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Biblioteca / Estetica e culture visuali

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Direzione
Maurizio Guerri (Accademia di Belle Arti di Brera, Milano
e Istituto nazionale “Ferruccio Parri”)

Comitato editoriale
Andrea Staid (Naba, Milano), Massimiliano Guareschi (Naba, Milano),
Maurizio Guerri (Accademia di Belle Arti di Brera, Milano e Istituto nazio-
nale “Ferruccio Parri”)

Comitato scientifico
Mauro Carbone (Université Jean Moulin Lyon 3), Ruggero Eugeni (Univer-
sità Cattolica del Sacro Cuore, Milano), Federico Ferrari (Accademia di Belle
Arti di Brera, Milano), Barbara Grespi (Università degli Studi di Bergamo),
Pietro Montani (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”), Andrea Pi-
notti (Università degli Studi di Milano), Elena Pirazzoli, Francesca Romana
Recchia Luciani (Università degli Studi di Bari), Anna Ruchat (Civica Scuola
interpreti e traduttori “Altiero Spinelli”, Milano), Antonio Somaini (Université
Sorbonne Nouvelle – Paris 3)
La cultura del falso
Inganni, illusioni e fake news

a cura di Andrea Rabbito


con opere pittoriche di Benedetto Poma

MELTEMI
Meltemi editore
www.meltemieditore.it
redazione@meltemieditore.it

Collana: Biblioteca / Estetica e culture visuali, n. 26


Isbn: 9788855191128

© 2020 – meltemi press srl


Sede legale: via Ruggero Boscovich, 31 – 20124 Milano
Sede operativa: via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI)
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Indice

xx Introduzione
di Andrea Rabbito

xx Il ciarlatano e l’immagine. Forme e ambiguità


d’una prototipica cultura del falso
di Roberto Tessari

xx Anche il falso è “obsoleto”. L’esperienza


di canecapovolto
di Stefania Parigi

xx Vero, finto, falso. La scena contemporanea


fra presenza e rappresentazione
di Marco De Marinis

xx Fake views. Watching bullshits


di Ruggero Eugeni

xx Verità logica, verità linguistica, verità ecologica.


La doppia lezione della filosofia del linguaggio
di Antonino Pennisi, Gessica Fruciano

xx Vedere l’invisibile. Per una definizione del falso


nei media digitali
di Giulio Lughi
xx La rete e lo schermo. Televisione e contenuti
nell’era dei social network
di Anna Bisogno

xxx Gli inganni dell’empatia. Giornalismo immersivo


e disinformazione
di Adriano D’Aloia

xxx “Don’t believe the hype, just perform!”


La Post-Truth e il Pantani delle Albe
di Dario Tomasello

xxx Fake performance. Politica e parodia in Italia


ai tempi dei social
di Katia Trifirò

xxx Splendore del falso. Su Kubrick, il fake trailer


e la profanazione lucida
di Enrico Carocci

xxx Scena multipla e scatola del reale,


tra metafisica e metateatro
di Filippa Ilardo

xxx Andy Warhol o della tv come arte dell’illusione


di Alfonso Amendola

xxx Nostalgia e profanazione del dispositivo


in Black Mirror
di Giulia Raciti

xxx “Non avrai altro Dio fuori che me”. Le immagini


del pregiudizio in Andorra
di Max Frisch
di Fabio La Mantia
xxx Falsificare e deformare la storia. La
rappresentazione del nemico
nei giornali di trincea francesi della Prima guerra
mondiale
di Loredana Trovato

xxx L’illusione della morte. Effigi e simulacri


nella ritualità funebre
di Mattia Cinquegrani

xxx Cronache e documenti apocrifi nel Quattrocento.


Pau Rossell e i falsi privilegi messinesi
di Pietro Colletta

xxx B for Belluscone. Le immagini e la morte della verità


secondo Franco Maresco
di Tommaso Di Giulio

xxx La potenza del falso


di Damiano Cantone

xxx “Nel mondo reale”. Falsità e finzione nei giochi


della realtà aumentata
di Anna Montebugnoli

xxx Liveness. Presenza, immagine digitale


e falsificazione
di Vincenzo Del Gaudio

xxx La guerra simbolica della comunicazione mediatica


di Gianpiero Vincenzo

xxx La violenza sulle donne è un “vero problema”!


Strategie di rappresentazione audiovisiva
del fenomeno nelle campagne governative
di comunicazione sociale
di Gabriella Polizzi
xxx “Sei tu? O sono solo io?” Eikon, eidolon e mimesis
in Personal Shopper
di Pietro Masciullo, Vincenzo Tauriello

xxx Bassa definizione, rappresentazioni della realtà


e guerre mediali.
Il caso Redacted di Brian De Palma
di Mario Tirino

xxx “Crediamo sempre in ciò che ci fa comodo”.


