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DIPARTIMENTO DI MEDICINA E CHIRURGIA

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

PSICOBIOLOGIA E NEUROSCIENZE COGNITIVE

LIBERO ARBITRIO: TRA REALTA’ E UTOPIA.


La neuroetica e le basi neurobiologiche delle scelte morali.

Relatore: Chiar.mo Prof. LEONARDO FOGASSI


Correlatore: Chiar.mo Prof. Fausto Caruana

Laureando:
Eleonora D’Alò

ANNO ACCADEMICO 2021 ­ 2022

1
“una dedica speciale a mia
Zia Cinzia, ai miei nonni e
alla mia famiglia”

“Io non sono come gli altri, gli altri sono come gli altri”

2
Indice
➢ Obiettivo dell’elaborato....4
➢ Introduzione: La controversia del libero arbitrio....5
Capitolo 1: Uno sguardo ai concetti di determinismo e indeterminismo....9
▪ 1.1 Locke e il Free will....12
▪ 1.2 Hume e il Free will....17
▪ 1.3 Kant e il Free will....47
▪ 1.4 Searle e La libertà neurobiologica....64
▪ 1.5 Dennett e Caruso “A ognuno quel che si merita”....78
Capitolo 2: L’esperimento di Libet....91
▪ 2.1 I determinanti inconsci delle decisioni libere nel cervello umano....96
▪ 2.2 Le neuroscienze e il libero arbitrio: dalla spiegazione della libertà ai
nuovi modi per operazionalizzarla e misurarla....101
▪ 2.3 La cognizione morale e i suoi costituenti neurali....114

Capitolo 3: La corteccia prefrontale e la giustizia penale....127


▪ 3.1 Studi biosociali del comportamento antisociale e violento in adulti e
bambini....144
▪ 3.2. Neuroscienze e diritto: quando le neuroscienze vengono utilizzate
nelle aule del tribunale....157
▪ 3.3 L’empatia negativa: il punto di vista del male....164

3
➢ Conclusioni....173
➢ Bibliografia....175

Obiettivo dell’elaborato
Siamo davvero liberi? Le nostre scelte in senso lato sono frutto della nostra

coscienza? L’esperimento fatto da Libet negli anni 80 sembra spostare l’ago

della bilancia in maniera drastica ponendo l’attenzione sul concetto di libero

arbitrio e su tutto quello che concerne questo “nebuloso” termine, tuttora messo

in discussione. Questo lavoro cercherà di affrontare la questione del libero

arbitrio e cosa influenza le nostre scelte morali attraverso un iter tra filosofia e

neuroscienze, cercando di unire la concretezza delle neuroscienze con la

saggezza della filosofia per ampliare a approfondire le basi neurobiologiche

della nostra moralità, su cosa è giusto e cosa è sbagliato, mettendo in evidenza

come l’ambiente e la nostra genetica possano giocare un ruolo fondamentale

sulle nostre azioni. Cominciando dal concetto di intenzionalità e traslandolo in

campi diversi da quello delle neuroscienze e della filosofia, come per esempio il

contesto giuridico.

4
Introduzione

La controversia del libero arbitrio

1992, California, Robert Alton Harris fu giustiziato per un delitto commesso 14

anni prima. Aveva ucciso due ragazzi senza motivo, sparando loro alla schiena

dopo averli fatti scendere dall’auto per procurarsi un mezzo per la rapina che

progettava con il fratello. La corte considero Harris un criminale incallito:

torturava gli animali senza apparente motivo e aveva picchiato a morte un

vicino di casa durante una rissa (McKenna e Pereboom, 2016, pp.I­3). In

un’esistenza costellata di comportamenti antisociali non aveva mai provato a

integrarsi e lavorare onestamente rispettando il suo prossimo e le regole comuni.

La società aveva dunque, secondo l’opinione comune, il diritto di punirlo. Ma

se scaviamo e approfondiamo a fondo la storia di questo individuo possiamo

notare delle sfaccettature che potrebbe cambiare la visione d’insieme. Robert

nacque prematuro a cause delle percosse che il padre inflisse alla madre incinta.

5
Il padre picchiò ripetutamente sia lui che le sorelle, e la madre divenne

un'alcolizzata e arrestata più volte. Harris crebbe con problemi di

apprendimento e di linguaggio e a scuola veniva bullizzato, inoltre la madre non

voleva che Robert la toccasse. Una volta venuti a conoscenza di questi aspetti

orribili dell’infanzia vissuta da Robert il nostro giudizio su di lui potrebbe

cambiare radicalmente con la fatidica domanda a cui ancora nessuno

probabilmente sa dare una risposta certa: è nato criminale o lo è diventato?

Mentre Harris uccideva la giovane coppia all’università di Princeton, due

ricercatori sottoponevano alcuni studenti a un esperimento di psicologia

empirica. Agli studenti di teologia fu chiesto di compilare un questionario circa

il valore che davano alla religione e al ruolo che essa aveva nella loro vita.

Divisi in gruppi, lessero la parabola evangelica del buon samaritano o un testo

sulle possibili alternative alla vocazione sacerdotale. Quindi fu detto a tutti di

recarsi in un altro edificio del campus per tenere una lezione sulle proprie

materie di studio. Ad alcuni fu detto che erano molto in ritardo, ad altri che

dovevano affrettarsi e a altri ancora che avevano ancora del tempo. Sulla strada

da percorrere, un collaboratore degli sperimentatori si fingeva ferito (come nella

parabola) e chiedeva aiuto. Il 40% degli studenti si fermò ma se si considerano i

singoli gruppi si fermò solo il 10% di chi era in ritardo e il 63% di coloro che

non avevano urgenza. Si chinò sul ferito il 53% di chi aveva letto la parabola

del buon samaritano e il 29% di chi aveva affrontato un tema molto più neutro.

6
Questo esperimento empirico ci fa capire con chiarezza come variabili

situazionali come la fretta o l’esposizione alla parabola del buon samaritano o a

un testo neutro abbiano molto più peso, in termini di correlazione con il

comportamento, di variabili come l’importanza della religione per la propria

esistenza.

Il mistero del libero arbitrio ha una storia lunghissima, ha radici antiche quanto

la filosofia, e non sembra per niente essersi diradato con le nuove conoscenze

empiriche, anzi sembra sempre più di camminare su un sentiero tortuoso. Il free

will o libero arbitrio è quella capacità tipica degli esseri umani di avere un senso

di controllo sulle proprie azioni tale da giustificare la responsabilità morale. A

questo concetto va aggiunto anche la possibilità di avere un ventaglio di azioni

nel momento in cui prendiamo una decisione considerando anche se la

decisione sia in qualche modo razionale e non puramente casuale. In base a

questa definizione Harris era apparentemente libero di scegliere se sparare o

meno ai due ragazzi e lo stesso vale per gli studenti che hanno soccorso o meno

il falso ferito. La prima obiezione a questa apparente libertà è stata quella mossa

dal determinismo fisico in contraddizione con la libertà umana. Lev Tolstoj nel

libro “Guerra e pace” sintetizza la sua riflessione sul libero arbitrio in maniera

del tutto vigorosa affermando “è necessario rinunciare a un’inesistente libertà e

riconoscere una dipendenza che non sentiamo” (L. Tolstoj,1863­1869)1. Il

1 L. Tolstoj, Guerra e pace, Mondadori, Milano 1951, tomo IV, p.382

7
premio Nobel Francis Crick scrive “le tue gioie, i tuoi dolori, i tuoi ricordi e le

tue ambizioni, il tuo senso di identità personale e di libero arbitrio in effetti non

sono più niente che il comportamento di un’ampia organizzazione di cellule

nervose e delle molecole loro associate”. Ma non possiamo sbarazzarci così

dell’idea del libero arbitrio perché è condizione necessaria della responsabilità

morale come Dante aveva già ampiamente intuito “non fora giustizia per ben

letizia, e per male aver lutto” (Dante Alighieri­XVI)2. La contraddizione più

grande del free will è che senza di esso non ci sarebbero concetti come

responsabilità, merito, biasimo, punizione e retribuzione. Ma la visione

scientifica non sembra lasciare spazio all’idea che vi siano situazioni in cui gli

esseri umani scelgono e agiscono liberamente. Quello che viene messo in

discussione è generalmente il nostro senso comune cioè il modo in cui

ordinariamente concepiamo noi stessi dai sorprendenti risultati che arrivano

oggi dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive. Secondo alcuni filosofi

ottimisti quest’illusione di libertà non deve però essere interpretato come una

diminuzione di dignità umana o come motivo di crisi antropologica. Autori

come Pereboom(2014), Nadelhoffer(2011), Waller (2011), Caruso (2012),

Sommers(2012) vedono nella scomparsa del free will un guadagno in termini

del retributivismo penale e della rabbia morale. Sulla linea cosiddetta

“spinoziana”3 si incamminano gli studiosi che approvano l’eliminazione del

2Dante Alighieri, Divina Commedia, XVI, 70-72


3Per Spinoza non esiste il libero arbitrio, la libertà dell’uomo e tanto meno la libertà di Dio. Dio non fa ciò che
vuole e il Dio Spinoziano non può non fare, non essere attivo e creare queste concatenazioni di cause.

8
concetto di giusto merito e ipotizzano in maniera forse un po' troppo utopistica

società più eque. Senza la responsabilità, che cade se non sussiste il concetto di

libero arbitrio, si avrebbero atteggiamenti più compassionevoli, chi è toccato

dalla cattiva sorte (come Harris) dovrebbe ricevere sostegno da chi, invece, è

stato soltanto più fortunato. Si passerebbe così dalla “politica di merito” al

“principio di umanità”. Ovviamente questa visione non può non essere esente da

numerose obiezioni mosse sia contro la tesi dell’illusorietà del libero arbitrio sia

contro l’idea che tale illusione porti a conseguenze desiderabili (Lavazza, 2013).

La visione di Peter Strawson (1962) secondo il quale anche se si dimostrasse la

verità del determinismo dovremmo comunque privilegiare l’idea che le persone

agiscano in base a ragioni delle quali possono e devono dare conto l’una

all’altra persona in modo equo, rimane una delle riflessioni più influenti e

popolari del filone di pensiero che vede la libertà come un attribuito

fondamentale della nostra umanità. In questo elaborato, nel capitolo 1 si

cercherà di delineare le varie tesi sul libero arbitrio dei filosofi contemporanei

per approfondire in maniera moderna questo concetto. Nel capitolo 2 invece ci

si addentrerà nell’esperimento di Libet che ha messo in discussione. Nel

capitolo 3 si trasferirà la nozione di libero arbitrio nel contesto giudiziario

ribaltando il nostro senso comune sui processi penali.

CAPITOLO 1

Uno sguardo ai concetti di determinismo e indeterminismo

9
La gran parte degli autori concorda nel ritenere che il libero arbitrio

presupponga due condizioni fondamentali:

1) Che all’agente si prospettino diversi corsi d’azione alternativi

2) Che la scelta tra tali corsi non avvenga casualmente, non sia cioè il

prodotto di fattori fuori dal controllo dell’agente.

In che modo deve essere fatto il mondo affinché tali condizioni possano

congiungersi?

Per rispondere a questa domanda occorre riferirsi ad una importante distinzione

scientifica e metafasica quella tra determinismo e indeterminismo. Il

determinismo fa riferimento al fatto che ogni evento è un effetto di un insieme

di altri eventi precedenti che invariabilmente lo producono, in accordo con le

leggi di natura. L'indeterminismo è, banalmente, la negazione del determinismo.

Un’ ulteriore distinzione da fare è quella tra due gruppi di concezioni: quella del

compatibilismo e incompatibilismo. La prima afferma che il libero arbitrio è

compatibile col determinismo è addirittura lo richiede. Secondo la versione

tradizionale del compatibilismo risalente a filosofi quali Locke, Leibniz, Hume,

Mill, e difesa oggi da Dennett, ciò che conta è che le nostre azioni discendano

causalmente dalla nostra volontà, anche se questa è interamente determinata. In

questa forma di compatibilismo, gli agenti sono già determinati a scegliere e ad

agire come di fatto faranno. I sostenitori di questa concezione, tuttavia,

sostengono di poter dar conto della possibilità di agire altrimenti in un senso

10
condizionale, nel senso che se essi volessero fare una cosa diversa la farebbero.

Secondo una versione più moderna del compatibilismo (Fischer e Ravizza,

1999; Sie e Wouters, 2010), ciò che conta per la libertà è la capacità di offrire

spiegazioni razionali per giustificare le nostre azioni e che le nostre azioni

riflettano comunque il nostro sé i nostri fini , le nostre credenze e i nostri valori,

anche se le decisioni che alla fine prenderemo non possono che essere quelle

determinata da fattori fuori del nostro controllo in quanto noi siamo un insieme

di meccanismi subpersonali che però nel loro funzionamento esprimono la

nostra unicità. La scelta è necessariamente univoca, ma se facessimo una scelta

diversa sarebbe irrazionale e l’irrazionalità è in contrasto con la libertà

(Levy,2007). L'obiezione principale a questa concezione è che essa pare

fondarsi su una riformulazione ad hoc dell’idea di libero arbitrio, lontana da

quella ordinaria su cui si basano le idee di responsabilità, dignità e razionalità.

Secondo la concezione dell’incompatibilismo, invece, la libertà è in contrasto

con il determinismo. Questa concezione si divide a sua volta in due sottogruppi.

La prima è quella dell’illusionismo, secondo la quale il determinismo è vero e

dunque la libertà è impossibile. La seconda concezione è invece il libertarismo,

che afferma sia che il determinismo è falso sia che gli esseri umani godono

appieno del libero arbitrio. Kane e Searle (1995), libertari, sostengono che la

libertà richiede, a livello degli eventi neurali, una rottura indeterministica dei

processi causali che viene poi governata dai poteri causali degli agenti, altri

ispirati da Kant sostengono che la libertà può essere concepita solo su un piano

11
concettuale diverso da quello della causalità naturale (McDowell,1996;

Bilgrami 2007). Si obietta che queste concezioni mettono a repentaglio

l’unitarietà del mondo naturale, postulando uno spazio speciale per gli esseri

umani. Tradizionalmente molti hanno visto il determinismo come un ostacolo

all’idea di libertà umana ma questa è una tesi metafisica e non un dato

dimostrato dalla scienza. La sua messa in discussione viene dalla meccanica

quantistica e dalle sue interpretazioni teoriche, sulla cui base sono state anche

proposte varie teorie a favore del libero arbitrio, e non mancano altri tentativi

recenti, basati su interpretazioni che provengono dalla fisica teorica per

mostrare che non esiste un determinismo assoluto che impedirebbe il libero

arbitrio. Date le difficoltà incontrate tanto dal compatibilismo quanto dal

libertarismo, molti autori contemporanei si dichiarano scettici rispetto alla

possibilità di risolvere la questione del libero arbitrio o arrivano ad affermare

che il libero arbitrio è una mera illusione (Smilansky,2000; Caruso,2012).

Queste posizioni pessimistiche trovano oggi forte sostegno nei copiosi risultati

che ci vengono dalle neuroscienze e dalle scienze cognitive.

1.1 LOCKE E IL FREE WILL

12
“L’idea di libertà è l’idea del potere di un agente di compiere o di astenersi da un’azione, secondo la

determinazione o il pensiero della mente, per cui l’una o l’altra è preferibile all’altra” (Locke,1690). 4

Per comprendere la concezione della libertà di Locke dobbiamo comprendere la

sua concezione dell’azione e della rinuncia. Esistono tre versioni principali della

teoria dell’azione di Locke. Secondo quella che potremmo definire teoria del

fare, le azioni sono cose che facciamo attivamente, in contrasto con le cose che

semplicemente ci accadono passivamente. Se qualcuno spinge il mio braccio

verso l’alto, il mio braccio si alza, ma si potrebbe dire che non l’ho alzato io. Al

contrario quando faccio un segnale a un amico che mi sta cercando faccio

qualcosa nella misura in cui non sono un mero destinatario passivo di uno

stimolo della quale non ho nessun controllo. Secondo alcuni interpreti

(Stuart,2013) le azioni di Locke sono azioni in questo senso. Secondo la teoria

composita o “miliana” dell’azione, “l’azione non è una cosa sola ma una serie di

due cose: lo stato mentale chiamato volizione, seguito da un effetto (Mill,1974).

Secondo questa visione, ad esempio, l’azione di alzare la mano è composta da

1) la volontà di produrre l’effetto di alzare la mano e 2) l’effetto stesso, dove 2

risulta da 1. Infine, secondo quello che potremmo definire la concezione

deflazionistica dell’azione, le azioni sono semplicemente moti dei corpi o

operazioni delle menti.

• 4 John Locke. Saggio sull'intelletto umano, Bompiani, 2004.

13
Locke ha una visione dell’azione deflazionistica e afferma che ci sono solo due

tipi di azioni, di cui abbiamo idea, il pensiero e il movimento. Inoltre, ha una

visione deflazionistica anche dell’inazione che è l’opposto di un'azione ossia un

episodio di riposo o assenza di pensiero. Secondo questa concezione dire che

qualcuno ha rinunciato a correre significa dire che non ha corso, non che ha

volontariamente omesso di correre. Ogni rinuncia sarebbe un caso di inazione

non di astensione. All’interno delle categorie delle azioni, Locke distingue tra

quelle volontarie e involontarie. Per comprendere questa distinzione dobbiamo

capire il concetto di volontà. Per Locke la volontà è un potere posseduto dalla

persona o dalla sua mente. Le potenze sono relazioni, relazioni all’azione o al

cambiamento e possono essere passive o attive, in questo senso la volontà è una

relazione attiva con le azioni. Locke afferma che la volontà è il potere che ha la

mente di preferire la considerazione di un’idea qualsiasi al non considerarla, o

di “preferire” il movimento di una parte qualsiasi del corpo al suo riposo. Ma

cos’è questo preferire? Non è altro che l’essere più soddisfatti dell’uno che

dell’altro. Quando ci manca qualcosa che ci procurerebbe più piacere di quello

che proviamo attualmente, ci sentiamo a disagio per la sua assenza. Locke

descrive questo tipo di disagio come desiderio. Locke però cambia rotta nello

stesso anno, e scrive “anche se un uomo preferisce volare al camminare, chi può dire che lo

voglia mai?” (Locke,1690). Il pensiero qui è che, come Locke riconosce il fatto che io

sia più contento di volare che di camminare non consiste e nemmeno implica

che io voglia volare. Se non credo che sia in mio potere volare, allora è

14
impossibile per me volere il moto del volo, anche se potrei essere più

soddisfatto del volo che di qualsiasi alternativa. Inoltre, Locke sottolinea che è

possibile che la volontà e il desiderio vadano l’una contro l’altro concludendo

che desiderare e volere sono due atti distinti della mente. Locke sostituisce la

concezione desiderativa della volontà descrivendo quest’ultima come una sorta

di facoltà direttiva o di comando, il potere di dirigere il proprio corpo e la

propria mente. A differenza della potenza desiderativa, che è essenzialmente

passiva la volontà viene vista come una potenza intrinsecamente attiva, il cui

esercizio implica l’emissione di comandi mentali diretti al proprio corpo e alla

propria mente. Locke afferma che ciò che rende volontaria un’azione è la sua

dipendenza a una volizione è ciò che rende involontaria un’azione è il suo

essere eseguita senza una volizione. La volizione non è altro che quella

particolare determinazione della mente con cui, anche solo col pensiero, essa si

sforza di far nascere, continuare o fermare un’azione che ritiene in suo potere.

Locke scrive “la volizione o l’atto di volere non significa nulla propriamente, ma la produzione

effettiva di qualcosa che è volontario” (Locke,1690). Questa affermazione è sbagliata ma

fornisce un indizio sulla concezione di volontarietà di Locke. L'errore è che non

tutti i casi di volontà dell’azione sono seguiti dall’azione stessa. Per usare uno

degli esempi usati da Locke se io sono chiuso in una stanza e voglio andarmene,

la mia volontà non avrà come risultato l’uscita. Quindi la volontà non può

significare la produzione effettiva di un’azione volontaria. Tuttavia, è

15
ragionevole suppore che, per Locke la volontà produrrà un’azione volontaria se

nulla ostacola l’episodio voluto di movimento o di pensiero. La soluzione a

questo problema (se esiste), consiste nell’affermare che, affinché un’azione sia

considerata volontaria, non è sufficiente che sia causata dal giusto tipo di

volizione, ma che sia causata nel modo giusto dal giusto tipo di volizione.

Alcuni commentatori ritengono che la libertà lockeana (o, come Locke la

chiama, "libertà") sia un unico potere, il potere di fare ciò che si vuole (Yolton

1970­ D. Locke 1975­ O'Higgins 1976 ­ Chappell 1994). Tuttavia, come la

descrive Locke, la libertà è un potere "bidirezionale", in realtà una

combinazione di due poteri condizionati che appartengono a un agente, cioè a

qualcuno dotato di volontà ( Chappell, 2007). Una pallina da tennis, per

esempio, "non ha libertà, non è un agente libero", perché è incapace di volere (Locke,1690).

Locke pone l’accento sul fatto che il potere di sospendere5 è la fonte di tutta la

libertà e il cardine su cui ruota la libertà possono essere intese come

affermazioni che il potere di sospendere è un aspetto particolarmente importante

della libertà d'azione applicata all'azione di volere. (Questo concetto può essere

traslato anche nel contesto neurofisiologico, i neuroni inibitori sono neuroni

essenziali che impedisce che ciò che viene osservato venga poi trasformato in

qualcosa di motorio. Questa inibizione viene meno quando ci viene chiesto di

imitare quello che abbiamo visto. È probabile che la corteccia prefrontale

5 quella che Locke chiama la dottrina della sospensione

16
eserciti questa inibizione all’interno di un contesto attraverso aree intermedie

con l’area F6. Andando a studiare i neuroni mirror un altro gruppo inglese ha

trovato che nell’area F5 ci sono non solo neuroni mirror classici ma che

presentono una particolarità rispondono durante l’esecuzione di un atto motorio

ma sono inibiti durante l’osservazione. L'inibizione avviene a livello corticale e

non a livello sottocorticale.) Ciò che la rende importante è il fatto che è l'abuso

di questa libertà a rendere conto della nostra responsabilità per le azioni che

portano alla nostra infelicità o miseria. La visione di Locke sulla questione delle

scelte sbagliate potrebbe essere così riassunta: “E qui possiamo vedere come avviene che

un uomo possa giustamente incorrere in una punizione [...]: Perché, per una scelta troppo affrettata

di sua iniziativa, si è imposto misure sbagliate di bene e di male... Ha viziato il proprio palato e deve

rispondere a sé stesso della malattia e della morte che ne derivano” (Locke,1690). La domanda

che viene da porci analizzando il pensiero di John Locke è se fosse

compatibilista o incompatibilista. La libertà d'azione, secondo Locke, consiste

nel poter fare ciò che si vuole e nel poter rinunciare a ciò che si vuole

rinunciare. Anche se a volte agiamo per necessità, il semplice fatto (se è un

fatto) che le nostre azioni siano determinate dalle leggi della natura e dagli

eventi precedenti non minaccia la nostra libertà rispetto alla loro esecuzione.

Come chiarisce Locke, se la porta della mia stanza non è chiusa a chiave, sono

libero rispetto all'atto di uscire dalla stanza, perché ho la possibilità di rimanere

o uscire a mio piacimento. È solo quando la porta è chiusa a chiave, o quando

sono incatenato, o quando la mia strada è bloccata, o quando qualcos'altro mi

17
priva della capacità di rimanere o uscire, che non sono libero rispetto all'atto di

andarmene. Il determinismo di per sé non rappresenta una minaccia alla nostra

libertà d'azione. In questo senso, Locke è un precursore di molte altre teorie

compatibiliste della libertà, tra cui, ad esempio, quelle di G.E. Moore (1912) e

A.J. Ayer (1954).

1.2 HUME E IL FREE WILL

Per molti anni la visione consolidata di Hume è stata quella di una figura

principale e fondante del compatibilismo classico, così come si colloca nella

tradizione filosofica empirista che va da Hobbes, attraverso Hume, fino a Mill,

Russell, Schlick e Ayer. I compatibilisti classici ritengono, come i libertari, che

sia necessaria una teoria adeguata di ciò che è l'azione libera, intesa come

condizione rilevante dell’“agire morale” e della responsabilità. I compatibilisti,

tuttavia, rifiutano l'idea che l'azione libera richieda la falsità del determinismo o

che un'azione non possa essere allo stesso tempo libera e resa causalmente

necessaria da condizioni antecedenti. Secondo la strategia compatibilista

classica, non solo la libertà è compatibile con il determinismo causale, ma

l'assenza di causalità e necessità renderebbe impossibile un'azione libera e

responsabile. Un'azione libera è un'azione causata dall'agente, mentre un'azione

non libera è causata da qualche altra causa esterna. Il fatto che un'azione sia

18
libera o meno dipende dal tipo di causa, non dall'assenza di causalità e

necessità. Un'azione non causata sarebbe del tutto capricciosa e casuale e non

potrebbe essere attribuita a nessun agente, tanto meno interpretata come un atto

libero e responsabile. Intesa in questo modo, la strategia compatibilista classica

comporta un tentativo di spiegare e descrivere la logica dei nostri concetti

relativi alle questioni di libertà e determinismo. Si occupa principalmente di

questioni concettuali piuttosto che di indagini empiriche sulla nostra psicologia

morale umana. Secondo l'interpretazione classica, questo è il modo in cui

dovrebbero essere intesi gli argomenti principali di Hume. Come il titolo di

Hume "Della libertà e della necessità" rende evidente, le idee chiave in gioco

sono due: "libertà" e "necessità" (causalità e determinismo). Nel suo Abstract

del Trattato Hume sottolinea che il suo ragionamento pone l'intera controversia

sul libero arbitrio in una nuova luce, dando una nuova definizione di necessità.

Ciononostante, l'interpretazione classica attribuisce grande importanza al

significato delle sue opinioni sulla natura della libertà come base rilevante per

spiegare la sua posizione su questo argomento. La strategia che Hume segue,

secondo questa lettura, è molto simile a quella perseguita da Hobbes. La

distinzione tra due tipi di libertà è, in questo senso, particolarmente importante.

Il punto di vista di Hume sulla libertà nel Trattato non è tuttavia del tutto

coerente con quello successivo, presentato nell'Enquiry(1748). Nel Trattato

Hume distingue due tipi di libertà:

19
“Pochi sono in grado di distinguere tra la libertà della spontaneità, come viene chiamata nelle

scuole, e la libertà dell'indifferenza; tra quella che si oppone alla violenza e quella che significa

negazione della necessità e delle cause. La prima è anche il senso più comune della parola; e poiché

è solo questa la specie di libertà che ci interessa preservare, i nostri pensieri si sono rivolti

principalmente a essa, confondendola quasi universalmente con l'altra.” (Hume,1739)6.

La libertà di spontaneità implica che un agente sia in grado di agire secondo le

proprie volontà e i propri desideri, senza essere ostacolato da ostacoli esterni

che potrebbero costringere o limitare la sua condotta (ad esempio, le mura o le

sbarre di una prigione). Questo tipo di libertà non implica l'assenza di causalità

e necessità, a meno che non si assuma erroneamente che ciò che è causato sia in

qualche modo costretto o forzato a verificarsi. Nell'Enquiry, Hume abbandona

la distinzione tra due tipi di libertà e fornisce invece un resoconto di quella che

chiama "libertà ipotetica". Una libertà di questo tipo implica "il potere di agire o

non agire, secondo le determinazioni della volontà; cioè, se scegliamo di

rimanere a riposo, possiamo farlo; se scegliamo di muoverci, possiamo farlo

anche noi" (Hume,1739). Secondo Hume questo tipo di libertà ipotetica è

universalmente consentita a chiunque non sia prigioniero e in catene. Sebbene

Hume si impegni a sostenere l'esistenza sia della libertà spontanea sia della

libertà ipotetica, esse non sono la stessa cosa. Una persona può godere della

libertà spontanea e agire secondo le determinazioni della propria volontà, ma

6David Hume, A treatise of human nature: being an attempt to introduce the experimental method of reasoning into
moral subjects, Mary J. Norton, 1739

20
non ha ancora la libertà ipotetica. Se scegliesse diversamente, la sua azione

potrebbe essere comunque ostacolata (ad esempio, come nel caso di una persona

che sceglie di rimanere in una stanza, ma che non potrebbe comunque uscire

perché la porta è chiusa a chiave). Nel Trattato Hume tende a identificare la

libertà con l'indifferenza piuttosto che con la spontaneità e suggerisce addirittura

che libertà e caso sono sinonimi. Per questo motivo presenta le sue

argomentazioni come volte a mostrare che la libertà è, se non contraddittoria,

"direttamente contraria all'esperienza"(Hume,1739). Ponendo l'accento su

questo compito negativo di confutare “la dottrina della libertà o del caso"

(Hume,1739), Hume si presenta volentieri come se si schierasse decisamente

dalla parte della "dottrina della necessità", che è attento a definire, in modo da

evitare qualsiasi confusione tra causalità e costrizione o forza. Sia nel Trattato

che nell'Enquiry Hume sostiene che la parte più originale o interessante del suo

contributo al libero arbitrio risiede nella sua definizione o comprensione di ciò

che intendiamo per necessità. Secondo Hume ci sono "due particolari che

dobbiamo considerare come essenziali alla necessità, cioè l'unione costante e

l'inferenza della mente, e ovunque li scopriamo dobbiamo riconoscere una

necessità” (Hume, 1739). Per spiegare questo, Hume inizia con una descrizione

della causalità e della necessità come la osserviamo nelle operazioni dei corpi

esterni o nelle "azioni della materia. Qui non troviamo "la minima traccia di

indifferenza o di libertà e possiamo vedere che ogni oggetto è determinato da un

destino assoluto" (Hume,1739). Ciò significa, spiega Hume, che scopriamo

21
l'esistenza di congiunzioni costanti di oggetti, per cui oggetti simili di un tipo

sono uniformemente seguiti da oggetti simili di un altro tipo. Quando

sperimentiamo regolarità di questo tipo, siamo in grado di trarre inferenze

rilevanti e consideriamo gli oggetti del primo tipo come cause e quelli del

secondo tipo come effetti. Il punto cruciale, secondo Hume, è che non possiamo

scoprire alcuna connessione ultima tra causa ed effetto al di là della nostra

esperienza della loro regolare unione. Non c'è alcun potere o energia percepito o

conosciuto in una causa tale da poter trarre un'inferenza sul suo effetto o con cui

la causa costringe o obbliga il suo effetto a verificarsi. Tuttavia, sulla base della

nostra esperienza di regolarità o di congiunzioni costanti di oggetti, la mente,

all'apparire del primo oggetto, trae naturalmente un'inferenza su quello

dell'altro. In altre parole, la nostra esperienza di regolarità funge da base su cui

possiamo trarre inferenze sull'esistenza di un oggetto dall'apparizione di un

altro. Tutto ciò che troviamo di causale e di necessario nei corpi o nella materia,

sostiene Hume, è questa congiunzione di oggetti simili insieme all'inferenza

della mente da uno all'altro. La domanda pertinente, quindi, è: troviamo

caratteristiche simili nelle operazioni dell'azione umana? La nostra esperienza,

sostiene Hume, dimostra che le nostre azioni hanno un'unione costante con i

nostri motivi, temperamenti e circostanze e che su questa base traiamo inferenze

rilevanti dall'uno all'altro. Sebbene vi siano alcune apparenti irregolarità sia nel

regno naturale che in quello morale, ciò è interamente dovuto all'influenza di

cause contrarie o nascoste di cui non siamo a conoscenza. “L'unione tra i motivi

22
e le azioni ha la stessa costanza di quella delle operazioni naturali; quindi, anche

la sua influenza sull'intelligenza è la stessa, in quanto ci spinge a dedurre

l'esistenza di uno da quella di un altro. Se questo appare, non c'è circostanza

nota che entri nella connessione e nella produzione delle azioni della materia

che non si ritrovi in tutte le operazioni della mente; e di conseguenza non

possiamo, senza una manifesta assurdità, attribuire la necessità all'una e

rifiutarla all'altra” (Hume,1739). A sostegno di questa affermazione Hume cita

varie regolarità che osserviamo nella società umana, dove classe, sesso,

occupazione, età e altri fattori di questo tipo sono visti essere correlati in modo

affidabile a diversi motivi e comportamenti. Regolarità di questo tipo ci

permettono di trarre i tipi di inferenze necessarie per la vita sociale umana,

come ad esempio in tutti i nostri ragionamenti riguardanti gli affari, la politica,

la guerra e così via. In assenza di necessità, così intesa, non potremmo

sopravvivere o vivere insieme. Hume continua sostenendo che non solo la

necessità di questo tipo è essenziale per la società umana, ma è anche essenziale

per la religione e la morale, a causa della sua rilevanza per i fondamenti della

responsabilità e della punizione. Se i motivi delle ricompense e delle punizioni

non avessero un'influenza uniforme e affidabile sulla condotta, il diritto e la

società sarebbero impossibili. Al di là di questo, sia che si considerino

ricompense e punizioni umane o divine, la giustizia di tali pratiche dipende dal

fatto che l'agente ha prodotto o provocato queste azioni con la propria volontà.

La "dottrina della libertà o del caso", tuttavia, eliminerebbe questo legame tra

23
l'agente e l'azione e quindi nessuno potrebbe essere ritenuto correttamente

responsabile della propria condotta. È quindi "solo in base ai principi della

necessità che una persona acquisisce un merito o un demerito dalle sue azioni,

per quanto l'opinione comune possa inclinare al contrario" (Hume,1739). Letto

in questo modo, Hume sta per lo più ribadendo un'affermazione che si trova in

molti altri resoconti compatibilisti, ovvero che la necessità (il determinismo) è

essenziale per sostenere una teoria utilitaristica e generalmente lungimirante

della responsabilità morale e della punizione. Perché, allora, c'è tanta resistenza

alla "dottrina della necessità"? La spiegazione principale di questa resistenza

alla "dottrina della necessità" si trova, secondo Hume, nella confusione sulla

natura della necessità così come la scopriamo nella materia. Sebbene nella vita

ordinaria tutti noi ci affidiamo e ragioniamo sui principi della necessità, ci può

essere una certa riluttanza a chiamare questa unione e deduzione necessità. La

supposizione che esista un potere o un'energia ulteriore nella materia, per cui le

cause in qualche modo costringono o obbligano i loro effetti a verificarsi, è la

fonte fondamentale di confusione su questo tema. È questo che ci spinge a

rifiutare l'idea che le nostre azioni siano soggette alla necessità, perché ciò

implicherebbe una sorta di violenza o di costrizione, cosa che sarebbe

incompatibile con la libertà della spontaneità. Una volta eliminate le confusioni

di questo tipo, rimane solo il cavillo verbale sull'uso del termine "necessità", che

non è di per sé un punto di disaccordo sostanziale. Si noti che la strategia di

Hume, costruita intorno alla sua "nuova definizione di necessità" (Hume,1739),

24
sembra ammettere che un "legame" o "vincolo" metafisico più forte tra causa ed

effetto "implicherebbe effettivamente qualcosa di forte, violento e vincolante".

