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Riassunto del libro Fabio Mauri, Opere e Azioni 1954-1994.

Non è possibile etichettare Fabio Mauri sotto un’unica tendenza. Egli ha praticato diverse forme
d’espressione, considerandole forme equivalenti di uno stesso impulso: la pittura, il teatro, la riflessione
sull’estetica fanno tutte parte di un processo globale che tende a un orizzonte il più vasto possibile.
Mauri ha sempre lavorato sulle stesse tematiche: i modelli comportamentali dell’ingiustizia o della
sopraffazione: fascismo, nazismo, autoritarismo; nella ripetizione, nel ritorno di quanto accadde in passato,
la metafora si riattualizza.

Nello schermo: insonnia per diverse forme contrarie di universo.

È facile pensare che l’opera di Mauri si snodi nel tempo attraverso diverse e distinte fasi, ognuna delle quali
condivide poco con le precedenti e le successive, così come è facile pensare che Mauri si sia cimentato
contemporaneamente in diversi generi espressivi quali la pittura, il teatro, la scultura, l’istallazione, la
performance e la riflessione teorica.
Numerosi sono i temi affrontati da Mauri e diverse sono le modalità espressive che egli adopera. Tuttavia, è
presente un filo conduttore, quasi un’ossessione, che percorre ogni mossa dell’artista. Alla base di tutto vi è
una riflessione sullo schermo – cinematografico e televisivo – e sulle implicazioni della proiezione nella
società e nella soggettività contemporanea.
Mauri vive la sua infanzia durante il fascismo, e matura il suo pensiero e la sua opera negli anni 50, quando,
oltre al cinema, si aggiunge anche la televisione alla vita quotidiana. In questo contesto va collocato l’inizio
della sua ricerca.
Lo schermo, implicitamente o esplicitamente presente nelle opere, viene concepito da Mauri come
l’emblema fondamentale della civiltà dell’immagine. L’opera per Mauri vuole essere una decostruzione
critica dei meccanismi di manipolazione del pensiero nonché un0esplorazione dell’identità del soggetto in
un’epoca complessa di esperienze pre-determinate da rappresentazioni narrative, filmiche, fumettistiche. Di
questo parlano i primi disegni e collage, in cui sono congiunti frammenti di fumetto e pittura informale, ed
in cui ogni rappresentazione figurativa è mediata dalla caricaturizzazione fumettistica. Il tratto nero e veloce
che spesso appare in queste prime opere ricorda quello gestuale di Franz Kline, ma è svuotato dal peso
esistenzialista ed eroico.
Contrariamente agli artisti della pop art, alcuni dei quali negli anni 60 si orientano verso tecniche sempre
più meccaniche di produzione dell’immagine, quasi a volere simulare la serialità e la disumanizzazione della
civiltà contemporanea, Mauri non dimostra interesse per una diretta riproposizione dell’immagine iconica
della contemporaneità. Lo interessa invece lo statuto della narrazione, il fare della storia. L’uso di
procedimenti fondamentalmente allegorici e di montaggio paratattico, che si ritrova in queste prime opere,
ricorre in tutta la produzione successiva.
Lo Schermo bianco è solo apparentemente lontano dall’accumulo di elementi giustapposti dei collage. È uno
schermo spento, dove ogni proiezione, ogni film, ogni fumetto, è già stato.
Dopo la forma aggettante e bianca dello Schermo di carta o di tela nel 1958-60, l’artista fino al 1963 usa una
garza fine nella parte superiore del telaio, capace di fare filtrare alla vista segni-oggetti sottostanti. Nella
parte inferiore e non velata degli Schermi-targhe, come Drive in, appaiono degli oggetti-segnali a forma di
targhe automobilistiche, rettangolari e dai bordi smussati come quelli di uno schermo. Indicano lo
spettatore stesso; nelle Targhe, lo spettatore che si proietta nel quadro-schermo, è anche rappresentato
nella parte inferiore del dipinto sotto dorma di piccolo rettangolo nero. Il pubblico, che è parte della
comunicazione, è anche parte dello stesso messaggio; l’oggetto è entrato nella sfera del soggetto.
Sotto la garza della parete schermo del dipinto, traspaiono anche strisce di segnali stradali.
In queste Targhe dei primi anni 60, che costituiscono già una seconda generazione degli Schermi, si
intravvede a volte, dietro a una garza, un disto da 45 giri che allude sempre all’esperienza contemporanea
come serie di eventi già incisi, predeterminati. In Schermo-Casa, l’intero spazio della tela è dominato dalle
targhe nere (gli spettatori) come se non ci fosse nemmeno più la necessità dello schermo in quanto il
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soggetto è diventato egli stesso schermo ed identità incisa.
Tutte le opere successive di Mauri terranno conto della necessità di coinvolgere lo spettatore, dalle
performance con installazione come Ebrea e Che cosa è il fascismo, alle azioni come Oscuramento, fino a
Via Tasso: un appartamento, dove gli spettatori si ritrovano coinvolti ad assistere a un rito religioso,
celebrato all’interno dei locali che furono la prigione usata dalle SS tedesche durante l’occupazione di Roma.