Fake news, cliquet e verità
di Pierre Dalla Vigna

xxx Gli inganni mediali secondo Orson Welles


e Edgar Morin. L’evoluzione dell’illusione barocca
nella società contemporanea
di Andrea Rabbito
Benedetto Poma, Penelope
acrilico su legno, cm 22×30, 2017
La potenza del falso
Damiano Cantone

L’ossessione contemporanea per il falso da considerarsi in


senso negativo, come fake news, contraffazioni di oggetti ed
opere d’arte, promesse elettorali, già che i giorni sono questi,
non è certo una novità per i filosofi. Da sempre la filosofia ha
preso partito per il vero. La sua stessa ragione di esistenza ri-
siede nel ricercare la verità, nel portarla alla luce, nello svelarla,
e poi nel dirla, nel testimoniarla, nel chiarirla, nel sopportarne
il peso e la fatica. Questa ricerca, come ovvio, non è priva di
ostacoli e pericoli: la verità va salvata dall’opinione, dall’illu-
sione, dall’errore: in una parola, dal falso. Fin dalla celebre
sentenza di Parmenide il falso, lo pseudos, è stato il grande
avversario del vero, una spina nel fianco e un nemico spietato:
prendere il falso per vero ha significato, secondo le parole che
la divinità rivolge al padre della filosofia, “percorrere il sentie-
ro della notte”, condannarsi a una vita di oscurità e ignoranza.
Il filosofo è ossessionato dal falso, lo teme, e lo sospetta celarsi
sotto ogni verità comunemente accettata come tale. La verità è
una, ma il suo dominio è insidiato da ogni sorta di pretenden-
ti, di falsari, di spacciatori di verità contraffatte, imbonitori
convincenti e persuasivi ai quali è facile arrendersi.
Nel mio lavoro sul cinema e la filosofia che porto avan-
ti da qualche anno ho sempre cercato di separare la coppia
falso-vero, ritenendo che il falso possa avere uno statuto
autonomo, non necessariamente legato al vero come sua ne-
388 Damiano Cantone

gazione ed ho trovato – se non alleato – perlomeno un com-


pagno di strada in Gilles Deleuze, l’autore che a metà degli
anni Ottanta del secolo scorso ha dedicato al cinema il primo
vero lavoro sistematico che la filosofia abbia mai offerto sulla
settima arte. Faccio ovviamente riferimento alle due mono-
grafie L’immagine-movimento del 1983 e L’immagine-tempo
del 1985. In esse egli propone una completa tassonomia del
cinema sulla base delle immagini che è in grado di creare in
relazione a due problemi autenticamente filosofici: quello del
movimento e quello del tempo. Sarebbe interessante riper-
correrne l’ipotesi, ma per motivi di tempo possiamo tradurre
questa divisione in un discrimine tra un tipo di cinema nar-
rativo (il cinema dell’immagine movimento), e di un cinema
espressivo o perlomeno non esclusivamente narrativo, quello
dell’immagine tempo.

Falde di passato e potenze del falso: Orson Welles

Partirò dunque con un esempio cinematografico. Sappia-


mo che se Hitchcock è il regista che secondo Deleuze porta
a compimento l’immagine-movimento e apre la strada verso
il suo superamento, Orson Welles è stato sicuramente il pri-
mo esponente del cinema dell’immagine tempo. Welles è il
primo a percorrere fino in fondo e con coerenza la catena di
implicazioni che il concetto di tempo, così come è venuto de-
lineandosi a partire dalla sua emancipazione dal movimento,
comporta per le immagini cinematografiche. A partire dal
suo primo lungometraggio, Quarto potere (1941), Welles
fa della riflessione sul tempo e su come il cinema possa en-
trare in rapporto con esso la “cosa stessa” del suo cinema,
rivoluzionando radicalmente la tecnica cinematografica. A
proposito di questo stesso film, Deleuze afferma che “qui,
il tempo usciva dai suoi cardini, capovolgeva il rapporto di
dipendenza dal movimento, la temporalità si mostrava per sé
stessa e per la prima volta, ma sotto forma di una coesistenza
di grandi regioni da esplorare” (Deleuze 1985, p. 120).
La potenza del falso 389