Dal punto di vista dell'argomentazione (centrale) compatibilista, sviluppata

intorno alla nozione di "libertà di spontaneità" e di "libertà ipotetica", questo è

un errore fondamentale. La distinzione cruciale per l'argomentazione originale è

quella tra le azioni che hanno cause interne all'agente (cioè motivazioni e

desideri di qualche tipo) e quelle che hanno cause esterne. Queste ultime sono

azioni obbligate o costrette (come nel caso del prigioniero in catene). Questa

distinzione cruciale tra le azioni che sono causate dalle motivazioni e dai

desideri dell'agente e quelle che non lo sono non è compromessa dai conti

"metafisici" (non di regolarità) della causalità. Ciò che è rilevante per stabilire

se un'azione è stata obbligata o meno è la natura della causa (cioè l'oggetto), non

la natura della relazione causale. L'argomentazione di Hume relativa ai vantaggi

della sua "nuova definizione di necessità" contesta direttamente questo aspetto;

quindi, l'una o l'altra di queste due affermazioni deve essere abbandonata. Ma

una mera congiunzione regolare tra eventi non può servire a collegare

adeguatamente l'agente con la sua azione. La teoria della causalità di Hume,

quindi, minaccia di segare il ramo compatibilista su cui è seduto. Hume avanza

anche altre due spiegazioni per la resistenza alla "dottrina della necessità". Una

di queste riguarda la religione, l'altra riguarda quella che potremmo definire la

fenomenologia dell'agency e il modo in cui essa sembra screditare le

affermazioni necessitaristiche di Hume. Hume ammette che quando

25
consideriamo le nostre azioni dalla prospettiva dell'agente (cioè dalla

prospettiva della prima persona) abbiamo una falsa sensazione o esperienza

persino della “libertà dell'indifferenza”. La base di ciò è che quando agiamo non

possiamo sperimentare alcuna "determinazione del pensiero" da cui dedurre

l'azione da compiere. Tuttavia, dal punto di vista dello spettatore (terza persona)

la situazione è molto diversa. Lo spettatore raramente percepisce una tale

scioltezza e indifferenza e deduce in modo affidabile le azioni dalle motivazioni

e dal carattere dell'agente. Per questo motivo, anche se quando agiamo

possiamo trovare difficile accettare che "eravamo governati dalla necessità e che

era assolutamente impossibile per noi agire diversamente" (Hume,1739), la

prospettiva dello spettatore mostra che questa è semplicemente una "falsa

sensazione". In altre parole, la prospettiva dell'agente può incoraggiare l'idea

che il futuro sia "aperto" rispetto al modo in cui agiremo, ma questa

supposizione è contraddetta dalla prospettiva opposta dello spettatore, che è

generalmente affidabile. Vale la pena aggiungere che questa affermazione è

coerente con il resoconto di Hume nell'Enquiry sulla "libertà ipotetica". Non c'è

contraddizione tra il fatto che uno spettatore è in grado di dedurre in modo

affidabile come agirà un agente e che il modo in cui quell'agente agirà dipenda

dalla sua volontà in quelle circostanze. L'interpretazione precedente suggerisce

che lo scopo principale di Hume nella sua discussione "Della libertà e della

necessità" è quello di difendere un'idea di libertà morale intesa in termini di

"libertà della spontaneità”. La prima e più ovvia obiezione è che la "libertà di

26
spontaneità" è una concezione del tutto inadeguata della libertà morale. Kant,

notoriamente, descrive questa concezione della libertà morale come un "misero

sotterfugio" e suggerisce che una libertà di questo tipo appartiene a un orologio

che muove le sue lancette per mezzo di cause interne. Se la nostra volontà è

determinata da cause naturali antecedenti, allora non siamo responsabili delle

nostre azioni più di qualsiasi altro oggetto meccanico i cui movimenti sono

condizionati internamente. Gli individui che non godono di altro che di una

libertà di questo tipo sono sostiene l'incompatibilista, poco più che "robot" o

"burattini" soggetti al gioco del destino. Questa linea generale di critica, rivolta

contro qualsiasi comprensione della libertà morale in termini di "spontaneità",

conduce direttamente a due ulteriori importanti critiche. L'incompatibilista

sostiene che se le nostre volontà e scelte sono determinate da cause antecedenti,

allora non potremmo mai scegliere diversamente da come facciamo. Date le

condizioni causali antecedenti, dobbiamo sempre agire come facciamo. Non

possiamo quindi essere ritenuti responsabili della nostra condotta poiché, in

questo caso, non abbiamo a disposizione "alternative genuine" o "possibilità

aperte". Gli incompatibilisti, come già notato, non accettano che la nozione di

"libertà ipotetica" di Hume, come presentata nell'Enquiry, possa affrontare

questa obiezione. È vero, naturalmente, che la libertà ipotetica lascia spazio alla

verità dei condizionali che suggeriscono che avremmo potuto agire

diversamente se avessimo scelto di farlo. Tuttavia, l'incompatibilista sostiene

che l'agente non avrebbe potuto scegliere diversamente date le circostanze reali.

27
La responsabilità, sostengono, richiede la libertà categorica di scegliere

diversamente nelle stesse circostanze. La libertà ipotetica da sola non basta. Un

modo per esprimere questo punto in termini più generali è che l'incompatibilista

sostiene che per la responsabilità abbiamo bisogno non solo della libertà di

azione, ma anche della libertà di volontà, intesa come potere di scegliere tra

alternative aperte. In mancanza di ciò, l'agente non ha alcun controllo finale

sulla sua condotta. Lo sforzo di Hume di tracciare una distinzione tra azione

libera e non libera (cioè obbligata) si basa su una distinzione tra cause interne ed

esterne. I critici del compatibilismo sostengono che questa distinzione, di una

semplicità attraente, è impossibile da mantenere. Sembra ovvio, ad esempio, che

ci sono casi in cui un agente agisce secondo le determinazioni della propria

volontà, ma è comunque chiaramente non libero. Ci sono, in particolare,

circostanze in cui un agente può essere soggetto ad agire in base a desideri e

voglie che sono di per sé compulsivi (ad esempio, come nel caso di un

tossicodipendente o di un cleptomane). Si sostiene che desideri e voglie di

questo tipo limitino e minino la libertà dell'agente non meno della forza e della

violenza esterne. Sebbene possa essere vero che in queste circostanze l'agente

agisce secondo i propri desideri o volontà, è altrettanto chiaro che un tale agente

non è né libero né responsabile del proprio comportamento. Sembrerebbe quindi

che siamo obbligati a riconoscere che anche alcune cause "interne" all'agente

possono essere considerate come costrittive o obbliganti. Questa concessione,

tuttavia, genera serie difficoltà alla strategia compatibilista classica. Non è più

28
evidente, data questa concessione, quali cause "interne" debbano essere

considerate "costrittive" o "obbliganti" e quali no. Alla base di questa obiezione

c'è la preoccupazione più fondamentale che l'argomento della spontaneità

presupponga una comprensione del tutto inadeguata della natura delle

considerazioni scusanti e attenuanti. Infine, in base a questa lettura, Hume viene

inteso come difensore di un'idea di responsabilità morale essenzialmente

orientata al futuro e utilitaristica. Seguendo pensatori come Thomas Hobbes,

Hume sottolinea che le ricompense e le punizioni servono a far sì che le persone

agiscano in alcuni modi e non in altri, il che è chiaramente di notevole utilità

sociale. Quello che dobbiamo chiederci ora è fino a che punto l'interpretazione

classica serve a cogliere l'essenziale della posizione di Hume su questo

argomento. Dal punto di vista della lettura naturalistica alternativa, la lettura

classica presenta due difetti fondamentali:

In primo luogo, la lettura classica non riesce a fornire un resoconto adeguato del

ruolo del sentimento morale nella comprensione di Hume della (natura e delle

condizioni della) responsabilità morale. Ciò si spiega in parte con il fatto che

l'interpretazione classica tratta le opinioni di Hume sul libero arbitrio in modo

isolato rispetto ad altre parti del suo sistema filosofico. In particolare, non riesce

a integrare adeguatamente la discussione sul libero arbitrio con la sua teoria

delle passioni. Siamo più vulnerabili a questo errore se ci basiamo troppo sulla

discussione di Hume "Della libertà e della necessità" come presentata

29
nell'Enquiry. In secondo luogo, mentre la lettura classica suggerisce che la

responsabilità può essere analizzata direttamente in termini di azione libera (o

volontaria), l'interpretazione naturalistica suggerisce un quadro molto diverso di

questa relazione. Per vedere dove l'interpretazione classica sbaglia, dobbiamo

iniziare con un esame delle argomentazioni di Hume a sostegno

dell'affermazione che la necessità è essenziale per la moralità e che

l'indifferenza renderebbe impossibile la moralità. L'affermazione di Hume

secondo cui la necessità è essenziale per la morale va di pari passo con quella

secondo cui la necessità è essenziale anche per la vita sociale. Per vivere in

società, le persone devono essere in grado di dedurre le azioni degli altri dalle

loro motivazioni e dai loro caratteri. Allo stesso modo, se non fossimo in grado

di dedurre il carattere dalle azioni, nessuno potrebbe essere ritenuto

responsabile e la moralità sarebbe impossibile. Per comprendere la base di

questa affermazione dobbiamo avere un quadro più chiaro di cosa significhi

essere ritenuti responsabili secondo Hume ­ un quadro che è molto diverso dalla

visione lungimirante e orientata all'utilitarismo suggerita dall'interpretazione

classica. Per Hume, ritenere una persona responsabile significa considerarla

come oggetto dei sentimenti morali di approvazione e disapprovazione.

L'approvazione e la disapprovazione non sono "altro che un amore e un odio più

tenui e impercettibili" (Hume, 1739). Sono, più precisamente, forme pacate di

amore e odio, che sono a loro volta passioni indirette. Nella sua discussione

sull'amore e sull'odio Hume dice:

30
“Una di queste supposizioni, cioè che la causa dell'amore e dell'odio deve essere legata a una

persona o a un essere pensante, per produrre queste passioni, non è solo probabile, ma troppo

evidente per essere contestata. La virtù e il vizio, se considerati in astratto... non suscitano alcun

grado di amore e di odio, di stima o di disprezzo verso coloro che non hanno alcun rapporto con

essi.” (Hume, 1739). Le nostre virtù e i nostri vizi non sono le uniche cause di amore

e odio. Anche la ricchezza e la proprietà, le relazioni familiari e sociali, le

qualità e gli attributi corporei possono generare amore o odio. Tuttavia, sono le

nostre virtù e i nostri vizi, intesi come qualità piacevoli o dolorose della mente,

a essere "le cause più evidenti di queste passioni" (Hume, 1739). In questo modo, attraverso

il meccanismo generale delle passioni indirette, la virtù e il vizio danno origine

a quella forma "debole e impercettibile" di amore e odio che costituisce i

sentimenti morali. Questo è essenziale per tutte le nostre descrizioni della

responsabilità morale. Hume chiarisce che non sono le azioni, in quanto tali, a

dare origine ai nostri sentimenti morali, ma piuttosto i tratti più duraturi o

persistenti del nostro carattere. Il passaggio cruciale della sua discussione "Della

libertà e della necessità" è il seguente:

“Le azioni sono per loro natura temporanee e caduche; e se non derivano da una qualche causa nel
carattere e nella disposizione di chi le compie, non si infliggono a lui, e non possono né giovare al suo
onore, se buone, né infamare, se cattive. L'azione in sé può essere biasimevole... Ma la persona non
ne è responsabile; e poiché non procede da nulla in lui che sia duraturo o costante, e non lascia nulla
di tale natura dietro di sé, è impossibile che possa, a causa di essa, diventare oggetto di punizione o
di vendetta”. (Hume, 1739)

Più avanti, nel Libro II, Hume amplia queste osservazioni:

“È evidente che, quando lodiamo un'azione, consideriamo solo i motivi che l'hanno prodotta, e

consideriamo le azioni come segni o indicazioni di certi principi nella mente e nell'animo.

31
L'esecuzione esterna non ha alcun merito. Dobbiamo guardare dentro di noi per trovare la qualità

morale. Questo non possiamo farlo direttamente, e quindi fissiamo la nostra attenzione sulle azioni,

come su segni esterni. Ma queste azioni sono ancora considerate come segni, e l'oggetto ultimo

della nostra lode e approvazione è il motivo che le ha prodotte.” (Hume,1739). In questi due

passaggi Hume sta facendo due considerazioni distinte ma correlate. In primo

luogo, sostiene che l'"azione", considerata come una "prestazione esterna" senza

alcun riferimento al motivo o all'intenzione che l'ha prodotta, non è di per sé di

interesse morale. È piuttosto la causa "interna" dell'azione a suscitare i nostri

sentimenti morali. Sono questi aspetti dell'azione che ci informano sulla mente e

sul carattere morale dell'agente. In secondo luogo, le qualità morali di un agente

che suscitano i nostri sentimenti morali devono essere "durevoli o costanti" ­

non possono essere di natura "temporanea e peritura", come lo sono le azioni.

Questa seconda condizione sulla generazione dei sentimenti morali è di per sé

un'istanza particolare dell'osservazione più generale che Hume ha fatto in

precedenza, nel Libro II, secondo cui la relazione tra la qualità o la caratteristica

che dà origine alle passioni indirette (cioè la sua causa) e la persona che è

oggetto della passione non deve essere "casuale o incostante". Tuttavia, è il

primo punto che è particolarmente importante per il nostro scopo attuale di

capire perché la necessità è essenziale per la morale. Per conoscere le

motivazioni e il carattere di una persona dobbiamo fare un'inferenza, dalle sue

azioni alle sue motivazioni e al suo carattere. Senza la conoscenza del carattere

di qualcuno non si susciterebbe in noi alcun sentimento di approvazione o

32
biasimo. Senza inferenze che si muovono in questa direzione ­ dall'azione al

carattere (e non dal carattere alle azioni) ­ nessuno sarebbe oggetto di lode o

biasimo e, quindi, nessuno sarebbe considerato moralmente responsabile. In

queste circostanze, lodare e biasimare sarebbe psicologicamente impossibile.

Allo stesso modo, anche la violenza esterna, come la libertà di indifferenza,

rende impossibile considerare qualcuno come oggetto di lode o di biasimo.

Quando un'azione è prodotta da cause esterne all'agente, ci allontaniamo dal suo

carattere. È chiaro, quindi, che le azioni non causate o causate da fattori esterni

non possono rendere responsabile un agente, non perché sarebbe irragionevole

ritenerlo responsabile, ma piuttosto perché sarebbe psicologicamente

impossibile ritenerlo responsabile, laddove questa posizione è intesa in termini

di funzionamento dei sentimenti morali. È in questo modo che Hume porta le

sue osservazioni sul funzionamento delle passioni indirette a sostegno della sua

affermazione che la necessità è essenziale per la morale e, in particolare, per i

nostri atteggiamenti e le nostre pratiche associate alla responsabilità e alla

punizione. Alla luce di questo resoconto alternativo, possiamo concludere che la

natura della strategia compatibilista di Hume è significativamente travisata

dall'interpretazione classica. Gli argomenti di Hume che pretendono di

dimostrare che la necessità è essenziale per la moralità sono intimamente legati

alla sua discussione sulle passioni indirette e sul meccanismo specifico che

genera i sentimenti morali. Mentre la lettura classica interpreta le sue

argomentazioni come di natura concettuale o logica, l'interpretazione

33
naturalistica presenta Hume come preoccupato di descrivere le circostanze in

cui le persone si sentono responsabili. Interpretati in questo modo, gli argomenti

di Hume costituiscono un contributo alla psicologia morale descrittiva e, in

quanto tali, sono una parte importante del suo più ampio programma di

"introdurre il metodo sperimentale di ragionamento nei soggetti morali" (che è il

sottotitolo del Trattato).

La questione successiva da considerare è se le questioni che dividono le

interpretazioni classiche e naturalistiche abbiano o meno un significato o un

interesse contemporaneo. La prima cosa da dire a questo proposito è che, da una

prospettiva contemporanea, il compatibilismo classico sembra un resoconto

troppo rozzo sia della libertà che della responsabilità morale e ben pochi filosofi

continuerebbero a sostenere che i pregiudizi incompatibilisti possono essere

spiegati semplicemente in termini di confusione sulla necessità derivante da una

confusione tra causalità e costrizione. Al contrario, la preoccupazione di Hume

per il ruolo e la rilevanza dei sentimenti morali nella comprensione del

problema del libero arbitrio anticipa alcune caratteristiche chiave del contributo

molto influente di P.F. Strawson al dibattito contemporaneo. "Libertà e

risentimento" di Strawson è probabilmente l'articolo più importante e influente

sul problema del libero arbitrio pubblicato nella seconda metà del XX secolo.

L'affinità più evidente tra gli approcci di Hume e Strawson è il loro comune

appello al ruolo dei sentimenti morali o degli atteggiamenti reattivi, che

34
entrambi utilizzano per screditare qualsiasi presunta minaccia scettica derivante

dalla tesi del determinismo. Secondo Strawson, sia i compatibilisti classici (a

cui si riferisce come "ottimisti") sia i libertari (a cui si riferisce come

"pessimisti", perché suppongono che il determinismo minacci la responsabilità

morale) commettono un errore simile, ossia quello di "intellettualizzare

eccessivamente i fatti", cercando di fornire una sorta di "giustificazione

'razionale' esterna" per la responsabilità morale (Strawson,1963)7. Il

compatibilista classico lo fa sulla base di un "utilitarismo con un occhio solo",

mentre il libertario, vedendo che manca qualcosa di vitale nel resoconto del

compatibilista classico, cerca di colmare la lacuna con la "libertà

controcausale", che Strawson descrive come "un pietoso gingillo

intellettualistico" (Strawson,1963). Contro opinioni di questo tipo, Strawson

sostiene che dovremmo concentrare la nostra attenzione sull'importanza degli

atteggiamenti reattivi o dei sentimenti morali in questo contesto. In questo modo

spera di trovare una via di mezzo che possa "riconciliare" i due campi opposti. I

nostri atteggiamenti reattivi o sentimenti morali, sostiene Strawson, dovrebbero

essere intesi nei termini delle nostre naturali risposte emotive umane agli

atteggiamenti e alle intenzioni che gli esseri umani manifestano gli uni verso gli

altri. Ci aspettiamo e pretendiamo un certo grado di buona volontà e di rispetto

e proviamo risentimento o gratitudine a seconda che ci venga dimostrato o

7 Peter Strawson, saggio sulla libertà e il risentimento,1963

35
meno (Strawson,1963). Premesso che queste emozioni fanno parte del nostro

assetto umano essenziale e sono naturalmente innescate o suscitate in

circostanze rilevanti, è comunque importante riconoscere che queste risposte

sono in qualche misura sotto il controllo razionale e possiamo "modificarle o

mitigarle" alla luce di considerazioni rilevanti. Strawson distingue due tipi di

considerazioni che possono richiederci di modificare o ritirare i nostri

atteggiamenti reattivi. In primo luogo, ci sono considerazioni che possiamo

descrivere come esenzioni, in cui giudichiamo che un individuo non è un

bersaglio appropriato o adatto a qualsiasi atteggiamento reattivo. Si tratta di casi

in cui una persona può essere considerata "psicologicamente anormale" o

"moralmente sottosviluppata" (Strawson,1963). D'altra parte, anche quando non

si applicano esenzioni di questo tipo, le normali considerazioni giustificative

possono comunque richiedere di alterare o cambiare i nostri particolari

atteggiamenti reattivi nei confronti di un individuo. Considerazioni di questo

tipo includono i casi in cui un agente agisce accidentalmente, o per ignoranza, o

è stato sottoposto a qualche tipo di forza fisica. Quando si applicano queste

considerazioni, possiamo arrivare a riconoscere che la condotta in questione,

correttamente interpretata, non manca del grado di buona volontà o di rispetto

che possiamo richiedere. Anche se si è verificata una qualche lesione, non ci è

stata dimostrata alcuna malizia o mancanza di riguardo. Tuttavia, il punto

cruciale per Strawson è che mentre i nostri atteggiamenti reattivi possono essere

modificati o ritirati in queste circostanze, non si tratta di abbandonare o

36
sospendere del tutto i nostri atteggiamenti reattivi. In particolare, non c'è nulla

nella tesi del determinismo che implichi che le esenzioni o le scuse, come

Strawson le ha descritte, si applichino o siano valide universalmente. Inoltre,

cosa ancora più controversa, Strawson sostiene che anche se il determinismo

fornisse qualche base "teorica" per trarre questa conclusione scettica, qualsiasi

politica di questo tipo è "per noi come siamo, praticamente inconcepibile"

(Strawson,1963). In altre parole, secondo Strawson il nostro impegno naturale

verso il tessuto dei sentimenti morali ci isola da qualsiasi possibile minaccia

scettica globale all'intero tessuto della responsabilità morale, basata su

preoccupazioni teoriche circa le implicazioni del determinismo. Se leggiamo

Hume secondo le linee dell'interpretazione classica, allora la sua posizione su

questi temi sembra accordarsi molto bene con la tipica strategia "ottimista"

associata a pensatori come Schlick. L'interpretazione classica, tuttavia, trascura

completamente il ruolo del sentimento morale nella strategia riconciliatrice di

Hume. Essa enfatizza la rilevanza della (presunta) confusione tra causalità e

costrizione per spiegare la confusione più fondamentale sulla natura della libertà

(ad esempio, perché i filosofi tendono a confondere la libertà di spontaneità con

la libertà di indifferenza). Stabilite queste caratteristiche della posizione di

Hume, l'interpretazione classica punta alle osservazioni di Hume sull'utilità

sociale di premi e punizioni e sul modo in cui essi dipendono dai principi di

necessità. Da questa prospettiva, la discussione di Hume su libertà e necessità

costituisce chiaramente un'affermazione paradigmatica e influente della

37
posizione "ottimista". Così interpretato, Hume deve essere letto come un

pensatore, come Schlick, che ha "intellettualizzato troppo i fatti" sulla base di

un "utilitarismo con un occhio solo"; uno che ha ignorato "quella complicata

rete di atteggiamenti e sentimenti" su cui Strawson cerca di attirare la nostra

attenzione. In questo modo, siamo incoraggiati a considerare Hume come un

bersaglio primario dell'attacco di Strawson alla posizione "ottimista".

L'interpretazione naturalistica, al contrario, rende evidente che una simile

visione dell'approccio e della strategia generale di Hume è profondamente

sbagliata. Hume, non meno di Strawson, è particolarmente preoccupato di

attirare la nostra attenzione sui fatti della natura umana che sono rilevanti per

una corretta comprensione della natura e delle condizioni della responsabilità

morale. Più specificamente, Hume sostiene che non possiamo spiegare

correttamente la responsabilità morale se non riconosciamo e descriviamo il

ruolo che il sentimento morale svolge in questa sfera. In effetti, a differenza di

Strawson, Hume è molto più interessato al meccanismo dettagliato con cui

vengono suscitati i nostri sentimenti morali, e quindi è particolarmente

preoccupato di spiegare la rilevanza della spontaneità, dell'indifferenza e della

necessità per il funzionamento del sentimento morale. In questo senso, quindi,

l'approccio naturalistico di Hume è più strettamente intrecciato al suo racconto

della natura della necessità e della libertà morale. In sintesi, quando

confrontiamo gli argomenti di Hume con l'importante e influente discussione di

Strawson, diventa immediatamente evidente che il contrasto tra l'interpretazione

38
classica e quella naturalistica della strategia riconciliatrice di Hume ha un

notevole significato contemporaneo. La somiglianza complessiva tra la strategia

di Hume e quella di Strawson nel trattare i temi della libertà e della

responsabilità è sorprendente. Il punto fondamentale su cui concordano è che

non possiamo comprendere la natura e le condizioni della responsabilità morale

senza fare riferimento al ruolo cruciale che il sentimento morale svolge in

questa sfera. Questo approccio naturalistico pone Hume e Strawson in posizioni

simili se considerate in relazione alle opinioni del pessimista e dell'ottimista.

L'approccio naturalistico mostra che, in modi diversi, entrambe le parti del

dibattito tradizionale non riescono a riconoscere correttamente i fatti relativi al

sentimento morale. Il punto in cui Hume si differenzia maggiormente da

Strawson, tuttavia, è la questione delle "cause generali" del sentimento morale.

Strawson elude in gran parte questo problema. Per Hume, si tratta di una

questione cruciale che deve essere risolta per capire perché la necessità è

essenziale per la responsabilità e perché l'indifferenza è del tutto incompatibile

con l'effettivo funzionamento del meccanismo da cui dipende la responsabilità.

Abbiamo notato che l'interpretazione classica e quella naturalistica differiscono

nel modo in cui spiegano il rapporto tra libertà e responsabilità. Secondo

l'interpretazione classica, la responsabilità può essere analizzata direttamente in

termini di azione libera, intesa semplicemente come un agente che agisce

secondo la propria volontà o i propri desideri. Sebbene i compatibilisti classici

rifiutino il suggerimento degli incompatibilisti che l'azione libera e responsabile

39
richieda l'indeterminismo o qualsiasi forma speciale di "causalità morale", sono

comunque entrambi d'accordo sul fatto che una persona può essere ritenuta

responsabile se e solo se agisce liberamente. Nell'interpretazione naturalistica,

tuttavia, Hume rifiuta questa dottrina generale, che possiamo chiamare

"volontarismo". Hume sostiene che è una questione di "estrema importanza" per

la filosofia morale che l'azione deve essere indicativa di qualità mentali durevoli

se una persona deve essere ritenuta responsabile per essa. Questa affermazione

fa parte della più generale affermazione di Hume secondo cui le nostre passioni

indirette (compresi i sentimenti morali) sono suscitate e sostenute solo quando

le qualità piacevoli o dolorose in questione (ad esempio le virtù e i vizi) si

trovano in una relazione durevole o costante con la persona che ne è l'oggetto.

Nel caso delle azioni, che sono "temporanee e caduche", non c'è questa

relazione duratura, a meno che l'azione non sia adeguatamente legata a qualche

tratto del carattere. Ne derivano due questioni importanti che devono essere

attentamente distinte:

1) Hume ritiene che tutti gli aspetti della virtù per i quali una persona è soggetta

a valutazione morale (cioè l'approvazione e la disapprovazione) debbano essere

espressi volontariamente? Cioè, le virtù e i vizi devono essere valutati

interamente sulla base delle scelte deliberate e delle azioni intenzionali di un

agente?

40
2) Ammesso che le virtù e i vizi debbano essere intesi in termini di qualità

mentali piacevoli o dolorose di una persona, in che misura questi tratti del

carattere sono acquisiti volontariamente (cioè, acquisiti attraverso la volontà e le

scelte dell'agente stesso)?

La risposta di Hume a entrambe le domande è chiara. Egli nega che l'azione

volontaria o intenzionale sia l'unica base su cui possiamo valutare le virtù e i

vizi di una persona. Inoltre, sostiene anche che il carattere morale è, per la

maggior parte, acquisito involontariamente. La seconda affermazione,

ovviamente, non lo vincola alla prima. Né la prima lo vincola alla seconda,

poiché una persona potrebbe acquisire volontariamente tratti che, una volta

acquisiti, possono essere espressi o manifestati involontariamente. È evidente

che la combinazione di affermazioni che Hume abbraccia su questo tema lo

impegna in una posizione che sminuisce radicalmente il significato e

l'importanza della volontarietà in relazione alla virtù ­ certamente rispetto ad

alcuni resoconti alternativi già noti (come, ad esempio, quello di Aristotele).

Consideriamo innanzitutto la rilevanza della volontarietà per l'espressione del

carattere. Come abbiamo già notato, Hume ritiene che le azioni siano il modo

principale per conoscere il carattere di una persona. L'azione è prodotta

dall'influenza causale dei nostri desideri e delle nostre volontà. L'interpretazione

e la valutazione dell'azione devono quindi tenere conto della particolare

intenzione con cui è stata intrapresa. In caso contrario, si rischia di attribuire

41
all'agente tratti caratteriali che non possiede (e di conseguenza di lodarlo o

biasimarlo ingiustamente). Sebbene l'intenzione e l'azione abbiano un ruolo

significativo e importante nella valutazione del carattere morale, Hume sostiene

anche che ci sono altri canali attraverso i quali il carattere può essere espresso.

Più specificamente, un carattere virtuoso o vizioso può essere distinto in

riferimento ai "desideri e ai sentimenti" di una persona, nonché alla natura della

sua volontà. Le impressioni8, i desideri e i sentimenti si manifestano in una

grande varietà di modi, non solo attraverso la volontà e l'azione. L'aspetto e la

conversazione di una persona, il suo portamento, i suoi gesti, o semplicemente il

suo sguardo e la sua espressione, sono tutti segni del carattere e delle qualità

mentali che possono risultare piacevoli o dolorose. Anche se possiamo godere

di un limitato grado di controllo sui nostri desideri e sulle nostre passioni,

nonché sul modo in cui vengono espressi, per la maggior parte i nostri stati

emotivi e i nostri atteggiamenti sorgono in noi involontariamente e possono

persino manifestarsi o esprimersi contro la nostra volontà. Possiamo ora

affrontare l'ulteriore questione relativa alla concezione che Hume ha del modo

in cui si acquisiscono le virtù e i vizi e, in particolare, in che misura essi sono

modellati e condizionati dalle nostre scelte. Hume ritiene che, in linea di

massima, il nostro carattere sia condizionato e determinato da fattori

indipendenti dalla nostra volontà. Nelle sezioni "Della libertà e della necessità"

8Per Hume avere un impressione significa provare passioni ed emozioni ed avere quindi delle sensazioni.

42
egli sostiene che non solo osserviamo come certi caratteri agiranno in

circostanze specifiche, ma osserviamo anche come le circostanze condizionano

il carattere. Tra i fattori che determinano il carattere, sostiene, ci sono le

condizioni fisiche, l'età, il sesso, l'occupazione e la posizione sociale, il clima, la

religione, il governo e l'istruzione. Queste varie influenze causali spiegano "la

diversità di caratteri, pregiudizi e opinioni" (Hume,1739). Qualsiasi filosofia morale

accurata, si sostiene, deve riconoscere e prendere atto delle forze che "plasmano la

mente umana fin dalla sua infanzia" e che spiegano "il graduale cambiamento dei nostri sentimenti e

delle nostre inclinazioni" nel corso del tempo (Hume,1739). La forza generale di queste

osservazioni è quella di stabilire che "la struttura e la costituzione della nostra mente non

dipende dalla nostra scelta più di quanto non dipenda quella del nostro corpo"(Hume,1739). I

critici della posizione di Hume su questo argomento sosterranno che se una

persona ha poco o nessun controllo sui fattori che formano il suo carattere,

allora la virtù e il vizio sarebbero davvero, in queste circostanze, questioni di

mera fortuna o sfortuna e non più una base per la preoccupazione morale di

quanto non lo siano la bellezza o la bruttezza del corpo, se le persone sono

responsabili del carattere che esprimono le loro azioni e i loro sentimenti, allora

devono averlo acquisito volontariamente. La risposta di Hume a questa linea di

critica è che possiamo distinguere perfettamente la virtù e il vizio senza fare

alcun riferimento al modo in cui il carattere viene acquisito. I nostri sentimenti

morali sono reazioni o risposte alle qualità morali e ai tratti del carattere che le

persone manifestano nel loro comportamento e nella loro condotta, e quindi non

43
devono essere punitiLe opinioni di Hume sul rapporto tra virtù e volontarietà

spiegano molto bene uno degli aspetti più controversi della sua teoria della

virtù: la sua opinione che le capacità naturali debbano essere incorporate nelle

virtù e nei vizi. Rispetto a questo tema, l'autore fa riferimento a due punti

chiave. Il primo è che le capacità naturali (cioè l'intelligenza, l'immaginazione,

la memoria, l'ingegno, ecc.) e le virtù morali più strettamente intese sono

ugualmente qualità mentali. In secondo luogo, entrambe producono ugualmente

piacere e quindi hanno un'uguale tendenza a produrre l'amore e la stima degli

uomini. Qualsiasi distinzione tra le capacità naturali e le virtù morali non può

basarsi sulla considerazione che le capacità naturali sono per la maggior parte

acquisite involontariamente, poiché ciò vale anche per le virtù morali più

strettamente concepite. Tuttavia, secondo Hume, la distinzione

volontario/involontario aiuta a spiegare perché i moralisti hanno inventato la

distinzione tra capacità naturali e virtù morali. A differenza delle qualità morali,

le capacità naturali "sono quasi invariabili da qualsiasi arte o industria"

(Hume,1739). Al contrario, le qualità morali, "o almeno le azioni che ne

derivano, possono essere modificate dai motivi di ricompensa e punizione, di

lode e biasimo" (Hume,1739). In questo modo, secondo Hume, il significato

della distinzione volontario/volontario è in gran parte limitato alla nostra

preoccupazione per la regolamentazione della condotta nella società. Limitare la

nostra comprensione della virtù e del vizio a queste frontiere significa, tuttavia,

distorcere e travisare la sua stessa natura e il suo fondamento nella vita e

44
nell'esperienza umana. Queste osservazioni su Hume e sulla dottrina del

volontarismo sono di notevole rilevanza per il dibattito etico contemporaneo, in

quanto riguardano quello che Bernard Williams ha definito "il sistema morale"

(Williams, 1985). Sebbene il resoconto di Williams (ostile) sul sistema morale

sia sfaccettato e sfugga a una facile sintesi, le sue caratteristiche principali sono

abbastanza chiare. Il concetto che Williams identifica come fondamentale per il

sistema morale è la sua speciale nozione di obbligo. Da questo concetto speciale

di obbligo derivano i concetti correlati di giusto e sbagliato, colpa e

volontarietà. Quando gli agenti violano volontariamente i loro obblighi,

commettono un errore e sono passibili di biasimo e di una qualche misura di

punizione. In questo senso, il sistema morale, così concepito, comporta quello

che Williams chiama "il sistema della colpa", che si concentra su atti particolari

(Williams, 1985). Secondo Williams, all'interno del sistema della colpa c'è una

pressione "per richiedere una volontarietà che sia totale e che tagli il carattere e

il determinismo psicologico o sociale, e che assegni la colpa e la responsabilità

sulla base, in ultima analisi, del contributo dell'agente stesso, né più né meno"

(Williams, 1985). Uno dei motivi per cui il sistema morale attribuisce grande

importanza alla volontarietà è che aspira a dimostrare che la morale ­ e la

responsabilità morale in particolare ­ in qualche modo "trascende la fortuna"

(Williams, 1985). Ciò è necessario per garantire che la colpa sia assegnata in un

modo che sia "in definitiva equo". Nonostante le ovvie sfide che questo

requisito pone, i compatibilisti hanno tipicamente cercato di soddisfare queste

45
aspirazioni del sistema morale offrendo una serie di argomenti per dimostrare

che gli impegni compatibilisti non ci rendono vulnerabili al gioco del fato o

della fortuna nella nostra vita morale. In ultima analisi, Hume sostiene che, così

come ogni corpo o oggetto materiale "è determinato da un destino assoluto a un certo

grado e direzione del suo moto, e non può discostarsi da quella linea precisa, in cui si muove, più di

quanto possa convertirsi in un angelo, o in uno spirito, o in qualsiasi sostanza superiore così anche la

nostra condotta e il nostro carattere sono soggetti a un destino assoluto, inteso nei termini degli

ineludibili vincoli della necessità" (Hume,1739). Sotto questi aspetti fondamentali, quindi,

Hume ritiene, insieme a Williams, che la moralità non sfugga né al destino né

alla fortuna. In questo Hume condivide forse più con gli antichi greci che con i

moderni che abbracciano le aspirazioni del sistema morale. Da una prospettiva

critica, si può sostenere che rimane una lacuna significativa nello schema di

Hume così come lo abbiamo descritto finora. Anche se scartiamo le aspirazioni

del sistema morale, qualsiasi teoria naturalistica credibile della responsabilità

morale deve essere in grado di fornire un resoconto del tipo di capacità morale

coinvolta nelle condizioni di esenzione, in base alle quali consideriamo alcuni

individui e non altri come bersagli appropriati di sentimenti morali o

"atteggiamenti reattivi". Allo stato attuale, ciò che Hume ha da dire su questo

argomento è chiaramente inadeguato. Secondo Hume, il fatto che i nostri

sentimenti morali (in quanto forme calme delle passioni indirette dell'amore e

dell'odio) siano sempre rivolti alle persone, a noi stessi o agli altri, è un fatto

ultimo e inspiegabile. Questo resoconto non ci permette di dire perché alcune

46
persone non siano oggetti appropriati dei sentimenti morali (ad esempio, i

bambini, i pazzi e così via). Esistono tuttavia diverse proposte per colmare

questa lacuna. Forse la proposta più influente è quella di adottare una teoria

generale della reattività della ragione o dell'autocontrollo razionale. Secondo

questo tipo di teoria, gli agenti responsabili devono avere il controllo sulle

proprie azioni, il che implica "compiere quelle azioni intenzionalmente, possedendo al

contempo i tipi di competenza normativa pertinenti: la capacità generale di cogliere i requisiti morali

e di governare la propria condotta alla luce di essi" (Wallace, 1994) . Se da un lato le proposte

di questo tipo generale aiutano a colmare una grande lacuna nella teoria di

Hume, dall'altro suggeriscono una particolare comprensione della responsabilità

morale che non è del tutto in linea con il racconto di Hume stesso. Ci sono due

punti di divergenza che sono particolarmente significativi rispetto alla

questione. In primo luogo, l'autocontrollo razionale può essere spiegato, come

nel caso di Wallace, in termini di concezioni specificamente kantiane della

ragione pratica e dell'agenzia morale (Wallace, 1994). Le teorie di questo tipo si

basano comunque in modo troppo ristretto sulla capacità morale in quanto si

riferisce esclusivamente alle azioni e alle intenzioni. Secondo Hume, la capacità

morale deve essere collegata a modelli e disposizioni più ampie di sentimenti,

desideri e carattere. L'ambito della valutazione morale non dovrebbe essere

ridotto o limitato alla preoccupazione per gli atti di volontà (fugaci e

momentanei) modellati secondo i paradigmi legali. La capacità morale deve

essere esercitata e manifestata in un insieme più ampio e diversificato di

47
propensioni e abilità che costituiscono il carattere morale, compreso il

funzionamento del sentimento morale stesso. Nel sistema di Hume esiste una

relazione intima e importante tra senso morale e virtù. Il nostro senso morale

dovrebbe essere inteso in termini di capacità generale di provare e dirigere

sentimenti morali sia verso noi stessi che verso gli altri. Hume sottolinea che i

bambini acquisiscono le virtù artificiali, che implicano le convenzioni della

giustizia, non solo imparando i loro vantaggi, ma anche imparando a provare i

relativi sentimenti morali quando queste convenzioni vengono violate. Man

mano che i bambini crescono e maturano diventano sempre più consapevoli del

fatto che le loro qualità caratteriali si ripercuotono sia sugli altri che su sé stessi

e che queste daranno inevitabilmente origine a sentimenti morali nelle persone

con cui avranno a che fare. L'intero processo di presa di coscienza dei

sentimenti morali degli altri e di osservazione di noi stessi come appariamo agli

altri. serve sicuramente a sviluppare le virtù naturali e quelle artificiali. Su

questa linea, Hume sostiene che questa disposizione a "sorvegliare noi stessi" e

a cercare la nostra "pace e soddisfazione" è la custode più sicura di ogni virtù

(Hume,1739). Chi manca completamente di questa disposizione sarà senza

vergogna e mancherà inevitabilmente di tutte le virtù che dipendono dalla

riflessione morale per il loro sviluppo e la loro stabilità. È chiaro quindi che,

nella misura in cui la coltivazione e la stabilità della virtù dipende dal senso

morale, essa richiede anche le qualità e le capacità intellettuali coinvolte

nell'esercizio del senso morale. Un modo per comprendere questo aspetto è dire

48
che il senso morale e la riflessione morale sono la controparte della saggezza

pratica o della phronesis nella teoria morale di Aristotele. Di conseguenza, un

animale, un neonato o un folle non avranno la capacità di svolgere i compiti

intellettuali coinvolti nella produzione di sentimenti morali. Non possiamo

quindi aspettarci che le virtù che dipendono da queste capacità e attività

intellettuali si manifestino in individui che ne sono privi o che sono danneggiati

o sottosviluppati. Il sistema di Hume, così interpretato, ha il merito di evitare di

"intellettualizzare" eccessivamente non solo ciò che è implicato nel ritenere una

persona responsabile, ma anche ciò che è implicato nell'essere un agente

responsabile. La metafisica della religione9, suggerisce Hume, serve solo a

confondere e oscurare la nostra comprensione di questi argomenti e a

nascondere il loro vero fondamento nella natura umana. Le opinioni di Hume

sul tema del libero arbitrio e della responsabilità morale, presentate nelle sezioni

"Della libertà e della necessità" e in altre parti dei suoi scritti, sono il perno su

cui ruota questa tesi fondamentale.

