del disinteresse, promet-
tendo solo disinganni nella vita terrena; ma, in un certo
senso, esse si muovono in questa direzione. Così, ad
esempio, gli iniziati Ndembu del Chihamba sono indotti
ad uccidere lo spirito bianco che hanno appreso essere il
loro nonno, fonte di ogni fecondità e di salute. Dopo che
lo hanno ucciso, si dice loro che sono innocenti e debbo-
no rallegrarsi16. I Ndembu si impegnano molto nell’ese-
cuzione del loro rituale quotidiano, che è il mezzo per ot-
tenere buona salute e buona caccia; ma il loro culto più
importante, il Chihamba, costituisce per loro un momento
di disinganno, poiché con esso gli altri culti non possono
salvarsi dal discredito. Ma Turner ribadisce che il fine del
culto Chihamba è quello di usare il paradosso e la con-
traddizione per esprimere verità che sono inesprimibili in
altri termini. Nel Chihamba essi si confrontano con una
realtà più profonda e misurano i loro obiettivi con un me-
tro differente.
Sono tentata di credere che un gran numero di reli-
gioni primitive, mentre offrono molti successi materiali
con una mano, con l’altra si difendono dall’essere messe
duramente alla prova estendendo la loro prospettiva. In-
fatti, la religione diverrà vulnerabile all’incredulità se re-
stringe la sua attenzione alla salute e alla felicità materiale.
Così, possiamo supporre che nelle promesse ignominiosa-
mente non mantenute possa esserci una logica: quella di
portare gli officianti dei culti a meditare su temi più pro-
fondi e più ampi, come quelli del male e della morte. Se
ciò corrisponde a verità, dovremmo aspettarci che i culti
che sembrano più materialistici inscenino, in un punto
centrale del ciclo cerimoniale, il paradosso della unione
finale di vita e di morte. A questo punto, si attribuisce

266
Il sistema distrutto e ricostruito

alla contaminazione connessa con la morte un ruolo


espressamente creativo, ed essa può concorrere a colmare
la lacuna metafìsica.
Possiamo prendere come esempio la morte rituale dei
Nyakyusa che vivono a nord del lago Niassa. Essi associa-
no esplicitamente lo sporco con la pazzia: i pazzi mangia-
no l’immondizia. Vi sono due tipi di pazzia: una viene
mandata da Dio e l’altra deriva dall’aver trascurato i ri-
tuali. Pertanto, essi ammettono esplicitamente che il ritua-
le è la fonte della discriminazione e della conoscenza.
Quale che sia la causa della pazzia, i sintomi sono sempre
gli stessi: il pazzo mangia il sudiciume e getta via le vesti.
Per essi sudiciume significa escrementi, fango, rane: «Il
cibarsi di immondizie da parte dei folli è come il marcio
della morte: quelle feci sono i cadaveri» 11. Così il rito
conserva la sanità e la vita, mentre la follia porta la spor-
cizia ed è una sorta di morte. Il rituale separa la morte
dalla vita: «La morte conduce i viventi alla follia se non
viene separata da loro. Ciò può dare un’idea molto preci-
sa di come funzioni il rituale, riprendendo quanto abbia-
mo già visto 18. I Nyakyusa non tollerano lo sporco, ma
sono profondamente sensibili alla contaminazione: essi os-
servano complicate restrizioni allo scopo di evitare ogni
contatto con i rifiuti fisiologici, che considerano estrema-
mente pericolosi:

Ritengono che Ubanyali, il sudiciume, provenga dai liquidi


sessuali, dalle mestruazioni e dal parto, come pure da un cada-
vere e dal sangue di un nemico ucciso. Tutto ciò è giudicato
disgustoso, e i liquidi sessuali sono un pericolo particolarmente
grave per i bambini19.