Quali implicazioni e conseguenze prova l’essere nello Schermo? L’identificazione tra soggetto ed evento
impedisce la comprensione; dentro lo schermo l’io perde la libertà.
Nella performance Ebrea – forse la più nota tra le opere di Mauri – lo schermo appare sostituito da uno
specchio, e i capelli – che la ragazza nuda si taglia e incolla sullo specchio – danno corpo al simbolo della
stella di Davide.
A partire dal 1971 le opere di Mauri non si riferiscono più direttamente al mondo virtuale dello schermo, ma
al racconto che vi è narrato. All’interno della proiezione lo spettatore è compartecipe, attraverso le azioni di
persone vere, e attraverso gli oggetti che popolano questo spazio.
Se l’oggetto della cultura americana era il consumismo, non è così per la cultura europea secondo l’artista;
l’oggetto europeo è proprio l’ideologia. Naturalmente nelle opere di Mauri erano presenti oggetti di
consumo, tuttavia, non assumevano uguale forza simbolica.
Opere Che cosa è il fascismo o Ebrea, ma anche altre, funzionano come antichi esercizi spirituali, immersioni
nel mare. Si è attratti e sedotti dall’armonia che fuoriesce da queste scene, tuttavia, Mauri non riconosce il
bello come bene. In Ebrea l’esercizio spirituale è osservare il gesto ripetuto della donna nuda che si taglia i
capelli davanti lo specchio, avvertire l’orrore conferito agli oggetti-sculture che la circondano. Mauri
propone allo spettatore un viaggio all’interno del massimo del male, in cui l’apparente oggettività con cui gli
oggetti sono proposti, quasi fossero presentati come “normali” cimeli di un mondo in cui il nazismo avesse
vinto, provoca un profondo ribrezzo. Il fascismo, nel ricordo dell’artista, con il suo culto dell’armonia e della
simmetria, del bello e della giovinezza, assume, nell’opera dell’artista, il carattere di massima bugia, di
massimo grado della manipolazione del pensiero e della perdita del libero arbitrio.
Il libro Manipolazione di cultura, edito nel 1976, consiste in una sequenza di montage fotografici con
immagini d’epoca fascista (la parata, la festa, il discorso ufficiale) e si conclude con l’immagine di un
cineoperatore d’epoca la cui didascalia recita “filmano tutto”, quasi a sottolineare il legame tra i nuovi media
e lo stato totalitario.
La performance Che cosa è il fascismo (1971) affronta la rimozione collettiva della storia contemporanea
attraverso la riproposizione di una cerimonia di ludi juveniles d’epoca fascista (NB: I Ludi Juveniles erano un
saggio annuale di cultura fascista, arte e sport, al quale partecipavano, nelle province, gli iscritti di tutte le
categorie e che aveva il suo epilogo a Roma). Mauri porta di nuovo la sua riflessione sulla
predeterminazione dell’esperienza nell’epoca dei media fino alla questione del plagio ideologico quale
esempio estremo di persuasione occulta. Lo schermo e la proiezione non sono più soltanto in riferimento al
mondo postindustriale del cinema e della televisione, ma sono i luoghi della manipolazione del consenso
politico, gli strumenti della seduzione ideologica. Non è un caso che gli spettatori (seduti su tribune dove
sono ordinati per categorie, accanto a un ospite tedesco rappresentato da un manichino in cera) e gli attori
(giovani che recitano lo spettacolo) si muovano ed agiscano sullo sfondo di un grande schermo bianco che
reca la scritta “The End”, sul quale vengono proiettati, nel finale della performance alcuni Film Luce d’epoca.

Prima di Che cosa è il fascismo, Mauri aveva utilizzato nello schermo Marilyn (1964) l’immagine seduttiva
della femminilità come diva del cinema. L’immagine femminile è per Mauri ambivalente: è l’oggetto del
desiderio ed è il prototipo di una bellezza che può distrarre le facoltà critiche e lasciare il terreno alle
persuasioni occulte.
Poco interessato a sperimentare i nuovi linguaggi video, l’artista è stato più intento a svelare l’identità del
soggetto mediale. Un importante capitolo della sua opera è stato in tal senso la serie di Proiezioni,

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letteralmente delle proiezioni di film su oggetti e corpi animati, che prende avvio con la proiezione del film
Salmo Rosso sul petto del regista Miklos Jancso durante l’azione Oscuramento. In Intellettuale, Il Vangelo
secondo Matteo viene proiettato su Pier Paolo Pasolini, seduto davanti al Museo Civico di Bologna.
Piuttosto che partecipare al mito del progresso in arte, lo sguardo dell’artista diventa retrospettivo, fino
addirittura ad includere un’autentica opera d’arte antica nell’istallazione I numeri malefici alla Biennale di
Venezia del 1978.
Sia dal punto di vista estetico (nel senso del rifiuto del formalismo e del concetto di autonomia dell’opera)
sia da quello strutturale e meccanico (nel senso dell’uso di sistemi di presentazione e generazione
dell’opera) vi è un’esplicita critica al modernismo in quasi tutta l’opera di Mauri.
Il rifiuto della semplicità del messaggio, la complessità di livelli, una struttura paratattica, l’uso del
montaggio fotografico, di figure retoriche come l’allegoria, pongono l’opera di Mauri fuori dal percorso
modernista e più vicino ad esperienze di decostruzione e montaggio postmoderne.
Mentre uno dei principi fondanti dell’arte contemporanea è quello della rappresentazione mimetica come
falsità, come inautenticità, Mauri non esprime alcun rifiuto della mimesi o del concetto di verosimiglianza,
perché tutto, nella società mediale, è rappresentazione. Di conseguenza, le diverse forme di attività, il
passaggio da una problematica all’altra attraverso gli anni, è parte fondante dell’operazione di Mauri, tesa a
restituire la complessità del reale (anche per quanto riguarda il lavoro dell’artista, che non deve fondersi in
un’utopistica arte totale).