1.3 KANT E IL FREE WILL

È notoriamente difficile collocare Kant nel dibattito sul libero arbitrio. La

maggior parte dei kantiani ritiene che ciò sia dovuto al fatto che il suo punto di

9nell’ambito della religione Hume sconfessa ogni pretesa di ritrovare in essa un fondamento razionale. Nei
dialoghi sulla religione naturale (1779) egli afferma che la ragione non può fornire alcuna prova dell’esistenza
di Dio.

49
vista sul libero arbitrio, come dice Wood, “non si inserisce perfettamente nelle

consuete gabbie” (Wood,1984). Nonostante queste preoccupazioni, i teorici del

libero arbitrio assumono che Kant sia un incompatibilista di tipo libertario.

Nella sua introduzione al libero arbitrio Kane sostiene che “Immanuel Kant

pensava che la libertà libertaria fosse necessaria per dare un senso alla moralità

e alla responsabilità” (Kane,2005). Nella loro recente introduzione al libero

arbitrio, McKenna e Pereboom considerano Kant un incompatibilista e in

particolare un libertario agente­causale. Tali caratterizzazioni sono sorprendenti

se si considerano gli obiettivi della terza antinomia della critica della ragion

pura. Mentre Kant dimostra che la tesi e l’antitesi delle prime due antinomie

“matematiche” sono entrambe false, egli sostiene che la tesi (libertà) e l’antitesi

(il determinismo) della terza antinomia dinamica possono essere vere allo stesso

tempo. Kant afferma “Questa antinomia poggia su una mera illusione, la natura

non è in conflitto con la causalità attraverso la libertà” (Kant,1781).10

Kant sostiene che la libertà trascendentale è "il vero fondamento dell'imputabilità di

un'azione e che senza la libertà trascendentale [...] non è possibile nessuna legge morale e nessuna

imputazione conforme ad essa" (Kant,1781). Nel vocabolario di Kant, "imputare"

[zurechnen] un'azione a una persona significa ritenerla moralmente responsabile

dell'azione. A una prima seria interpretazione, le etichette kantiane evidenziano

che il tipo di libertà che Kant dimostra essere compatibile con il determinismo è

10 Immanuel Kant, Critica della Ragion pura,1781

50
più simile alla libertà libertaria che alla classica concezione compatibilista della

libertà. Questa sembra la motivazione principale di Allison per attribuire a Kant

una nozione di libertà "esplicitamente indeterminista o incompatibilista"

(Allison, 1990). C'è del vero in questo. I compatibilisti classici, come Hobbes,

Locke e Hume, assumono implicitamente il cosiddetto principio delle

possibilità alternative. Questo principio dice che gli agenti sono moralmente

responsabili di un'azione solo se avessero potuto fare altrimenti. I compatibilisti

classici mirano a dimostrare che la nozione di capacità di fare altrimenti è

compatibile con il determinismo, scomponendo questa nozione nel modo

seguente: un agente ha la capacità di fare altrimenti se e solo se avrebbe fatto

altrimenti se avesse voluto farlo. Questa è nota come analisi condizionale della

capacità di fare altrimenti. Nell'analisi condizionale, gli agenti possono avere la

capacità di fare altrimenti anche se il determinismo è vero. Kant respinge

notoriamente la strategia compatibilista classica come un "miserabile

sotterfugio". Se la libertà di fare altrimenti è definita in questo modo, spiega,

"allora non sarebbe in fondo niente di meglio che la libertà di un tornio, che, una volta avvolto,

compie i suoi movimenti anche da solo"(Kant,1781). Il punto di Kant è che un agente

libero nel senso classico compatibilista non avrebbe potuto volere diversamente,

perché in condizioni deterministiche la sua volontà è determinata da condizioni

che risalgono a fattori al di fuori del suo controllo. Kant sostiene quindi che la

libertà trascendentale è il vero fondamento dell'imputabilità di un'azione, dove

la libertà trascendentale è intesa come "la facoltà di iniziare uno stato da sé e


51
un'indipendenza [...] da tutte le cause determinanti del mondo dei sensi" (Kant,1781). Frankfurt

(1988a) ha argomentato contro il principio delle possibilità alternative sulla base

di una serie di controesempi. La struttura di questi esempi è la seguente.

Supponiamo che Black voglia che Jones uccida Smith. All'insaputa di Jones,

Black ha impiantato un dispositivo di controllo a distanza nel cervello di Jones.

Grazie a questo dispositivo, Black può far sì che Jones decida di uccidere

Smith. Ma Black preferisce non intervenire. Ciò che accade è questo: Jones

decide di uccidere Smith di sua iniziativa, senza l'intervento di Black. Ora,

Jones sembra moralmente responsabile per aver ucciso Smith. Ma si noti che

Jones non aveva la capacità di fare altrimenti nel senso specificato dai

compatibilisti classici: non è il caso che Jones si sarebbe astenuto dall'uccidere

Smith se avesse voluto farlo (perché in quello scenario Black avrebbe fatto

decidere a Jones di uccidere Smith). Frankfurt rifiuta quindi il compatibilismo

classico. Dobbiamo definire Frankfurt un incompatibilista per questo motivo?

Niente affatto. Certo, egli non è d'accordo con i compatibilisti classici su quale

tipo di libertà sia necessaria per la responsabilità morale: mentre i compatibilisti

classici assumono, almeno implicitamente, che essa consista nella capacità

dell'agente di fare altrimenti, Frankfurt sostiene che essa consiste in un adeguato

equilibrio tra i desideri di secondo ordine e quelli di primo ordine dell'agente

(Frankfurt, 1988). Poiché quest'ultimo tipo di libertà è compatibile con il

determinismo, tuttavia, Frankfurt accetta la tesi compatibilista e quindi nega la

tesi incompatibilista. Per sicurezza, Kane osserva quindi che teorie come quella

52
di Frankfurt sono ancora teorie compatibiliste del libero arbitrio, anche se vanno

oltre il compatibilismo classico" (Kane,2005). Il punto è abbastanza semplice:

gli autori non dovrebbero essere chiamati incompatibilisti solo perché rifiutano

il compatibilismo classico. Di conseguenza, anche se l'etichetta "compatibilità

del compatibilismo e dell'incompatibilismo" getta un po' di luce su

caratteristiche uniche della teoria della libertà di Kant, in senso stretto è un

termine improprio. E in discussioni così complesse come quella sul libero

arbitrio e sulla terza antinomia di Kant, è importante usare i concetti in modo

rigoroso e ben definito. Kant considera l'idealismo trascendentale come "la

chiave" per la soluzione dell'antinomia tra libertà e determinismo. A differenza

di altri compatibilisti, egli ritiene che il tipo di libertà richiesto per la

responsabilità morale sia compatibile con il determinismo solo se l'idealismo

trascendentale è vero. Se la libertà trascendentale è considerata a livello di

apparenza, osserva, "la necessità nella relazione causale non può in alcun modo essere unita

alla libertà, ma si oppongono l'una all'altra come contraddittorie" (Kant,1781). "Se si vuole ancora

salvare la libertà", aggiunge “non resta altra strada che attribuire l'esistenza di una cosa in quanto

determinabile nel tempo, e così pure la sua causalità secondo la legge della necessità naturale, solo

all'apparenza, e attribuire la libertà allo stesso essere come cosa in sé” (Kant.1781). Il suo

obiettivo all'inizio della discussione della seconda analogia nella Critica della

ragion pura è dimostrare che "tutto ciò che accade (inizia a essere) presuppone

qualcosa che segue secondo una regola" (Kant,1781) o, come dice nell'edizione

B, che "tutte le alterazioni avvengono secondo la legge della connessione di

53
causa ed effetto" ((Kant,1781). Queste formulazioni sono identiche, o almeno

molto vicine, alla tesi determinista. Alla luce di ciò, lo scopo della seconda

analogia sembra essere quello di fornire una prova della verità del

determinismo. Si tratta di una prova trascendentale volta a dimostrare che gli

oggetti devono essere conformi alle leggi causali se vogliono essere oggetto di

cognizione esperienziale. Di conseguenza, se lo scopo della seconda analogia è

fornire una prova della tesi determinista, Kant pretende di aver fornito una

prova a priori del determinismo. Strawson (1966) intende che gli oggetti in

questione sono gli oggetti della nostra esperienza quotidiana. Mentre Kant

intendeva dimostrare che gli oggetti devono essere conformi a leggi causali

rigorose e universali per essere considerati oggetto di esperienza, Strawson

sostiene che il suo argomento dimostra solo che tali oggetti devono manifestare

un certo grado di regolarità. Buchdahl (1969) e Allison (2004) sono d'accordo

con Strawson sulla natura degli oggetti in questione, ma sostengono che gli

argomenti di Kant sono stati concepiti per dimostrare (e di fatto dimostrano) che

gli oggetti della nostra esperienza quotidiana devono mostrare un sufficiente

grado di regolarità.

Per Kant, gli oggetti possibili della nostra esperienza quotidiana comprendono

tutti gli eventi che si conformano alle forme dell'intuizione e quindi tutti gli

eventi che sono individuati nello spazio o nel tempo. Di conseguenza, ci sono

due possibilità. Se Kant pretende di aver dimostrato che tutti gli oggetti

54
dell'esperienza quotidiana devono necessariamente conformarsi a una legge

causale rigorosa e universale, si impegna a favore del determinismo e sostiene

di aver fornito una prova a priori della sua verità. Se invece la tesi di Kant è che

gli oggetti dell'esperienza quotidiana devono necessariamente presentare solo un

sufficiente grado di regolarità, emerge un quadro diverso. Per delineare questo

quadro, si consideri la seguente linea di ragionamento, che può essere

soprannominata "Argomento del margine". Supponiamo che gli oggetti della

nostra esperienza quotidiana debbano presentare solo un sufficiente grado di

regolarità. Ciò consente piccole deviazioni dalla regola. Supponiamo, inoltre,

che queste piccole irregolarità creino un margine di manovra sufficiente per il

libero arbitrio libertario. Sulla base di questi presupposti, viene spontaneo

pensare che Kant risolva la terza antinomia dimostrando che una nozione

libertaria di libertà è coerente con la regolarità degli oggetti della nostra

esperienza quotidiana. Kant dovrebbe essere classificato come incompatibilista

e più precisamente come libertario. Il motivo è chiaro: Kant dimostra che il tipo

di libertà richiesto per la responsabilità morale è coerente non con il

determinismo, ma con un certo grado di regolarità degli oggetti della nostra

esperienza quotidiana; e questo tipo di libertà è coerente con la regolarità della

nostra esperienza quotidiana proprio perché quest'ultima consente un grado di

libertà che mancherebbe se il determinismo fosse vero. Per illustrare la nozione

di libero arbitrio libertario, supponiamo che stamattina abbia detto una bugia.

Gli incompatibilisti ritengono che il libero arbitrio libertario sia necessario per

55
la responsabilità morale. Pertanto, ritengono che se devo essere moralmente

responsabile per aver detto una bugia, deve essere il caso che, dato lo stato del

mondo precedente alla mia bugia e le leggi della natura, non era necessario che

mentissi (o possibile che mi astenessi dal farlo). Mentre i deterministi duri

ritengono che questa condizione per la responsabilità morale non sia mai

soddisfatta, i libertari ritengono che almeno in alcune occasioni lo sia.

Considerare la posizione libertaria di Kane (1998) ci aiuterà a comprendere il

rifiuto di Kant del libero arbitrio libertario. Secondo Kane, gli agenti possono

essere moralmente responsabili di un'azione anche se non avrebbero potuto fare

altrimenti al momento dell'azione, purché le loro azioni possano essere

ricondotte al loro carattere, e sono responsabili del loro carattere in virtù di una

precedente "azione autoformante" che soddisfa le condizioni del libero arbitrio

libertario (1998). Per quanto riguarda la mia bugia di stamattina, Kane potrebbe

quindi dire che sono colpevole di aver mentito anche se non avrei potuto fare

altrimenti al momento dell'azione, purché sia stato in ultima analisi responsabile

di aver reso me stesso il tipo di persona che non può non mentire in quelle

circostanze in virtù di una precedente azione autoformante. Si potrebbe essere

tentati di pensare che Kant ammetta la possibilità di azioni autoformanti di

questo tipo. Il motivo è che Kant sostiene che l'essere umano può essere ritenuto

moralmente responsabile di qualsiasi azione moralmente sbagliata nonostante la

verità del determinismo, sulla base del fatto che "questa azione, con tutto il passato che

la determina, appartiene a un singolo fenomeno del suo carattere, che egli dà a se stesso"

56
(Kant,1781). Kant approfondisce questa nozione di scelta del carattere nella

“Religione entro i limiti della semplice ragione”. In quel contesto afferma che

"l'essere umano deve fare o far diventare se stesso ciò che è o deve diventare in senso morale,

buono o cattivo", spiegando che "questi due caratteri devono essere un effetto del suo libero potere

di scelta, perché altrimenti non potrebbero essergli imputati" (Kant,1792)11. Inoltre, sembra

che per Kant questa scelta del personaggio sia trascendentalmente libera ­ e la

libertà trascendentale è definita come "la facoltà di iniziare da sé uno stato, la cui causalità

non dipende a sua volta da un'altra causa che lo determina nel tempo secondo la legge di natura"

(Kant,1792). Inoltre, Kant a differenza di Kane sostiene la verità del determinismo per quanto

riguarda tutti gli eventi nel tempo. Nella successione temporale delle cose, sostiene, "non c'è da

aspettarsi un'azione originaria [...]" (Kant, 1781):

“Tra le cause dell'apparenza non vi è certamente nulla che possa iniziare una serie in modo assoluto

e da sé. Ogni azione, in quanto apparenza, nella misura in cui produce un accadimento, è essa stessa

un accadimento, o evento, che presuppone un altro stato in cui si trova la sua causa; e quindi tutto

ciò che accade è solo una continuazione della serie” (Kant,1781). In un passo parallelo della

Critica della ragion pratica, Kant afferma analogamente che "ogni evento, e di

conseguenza ogni azione che ha luogo in un punto del tempo, è necessario sotto la condizione di ciò

che era nel tempo precedente" (Kant, 1788). Tornando al nostro esempio della mia

menzogna di stamattina, Kant si impegna quindi a negare che nella mia storia di

vita io abbia mai avuto una scelta causalmente indeterminata sul fatto di

diventare il tipo di persona che non può non mentire nelle circostanze di

11 Immanuel Kant, Critica della Ragion Pratica, 1792

57
stamattina. Questo suggerisce che Kant si aggrappa alla verità del determinismo

e deduce che non abbiamo un libero arbitrio libertario. Per poter trarre

conclusioni definitive, tuttavia, il rifiuto di Kant del libero arbitrio libertario

deve essere considerato in modo più dettagliato. Kant sviluppa due argomenti

contro il libero arbitrio libertario. La modalità di argomentazione di ciascun

argomento è la reductio ad absurdum. Il primo argomento potrebbe essere

chiamato riduzione alla non­realtà:

“La legge di natura secondo cui tutto ciò che accade ha una causa [... ], e di

conseguenza che tutti gli accadimenti sono empiricamente determinati in un

ordine naturale ­ questa legge, grazie alla quale solo le apparenze possono

innanzitutto costituire un'unica natura e fornire oggetti di un'unica esperienza, è

una legge della comprensione, dalla quale non si può derogare con nessun

pretesto, né esentare alcuna apparenza; perché altrimenti si porrebbe questa

apparenza al di fuori di ogni possibile esperienza, distinguendola così da tutti gli

oggetti di una possibile esperienza e facendola diventare una mera entità di

pensiero e un'invenzione del cervello” (Kant,1788). Il ragionamento della

Riduzione alla non­realtà può essere ricostruito come segue. L'argomentazione

della seconda analogia dimostra che tutti gli oggetti dell'esperienza sono

necessari date le condizioni precedenti, in combinazione con le leggi causali

universali. Seduto alla mia scrivania, alzo ora la mano. Se, per ipotesi, questa

azione risultasse dal libero arbitrio libertario, allora questa azione non sarebbe

58
necessaria date le condizioni precedenti in combinazione con le leggi causali

universali e quindi non sarebbe un oggetto di esperienza. Ma il mio alzare la

mano è stato evidentemente un oggetto di esperienza. Pertanto, non può essere

frutto del libero arbitrio, e lo stesso vale per ogni altra azione individuata nello

spazio e nel tempo. A questo punto è necessario affrontare una possibile

obiezione. Qualcuno potrebbe ammettere che la Riduzione alla non­realtà vale

per eventi fisici come alzare la mano, ma negare che si applichi a eventi mentali

come prendere una decisione. In termini cartesiani, l’obiezione sarebbe

ammettere che la res extensa12 è governata da leggi causali, negando però che lo

stesso valga per la res cogitans13. Se l'obiettore ha ragione, la Riduzione alla non

realtà non esclude la possibilità del libero arbitrio libertario. Questa obiezione

può essere facilmente eliminata. Il motivo è che Kant rifiuta esplicitamente

l'indeterminismo psicologico. Anche se gli eventi mentali "possono essere

interni e avere una causalità psicologica anziché meccanica", sostiene, "sono

sempre motivi determinanti della causalità di un essere nella misura in cui la sua

esistenza è determinabile nel tempo e quindi sotto le condizioni necessitanti del

tempo passato" (Kant,1788). Secondo Kant, gli eventi mentali non sono esenti

da leggi causali. Il secondo argomento di Kant contro il libero arbitrio confuta

l'ipotesi che il libero arbitrio sia necessario per la responsabilità morale:

12 con res extensa Cartesio fa riferimento alla realtà fisica che è estesa, limitata e incosapevole.
13 con res cogitans Cartesio fa riferimento alla realtà psichica a cui attribuisce le seguenti qualità: inestensione,
libertà e consapevolezza.

59
“Se, dunque, si vuole attribuire la libertà a un essere la cui esistenza è determinata nel tempo, non si

può, almeno finora, sottrarre questo essere alla legge della necessità naturale per quanto riguarda

tutti gli eventi della sua esistenza e, di conseguenza, anche per le sue azioni; perché ciò equivarrebbe

a consegnarlo al caso cieco” (Kant,1788). Un noto esempio di Kane (1998, p. 107)

illustra il punto di vista di Kant. Supponiamo che Jane possa trascorrere le sue

vacanze estive alle Hawaii o in Colorado e che da qualche giorno stia riflettendo

su quale sia l'opzione migliore. Per rendere la scelta moralmente rilevante,

supponiamo che Jane viva in Kansas (uno Stato confinante con il Colorado) e

che, a causa dell'impatto ambientale dell'aviazione, sarebbe moralmente

sbagliato per Jane prenotare una vacanza alle Hawaii. Jane si informa sulle

destinazioni e sulle emissioni di CO2 degli aerei, controlla il saldo del suo conto

in banca, soppesa i pro e i contro e alla fine sceglie di andare alle Hawaii. Ora,

se la sua decisione di andare alle Hawaii deve soddisfare il criterio del libero

arbitrio libertario, dovrebbe essere possibile che, dato esattamente lo stesso

passato e le stesse leggi di natura, Jane avrebbe potuto scegliere di andare in

Colorado. Tuttavia, se avesse scelto, le stesse considerazioni, gli stessi desideri,

le stesse convinzioni e le stesse motivazioni che l'hanno spinta a scegliere di

andare alle Hawaii avrebbero portato alla scelta di andare in Colorado. Il suo

ragionamento sarebbe quindi completamente scollegato dalla sua scelta. Ma

allora la scelta di Jane è stata il prodotto di un "caso cieco", come dice Kant. E

sembra inappropriato ritenere le persone moralmente responsabili per i prodotti

del “cieco caso”. L'esistenza del libero arbitrio libertario, quindi, minerebbe la

60
responsabilità morale. Di conseguenza, Kant afferma non solo la tesi

compatibilista secondo cui possiamo avere il tipo di libertà richiesto per la

responsabilità morale anche se il determinismo è vero, ma anche la tesi più

audace secondo cui possiamo avere questo tipo di libertà solo se il

determinismo è vero. Consideriamo innanzitutto il seguente passaggio chiave

della Critica della ragion pratica:

“Si potrebbe concedere che, se ci fosse possibile avere una visione così profonda dell'animo di un

essere umano, come mostrato dalle azioni interiori ed esteriori, da conoscere ogni stimolo all'azione,

anche il più piccolo, così come tutte le occasioni esterne che lo influenzano, potremmo calcolare la

condotta di un essere umano per il futuro con la stessa certezza di un'eclissi lunare o solare e

potremmo tuttavia sostenere che la condotta dell'essere umano è libera” (Kant,1788). Per

comprendere il passaggio è necessario un po' di contesto. Per cominciare,

notiamo che molti eventi sembrano indeterminati a prima vista. Se lancio una

moneta, per esempio, le probabilità che cada a testa o a croce sembrano 50/50.

Lo stesso vale per molte azioni, sia quelle svolte da me che da altri. Come nel

caso della moneta, le probabilità che segua l'una o l'altra azione possono a volte

sembrare 50/50. È importante notare che Kant aggiunge che, in queste

condizioni ipotetiche, "potremmo comunque sostenere che la condotta

dell'essere umano è libera" (Kant,1788). Di conseguenza, egli afferma la tesi

compatibilista nel passo citato: non è vero che se il determinismo è vero, allora

non possediamo il tipo di libertà richiesto per la responsabilità morale. Il passo

suggerisce quindi chiaramente che Kant è impegnato nel compatibilismo. Come

61
la maggior parte dei compatibilisti, Kant non prende alcun impegno sostanziale

riguardo alla verità del determinismo o al nostro possesso della libertà nel

passaggio. In altre parole, assume il determinismo solo come qualcosa che si

"potrebbe concedere" e la libertà della nostra condotta solo come qualcosa che

si "potrebbe mantenere". Poiché abbiamo già stabilito che Kant si impegna a

favore del determinismo, possiamo tuttavia dedurre che egli è un determinista

morbido. L'impegno di Kant nei confronti del determinismo morbido è

confermato da un passaggio parallelo nella Critica della ragion pura. A

differenza del passo citato sopra, qui Kant afferma la verità del determinismo:

“Tutte le azioni dell'essere umano in apparenza sono determinate, in accordo con l'ordine della

natura, dal suo carattere empirico e dalle altre cause che vi cooperano; e se potessimo indagare

tutte le apparenze del suo potere di scelta fino al loro fondamento, allora non ci sarebbe alcuna

azione umana che non potremmo prevedere con certezza, e riconoscere come necessaria date le sue

condizioni precedenti"(Kant,1781). L'impegno di Kant nei confronti del determinismo

morbido è confermato ancora una volta da due dei suoi esempi centrali, vale a

dire la menzogna dolosa e il furto. Gli esempi riguardano rispettivamente un

bugiardo e un ladro. In entrambi gli esempi, Kant parte dal presupposto che gli

agenti sono moralmente colpevoli solo se avrebbero potuto fare altrimenti e

conclude che il bugiardo e il ladro sono moralmente colpevoli perché avrebbero

potuto fare altrimenti. Nella Menzogna dolosa, Kant sostiene che "nel momento

in cui il bugiardo doloso mente, la colpa è interamente sua" perché il bugiardo

"avrebbe potuto ancora astenersi dalla menzogna" (Kant,1781) e possiamo

62
considerare "la ragione come una causa che [...] avrebbe potuto e dovuto

determinare la condotta della persona in modo diverso da quello che è"

(Kant,1781). Analogamente, Kant sostiene che "un essere razionale può [...] dire

giustamente di ogni azione illecita che ha compiuto che avrebbe potuto

ometterla" (Kant,1781). La questione, ovviamente, è come interpretare questa

capacità di fare altrimenti. Abbiamo visto in precedenza che Kant è impegnato

nel determinismo e rifiuta il libero arbitrio libertario. Di conseguenza, la sua

insistenza sul fatto che il bugiardo e il ladro avrebbero potuto agire

diversamente non può essere plausibilmente interpretata come una negazione

della tesi determinista. In effetti, in entrambi gli esempi, Kant sostiene che

l'azione moralmente problematica del protagonista è pienamente determinata

dalle condizioni precedenti e dalle leggi della natura. Nella Menzogna

maliziosa, sostiene che l'azione è determinata da condizioni precedenti come

"una cattiva educazione, una cattiva compagnia, [...] la malvagità di un

temperamento naturale insensibile alla vergogna, [...] l'imprudenza e la

sconsideratezza" insieme alle "cause occasionali" (Kant,1781). Analogamente,

in Furto sostiene che "questa azione è, secondo la legge naturale della causalità, un risultato

necessario di motivi determinanti nel tempo precedente" (Kant,1781). Di conseguenza, Kant

sostiene non solo che il bugiardo e il ladro avrebbero potuto agire diversamente,

ma anche che la menzogna e il furto sono completamente determinati da cause

precedenti in combinazione con le leggi della natura. Lo rende esplicito nella

discussione degli esempi. Nella menzogna maliziosa, afferma che "anche se si

63
ritiene che l'azione sia determinata da queste cause, si incolpa comunque l'agente" (Kant,1781) .

Per quanto riguarda il furto, sostiene più esplicitamente che "un essere razionale può

[...] giustamente dire di ogni azione illecita che ha compiuto che avrebbe potuto ometterla, anche se

come apparenza è sufficientemente determinata nel passato e, fino a quel momento, è

inevitabilmente necessaria" (Kant,1781). Il tipo di capacità di fare altrimenti su cui Kant

insiste deve quindi essere compatibile con il determinismo. Allo stesso tempo,

questa capacità di fare altrimenti non può essere la nozione classica

compatibilista di capacità di fare altrimenti (secondo la quale un agente ha la

capacità di fare altrimenti solo quando avrebbe fatto altrimenti se avesse voluto

farlo). Dopotutto, abbiamo visto che Kant rifiuta la nozione classica di

compatibilismo come un "misero sotterfugio" (Kant,1781). Un'altra

interpretazione della capacità di fare altrimenti che può essere esclusa è quella

epistemica. In base a questa interpretazione, Kant sosterrebbe che il bugiardo e

il ladro sono moralmente colpevoli delle loro azioni perché, nel momento in cui

agiscono, possono agire diversamente per quanto ne sappiamo (data la nostra

ignoranza delle condizioni precedenti e delle leggi di natura). Questa

interpretazione deve essere respinta, tuttavia, perché le mere possibilità

alternative epistemiche non possono essere sufficienti per Kant. Dopotutto,

abbiamo visto che egli sostiene che potremmo "sostenere che la condotta

dell'essere umano è libera" anche se fossimo onniscienti e "fosse possibile per

noi avere una visione così profonda del comportamento dell'essere umano [...]

da conoscere ogni stimolo all'azione [...] così come tutte le occasioni esterne che

64
lo influenzano" (Kant, 1788). Ora che queste due interpretazioni compatibiliste

della capacità di fare altrimenti sono escluse, diventa pressante la domanda su

come per Kant la capacità di fare altrimenti dell'agente in menzogna dolosa e

per il furto possa essere coerente con il determinismo. Entrambe le letture si

basano sulla dottrina dell'idealismo trascendentale di Kant. Per ricordare,

l'idealismo trascendentale è l'idea che gli eventi e le azioni possono essere

considerati sia come apparenze, soggette alle condizioni della cognizione

esperienziale (ad esempio, tempo, spazio e causalità), sia come cose in sé, al di

fuori di queste condizioni. Analogamente, Kant distingue tra ciò che chiama il

carattere "empirico" e il carattere "intelligibile" degli agenti (Kant,1788).

Mentre il nostro carattere empirico è soggetto al tempo come forma di

intuizione e alla causalità come categoria della comprensione, il nostro carattere

intelligibile non è soggetto a queste condizioni e in particolare "non sta sotto

condizioni di tempo" (Kant,1788).

Possiamo ora tornare all'affermazione di Kant secondo cui gli agenti scelgono

liberamente i loro caratteri intelligibili (Kant,1788). Questa scelta

trascendentalmente libera del carattere non è indicizzata al tempo: secondo

Kant, scegliamo i nostri caratteri intelligibili per mezzo di un "atto intelligibile,

conoscibile attraverso la sola ragione a prescindere da ogni condizione temporale" (Kant,1788) .

Kant sostiene inoltre che il carattere intelligibile è la "causa trascendentale" del

carattere empirico e che il carattere empirico è "un effetto di una causalità che

65
non è empirica, ma piuttosto intelligibile". Questa "causalità della ragione" può

essere intesa come una dipendenza controfattuale del carattere empirico dal

carattere intelligibile. Come dice Kant, "un altro carattere intelligibile avrebbe dato un

altro carattere empirico" (Kant,1788).

Nella versione del compatibilismo di Kant un agente potrebbe aver omesso

un'azione moralmente inammissibile solo quando sono veri i due seguenti

controfattuali:

Se l'agente avesse scelto un carattere intelligibile diverso, avrebbe avuto un

carattere empirico diverso.

Se l'agente avesse avuto un carattere diverso, non avrebbe compiuto l'azione

moralmente inammissibile.

Ciò che è importante ai nostri fini è che la verità dei due controfattuali rilevanti

non esclude la verità del determinismo. Per capire perché, si noti che la tesi

determinista implica che in tutti i mondi possibili con lo stesso passato e le

stesse leggi di natura del mondo reale, il bugiardo mente e il ladro ruba. Ma

questo è perfettamente compatibile con l'affermazione che in mondi possibili

con un passato diverso, o in mondi possibili con leggi di natura diverse, i

proponenti degli esempi di Kant si astengono dal compiere le azioni

moralmente inammissibili. Mentre i kantiani spesso assumono che il punto di

vista di Kant sul libero arbitrio non possa essere ricondotto a nessuna delle voci

del dibattito sul libero arbitrio, c'è un ampio consenso tra i teorici

66
contemporanei del libero arbitrio sul fatto che Kant sia un incompatibilista di

tipo libertario. In realtà Kant si potrebbe definire un determinista morbido. La

questione se il compatibilismo di Kant sia solido rimane comunque un discorso

ancora più controverso.

1.4 SEARLE: LIBERTA’ E NEUROBIOLOGIA

L'obiettivo della filosofia di John R. Searle è quella di fornire una teoria

unificata della mente, del linguaggio e della realtà sociale. Formatosi a Oxford,

alla scuola dei “filosofi del linguaggio ordinario” come John L. Austin e Peter

Strawson, John R.Searle è professore di filosofia del linguaggio e filosofia della

mente all’Università di Berkeley in California. Le sue indagini filosofiche

hanno preso avvio con la filosofia del linguaggio, a cui Searle ha fornito un

contribuito fondamentale con lo sviluppo della teoria degli “atti linguistici”, e

sono poi proseguite nell’ambito della filosofia della mente, dell’intelligenza

artificiale e delle neuroscienze. Un ulteriore sviluppo del suo pensiero è

costituito dell’ontologia sociale, e dall’analisi della razionalità dell’agire umano,

con cui Searle riafferma la necessità di una teoria unificata di mente­linguaggio

e società.

