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La religione entro i limiti della

sola ragione - Kant


Filosofia
Università degli Studi di Urbino Carlo Bo
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La religione nei limiti della sola ragione

La storia di questo importantissimo scritto, e le singolari vicende che ne impedirono la


pubblicazione completa per qualche anno, potrà essere approfondita con la lettura della
biografia di Kant. Qui è sufficiente ricordare che la censura prussiana diede il suo
assenso alla pubblicazione del primo capitolo, dedicato all'esame del male radicale
nell'uomo, ma poi negò il permesso di pubblicare i capitoli successivi.
Dopo le leggi liberticide introdotte da Johann Christoph Wöllner (definito da Federico il
Grande "un pretaccio fraudolento ed intrigante"), venne un parere favorevole alla
pubblicazione del testo kantiano da Hillmer, che era una sorta di supervisore teologico di
stato, con la motivazione piuttosto singolare che lo scritto "non fosse destinato a tutti,
ma soltanto a dotti capaci di riflessione, di ricerca e di distinzione, ed era solo da costoro
fruibile." Motivazione che venne immediatamente rovesciata nel suo opposto quando
Kant presentò al vaglio della censura prussiana i capitoli successivi.
Si è osservato che, in realtà, il capitolo sul male radicale aveva in sé un contenuto
implicitamente reazionario, che non poteva risultare sgradito al nuovo corso politico. A
supporto viene spesso richiamata la valutazione totalmente negativa data da Goethe, ed
in parte da Schiller e da Herder. Goethe vi ravvisò una concessione al cristianesimo più
deteriore e dogmatico, quindi un tradimento dello spirito umanitario. In una lettera a
Herder, Goethe scriveva, non senza amarezza, che Kant aveva imbrattato il proprio
mantello da filosofo "con la macchia vergognosa del male radicale, per indurre anche dei
cristiani a baciarne il lembo." Non così duro Schiller, che dopo un'iniziale reazione di
disgusto, comprese che le motivazioni kantiane erano molto più profonde di quanto le
aveva intese piuttosto superficialmente Goethe.
L'opera potè venire alla luce solo dopo la morte del nuovo re e l'allontanamento di
Wöllner. Ma ebbe fortuna relativa, e fino alla fine dell'Ottocento, fu certamente oscurata
dal romanticismo, dalle posizioni di Schleiermacher e di Hegel, dalla filosofia di
Kierkegaard, nonché dalla considerazione generale, presente tra gli stessi kantiani
ortodossi, che il Kant che contava era un altro, e che questo studio non apparteneva alla
linea maestra del criticismo.

Che dire? Certamente pare corretto partire da qui: un testo siffatto appartiene alla
comunità filosofica ed, in generale agli uomini di buona volontà che ragionano, molto
più che alla chiesa, od alle tante chiese protestanti, evangeliche e calviniste. Nonostante
i notevoli cambiamenti intervenuti nella teologia dell'Ottocento e del Novecento, l'idea
di una fede razionale (la risposta al cosa posso sperare di Kant) non gode di grandi
appoggi nel mondo dei religiosi. La grande lezione kantiana di un cristianesimo il cui
nucleo fondamentale è costituito dalla legge morale rispettata e vivificata dal buon
comportamento e non da esteriori cerimonie cultuali volte ad ingraziarsi il favore divino,
non pare ancor oggi facilmente compresa. Ciò che conta è la fede. La conversione per
mezzo della fede supplisce largamente, e spesso nemmeno rende indispensabile, una