Cose dell’altro mondo.

Fabio Mauri sostiene che tutti i materiali verbali di Che cosa è il fascismo, così come i costumi, gli usi, i
numeri ginnici che egli rievoca, sono autentici. Tutto quanto è un collage di documenti autentici, che l’artista
ha scelto e utilizzato durante la performance. La questione che più interessa è il fatto che Mauri ha preso
questi documenti e li abbia utilizzati nudi e crudi, senza modifiche, riuscendo a far dire certe frasi senza
parodia o senso del ridicolo o dello spavento. Che cosa è il fascismo impressiona lo spettatore per la sua
credibilità a livello immediato e diretto. In quanto figure storiche, a quei giovani in divisa e dalla faccia
impegnata si crede subito. Non sono minacciosi, né grotteschi, ma anzi simpatici. La loro serietà non sa di
fanatismo, ma è semplice onestà verso il proprio compito. In quanto attori sono credibili perché fanno solo
quel che stanno facendo e lo fanno senza commenti involontari, senza cercare di giustificare il proprio
personaggio o di condannarlo. Non è realismo ma è evocazione.
Di quella cerimonia fascista del ’39, alle Cascine di Firenze, Ludi Juveniles, cui l’autore partecipò,
ricompaiono i ritmi, il suo montaggio. I costumi, le divise, le acconciature, sono rifatti tali e quali, ma
l’organizzazione di massa è rappresentata in assenza della massa. Sono una dozzina di attori e attrici, e gli
spettatori – ben lontani dai numeri della folla – sono suddivisi in sei tribune nere.
 Che cosa è il fascismo è stato rappresentato per la prima volta il 2 aprile 1971, per una sola serata, negli
studi cinematografici Safa Palatino di Roma, come punto d’arrivo di un seminario di Fabio Mauri con gli
allievi dell’accademia d’arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma. fu poi riallestito nel settembre 1974, con
gli studenti dell’università Ca’ Foscari nel corso della Biennale Teatro di Venezia. Nel 1979 venne allestito in
un seminario presso il Drama Departement della NY University.

Preistoria come storia.

Fabio Mauri nasce a Roma il 1° aprile 1926. La madre apparteneva a una famiglia di militari ma anche di
pittori. La famiglia del padre Umberto era dominata dalla personalità del Cavaliere Achille Mauri, impresario
teatrale. Sua la gestione del Teatro Argentina, dell’Apollo (ora teatro Eliseo), del Trianon e del Mediolanum a
Milano. Molto precocemente, Achille Mauri lasciò al figlio Umberto l’eredità teatrale; Umberto cercò di
continuare quest’impresa, ma la fortuna non lo favorì. Lasciò il lavoro a teatro e andò a Milano a lavorare
con un giovane editore, Arnoldo Mondadori.
Fin da bambino Fabio Mauri entra in contatto con figure che frequentavano la famiglia, come Ettore

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Petrolini, Pirandello, Alberto Savinio e altri. Fabio Mauri pensò sempre di fare l’artista, in particolare il
drammaturgo e il pittore. La pittura moderna gli era stata mostrata da Michel Ranchetti, professore
all’università di Firenze; egli lo portò alla galleria Barbaroux a Milano, dove Mauri vide quadri di de Chirico,
Tosi, Carrà.
Mauri cominciò ad esprimersi disegnando fumetti e cercò successivamente di portare il fumetto nell’arte.
Nessuno a Roma in quegli anni (1958) prese in considerazione i suoi fumetti, e la notizia che a NY un certo
Lichtenstein aveva avuto successo proprio con i fumetti gli fecero abbandonare l’impresa.
Nel 1938 Mauri si trasferì a Bologna, qui conobbe Pier Paolo Pasolini, divennero amici e fondarono la rivista
“il Setaccio”. Con Pasolini andò a Firenze ad un simposio in cui si dibattevano i temi di due regimi, fascisti e
nazionalsocialista, sotto l’occhio del ministro Bottai; a questa data Mauri aveva 14 anni. Questa vicenda è
alla base della performance Che cosa è il fascismo.
A Bologna Mauri incontrò la pittura futurista, tuttavia a quegli anni le azioni del futurismo erano ormai
scadute. Molti anni dopo, nel 1980, Mauri riaffrontò il tema del futurismo allestendo uno spettacolo (Gran
serata futurista 1909-1930) in cui pittura, letteratura, teatro, scultura, poesia, grafica futuriste vennero
presentate in uno spettacolo di quattro ore al Teatro Comunale de L’Aquila con gli allievi dell’accademia di
belle arti dove Mauri aveva iniziato ad insegnare. Nel 1993 replicò lo spettacolo a Roma, a Milano e di
nuovo a L’Aquila.
Durante la guerra perse di vista i suoi amici e rimase con la famiglia spostandosi in base allo spostamento
del fronte tedesco-americano. Mauri non resse i disagi fisici e si ammalò mentalmente. La fine della guerra,
le devastazioni, i campi di concentramento e la consapevolezza che i suoi amici ebrei non sarebbero più
tornati fulminarono la sua mente. Smise di dipingere, di scrivere, di frequentare gli amici, si chiuse in casa e
in se stesso. Andò in diversi manicomi, in tutto fece 33 elettrochoc.