“La persistenza del problema del libero arbitrio, in filosofia, mi sembra costituisca una sorta di

scandalo. Dopo secoli di riflessione sul libero arbitrio non mi pare siano stati fatti molti progressi”

(Searle,2005)14. Quando ci troviamo di fronte a problemi insolubili, constatiamo

14 John R. Searle, Libertà e neurobiologia, Bruno Mondadori, 2005.

67
che possiedono una certa forma logica. Così per il problema del libero arbitrio

Searle mette in evidenza il vecchio problema mente­corpo, questo dualismo

ancora radicato. Da una parte c’è il corpo composto da particelle materiali che si

muove secondo le leggi fisiche, dall’altra crediamo all’esistenza di un fenomeno

immateriale: la coscienza. “per noi è una difficoltà” dice Searle “poiché non

siamo in grado di associare il materiale e l’immateriale in una rappresentazione

coerente dell’universo” (Searle,2005). Nel caso del libero arbitrio c’è il

problema deterministico, ossia, la spiegazione dei fenomeni naturali devono

sottostare alla spiegazione deterministica. Ma quando parliamo di

comportamenti umani e di “agire liberamente” o “volontariamente” pare

impossibile che questi concetti seguano una linea deterministica. “Quando voto per

un certo candidato, lo faccio per una determinata ragione: ciononostante potrei benissimo votare

per un altro candidato, pur permanendo identiche tutte le condizioni […] così quando spiego la mia

azione in riferimento a una ragione io non evoco delle condizioni sufficienti dal punto di vista

causale” (Searle,2005). Ma le azioni umane, dice Searle, sono eventi al pari di

terremoti e tempeste e devono avere quindi spiegazioni causali sufficienti. Nel

caso del dualismo mente/corpo il problema è nella terminologia. Quando

facciamo riferimento alla mente e agli stati mentali pensiamo falsamente che

questi non possono essere proprietà fisiche, biologiche ordinarie del nostro

cervello ergo del nostro corpo. Se proviamo dolore, esso è causato da sequenze

di catene neuronali, e la realizzazione dell’esperienza del dolore si situa a livello

68
cerebrale. Possiamo risolvere il problema del libero arbitrio esattamente come

abbiamo risolto quello del dualismo mente/corpo. La domanda che dobbiamo

porci è perché per noi è così angosciante rinunciare al libero arbitrio.

“Immaginiamo di essere in un ristorante e che ci venga proposto di scegliere tra carne di vitello e

carne di maiale […] in una situazione del genere non possiamo rifiutare di esercitare il libero arbitrio.

Così se dite al cameriere -senta sono determinista, quel che sarà sarà, sto giusto aspettando di

vedere che cosa ordino- questo atteggiamento non è comprensibile per voi come rifiuto di esercitare

il libero arbitrio […]” (Searle,2005). D'altronde Kant aveva già sottolineato che non

possiamo sottrarci al nostro libero arbitrio. Noi consideriamo il mondo come se

fosse causalmente ordinato, banalmente riassumiamo il concetto affermando

che ogni evento ha una causa. All'inizio del XX secolo si è giunti ad accettare,

per quel che riguarda la meccanica quantistica, spiegazioni non deterministiche.

Questa scoperta però per Searle non aiuta a risolvere il problema del libero

arbitrio. “Se ci viene concesso di fare esperienza della libertà, questa esperienza

è valida o illusoria?” (Searle,2005). Supponiamo che le nostre azioni abbiano

degli antecedenti causali e domandiamoci, come può uno stato di coscienza

umano causare un movimento corporeo? Un esempio da prendere in

considerazione è quello di Roger Sperry. Prendiamo il caso di una ruota che

scende dalla collina. La ruota è costituita da molecole e la solidità condiziona il

comportamento delle molecole. La ruota però e solo un insieme di molecole. La

solidità è solo una condizione in cui le molecole si trovano. La solidità però è

69
proprio una caratteristica reale ed ha effetti causali reali. Questo esempio può

essere applicato alla relazione tra cervello e coscienza:

“Allo stesso modo in cui il comportamento delle molecole è causalmente costituito della solidità, il

comportamento dei neuroni è causalmente costitutivo della coscienza” (Searle,2005).

La coscienza però non può essere ontologicamente riconducibile a

microstrutture fisiche, al contrario della solidità. Questo perché essa possiede

un’ontologia soggettiva che non può essere ridotta a un’ontologia oggettiva.

Searle afferma che le spiegazioni che fanno appello ai processi razionali di

assunzione di decisioni non sono esse stesse deterministiche da un punto di vista

formale, come invece possono esserlo le spiegazioni dei fenomeni naturali.

Searle per esprimere questo concetto fa un esempio prendendo in considerazioni

tre proposizioni:

1. Ho preso una scheda Bush perché volevo votare per lui

2. Mi è venuto mal di testa perché volevo votare Bush

3. Il bicchiere è caduto e si è rotto perché l’ho fatto accidentalmente cadere

dal tavolo

Le proposizioni 1 e 2 sembrano simili nella loro struttura sintattica, non si può

dire lo stesso della terza. Searle però sostiene che le proposizioni 2 e 3 sono di

fatto identiche dal punto di vista logico e sono distinte dalla 1. La forma logica

della proposizione 3 è “A ha causato B”. Noi non riteniamo che le affermazioni

di tipo 1 implichino che l’evento descritto che precede il perché doveva prodursi

70
considerando l’evento descritto dopo il perché e il contesto d’insieme. Per

quanto concerne la loro struttura logica, le spiegazioni delle azioni volontarie

relative a delle ragioni sono diverse dalle spiegazioni causali ordinarie. La

forma della spiegazione che verte su un comportamento umano presenta una

struttura logica diversa. Entra in gioco un altro elemento: “la ragione sulla base

della quale l’agente ha agito” (Searle,2005).

Searle postula due ipotesi:

1) Le spiegazioni che si riferiscono a ragioni non riguardano, in generale,

condizioni causalmente sufficienti

2) Tali spiegazioni possono correttamente spiegare le azioni

Come posso sapere se l’ipotesi 2 è vera? Io so spesso esattamente quali ragioni

avevo per intraprendere un’azione. Dobbiamo tenere conto che possa esistere

tutta una serie di problemi relativi all’inconscio e all’auto­inganno. Ma se

consideriamo il caso ideale secondo il quale agisco consciamente sulla base di

una ragione allora l’ipotesi 2 è perfettamente adeguata.

Searle però avanza una terza ipotesi:

3) Le spiegazioni causali adeguate designano le condizioni che, in relazione

al contesto, sono causalmente sufficienti.

Ma abbiamo già detto che la loro forma logica non è “A ha causato B” quindi

Searle si pone un problema: come possiamo dire che queste spiegazioni sono

71
adeguate se contengono un elemento causale e, ciononostante, non sono

spiegazioni causali correnti?

“[…] la spiegazione non fornisce la causa sufficiente di un evento, ma specifica la maniera in cui un sé

razionale cosciente ha agito sulla base di una ragione […] quando enunciamo la forma logica di tale

spiegazione, essa esige che noi postuliamo un sé irriducibile e non humiano”(Searle, 2005).

Il problema del libero arbitrio si delinea in ragione di una caratteristica speciale,

propria di un certo tipo di stati della coscienza umana. Inoltre, per spiegare il

nostro comportamento (apparentemente) libero dobbiamo postulare una nozione

non riconducibile del sé.

Se il libero arbitrio è una caratteristica reale e non semplicemente un’illusione,

allora esso deve necessariamente avere una realtà neurobiologica, quindi alcune

caratteristiche del cervello devono essere all’origine del libero arbitrio. La

domanda che Searle si pone è che se si suppone che ci sia uno scarto al livello

superiore nel caso dell’assunzione di una decisione razionale, com’è possibile

rappresentarsi questo scarto a livello neurobiologico? Facciamo un esempio:

Prendiamo l’esempio del giudizio di Paride. Tre dee, Era, Afrodite e Atena

ordinarono a Paride di decidere a chi dare la mela d’oro che gli dèi designavano

alla più bella. Paride non decise giudicando la bellezza di ciascuna dea, ma in

base alle ricompense che ciascuna dea prometteva. Supponiamo, dice Searle,

che Paride operi nello spazio che costituisce lo scarto, ha coscienza di un

ventaglio di scelte che gli si offrono. Dopo aver riflettuto, egli prende una

72
decisione razionale. Supponiamo che ci sia stato un momento che chiameremo

t1, in cui è cominciato il periodo di riflessione e poi finito nel momento t2

quando Paride porge la mela ad Afrodite.

“Se lo stato totale del cervello di Paride in t1 è causalmente sufficiente per determinare lo stato

totale del suo cervello in t2 , su questo punto e in altre situazioni dello stesso genere, allora egli non

possiede il libero arbitrio. Al contrario se non è causalmente sufficiente egli possiede il libero

arbitrio” (Searle,2005).

Abbiamo due ipotesi:

1) Lo stato del cervello è causalmente sufficiente

2) Esso non lo è

Secondo la prima ipotesi abbiamo a che fare con una sorta di determinismo

neurobiologico corrispondente a un libertarismo psicologico. Paride fa

l’esperienza del libero arbitrio, ma non c’è vero e proprio libero arbitrio al

livello neurobiologico. “Credo” dice Searle “che la maggior parte dei neurobiologi riterrebbe

che il cervello funzioni probabilmente in questo modo” (Searle, 2005). L'evoluzione quindi ci

ha giocato un bello scherzo, ci ha dato l’illusione della libertà e null’altro che

questa illusione. Prendiamo ora in considerazione l’ipotesi 2.

La terminologia, secondo la quale la coscienza è una caratteristica superiore del

cervello come sistema, è ingannevole. La coscienza è presente in tutte le parti

del cervello in cui l’attività neuronale la crea e la realizza. È importante

sottolineare questo concetto che va contro la nostra eredità cartesiana che

73
considera che la coscienza non può avere localizzazione spaziale. Searle avanza

tre punti nella formulazione preliminare dell’ipotesi 2:

1. Lo stato del cervello in t1 non è causalmente sufficiente a determinare lo

stato del cervello in t2


2.
Il movimento dello stato in t1 allo stato in t2 può essere spiegato solo con

le caratteristiche del sistema, in particolare con l’operato del sè cosciente

3. Tutte le caratteristiche del sé cosciente, in qualunque momento, sono

interamente determinate dallo stato, in questo istante, dei microelementi,

dei neuroni ecc.

Lo stato dei neuroni determina lo stato di coscienza. Ogni determinato stato dei

neuroni/della coscienza non è causalmente sufficiente per provocare lo stato

successivo. In ogni istante, lo stato totale della coscienza è fissato dal

comportamento dei neuroni, ma, da un istante all’altro, lo stato totale del

sistema non è causalmente sufficiente a determinare lo stato successivo. “Se

davvero esiste, il libero arbitrio è un fenomeno del tempo” (Searle,2005).

L'ipotesi 1 (v. sopra) vuole condurre all’epifenomenismo. Il giudizio di Paride,

il mio comportamento e quello di un'intelligenza artificiale sono in tutto e per

tutto determinati causalmente dell’attività che ha luogo al livello dei

microelementi. L'obiezione che si potrebbe muovere è che la supposizione

inerente all’ipotesi 1 non è più epifenomenica di ogni altra descrizione

concernente il rapporto fra la coscienza e il funzionamento fisiologico del corpo

74
umano. La domanda che si pone Searle è perché l’ipotesi 1 dovrebbe implicare,

più che l’ipotesi 2, un epifenomenismo: “la risposta consiste in poche parole: il fatto che

una caratteristica sia epifenomenica dipenderebbe dal fatto che la caratteristica stessa funzioni

causalmente” (Searle,2005). Per esempio, quando ho fatto cadere il bicchiere, il fatto

che portassi una camicia blu è una caratteristica di questo evento, per quanto la

camicia blu non fosse un aspetto causalmente pertinente dell’evento. Quando

diciamo di qualche caratteristica di un evento che essa è epifenomenica,

affermiamo che si tratta di una caratteristica che non ha svolto un ruolo causale.

Il giudizio di Paride era già determinato dallo stato antecedente dei suoi

neuroni, indipendentemente da tutte le sue elucubrazioni. La nostra decisione

era già prefissata dallo stato dei nostri neuroni, perfino quando ritenevamo di

essere impegnati in un processo cosciente, destinato a permetterci di prendere

una decisione, scegliendo un’opzione tra quelle che ci si offrivano. Searle però

si chiede che cosa si rimprovera all’epifenomenismo, e afferma che esso va

contro tutto ciò che sappiamo a proposito dell’evoluzione. Nell’uomo e negli

animali superiori, l’assunzione razionale di decisione si accompagna a un

prezzo molto elevato da pagare. Supporre che tutto ciò non svolga il minimo

ruolo nella fitness globale è equivalente a supporre che la digestione o la vista

non abbiano svolto alcun ruolo nell’evoluzione. Il cervello è un organo come gli

altri e, proprio per questo, è completamente determinista nelle sue funzioni,

come il cuore o il fegato. La descrizione del funzionamento del cervello

conforme all’ipotesi 2 dovrà soddisfare tre condizioni:

75
1. La coscienza, in quanto causata da processi neuronali e nella misura in

cui si attua in un sistema neuronale, funziona in maniera causale rispetto

al corpo

2. Il cervello causa e sostiene l’esistenza di un sé cosciente capace di

prendere decisioni razionali e di tradurle in azioni. Non si tratta del fatto

che la coscienza debba avere degli effetti fisici sul corpo. “Il sé non è

concepito come una qualche entità che viene ad aggiungersi, bensì in maniera del tutto

schematica, come la risultante fra l’associazione del carattere dell’agente cosciente e la

nozione di razionalità cosciente” (Searle, 2005). Gli elementi che un organismo

richiede per avere un sé sembrano essere i seguenti: un campo unificato

di coscienza, la capacità di deliberare in base alle ragioni, la capacità di

iniziare e di portare a compimento un’azione. Secondo la prospettiva che

Searle difende la razionalità non è una facoltà distinta. La sostanziale

differenza tra l’ipotesi 1 e l’ipotesi 2 è data dal fatto che nel caso

dell’ipotesi 1 l'agire razionale libero non è altro che un'illusione.

3. Il cervello è tale che nello scarto (gap) esso è in grado di prendere

decisioni e di agire sulla base di esse, in modo tale che né la decisione né

l’azione sono predeterminate da condizioni causali sufficienti, sebbene ci

sia possibile spiegarle razionalmente facendo riferimento alle ragioni

sulle quali l’agente ha basato la sua azione.

In che senso, dice Searle, lo scarto può avere una realtà neurobiologica? Come

possiamo integrare l’idea di un indeterminismo razionale con tale descrizione

76
del funzionamento del cervello? Noi pensiamo di sapere due cose: le nostre

esperienze dell’azione libera rimandano alle idee di indeterminismo e di

razionalità, e nella forma che prendono queste due nozioni, la coscienza

interviene in maniera essenziale, l’indeterminismo quantistico è la sola forma di

indeterminismo indiscutibilmente definita un fattore naturale. La teoria del caos

come la intende Searle implica la non­prevedibilità e non l’indeterminismo.

Fino a poco tempo fa Searle non aveva nessun interesse a introdurre la

meccanica quantistica nelle discussioni che riguardano la coscienza. Ma

l’esempio che ci propone ammette una riconsiderazione.

Premessa 1) l’indeterminismo che accade in natura è sempre un indeterminismo

quantistico

Premessa 2) la coscienza è una caratteristica della natura che manifesta una

forma di indeterminismo

Conclusione: la coscienza esprime un indeterminismo quantistico.

Le consuete prospettive di ricerca, che si riferiscono al modello di costruzione a

blocchi o al modello del campo unificato, non si basano sulla meccanica

quantistica per spiegare la coscienza. Se l’ipotesi 2 è vera, allora queste

prospettive non possono non portare a risultati, perlomeno per quanto riguarda

la coscienza volitiva. Se l’indeterminazione quantistica equivale al caso, tale

indeterminazione in se stessa non potrà permettere di spiegare il problema del

libero arbitrio. In effetti, un’azione libera non è un’azione intrapresa per caso.

77
Searle afferma che dovremmo affrontare la questione “qual è la relazione tra

l’indeterminismo quantistico e la razionalità?” allo stesso modo in cui abbiamo

affrontato la questione relativa alla relazione tra i microprocessi cerebrali e la

coscienza. È errato, inoltre, supporre che la proprietà degli elementi individuali

debbano essere proprietà in senso generale. Per esempio, le proprietà

elettrochimiche degli atomi non sono proprietà dell’insieme, così come il fatto

che il potenziale di un’azione particolare si posizioni a 50 Hz non implica

affatto che l’intero cervello oscilli attorno ai 50 Hz. L'indeterminismo, quindi,

può spiegare l’indeterminismo del sistema, ma la casualità che si manifesta a

tale livello non implica che vi sia una casualità generale al livello del sistema.

Nel classificare i problemi ci siamo trovati dinanzi a due possibilità: l’ipotesi 1

e l’ipotesi 2. Nessuna delle due è veramente attraente. Se dovessimo

scommettere, è probabile che la sorte privilegerebbe l’ipotesi 1 perché è la più

semplice e risulta conforme alle nostre conoscenze generali nell’ambito

biologico. Il problema è che tale ipotesi perviene a un risultato alquanto

incredibile, mentre l’ipotesi 2 ci mette in imbarazzo perché aggiunge altri

misteri al concetto di libero arbitrio. “Sono sicuro che la discussione sia ben lungi

dall’essere conclusa” (Searle,2005).

1.5 DENNETT E CARUSO “A OGNUNO QUEL CHE SI

MERITA”

78
Il dialogo tra Dennett e Caruso sul libero arbitrio, responsabilità morale e pena è

intenso e coinvolgente. Due menti con due posizioni opposte si confrontano sul

tema del libero arbitrio approfondendo le proprie argomentazioni. Dennett

sostiene il compatibilismo in tema di libero arbitrio e determinismo, e afferma

che noi siamo dotati di libero arbitrio. Caruso argomenta che noi siamo privi di

libero arbitrio, se il nostro mondo è deterministico, ma anche se è

indeterministico, visto quanto dicono alcune interpretazioni della fisica

quantistica. Caruso e Dennett si situano pertanto sugli opposti versanti di una

tradizionale divisione: Dennett è compatibilista è sostiene il libero arbitrio,

Caruso è incompatibilista e scettico sul libero arbitrio. Vi è inoltre un problema

concettuale concernente la definizione di libero arbitrio che divide Dennett e

Caruso. Dennett è noto per la sua proposta di usare l’espressione “libero

arbitrio” per riferirsi a un tipo di libero arbitrio “che valga la pena desiderare”

(Dennett,2022). Tale tipo di libero arbitrio è una facoltà di risposta razionale a

stimoli provenienti dal nostro ambiente naturale e sociale che si è sviluppata

nella nostra specie nella sua storia evolutiva e che matura negli individui con il

raggiungimento dell’età adulta. Caruso, al contrario, come fanno anche altre

voci del dibattito attuale, definisce il libero arbitrio come il controllo sull’azione

necessario per ascrivere un merito nella sua forma di base. Secondo la forma del

merito di base, chi abbia agito scorrettamente merita di essere rimproverato e

forse punito solo in quanto ha agito per motivi moralmente cattivi, e chi abbia

agito correttamente merita riconoscimento o elogio solo in quanto ha agito per

79
motivo moralmente buoni. Dennett e Caruso divergono sulla prevalenza della

nozione di merito di base. Caruso, a differenza di Dennett, ritiene che essa sia

diffusa e lo sostiene facendo riferimento a un esperimento mentale derivante da

Immanuel Kant, nel quale la punizione di un trasgressore è priva di buone

conseguenze (1797). Ecco una versione di questo esempio. Immaginiamo che

un individuo su un’isola deserta uccida brutalmente tutti gli altri abitanti

dell’isola e che non sia capace di pentirsi, a causa dell’odio e della rabbia che

cova. Inoltre, tale individuo non è in grado di fuggire dall’isola, che peraltro

nessuno mai visiterà poiché è troppo remota. Non c’è più su quell’isola una

società le cui norme possano essere poste da un contratto sociale finalizzato a

buone conseguenze, poiché la società è stata distrutta. Se abbiamo l’idea che

l’assassino meriti di essere punito allora la pena sarebbe meritata a livello di

base, dato che l’esempio sembra eliminare di fatto le possibilità di un merito

non di base. Ma, dal punto di vista di Dennett, vogliamo davvero definire

“libero arbitrio” in modo che chiunque respinga l’idea di merito di base finisca

anche per negare il libero arbitrio, o che chiunque neghi che abbiamo il

controllo sulle azioni necessario per l’attribuzione del merito di base finisca per

negare il libero arbitrio? Forse gran parte del ruolo che il concetto di libero

arbitrio svolge nel nostro modo di pensare e nelle nostre pratiche

sopravvivrebbe al rifiuto dell’idea di merito di base e del controllo sull’azione

da essa richiesto. Dennett sostiene che gran parte del ruolo che svolge il

concetto di libero arbitrio certamente sopravviverebbe al rifiuto del merito di

80
base poiché abbiamo una nozione di merito non di base che può svolgere il

compito che ci interessa. Giustificazioni a livello pratico per il biasimo e la

punizione fanno ricorso al merito, laddove tale merito non è di base poiché a un

livello più alto la pratica è giustificata dalla previsione di effetti positivi, come

la deterrenza e l’educazione morale dei trasgressori. Secondo la concezione di

Dennett, la nostra pratica di considerare gli agenti moralmente responsabili in

questo senso di merito non di base deve essere mantenuta perché sortirebbe

migliori effetti a livello generale rispetto ad altre pratiche. Citando una

similitudine che Dennett presenta nel dialogo15, si può replicare che sembra

legittimo affermare che chi commetta un fallo in uno sport meriti una sanzione

per quel fallo. Ma tale merito non è di base, ed è fondato sulla valutazione di

come quel particolare sport possa funzionare meglio. Né Dennett né Caruso

ritengono che il ruolo del concetto di ”merito di base” svolto nella

giustificazione delle pratiche attuali sia degno di essere mantenuto. Tuttavia,

Dennett sostiene che il concetto di ”merito” e il suo ruolo devono essere

mantenuti, mentre Caruso lo nega. I due divergono altresì sulle

raccomandazioni per il trattamento dei criminali, anche se entrambi ritengono

che la pratica americana corrente richieda una seria riforma. Non è chiaro però

se essi dissentono su tale questione perché Dennett propone giustificazioni in

termini di merito, mentre Caruso le respinge, o per qualche altro motivo. La

15 Dennett C. Daniel, Caruso D. Gregg ”A ognuno quel che si merita” (2022)

81
corte suprema degli Stati Uniti ha sentenziato ”una pietra miliare universale e

costante del nostro sistema giuridico, e particolarmente nel nostro approccio alla

sanzione, al giudizio, alla carcerazione, è la credenza nella libertà della volontà

umana e nella capacità e nel dovere conseguenti delle persone normali di

scegliere tra il bene e il male” (United States v. Grayson, 1978). Ma se il libero

arbitrio non esistesse, la società potrebbe funzionare adeguatamente senza la

credenza nel libero arbitrio? Per iniziare è importante presentare alcuni termini

chiave e posizioni. In primo luogo, possiamo affermare che i filosofi

contemporanei tendono a concepire il libero arbitrio come il controllo

sull’azione necessario per un particolare tipo di responsabilità morale. Più

specificatamente, è la facoltà o capacità caratteristica degli agenti in virtù della

quale essi possono meritare giustamente di essere rimproverati o lodati, puniti o

ricompensati per le loro azioni. Consideriamo per esempio, le varie

giustificazioni che si possono offrire per punire i trasgressori. Una

giustificazione, quella che domina il nostro sistema giuridico, è dire che essi lo

meritano. Questa giustificazione retributiva sostiene che la punizione di un

trasgressore è giustificata dal fatto che egli merita che gli accada qualcosa di

spiacevole solo perché ha trasgredito consapevolmente. Ciò significa che la

posizione retributivista non è riconducibile a considerazioni consequenziali che

cerchino di massimizzare gli effetti positivi futuri e non si appella a più ampi

beni quali la protezione della società o la rieducazione morale di chi viene

punito per giustificare la sanzione. Dennett (e anche Caruso) rifiuta il

82
retributivismo. “E’ un pasticcio inutile, come lo è ogni teoria del libero arbitrio

che aspiri a sostenere il retributivismo. Ma ciò non significa che una

giustificazione di tipo retrospettivo della sanzione sia impossibile”

(Dennett,2022). Il fatto è dice Dennett che le persone autonome capiscono che

saranno chiamate a rendere conto e hanno tacitamente accettato ciò come una

condizione per il mantenimento della propria libertà in senso politico. La

differenza tra il folle che è fisicamente fermato e portato in isolamento in nome

della pubblica sicurezza e il reo che viene allo stesso modo fermato e punito è

ampia ed è una caratteristica centrale di ogni sistema di governo accettabile. Il

reo ha il tipo di merito che prevede una pena. Nonostante Dennett disapprova il

retributivismo, difende una concezione retrospettiva del biasimo e della

punizione fondata sull’idea che i trasgressori siano meritevoli di conseguenze

negative. Caruso prende poi in considerazione quella che chiama “lotteria della

vita” o “sorteggio”, su cui nulla possiamo. Se siamo nati nella povertà o nella

ricchezza, in guerra o in pace ecc.… è semplicemente una questione di fortuna

così come lo sono i talenti naturali, le doti, le predisposizioni e le caratteristiche

fisiche con cui nasciamo. Inoltre, c’è anche la fortuna di quali eventi ci capitano

nel periodo della nostra formazione e quali influenze ambientali sono più

decisive per noi. Combinati tra loro, tali elementi di fortuna determinano quella

che Thomas Nagel ”ha chiamato fortuna costitutiva“ cioè la fortuna di chi si è e

di quali tratti caratteriali e attitudini si hanno. Dennett afferma che la fortuna si

livella nel lungo periodo, Caruso al contrario dimostra la falsità di questo

83
argomento. I dati, infatti, mostrano che le diseguaglianze iniziali nella vita

spesso si aggravano con il tempo più che azzerarsi, incidendo su tutto, dalle

differenze di salute e di probabilità di incarcerazione al successo a scuola e a

tutti gli altri aspetti della vita. Le ricerche mostrano che un basso livello

socioeconomico nell’infanzia può avere conseguenze su tutto, dallo sviluppo

cerebrale all’aspettativa di vita, sull’istruzione, il tasso di detenzione, il reddito.

Lo stesso vale per la disparità nell’istruzione, nell’esposizione alla violenza,

nella nutrizione. Pertanto, dice Caruso. è un errore pensare che la fortuna si

livelli a lungo termine. Oltre alla fortuna costitutiva c’è anche la fortuna

presente cioè la fortuna che si ha nel momento di un’azione o decisione

supposta moralmente libera. La fortuna presente può includere l’umore

dell’agente, le ragioni che gli vengono in mente, le caratteristiche contingenti

dell’ambiente, quanto l’agente sia consapevole delle caratteristiche moralmente

rilevanti del contesto e così via. Caruso, come Neil Levy, afferma che la

doppietta di fortuna costitutiva e fortuna presente mina completamente la

responsabilità morale da merito di base. Con Levy possiamo chiamare questa

posizione ”fortuna radicale”, poiché afferma che la pervasività della fortuna

mina, o è incompatibile con, il tipo di libero arbitrio e responsabilità morale che

stiamo trattando. Il senso di “meritare” che Dennett difende è quello del senso

comune per il quale quando vinci in modo incontestabile una gara meriti il

fiocco blu o la medaglia d’oro. “La ragione è che il rispetto e l’osservanza

della legge sono una scelta chiave prospettiva, rivolta ai vantaggi futuri. Sono il

84
mantenimento della credibilità della legge e il sostegno per i suoi

provvedimenti che governano tutti gli adeguamenti e limitano le eccezioni, per

una semplice ragione: le persone non sono angeli, e saranno intelligenti ed

egoiste a sufficienza per cercare scappatoie e modi per ingannare il sistema”

(Dennett,2022). Si è meritevoli della lode che si riceve per le proprie buone

azioni e dello stipendio che si ottiene per aver fatto il proprio lavoro; e la critica

o il biasimo o la condanno che si riceve e se si offendono i buoni costumi o se si

violano le leggi è giustamente lì ad aspettarci. Questa non è, dice Dennett,

punizione retributiva ma fa male, e così deve essere. Caruso, al contrario,

sostiene che adottare la difesa non­retributiva della sanzione richiederebbe di

abbandonare “elementi importanti del sistema della giustizia penale” (Caruso,2022). Dennett

non è d’accordo, egli stesso ha continuato a ribadire che c’è bisogno di una

revisione generale delle nostre politiche di giustizia penale, riducendo

drasticamente i processi penali, eliminando la pena capitale, e istituendo

numerosi programmi per aiutare i detenuti a prepararsi a riconquistare

pienamente i loro diritti di cittadini, ma questo secondo Dennett sarebbe ancora

un sistema sanzionatorio, anziché una mera riabilitazione forzata o un mero

isolamento. Se per esempio, venisse creata una pillola magica che trasformasse

un criminale in un onesto cittadino, essa non cancellerebbe la necessità di

punire. Caruso è in disaccordo dall’idea di Dennett sul merito di lode e biasimo

delle persone. Considera infatti il caso di Alber Einstein. Anche egli era uno

scettico sul libero arbitrio e addirittura credeva che le proprie scoperte

85
scientifiche non fossero opera sua. Nel 1929 in un’intervista rilasciata al The

Staurday Evening Post disse “non credo nel libero arbitrio […]. Concordo con Schopenhauer:

possiamo fare ciò che vogliamo, ma possiamo volere solo ciò che dobbiamo”. E aggiunge “la mia

stessa carriera è stata indubbiamente determinata non dalla mia volontà ma da vari fattori sui quali

io non ho alcun controllo, non chiedo riconoscimenti. ogni cosa è determinata, l’inizio così come la

fine, da forze sulle quali non abbiamo alcun controllo” (Albert Einstein,1929). Di certo possiamo

attribuire vari risultati a Einstein. Possiamo che dire che Einstein fosse

estremamente intelligente, dotato e creativo. Quel che non possiamo dire, se

sosteniamo lo scetticismo sul libero arbitrio, è che Einstein meritasse la lode

(nel senso di merito di base) per le sue qualità e i risultati raggiunti. Coloro che

rifiutano la responsabilità morale rifiutano il sistema di base che muove

dall’assunzione che tutte le persone minimamente capaci siano moralmente

responsabili. Secondo Caruso staremmo meglio senza un sistema basato sul

merito. Inoltre, rimprovero e punizione, specialmente la sanzione giuridica,

possono fare molto male. Dennett critica aspramente il pensiero di Caruso sul

fatto che senza un sistema di merito staremmo meglio. Perché senza il concetto

di merito di Dennett nessuno meriterebbe il premio per cui ha in buona fede

gareggiato e vinto, nessuno meriterebbe di essere biasimato per aver infranto

una promessa solenne senza giustificato motivo. Non ci sarebbero diritti, né

ricorso alle autorità per difendersi da frodi, furti, stupri, omicidi. In breve, non

ci sarebbe moralità. Waller, in The Injustice of Punishment16 ammette che non

16 Bruce N. Waller, The injustice of punishment, 2017

86
si può avere una tale società senza pena, come annunciato dal titolo del secondo

capitolo del libro “L’ingiusta necessità della pena”. Se la pena è necessaria non

si tratta di una necessità logica né fisica, è una necessità per uno stato

funzionante nel quale sia raggiunto il massimo livello possibile di giustizia. In

quale senso tale necessità sarebbe ingiusta? Dennett crede nello stesso senso per

il quale è scorretto che non tutti possano essere sopra la media quanto a

bellezza, forza, intelligenza o altro. La vita è difficile ma non ipso facto

ingiusta, e possiamo usare la nostra ragione per rendere la vita e le istituzioni

sempre più giuste, sempre più corrette, per renderle un mondo migliore per tutti.

Caruso intende chiarire il suo punto di vista sul merito di base, considerando la

punitività. Alcuni ricercatori hanno scoperto che una più forte credenza nel

libero arbitrio è correlata a una maggiore punitività. Hanno anche scoperto che

l’affievolimento della credenza delle persone nel libero arbitrio le rende meno

retributive nel loro modo di considerare la pena. Inoltre, Caruso sostiene in

”Rejecting Retributivism“, i determinanti sociali del comportamento criminale

sono ampiamente simili ai determinanti sociali della salute. Si concentra in

particolar modo su come le diseguaglianze sociali e le ingiustizie sistemiche

influenzino il livello di salute e il comportamento criminale, su come la povertà

influenzi lo sviluppo del cervello, su come i delinquenti abbiano spesso

patologie mediche preesistenti (in particolare, problemi di salute mentale), su

87
come il non avere una casa e il grado di istruzione influenzino il livello di

sicurezza, su come la salute dell’ambiente sia importante per la salute pubblica

e per la sicurezza, su come un coinvolgimento nel sistema di giustizia penale

stesso possa determinare o aggravare problemi di salute e problemi cognitivi, su

come un approccio di salute pubblica possa essere applicato con buoni risultati

all’interno del sistema di giustizia penale. Il timore di Caruso è che il sistema

del merito che Dennett vuole preservare porti a concentrare l’attenzione in

modo miope sulla responsabilità individuale e in definitiva ci impedisce di

affrontare cause sistemiche del comportamento criminale. Caruso prende in

esempio la folle reazione suscitata da questa affermazione dell’allora presidente

degli stati uniti Barack Obama “se hai un’impresa di successo, non l’hai

costruita da solo”. I repubblicani si sono così infuriati per tale affermazione che

hanno consacrato il secondo giorno della Republican National Convention del

2012 al tema We Built it! La tesi di Obama tuttavia, era semplice, innocua e

fattualmente corretta. “Se avete avuto successo, non ci siete arrivati da soli”

cosa c’è di minaccioso in questo? La risposta risiede nell’idea di giusto merito.

Il sistema del merito mantiene in vita la credenza che se qualcuno finisce in

povertà o in prigione, ciò è giusto perché se lo merita. I compatibilisti

sostengono che ciò che è più importante di tutto non è l’assenza di

determinazione causale, ma il fatto che le nostre azioni siano volontarie, libere

da costrizione e coazione nonché appropriatamente causate. Inoltre, se ci si

attiene a queste letture, dice Dennett, di “avrebbe potuto agire diversamente”,

88
allora non soltanto il libero arbitrio è un'illusione ma lo è anche la vita; niente è

realmente vivo. Dennett la considera una reductio ad absurdum. Caruso, d’altro

canto, offre alcune ragioni per ritenere che il determinismo sia una minaccia al

libero arbitrio e alla responsabilità morale. Peter van Inwagen professore di

filosofia alla University of Notre Dame dice:

“se il determinismo è vero, allora c’è qualche stato del mondo nel lontano

passato P che è connesso dalle leggi della natura a un’azione A che viene

compiuta nel presente. Ma poiché nessuno è responsabile dello stato del mondo

P nel lontano passato e nessuno è responsabile delle leggi della natura che

portano da P ad A, segue che nessuno è responsabile di un’azione A che viene

compiuta nel presente” ( van Inwagen, 1983).