Il contatto con il sangue mestruale è pericoloso per


l’uomo, specie se questi è un guerriero: di qui le comples-
se restrizioni sul modo di cucinare il cibo per un uomo,
durante le mestruazioni della donna.
Ma, a dispetto di questa astensione normale, l’atto
centrale del cerimoniale di lutto consiste nell’accogliere di
Il sistema distrutto e ricostruito

buon grado l’immondizia, che i Nyakyusa buttano addos-


so ai parenti del morto.
L’immondizia è il sudicio della morte, è l’impuro. «Che
venga ora», diciamo, «che non venga in seguito, che non ci
prenda mai la follia...». Questo significa: «Vi abbiamo dato
ogni cosa, abbiamo mangiato l’immondizia sulla terra». Perché
se uno impazzisce mangia le immondizie, le feci... 20
Noi sospettiamo che vi sia qui più di quanto si po-
trebbe dire interpretando questo rito, ma lasciamolo al
punto in cui le brevi note dei Nyakyusa l’hanno ripreso:
un volontario abbraccio dei simboli di morte è una specie
di profilassi contro gli effetti della morte; l’esecuzione ri-
tuale della morte è una protezione non contro la morte
stessa ma contro la follia 21. In tutti gli altri casi essi evita-
no le feci e l’immondizia, e agire diversamente è per loro
segno di follia; quando però sono proprio di fronte alla
morte essi non si curano più di nulla, affermano persino
di aver mangiato la sporcizia come fanno i pazzi, per con-
servare la ragione. La follia li colpirà se essi trascureranno
il rituale di accettare senza paura la corruzione del corpo;
la sanità mentale è garantita se essi eseguono i riti.
Un altro esempio di morte che viene resa meno dolo-
rosa dall’accettazione, se è lecito esprimersi in questi ter-
mini, è l’assassinio rituale con cui i Dinka danno la morte
ai loro maestri fiocinatori quando hanno raggiunto la tar-
da età: è il rito centrale della religione Dinka. Tutti gli
altri riti e tutti i sacrifici in cui vi sia spargimento di san-
gue impallidiscono al confronto con questo, che non è un
sacrificio. I Maestri d’Arpione sono un clan sacerdotale
ereditario. La loro divinità, la Carne, è un simbolo di vita,
di luce e di verità. E possibile che i maestri fiocinatori
siano posseduti dalla divinità: quando essi eseguono i sa-
crifici e impartiscono le benedizioni, queste ultime sono
molto più efficaci di quelle degli altri uomini: sono i me-
diatori fra la tribù e la divinità. Quello che sta alla base
del loro rito di morte è la credenza che la vita dei Maestri
d’Arpione debba rimanere nel corpo morente insieme al
loro ultimo respiro; in questo modo lo spirito dei Maestri

268
Il sistema distrutto e ricostruito

d’Arpione viene trasmesso al successore per il bene della


comunità. Grazie al sacrificio volontario affrontato serena-
mente dal suo sacerdote, la comunità può sopravvivere
come sistema razionale.
Dalle notizie che circolavano tra i viaggiatori stranieri,
questo rito consisteva nel soffocare brutalmente un vec-
chio inerme. Una ricerca approfondita delle concezioni
religiose Dinka rivela che il tema centrale è la scelta vo-
lontaria, da parte del vecchio, del tempo, del luogo e del-
le modalità della sua morte. Il vecchio stesso chiede che
la morte gli sia preparata; lo chiede alla sua gente per il
loro bene. Egli viene condotto con reverenza al sepolcro e
mentre giace dentro di esso pronuncia le sue ultime paro-
le ai figli dolenti, prima che gli venga anticipata la morte
naturale. Con la sua decisione libera e premeditata egli
toglie alla morte l’incertezza temporale e spaziale del suo
arrivo. La sua stessa morte volontaria che, secondo il rito,
si svolge nella cornice del sepolcro stesso, è una vittoria
di tutto il suo popolo 22. Affrontando la morte e afferran-
dosi saldamente ad essa, egli ha spiegato alla sua gente
qualcosa intorno alla natura della vita.
L ’elemento comune a questi esempi di riti di morte è
l’esercizio di una scelta razionale e libera nel momento di
affrontarla. Un concetto molto simile si trova nell’auto-
immolazione del pangolino Lele, e anche nell’uccisione ri-
tuale di Kavula, presso i Ndembu, poiché questo spirito
bianco non si ribella, ma è contento di essere trucidato.
Questo è un altro tema che la contaminazione di morte
può esprimere, qualora il suo segno venga cambiato da
negativo in positivo.
La vita vegetale e animale non può fare a meno di
giocare il suo ruolo nell’ordine universale: non hanno al-
tra scelta che vivere secondo la loro natura. Di volta in
volta, le specie anomale o gli individui anomali escono
dalla normalità e gli uomini reagiscono con astensioni di
un tipo o di un altro. La reazione a un comportamento
ambiguo esprime in realtà la speranza che tutte le cose
debbano conformarsi normalmente ai princìpi che gover-
nano il mondo. Ma dalla loro propria esperienza gli uo-
Il sistema distrutto e ricostruito