Catalogo.

Prime opere. 1954

Le basi del lavoro di Mauri sono tutte nell’esperienza dei suoi primi 18 anni di vita: la guerra, la conversione,
la follia, il dramma degli amici ebrei mai più tornati, la scoperta dell’altra faccia del fascismo dall’aspetto
affascinante.
Mauri inizia ad approcciarsi all’arte con una pittura dal linguaggio espressionista. È una pittura violentissima,
dove i colori vengono prelevati dal tubetto e scagliati direttamente sulla tela. Le opere dal 1954 al 1956
presentano colori accesi e una costante destrutturazione spaziale; non vi è ricerca di naturalismo.

I prototipi: disegni e collage. 1957-1960

Dopo il suo arrivo a Roma nel 1956, l’artista entra in contatto con alcune opere di Burri. Da quest’esperienza
prende avvio una riflessione sulla possibilità di utilizzare il contesto contemporaneo nell’opera d’arte.
Nascono i disegni, dipinti e collage del 1957-60, opere neo-dada, proto pop e protoconcettuali. Sono
collage, su carta e su tela, di materiali diversi come frammenti di fumetti, oggetti vari, tempere, vinavil.
La fine degli anni 50 vede lo svilupparsi delle premesse contenute in diversi artisti come Burri, Colla,
Rauschenberg, Johns e Rotella: dalle opere gestuali dell’espressionismo astratto, l’arte si apre al contesto
urbano contemporaneo.
L’uso del fumetto nelle opere di Mauri dimostra la precocità della sua riflessione. I primi usi del fumetto
nell’arte americana risalgono al 1959. Sebbene Lichtenstein usasse già il fumetto ridisegnato in maniera
espressionista nel 1958, il suo primo fumetto vero e proprio è del 1961, così come i primi fumetti di Andy
Warhol; entrambi successivi ai lavori di Mauri.
Attorno al 1960 l’artista rallenta la realizzazione di collage/fumetti per concentrarsi su una nuova fase di
elaborazione dei suoi Schermi, già iniziati parallelamente ai disegni/collage alla fine degli anni 50.

I prototipi: schermi. 1957-1994

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Alla fine degli anni 50 l’artista realizza le prime opere monocrome chiamate genericamente “schermi”. Il
primo Schermo, intitolato Disegno, è un foglio di carta rettangolare (60x100cm) i cui quattro lati sono dipinti
con una banda di colore nero a tempera, come ad incorniciare un rettangolo interno al foglio. Il titolo allude
al grande schermo cinematografico, simbolo della nuova civiltà contemporanea dell’immagine. Dopo il
primo Disegno, Mauri sviluppa nel 1958-59 una serie di piccoli Schermi con parti aggettanti, tutti della
stessa dimensione (circa 62x45x12 cm); qui l’artista si volge anche al televisore. I primi di questi lavori sono
realizzati con fogli di carta extra strong formato A1 tirati sopra un telaio aggettante. Poiché la carta bagnata
e tirata sul telaio si rompe con facilità, l’artista sperimenta anche l’uso del cartoncino, per poi passare alla
tela di cotone. La tela è a volte grezza (e quindi mantiene una trasparenza simile alla carta), altre volte è
dipinta con tempera bianca. Nella parte superiore dell’opera si percepisce una forma rettangolare dagli
angoli smussati che fuoriesce dal livello bidimensionale del telaio, e che ricorda il bordo di uno schermo. La
carta o la tela nella parte inferiore del quadro è generalmente liscia e tirata, ma vi sono anche alcuni
Schermi, chiamati Tasca da cinema, dove si evidenzia una piega nella parte inferiore.
Lo schermo è un vuoto contenitore di ogni film, ed è lo schermo dove la proiezione è già avvenuta. Il senso
del “già accaduto”, segnalato spesso nelle opere di Mauri con la scritta The End o Fine, sia nei collage che
negli Schermi, rimanda all’osservatore il senso che ogni esperienza contemporanea è manipolata, alienata,
da realtà surrogate e simulacri, e pone quindi la questione del libero arbitrio in una società dominata da
spazi convenzionali e dai media.
Gli schermi del 1960 non sono più tra i primi “prototipi”, ma già una loro seconda versione più grande,
versione che caratterizza gli Schermi dal 1960 al 1963. Lo schermo più grande (circa 125x110 cm) è
generalmente diviso in due parti: nella parte superiore un velo di garza di cotone è tirato sopra parti
aggettanti del telaio attraverso cui si intravvedono in trasparenza del colore nero o altri elementi. La parte
inferiore si popola di oggetti in legno laccato nero, piccoli dischi da 45 giri ed altro materiale. Questi Schermi
grandi sono chiamati dall’artista Targhe, sia per la presenza di elementi che ricordano la segnaletica
stradale, sia per la presenza di uno o più rettangoli dai bordi smussati, simili alla forma delle targhe
automobilistiche.
Attorno al 1964 diminuisce la produzione degli Schermi/Targhe a favore di opere con elementi figurativi,
esplicitamente riferite alle icone del cinema contemporaneo.
I primi Schermi, piccoli e monocromi, ritorneranno in versione modificata intorno al 1970 e poi di nuovo nel
1972 con i cosiddetti “Schermi di seconda generazione”.
Filo conduttore dell’intera opera di Mauri, gli Schermi sono anche i corpi e gli oggetti su cui avvengono le
Proiezioni.