Il problema, afferma Caruso, è che se il determinismo è vero, allora ci sono

condizioni per le quali nessuno è, o è mai stato, anche solo parzialmente

responsabile e queste condizioni determinano la sequenza effettuale che porta

all’azione dell’agente. Le cosiddette intuizioni popolari sul libero arbitrio

mostrano che la gente comune pensa che le proprie scelte non siano

determinate. In uno studio classico, ai partecipanti sono state presentate

descrizioni di un universo deterministico (A) e di un altro universo (B) in cui

tutto è determinato tranne le scelte umane. Ai partecipanti è stato chiesto “quale

di questi universi è più simile al nostro?”. Oltre il 90% degli intervistati ha

risposto che l’universo (B) ­ l’universo indeterministico­ è il più simile al

89
nostro. Ci sono prove convergenti che il pensiero ordinario sia almeno in parte

indeterministico. Questo fa pensare che l’idea comune di libero arbitrio sia

incompatibile con il determinismo. Ma Dennett afferma che la tendenza

popolare diffusa a credere nel libero arbitrio indeterminista è dovuta a

un’incomprensione. Il determinismo non impedisce di fare scelte, voltare

pagina, di tornare sulle proprie decisioni, di imparare dai propri errori, di

decidere di fare meglio e avere successo o di accettare consigli su che cosa

pensare del libero arbitrio. La ragione per cui Dennett crede che la sua

concezione del libero arbitrio corrisponda all’unico tipo di libero arbitrio che

valga la pena desiderare è che ha chiesto per decenni a persone molto brillanti di

dirgli perché qualcuno dovrebbe interessarsi a un concetto di libero arbitrio

diverso dal suo e nessuno gli ha dato una buona risposta.

“La mia concezione è revisionista e cerca di difendere una nozione di libero arbitrio che è diversa da
quella in cui crede la gente comune. Uno dei punti deboli di gran parte della filosofia contemporanea
è la sua regressiva dipendenza dalle intuizioni comuni, come se fossero pietre di paragone della
verità”. (Dennett, 2022)

90
CAPITOLO 2

L’esperimento di Libet

Tra i contributi offerti dalle neuroscienze alla discussione sul libero arbitrio, i

più noti sono certamente quelli, pioneristici, di Benjamin Libet. Con gli

esperimenti sui quali si basavano le sue pubblicazioni, Libet ha infatti

incanalato la discussione in una direzione che è ancora quella adottata oggi da

molti teorici del libero arbitrio. Nella versione più classica di questi esperimenti,

Libet chiedeva ai soggetti di rilassarsi e poi di compiere un semplice

movimento, come la flessione di un dito, quando desideravano: quindi i soggetti

dovevano eseguire il movimento spontaneamente, ovvero esercitando il loro

libero arbitrio (assumendo che tal cosa esista). Ai soggetti veniva anche

richiesto di guardare, contemporaneamente, un grande orologio e di indicare il

momento esatto in cui avvertivano l’impulso a flettere il dito; nel frattempo con

l’elettroencefalogramma si misurava l’attività elettrica del loro cervello. Sulla

91
base di molte ripetizioni di questo esperimento, Libet osservò che i soggetti

sperimentali avvertivano l’impulso a flettere il dito circa 200 millisecondi prima

del compimento effettivo dell’azione. Il dato più interessante che Libet notò,

tuttavia, fu che 550 millisecondi prima del compimento di quell’azione e

dunque 350 millisecondi prima che divenissero consapevoli dell’impulso a

flettere il dito nel cervello dei soggetti si verificava un rilevante incremento

dell’attività elettrica, detto readiness potential (potenziale di prontezza). Libet

ha basato il suo lavoro sulla scoperta di Kornhuber e Deecke (1965) del RP, un

lento accumulo di potenziale elettrico misurato con l’elettroencefalogramma,

secondo i suoi scopritori, la RP è il segno elettrofisiologico della pianificazione,

della preparazione e dell’avvio di atti volitivi. Il neurobiologo John Eccles

ipotizzò che il soggetto dovesse diventare consapevole dell’intenzione di agire

prima dell’insorgenza di questo RP. Libet ebbe l’idea di testare la previsione di

Eccles. L'attenzione negli esperimenti di Libet è focalizzata su questo specifico

potenziale cerebrale negativo, il RP, originato dall’area motoria supplementare

(SMA) area celebrale coinvolta nella preparazione motoria, visibile nel segnale

EEG come un’onda che inizia prima di qualsiasi movimento volontario, mentre

è assente o ridotta prima di movimenti involontari e automatici. Libet interpretò

l’incremento dell’attività elettrice del cervello come una prova che il

piegamento del dito non andava in realtà imputato causalmente alla volontà

cosciente dei soggetti sperimentali, ma ad eventi neurali precedenti, che

ovviamente sono al di fuori del possibile controllo dei soggetti, ma che in linea

92
di principio sono prevedibili da parte degli sperimentatori. Da ciò Libet inferì

che l’azione di flettere il dito, compiuta dal soggetto sperimentale, non poteva

essere definita libera, almeno nel senso dato a tale termine dalla tradizione

filosofica. Egli sostenne però che i suoi esperimenti mostravano che gli esseri

umani godono comunque di un tipo peculiare (e filosoficamente inedito) di

libertà, ovvero “la libertà di veto”. Nel senso che, nei 200 millisecondi che

separano la consapevolezza dell’impulso a flettere il dito dall’effettivo

movimento, il soggetto ha la possibilità di decidere di interrompere la catena

causale che altrimenti condurrebbe all’esecuzione dell’azione. Molti interpreti

però, sono stati più radicali di Libet e, rifiutando la teoria della libertà di veto,

hanno sostenuto che i suoi esperimenti mostrano, o quantomeno suggeriscono

l’infondatezza dell’idea tradizionale del libero arbitrio nel suo complesso. Il

punto è che se anche Libet avesse ragione nel sostenere che le nostre decisioni

sono causalmente inefficaci e che ciò che conta dal punto di vista causale, sono

soltanto eventi neurofisiologici a cui tutt’al più possiamo porre il veto, ma non

determinare, allora avremmo un’eccellente prova di quanto sia erronea la

concezione di matrice cartesiana secondo cui la mente è trasparente a se stessa e

la causazione delle azioni è sempre consapevole. Non v’è dunque dubbio che

l’esperimento di Libet possa essere rilevante rispetto alla discussione sulla

coscienza. Non è pero ovvio che sia altrettanto rilevante per la discussione sulla

libertà. Egli, infatti, sembra presupporre una tesi fenomenologicamente dubbia,

quando attribuisce al senso comune l’idea che le azioni volontarie siano causate

93
dagli stati coscienti che abbiamo nel momento in cui pensiamo di causarle. In

realtà, una cosa sembra essere la causazione volontaria delle azioni, una cosa

diversa la nostra consapevolezza di tale causazione e non è affatto detto che le

due cose coincidano. Accade assai spesso, infatti, che noi compiamo azioni che

diremmo libere, ma che rimangono in qualche misura opache alla coscienza.

Immaginiamo, ad esempio, che durante un dibattito pubblico un relatore decida

di bere un bicchiere d’acqua: mentre ascolta una domanda, dunque, egli riempie

il bicchiere e subito comincia a pensare al quesito e al modo in cui può

rispondervi. Questi pensieri lo occupano a livello cosciente; tuttavia, mentre

riflette su cosa rispondere, egli porta il bicchiere alle labbra e beve. Poi inizia a

parlare e dopo poco si chiede se ha bevuto o meno. Egli non ricorda se e quando

ha bevuto ma sa che se l’ha fatto, l’ha fatto volontariamente. La coscienza del

relatore non è stata dunque trasparente rispetto al momento in cui ha compiuto

l’azione di bere. Non per questo, però, diremmo che l’azione da lui compiuta

non sia stata libera. Occorrono altri argomenti per dimostrare che gli

esperimenti di Libet sono rilevanti per la discussione sulla libertà. Il modo in cui

Libet interpreta i suoi esperimenti può essere, e di fatto è stato, contestato. La

sua interpretazione, come detto, è che gli agenti umani non avrebbero in

positivo alcun potere decisionale, in quanto le volizioni a compiere le azioni

sarebbero causalmente inerti; tuttavia, rimarrebbe loro la libertà negativa di

porre un veto sulle azioni che altrimenti discenderebbero causalmente dagli

eventi neurofisiologici. Ma cosa mai potrebbe differenziare tanto

94
sostanzialmente una volizione negativa da una positiva, al punto che la prima si

rivelerebbe l’ultimo bastione della libertà umana, mentre la seconda sarebbe

interamente determinata e dunque, secondo il punto di vista di Libet

irrimediabilmente non libera? In secondo luogo, va notato che in letteratura non

v’è accordo su quale sia la natura del potenziale di prontezza né sul ruolo che

esso svolge nei processi causali che portano al compimento delle azioni

intenzionali (Wegner, 2002). Infine, negli esperimenti escogitati da Libet, ai

soggetti viene comunicato sin dall’inizio quale azione dovranno compiere:

quindi è richiesto soltanto di determinare quando eseguire quell’azione. Ciò

permette di muovere una critica all’interpretazione offerta da Libet dei suoi

esperimenti ovvero quella secondo cui la flessione del dito è preceduta e

determinata causalmente da processi neurofisiologici inconsci e non da processi

consci. Il problema, infatti, è che in questo setting sperimentale non si dice nulla

sul momento iniziale in cui i soggetti aderiscono alla richiesta degli

sperimentatori, ovvero prendono la decisione di flettere il dito. Ma a proposito

di tale decisione due cose vanno notate: primo, essa è pienamente conscia e, per

quanto ne sappiamo, potrebbe non essere preceduta da un incremento del

potenziale di prontezza. Per quanto ne sappiamo l’accettazione conscia del

compito potrebbe essere causa sia dell’incremento del potenziale di prontezza

sia, in modo più mediato, della decisione finale di flettere il dito. La tesi che i

determinanti causali dell’azione di flettere il dito abbiano soltanto carattere

inconscio appare dunque mal fondata.

95
2.1 I DETERMINANTI INCONSCI DELLE DECISIONI LIBERE NEL

CERVELLO UMANO

Un esperimento di particolare interesse è stato pubblicato nel 2008 su “Nature

Neuroscience” da Soon, Brass, Heinze e Haynes, in un articolo dal titolo “I

determinanti inconsci delle decisioni libere nel cervello umano”. Gli autori

hanno studiato, sulla base di una sofisticata tecnica statistica (la pattern

recognition), l’attività cerebrale associata con una scelta apparentemente libera,

operata dai soggetti sperimentali.

“Da tempo si discute se le decisioni soggettivamente "libere" siano determinate

dall'attività cerebrale prima del tempo. Abbiamo scoperto che l'esito di una

decisione può essere codificato nell'attività cerebrale della corteccia prefrontale

e parietale fino a 10 s prima che essa entri nella consapevolezza. Questo ritardo

riflette presumibilmente il funzionamento di una rete di aree di controllo di alto

livello che iniziano a preparare una decisione imminente molto prima che

questa diventi consapevole” (Soon et al. 2008)17

La conclusione degli autori è che la nostra decisione conscia, e soggettivamente

libera, di compiere un’azione possa essere preceduta di ben dieci secondi da

eventi cerebrali che determinano causalmente quell’azione con un intervallo

17 Soon et al., Unconscious determinants of free decisions in the human brain, 2008

96
temporale, dunque, di circa 30 volte maggiore di quello ipotizzato da Libet. In

questo senso, secondo gli autori, la sensazione soggettiva della libertà è

illusoria, perché dal punto di vista oggettivo la libertà non esiste. L'esperimento

che gli autori portano a sostegno della loro tesi richiede ai soggetti sperimentali

di rilassarsi mentre tengono due dita poggiate su due pulsanti e fissano il centro

di uno schermo sul quale scorre una serie di lettere dell’alfabeto. Viene poi

richiesto loro di scegliere liberamente, quando avvertono un impulso in tal

senso, di premere il pulsante destro o quello sinistro, verificando quale lettera

appare in quel momento sullo schermo; nel frattempo gli sperimentatori

misurano, per mezzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI), la risposta

emodinamica del cervello dei soggetti. Il sorprendente risultato è che, sulla base

dell’attivazione specifica di un’area cerebrale rilevata con fMRI e analizzata

con un software, la quale anticipa ampiamente la decisione consapevole dei

soggetti, gli sperimentatori sono in grado di prevedere se la decisione dei

partecipanti all’esperimento sarà quella di premere il bottone destro o quello

sinistro. Vi sono varie ragioni per pensare che questo esperimento sia più

sofisticato di quello di Libet dal punto di vista metodologico. Nell'esperimento

di Soon e colleghi, quando lo sperimentatore chiede al soggetto di predisporsi

ad agire, gli offre una scelta tra due azioni alternative, l’assenso del soggetto è

una “metascelta” che non riguarda l’esecuzione di un’azione specifica, ma il

futuro compimento di una scelta tra due azioni alternative. Gli autori di questo

articolo non si appellano alla libetiana capacità di veto, considerando la libertà

97
soggettiva illusoria. Tuttavia, contro l’esperimento di Soon e colleghi si possono

muovere varie obiezioni riferibili anche agli esperimenti di Libet. In primo

luogo, pare molto dubbio che la decisione di premere uno dei due pulsanti, la

consapevolezza di tale decisione e la percezione di quale sia la specifica

immagine che appare sullo schermo del computer siano veramente simultanee

come presuppongono gli autori dell’articolo. Un'altra delicata questione

concerne la misurazione dei tempi soggettivi della coscienza: le analisi

fenomenologiche dimostrano infatti che non è facile caratterizzarli come

puntiformi, perché essi, al contrario dei processi fisico­chimici che avvengono

nel cervello, tendono ad avere una durata. Va poi menzionata l’accusa di cripto­

cartesismo mossa a Libet da Dennett (2003); secondo Dennett, il quadro

concettuale che fa da sfondo agli esperimenti di Libet si baserebbe su una

obsoleta interpretazione dualistica della coscienza, vista come una sorta di

homunculus che contempla quale spettatore gli eventi che si svolgono nel teatro

della mente. Non meno rilevanti sono le critiche contro il modo in cui in questo

tipo di esperimenti utilizzano la risonanza magnetica funzionale per individuare

nessi causali tra i processi neurofisiologici e gli stati mentali e le azioni

compiute dai soggetti sperimentali.18

L'esperimento si propone di indagare le decisioni che soggettivamente ci

appaiono libere, ma oggettivamente non lo sono19.

18 Vul et al. 2009


19 nell’abstract dell’articolo il termine libere è inserito tra le virgolette per intendere ciò

98
L'idea è che i dati ottenuti siano paradigmatici e si possono generalizzare a tutte

le decisioni soggettivamente libere. In realtà, gli eventi mentali di cui si discute

nell’articolo non possono essere affatto ritenuti decisioni libere nemmeno nel

senso soggettivo e non si possono nemmeno considerare decisioni genuine.

Questo si può comprendere leggendo la prima pagina dell’articolo, dove si dice

che ai soggetti sperimentali veniva richiesto di decidere liberamente quale dei

due bottoni premere quando avessero sentito l’impulso a far ciò. È

comprensibile che gli sperimentatori avanzino tale richiesta, perché a loro serve

un momento specifico in cui collocare la decisione da studiare, e avvertire

l’impulso serve esattamente a definire tale momento. Ma una corretta analisi

fenomenologica mostra che avvertire l’impulso a compiere una determinata

scelta non è né condizione necessaria, né condizione sufficiente per considerare

tale scelta come libera. Non è condizione necessaria, perché nella gran parte dei

casi, quando compiamo una scelta o un’azione che soggettivamente avvertiamo

come libera, tale scelta non è preceduta da alcun impulso a compierla. Inoltre,

gli eventi mentali di cui si parla nell’articolo di Soon e colleghi non possono

essere considerate azioni genuine. Soon e colleghi non chiedono al soggetto di

predisporsi a compiere un'azione già nota, come Libet, ma una decisione tra due

azioni possibili. Non è giustificato però richiamare il concetto di decisione

quando l’alternativa posta ai soggetti sperimentali si riduce semplicemente e

99
banalmente alla scelta tra il premere il pulsante dx o quello sx. La presunta

decisione cui l’articolo fa riferimento è del tutto irrilevante per i soggetti

sperimentali: essi non hanno preferenze in un senso o nell’altro che possano

essere poste in gerarchia per operare una scelta. Dunque, non si tratta di una

scelta genuina. Per giunta, un buon argomento a favore dell’illusionismo 20 non

può fermarsi alla prova (seppure l’esperimento di Soon e colleghi la desse) che

le nostre decisioni sono causalmente determinate da fattori neuronali che

sfuggono al nostro controllo. È necessario anche provare un punto concettuale:

che la libertà è incompatibile con il determinismo. Ma nell’articolo citato non si

dice nulla su questa tesi. Per di più, se la scienza naturale dice l’ultima parola

sulla questione della libertà, allora la possibilità che le nostre scelte e le nostre

azioni siano causalmente determinate da eventi che sfuggono al nostro controllo

era suggerita da una teoria scientifica di grande rilevanza: la teoria della

relatività generale, ben prima di questi risultati neurofisiologici. I dati forniti

dagli autori sono in linea di principio compatibili anche con una concezione

positiva della libertà, ovvero il libertarismo. La ragione sta nell’indice di

accuratezza dell’esperimento che si aggira intorno al 60%. Statisticamente

questa cifra è ovviamente rilevante, tuttavia lascia un 40% di margine per chi,

come molti libertari, ritiene che la libertà umana si fondi su eventi

indeterministici. Basterà interpretare quel 40% non come segnale della nostra

20 concezione secondo la quale la libertà è un’illusione (Nannini,2007)

100
ignoranza, ma come manifestazione oggettiva dell’indeterminismo

neurofisiologico. Infine, un altro gruppo di libertari ritiene che la libertà sia, si,

incompatibile con il determinismo causale, ma nondimeno si possa continuare a

pensarci liberi purché si riconosca che il discorso sulla libertà risulta

categorialmente diverso da quello sulla causalità naturale (Strawson 1962,

McDowell 1994). 21

L'ultima concezione della libertà degna di menzione, infine, è il misterianismo

(difeso oggi da Chomsky, van Inwagen, McGinn) secondo il quale il libero

arbitrio è per noi irrinunciabile, ma allo stesso tempo inconciliabile con la

visione scientifica del mondo. Dunque, rappresenta per noi, e sempre

rappresenterà, un mistero insolubile (Nannini 2002, De Caro 2004, Trautteur

2009).

2.2 LIBERO ARBITRIO E NEUROSCIENZE: dalla spiegazione

della libertà ai nuovi modi per operazionalizzarla e misurarla

In un articolo di Lavazza22 si cerca di chiarire il metodo usato nei vari

esperimenti per misurare l’azione volontaria dei soggetti, cominciando dalla

scoperta dei Readiness Potential fatta da Libet. Come considerazione

preliminare è importante sottolineare che l’idea di utilizzare un esperimento per

stabilire se l’essere umano abbia il libero arbitrio implica l’accettazione di un

21 posizione di chiara matrice Kantiana


22 Andrea Lavazza è studioso di filosofia della mente e di scienze cognitive.

101
legame diretto tra una misurazione del funzionamento del cervello e un

costrutto teorico preesistente. Ma questo collegamento presenta dei problemi,

ciò che si può vedere e misurare nell’attività cerebrale può cogliere solo una

parte del libero arbitrio che si vuole verificare. Questa è stata una delle

principali critiche mosse agli esperimenti condotti finora (Mele, 2009; Nachev e

Hacker, 2014). Gli esperimenti di Libet e le loro varianti sono stati ripetuti più

volte fino a tempi molto recenti, confermando i loro risultati con un sufficiente

grado di affidabilità. Nella prima fase del suo intervento nel dibattito sul libero

arbitrio, le neuroscienze sembravano sostenere una deflazione della libertà. I

neuroscienziati hanno individuato un aspetto specifico della nozione di libertà

(il controllo cosciente dell'inizio dell'azione) e lo hanno studiato: i risultati

sperimentali sembravano indicare che tale controllo cosciente non esiste, da cui

la conclusione che il libero arbitrio non esiste. Come già descritto, Libet

lasciava al soggetto un certo tempo per porre il veto: circa 150 ms. Libet

pensava che ci fosse un ruolo per la volontà cosciente proprio in questa

situazione: la volontà cosciente può lasciare che l'azione vada a compimento o

può bloccarla con il veto esplicito del movimento attuato dalle aree prefrontali

(Doyle, 2011). Ma anche l'inibizione intenzionale di un'azione (una decisione

vera e propria) è preceduta da attività neurale (Filevich et al., 2012, 2013).

Quindi non può essere una decisione completamente diversa da quella di

prendere una decisione positiva di agire. Nei loro esperimenti, Haggard e Eimer

(1999) hanno utilizzato il metodo di Libet, ma hanno chiesto ai partecipanti di

102
eseguire un compito diverso. Dovevano muovere a piacere l'indice destro o il

sinistro in una serie di prove ripetute. Gli autori hanno confrontato l'RP e il

potenziale di prontezza lateralizzato (LRP) in prove in cui la consapevolezza

appariva in un tempo più o meno lungo, cioè considerando la latenza della

consapevolezza rispetto all'RP. Bisogna però spiegare cos’è il potenziale di

prontezza lateralizzato: si tratta di un potenziale cerebrale evento­correlato che

determina la preparazione di un movimento su un certo lato del corpo. Secondo

le loro parole, "l'RP tendeva a verificarsi più tardi nelle prove con

consapevolezza precoce dell'inizio del movimento rispetto alle prove con

consapevolezza tardiva, escludendo l'RP come causa della nostra

consapevolezza dell'inizio del movimento. Tuttavia, l'LRP si è verificato

significativamente prima nelle prove con consapevolezza precoce rispetto a

quelle con consapevolezza tardiva, suggerendo che i processi alla base dell'LRP

possono causare la nostra consapevolezza dell'inizio del movimento" (Haggard

e Eimer, 1999). Da ciò si può dedurre che la consapevolezza dell'intenzione di

muovere un dito o l'altro avviene dopo che la decisione è stata "presa dal

cervello", come risulta dall'LRP. Sirigu et al. (2004) e Desmurget et al. (2009)

hanno dimostrato che, ripetendo gli esperimenti di Libet su pazienti con lesioni

parietali, sembra che essi diventino consapevoli della loro decisione di compiere

un'azione solo quando l'azione stessa è in corso. In questi soggetti la

consapevolezza della decisione non arriva nemmeno prima dell'inizio del

movimento, poiché tende a coincidere con l'azione motoria. Sembra che in

103
questi casi l'alterazione cerebrale abbia ridotto, se non annullato del tutto,

l'intervallo di coscienza che precede l'effettiva esecuzione dell'azione. Gli autori

hanno proposto che quando si pianifica un movimento, l'attività della corteccia

parietale, come parte di un circuito corticale di elaborazione sensomotoria,

genera un modello interno predittivo del movimento imminente. Questo

modello potrebbe costituire il correlato neurale della consapevolezza motoria.

Nell' esperimento di Banks e Isham (2009) hanno impostato una versione

leggermente diversa del compito di Libet: ai partecipanti è stato chiesto di

premere un pulsante quando volevano, e successivamente dovevano indicare il

momento preciso in cui avevano avuto l'intenzione di farlo. Quando premevano

il pulsante, i soggetti ricevevano un feedback uditivo con un ritardo da 5 a 60

ms, in modo da dare loro l'impressione che la risposta fosse avvenuta dopo aver

premuto il pulsante. Anche se i soggetti non erano consapevoli del ritardo tra

l'azione e il feedback uditivo, l'intenzione di premere il pulsante è stata

segnalata come avvenuta più tardi nel tempo, seguendo una funzione lineare in

rapporto con il ritardo del feedback del segnale uditivo. L'identificazione del

momento in cui il soggetto aveva intenzione di premere il pulsante era quindi in

gran parte determinata dal momento apparente della risposta del soggetto, e non

dalla risposta effettiva. Questo risultato indica che le persone valutano il

momento in cui hanno avuto l'intenzione di compiere un'azione in base alle

conseguenze della loro azione e non solo in base all'azione motoria stessa.

104
Kühn e Brass (2009) hanno condotto un esperimento che combina il paradigma

del segnale di stop (Logan et al., 1984) con un paradigma di azione

intenzionale. I soggetti dovevano reagire nel modo più rapido possibile,

premendo un pulsante, non appena uno stimolo (ad esempio, una lettera) veniva

visualizzato al centro dello schermo di un computer. A volte, subito dopo la

presentazione dello stimolo, veniva mostrato un segnale di stop o un segnale di

decisione: nel primo caso, i soggetti dovevano cercare di smettere di rispondere;

nel secondo caso potevano decidere se premere il pulsante o smettere di

rispondere. Nelle prove di decisione in cui i soggetti avevano fornito una

risposta, è stato chiesto loro se questa fosse stata effettivamente il risultato di

una decisione o se fosse stata inibita, cioè se non fossero stati in grado di

fermarsi prima della presentazione del segnale di decisione.

I risultati hanno mostrato che in alcuni casi i soggetti avevano l'esperienza

soggettiva di aver deciso intenzionalmente di compiere un'azione che in realtà

non avevano deciso di compiere. Questi studi hanno supportato empiricamente

l'ipotesi che le intenzioni di compiere azioni volontarie siano fortemente

influenzate dagli eventi che si verificano dopo l'esecuzione dell'azione. Inoltre,

sembrano confermare che il sistema motorio cerebrale produce un movimento

come risultato finale dei suoi input e output; la coscienza sarebbe "informata"

del fatto che un movimento sta per avvenire e questo produrrebbe la percezione

soggettiva che il movimento è stato deciso volontariamente (Hallett, 2007). Un

105
altro studio interessante è quello condotto da Alexander et al. (2016). Il disegno

sperimentale utilizza una versione modificata del compito di Libet. I soggetti

dovevano scegliere tra quattro lettere quando volevano, annotando il momento

esatto della scelta. Successivamente, nella metà delle prove, i soggetti dovevano

premere un pulsante non appena prendevano la decisione, mentre nell'altra metà

non dovevano fare nulla per indicare la loro scelta. Alla fine del compito, tutti i

soggetti dovevano riferire quando avevano preso la loro decisione. In questo

modo, attraverso l'EEG, l'elettrooculografia (EOG) e l'elettromiografia (EMG),

è stato possibile misurare il RP del processo decisionale sia in contesti motori

che non motori. Gli autori non hanno riscontrato forti differenze tra i due RP

affermando così che esiste un contributo cognitivo puro dei RP che non riflette

processi legati al movimento. Hanno suggerito quindi che il RP cognitivo

potrebbe riflettere la preparazione all'azione, l'anticipazione generale e le

fluttuazioni neurali spontanee. È interessante notare che essi escludono che il

RP rifletta la preparazione all'azione, poiché si tratta di un'elaborazione non

motoria. Per quanto riguarda l'anticipazione, non possono escludere che il RP

sia specificamente associato alla libera scelta. Quindi esso potrebbe

semplicemente riflettere la media delle fluttuazioni spontanee. Gli esperimenti

considerati finora mettono pesantemente in discussione (oltre al concetto di

liberto arbitrio) l'affermazione che la coscienza sia effettivamente la causa del

comportamento volontario. L'attivazione neurale avvia il processo decisionale

che culmina nel movimento, mentre la coscienza "viene dopo", quando "le cose

106
sono fatte". Pertanto, la coscienza non può innescare le nostre decisioni

volontarie. Ma il ruolo della coscienza nelle scelte volontarie fa parte della

definizione di libero arbitrio (ma la definizione stessa di coscienza è oggetto di

dibattito, cfr. Chalmers, 1996).

La ricerca empirica in psicologia dimostra anche che la nostra mente lavora e

compie scelte senza il nostro controllo cosciente. Come proposto dallo

psicologo Wegner (2002, 2003, 2004) e da Aarts et al. (2004), siamo "costruiti"

per avere l'impressione di controllare consapevolmente le nostre azioni o di

avere il potere di scegliere liberamente, anche se tutto ciò è solo un'illusione

cognitiva. Molti esperimenti di priming dimostrano che le persone agiscono

"meccanicamente" (anche quando il loro comportamento potrebbe sembrare

adatto all'ambiente e persino raffinato). I processi cognitivi automatici, di cui

non sempre siamo consapevoli, sono all'origine delle nostre decisioni e sono

stati scoperti solo grazie alla ricerca scientifica più avanzata. In definitiva, la

coscienza, che dovrebbe esercitare il controllo e valutare le ragioni di una scelta,

sarebbe quindi causalmente inefficace: un mero epifenomeno, per usare la

terminologia della filosofia della mente. Questa è quella che è stata chiamata

Zombie Challenge, "basata su una sorprendente ricchezza di scoperte della

scienza cognitiva recente che dimostrano i modi sorprendenti in cui il nostro

comportamento quotidiano è controllato da processi automatici che si svolgono

in completa assenza di coscienza" (Vierkant et al., 2013). Ma questi esperimenti

107
sono stati criticati da un punto di vista non solo filosofico ma anche

neuroscientifico. Ad esempio Trevena e Miller (2010) hanno sostenuto che il

RP non rappresenta un'intenzione di muoversi, ma indica solo che nel cervello è

in atto un processo attenzionale, poiché quando i soggetti "hanno prestato

attenzione alla loro intenzione piuttosto che al loro movimento, c'è stato un

aumento dell'attività nella pre­SMA" (Lau et al., 2004). In ogni caso, "non c'era

evidenza di segnali elettrofisiologici più forti prima di una decisione di

muoversi rispetto a una decisione di non muoversi, quindi questi segnali non

sono chiaramente specifici della preparazione al movimento" (Trevena e Miller,

2010). Altri hanno notato che le stime introspettive della tempistica degli eventi

sono discutibili o imprecise e che le misure in generale non sono

sufficientemente precise (Dennett, 2003). Il concetto di libero arbitrio rilevante

per le nostre pratiche morali e legali, personali e sociali, è molto più complesso

di quello approfondito dagli esperimenti considerati finora. Ma qui non contano

tanto le considerazioni teoriche o quelle derivate dalla psicologia sperimentale,

quanto quelle che nascono dalla stessa ricerca neuroscientifica. In quella che si

potrebbe definire una nuova fase dell'indagine empirica sul libero arbitrio, il

problema del determinismo e del ruolo della coscienza viene lasciato sullo

sfondo e l'attenzione si sposta su altri fattori che entrano nei meccanismi

cerebrali di decisione, senza chiedersi prima se questi processi (necessariamente

i più semplici, almeno per ora) siano deterministici o stocastici. Dall'altra parte,

i neuroscienziati stanno cercando di circoscrivere il concetto di libero arbitrio a

108
situazioni operazionalizzabili, in modo da misurarlo e poterne identificare,

almeno come obiettivo, i correlati neurali. Esiste un filone di ricerca sui primati

non umani, ma più recentemente anche sull'uomo, che studia il processo

decisionale fine a livello neuronale, riconducendolo a un processo

meccanicistico che potrebbe essere l'interfaccia neuronale delle nostre

descrizioni di senso comune.

“A mio avviso, una concettualizzazione più ricca del libero arbitrio ­ in grado di

superare lo stallo del dibattito metafisico e le attuali difficoltà delle

neuroscienze (Nachev e Hacker, 2014) e della psicologia empirica (Nahmias,

2014) ­ deve essere legata all'idea di "capacità". Infatti, come sostengono

Mecacci e Haselager (2015), il tipo di libero arbitrio indagato dagli esperimenti

neuroscientifici, che si autogenera e si definisce in base all'assenza di

indicazioni, "rende poca giustizia alla pratica di senso comune di ritenere le

persone responsabili delle loro azioni liberamente volute, che consiste nel

chiedere spiegazioni e giustificazioni all'attore". 23 Un altro punto importante

per Lavazza è che esistono differenze nelle scale temporali tra i compiti di

laboratorio (intervallo di tempo compreso tra i millisecondi e i secondi) e la vita

reale o, meglio, la vita come la misuriamo temporalmente (secondi, minuti, ore,

settimane, anni) per quanto riguarda le decisioni che ci riguardano davvero.

23AndreaLavazza, Free will and Neuroscience: from explaning freedom away to new ways of operationalizing
and measuring it, 2016

109
Anche se il meccanismo sottostante potrebbe essere lo stesso, gli esperimenti

descritti finora non possono indagare se le decisioni con un processo di

maturazione più lungo siano libere e in che misura lo siano. Potrebbe essere

possibile distinguere tra meccanismi prossimali e distali, ma questo non sembra

fattibile in mancanza di strumenti per affrontare decisioni che coinvolgono scale

temporali più lunghe. Per questo motivo potrebbe essere utile introdurre altri e

diversi modi per concettualizzare e rendere operative le azioni

(presumibilmente) libere.

Le abilità cognitive potrebbero essere operazionalizzate in primo luogo come un

insieme di test neuropsicologici, che possono essere utilizzati per

operazionalizzare e misurare specifiche funzioni esecutive, in quanto fortemente

legata al concetto di controllo. Le funzioni esecutive, note anche come funzioni

di controllo, sono essenziali per organizzare e pianificare il comportamento

quotidiano, che non è il comportamento istantaneo riscontrato negli esperimenti

di Libet. Queste abilità sono necessarie per eseguire la maggior parte delle

nostre azioni orientate agli obiettivi. Ci permettono di modulare il nostro

comportamento, di controllarne lo sviluppo e di modificarlo in base agli stimoli

ambientali (l'ambiente è sia fisico che sociale). Inoltre, le funzioni esecutive ci

permettono di modificare il nostro comportamento in base ai suoi effetti, con un

sofisticato meccanismo di feedback; infine, sono necessarie anche per i compiti

di astrazione, inventiva e giudizio. Chi, per qualsiasi motivo, ha un deficit nelle

110
funzioni esecutive non può rispondere all'ambiente sociale in modo appropriato

e fatica a pianificare il proprio comportamento o a scegliere tra alternative in

base al proprio giudizio o interesse. Chi soffre di questi deficit nelle funzioni

esecutive spesso non riesce a controllare le proprie risposte istintive e a

modificare le proprie linee d'azione abituali, oppure non riesce a concentrarsi o

a persistere nel perseguimento di un obiettivo (Barkley, 2012; Goldstein e

Naglieri, 2014).

Lavazza propone di costruire un test simile a quello usato per misurare il QI che

consentirebbe di operazionalizzare e quantificare le capacità cognitive di una

persona. Un test come questo misura una certa gamma di capacità di controllo

cognitivo e comportamentale che configurano un certo tipo di libero arbitrio a

livello psicologico­funzionale. Un test di questo genere potrebbe essere il primo

passo (anche se imperfetto) verso misure più oggettive per discriminare tra

persone che hanno più o meno libero arbitrio o meglio sono, più o meno, capaci

di autocontrollo e scelta razionale. La ricerca empirica sul funzionamento degli

esseri umani si è concentrata sull’autocontrollo come caratteristica del libero

arbitrio. "L'autocontrollo comprende la capacità di mantenere gli obiettivi, di

bilanciare i valori a lungo e a breve termine, di considerare e valutare le

conseguenze di un'azione pianificata e di resistere a farsi "trasportare dalle

emozioni" (Churchland, 2006). L'autocontrollo può anche essere considerato

come la capacità delle funzioni di ordine superiore di modulare l'attività delle

111
funzioni di livello inferiore, dove le funzioni di ordine superiore si manifestano

all'esterno in comportamenti complessi, adattati alle esigenze dell'ambiente,

mentre le funzioni di livello inferiore si manifestano in comportamenti semplici

e stereotipati, non adattati alle richieste dell'ambiente (Roskies, 2010a). Ogni

persona presenta un diverso grado di autocontrollo rispetto agli altri individui, e

per ogni persona il grado di autocontrollo varia nel tempo (Baumeister et al.,

2006; Casey et al., 2011; Dang et al., 2015). Due funzioni esecutive risultano

essere centrali:

1. la capacità di prevedere gli esiti futuri di una determinata azione;

2. la capacità di sopprimere le azioni inappropriate, cioè non

sufficientemente valide. È importante notare che queste due funzioni

esecutive operano non solo durante la genesi di un'azione, ma anche

durante la pianificazione di un'azione già selezionata. Infatti, nel lasso di

tempo che intercorre tra il momento in cui un'azione è stata scelta e il

momento in cui l'output motorio sta per essere generato, il contesto

potrebbe essere cambiato, alterando il valore calcolato dell'azione e

richiedendo quindi un cambiamento radicale della strategia motoria

pianificata (Mirabella, 2014).