Vediamo come attraverso Welles interpretato da Deleuze,


il cinema pervenga alla creazione di immagini tempo e, di
conseguenza, a una diversa concezione del montaggio e della
stessa narrazione cinematografica. In Quarto potere un gior-
nalista, alla morte del magnate dell’informazione Charles Fo-
ster Kane, viene incaricato di indagarne il passato per scopri-
re il senso dell’ultima parola da lui pronunciata in punto di
morte: Rosebud. A questo scopo incontra svariati personaggi
che furono vicini a Kane durante la sua vita, ma non ne ricava
altro che una serie di ritratti inconciliabili di una personalità
decisamente complessa. Ogni personaggio infatti possiede la
chiave di una “falda” del passato di Kane, che costituisce solo
apparentemente una tappa della sua vita cronologica: ognuna
di esse infatti ci offre un’immagine completa di Kane, il cui
senso è compiuto e non dipende o non è rinviato a qualcosa
che sta al di fuori di lei. Le “falde” del passato di Kane sono
in tal modo coesistenti, contenendo in sé tutta la sua vita, e
convergono nella punta di presente che è la morte di Kane.
“Ogni testimone salta nel passato in generale, si installa di
colpo in questa o quella regione coesistente, prima di incar-
nare certi punti della regione in un’immagine ricordo” (ivi,
p. 121). Il passato appartiene a Kane, che è morto, e non
può essere confuso con i semplici ricordi che le altre persone
hanno di lui: è dunque Kane a emergere, per così dire da sé
stesso, nella sua virtualità. Il procedimento inventato da Wel-
les per esplorare le falde di passato della vita di Kane viene
individuato da Deleuze in un uso innovativo della profondità
di campo. Non che tale caratteristica dell’immagine non fos-
se presente fin dall’inizio della cinematografia, ma rimaneva
subordinata alla cosiddetta “prospettiva naturale”, secondo
la quale è il primo piano a catturare l’attenzione dello spetta-
tore, mentre il campo lungo costituisce lo sfondo o scenario,
l’ambiente destinato a conferire significato all’azione che av-
viene per l’appunto in primo piano.
Con Welles, invece, il campo si allunga a dismisura e tra lo
sfondo e il primo piano non c’è più una dialettica, ma un’inte-
razione diretta. L’azione può quindi benissimo avvenire sullo
390 Damiano Cantone

sfondo e il primo piano essere in ombra: è celebre l’esempio


costituito dalla scena del tentato suicidio della seconda mo-
glie di Kane, Susan. In primo piano è inquadrata la boccetta
del veleno preso da Susan, mentre sullo sfondo dapprima sen-
tiamo delle voci che la chiamano, poi intravediamo la porta
che viene sfondata e Kane che entra per salvarla. È come se
Welles si sforzasse di mostrarci il tempo nella sua interezza,
e questo sotto un doppio aspetto: da una parte l’evocazione
dell’immagine-ricordo, la sua ricerca come processo, sforzo e
dall’ altra l’esplorazione delle falde del passato per ritrovarla
e farla risalire fino all’attualità del presente. Ogni volta che
un personaggio lascia il primo piano per avventurarsi sullo
sfondo, sprofonda nel passato, cancella la sua presenza e ogni
volta che compie il percorso opposto è come se un pezzo di
passato si cristallizzasse con la presenza del primo piano. È
ovvio che una simile presentazione diretta del tempo abbia
un’influenza notevole anche sulla tecnica del montaggio.
Il montaggio era il modo in cui il cinema dell’immagine-
movimento “costruiva” l’immagine indiretta del tempo del
film inteso come tutto, ma con l’emergere dell’immagine-
tempo esso cambia di significato, in virtù del diverso rap-
porto con il movimento. “Il montaggio non scompare ne-
cessariamente, ma cambia di senso, diviene ‘mostraggio’”
(Deleuze 1990, p. 74); ossia semplice ostensione delle imma-
gini anziché principio soggettivo (o teorico) di composizione
delle immagini. Welles mostra dunque le falde del passato
di Kane, come esse facciano nascere delle immagini-ricordo
che affiorano al presente (l’infanzia di Kane, la campagna
politica, il rapporto con la moglie) e come esse convergano
verso un’unica punta di presente, la morte di Kane. Proprio
perché il presente verso cui esse tendono è un presente para-
dossale, l’assenza, o meglio il posto vuoto lasciato da Kane.
L’immagine-tempo non garantisce un’esperienza più au-
tentica o più vera dell’immagine-movimento: anzi, la verità
tutta è dalla parte dell’immagine-movimento, mentre il tem-
po è proprio, come sottolinea Deleuze la “messa in crisi della
nozione di verità” (ivi, p. 147).
La potenza del falso 391

Attraverso la presa in esame del cinema dell’immagine-


tempo, la verità del tempo viene sostituita dalla potenza fal-
sificante dello stesso. La presentazione diretta di un’imma-
gine-tempo costringe il cioè cinema a muoversi “sul posto”,
a coagularsi intorno a una domanda priva di risposta, in un
continuo rimando a numerosi passati che non sono necessa-
riamente veri e che portano a presenti incompossibili fra loro.
“Ne deriva un nuovo statuto della narrazione: la narrazione
cessa di essere veridica, cioè di pretendere al vero, per farsi
sostanzialmente falsificante. Non si tratta affatto di una forma
di relativismo, ma per usare le parole stesse di Deleuze:

è una potenza del falso che sostituisce e spodesta la forma del


vero, perché pone la simultaneità di presenti incompossibili e
la coesistenza di passati non necessariamente veri. […] L’uomo
verace muore, ogni modello di verità crolla, a vantaggio della
nuova narrazione (Deleuze 1985, p. 148).