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condotta irreprensibile, perché l'uomo è fallace ed imperfetto. L'indulgenza verso i
credenti fedeli e praticanti è ancora troppo spesso pari all'intransigenza verso i non
credenti, comunque destinati alle fiamme della dannazione anche quando moralmente
degni. Alcuni hanno persino la faccia tosta di sostenere che ciò sia impossibile perché un
non-credente è indegno per definizione.
Cose che, appunto, alla luce di quanto affermato da Kant e non solo, appaiono
francamente insostenibili.
Ma queste sono oggi le chiese e noi dall'esterno possiamo fare ben poco per cambiarle.
Quasi ci sarebbe da chiedersi se ne valga la pena. Comunque sia, Kant ci provò,
seminando su un arco temporale molto vasto, perché credeva in due cose. La prima che
il cristianesimo fosse un patrimonio da non disperdere, visto che egli stesso si sentiva
cristiano, e fortemente in debito con l'educazione pietistica ricevuta. La seconda è che
alla lunga la ragione avrebbe trionfato, consentendo così la realizzazione
della repubblica morale, che per lui era l'equivalente del regno di Dio.
Uscendo dalle nebbie di un linguaggio mistico ed escatologico, l'attesa del ritorno del
Signore, ed entrando in uno più attuale e moderno, Kant poneva con forza la questione
della possibilità di una società più giusta e morale, che è quella che noi illusi ( di sinistra,
ma spero anche di destra) ci aspettiamo ancora.

La premessa indispensabile veniva da quell'esame del male radicale dell'uomo,


contestata da Goethe in nome dell'umanità stessa.

Il male radicale
La colpa del male, per Kant, non sta nella natura sensibile, nella "carne" (espressione
che non usa, ma che uso io per chiarezza, sapendo di non sbagliare) ma nel difetto di
ragione o nella mancanza di volontà. Non c'è alla base della malvagità una natura
cattiva, od una natura buona tradita, ma solo la violazione consapevole della legge
morale.
Per natura dell'uomo si deve intendere solo il principio soggettivo dell'uso della libertà.
Non si deve vedere in un istinto, in una tendenza necessitante, che obbligherebbe al
male, alla sopraffazione, alla frode.
Quando si dice che l'uomo è cattivo, si vuole solo significare che pur avendo coscienza
morale, ha scelto di allontanarsi da essa, e di anteporre altri scopi e motivi particolari
all'imperativo categorico di realizzare sempre e comunque azioni esemplari e
comportamenti corretti.
L'affermazione l'uomo è cattivo per natura risulta così sbagliata in quanto conduce ad un
falso sillogismo che pretenderebbe ricavare da una premessa siffatta, una regola generale
per la quale solo il messaggio di salvezza della religione rivelata avrebbe effetto positivo
e liberatorio.
Noi possiamo conoscere l'uomo solo per esperienza, ed è solo per esperienza che
possiamo dire che è portato al male, che tutti gli uomini, compresi i migliori possono
cadere in fallo.
Tuttavia, è possibile procedere dal male al meglio, in conseguenza di un
perfezionamento della volontà.

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«Segue da ciò - scrive Kant - che l'educazione morale dell'uomo non deve cominciare
dal miglioramento dei costumi, ma dalla conversione del modo di pensare e dalla
fondazione di un carattere; sebbene d'ordinario si proceda diversamente e si lotti
unicamente contro i vizi, di cui si lascia invece intatta la comune radice. Ora l'uomo più
limitato è lui stesso capace di sentire tanto maggiore rispetto per un'azione conforme al
dovere, quanto più nel pensiero sottrae a tale azione altri moventi, che a causa dell'amore
di sé, potrebbero avere influenza sulla massima dell'azione, e gli stessi fanciulli sono
capaci di scoprire anche la più piccola traccia di moventi impuri mescolatisi nell'azione,
poiché questa perde allora istantaneamente ogni valore morale.» (1)

Il presupposto è che anche in condizioni di impedimento esteriore, l'uomo sia


interiormente libero ed in grado di scegliere.
I principali ostacoli al retto comportamento sono la fragilità di carattere, la corruzione
per la quale, appunto, l'uomo subordina il movente morale a tutti gli altri.
Il male sembrerebbe dunque ineliminabile e poco importa che si siano adottate
intenzioni buone. C'è un male incombente, di lunga durata, che fa sentire i suoi effetti
come una maledizione ereditaria. Anche supponendo possibile una conversione, anche
supponendo che l'uomo non contragga più alcun debito con la moralità, l'uomo non si
deve sentire liberato dai debiti contratti in precedenza; il suo più stretto dovere rimane
quello, sempre, di fare tutto ciò ciò che si può fare.