Un esempio è dato dallo studio del ruolo degli interneuroni colinergici nella

flessibilità comportamentale (Aoki et al., 2015). Questa classe di neuroni

sembra essere connessa per sopravvivere in un mondo in continuo

112
cambiamento, che richiede un comportamento flessibile. La flessibilità può

essere valutata (e misurata) a livello comportamentale, ma i meccanismi

cerebrali rimangono in gran parte sconosciuti. Utilizzando i test convenzionali

sulla flessibilità comportamentale, che richiedono agli animali di spostare

l'attenzione da una proprietà dello stimolo (ad esempio, il colore) a un'altra (ad

esempio, la forma), i ricercatori hanno esaminato gli effetti di una lesione

indotta da immunotossine sugli interneuroni colinergici nello striato. È stata

effettuata un'ablazione colinergica selettiva mediante iniezioni di

immunotossina, che avevano come bersaglio i neuroni contenenti colina

acetiltransferasi nello striato dorsomediale o ventrale. A un gruppo di controllo

è stata invece iniettata della soluzione salina. "Quando si verificava un

cambiamento delle regole comportamentali dopo il set­shift, una delle due

lesioni faceva sì che gli animali si attenessero a una strategia di risposta

precedentemente corretta ma ora non più valida. Hanno anche mostrato un

comportamento meno esplorativo per trovare una nuova regola. Gli animali

possono quindi essere considerati “meno liberi” quando gli interneuroni

colinergici striatali non funzionano correttamente. Quest'ultimo esempio serve a

indicare come colmare il divario tra i comportamenti manifesti (a cui tendiamo

ad attribuire la proprietà della libertà) e i meccanismi neuronali che sono

chiaramente identificabili e persino manipolabili. Infatti, non è tanto importante

guardare all'aspetto cosciente di un singolo meccanismo prossimale, quanto

piuttosto considerare l'effetto comportamentale manifesto che il meccanismo

113
considerato contribuisce a produrre. In questo modo si avrebbe un cambio di

paradigma rispetto alla ricerca delle neuroscienze sul libero arbitrio, che sembra

essere stata a lungo troppo legata alla falsificazione dell'assunto teorico secondo

cui un'azione è libera solo se ha un inizio completamente controllato da un

processo cosciente. “La proposta che presento qui ha solo l'ambizione di essere

un contributo potenzialmente utile al dibattito teorico e alla ricerca empirica,

anche se i suoi limiti sono molto chiari. In primo luogo, si concentra su una

parte specifica di ciò che viene intuitivamente chiamato libero arbitrio,

mettendolo in relazione con l'idea di capacità. In secondo luogo, si propone di

misurare il libero arbitrio a livello psicologico attraverso un indice unitario che

inevitabilmente non tiene conto di molte sfumature della nozione e della relativa

capacità. Inoltre, la ricerca del correlato neurale di tali capacità implica non solo

l'identificazione di meccanismi causali, ma anche la considerazione di molte

aree cerebrali. Tutto ciò rende le cose più difficili rispetto agli approcci alla

Libet. Tuttavia, c'è un vantaggio evidente: c'è un maggior grado di realismo e di

aderenza all'effettiva manifestazione comportamentale di ciò che chiamiamo

libero arbitrio”. (Lavazza, 2016).

2.3 LA COGNIZIONE MORALE E I SUOI COSTITUENTI

NEURALI

114
Per studiare i meccanismi neurali della cognizione morale, è necessario

delimitare il campo di indagine. Che cosa comprende la "cognizione morale"?

Ciò dipende da come si intende il dominio della teoria morale. Sebbene tutte le

teorie morali affermino di parlare di ciò che un agente dovrebbe fare (questo è

ciò che le rende distintamente morali), esse non sono d'accordo sulla sostanza di

tali raccomandazioni e sulle psicologie morali necessarie per un ragionamento e

un'azione efficaci. Le tre principali teorie morali classiche della tradizione

occidentale sono l'utilitarismo, la deontologia e la teoria della virtù. Il tipico

utilitarista, come il filosofo britannico John Stuart Mill (1806­1873), ritiene che

si debba compiere quell'azione (o seguire quella "regola") che, se compiuta (o

seguita), produrrebbe la massima quantità di felicità per il maggior numero di

esseri senzienti, dove la felicità è la presenza di piacere o l'assenza di dolore (e

dove del piacere e del dolore vengono date letture più sofisticate della semplice

soddisfazione affettiva).

I deontologi, esemplificati dal filosofo prussiano Immanuel Kant (1724­1804),

non sottolineano le conseguenze delle azioni, come fanno gli utilitaristi. Si

concentrano invece sulla massima dell'azione, il principio basato sull'intenzione

che si manifesta nella mente dell'agente. Dobbiamo fare il nostro dovere, come

derivato dai dettami della ragion pura e “dall'imperativo categorico", solo per

amore del dovere. I deontologi si preoccupano in particolare di evidenziare i

115
doveri che le creature libere e ragionevoli (paradigmaticamente, gli esseri

umani) si devono reciprocamente. L'obiettivo non è la massimizzazione della

felicità, bensì la garanzia di non violare i diritti altrui. I teorici della virtù, come

i filosofi greci Platone (427­347 a.C.) e Aristotele (384­322 a.C.), danno priorità

al concetto di "fioritura umana "; essere massimamente morali significa

funzionare al meglio in base alla propria natura. Ciò implica la coltivazione

delle virtù (come la saggezza) e l'evitamento dei vizi (come l'intemperanza), ed

è una questione pratica. In prima battuta la cognizione morale comprende

qualsiasi atto cognitivo che ci aiuti ad agire. Anche gli animali non umani (per

esempio i primati e altri animali sociali) potrebbero impegnarsi in un robusto

ragionamento morale. La spinta dell’autore dell’articolo, William D. Casebeer


24
verso una concezione deflazionistica del giudizio morale è guidato dal

riconoscimento che la cognizione morale potrebbe non essere” un tipo naturale”

strettamente definito nel senso in cui potrebbero esserlo altri fenomeni

cognitivi. La ricca e diversificata letteratura sui meccanismi neurali della

cognizione può essere suddivisa in tre rami: la emozioni morali, la teoria della

mente e il ragionamento morale astratto. Le emozioni morali sono fondamentali

per una cognizione morale efficace. Motivano l'azione, fungono da marcatori di

valore, sono fondamentali per coordinare l'attività di gruppo e aiutano a filtrare

24Casebeer è un’analista di intelligence di carriera e tenente colonnello dell’aeronautica militare statunitense.


Laureato in scienze politiche presso l‘accademia dell‘aeronautica degli Stati Uniti, in filosofia presso l‘università
dell’Arizona, in studi sulla sicurezza nazionale presso la Naval Postgraduate School e ha conseguito un
dottorato di ricerca congiunto in scienze cognitive e filosofia presso l’Università della California a San Diego,
dove la sua tesi ha ricevuto il premio l’eccellenza del campus.

116
ed evidenziare alcuni aspetti del calcolo morale. Nei mammiferi e nei rettili, il

nucleo regolatore del cervello è situato nell'asse tronco encefalico/limbico, e

serve a svolgere attività importanti come la respirazione, l'eccitazione e il

coordinamento delle pulsioni (per il cibo, il sesso, l'ossigeno e così via) con le

percezioni. Le emozioni di base associate alla fame, alla sete, al desiderio

sessuale e simili sono potenti motivatori; man mano che la capacità corticale del

nostro cervello si è espansa nel corso dell'evoluzione, le regioni cerebrali

frontali "più nuove" sono rimaste collegate e innervate da questo nucleo

regolatore. Esplorare il ruolo delle regioni prefrontali nel collegare le aree

limbiche a quelle frontali non è semplice; studi su pazienti con danni cerebrali

focali e lesioni sperimentali nelle scimmie hanno indicato una relazione tra la

corteccia prefrontale (PFC) e le funzioni di pianificazione, i processi

decisionali, le emozioni, l'attenzione, la memoria spazio­temporale e il

riconoscimento delle conseguenze delle proprie azioni. Risultati convergenti

provenienti da studi di lesione e di neuroimmagini indicano che i danni alla PFC

ventrale e mediale sono costantemente associati a compromissioni nel processo

decisionale pratico e morale. I pazienti con lesioni focali ventromediali

mostrano risposte anormalmente piatte (prive di emozioni) quando vengono

mostrate immagini emotive e ottengono scarsi risultati in compiti in cui i

sentimenti sono necessari per guidare scelte complesse auto­dirette. Anche studi

elettroencefalografici (EEG) su bambini con disturbi dell'autocontrollo

supportano un legame tra la PFC ventromediale e le emozioni morali, così come

117
la fMRI su soggetti normali. Ad esempio, ”la visione di scene che evocano

emozioni morali produce un'attivazione nella PFC ventromediale e nel solco

temporale superiore” (Mool, J. et al, 2002). All'interno della PFC ventrale, la

corteccia orbitofrontale (OFC) è cruciale per l'individuazione di comportamenti

moralmente appropriati in età adulta e per l'acquisizione di conoscenze morali

durante l'infanzia; sebbene i pazienti con danni all'OFC in età adulta e infantile

mostrassero comportamenti socio­morali anormali simili, i loro punteggi nei test

standardizzati di ragionamento morale differivano. I soggetti con danno precoce

ottenevano scarsi risultati nei test, mostrando un ragionamento egoistico tipico

di un bambino di dieci anni, mentre i soggetti con un'insorgenza adulta

ottenevano risultati normali nonostante il loro comportamento anormale

(Anderson, S. W. et al.1999). La PFC riceve importanti input dalle aree

sensoriali e limbiche. Il sistema limbico è un insieme altamente interconnesso di

regioni sottocorticali (tra cui l'ippocampo, l'amigdala, l'ipotalamo e il

prosencefalo basale) e la corteccia cingolata. L'attività di questo sistema è

modulata dai neurotrasmettitori dopamina, serotonina, noradrenalina e

acetilcolina, e le variazioni dei livelli di queste sostanze possono influenzare

notevolmente il desiderio sessuale, l'umore, le emozioni e l'aggressività. Il

corretto funzionamento del sistema nel suo complesso è fondamentale per un

giudizio morale efficace. L'amigdala, ad esempio, fa parte del complesso

circuito della ricompensa che coinvolge le emozioni positive. È probabile che il

complesso amigdaloideo moduli l'immagazzinamento di ricordi emotivamente

118
importanti e stimolanti; gli eventi importanti per la sopravvivenza provocano

emozioni specifiche e, con l'attività dell'amigdala, hanno maggiori probabilità di

essere memorizzati in modo permanente rispetto agli eventi neutri. L'amigdala è

anche fondamentale per favorire il recupero di conoscenze socialmente rilevanti

sull'aspetto del viso; a tre soggetti con danno totale bilaterale all'amigdala è

stato chiesto di giudicare l'affidabilità di persone sconosciute, e tutti e tre hanno

giudicato le persone sconosciute più avvicinabili e affidabili rispetto ai soggetti

di controllo (Adolphs, R., Tranel, D., & Damasio, A.R.,1998). Le strutture

dell'ippocampo sono essenziali per l'apprendimento e il ricordo di eventi o

episodi specifici, anche se l'immagazzinamento permanente della memoria si

trova altrove nella corteccia. L'ippocampo, la corteccia paraippocampale, la

corteccia entorinale e la corteccia peririnale sembrano essere importanti per

l'elaborazione e il recupero di ricordi salienti "rilevanti per me". Nel giudizio

morale, l'ippocampo potrebbe facilitare il ricordo consapevole di schemi e

memorie che permettono agli eventi passati di influenzare le decisioni attuali.

La corteccia cingolata ha una serie di sottoregioni con funzioni diverse: la

regolazione dell'attenzione selettiva, la regolazione della motivazione e

l'individuazione di intenzioni ed esecuzioni mal coordinate sono associate alle

regioni anteriori (corteccia cingolata anteriore, ACC). L'attivazione dell'ACC

centrale (insieme al nucleo accumbens, al nucleo caudato e alla corteccia

ventromediale (VM)/OFC) è necessaria per il comportamento cooperativo dei

119
soggetti che giocano a una versione del "dilemma del prigioniero"25. Altri lavori

supportano la conclusione che l'ACC è cruciale per identificare i momenti in cui

l'organismo ha bisogno di impegnarsi maggiormente nel controllo del proprio

comportamento. Gran parte dei nostri ragionamenti morali quotidiani non

coinvolgono modelli morali altamente contorti; per lo più, possiamo fare

affidamento su abilità e abitudini caratteriali informate da emozioni e affetti

condizionati, in effetti, Haidt (2001) sostiene che il ragionamento morale

astratto è un affare completamente post­hoc e non è quasi mai la causa diretta

dei giudizi morali. Tuttavia, il ragionamento morale astratto è talvolta

necessario. Probabilmente dipende da strutture cerebrali che servono al pensiero

astratto moralmente neutro (come la capacità di modellare le conseguenze di

un'azione) e al ragionamento pratico su come realizzare le cose. Per esempio, in

un classico dilemma morale, come il problema del carrello (in cui si deve

decidere se permettere a un carrello fuori controllo di continuare su un binario

dove colpirà cinque persone o se premere un interruttore che lo devia su un

binario dove colpirà una sola persona (esplorato in dettaglio nel lavoro di fMRI

di Greene et al., 2001), sono necessarie capacità cognitive di ordine superiore

come la pianificazione, la flessibilità esecutiva e l'applicazione di strategie.

Queste capacità potrebbero essere realizzate nella corteccia cerebrale da reti

25il dilemma del prigioniero è un gioco ad informazione completa proposto negli anni 50 del XX secolo da
Albert Tucker come problema di teoria dei giochi. Oltre ad essere stato approfonditamente studiato in questo
contesto, il dilemma è anche piuttosto noto al pubblico non tecnico come esempio di paradosso.

120
corticali transitorie che Fuster chiama ”cognite”26. La difficoltà che abbiamo

nel comprendere le basi neurali del ragionamento morale è indicativa di due

cose: in primo luogo, che abbiamo ancora bisogno sia di migliori quadri teorici

per comprendere le capacità cognitive di ordine superiore; in secondo luogo,

che tali capacità potrebbero essere sopravvalutate rispetto al lavoro che

svolgono nella nostra economia cognitiva (per certi aspetti, quindi, potrebbe

essere richiesto l'eliminativismo27). L’eliminativismo propone di eliminare il

concetto tradizionale di mente, considerandola semplicemente un oggetto della

fisica, asssumendo che la mente si manifesti soprattutto in due aspetti, il

comportamento e il cervello, negando un’eventuale realtà o causalità oltre o

dietro questi fenomeni. Con ciò si elimina ogni aspetto metafisico della mente.

Un dispositivo che potrebbe essere utile per aiutarci a organizzare il

ragionamento morale astratto è uno spazio di stato morale (un concetto

articolato per la prima volta da P. M. Churchland28) . Possiamo pensare a gran

parte dell'attività della corteccia frontale e dell'asse limbico/encefalico come a

un punto in movimento in uno spazio n­dimensionale, dove n potrebbe (in casi

complessi) essere determinato rendendo l'attività di ogni neurone coinvolto nel

sistema un asse di tale spazio (in alcuni casi, un asse potrebbe essere costituito

da un singolo neurone, il che potrebbe spiegare i risultati relativi al fatto che

26 Fuster, J.M. Cortex and Mind: Unifying Cognition, Oxford Univ. Press, New York, 2002

27 Churchland, P. S. Brain Wise, Studies in Neurophilosophy, MIT press, Cambrige, Massachusetts, 2002
28 Churchland, P. M. Towards a cognitive neurobiology of the moral virtues

121
può sembrare che singoli neuroni nella PFC codifichino "regole "). Ridurre le

dimensioni di questo spazio ci permette di cogliere le sue componenti principali,

che potrebbero a loro volta corrispondere ai concetti morali tradizionali che

sono stati esplorati dagli etici negli ultimi 2.500 anni. L'idea di uno spazio di

stato morale ci permette di aggregare varie regioni corticali coinvolte

nell'elaborazione di concetti morali: se identifichiamo i neuroni o le popolazioni

rilevanti di neuroni e etichettiamo ciascuno di essi come una dimensione dello

spazio, utilizzando i giusti strumenti statistici (principalmente l'analisi delle

componenti principali o indipendenti), possiamo ridurre la dimensionalità dello

spazio a qualcosa di più gestibile. Comportarsi moralmente significherebbe

avere questo spazio di stato allocato in modo appropriato (presumibilmente

dalla combinazione di esperienza e ontogenesi) in modo da essere

massimamente morali (che, nel caso della teoria della virtù, significa essere

massimamente funzionali). Gli assi di questo spazio di stato ridotto

corrisponderebbero a gruppi di neuroni funzionalmente salienti e le regioni

dello spazio di stato potrebbero corrispondere alle "tre grandi" teorie morali

tradizionali di cui si è parlato in precedenza, oppure potrebbero aiutarci a

identificare concetti morali non ancora scoperti. L'idea di uno spazio di stato

morale è un modo per unificare concettualmente le diverse attività cerebrali

legate alla cognizione morale. Le prove, seppur provvisorie, che abbiamo

discusso danno maggior credito alla psicologia morale richiesta dalla teoria

della virtù. Una cognizione morale empiricamente riuscita da parte di un

122
organismo richiede l'appropriato coordinamento di segnali multimodali uniti a

sistemi esecutivi adeguatamente controllati che condividono ricche connessioni

con strutture cerebrali affettive e cognitive che attingono a memorie

condizionate e all'intuizione delle menti altrui, in modo da pensare e

comportarsi effettivamente in modo massimamente funzionale. Esiste un chiaro

legame tra la neuroetica contemporanea e la psicologia morale aristotelica. Una

strategia co­evolutiva, quindi, suggerirebbe che una versione della teoria della

virtù aristotelica pragmatica è la più compatibile con le scienze

neurobiologiche.

La cognizione morale è sociale. Diverse componenti cruciali dei costituenti

neurali della cognizione morale mirano a ottenere un comportamento

appropriato in contesti sociali e di gruppo. Non è un caso: i gruppi (di alcuni)

animali e umani sono gruppi sociali. Gli ambienti sociali sono difficili da

simulare allo scanner. Un notevole miglioramento metodologico in quest'area è

rappresentato dall'uso, da parte di Montague, della metodologia di

"iperscansione" multi­scanner, in cui diversi soggetti possono interagire

simultaneamente durante la scansione. Sebbene questa tecnologia sia

attualmente utilizzata per collegare soggetti presenti in più luoghi

contemporaneamente, potrebbe essere utilizzata per monitorare le interazioni di

soggetti che si trovano a poca distanza l'uno dall'altro. In minima parte, questa

tecnologia offre una maggiore efficienza nello studio delle interazioni sociali; in

123
massima parte, però, aggiunge un'altra dimensione allo studio dei meccanismi

neurali del ragionamento sociale. Come osservano Montague et al. "studiare le

interazioni sociali scansionando il cervello di una sola persona è analogo a

studiare le sinapsi osservando il neurone presinaptico o il neurone postsinaptico,

ma mai entrambi contemporaneamente... le sinapsi, come le persone che

interagiscono socialmente, si comprendono meglio studiando simultaneamente i

componenti che interagiscono "29.

La cognizione morale è distribuita. L'evoluzione non costruisce da zero, ma

tende a lavorare con ciò che è presente. Il comportamento socio­morale è

radicato nell'asse tronco­limbico e nella PFC, con input e connessioni ricorrenti

da e verso le cortecce sensoriali e multimodali e le aree del lobo frontale: quindi

coinvolge buona parte del cervello. Le condizioni ridotte di stimolazione che

sono necessarie per lavorare in un contesto di fMRI potrebbero non impegnare

in modo robusto l'intero equipaggiamento neuroetico. La cognizione morale

dipende dal contesto. In un caso potrei lodarvi per il furto ("bel lavoro nel

rimuovere quell'arma dal quartier generale dei terroristi"), e in un altro potrei

condannarvi ("per favore, restituite la barretta di cioccolato che avete rubato al

suo proprietario"). I setup sperimentali devono tenere conto di questa sensibilità

al contesto. Gli esperimenti con il "problema del carrello" fanno un buon lavoro

29Montague, P. R. et al. Hyperscanning: simultaneous fMRI during linked social interactions. Neuroimage
(2002)

124
per separare i filoni di giudizio morale sensibili al contesto30. La cognizione

morale è autentica. Emozione, ragione e azione sono unite. Le forze di selezione

operano sul comportamento reale, non su quello ipotetico. Il nostro

equipaggiamento cognitivo morale si è evoluto per coordinare efficacemente

tutti gli aspetti della nostra mente/cervello in modo da intraprendere azioni che

ci permettano di funzionare correttamente. Essa è diretta. La cognizione morale

riguarda le cose, in senso lato: come interagiamo con il mondo in modo

fecondo? Cosa devo fare per funzionare correttamente? Una cognizione morale

efficace è una questione di sviluppo; il nostro sistema cognitivo socio­morale

diventa più abile a navigare in un mondo fisico­sociale complesso con il passare

del tempo. Isolare l'atto del giudizio morale (un sapere "che") dall'idea di sapere

come agire nel mondo può essere fuorviante. Se all’interno dello scanner spingo

l'uomo sui binari per fermare il treno in arrivo, quello che farei nel mondo reale

è più difficile da prevedere. Questa rassegna e queste osservazioni generali

portano a diversi consigli metodologici per i ricercatori che studiano le basi

neurali della cognizione morale.

Rendere le cose esplicite. Assicurarsi che venga presa in considerazione in

modo esplicito la teoria morale di fondo che influenza la domanda di ricerca a

cui si sta rispondendo e il dominio di stimoli utilizzato per sondare tale

domanda. Quando si usa la parola "morale" nel rapporto di ricerca, bisogna

30 Greene, J. D. et al. An fMRI investigation of emotional engagement in moral judgment, Science (2001)

125
chiedersi quale teoria morale avete in mente e se assunti di fondo impliciti ma

non esaminati portano a ignorare dati salienti o a scegliere problemi irrilevanti.

Adattare di conseguenza i regimi sperimentali. Confermare di avere una base

teoricamente ricca (ma comunque fallibile) per le intuizioni morali che

informano l'esperimento. A tal fine, è necessario rivedere i pochi articoli di

indagine di ampio respiro disponibili nel campo. Si consideri che il termine

"morale" è un termine teorico e quindi il legame tra il regime di stimoli,

l'insieme di problemi e la teoria da testare è più complesso di quanto si possa

pensare. Ad esempio, assumere che certe frasi stimolo siano vuote di contenuto

morale solo perché sono puramente "fattuali" significa andare contro il realismo

morale; oppure, assumere che certe immagini sociali siano moralmente neutre

solo perché non sono minacciose significa andare contro una concezione

fortemente sociale della moralità.

Tenete presente la validità ecologica. C'è un modo per rendere il problema e

l'insieme di stimoli più simile a un problema socio­morale reale e agli stimoli

ambientali che lo accompagnano? Le metodologie che sono socialmente robuste

e che comportano l'interazione con più di un semplice input sentenziale avranno

maggiori probabilità di soddisfare questo requisito.

“Fare tutto questo in modo intelligente è difficile. Ci sono diversi problemi alle

frontiere della scienza del cervello, e affrontare i costituenti neurali della

126
cognizione morale è sicuramente nella top ten sia in termini di difficoltà che di

importanza. Plaudo ai ricercatori che stanno realizzando questo lavoro

innovativo. Solo così possiamo cercare una consilienza tra teoria morale

normativa, psicologia morale e neurobiologia morale; e solo così possiamo

sperare di migliorare la nostra capacità di sviluppare e instillare in noi stessi un

buon giudizio morale” ( Casebeer, 2003).

CAPITOLO 3

La corteccia prefrontale e la giustizia penale

A un certo livello metaforico, la PFC è la cosa più simile a un superego. In

termini leggermente più scientifici, il compito della corteccia frontale è di

orientare un individuo nel fare la cosa più difficile, piuttosto che quella più

facile (Miller & Cohen 2001). I comportamenti più difficili da eseguire non

sono necessariamente quelli più corretti. Tuttavia, questo è spesso il caso,

quando il termine "più corretto" viene usato in senso comportamentista,

piuttosto che in senso moralistico. Così, fare la cosa "più difficile" ma "più

corretta" implica una circostanza in cui è disponibile una ricompensa rapida, ma

in cui rimandare una gratificazione produrrà una ricompensa ancora più grande.

Il ruolo della PFC nel fare la cosa più difficile si manifesta in diversi ambiti.

127
Uno di quelli è la cognizione. La memoria non è processo monolotico, ma esiste

una tassonomia di diversi tipi di memoria. Una distinzione importante è tra

memoria tra memoria esplicita (dichiarativa) e memoria implicita (procedurale).

La prima implica non solo la conoscenza dei fatti, ma anche la consapevolezza

di tale conoscenza. Al contrario, i processi impliciti e procedurali sono più

automatici e non consapevoli. Così, andare in bicicletta, cambiare le marce di

un'auto, lavorare a maglia, possono essere tutti compiti procedurali, una volta

acquisita la padronanza. In effetti, si tratta di casi in cui

le mani conoscono il compito meglio della testa. Ma i compiti procedurali

non sono solo motori. Al contrario, possono includere anche compiti super

appresi: ricordare il proprio numero di telefono, cantare l'inno nazionale o

recitare l'alfabeto. L'esecuzione di un compito attraverso un percorso implicito

rappresenta la versione più facile. Quando siamo costretti a ignorare un percorso

implicito più facile, iper appreso, per svolgere un compito correlato in modo più

nuovo e dichiarativo, la PFC deve essere impegnata, e più è necessario andare al

di là un percorso implicito, più aumenta l'attivazione della PFC (Jaeggi et

al.2003). Ciò si verifica in particolare quando il nuovo compito rappresenta

un'inversione di tendenza rispetto a un compito precedentemente padroneggiato

(ad es. transizione dal ben appreso "quando X, fai Y" al nuovo "quando X, non

fare Y"). La PFC fornisce la metaforica spina cerebrale necessaria per evitare

che il compito precedente e più facile s’intrometta. E man mano che il nuovo

128
compito diventa più facile e quindi più automatico, l'attività della PFC si

attenua, fino a quando non viene imposta una nuova regola nel compito

(Simpson et al. 2001). Per questo motivo lesioni sperimentali di parti della PFC

nella scimmia di laboratorio o danni alla regione omologa nell’uomo

compromettono la capacità dell'individuo di modificare il comportamento in

modo adattativo (Baxter et al. 2000). La PFC svolge anche un ruolo chiave nelle

funzioni "esecutive".

Esse potrebbero essere considerata come l'organizzazione strategica dei fatti.

Ciò si può dimostrare con un particolare compito neuropsicologico in cui un

soggetto ascolta, con un preavviso minimo, un elenco di 16 articoli diversi che

possono essere acquistati in un supermercato, e poi gli viene chiesto di ripetere

l'elenco. La maggior parte dei soggetti riesce a ricordare solo alcuni degli

articoli; quindi, l'elenco viene letto ripetutamente e al soggetto viene chiesto di

ricordare gli articoli dopo ogni lettura. Solo dopo alcune ripetizioni si comincia

a capire che gli articoli rientrano in diverse categorie semantiche: quattro sono

articoli di ferramenta, quattro di frutta e così via. E con ciò si verifica una

transizione esecutiva, in cui la strategia di memoria si sposta dal ricordare

semplicemente le sequenze di oggetti al ricordarli raggruppati nelle loro

categorie. I soggetti con danni alla PFC non riescono a organizzare

gerarchicamente la lista in categorie. Questo raggruppamento esecutivo

rappresenta la strategia "più difficile" (ma alla fine più efficace), nella misura in

129
cui un soggetto deve inibire e fare un passo indietro rispetto alla strategia più

facile che consiste nel cercare di ricordare gli item nella sequenza in cui sono

stati letti (Delis et al. 1987). L'abilità della PFC di effettuare queste strategie

esecutive è la sua capacità di organizzare le informazioni sia in modo

sequenziale che categorico. Studi elettrofisiologici su primati non umani hanno

indicato che esistono neuroni della PFC che rispondono a sequenze o a

categorie di informazioni (Freedman et al.2001; Fujii & Graybiel 2003). Di

grande rilevanza, il ruolo della PFC di "polarizzazione verso fare la cosa più

difficile" riguarda anche la regolazione emotiva. Per esempio, in uno studio, ai

volontari veniva mostrato un filmato di una scena grafica e inquietante:

un'amputazione. Nel gruppo "osservare", i soggetti sono stati istruiti a fare ciò

che è più più facile, cioè essere semplicemente consapevoli delle sensazioni

(tipicamente forti e negativi) evocati dalla visione. Nel gruppo "rivalutare”, i

soggetti sono istruiti a svolgere il compito molto più difficile di regolare queste

emozioni, "in modo da non provare più risposte negative". E come dimostrato

dall'imaging funzionale del cervello durante questo compito, il compito di

rivalutazione più difficile comportava l'attivazione di regioni della PFC

(Ochsner et al., 2002). Risultati fortemente in accordo con questi risultati

provengono da studi condotti su individui con personalità repressa, individui

che sono altamente autoregolanti nella loro espressività emotiva. Questi

individui hanno tassi metabolici elevati nella PFC (Tomarken & Davidson

1994). La ricerca ha esplorato un esempio più sottile, forse, di fare la cosa più

130
difficile in ambito emotivo. Nella condizione di controllo, i volontari sottoposti

a imaging cerebrale funzionale dovevano riflettere su un compito puramente

cognitivo. Nella condizione sperimentale, veniva letto loro uno scenario in cui

qualcuno compiva un atto che potrebbe essere considerato inappropriato; i

soggetti venivano poi informati di una circostanza sfortunata nella vita di quella

persona che poteva mitigare il giudizio sull'atto inappropriato. Le regioni della

PFC risultavano costantemente attivate in quest'ultimo scenario, che richiedeva

empatia e perdono (Farrow et al., 2001). Questi risultati portano a considerare il

ruolo della PFC nel ragionamento morale. Diversi studi ben disegnati hanno

richiesto ai soggetti di fare un certo tipo di ragionamento morale (decidere quale

comportamento scegliere in una situazione moralmente ambigua) rispetto a un

ragionamento sul mondo fisico (ad esempio, valutare se un oggetto è più

pesante di un altro). Coerentemente, lo scenario di ragionamento morale attiva

in modo preferenziale parti della PFC (Greene et al. 2001; Schultz et al. 2001;

Heekeren et al. 2003; Moll et al. 2003). Inoltre, si è osservato che prendere una

decisione di fronte a un dilemma morale attiva più fortemente la PFC rispetto

alla semplice lettura di un dilemma morale (Moll et al., 2002). Un altro esempio

collega la PFC al ragionamento morale. Diversi tipi di epilessia hanno un

"focus" epilettico ­ in parti diverse del cervello, e i pensieri, le sensazioni o le

azioni poco prima di una crisi epilettica riflettono la regione cerebrale in cui la

crisi stessa inizia. Per esempio, un paziente epilettico con un focolaio di crisi

nella corteccia olfattiva potrebbe avere “un'aura" olfattiva subito prima di una

131
crisi epilettica. È sorprendente che alcuni pazienti epilettici i cui foci epilettici si

trovano nella PFC hanno una cognizione pre­crisi di un dilemma morale

irrisolto (Cohen et al. 1999). Un recente lavoro chiama in causa la PFC anche

nella sensazione di rimpianto. In un elegante disegno sperimentale, i soggetti

sono stati invitati a partecipare a un gioco d'azzardo. Nella condizione di

controllo, i soggetti facevano girare una "ruota della fortuna", producendo un

risultato gratificante o punitivo; quest'ultimo avrebbe provocato un senso di

delusione. Nel contesto sperimentale due ruote della fortuna sono state fatte

girare, e i soggetti dovevano scegliere di scommettere solo su una di esse.

Pertanto, in questa condizione, i soggetti non solo scoprivano se venivano puniti

o premiati, ma anche quale sarebbe stato il risultato se avessero scelto l'altra

ruota. Quest'ultimo sarebbe stato in un caso punitivo, nell’altro produceva un

risultato fortemente gratificante. Nei soggetti normali, ciò si traduceva in una

costellazione di cambiamenti affettivi, comportamentali e fisiologici (i) un

senso soggettivo di rammarico (per non aver scelto l'altra ruota) (ii) un

conseguente comportamento verso la scelta dell'altra ruota e (iii) un'accentuata

eccitazione del sistema nervoso simpatico. Al contrario, in un gruppo di pazienti

con un esteso danno alla PFC, nessuna delle risposte si è verificata (Camille et

al. 2004). Come fa la PFC a fare da mediatore nel fare la cosa più "difficile"?

Un modo per capirlo è verificare le parti del cervello a cui la PFC invia

proiezioni. PFC, invia ampie proiezioni al sistema limbico, in particolare

all'amigdala, una regione fortemente implicata nel comportamento aggressivo. È

132
sorprendente notare che negli esseri umani tassi metabolici elevati in alcune

parti della PFC (registrato con risonanza magnetica) predicono bassi tassi di

attività amigdaloidea (Urry et al. 2003). Questo aspetto neuroanatomico è

importante per cercare di capire la biologia della violenza. Possono esserci

notevoli somiglianze nell'output motorio e nella fisiologia associata (cioè il

comportamento vero e proprio, i cambiamenti nella frequenza cardiaca, nella

pressione sanguigna e così via) quando un cecchino fa fuori i soldati nemici e

quando un cecchino colpisce a caso gli automobilisti che si spostano la sera.

Tuttavia, una circostanza fa guadagnare medaglie e il plauso della società, e

l'altra la pena di morte. Il sistema limbico può funzionare in modo

approssimativamente simile in entrambi i contesti.

La PFC invia anche proiezioni a gran parte del resto della corteccia e a regioni

del cervello che avviano i movimenti. In questo ambito, molte di queste

proiezioni sono eccitatorie. Tuttavia, non si deve pensare che questi output

"attivino" (cioè, in senso altamente schematico, "causino" un pensiero nella

corteccia o "causino" un'azione da queste vie motorie). Invece, hanno lo scopo

di influenzare una particolare uscita rispetto a un'altra.

È interessante notare che ci sono connessioni della PFC con il sistema limbico,

la parte del cervello nei mammiferi coinvolta nell’ elaborazione delle emozioni.