Pile e cinema a luce solida. 1968

L’idea della proiezione ripercorre tutto il lavoro di Mauri. Tra i vari progetti di Mauri c’era quello di due
proiettori che proiettavano l’uno contro l’altro. In questo caso all’idea originaria di proiezione si sommava il
desiderio dell’artista di recuperare Depero, a quel tempo considerato un minore. Mauri osserva con grande
attenzione le opere del futurista, in particolare le sue lampadine con i raggi solidificati. L’idea di dare un
corpo alla luce partiva anche dal concetto che tutte le componenti dell’esistenza sono reali, compreso il
pensiero. L’attenzione era quindi alla fisicità della proiezione. Nascono così le Pile a luce solida.
Un precedente può essere rintracciato nei paralumi disegnati da Mauri per la mostra Arte-oggetto alla
Salita, piccoli schermi con immagini a decalcomania. Successivamente, a seguito di un invito a esporre un
progetto di grandi dimensioni, Mauri pensa a un enorme modello di torcia elettrica con raggio solidificato.
Dalle Pile si passa al Cinema a luce solida; “sono dei multipli composti da due parti, un simulacro di un
proiettore e un simulacro del fascio di luce diretto dall’obiettivo verso lo schermo”.

Luna. 1968.

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Mauri espose quest’istallazione al Teatro delle Mostre, tenuto nel maggio 1968 a Roma presso la galleria La
Tartaruga. Maurizio Calvesi la descrisse così: “Fabio Mauri, entro uno spazio chiuso cui si accedeva da un
entrata ovale, cosparse il fondo di perlinato di polistirolo, tra cui i piedi dei visitatori affondavano, a
immagine del suolo lunare, dove ci si poteva anche sedere o distendersi, con il polistirolo che si attaccava ai
vestiti”.
Gli artisti erano stati invitati da Plinio de Martiis, direttore della galleria, ad esporre ciascuno per un solo
giorno. Caratteristica del Teatro delle mostre è stato l’aver introdotto per primi il teatro interpretato dagli
artisti-attori all’interno di una galleria, allargando l’esperienza estetica dei singoli alla società intera,
rappresentata dai visitatori della rassegna.

Che cosa è il fascismo. 1971.

L’azione si tenne per la prima volta il 2 aprile 1971 a Roma presso gli studi cinematografici Safa Palatino, e si
svolse con la partecipazione degli allievi dell’accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico a conclusione del
seminario diretto da Giorgio Pressburger. L’azione consistette nella simulazione, quasi ricostruzione, di una
cerimonia di ludi juveniles d’epoca fascista, nel corso della quale Giovani Italiane e Giovani Fascisti in divisa
eseguono atti ginnici, di scherma, di pattinaggio, sbandieramenti, inni, dibattiti e interventi individuali al
cospetto del manichino di cera del Generale Ernst Von Hussel, del Console Eritreo (impersonato da un
attore) e del pubblico stesso, fatto sistemare in sei tribune nere divise per corporazioni.
Al centro campeggia un grande tappeto rettangolare recante il simbolo della svastica nazista, ed è il luogo
dove si svolge l’intera cerimonia. Ad un’estremità si trova il Podio di Comando, con alle spalle uno schermo
su cui si legge la scritta The End. All’altro capo ci sono due tribune, recanti la stella di Davide, destinate
rispettivamente a donne e uomini israeliti e, dietro di esse, un’impalcatura dalla quale verrà alla fine
proiettato un documentario dell’Istituto Luce.
Le musiche, ad altissimo volume, sono Giovinezza e Fuoco di Vesta.
La cerimonia inizia con i comandi per la distribuzione in campo dei giovani in divisa.
In Che cosa è il fascismo il contrasto tra l’apparente normalità degli eventi e la presenza di segnali negativi
(come la scritta The End) genera nello spettatore un senso di inquietudine progressiva. Secondo una
caratteristica costante delle sue opere ideologiche, l’autore ripropone qui un vissuto storico in chiave
essenziale, in modo che, dal confronto tra passato e presente, si alimenti il processo critico destinato
all’individuazione delle false ideologie.

Ebrea. 1971.