mini sanno che il loro conformismo personale non è così


sicuro: punizioni, pressioni morali, regole che prescrivono
di non toccare e di non mangiare il cibo, una solida strut-
tura rituale: tutte queste cose possono fare qualcosa per
tenere l’uomo in armonia con il resto dei viventi. Ma, fin
quando il libero consenso viene imbrigliato, l’appagamen-
to non è perfetto. Possiamo individuare qui, ancora una
volta, gli esistenzialisti primitivi, la cui fuga dalla catena
delle necessità sta solamente nell’esercizio del potere di
scelta. Se si scelgono liberamente i simboli di morte, op-
pure la morte stessa, allora si è coerenti con tutte le cose
che abbiamo visto finora, e ci dovremmo aspettare che si
scatenino degli illimitati poteri benefici; il vecchio fiocina-
tore che dà il segnale per essere ucciso esegue un atto
rigidamente rituale. Non c’è assolutamente l’esuberanza di
Francesco d’Assisi che si rotola nudo nell’immondizia e
saluta sorella Morte. Ma il suo atto sfiora il medesimo mi-
stero. Se esiste qualcuno per cui la morte e la sofferenza
non sono parte integrante della natura, allora il disingan-
no è minore. Se c’è la tentazione di considerare il rituale
come una lampada magica da strofinare per ottenere ric-
chezze e poteri illimitati, il rituale mostra l’altro lato della
medaglia. Se la gerarchia di valori è brutalmente materia-
le, essa viene intaccata in modo drammatico dal parados-
so e dalla contraddizione. Nel dipingere questi oscuri te-
mi, i simboli di contaminazione sono necessari come il
nero in una pittura. Questa è la ragione per cui noi pos-
siamo trovare la corruzione conservata gelosamente nei
luoghi e nei templi sacri.

Note

1 P. Morton-Williams, The Yoruha Oghoni Cult in Oyo, in «Afri-


ca», XXX (1960), p. 369.
2 J. Vansina, Initiation Rituals arnong thè Bushong , cit., p. 103.
3 S. Sitwell, Agamemnon’s Tomb,
4 M. Eliade, Le chamanisme et les techniques archaiques de l ’exfa-
se, cit.

270
Il sistema distrutto e ricostruito

5 Ibidem, pp. 398-99.


6 Roy Campbell.
7 J.-P. Sartre, Réflexions sur la question juive, Paris, 1947; trad. it.
L ’antisemitismo, Milano, 1960, p. 14.
8 L. de Sousberghe, Etuis péniens ou gaines de chasteté chez les
Ba-Pende, in «Africa», XXIV (1954), pp. 214-19.
9 O. Raum, Chagga Childhood, London, 1940.
10 W. James, The Variety o f Religious Experience, cit., p. 129.
11 N.O. Brown, La vita contro la morte, trad. it. cit., cap. 8.
12 W. James, The Variety o f Religious Experience, cit., p. 161.
13 M. Douglas, The Tele o f thè Rasai, cit.
14 L. de Heusch, Structure et praxis sociales chez les Tele, in
«L’homme», IV (1964), pp. 87-109.
15 B.R. Wilson, Sects and Society, 1961, pp. 126-27.
16 V.W., Turner, Chihamha: The White Spirit, in «Rhodes Living-
stone Paper», III (1962).
17 M. Wilson, Rituals and Kinship among thè Nyakyusa, cit., p.
53, e pp. 80-81.
18 Cfr. cap. IV.
19 M. Wilson, Rituals and Kinship among thè Nyakyusa, cit.,
p. 131.
20 Ìbidem, p. 53.
21 Ibidem, p. 20.
22 R.G. Lienhardt, Divinity and Experience, cit.