Queste connessioni spiegano perché emozioni forti possono avere un impatto

negativo sulla qualità delle funzioni esecutive, aumentando la probabilità di fare

scelte imprudenti o impulsive. Probabilmente la connessione più interessante

133
della PFC, in questo contesto, è un percorso che ha origine nel tegmento

ventrale e che passa attraverso il nucleo accumbens. Questa via anatomica è da

tempo nota per essere coinvolta nella mediazione del piacere e della

ricompensa, essendo un sito robusto di "autostimolazione". Il ruolo centrale di

questa via è il fatto che questa proiezione utilizza il neurotrasmettitore

dopamina, che è stato a lungo implicato nel piacere e nella ricompensa. Per

esempio, le droghe euforizzanti, come la cocaina, aumentano il rilascio della

dopamina in questa via. Inizialmente, ci si aspettava che questa proiezione

dopaminergica avrebbe provocato l'attivazione della PFC in risposta alla

ricompensa. Ad esempio, si consideri un compito in cui una scimmia addestrata

(i) riceve un segnale (per esempio una luce) che indica l'inizio di una sessione di

test per un compito che la scimmia ha imparato a padroneggiare (ii), la scimmia

completa il compito, dando così inizio a una latenza fino al(iii) rilascio della

ricompensa. In un paradigma di questo tipo, i neuroni dopaminergici sarebbero

fortemente reattivi nel periodo (iii), così come alcuni neuroni della PFC.

Tuttavia, unico della PFC, ci sarebbe un numero sostanziale di neuroni che

rispondono invece ai periodi (i) e (ii) (Schultz et al. 2000). Quindi, criticamente,

le interazioni dopamina­PFC

non riguardano tanto la ricompensa, quanto l'anticipazione della ricompensa. In

uno studio, le scimmie rhesus sono state addestrate a svolgere due compiti

diversi. In entrambi i casi, c'era uno stimolo iniziale che segnalava l'inizio del

134
compito. La scimmia eseguiva poi il compito, seguito da un segnale che

indicava se la risposta della scimmia era corretta. Solo in uno di questi due

compiti, tuttavia, il segnale "corretto" era seguito da una ricompensa in cibo.

Si è visto registrando elettrofisiologicamente che i neuroni della PFC

distinguono tra l'anticipazione del feedback che indica un'azione corretta e il

feedback che indica un'azione corretta accoppiata a una ricompensa alimentare

(Matsumoto et al. 2003). L'attivazione della PFC in previsione di una

ricompensa è al centro della sua funzione. Come qualsiasi altra via del sistema

nervoso, la forza della proiezione dopaminergica nella PFC può cambiare. Tale

plasticità potrebbe assumere la forma di una maggiore capacità di sostenere il

rilascio di dopamina quando l'intervallo tra l'inizio di un compito e la sua

ricompensa aumenta. Questo costituirebbe la base neurale di una

capacità di autodisciplina e di rinvio della gratificazione. Questa panoramica

molto ampia (e semplicistica) della funzione PFC ci permette di apprezzare le

circostanze in cui la funzione della PFC è compromessa in un essere umano. Gli

esseri umani costituiscono un caso speciale quando si considera questa regione

cerebrale. Nonostante l'evidenza che la PFC nei roditori e nei primati non umani

regolano la cognizione e il comportamento in modi del tutto simili a quelli

dell'uomo, siamo la specie più "frontale", nella misura in cui la corteccia

frontale è la più grande, sia in termini assoluti e relativa, nell'uomo (Rilling &

Insel 1999). ll primo ambito da considerare in cui la funzione della PFC è

135
compromessa negli esseri umani è, ragionevolmente, durante lo sviluppo. I

bambini mostrano solo una funzione frontale minima, dal punto di vista

della cognizione (ad esempio, nei compiti di inversione, di regolazione

emotiva, di controllo del comportamento, e di ragionamento morale). Uno dei

miti dello sviluppo infantile è che il cervello sia completamente sviluppato in

un'età notevolmente precoce (l'età di 3 anni è probabilmente la più spesso citata

(Bruer 1999). Invece, lo sviluppo del cervello è molto più prolungato e, non a

caso, la PFC è l'ultima regione del cervello a mielinizzarsi completamente. È

sorprendente che questo processo si estende ben oltre l'adolescenza fino alla

prima età adulta (Paus et al. 1999). Vari stati transitori possono compromettere

la funzione della PFC. Come lo stress. È stato dimostrato che uno stress grave

e/o prolungato ha provocato disturbi d'attenzione, di capacità di giudizio e altre

funzioni della PFC, e questo è stato dimostrato in modo più formalmente sia

nell’uomo che negli animali (Arnsten 2000; Sapolsky 2004). Per dare un senso

a tutto ciò, bisogna che la PFC contenga alcuni dei più alti livelli di recettori per

gli ormoni dello stress nel cervello dei primati (Sanchez et al. 2000). Inoltre, lo

stress o gli ormoni dello stress alterano drasticamente il turnover di diverse

classi di neurotrasmettitori nella PFC (Moghaddam et al. 1994; Arnsten2000).

La funzione della PFC è compromessa anche in un'altra circostanza

sperimentata da tutti gli individui. Con l'insorgere del sonno e con la transizione

verso il sonno profondo a onde lente, si verifica una caratteristica

136
diminuzione dell'attività in tutto il cervello, in particolare nella corteccia.

Tuttavia, con la transizione al sonno paradosso con movimento rapido degli

occhi (sonno REM), si registra un aumento dell'attività in diverse regioni

cerebrali, tra cui la corteccia associativa e il sistema limbico.

Sorprendentemente, il tasso metabolico può essere addirittura superiore a quello

dei periodi di veglia. Nel corso di questo cambiamento, c'è una cessazione quasi

completa dell'attività nella PFC, producendo un cervello relativamente attivo dal

punto di vista metabolico che non è vincolato dagli effetti regolatori della PFC

(Braun et al. 1998). È stato ipotizzato che è per questo che i sogni sono

caratterizzati da labilità emotiva, pensiero non sequenziale e estrema

disinibizione (Sapolsky , 2001). La funzione della PFC è spesso compromessa

anche durante l'invecchiamento normale. Spesso si ha l'idea errata che

l'invecchiamento cerebrale comporti una perdita massiccia di neuroni. Questo

errore è il risultato di alcuni studi precoci e influenti in cui le malattie

dell'invecchiamento (in particolare le demenze) non erano considerate come

distinte dall’invecchiamento normale. In realtà, c'è solo una regione cerebrale in

cui si verifica la perdita della maggior parte dei neuroni durante il normale

invecchiamento (la substantia nigra), e solo poche altre regioni in cui si verifica

una perdita anche moderata di neuroni. La PFC è tra queste e, di conseguenza, il

normale invecchiamento comporta un lieve grado di compromissione delle

funzioni frontali in diversi ambiti (Coleman & Flood 1987; Coffey et al. 1992;

Tisserand & Jolles 2003). Prendiamo ora in considerazione i deficit della PFC

137
più rilevanti che si manifestano quando la corteccia frontale è danneggiata.

Questa letteratura ha origine con Phineas Gage, probabilmente il paziente più

famoso nella storia della neuropsicologia. La PFC di Gage fu distrutta in modo

selettivo in un incidente industriale circa 155 anni fa, e lo trasformò,

praticamente da un giorno all'altro, da un taciturno e affidabile caposquadra di

una squadra di costruttori ferroviari a un individuo rozzo, disinibito e instabile

che non fu mai più in grado di lavorare (MacMillan 2000). Da allora, un'ampia

letteratura collega il danno alla PFC con il controllo degli impulsi, il

comportamento antisociale e la criminalità (vedi Brower & Price 2001; Nyffeler

& Regard 2001), così come, in modo più quantificabile, con la cognizione e

comportamento "frontalmente disinibiti" nel contesto di test più formali. Si è

sempre più convinti che l'età in cui si verifica il danno alla PFC può essere

critico (Damasio 1998; Brower & Price 2001; Moll et al. 2003). Il quadro

generale è che il danno in qualsiasi momento dopo l'adolescenza produce un

adulto dal comportamento marcatamente impulsivo, e con una scarsa capacità di

previsione o di valutazione delle conseguenze future quando si trova in una

situazione di eccitazione emotiva. In tutto questo, l'intelligenza generale e le

funzioni esecutive possono rimanere intatte. Al contrario, quando il danno si

verifica in tenera età, la funzione esecutiva risultano compromesse e

l'impulsività assume una natura più globale e maligna che è stata definita

sociopatia acquisita", in cui i comportamenti antisociali possono essere

marcatamente premeditati. La questione dello sviluppo cerebrale diventa

138
rilevante in individui con comportamenti sociopatici e antisociali in cui non c’è

una storia evidente di danno alla PFC. Nonostante non ci sia nulla di

dimostrabile e neurologicamente "sbagliato" in questi individui, un'abbondante

letteratura dimostra che la loro PFC funziona comunque in modo diverso

rispetto alla maggior parte degli altri individui. Per esempio, il tasso metabolico

basale nella PFC è ridotto nei sociopatici (Raine 2002). Inoltre, quando i

sociopatici devono impegnare la PFC (per esempio, durante i test

neuropsicologici quando cercano di eseguire con successo un compito

impegnativo), attivano maggiormente la PFC rispetto agli individui di controllo

per raggiungere lo stesso livello di efficacia (Abbott 2001). È importante notare

che, tra questi individui sociopatici, più il volume della PFC è piccolo (anche in

questo caso, non c'è una storia di danni evidenti alla PFC), maggiore è la

tendenza al comportamento aggressivo e antisociale (vedi Brower & Price

2001). Probabilmente la causa più comune di un danno importante alla PFC

nell'uomo è secondaria a un ictus. Tale danno ischemico determina una elevata

compromissione in test cognitivi della funzione frontale, nonché

comportamentale e affettiva (Lezak 1995). Lo stesso si osserva nella demenza

fronto­temporale/Pick, un raro disturbo neurodegenerativo in cui la perdita dei

neuroni si concentra inizialmente nella PFC (Chow et al. 2002). Poiché gli ictus

e tali demenze sono situazioni in cui un adulto cognitivamente integro in

precedenza perde la funzione corticale (a differenza di quanto avviene, ad

esempio, per un bambino di 3 anni che non ha ancora sviluppato la funzione

139
frontale), questo può fornire una dellecaratteristiche più straordinarie del danno

alla PFC. Durante i test neuropsicologici, il paziente potrebbe dire, in effetti,

"Lo so, come funziona questo test", dovrei scegliere questo test più difficile

perché mi dà una ricompensa maggiore, quindi è proprio quello che farò...". ..."

prima di scegliere impulsivamente il più facile" (Lezak 1995). Così, il paziente

danneggiato frontalmente può verbalizzare la sua dissociazione tra la

conoscenza della risposta giusta e l'essere in grado di agire sulla base di tale

conoscenza. Siamo giunti a riconoscere numerosi ambiti in cui una anormalità

biologica dà origine a un comportamento aberrante. E tale riconoscimento ha

spesso dato origine all'aspettativa che le persone esercitino un controllo di

ordine superiore su quella anormalità. Ad esempio, non considereremmo mai

violento un epilettico che colpisce qualcuno durante una di una crisi epilettica:

"non è lui, è la sua malattia". Tuttavia, ci aspettiamo che quell'epilettico non

guidi un'auto se le sue crisi sono incontrollate. Oppure stiamo imparando a

comprendere la neurochimica della ricaduta contesto­dipendente nella

dipendenza da droghe negli organismi. Pertanto, ci aspettiamo che gli ex

tossicodipendenti evitino i contesti in cui hanno precedentemente abusato di

droghe. C'è una falsa dicotomia in questo modo di pensare. È come se

delimitassimo artificialmente un'area in cui la biologia domina. Sì, c'è qualcosa

di organico che fa sì che questa persona abbia scariche neuronali incontrollate e

sincrone (cioè una crisi epilettica), o che ha determinate vie potenziate che si

proiettano sulle vie del "piacere" che rilasciano dopamina (una teoria sulla

140
neurochimica delle ricadute da abuso di sostanze). Ma è come se, una volta

identificata e accreditata quell'area di compromissione organica identificata e

accreditata, ci aspettassimo che sia delimitata e che per il resto del nostro "noi",

dotato di libero arbitrio, si assuma ora la responsabilità di mantenere la

compromissione organica entro i suoi confini. Non è possibile che funzioni così.

La letteratura sulla PFC mostra che esiste una neurobiologia riduttiva e

materialistica del contenimento, con conseguente potenziale di compromissione

del controllo volitivo, inequivocabilmente come qualsiasi altro aspetto della

funzione cerebrale. È possibile conoscere la differenza tra giusto e sbagliato ma,

per motivi di compromissione organica, non essere in grado di fare la cosa

giusta. L'implicazione più evidente riguarda il modo in cui gli individui con

danni dimostrabili alla PFC sono trattati nel sistema di sistema giudiziario

penale. Come abbiamo già detto però bisogna sottolineare che esisto individui

con danni sostanziali alla PFC che, tuttavia, non commettono reati. Attualmente,

sapere che una persona ha subito un danno alla PFC non dà molta capacità di

prevedere se la disinibizione di questa persona assumerà la forma di un

omicidio seriale. Questo sembra indebolire l'argomentazione "la volizione può

essere organicamente compromessa, proprio come qualsiasi altro aspetto della

funzione cerebrale"; in questi interstizi di imprevedibilità sembra risiedere il

libero arbitrio. Tuttavia, possiamo iniziare a immaginare dei diagrammi ad

albero di variabili che, con ogni nuovo strato, aggiungono maggiore potere

predittivo. Possiamo già vedere due livelli nel campo della funzione PFC. Il

141
primo livello potrebbe essere quello della domanda "PFC: normale o

danneggiata? (pur riconoscendo che si tratta di una falsa dicotomia). Il secondo

potrebbe chiedere: "Se danneggiata: nell'infanzia o più tardi?". Questa stessa

struttura di crescente potere predittivo

è stata dimostrata in un recente studio di riferimento sulla depressione clinica.

Una particolare variante del gene 5­HTT (che codifica per una proteina che

regola i livelli sinaptici del neurotrasmettitore serotonina) aumenta il rischio di

depressione. Tuttavia, "5­HTT: variante pro­depressiva o altra variante?"

fornisce solo un potere predittivo moderato, ma gli autori hanno poi dimostrato

l'aggiunta di un secondo strato, " la variante pro­depressiva: grandi fattori di

stress durante l'infanzia o no?" genera ora un impressionante potere predittivo

su quali adulti soccombono alla depressione clinica (Caspi et al. 2003). Se il

libero arbitrio si nasconde in questi interstizi, questi spazi si stanno certamente

restringendo. Un secondo modo in cui i risultati relativi alla PFC sono rilevanti

per il sistema giudiziario riguarda gli individui che hanno commesso crimini

grottescamente violenti e sociopatici, ma che non hanno danni dimostrabili alla

PFC. Inizialmente, sembra una fatua tautologia affermare che deve esserci

un'anormalità organica in questi casi: "è solo un cervello organicamente

anormale che produce un comportamento anormale", e che semplicemente non

abbiamo tecniche sufficientemente sensibili per dimostrarlo. Tuttavia, va

142
sottolineato che la maggior parte delle tecniche neurobiologiche utilizzate per

dimostrare le anomalie della PFC negli esseri umani (prevalentemente

strutturale e funzionale) non esistevano uno o due decenni fa. Sarebbe il colmo

dell'arroganza pensare che abbiamo già imparato a rilevare i modi più sottili in

cui il danno della PFC compromette il controllo volitivo.

Al contrario, probabilmente non riusciamo ancora a immaginare i modi in cui la

biologia può andare storta e compromettere quel tipo di controllo volitivo che

aiuta a definire chi siamo. I risultati sulla PFC sono rilevanti per il sistema

giudiziario rispetto a coloro che hanno una PFC normale e che non si sono mai

comportati in modo criminale. Tra i sociopatici senza danni evidenti alla PFC,

quanto più piccolo è il volume della PFC, tanto maggiore è la tendenza a

comportamenti aggressivi e antisociali (rivisto in Brower & Price 2001). Allo

stesso modo, come già detto, tra gli esseri umani senza danni neurologici o

storie di comportamento antisociale, più alto è il livello di attività metabolica in

parti della PFC, più bassa è l'attività dell'amigdala (Urry et al. 2003). C'è poco

supporto per l'idea che nell'ambito della funzione PFC vi sia una discontinuità,

una transizione che permetta di dicotomizzare tra una PFC sana in un individuo

che ci si aspetta abbia una capacità di regolare il comportamento, e una PFC

danneggiata in una persona che non è in grado di regolare il proprio

comportamento. La dicotomia non esiste. Una conclusione come questa ha

senso per i neurobiologi, ma può sembrare estranea agli studiosi di diritto.

143
L'enfasi sul continuo sembra contenere il pericolo di un mondo della giustizia

penale in cui non esistono colpe e solo cause precedenti.

Mentre è vero che, a un estremo logico, un quadro neurobiologico può

effettivamente eliminare la colpa, non elimina la necessità di intervenire con la

forza di fronte alla violenza o al comportamento antisociale. Capire non

significa perdonare o non fare nulla; mentre non si riflette se perdonare o meno

un'auto che, a causa di problemi ai freni, ha ferito una persona, si protegge

comunque la società da essa.

3.1 STUDI BIOSOCIALI DEL COMPORTAMENTO

ANTISOCIALE E VIOLENTO IN ADULTI E BAMBINI

Uno degli esempi più eclatanti di interazioni tra geni e ambiente negli studi

genetici sulla criminalità è rappresentato da un'analisi di cross­fostering della

microcriminalità (Cloninger, Sigvardsson, Bohman, & von Knorring, 1982). In

presenza di fattori di predisposizione sia ereditari che ambientali, il 40% degli

adottati è risultato criminale rispetto al 12,1% con il solo fattore ereditario, al

6,7% per quelli con un ambiente familiare cattivo, e al 2,9% quando erano

assenti sia i fattori genetici sia quelli ambientali. Ulteriori analisi hanno indicato

che lo stato occupazionale dei genitori biologici e adottivi erano le principali

variabili postnatali coinvolte in questa interazione non additiva. Cloninger e

144
Gottesman (1987) hanno successivamente analizzato i dati relativi alle femmine

per confrontarli con i risultati ottenuti per i maschi. Come ci si aspetterebbe, i

tassi di criminalità nelle femmine adottate sono molto più bassi rispetto a quelli

dei maschi, ma lo stesso modello interattivo è presente: i tassi di criminalità

nelle donne adottate sono maggiori quando sono presenti sia le influenze

ereditarie sia quelle ambientali, e questa interazione è responsabile del doppio

della criminalità rispetto a quella prodotta dalle sole influenze genetiche e

ambientali prese da sole. Cadoret e coll. (1995), in uno studio sull'adozione di

95 maschi e 102 femmine adottate i cui genitori avevano una personalità

antisociale e/o abuso di alcol, ha dimostrato che la personalità antisociale dei

genitori prediceva un aumento dell'aggressività e dei disturbi della condotta

nella prole, mettendo in evidenza fattori genetici. Inoltre, un ambiente familiare

adottivo avverso è risultato interagire con la personalità antisociale dell'adulto

nel predire l'aumento dell'aggressività nella prole. Un esempio interessante è

fornito da uno studio di Ge e coll. (1996) che ha dimostrato che i figli adottivi di

genitori biologici che avevano una personalità antisociale/abuso di sostanze

avevano una maggiore probabilità di mostrare comportamenti antisociali e ostili

nell'infanzia rispetto ai figli di genitori non antisociali e che non abusano di

sostanze. La prole antisociale, a sua volta, suscita nei genitori adottivi

comportamenti genitoriali negativi. Più in generale, è probabile che in futuro si

verifichino sviluppi eccezionali per quanto riguarda l'identificazione delle

condizioni specifiche che danno origine ai fattori di rischio che modellano il

145
comportamento criminale. Un'interazione di tipo diverso è stata riportata anche

da Christiansen (1977) in un'analisi dei dati sui gemelli danesi sulla criminalità.

Sebbene abbia riscontrato una significativa ereditabilità per la criminalità, ha

anche riscontrato che tale ereditabilità era maggiore a) in coloro che

provenivano da contesti socioeconomici elevati e (b) coloro che erano nati in

campagna. Diversi studi hanno rilevato che parametri psicofisiologici mostrano

una relazione più forte con il comportamento antisociale in coloro che

provengono da contesti sociali positivi che non presentano i classici fattori di

rischio psicosociale per la criminalità. Per esempio, anche se in generale il

livello della frequenza cardiaca a riposo è più bassa negli individui antisociali,

questa è una caratteristica particolarmente forte degli individui antisociali

appartenenti a classi sociali più elevate (Raine & Venables, 1984), rispetto a

coloro che provengono da una classe media che frequentano scuole private in

Inghilterra (Maliphant, Hume, & Furnham, 1990) e quelli provenienti da

famiglie integre e non disagiate (Wadsworth, 1976). Allo stesso modo, per

quanto riguarda il condizionamento classico della risposta psicogalvanica, una

ridotta attività di conduttanza cutanea caratterizza gli adolescenti antisociali di

classe sociale alta ma non bassa (Raine & Venables, 1981), criminali senza una

storia infantile interrotta dall'assenza dei genitori e dalla disarmonia dei genitori

(Hemming, 1981) e i delinquenti "privilegiati" (high SES31) che commettono

31 SES sta per Socioeconomic status

146
reati di evasione (Buikhuisen et al., 1984). Una spiegazione di questi risultati è

l'ipotesi della "spinta sociale". Secondo questa prospettiva, se un bambino

antisociale manca di fattori sociali che lo "spingono" o lo predispongono al

comportamento antisociale, allora i fattori biologici possono spiegare più

facilmente il comportamento antisociale (Mednick,1977; Raine & Venables,

1981). Al contrario, le cause sociali del comportamento criminale possono

essere più importanti dell'antisocialità in coloro che sono stati esposti a

condizioni familiari avverse. Questo non vuol dire che i bambini antisociali

provenienti da contesti familiari non integri non presenteranno mai fattori di

rischio biologici per comportamenti antisociali e violenti: è chiaro che lo

faranno. Il punto invece è che in queste situazioni il legame tra il

comportamento antisociale e i fattori di rischio biologico sarà più debole

(rispetto ai bambini antisociali provenienti da contesti sociali positivi), perché le

cause sociali del crimine camuffano il contributo biologico. Un'analisi

particolarmente approfondita è quella di Farrington(1997) per quanto riguarda

le interazioni statisticamente significative tra la frequenza cardiaca a riposo e le

variabili psicosociali. I ragazzi con una bassa frequenza cardiaca a riposo hanno

maggiori probabilità di diventare violenti da adulti se hanno anche un cattivo

rapporto con i genitori e se provengono da una famiglia numerosa. Allo stesso

modo, i ragazzi con una bassa frequenza cardiaca hanno una particolare

probabilità di essere giudicati aggressivi dai loro insegnanti se la madre è

rimasta incinta da adolescente, se provengono da una famiglia a basso reddito o

147
se sono stati separati da un genitore all'età di 10 anni (Farrington 1997). Fino a

poco tempo fa non si sapeva nulla dei fattori biologici che possono proteggere

dall'esito antisociale, ma ora ci sono alcune prove che l'aumento dell'eccitazione

autonomica possa giocare un ruolo di questo tipo. Alcuni adolescenti antisociali

desistono da ulteriori comportamenti antisociali, questi individui rispetto sia ai

ragazzi antisociali che diventano criminali che ai controlli non antisociali,

mostrano un aumento della conduttanza cutanea e cardiovascolare in un

campione inglese (Raine, Venables, & Williams,1995, 1996). Perché una bassa

attività autonomica dovrebbe predisporre a un comportamento antisociale e

criminale? Una prima teoria è quella dell’assenza della paura che suggerisce che

bassi livelli di eccitazione sono indicatori di bassi livelli di paura (Raine, 1993).

La teoria dell'assenza di paura è supportata dal fatto che l'insufficienza

autonomica fornisce anche la base per un temperamento senza paura o disinibito

nell'infanzia e nella fanciullezza (Fowles, Kochanska, & Murray, 2000; Kagan,

1994; Scarpa et al., 1997b). La seconda teoria che spiega la riduzione

dell’eccitazione è quella della ricerca degli stimoli (Eysenck, 1977; Quay, 1965;

Raine, 1993; Raine, et al, 1998). Questa teoria sostiene che un basso livello di

eccitazione rappresenta uno stato fisiologico spiacevole e che gli individui

antisociali cercano stimoli per aumentare i loro livelli di eccitazione e riportarli

a uno stato ottimale. Le teorie della ricerca di stimoli e dell'assenza di paura

possono essere complementari, in quanto un basso livello di eccitazione può

predisporre al crimine perché produce un certo grado di impavidità, e anche

148
perché incoraggia la ricerca di stimoli antisociali. In effetti, misure

comportamentali di ricerca di stimoli e di mancanza di paura, entrambe rilevate

all'età di 3 anni in un ampio campione, predicono il comportamento aggressivo,

all'età di 11 anni (Raine, Reynolds, et al., 1998). Fowles (1993) ha suggerito, in

alternativa, che ci sono due deficit attentivi negli individui antisociali, un deficit

di attenzione per stimoli neutri, e un altro deficit per quanto riguarda

l’anticipazione di eventi avversivi. La riduzione della conduttanza cutanea è

stata anche interpretata in relazione a un'ipotesi di disfunzione prefrontale del

comportamento antisociale (Raine, 1997). In breve, questa prospettiva sostiene

che un danno alla regione prefrontale del cervello porti ad anomalie

psicofisiologiche (riduzione della conduttanza cutanea e dell'eccitazione

autonomica) che predispongono a tratti e caratteristiche (ad esempio, ricerca di

stimoli, disinibizione, deficit di attenzione) che a loro volta predispongono al

comportamento antisociale. Inoltre, almeno sei studi hanno trovato

un’associazione tra un aumento delle MPA (minor physical anomalies) e un

aumento del comportamento antisociale nei bambini (Raine, 1993). Le anomalie

fisiche minori sono state associate a disturbi della gravidanza e si ritiene che ci

sia un marcatore di mal sviluppo neurale fetale verso la fine dei primi 3 mesi di

gravidanza. Le MPA sono anomalie fisiche relativamente piccole, che

consistono in caratteristiche come orecchie basse, lobi delle orecchie aderenti e

lingua solcata. Sebbene le AMP possano avere una base genetica, possono

anche essere causate da fattori ambientali che agiscono sul feto, come anossia,

149
emorragia e infezioni (Guy, et al,1983). Almeno tre studi hanno riscontrato che

le MPA interagiscono con i fattori sociali nel predire i comportamenti

antisociali e violenti. Mednick e Kandel (1988) hanno valutato gli MPA in un

campione di 129 ragazzi di 12 anni visitati da un pediatra esperto. Gli MPA

sono risultati correlati a comportamenti violenti, valutati 9 anni dopo, quando i

soggetti avevano 21 anni, anche se non ai reati contro la proprietà dove non

c’era violenza. Tuttavia, gli MPA hanno predetto la violenza solo nei soggetti

cresciuti in ambienti familiari instabili. L'effetto dell'esposizione fetale all'alcol

nell'aumentare il rischio di disturbi della condotta è ben noto (ad esempio, Fast,

Conry, & Loock, 1999; Olson et al., 1997; Streissguth, et al., 1999), ma

recentemente una serie di studi ha stabilito, al di là di ogni ragionevole dubbio

un legame significativo tra il fumo durante la gravidanza e il successivo

disturbo della condotta e i reati violenti (per una rassegna, si veda Raine, 1994).

Per esempio, Rasanen et al. (1999) hanno riscontrato un aumento di due volte

maggiore di reati violenti all'età di 26 anni nei figli di donne che fumavano

durante la gravidanza. Il fumo materno durante la gravidanza può essere un

importante fattore che contribuisce ai deficit cerebrali che si sono riscontrati nei

trasgressori adulti. La ricerca sugli animali ha chiaramente dimostrato gli effetti

neurotossici di due componenti del fumo di sigaretta, il monossido di carbonio

(CO) e la nicotina (si veda Olds, 1997). L'esposizione prenatale alla nicotina

prenatale, anche a livelli relativamente bassi, altera lo sviluppo del sistema

neurotrasmettitore noradrenergico e altera le funzioni cognitive (Levin, et al.,

150
1996). Le ratte gravide esposte alla nicotina hanno una prole con un

potenziamento dei recettori colinergici M2­muscarinici cardiaci che inibiscono

le funzioni autonome (Slotkin, et al., 1999). Ciò contribuirebbe a spiegare il

risultato, ben replicato, di una bassa frequenza cardiaca a riposo negli individui

antisociali, descritto in precedenza (Raine, 1993). Werner (1987) ha riscontrato

che le complicazioni del parto interagiscono con un ambiente familiare

disturbato (separazione materna, figlio illegittimo, discordia coniugale,

problemi di salute mentale dei genitori, assenza del padre) nel predisporre alla

delinquenza. Piquero e Tibbetts (1999), in uno studio prospettico longitudinale

su 867 maschi e femmine del Philadelphia Collaborative Perinatal Project,

hanno riscontrato che coloro che presentavano sia disturbi pre/perinatali che un

ambiente familiare svantaggiato avevano molte più probabilità di diventare

adulti violenti. Complicazioni del parto come l'anossia (mancanza di ossigeno),

parto forzato e preeclampsia (ipertensione che porta all'anossia) si ritiene che

contribuiscano al danno cerebrale, e potrebbero essere solo una delle numerose

fonti precoci di disfunzione cerebrale osservata nei bambini e negli adulti

antisociali. D'altra parte, come indicato in precedenza, le complicazioni alla

nascita potrebbero non predisporre di per sé alla criminalità, in presenza di

circostanze ambientali negative potrebbero scatenare la criminalità e la violenza

in età adulta. Inoltre, sebbene sia probabile che contribuiscano al danno

prefrontale, i loro effetti non sarebbero specifici di quest'area cerebrale, ma

avrebbero un impatto su più siti cerebrali, compreso l’ippocampo. È interessante

151
notare che recenti studi di imaging cerebrale hanno dimostrato che l'ippocampo

mostra un funzionamento anormale negli assassini (Raine, Buchsbaum, &

LaCasse, 1997), anormalità strutturali negli psicopatici (Laakso et al., 2001) ed

è particolarmente suscettibile all'anossia. Un campione di assassini è stato

suddiviso in quelli che provenivano da un contesto familiare relativamente

buono e quelli che provenivano da case relativamente cattive. Le valutazioni

della deprivazione psicosociale tenevano conto di abusi fisici e sessuali precoci,

negligenza, estrema povertà, affidamento a una casa­famiglia, genitore

criminale, abuso di minore gravi conflitti familiari e famiglie divise. Rispetto ai

controlli normali, gli assassini deprivati hanno mostrato un funzionamento

prefrontale relativamente buono, mentre gli assassini non deprivati hanno

mostrato un funzionamento prefrontale significativamente ridotto. In

particolare, gli assassini provenienti da buone case avevano una riduzione del

14,2% del funzionamento della corteccia orbitofrontale destra; un danno a

quest'area cerebrale provoca una riduzione del condizionamento alla paura,

nonché deficit di personalità e affettivi che si affiancano al comportamento

psicopatico dei criminali, o quello che Damasio e colleghi hanno definito

"sociopatia acquisita" (Damasio, 1994). Un importante studio (Raine, Park e

altri,2001) si è posto due domande principali: (a) quali sono i correlati cerebrali

di adulti nella comunità che hanno subito gravi abusi fisici all'inizio della vita e

che poi commettono gravi violenze in età adulta? (b) cosa caratterizza coloro

che hanno subito gravi abusi fisici ma che si astengono dalla violenza grave?

152
Sono stati reclutati quattro gruppi di partecipanti dalla comunità: (i) controlli

non violenti che non avevano subito abusi, (ii) solo maltrattamenti fisici gravi

(cioè, avevano subito gravi abusi fisici o sessuali nei primi 11 anni di vita), (iii)

solo violenze gravi (violenze che hanno causato lesioni fisiche o traumi, o che

hanno messo in pericolo la vita), (iv) autori di gravi abusi e gravi violenze. Tutti

i soggetti sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale (fMRI) mentre

eseguivano un compito di memoria di lavoro visiva/verbale. I risultati hanno

mostrato che gli autori di reati violenti che avevano subito gravi abusi da

bambini avevano un funzionamento ridotto dell'emisfero destro, in particolare

della corteccia temporale destra.

Gli individui abusati che si erano astenuti da gravi violenze hanno mostrato

un'attivazione relativamente più bassa a sinistra, ma più alta a destra, del lobo

temporale. Gli individui abusati, indipendentemente dallo stato di violenza,

hanno mostrato una ridotta attivazione corticale durante il compito di memoria

di lavoro, soprattutto nella parte sinistra del cervello. Questi risultati indicano

che un fattore di rischio biologico (disfunzione iniziale dell'emisfero destro), se

combinato con un fattore di rischio psicosociale (grave abuso fisico precoce)

predispone alla violenza grave. Suggeriscono inoltre che un funzionamento

relativamente buono dell'emisfero destro protegge contro la violenza nei

bambini che hanno subito abusi fisici. Moffitt (1990b) riferisce che ragazzi con

basse prestazioni neuropsicologiche e con avversità familiare avevano punteggi

di aggressività quattro volte più alti rispetto ai ragazzi che presentavano solo

153
avversità o solo deficit neuropsicologici. Mednick (1996) ha riscontrato che i

soggetti con deficit neuromotori precoci (comprese le complicazioni alla

nascita) e con un ambiente familiare instabile presentavano in seguito tassi più

elevati di problemi di comportamento in età adolescenziale e di reati penali e

violenti in età adulta rispetto a quelli con fattori di rischio solo sociali o solo

biologici. Un interessante caso di studio eseguito in Spagna descrive un uomo

che ha subito il passaggio di un chiodo di ferro nella testa, distruggendo

selettivamente la corteccia prefrontale; a differenza del caso di Phineas Gage,

questo individuo non ha avuto, nei 60 anni successivi, esiti antisociali o

criminali (Mataroet al., 2001). Mataro et al. (2001) hanno concluso che un

danno prefrontale può essere seguito da un funzionamento psicosociale stabile,

ma si può anche dare un'interpretazione diversa.È interessante notare che il

soggetto in questione aveva genitori benestanti che possedevano un'azienda di

famiglia nella quale avrebbe lavorato per il resto della sua vita, e che la sua

fidanzata (un amore d'infanzia) gli rimase accanto dopo l'incidente e lo sposò,

generando due bravi figli e una famiglia che, secondo le parole di uno dei figli,

lo ha "protetto" per tutta la vita. Si può sostenere che questo individuo non ha

sviluppato comportamenti antisociali e disfunzioni psicosociali perché il suo

ambiente familiare lo ha protetto da questi esiti negativi. Senza tale sostegno

psicosociale, il risultato potrebbe essere stato molto diverso. Inoltre, sebbene i

legami tra testosterone elevato e misure autodichiarate di aggressività siano

relativamente deboli (Archer,1991), esistono ora prove convincenti da un ampio

154
numero di studi comportamentali che dimostrano un legame tra il testosterone

alto e l'aumento del comportamento aggressivo e violento

(si vedano le recensioni di Archer, 1991; Dabbs, 1992; Harris, 1999; Mazur &

Booth, 1999; Raine, 2002). Particolarmente convincenti sono gli studi

sperimentali randomizzati, controllati con placebo, crossover in uomini normali

che dimostrano che la somministrazione di testosterone aumenta l'aggressività

(Pope et al., 2000). Tuttavia, sembra anche che, sebbene i legami tra

aggressività e testosterone siano ben stabiliti per quanto riguarda i

comportamenti aggressivi e violenti degli adulti, questa relazione può essere

assente, o addirittura invertita, per quanto riguarda l'aggressività durante

l'infanzia (Susman & Ponirakis, 1997; Tremblay et al, 1997). È ben dimostrato

che un testosterone elevato è associato sia ad un'elevata dominanza che ad un

elevato status socioeconomico, e mentre l'esperienza del successo aumenta il

testosterone, il fallimento lo riduce (Dabbs, 1992; Mazur & Booth, 1999). I

bambini aggressivi hanno maggiori probabilità di essere rifiutati dai coetanei a

scuola (Dodge, et al, 1997), e potrebbe essere questa ostracizzazione sociale e il

fallimento a livello accademico che riduce artificialmente i loro livelli di

testosterone. Questa interpretazione è supportata da due prove. In primo luogo,

Tremblay et al. (1997) riferiscono che i ragazzi di 13 anni che sono sia

fisicamente forti sia benvoluti hanno alti livelli di testosterone. In secondo

luogo, Tremblay et al. (1997) ha riscontrato che i ragazzi aggressivi hanno un

155
basso livello di testosterone all'età di 13 e 14 anni, il follow­up all'età di 16 anni,

dopo che il 30% aveva abbandonato la scuola, mostra che hanno un livello di

testosterone sostanzialmente più alto di quello dei ragazzi non aggressivi. È

possibile che i legami tra aggressività e testosterone si trovino negli autori di

reati violenti in età adulta perché sono in grado di usare meglio la loro

aggressività per aumentare il loro status di dominanza all'interno delle loro

sottoculture antisociali e raggiungere un certo grado di successo sociale. Moffitt

et al. (1997) hanno scoperto che sebbene gli autori di reati violenti avessero

livelli di serotonina nel sangue più elevati rispetto ai controlli, quelli con

serotonina elevata nel sangue e un contesto familiare conflittuale avevano una

probabilità tre volte maggiore di diventare violenti all'età di 21 anni rispetto agli

uomini con serotonina alta o con un background familiare conflittuale.