Ebrea è un’istallazione ed azione presentata per la prima volta il primo ottobre 1971 alla galleria Barozzi di
Venezia. La sala della galleria è trasformata in qualcosa come un piccolo museo di un campo di
concentramento, uno spazio abitato da oggetti-sculture, da ingannevoli suppellettili della vita quotidiana i
cui titoli manifestano la loro inquietante natura e simulano una provenienza umana: pelle, denti, ossa,
capelli di ebrei morti nei campi di sterminio. Al centro della sala si trova un cavallo bardato maestosamente
con finimenti in pelle ebrea; sempre nell’ambiente troviamo una carrozzina da neonato, gli stivali alti da
donna su pattini a rotelle, saponi, vera cera ebrea e la sedia in pelle ebrea.
Tra le opere-oggetto vi è anche una giovane donna, nuda, di fronte a un armadietto con lo specchio. Si taglia
i capelli e li incolla sullo specchio fino a comporre, lentamente, il disegno della stella di Davide, la stessa che
compare disegnata sul suo petto accanto ad un numero, il marchio della discriminazione razzista.
L’espressività artistica di queste opere si scontra con la macabra realtà evocata, provocando effetti di
straniamento nello spettatore, che ha una personale e diretta esperienza del male.
Ebrea, come Che cosa è il fascismo, ha un’esplicita e radicale caratterizzazione ideologica, con un forte
accenno posto sul versante negativo della cultura europea la cui manifestazione più diretta è stata mostrata
dalla Germania nazista.
Nel 1971 Ebrea è stata allestita a Brescia, a Parma, a Roma (alla galleria La Salita), ma non sempre sono stati

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collocati tutti gli oggetti. Nel 1972-73 è stata presentata al museo civico di Bologna, ma con alcune varianti,
ad esempio alle pareti vengono esposti alcuni collage relativi alla città.

Multipli politici. 1972-1993.

Oltre all’attività di performance o azioni complesse come Ebrea, Natura e cultura e Che cosa è il fascismo, i
primi anni 70 sono caratterizzati da una riflessione critica e di natura politica sullo statuto di unicità
dell’opera d’arte. nascono in questi anni lavori seriali di montaggio fotografico come Manipolazione di
cultura.
Parallelamente a queste opere, l’artista realizza una serie di cosiddetti “multipli politici”, che partecipano
allo stesso spirito di analisi critica e di disseminazione dell’opera nella società. Il primo di questa serie è
Vomitare sulla Grecia (1972), presentato a Roma. il lavoro consiste nell’immaginaria azione dell’artista di
vomitare sul Pireo dei colonnelli, in aereo, documentata dalla realizzazione di 500 buste di carta, simili a
quelle distribuite sugli aerei, con altrettanti fogli di resina, riso e materiali vari, che simulano il vomito
rappreso. Le buste, i fogli di resina e un fotomontaggio dell’artista da bambino in volo su di un aereo, furono
i materiali esposti. In Vomitare sulla Grecia l’idea di condanna politica si realizza in un vero e proprio
multiplo artistico, seriale in certi aspetti (il sacchetto aereo, la grafica) e singolare (ogni vomito si dispone
diversamente, cioè singolarmente, nella tavoletta di vetroresina).

Natura e cultura. 1973.

Natura e cultura è la performance di una sola persona realizzata nel 1973 alla Galleria Duemila di Bologna,
successivamente proposta con il titolo Ideologia e natura in diverse occasioni. Una giovane ragazza vestita
con la divisa fascista di “piccola italiana”, come di ritorno da un’adunata, o in procinto di andarci, si spoglia e
si riveste molte volte. La performer, in piedi davanti ad un cubo bianco, si toglie inizialmente i capi della
divisa in modo naturale: prima il cappello, poi la mantella. Poi, lentamente, con i tempi scanditi di un rito,
continua a spogliarsi e rivestirsi non seguendo più un ordine abituale. Le variazioni nel modo di vestirsi con
gli stessi indumenti modificano il valore ideologico della divisa, inducendo lo spettatore alla riflessione sul
perché si rivesta in modo così inconsueto: prima la cravatta, poi i guanti, poi il cappello, una calza. Nel
graduale percorso verso una nudità simbolica si assiste allo svelamento di ogni costume ideologico, che
lentamente va in pezzi, mostrando come l’unico dato di realtà e di certezza sia l’idea di natura, che vince
ogni ambito imposto dalla cultura d’epoca.
Questa performance è stata proposta in diverse sedi in Italia, in Europa e in Canada.
Una variante di Ideologia e natura, con un dialogo tra artista e opera intitolata Analisi dell’opera con essa
stessa venne presentata alla Galleria Eros di Milano nel 1974 e all’università di Salerno l’anno successivo. In
queste ultime due opere l’autore che crede l’azione un’opera chiusa, interroga la donna-opera vivente sulle
sue emozioni, sulla sua dipendenza dall’autore, in un percorso che assomiglia a una seduta psicanalitica.

Manipolazione di cultura. 1971-75.