La lotta tra male e bene


Nel secondo capitolo, intitolato Della lotta del principio buono con il cattivo per la
signoria sull'uomo, Kant inizia con un esame della filosofia stoica che ne evidenzia pregi
e difetti. Annota che "esigere coraggio dall'uomo, è già per metà suscitarlo in lui". Ed
arriva al punto:«Ma questi valentuomini non seppero discernere il loro nemico, che non
è da ricercarsi nelle inclinazioni, le quali semplicemente indisciplinate, tuttavia si
rivelano sinceramente alla coscienza di ciascuno; mentre questo nemico, quasi invisibile,
si nasconde dietro alla ragione, e perciò è maggiormente pericoloso. Essi invocarono
la saggezza contro la follia, che si lascia ingannare dalle inclinazioni solo per
imprevidenza, invece di invocarla contro la malignità (del cuore umano), che con
principii corruttori dell'anima, mina nascostamente la stessa intenzione.
Le intenzioni naturali - continua Kant - sono buone, considerate in se stesse; cioè non
riprovevoli, e non soltanto è vano, ma sarebbe anche nocivo e biasimevole volerle
estirpare; bisogna piuttosto domarle, affinché possano, non spegnersi fra di loro, ma
essere portate ad armonizzarsi in un tutto, chiamato felicità.» (1)
La polemica con lo stoicismo si chiude con una citazione indiretta della epistola agli
efesini di San Paolo: "noi non abbiamo da lottare contro la carne ed il sangue (le
inclinazioni naturali) ma contro principi e potenze: contro i cattivi spiriti."

La liberazione totale dal male, viste le condizioni sopradescritte, non può che essere un
atto di grazia non dovuto all'uomo, ma al Salvatore, Figlio di Dio.
Ad essa si oppone l'idea opposta del diavolo, che è una rappresentazione popolare del
male radicale.

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La solo salvezza, termine che Kant usa davvero in senso cristiano, sta nell'accettare
intimamente i veri principi morali. Su questa via noi incontriamo come opposizione non
la sensibilità e le inclinazioni al piacere, ma la perversità, che può anche
chiamarsi falsità (inganno del demonio con il quale è entrato il male nel mondo). La
perversione si vince solo praticando il bene morale.
Ma, continua Kant, la fiducia in questa vittoria finale, che è del singolo, ma può essere
raggiunta dall'umanità tutta, non può essere ottenuta superstiziosamente, attraverso
espiazioni che non provengono mai da un mutamento interiore, o fanaticamente da
pretese illuminazioni interiori puramente passive.
Sotto questo profilo anche la credenza nei miracoli è inutile. Possiamo infatti ammettere
che influenze celesti collaborino con l'uomo nella sua opera di perfezionamento morale,
ma l'uomo non è mai in grado di distinguerle da cause naturali, né può sperare di attirarle
su di sé e constatare così "un miracolo".
L'uomo, secondo Kant, deve quindi comportarsi sempre come se ogni conversione
dipendesse dai suoi sforzi e dalla sua volontà buona. Si tratta, come si vede di una
posizione schiettamente illuminista, che ben poco concede al cristianesimo popolare
paganeggiante dei santini, delle processioni e delle "possessioni divine".