L’irruzione del tempo all’interno dell’immagine è dun-


que l’affermarsi di una “potenza del falso”, stante, secondo
Deleuze, il carattere falsificante del tempo rispetto a ogni
modello di verità. Alain Badiou sostiene che Deleuze abbia
un’idea ristretta della nozione di verità, funzionale al suo di-
scorso antiplatonico, e scarsamente aderente alla complessità
che tale nozione presenta nella filosofia greca. Proprio in ri-
ferimento al passo poc’anzi citato, Badiou afferma che “veri-
tà vi si declina ancora e sempre all’insegna della definizione
ristretta del modello (e della copia)” (Badiou 1999, p. 66).
La morte dell’“uomo verace” è solo la morte dell’invenzione
nietzschiana battezzata “platonismo”. Il sistema dell’imma-
gine movimento porta essenzialmente a una narrazione veri-
dica, nel senso che pretende al vero anche nella finzione più
estrema. Le connessioni che si formano fra un’immagine e
l’altra devono infatti essere legali, seguire cioè una regola di
connessione nello spazio e successione nel tempo. Insomma,
la narrazione si rapporta sempre a un “sistema del giudizio”,
che fa capo a un sistema di verità o verosimiglianza. La nar-
392 Damiano Cantone

razione falsificante, al contrario, non può rifarsi a nessuna


nozione di verità come modello, diventa un’immagine lette-
ralmente ingiudicabile e indecidibile.
Non si tratta dunque di cercare di rintracciare la verità
nell’attuale, nel qui ed ora ma di ricondurre le metamorfosi
del falso che hanno preso il posto delle forme del vero al
loro principio affermatore. D’altra parte, una simile potenza
affermatrice non può essere colta se non a partire dalle sue
attualizzazioni: essa è dunque – a ragione e letteralmente –
potenza del falso. In sostanza, “potenza del falso” non è che
il nome che Deleuze, ispirato da Nietzsche, dà alla verità”
(ivi, p. 70). Questa affermazione ci mette sulla buona strada
per comprendere dunque come si configura il rapporto fra
tempo e potenza del falso all’interno del cinema.

Falsari e artisti: de Hory e Platone

Considerare il tempo come forza significa in primo luogo


la subordinazione del movimento al tempo, in un ribalta-
mento di quello che sembrava essere il rapporto naturale tra
i due: è evidente che un tale cambiamento di segno comporta
una serie di conseguenze decisive per la stessa pratica cine-
matografica. Le azioni non cominciano e non finiscono, i per-
sonaggi si muovono apparentemente senza causa e senza sco-
po, la macchina da presa perde il suo orientamento spaziale
e temporale. Questo comporta, ed è la seconda conseguenza,
uno spostamento di accento dalla coppia reale-immaginario,
che sembra essere quella decisiva per comprendere il cine-
ma classico, a quella formata da vero e falso, laddove, come
abbiamo visto, i due termini non sono da considerare in op-
posizione, ma come se il primo fosse risultato del secondo.
Possiamo ritrovare questo tema nuovamente nei film di
Welles, ad esempio in F per Falso (1973). Il film è costruito
come un’inchiesta sulla vita di un falsario ungherese, Elmyr
de Hory, ma subito abbandona il pretesto iniziale per trasfor-
marsi in un puro gioco di finzione nel quale la narrazione si
La potenza del falso 393

fa essa stessa falsificante. Welles infatti utilizza del materiale


tratto da un precedente documentario (il genere che più sem-
bra proporsi come scopo una visione vera o oggettiva delle
cose) sullo stesso personaggio, inframezzato da commenti
dello stesso Welles e da sequenze di cinema nel cinema (ve-
diamo ad esempio Welles che gioca con il montaggio di una
scena, facendole assumere valenze completamente diverse,
oppure racconta degli episodi portando delle testimonianze,
salvo smentirli subito dopo). La riflessione sull’arte e i falsari
diventa così riflessione sull’intero processo cinematografico
come procedimento falsificante, ma – qui risiede la cifra teo-
rica del film – proprio per questo creatore. Il cattivo falsario
infatti riproduce un modello per l’occhio di un esperto, che
in tal modo inganna; il buon falsario invece si prende gioco
dell’amore per le forme e crea il nuovo senza diventare a sua
volta un modello: ecco quindi che vediamo Elmyr “inventa-
re” un periodo della produzione di Picasso, che è veramente
Picasso e veramente Elmyr. (Deleuze 1981, p. 189).
Così l’artista-falsario sarà falsificante rispetto al modello,
lo renderà falso, laddove il cattivo falsario si limiterà a ripro-
durlo: solo l’artista creatore porta la potenza del falso a un
grado che si effettua non più nella forma ma nella trasfor-
mazione” (Deleuze 1985, p. 164). Il tempo come divenire,
come potenza del falso, è un agente di trasformazione con-
tinua della realtà, che in tal modo risulta indecidibile nel-
la sua identità con se stessa. Proprio questa indecidibilità,
anziché venir combattuta in nome di un’istanza superiore
(sia essa teoretica o morale) costituisce secondo Deleuze la
caratteristica più importante del sovvertimento degli ordini
del tempo provocato dal cinema dell’immagine-tempo, una
continua produzione di realtà, “un supplemento di realtà”
che si sottrae a qualunque giudizio.
È evidente che qui torna in campo il grosso problema che
Platone aveva posto nella Repubblica e soprattutto nel Sofista
e nelle Leggi. Cosa succede se si passa dal falso in relazione ai
giudizi (posso dire il vero o il falso in relazione ad una realtà
data) al falso nella realtà?
394 Damiano Cantone