Analogamente, Masters, Hone e Doshi (1998) in un'analisi dei tassi di

criminalità violenta in 1.242 contee degli Stati Uniti hanno riscontrato

un'interazione a tre vie tra l'esposizione ambientale al piombo o al manganese,

l'alta densità di popolazione e i tassi di alcolismo. Gli studi biosociali sul

comportamento antisociale non devono limitarsi ai fattori di rischio e di

protezione, ma devono anche considerare le implicazioni della prevenzione a

due livelli. In primo luogo, le manipolazioni ambientali possono essere

utilizzate per alterare i fattori di rischio biologici. Ad esempio, un

arricchimento ambientale all'età di 3­5 anni, utilizzando un disegno

randomizzato e stratificato, ha portato a un aumento significativo

156
dell'eccitazione psicofisiologica e dell'attenzione 8 anni dopo, all'età di 11 anni

(Raine, Venables, et al., 2001). In secondo luogo, le influenze psicosociali

possono moderare gli effetti di un programma di prevenzione sul

comportamento antisociale. Ad esempio, Olds et al. (1998) hanno dimostrato

che un programma di prevenzione prenatale e postnatale ha avuto più successo

nel ridurre la delinquenza all'età di 15 anni nelle madri non sposate e con un

basso status economico rispetto alle madri meno svantaggiate. La ricerca

biosociale sui fattori di rischio e di protezione deve chiaramente essere una

priorità per creare una nuova generazione di programmi di prevenzione e di

intervento biosociali.

3.2 NEUROSCIENZE E DIRITTO: QUANDO LE

NEUROSCIENZE VENGONO UTILIZZATE NELLE AULE DI

TRIBUNALE.

Nel 2009 a Como una donna uccise la sorella maggiore, segregandola in casa e

costringendola ad assumere psicofarmaci in dosi tali da causarne il decesso.

Successivamente diede fuoco al cadavere. Indiziata per la scomparsa della

sorella e tenuta sotto controllo dalla polizia, durante un diverbio con la madre,

tentò di strangolarla con una cintura. L'imputata fu chiamata a rispondere non

solo per l’omicidio della sorella e il tentato omicidio della madre, ma anche per

la somministrazione di medicinali che procurarono al padre l’incapacità di


157
intendere e di volere e un ricovero ospedaliero. Inoltre, tentò anche di uccidere

entrambi i genitori cercando di far esplodere l’autovettura in cui si trovavano. Il

Gip che segui il processo condannò l’imputata a 20 anni di reclusione,

riconoscendole un vizio parziale di mente. La sentenza è nota per essere stata

supportata oltre che da accertamenti psichiatrici tradizionali, anche da analisi

neuroscientifiche, che rivelarono la morfologia del cervello e il patrimonio

genetico dell’imputata, costituendo un’importante conferma della validità delle

neuroscienze nell’accertamento dell’imputabilità. La perizia psichiatrica aveva

già riconosciuto nella donna la presenza di un quadro psichiatrico caratterizzato

dalla menzogna patologica e pseudologia fantastica, nonché una sindrome

dissociativa, ma il giudice ha basato la sua decisione anche sulla consulenza

neuroscientifica, che era stata richiesta dalla difesa dell’imputata. Nello

specifico, i consulenti tecnici di parte hanno evidenziato delle differenze nella

morfologia e nel volume delle strutture cerebrali, alterazioni nella densità della

sostanza grigia, in alcune zone chiave del cervello anche nei processi che

regolano la menzogna, oltre che nei processi di suggestionabilità ed

autosuggestionabilità e nella regolazione delle azioni aggressive. Infine, sono

stati disposti accertamenti genetici per verificare se la perizianda presentasse gli

alleli che, secondo la letteratura scientifica internazionale, sono

significativamente associati ad un maggior rischio di comportamento impulsivo,

aggressivo e violento. L'esito positivo di tali analisi ha poi portato alla

conclusione a favore del vizio parziale di mente. Essendo inoltre stata

158
riscontrata la pericolosità sociale, l’imputata è stata trasferita in una casa di cura

e di custodia prima di scontare la pena detentiva in carcere. Gli esiti delle

indagini di imaging cerebrale e di genetica molecolare hanno consentito di

acquisire elementi aggiuntivi a conforto della diagnosi classica, effettuata

all’origine. Le anomalie cerebrali riscontrate grazie all’impiego congiunto di

test della memoria (I.A.T e T.A.R.A), EEG, fMRI, hanno palesato nell’imputata

un aumento del rischio di sviluppare certi comportamenti, confermato anche

dagli accertamenti di genetica molecolare che hanno evidenziato la presenza di

alleli di suscettibilità. Da qui le conclusioni dei nuovi consulenti tecnici della

difesa circa l’assenza nell’imputata di una piena capacità di controllo dei propri

atti, o della capacità di indirizzarli, di percepirne il disvalore e di

autodeterminarsi liberamente. Negli ultimi anni la giurisprudenza di merito è

tornata a valutare le risultanze neuroscientifiche in relazione alla capacità di

intendere e di volere, in diverse sentenze, tutte attestanti, però, il ricorso alle

nuove metodologie solo dopo l’individuazione di disturbi psichici compiuta

attraverso indagini tradizionali. È accaduto così, ad esempio, nel caso di

Milano, in cui un uomo aveva ucciso a colpi di piccone diversi passanti

incontrati per caso per strada in una zona centrale della città lombarda. Il

tribunale di Milano, che si è occupato della vicenda, ha autorizzato il ricorso

alla strumentazione di brain imaging e alla genetica molecolare solo dopo la

formulazione di una diagnosi clinica di indirizzo condotta mediante gli

accertamenti classici che aveva verificato di una schizofrenia paranoide. La

159
perizia che ne è conseguita dunque ha compreso diversi elementi di indagine: da

quello psicologico e criminologico, a quello clinico­nosografico, assicurando il

coinvolgimento di più professionalità, tanto da rappresentare un valido modello

nell’ottica del condivisibile approccio multidisciplinare dello strumento. La

presenza di diversi campi di osservazione si rivela infatti il miglior metodo per

l’inquadramento e il superamento delle numerose criticità solitamente legate a

questo tipo di accertamento. Analogamente ha operato il tribunale di Piacenza

relativamente ad un imputato padre di un bambino di due anni, “dimenticato”

per alcune ore in macchina fino all’avvenuto decesso. Anche in questo caso,

infatti, l’impiego della metodologia di tipo neurologico è stato disposto a

supporto di una diagnosi di “amnesia dissociativa”, già formulata dal perito

attraverso le tradizionali indagini cliniche. In questa circostanza il padre del

bambino è stato ritenuto incapace di intendere e di volere al momento del fatto,

dopo la conferma del riscontro di anomalie nelle prestazioni della memoria.

È significativo che nonostante il breve lasso di tempo che separi due pronunce,

peraltro della stessa sezione, la corte abbia invero sostenuto in merito due cose

opposte. La prima sentenza riguardava un imputato condannato per l’omicidio

del fratello e della famiglia di lui, ma dichiarato seminfermi di mente in primo

grado, a seguito di una perizia condotto con metodi tradizionali, che aveva

riconosciuto uno stato bordeline di personalità. In appello, la difesa aveva

chiesto la rivalutazione della capacità di intendere e di volere del soggetto sulla

160
base di valutazioni di tipo neuroscientifico, volte a riscontrare l’incidenza di un

trauma subito da piccolo. La richiesta venne tuttavia respinta dai giudici che

ritennero non sufficientemente affidabili gli strumenti proposti. La cassazione,

sostanzialmente riprendendo le motivazioni della Corte d’appello, ha poi

affermato che le neuroscienze non godrebbero ancora di un’adeguata verifica da

parte della comunità scientifica di riferimento e dunque di un grado sufficiente

di affidabilità, avendo avuto ancora una scarsa applicazione e che semmai

avrebbero potuto avere una maggiore rilevanza nel caso in cui fosse stata

diagnosticata nell’imputato un’anomalia di tipo genetico ed organico. La

seconda pronuncia riguarda invece l’annullamento con rinvio di una condanna

in Appello a carico di un serial killer. La cassazione ha in questo caso ritenuto

che le deduzioni difensive, basate anche sull’esame dell’encefalo dell’imputato

con risonanza magnetica nucleare, che aveva riscontrato un disturbo esplosivo

intermittente, avrebbero potuto fondare la richiesta di una più accurata indagine

sulla capacità di volere del soggetto, mentre erano state trascurate dalla corte

d’appello. La diversità delle valutazioni sul valore delle neuroscienze

rappresenta probabilmente il riflesso più evidente del livello ancora

sperimentale di questi studi e di molte tecniche neuroscientifiche. Più lineare

appare una sentenza più recente in cui la Cassazione ha respinto la richiesta

della difesa di un imputato condannato per omicidio doloso, al quale non erano

state riconosciute le attenuanti generiche, ex art. 62 bis c.p., pur se portatore di

disfunzioni genetiche emerse in una consulenza tecnica e determinanti dei suoi

161
comportamenti aggressivi e impulsivi. La corte ha infatti motivato la sua scelta

ritenendo non superati i criteri di Daubert32, posto che gli studi chiamati a

supporto della tesi di un nesso causale tra assetto genetico ed azioni violente,

erano stati tarati su campioni delle popolazioni piuttosto piccoli e inclusivi

peraltro di soggetti con tratti psicopatici e/o disturbi antisociali di personalità,

caratteristiche queste non presenti nell’imputato.

Nell‘analisi dei rapporti tra neuroscienze e imputabilità, merita qualche accenno

anche la capacità di intendere e di volere dei minori. Se infatti per l’adulto

l’imputabilità è sempre presente, salvo la sussistenza di cause di esclusione o di

limitazione della stessa, per i minori la disciplina è, come noto, variegata. La

fascia di età più problematica riguarda i minori autori di reati che hanno già

compiuto 14 anni ma non ancora 18, richiedendo una valutazione caso per caso

della raggiunta maturità. In una prospettiva più recente è possibile rinvenire

anche in questo ambito, analogamente a quanto osservato per il vizio di mente,

una base multifattoriale degli elementi che contribuiscono a determinare la

capacità di intendere e di volere dell’adolescente. Entrano in gioco, in altri

termini, componenti di tipo biologico, psicologico, sociologico, culturale e

ambientale. Le neuroscienze valorizzano invece i fattori di tipo organico e

genetico tra quelli che più influenzano le capacità cognitive dei minori, in

32la presenza della giuria nel processo americano, e dunque il pericolo di una sua facile suggestionabilità ha
posto in primo piano l’esigenza di evitare l’ingresso nel processo della scienza spazzatura (junk science o bad
science), questi criteri possono essere riassunti in: Attendibilità, validità, generalizzabilità, credibilità,
falsificabilità, blind per review, accettabilità, controllo metodologico, affidabilità, validità incrementale, validità
(accuratezza dello strumento), sensitività, specificità.

162
quanto l’immaturità neuro funzionale, psicologica e relazionale, comporta

nell’infante una incapacità di autocontrollo e di pianificazione dei

comportamenti. L'immaturità coincide pertanto col mancato sviluppo o con una

disfunzione del sistema frontale del cervello, cui sono legate, come osservato, le

funzioni esecutive. Anche in questo caso, tuttavia, così come già evidenziato per

l’accertamento dell’infermità mentale, prevale negli studi più recenti,

un’attenzione per il “cervello sociale”, dando rilevanza, oltre ai fattori

prettamente biologici, pure a quelli sociali, affettivi e alle caratteristiche

personologiche del minore. Diventa pertanto inammissibile l’esistenza di un

determinismo genetico anche rispetto al minore, mentre è plausibile parlare di

vulnerabilità dell’uomo ai fattori ambientali. Tutto ciò considerato, vale per

l’indagine sulla maturità del minore, così come per quella sulla capacità di

intendere e di volere dell’adulto, l’esigenza di una perizia multidisciplinare.

“Con l’avvento delle moderne neuroscienze forensi esistono i presupposti per

una innovazione vera del processo, non attraverso una sostituzione, ma

mediante un arricchimento della tradizionale valutazione psichiatrico­forense. Il

dato neuroscientifico, infatti, consente di aggiungere informazioni essenziali per

la comprensione del caso, non disponibili con l’approccio tradizionale” (Sartori;

Zangrossi, 2009). Si tratta di un’affermazione che anche chi scrive condivide,

sia pur con qualche cautela e con una necessaria precisazione preliminare:

quando Sartori e Zangrossi (2009) parlano di tradizionale valutazione

psichiatrico­forense, si riferiscono, in realtà, alla valutazione basata sul

163
colloquio clinico, che è caratterizzato da un elevato tasso di soggettività, e su

test proiettivi come il Rorschach. Ma questo è un approccio che la

neuropsicologia, che indaga gli effetti comportamentali di lesioni o disfunzioni

cerebrali e li correla con esse, ha messo da parte ormai da decenni. Vale la pena

di ricordare qui che lo stesso Ennio De Renzi, il fondatore della neuropsicologia

in Italia, iniziò le sue ricerche proprio con il test di Rorschach, subito

abbandonandolo in quanto fonte di dati poco attendibili e scarsamente

riproducibili. Non si tratta, quindi, di creare una “neurogiurisprudenza” o una

“neurocriminologia”33, aggiungendole al catalogo delle “neuro­manie”34, ma di

utilizzare al meglio, anche nell’ambito del diritto e del processo penale, le

nuove conoscenze offerte dalle neuroscienze cliniche35.

3.3 L’EMPATIA NEGATIVA: il punto di vista del male

Recenti studi empirici hanno posto l’accento sulla differenza tra empatia

positiva e negativa. Le neuroscienze sociali e dello sviluppo hanno mostrato che

empatia positiva e negativa­ sebbene strettamente correlate e riconducibili a un

comune processo empatico­ attivano ognuno specifiche regioni cerebrali.

33 A. Forza, La psicologia nel processo penale: pratica forense e strategie, Milano, Giuffrè, 2010.
34 P.Legrenzi, C. Umiltà, Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo, Bologna, Il Mulino, 2009.
35 qui con il termine neuroscienze cliniche gli autori si riferiscono alla neuropsicologia, alla neurologia

comportamentale, alla neurologia clinica, alla neuroradiologia, alla neurofisiologia clinica, alla neurogentica, a
tutte quelle discipline neuro-, che consentono di stabilire la presenza di una lesione o disfunzione cerebrale, la
sua causa e gli eventuali deficit (sensorimotori e comportamentali) associati. Per ulteriori riferimenti, G. Vallar,
C. Papagno, Manuale di neuropsicologia. Clinica ed elementi di riabilitazione.

164
Nonostante entrambe sollecitino la corteccia prefrontale mediale e quella

dorsomediale­ aree del cervello associate con la valutazione degli stati mentali

delle altre persone, ­ l’empatia positiva attiva aree connesse a stimoli positivi (la

corteccia prefrontale ventromediale); quella negativa, invece, aree legate a

stimoli negativi (l’insula anteriore e la corteccia cingolata dorsale anteriore).

Empatia positiva e negativa sembrano inoltre essere legate a diversi tipi di

emozioni e comportamenti. L'empatia positiva, a differenza di quella negativa,

parrebbe essere associata a “comportamenti che aumentano la positività” in

condizioni normali e situazioni quotidiane: gesti inaspettati di cortesia, per

esempio, segnalerebbero la tendenza dell’empatia positiva ad accrescere le

emozioni positive e il benessere degli altri, anche al di là di più classici e

angosciosi scenari empatici, come il prestare aiuto a persone in stato di bisogno.

L'empatia negativa, invece, sembrerebbe intrattenere un forte legame con

comportamenti prosociali; legame dimostratosi ben saldo fin dagli studi

condotti da C. Daniel Batson negli anni Ottanta del secolo scorso. Le definizioni

operative di empatia positiva e negativa data dalla psicologia e dalle

neuroscienze sociali e dello sviluppo sono semplici e strettamente funzionali

alla ricerca empirica: l’empatia positiva è definita come l’empatia per le

emozioni positive di altre persone; l’empatia negativa, come l’empatia per le

emozioni negative altrui. Tuttavia, se si guarda al dibattito filosofico e alle

prime ipotesi sull’empatia formulate fra Otto e Novecento, soprattutto nel

campo dell’estetica, le definizioni si fanno più problematiche e sfuggenti, in

165
particolare riguardo l’empatia negativa. Insieme allo storico dell’arte Robert

Vischer, che fu il primo a usare la parola Einfuhlung (sentire dentro, ma resa in

italiano con empatia) come termine tecnico della discussione filosofica, fra il

XIX e il XX secolo, lo psicologo e filosofo tedesco Theodor Lipps ebbe un

ruolo chiave nello sviluppo di una comprensione sistematica della nozione di

empatia; nozione sempre più al centro delle sue ricerche specie a seguito delle

critiche in senso antipsicologista mossegli da Edmud Husserl nelle ricerche

logiche. Secondo Lipps, che curò e tradusse l’edizione tedesca del trattato sulla

natura umana di David Hume­ uno dei testi fondativi del dibattito sulla

sympathy nel XVIII secolo, assieme all’inchiesta sul bello e il sublime di

Edmud Burke e alla Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, ­ sono tre le

fonti essenziali della conoscenza: percezioni, introspezione ed empatia.

L'empatia è intensa come un fenomeno che riguarda sia la cognizione, sia la

sfera emotiva, ed è definita primariamente come l’oggettivazione di sé in un

oggetto altro. Benchè Lipps fosse interessato all’empatia anche come strumento

d’indagine delle relazioni interpersonali, per lo più si occupò, come Vischer

dell’empatia rivolta agli oggetti. Nella sua prospettiva, gli oggetti possono

essere visti come “quasi­soggetti”, in grado di attivare un loop cognitivo ed

emotivo in cui individuo e mondo si presentano come un’unità fusionale,

secondo un doppio movimento di oggettivazione del sé e di soggettivazione del

mondo. Lipps considera l’empatia come una sorta di meccanismo di imitazione

interna e di risonanza, un auto­attivazione che si verifica quando stabiliamo una

166
relazione con un oggetto in modo da fare esperienza, per quanto riguarda quello

specifico oggetto, di un’attività o di una modalità di auto­attivazione come

qualcosa che appartiene a quell’oggetto. A seconda dei casi, una simile

esperienza di auto­attivazione può essere positiva o negativa:

“in un caso accolgo in me senza attriti l’attività e provo percio un sentimento di

accordo fra ciò che si pretende da me e la mia spontanea attività. Nell'altro caso,

invece, insorge un conflitto tra me e l’aspirazione naturale della mia auto­

attivazione da un lato, e quell’auto­attivazione che mi viene richiesta o che si

introduce in me, e provo pertanto un sentimento di conflitto. Designo il primo

stato di cose come “empatia positiva”, il secondo come “empatia negativa”. Per

Lipps, il sentimento di accordo è una sensazione di piacere legata all’oggetto,

mentre la sensazione di confilitto è una sensazione di non­piacere. In entrambi i

casi, l’auto­attivazione è vissuta come una sollecitazione proveniente

dell’oggetto. Nell'empatia positiva, il soggetto acconsente in modo libero e

consapevole a questa sollecitazione, laddove, nell’empatia negativa, il soggetto

fa esperienza di una resistenza contro qualcosa che è percepito come una

richiesta ostile da parte dell’oggetto36, una resistenza contro l’introduzione di

qualcosa di spiacevole dentro di sè, che genera un distacco interiore.37

Secondo Lipps l’empatia autentica è solo quella positiva, perché permette una

compenetrazione emotiva e cognitiva completa fra il soggetto che empatizza e

36 Lipps, ”Empatia e godimento estetico”, cit, p.38.


37 Lipps, ”Fonti della conoscenza”, cit., p.53

167
l’oggetto empatizzato in una sorta di sé unico ed esteso. Nell'empatia negativa,

invece, più che essere connessi a un oggetto, ci troviamo, per Lipps, di fronte a

esso. Ciò comporta una partizione “del nostro Io unitario, da cui scaturisce la

coscienza della molteplicità degli individui”38. Sebbene non sia sempre chiaro

se, quando usa la parola oggetto, si riferisca solo agli oggetti comunemente

intesi, o anche agli oggetti estetici, quando Lipps discute esplicitamente di

questi ultimi, i termini della sua analisi in parte cambiano. Lipps afferma che

diciamo bello l’oggetto dell’empatia positiva; brutto, quello dell’empatia

negativa. Nella vita di tutti i giorni, Lipps considera la bellezza e la bruttezza, al

pari dell’empatia positiva e negativa, rispettivamente come un’affermazione e

una negazione della vita del soggetto empatizzante. Nella sfera estetica, invece,

possiamo senz’altro reputare belle e piacevoli opere d’arte che rappresentano

esseri umani sofferenti, malvagi o ripugnanti, emozioni negative come

l’angoscia, o eventi tragici39. In altre parole, possiamo provare empatia e avere

un’esperienza di intensa affermazione vitale anche se stiamo assistendo alla

rappresentazione di qualcosa d’intrinsecamente negativo. Stando a Lipps

l’empatia negativa sarebbe, infatti, impossibile nel momento in cui stabiliamo

una relazione empatica con un oggetto artistico, e questo essenzialmente per due

motivi. Innanzitutto, la natura estetica dell’oggetto con cui stiamo empatizzando

ci protegge dal contenuto negativo della rappresentazione. Lipps crede (secondo

38 Lipps, ”fonti della conoscenza”, p. 54

39 Lipps, ”Empatia e godimento estetico”, p.45

168
gli autori ha torto) che, nella fruizione di opere d’arte figurativa o nella lettura,

le emozioni rappresentate non possono innescare reazioni o comportamenti

nella vita vera. I tormenti interiori di Amleto o di Ivan Karamazov40­ il loro

costante e doloroso ”rimuginio”, fortemente connotato in senso morale­ non

sarebbero in grado, secondo Lipps, di provocare un tormento reale nello

spettatore o nel lettore, perché privi di qualsiasi ”forza motivazionale pratica”41.

Le emozioni derivate da esperienze estetiche non potrebbero, cioè, spingerci

all’azione a causa della loro qualità ideale, estetica, che induce alla mera

contemplazione e ci solleva dalle implicazioni pratiche dell’agire. Sebbene ci

sia un consenso relativamente ampio fra gli psicologi e i filosofi su dati empirci

a supporto dell’ipotesi di una connessione stretta fra empatia e comportamento

altruista­ qualunque sia la motivazione di questo comportamento: altruistica o

egoistica­ Lipps potrebbe non sbagliarsi almeno in un caso, dato che al

momento mancano ancora robuste evidenze sperimentali per affermare

l’esistenza di un legame del genere anche nella sfera estetica. In Empathy and

the novel, Suzanne Keen mostra, per esempio, che non ci sono prove sufficienti

per sostenere che l’ipotesi empatia­altruismo sia valida anche nel caso della

lettura di romanzi. Nonostante non sia da escludere che i lettori di romanzi siano

capaci di trattenere e di processare l’apprendimento cognitivo ed emotivo

acquisito mediante l’instaurazione di rapporti empatici con i personaggi, e di

40 I fratelli Karamazov è l’ultimo romanzo di Dostoevskij ritenuto il vertice della sua produzione letteraria,
capolavoro della letteratura dell’ottocento.
41 Lipps, ”Empatia e godimento estetico”, cit., p.44

169
metterlo a frutto per alimentare comportamenti altruistici, sembrano non

sussistere al momento solide basi empiriche per suggerire un legame diretto e

causale fra la lettura di romanzi e comportamenti altruistici. 42La seconda

ragione per cui, secondo Lipps, provare empatia negativa per gli oggetti estetici

non sarebbe possibile è che la rappresentazione del negativo, alla fine non

farebbe altro che affermare il positivo. Anche quando rappresentano qualcosa di

penoso o di disturbante, le opere d’arte talvolta ci consentono di percepirne il

fondo umano. L’arte non può trasformare il negativo in positivo, ma può farci

sentire la negatività come qualcosa di bello, mettendone in primo piano la

dimensione umana­ cosa sempre positiva e affermatrice di un principio vitale

per Lipps. 43

La visione di un film è stata considerata per lungo tempo un’attività puramente

passiva, perché scaturisce da un abbandono totale, favorito dal buio della sala

cinematografica e dall’immobilità dello spettatore. Fin dalle origini è stata

perciò confrontata con il sogno (a partire dal saggio dello psicologo Hugo

Munsterberg). La dimensione onirico­immersiva del cinema si materializza

comunque in nuovi dispositivi che riconfigurano il rapporto fra immagine,

corpo e spazio, con una nuova profondità e plasticità, come nella realtà virtuale

e anche di più in quella aumentata. La teoria più recente ha mostrato, però,

come questa ricettività dello spettatore cinematografico non significhi affatto

42 Empathy and the Novel, Oxford University Press, New York 2007
43 Lipps, ”empatia e godimento estetico”, cit., p. 45

170
pura passività, ma comporti al contrario una complessa attività cognitiva e

immaginativa. Il saggio “Lo sguardo empatico” scritto da Vittorio Gallese e

Michele Guerra (2015) ha descritto l’esperienza cinematografica come un caso

specifico di simulazione incarnata. Partendo dalla distinzione del filosofo

Robert Vischer fra il processo meramente percettivo del vedere e quello

pragmaticamente attivo del guardare44, e dalla riflessione fenomenologica sulla

percezione come attività multimodale, i due autori giungono a delineare uno

spettatore organismo, che sa orientarsi nello spazio virtuale dello schermo,

simulando i movimenti dei personaggi. Le neuroscienze hanno mostrato quanto

sia labile il confine fra mondo immaginario e mondo reale: vedere e immaginare

di vedere, agire e immaginare di agire sono azioni che attivano le stesse aree

cerebrali, e lo stesso si può dire delle emozioni. La differenza fra le esperienze

reali e la visione cinematografica è che nella seconda siamo liberi da

coinvolgimenti personali della vita quotidiana, e possiamo ”amare, odiare,

provare terrore, piacere facendolo da una distanza di sicurezza”45. Tutta la storia

del cinema in tutti i suoi generi e le sue aree geografiche presenta un numero

altissimo di personaggi negativi che hanno il ruolo di protagonisti, e che

suscitano in vario modo un’adesione emotiva. I personaggi che suscitano

empatia negativa al cinema sono sempre complessi e in preda a conflitti

interiori, ma mostrano una minore abilità retorica, per lo meno verbale. Un

44 Robert Vischer, ”sul sentimento ottico della forma” 1873.


45 Gallese e Guerra, ”lo schermo empatico”, cit., p.76

171
personaggio contemporaneo che sfida l’empatia del pubblico è il famoso Walter

White protagonista dell’ormai canonica seria tv intitolata Breaking Bad. L'idea

di base del produttore Vince Gillian consisteva nella trasformazione di un

insegnate di chimica frustrato in un produttore di metamfetamina e in un boss

criminale. Il cambiamento è infatti una parola chiave di tutta la serie, che dà alla

chimica un valore simbolico. Quello che ci preme sottolineare è che il pilot

attiva fin dall’inizio una forte carica empatica, delineando quello sfondo di

motivazioni ed emozioni sempre indispensabile perché si sviluppi l’esperienza

estetica dell’empatia negativa. Una svolta simbolica si verifica quando Walter

trova il suo socio Jesse, con cui sta instaurando un legame sempre più intenso e

in parte paterno, e la sua ragazza Jane addormentati in prede agli effetti

dell’eroina. Durante il sonno, Jane ha un violento conato di vomito, che la

porterà al soffocamento; Walt si slancia subito per aiutarla, ma poi si blocca e

assiste alla sua morte. Questa morte avrà come conseguenza indiretta un

incidente aereo che farà 267 vittime: sconvolto dal dolore, il padre della

ragazza, controllore di volo, sbaglia una comunicazione e provoca la collisione

di due aerei. Breaking Bad attiva dunque all’inizio, con un pilot particolarmente

denso e con le prime due stagioni, un’empatia per il protagonista profonda e

ricca di motivazioni affettive, per poi spingerlo in un tragitto sempre più

inesorabile verso il male e il crimine. L'empatia per Walter White è più volte

portata al limite e sospesa del tutto, per poi riprendere dopo una fase di ”ri­

umanizzazione” del personaggio. Se in tutta la fase iniziale Walter utilizza la

172
sua famiglia come motivazione principale che potrebbe spiegare la sua scelta

criminale, nell’ultima puntata dell’ultima stagione ammette, invece, di avere

fatto tutto quello che ha fatto solo per sé e perché gli piaceva. Un momento

cruciale, che ci svela una sorta di ritorno del represso, di piacere latente per il

male. Alla fine, noi spettatori ci sentiamo smascherati da questa confessione

così aperta e franca, e capiamo di aver provato piacere nel seguire questo

viaggio al negativo, anti­redenzione, un piacere che va oltre le questioni etiche,

e le motivazioni che ci hanno portato a provare empatia negativa.

CONCLUSIONI

Il concetto di libero arbitrio non vuole essere messo in discussione in quanto

non è conveniente (socialmente) negare questo termine perché metterebbe a

rischio la visione classica di responsabilità e colpa. Da un lato però le scienze e

in particolare le neuroscienze hanno portato a una rivisitazione concreta del Free

Will, rivisitazione che è stata criticata creando ancora più ambiguità attorno a

questo termine. Una rilettura del libero arbitrio, però, può essere positiva in

quanto potrebbe modificare la visione statica del “se sbagli, paghi” con una

visione più progressista “se sbagli, vieni rieducato”. Negare, o meglio mettere

alla gogna il concetto del libero arbitrio viene attribuito a una visione

173
pessimistica in quanto si potrebbe pensare che priverebbe l’uomo di un concetto

più “romantico” di libertà. Non è questo il caso. È doveroso concludere con una

frase che potrebbe racchiudere il valore pregiato che ha la libertà: “Signora

Libertà, Signorina Fantasia così preziosa come il vino, così gratis come la

tristezza con la tua nuvola di dubbi e di bellezza”. (De Andrè, 1981)

174
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177
RINGRAZIAMENTI

A mia nonna che non ho potuto salutare.

A mia nonna che mi vizia sempre.

A mia madre donna forte, intelligente e instancabile.

A mio padre e la sua straordinaria intelligenza.

A mio fratello che è la persona che ammiro di più.

Ai miei zii e cugini, sempre così meravigliosi.

A Adelise che mi ha insegnato ad essere più dolce con me stessa e le persone

intorno a me.

A Andrea la mia persona preferita da sempre che mi ha sopportato nonostante la

grande distanza che ci separa e mi ha fatto sempre ridere nei momenti più

difficili, vorrei averti qui oggi con me ma so che tifi per me anche da lontano. Ti

voglio molto bene.

A Carmen 10 anni di amicizia di lacrime e di altrettante risate mi hai insegnato

dei valori importanti come l’amore per la famiglia e la ribellione che ti

contraddistingue sempre. Grazie a te ho scoperto lati di me che non sapevo di

avere. Grazie infinitamente ti reputo una sorella e una grande persona.

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A Titta che mi ha insegnato quanto sia importante lottare per raggiungere i

propri sogni, sei una persona meravigliosa e hai una forza assurda. Grazie

perché in questi anni l’hai trasmessa anche a me. Ormai reputo anche te una

sorella e una roccia con la testa dura.

A Mimmo che io amo in maniera incondizionata mi ha insegnato il valore della

cultura e l’amore per l’educazione. Il mio primo amico al Liceo e una delle

persone più buone che io conosca. Per me sei semplicemente un mito.

A Stefano che conosco da poco tempo ma mi ha dato il mondo. Sei una persona

talmente meravigliosa e mi hai cambiato la visione su molti aspetti della vita.

Hai un carattere eccezionale anche se a volte sei un po' irruente. Sono contenta

di averti conosciuto e adesso che fai parte della mia vita la sento più completa.

A Emanuela e Giacomo che mi hanno fatto compagnia in questi anni e mi

hanno praticamente pagato ogni cena e scarrozzato per tutta l’Emilia. È la

coppia più bella che conosca non riuscirò mai a immaginarli separati. Emanuela

mi ha contagiato con la sua dolcezza e io e Giacomo ormai siamo migliori amici

perché entrambi grandi fan di One Piece. A parte gli scherzi vi reputo delle

colonne portanti per la mia vita, senza di voi non ce l’avrei mai fatta.

A Pio un amico ritrovato, di un'intelligenza fuori dal comune mi hai catturato

dal primo momento che ci siamo parlati. Sei una persona che vali tanto e mi hai

arricchito la vita. Ormai ti reputo uno dei miei migliori amici e mi sento

veramente fortunata ad averti a fianco.

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A Emanuele la persona più strana che io conosca ti ho amato fin dal primo

momento in cui ci siamo seduti per mangiare una pizza. La tua stranezza

combacia con la mia e penso che questo sia talmente perfetto da farmi

impazzire di gioia. Ti voglio bene Sheldon.

Infine, vorrei ringraziare Luciano e Gabriele, non dimentico le serate passate

insieme a giocare e a fare gli stupidi. Vi voglio bene mi avete insegnato tanto

anche voi. Un grazie a Luciano che ci spiega sempre le regole dei giochi e a

Gabriele che puntualmente non le capisce.

Ringrazio la solitudine che può portare a straordinarie forme di libertà come

diceva De Andrè. Ringrazio la sofferenza perché mi ha dato la forza di non

mollare mai. Ringrazio la determinazione perché ho scoperto di averla.

E ringrazio la libertà, in fondo questa è una tesi sulla libertà e al di là dei termini

neuroscientifici io spero che ogni essere vivente abbia la sua di libertà.

Infine, ringrazio le persone che mi hanno fatto del male. Perché anche voi mi

avete insegnato qualcosa. A non essere come voi.

Grazie a tutti.

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