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Finito di stampare nel maggio 1993
per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino

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Intersezioni

Raymond Aron, Clausewitz


Flavia Arzeni, L ’immagine e il segno. Il giapponismo nella
cultura europea tra Ottocento e Novecento
Michail Bachtin, Tolstoj
Georges Bataille, La sovranità
Gian Paolo Biasin, Il vento di Debussy. La poesia di Mon-
tale nella cultura del Novecento
Gian Paolo Biasin, I sapori della modernità. Cibo e romanzo
Hans Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di
una metafora dell’esistenza
Hans Blumenberg, Il riso della donna di Tracia
Hans Blumenberg, L ’ansia si specchia sul fondo
Remo Bodei, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste
Karl Heinz Bohrer, La corsa di Venerdì. L ’utopia ferita e i
poeti
Piero Boitani, L ’ombra di Ulisse. Figure di un mito
Corrado Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia
della voce
Pier Cesare Bori - Gianni Sofri, Gandhi e Tolstoj. Un car-
teggio e dintorni
Pierre Bourdieu, Fùhrer della filosofia? L ’ontologia politica
di Martin Heidegger
Fernand Braudel, La dinamica del capitalismo
Thomas Bredsdorff, La recita del potere. Il dramma di fa -
miglia nel teatro europeo
Victor Brombert, La prigione romantica. Saggio sull’imma-
ginario
Michel Butor, Una storia straordinaria. Saggio su un sogno
di Baudelaire
Piero Camporesi, Il pane selvaggio
Piero Camporesi, Il paese della fame
Franco Cassano, Approssimazione. Esercizi di esperienza
dell’altro
«Purezza e pericolo» è un piccolo classico dell’antropologia con-
temporanea e una tappa importante nella biografia intellettuale di
Mary Douglas. Già edito dal Mulino nel 1975, viene ora ripresen-
tato in una nuova edizione arricchita da un saggio introduttivo
dell’autrice, dove le sue r if le s s im i^ .pensiero primitivo e sul ta-
bù sono sviluppate in re lazioM ^^w hpo rtam ento dell’uomo mo-
derno in situazioni di rischio e ^ n c p ip . Quando era colpito dalla
cattiva sorte - la morte di una persona cara, la perdita del rac-
colto, un disastro naturale - l’uomo primitivo spiegava l’evento
con l’intervento maligno di un demone scatenato dalla violazione
di un tabù; e andava alla ricerca del colpevole. L’uomo moderno,
invece, si ritiene in grado di stabilire una relazione tra cause ma-
teriali ed effetto senza ricorrere alla magia. Ma il processo di attri-
buzione della colpa - sostiene la Douglas - lungi dal rivelarci una
falla nel pensiero dei primitivi, ci svela aspetti relativi al patto so-
ciale su cui si regge una comunità e sulle strategie messe in atto
per difenderla dai nemici esterni ed interni. Il processo di attribu-
zione della colpa e le procedure rituali per gestirla sono, in sinte-
si, una spia delle strutture sociali e politiche di una comunità. Og-
gi, di fronte ai pericoli che il progresso tecnologico non riesce ad
esorcizzare e a causa dei quali la stessa tecnologia è sotto accu-
sa, come reagisce l’uomo moderno? L’antico legame tra morale
e pericolo rivela intatta tutta la sua forza e la conoscenza - sem-
pre insufficiente - non placa la paura. Ancora una volta, un’anali-
si che prescinda dai meccanismi culturali e istituzionali che in-
fluenzano le nostre scelte e decisioni si rivela inadeguata. L’accu-
sa di irrazionalità
i
è ricaduta su di noi.

Mary Douglas, una delle più note figure dell’antropologia contemporanea, è Visi-
ting Professor nell’Università di Princeton. Con il Mulino ha pubblicato «Il mondo
delle cose» (1984); «Antropologia e simbolismo» (1985) e «Come pensano le
istituzioni» (1990). Con altri editori sono usciti «Simboli naturali» (Einaudi, 1979)
e «Come percepiamo il pericolo» (Feltrinelli, 1981).

ISBN 88-15-04075-7

L. 28.000 (i.i.) 9 788815 040756

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