Con questo problema la filosofia successiva a Platone non


ha smesso di misurarsi, e capiamo anche perché, pur non
parlando mai di arte in senso moderno e non possedendo
una vera e propria teoria estetica, Platone abbia fornito una
delle chiavi interpretative del rapporto tra arte e verità più
penetranti e feconde. L’elemento disturbante dell’opera
d’arte, la forza che per la filosofia si è sempre trattato depo-
tenziare, è proprio il suo lato produttivo, falsificante, piut-
tosto che quello imitativo. Nel celebre apologo narrato da
Plinio il Vecchio nella Storia Naturale, collocato proprio ai
tempi di Platone, Parrasio dipinge una tenda sopra un qua-
dro di Zeusi che rappresenta dell’uva in modo così perfetto
da ingannare gli uccelli stessi, che corrono a beccarla. Allora
Zeusi chiede che la tenda venga rimossa, perché tutti possa-
no ammirare il suo capolavoro. Egli cade vittima dell’ingan-
no di Parrasio, ma ne ricava una conclusione niente affatto
banale: si può produrre un falso capace di confondere anche
un occhio esperto e allenato come il suo, non solo presentare
un’immagine così somigliante al vero da ingannare un pas-
sero. Il falso (nel duplice senso di una predisposizione a in-
gannare e a farsi ingannare) è dunque connaturato all’uomo,
al suo essere: questa verità indigesta per la filosofia viene,
storicamente, espressa dall’arte.

Dire di sì al falso

Nella sua opera Mimesi come fare finta, Kendall L. Wal-


ton ha preso decisamente sul serio questo scandalo. Egli è
convinto che tutte le opere d’arte, siano esse film, disegni,
romanzi, opere teatrali abbiano una comune radice antro-
pologica: il “fare finta”. Non si tratta di considerare sempli-
cemente l’arte come il regno della finzione (su questo punto
sarebbe d’accordo anche Platone), ma di considerare il fare
finta come un’attività precipua dell’essere umano, conna-
turata con il nostro sviluppo infantile. I bambini utilizzano
un’enorme quantità di tempo ed energia nelle attività di fare
La potenza del falso 395

finta, compito che prendono in modo molto serio. Tutta


questa attenzione, secondo Walton, non va dispersa con l’età
adulta, ma si trasferisce in altre opere di finzione, che sono
le opere d’arte: “che il far finta di una qualche sorta sia, in
un modo o nell’altro, centrale per le “opere di finzione” è
sicuramente fuori questione (Walton 1990, p. 23).
Si tratta dunque di cercare di afferrare correttamente in
cosa consista il fare finta, il fingere. Questo non può avvenire
solo da un punto di vista teorico, ma esperienziale. I giochi
di finzione funzionano nella misura in cui si mette in atto una
“sospensione dell’incredulità” o, per usare le parole dello
stesso Walton, nel momento in cui esperiamo cosa significa
“essere presi da una storia” (ivi, p. 25). Quella della finzione,
prima che ontologica, è una domanda esistenziale fondamen-
tale. Come hanno notato altri teorici (Di Chio 2011), le opere
di finzione si muovono in una zona di sicurezza intermedia
tra qualcosa che è dato, il fattuale, e qualcosa che ha senso, il
finzionale: la zona dell’ambiguità ontologica dell’immagine,
dell’equilibrio mimetico e dell’implicazione indiscernibile
tra la realtà e la sua riproduzione fantastica, del “so che non
è reale, eppure è come se lo fosse”.
La sospensione dell’incredulità non implica dunque una
sospensione tout court dei normali nessi logico-causali ma
piuttosto l’accettazione di regole, codici e segnali propri
dei mondi narrativi convocati, che sono diversi da quelli del
mondo reale e, pur tuttavia, è sempre a partire dal “mondo
vero” che un mondo narrativo si costruisce e si propone. Noel
Carroll parla in questo senso di “principio di completamen-
to realistico-euristico”. Nella nostra posizione di spettatori,
osserva infatti il filosofo americano, “riceviamo mandato di
immaginare le cose che sono presupposte o implicate nella
narrazione; questa immaginazione supplementare è gover-
nata da un’assunzione di default: fino ad avviso contrario,
assumiamo che il mondo narrativo funzioni come il nostro e
immaginiamo di conseguenza” (Carroll, Choi 2005, p. 181).
Anche Walton è convinto che, una volta che accettiamo
la cornice finzionale, la logica di fondo delle esperienze che
396 Damiano Cantone