Manipolazione di cultura è un lavoro grafico iniziato nel 1971, terminato nel 1973 e stampato nel 1976 da La
Nuova Foglio Editrice. Da questo libro sono tirate 1000 copie rilegate e 125 esemplari in cartella di 15 tavole
ciascuna impresse su carta Fabriano, numerate e firmate dall’autore. Questa è tra le opere più importanti
dell’artista per la comprensione del problema del tema dell’ideologia.
Dagli originali delle litografie, l’artista aveva tratto alcune tavole, presentate alla mostra Della Falsità a
Parma. Alcune piccole tavole hanno accompagnato alcune performance. Altre, ingigantite, sono state
esposte alla mostra Tutte le strade portano a Roma?
Si tratta di grandi foto intelaiate e ritoccato con una parte monocroma nera, dipinta a mano. Le tavole
hanno una struttura tripartita: nella parte alta c’è l’immagine fotografica tratta dalla documentazione storica
dei fenomeni del nazismo e del fascismo; nella zona mediana il monocromo, schermo dipinto di nero; in
basso, sul bordo, poco evidente c’è la didascalia, apposta dall’artista, una brevissima frase, a sinistra in

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italiano, a destra in tedesco, che occupa uno spazio talmente limitato da passare quasi inosservata. La zona
oscura non è uguale in tutte le tavole, dipende dalle proporzioni dell’immagine fotografica.
Il libro inizia con la pagina dalla descrizione “bruciano libri”; interessante notare come in tutte le didascalie il
soggetto non viene mai espresso. È sottointeso il riferimento al gruppo di potere, ma non essendo esplicito,
il riferimento è allargato e potenzialmente estensibile ad altri.
Le scritte sono fortemente descrittive, non fanno che doppiare l’immagine, ma in effetti dicono altro, perché
producono uno scarto che è il giudizio dell’artista, lo spazio dell’interpretazione.
Anche qua si tratta di un’analisi critica dell’ideologia, dell’immagine che una società dà di sé.
“Manipolano la cultura” è una frase utilizzata come didascalia di una fotografia. la manipolazione è quindi il
concetto fondamentale di questo lavoro: la più palese, che è quella compiuta dall’artista, di tipo linguistico e
critico, allude a una ben più profonda, che è quella interna alle stesse immagini. Rimanipolando la loro
manipolazione Mauri svela il meccanismo ideologico.
C’è un’immagine che è rivelatrice della tipologia di tutte le scenografie e iconografie del fascismo e del
nazismo: è l’immagine di una folla di persone che porta la didascalia “hanno una idea”.

Oscuramento. 1975.

L’8 aprile 1975 a Roma aveva luogo l’azione Oscuramento, in tre fasi che si svolsero in tre sedi distinte:
1. A partire dalle 18, presso lo studio d’arte Cannaviello; qua viene proiettato il film “Salmo rosso” del
regista ungherese Jancso sul busto dello stesso regista, che faceva da schermo alla propria opera.
2. Presso il museo delle cere personaggi veri, attori di scena, si mescolavano ai simulacri in cera dei
partecipanti alla riunione del gran consiglio fascista.
3. La terza fase, chiamata proprio Oscuramento, ebbe luogo presso lo studio fotografico di Elisabetta
Catalano. Sullo sfondo di una vetrata dai riquadri protetti contro i bombardamenti – quindi oscurata – tra
una serie di toto ritratto di influenti personaggi politici del momento, due danzatori si muovevano sulle note
di successi internazionali tratti da un repertorio musicale a cavallo tra gli anni 30 e 40. Nel corso di
quest’ultima fase veniva servito al pubblico un “caffè di guerra”.
I collegamenti tra le sedie della performance venivano effettuati da autobus privati, che trasportavano i
visitatori a gruppi di 50 alla volta. In tutto le persone che assistettero alla performance furono 2048.

Le proiezioni. 1975-1980.

Gli oggetti e i corpi che accolgono le immagini diventano essi stessi testimonia della storia, e simbolo di
realtà. In queste proiezioni, le immagini cinematografiche acquistano un nuovo significato per il valore
deformante degli inusuali schermi, non neutrali e con forme proprie, concepiti dall’autore come luogo
dell’attualità.

 25 ottobre 1975, Senza.


A Reggio Calabria viene proiettato il film Giovanna d’Arco sulla schiena nuda di una ragazza nera.

 9 dicembre 1975, Senza ideologia.


A Roma, al teatro Trastevere, viene compiuto un itinerario in 8 stazioni. Nell’atrio d’ingresso vediamo Savino
Caronia seduto con il viso coperto da un passamontagna nero; sul suo busto è proiettato il film Viva Zapata.
Inoltrandosi nelle sale del teatro si incontrano altre figure e oggetti – un giovane completamente nudo, una
giovane donna nera, un ventilatore, una sedia – su cui vengono proiettati altri film. Interessante ricordare in
quest’occasione la proiezione del film Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini su una sedia con sopra ua
giacca e una maglietta bianca.

 18 maggio 1976, Senza.


A Milano, all’interno della galleria Toselli viene proiettato il film Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini sulla
camicia di Paolini sopra una sedia.

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Intellettuale 1975-1994. 1975.

Il 31 maggio 1975, nel corso delle attività inaugurali della nuova Galleria d’Arte Moderna di Bologna, ebbe
luogo la performance Intellettuale. In cima alle scale e contro la porta del Museo, fu proiettato Il Vangelo
secondo Matteo di Pasolini, amico fraterno dell’artista fin dai tempi dell’adolescenza, sulla persona del
regista stesso. Il volume del sonoro, troppo alto rispetto alla dimensione ridotta dell’immagine proiettata sul
regista, aumentava il disorientamento esercitato dall’azione sia sul pubblico che sullo stesso Pasolini. Il
regista, che nel corso della proiezione aveva assunto un’espressione sofferente, disse di non essere riuscito
a seguire il film a causa della discrepanza tra le immagini e la colonna sonora così alta.
L’uso di volumi eccessivi è una caratteristica ricorrente nelle proiezioni dell’arista.