Stato morale e chiesa invisibile


Sulla scia di Rousseau, che Kant aveva letto con interesse, il nostro perviene all'idea che
la vita sociale sia il terreno fertile per la crescita della pianta della perversione radicale.
Il trionfo del bene sul male, quindi, si potrà verificare solo in una società governata dalle
leggi morali della virtù. Questa non sarà tanto una società giuridico-civile, quanto una
formazione etico-civile, uno stato morale, caratterizzato da una chiesa invisibile, l'unica
veramente morale, cioè l'unione delle persone morali. Tale chiesa si dovrebbe fondare
sulla fede religiosa pura, una fede fondata sulla ragione e per questo
veramente universale. La ragione, dunque, per Kant è l'unico linguaggio capace di
universalità. E finché ci saranno chiese fideistiche, si avrà una sorta di concorrenza tra
esse per accaparrarsi le anime, ma non vi sarà alcun regno. La chiesa invisibile non ha
bisogno di una rivelazione, di grandi mistici illumininati, perché la ragione di ognuno è
guida.
Ma a fronte di questa esigenza schiettamente illuministica, Kant annota che la debolezza
particolare dell'uomo, che ancora caratterizza la condizione dei più, non consente di
fondare una chiesa visibile, cioè una delle tante chiese istituzionali sulla fede razionale.
In altre parole: la rivelazione è una necessità storica e la salvezza attraverso la religione
un passaggio quasi obbligato.
Tuttavia, gli aspetti più deteriori e falsi della vita religiosa vanno criticati. Nel IV
capitolo intitolato Del vero e del falso culto sotto il dominio del buon principio; o della
religione e del regime clericale, Kant affronta con molto coraggio tali problemi. Ma
prima di arrivare ad essi vi è un punto di capitale importanza che merita una citazione
per intero: «Abbiamo visto pure che che questa comunità, come REGNO DI DIO, può
essere intrapresa dagli uomini solo per mezzo della religione, e che infine questo regno,
affinchè la religione sia pubblica (ciò che è richiesto per una comunità) può essere
rappresentato sotto la forma sensibile di una chiesa, di cui spetta agli uomini stabilire

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l'organizzazione, come un'opera, che è loro riservata e che si può da essi esigere.
Ma, costituire una chiesa, come una comunità retta da leggi religiose è cosa che sembra
esigere maggior saggezza (tanto dal punto di vista dell'intellezione, quanto da quello
della buona intenzione), di quanta, in verità, è lecito attendersi dagli uomini; ed in tal
modo particolare, sembra che, a tale scopo, occorra presupporsi già negli uomini il bene
morale, cui si mira con tale istituzione. Difatti è contraddittorio dir che gli uomini
dovrebbero fondare un regno di Dio (così come si può giustamente dire che essi possono
stabilire un regno di un monarca umano); bisogna che Dio stesso sia l'autore del suo
regno. Ora, dato che noi non sappiamo ciò che Dio faccia direttamente per tradurre in
realtà l'idea del suo regno, per essere cittadini e sudditi del quale noi troviamo entro noi
stessi la determinazione morale; ma, dato che sappiamo bene cosa fare per renderci atti
a diventare membri di questo regno; dato questo, una idea siffatta - sia stata essa destata
e resa pubblica nella specie umana per mezzo della ragione o per mezzo della Scrittura -
ci obbligherà tuttavia ad organizzare una chiesa. Di essa, nell'ultimo caso, Dio,
essendone il fondatore, sarà anche autore della relativa costituzione; mentre invece gli
uomini, in ogni caso, in quanto sono membri e cittadini liberi di questo regno, ne sono
autori dell'organizzazione.» (1)
Potrebbe darsi che non si capisca bene il senso non solo speculativo di queste parole, ma
è evidente che se si pone attenzione al fatto che la pietra angolare della chiesa è la
sua costituzione, essa non può e non deve essere toccata in alcun modo da mani umane.
La legge morale ed il comportamento morale sono questa base.
Nient'altro può essere aggiunto, e nient'altro può essere tolto.

Il libro si chiude con le già citate critiche al falso culto di Dio, che riguarda soprattutto le
chiese cristiane. Nessun rito, nessun pellegrinaggio, nessuna messa alla memoria,
nessuna benedizione papale, possono mettere Dio in pace con gli uomini pervertiti dal
male della disonestà, dal male di usare altri uomini come se fossero attrezzi da lavoro.
Come può un peccatore incallito sperare di ingraziarsi Dio, attraverso San Antonio o San
Gennaro, facendosi in ginocchio un pezzo di strada?
Dio, secondo Kant, non chiede queste schifezze, non vuole uomini in ginocchio: vuole
solo onestà e moralità. In caso di danno, se c'è una parte offesa, vuole
il risarcimento oltre che il pentimento.

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