facciamo è del tutto analoga a quella reale, ma priva del por-


tato di angoscia, sofferenza e dolore comportato dal vivere
nel mondo reale (Walton 1990, p. 92). Interessante è a que-
sto proposito l’intuizione per la quale le opere d’arte sono
tali solo se possono fungere da supporto a un’esperienza
finzionale. Finzionale ma non finta: in pratica il falso è un
quel surplus di realtà che aggiungiamo al supporto materia-
le per trasformarlo in un’esperienza vicaria. È in questo che
risiede il successo o meno di un’opera di finzione, nella sua
capacità di continuare a generare giochi di finzione e dunque
esperienze esistenziali, e per di più da essa dipende anche la
possibilità di un’opera di rimanere longeva e continuare a
suscitare interesse a distanza di molto tempo o a una secon-
da o terza fruizione. Se il valore delle storie risiedesse solo
nella loro capacità di comportare degli elementi di novità,
non si capirebbe come mai la rappresentazione delle trage-
die greche continui ad attirare spettatori e – cosa ancora più
significativa – come mai i bambini, lungi dall’essere annoiati
dall’ascoltare racconti famigliari, vogliono che si ripeta loro
sempre la stessa favola evitando ogni minima variazione. In
effetti, un bambino, anche se conosce l’esito di una narrazio-
ne “è autenticamente preoccupato per la sua sorte e segue in
modo attento gli eventi man mano che si susseguono”. Una
tale esperienza di eccitazione e suspense è dovuta “al fatto
che fittiziamente sia incerto dell’esito, non a un’incertezza
effettiva”. D’altra parte, aggiunge Walton, non ci stupiamo
degli stessi effetti quando ascoltiamo un brano musicale,
anzi, la conoscenza pregressa del brano sembra essere un
prerequisito necessario alla sua piena fruizione. Lo stesso
vale quando ci si reca a vedere un film di cui si conosce il
finale perché si è letta una recensione, oppure quando il pro-
tagonista è un super-eroe seriale (tipo Sherlock Holmes o
Superman) e quindi sappiamo che non può venir sconfitto.
Per la teoria di Walton, secondo la quale la risposta alle
opere di finzione richiede che noi a nostra volta “facciamo
finta” di crederci, questo avviene perché non siamo davvero
preoccupati per la sorte dei protagonisti delle storie (caso
La potenza del falso 397

mai il nostro interesse nei loro confronti sarà solamente fit-


tizio), ma siamo concentrati sulla riuscita della nostra espe-
rienza di finzione. Lo scopo della partecipazione emotiva,
il motivo per cui fingiamo di avere paura, speranza, ecc. è
proprio quello di una simulazione di esperienza che ha per
noi un altissimo valore formativo, una vera e propria pedago-
gia delle emozioni. Partecipare ai giochi del fare finta non è
tuttavia innocuo come potrebbe sembrare – e d’altra parte se
fosse completamente innocuo non se ne capirebbe l’estrema
importanza in tutte le società umane –, ma comporta che “i
fruitori siano davvero immersi nei mondi di finzione” (ivi,
p. 320). I giochi di finzione sono regolati, come tutti gli al-
tri, e le loro regole vengono definite da Walton “prescrizioni
di immaginare” a cui i fruitori si attengono e che servono
da supporti riflessivi per la loro azione e per i loro atti di
immaginazione.
Consideriamo per esempio quanto succede in un film
generalmente poco considerato da questo punto di vista e
che invece presenta almeno un paio di sequenze di suspense
assolutamente magistrali, Bastardi senza gloria (2009) in cui
la componente “finzionale” di cui parla Walton risulta più
trasparente rispetto ad altri film, proprio per la dimensione
ludica e post-moderna che caratterizza il cinema di Taranti-
no. Nel cappello introduttivo del film il colonnello nazista
Hans Landa, che si premura subito di ricordare di essere
soprannominato il “cacciatore di ebrei”, interroga un con-
tadino francese circa un gruppo di ebrei di cui il drappello
nazista è alla ricerca.
La scena sembra interlocutoria, siamo certamente pre-
occupati per la sorte del contadino e della sua famiglia, ma
capiamo subito che non è lì che Tarantino vuole andare a
parare. Il punto è che il colonnello delle SS, colto, ostentata-
mente educato, poliglotta, è da subito eccessivamente in con-
trollo, sembra saperne molto di più di quanto vuole dare a
intendere ed è proprio questo savoir faire che ci inquieta. Poi,
improvvisamente, quando la conversazione tra i due sembra
essere entrata in un cul de sac narrativo, la macchina da presa
398 Damiano Cantone

si sposta dal piano del tavolo e inizia lentamente a scendere,


prima all’altezza degli stivali del colonnello nazista, poi sotto
le assi del pavimento, scoprendo gli occhi sbarrati e terro-
rizzati di una famiglia ebrea letteralmente pietrificata per la
paura. Iniziano un paio di minuti di pura e semplice suspense:
è evidente che siamo preoccupati, che temiamo per le vite di
quel gruppo di persone, ma siamo consapevoli di essere pur
sempre all’interno di quel particolare congegno ludico che è il
film di Tarantino, per cui non possiamo avere veramente pau-
ra, ma soltanto provare una paura finzionale. È, appunto, la
“quasi paura” di cui parla Walton, una paura verso una cosa
che “non fa davvero paura” (Walton 1990, p. 287).
Quando parliamo di paura c’è dunque una bella differen-
za tra l’avere paura per davvero, davanti ad un pericolo reale,
e aver paura per finta, davanti ad un pericolo solo immagi-
nario. Pur tuttavia questo secondo caso non sarà privo di
importanza per il soggetto che ne fa esperienza. Lo stesso
Charles Darwin, riferisce Walton, descrive l’importanza di
questo modo di avere paura, quando racconta che, di fron-
te alla teca di una vipera soffiante ospitata all’interno di un
giardino zoologico, non riuscì a trattenere un moto di paura,
pur essendo perfettamente preparato a quello che lo aspetta-
va – “la mia volontà e la mia ragione erano impotenti contro
l’immaginazione di un pericolo che non era mai stato speri-
mentato” (Darwin 1872, p. 17) –. Walton nota che Darwin
sta partecipando al suo gioco di far finta di aver paura, seb-
bene si comporti esattamente come se avesse paura davvero.
È una paura finzionale, ma non simulata. Per comprendere
la differenza tra le due, basti pensare che quella del secon-
do tipo è la paura che gli attori simulano durante la perfor-
mance recitativa in un film o a teatro. Ci vuole una buona
capacità di astrazione e di autocontrollo per mostrare i segni
della paura quando si è perfettamente tranquilli davanti a
una troupe al lavoro. La paura finzionale invece è una paura
che davvero proviamo, ma non in modo reale: sappiamo che
non c’è pericolo, ma ci esponiamo al brivido e al conseguen-
te piacere che esso ci offre (come in molti giochi di bambini,
La potenza del falso 399

in cui l’adulto recita la parte del mostro e il bambino scappa


eccitato e spaventato al tempo stesso).
Il fatto che finzionalmente siamo minacciati da un peri-
colo (mentre invece non lo siamo davvero) provoca in noi
una reazione che è del tutto indistinguibile dalla paura reale
per un osservatore esterno, ma che invece è radicalmente
differente per noi che proviamo tale sentimento. C’è dunque
uno scarto tra il credere (nel senso di “essere convinti di”)
e l’esercizio immaginativo che è reso possibile dal fatto che
non siamo davvero in pericolo, e proprio perciò possiamo
ipotizzare di esserlo. D’altra parte, il riferimento al gran-
de naturalista inglese non è certo solo strumentale. È stato
infatti Darwin a dare un colpo probabilmente decisivo alla
pretesa “onestà del creato”, ovvero all’idea che la condotta
della natura nel perseguire i propri scopi sia improntata al
più stretto fair play e a una logica economica della frugalità
e del risparmio. Nel suo studio sugli insetti che si trova ne
L’origine dell’uomo (Darwin 1871), egli prende in conside-
razione alcune specie di farfalle che per sopravvivere si “tra-
vestono” da Heliconidae, un’altra specie di farfalle che non
viene cacciata dai predatori perché tossica, fino a diventare
totalmente indistinguibili da esse. Non si tratta di una for-
ma classica di mimetismo passivo, per cui l’animale cerca di
rendersi invisibile agli altri confondendosi con lo sfondo, ma
di una strategia attiva di camuffamento e imbroglio che fa
leva su una iper-visibilità ingannevole. Ed è chiaro che l’in-
ganno è una strategia di sopravvivenza che è stata sfruttata
nel modo più efficace proprio dall’uomo, che grazie ad esso
ha sottomesso specie ben più forti e numerose di lui. Essa si
fonda su una certa dose di complicità, una condivisione di
un universo di segni che vanno interpretati, (Fabbri 2011,
pp. 11-25) una propensione a ingannare e a farsi inganna-
re: un falso che non si oppone staticamente al vero, ma che
produce dinamicamente un risultato efficace. Ci si potrebbe
spingere, come fa Caillois nei suoi studi dedicati al caratte-
re intimidatorio del mimetismo, a proporre un parallelo tra
l’evoluzione delle strategie del falso nel mondo degli insetti
400 Damiano Cantone

e degli esseri umani, mostrando come il falso e il suo uso


efficace caratterizzino ogni forma di organizzazione sociale
in natura (Caillois 1960).
Non è una coincidenza, in tal senso, che l’Ottocento abbia
visto crescere, in campo artistico, l’interesse per le procedure
scientifiche tese a trovare dei criteri oggettivi per distinguere
un’opera d’arte vera da una falsa. Nella stessa proporzione in
cui le nuove scoperte sul falso in natura facevano collassare
il paradigma modello-copia – l’idea mai tramontata davvero
che ci sia un qualche progetto, un qualche modello per lo
sviluppo della storia naturale – minando la fiducia nelle spie-
gazioni olistiche della realtà, cresceva la necessità di trovare
una forma di autenticità, unicità e inimitabilità interna all’o-
pera d’arte stessa, ovvero proprio nel luogo nel quale il falso
era stato individuato e in larga parte tollerato. La soluzione
è stata quella di cercare di ancorare l’opera d’arte in modo
inconfutabile e irrevocabile al suo autore, di modo tale che
fosse un qualche carattere idiosincratico della sua soggettivi-
tà a garantire all’arte una forma di verità del tutto differente
rispetto a quella degli oggetti prodotti industrialmente che
cominciavano a riempire di sé il mondo.
Si è cercato cioè di ritrovare la verità dell’opera d’arte
nell’operare stesso dell’artista, nella sua capacità di produrre
un “vero falso”, un falso che è in posizione terza rispetto alla
distinzione operata da Platone, perché in esso non è in gioco
la verità, ma l’autenticità.

Il vero falso

In conclusione, la filosofia dovrebbe imparare dall’ar-


te a non pensare il falso in termini dialettici, a emancipar-
lo dallo scomodo ruolo di ombra del vero. Sulla scorta di
Nietzsche e Deleuze, in questo intervento abbiamo scelto
di considerarlo in termini di potenza, e di ricondurre questa
potenza al campo dell’esistenziale antropologico. Esiste un
lato produttivo nel falso, che non può venir semplicemente
La potenza del falso 401

esorcizzato con un corretto uso della logica. Nel rapporto tra


l’uomo e l’ambiente – naturale e sociale – inganno e falsità
giocano un ruolo tanto peculiare quanto fondamentale. Ma
c’è ancora un rilancio della questione, che è peculiare degli
esseri umani: noi vogliamo essere ingannati. È stato Robert
Trivers (2011) per primo a enunciare questo paradosso: il
modo migliore per ingannare gli altri è ingannare noi stessi.
In pratica Trivers sostiene che per poter ingannare qualcuno
senza tradirsi attraverso i segnali inconsci che non control-
liamo (mimica facciale, gesti con le mani, voce, ecc.) dob-
biamo essere le prime vittime convinte del nostro inganno.
L’autoinganno è dunque la forma più raffinata nella quale si
esprime la potenza del falso. Quale potrebbe essere tuttavia
il guadagno di una strategia evolutiva così paradossale? In
un recente articolo, Pievani e Vallortigara ipotizzano che noi
“accettiamo il costo di un eccesso di prudenza (e il rischio
dell’autoinganno) perché l’alternativa di un singolo errore
sarebbe fatale. Meglio superstiziosi, ma vivi, piuttosto che
scettici e razionali ma estinti (Girotto, Pievani, Vallortigara
2013, pp. 32-39). Preferiamo dunque intravedere possibili
minacce anche là dove esse non sono, onde evitare di sotto-
valutare un pericolo reale.
C’è forse un movimento analogo eppure opposto. Il ci-
nema, l’arte la religione e in generale i mondi finzionali nei
quali ci immergiamo seguono una loro strada, che mal si ac-
corda con l’esigenza di mediazione e giudizio implicata dal-
la filosofia. È quella di una produzione dettata dall’eccesso
e dalla sovrabbondanza, e non esclusivamente dalla paura
e della prudenza. Le narrazioni e i giochi di finzione non
servono solo a sopravvivere, ma soprattutto a vivere bene,
nell’accezione che questo termine ha nel pensiero di Ortega
y Gasset. Vivere bene è un’esigenza per l’essere umano, che
non accetta di stare al mondo come una cosa. L’arte si confi-
gura dunque come potenza del falso perché soddisfa un’esi-
genza esistenziale, quella di produrre una realtà nella quale è
piacevole stare. La nostra immaginazione è sovrabbondante,
e sarebbe limitante considerarla solo uno strumento evoluti-
402 Damiano Cantone

vo legato alla nostra sopravvivenza, uno strumento per com-


pensare la nostra supposta inadeguatezza originaria alla vita.

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