Linguaggio è guerra. 1975.

Linguaggio è guerra è il titolo di un’opera-libro del 1975 in cui l’artista ha presentato una selezione di
riproduzioni fotografiche tratte da riviste inglesi e tedesche risalenti alla Seconda guerra mondiale. Le
fotografie originali sono state completamente trasformate da una serie di tagli e montaggi;
successivamente, le stesse immagini sono state esposte più volte a parete come un’installazione. Su ogni
fotografia compare un marchio parzialmente cancellato con la scritta “Language is war”.
L’impianto delle singole riproduzioni è caratterizzato dalla composizione frontale e simmetrica
dell’immagine. Bombardamenti, palazzi distrutti, comizi, tutte queste rappresentazioni vengono tradotte
dall’intervento dell’artista nei termini di una muta segnaletica volta a svuotare le immagini da ogni traccia di
pathos. L’intento principale dell’artista era quello di approfondire il discorso sulla pluralità dei linguaggi
ideologici, i quali vengono manipolati dalle società nella loro per la conquista della supremazia ideologica.
Fine naturale del linguaggio, inteso come strumento di potere, è l’autarchia. Se il linguaggio è un’arma,
allora è anche guerra. Unico rimedico alla distorsione dell’ideologia e del linguaggio è il libero esercizio delle
capacità critiche dell’individuo.

Europa bombardata. 1978.

Europa bombardata è un intervento con il quale l’artista prese parte alla rassegna Metafisica del quotidiano.
La manifestazione includeva vari interventi operati nella città da artisti, critici e studiosi di differente
estrazione. Per la sua azione, l’artista scelse la Chiesa di Santa lucia a Bologna, un’architettura pericolante. Il
progetto originario, articolato in più eventi, non poté essere eseguito in tutte le sue parti a causa di
contrattempi e difficoltà varie, alcune anche di natura ideologica. L’intento dell’artista era di ricreare,
attraverso un percorso di oggetti d’epoca, o di proprietà personale, una memoria storica del periodo fascista
a Bologna. Il progetto principale prevedeva: l’utilizzo di un certo angolo della chiesa, già adibito a
laboratorio di ceramica, che presentava molte analogie con i forni crematori; lo svolgimento della
performance Ebrea (con la partecipazione della modella Danka Schroder che avrebbe dovuto impersonare
la Giovane Germania). L’artista aveva anche pensato di includere la performance di una festa privata
dell’alta società tedesca (tematica sviluppata successivamente nella performance Che cos’è la filosofia-
Heidegger e la questione tedesca del 1989). All’artista fu possibile occupare solo la navata centrale della
chiesa, in cui sistemò sia il cavallo che aveva fatto parte dell’installazione Ebrea, sia un autentico chiostro
per orchestrina. A sottolineare lo stato di fatiscenza dell’ambiente, che non era mai stato sottoposto a
restauri, ma soprattutto la mancanza di cooperazione alla realizzazione del progetto da parte delle autorità
competenti, viene installato all’interno della chiesa il messaggio “luogo pericolante – il bombardamento
non si potrà effettuare per motivi di sicurezza”.

Gran Serata Futurista. 1980.

Coinvolgere il pubblico, confondere arte e vita, invadere spazi non deputati è stata la principale tensione del
futurismo che ha trovato un logico sbocco nella dimensione teatrale mediante l’ipotesi di uno spettacolo
globale. Risvegliare con ogni mezzo pubblico, cioè anche con mezzi non ortodossi o non specificatamente
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teatrali, era l’indicazione di Marinetti. Seguendo questa indicazione, e riconoscendo nel futurismo la prima
avanguardia globale e la radice dell’arte italiana contemporanea, Mauri ha messo in scena per la prima volta
al Teatro Comunale dell’Aquila la Gran Serata Futurista 1909/1930. Sulla base di testi originali, Mauri ha
elaborato uno spettacolo per il quale gli allievi dell’Accademia di Belle Arti dell’Aquila (dove l’artista insegna
estetica) hanno realizzato le scene, i costumi, la ricostruzione di attrezzature, oltre ad essere gli stessi
interpreti dell’intero spettacolo.
Lo spettacolo di Mauri seguiva una struttura storica e tripartita in modo da evidenziare i vari e molteplici
linguaggi del futurismo. Tutto era costruito e reinventato con molta cura. Due inediti della rara
cinematografia futurista: l’intona-rumori di Luigi Russolo e il Dinamismo di un cane al guinzaglio di Giacomo
Balla; l’invenzione del funerale futurista; i lanci dei volantini; le risse; le canzoni, tutto quanto formava un
collage vivacissimo. Tutti i miti del futurismo vengono passati in rassegna: la battaglia al Passatismo, la
fiducia nella macchina, la concezione dello spazio e del tempo come movimento dinamico della realtà.

L’Espressionista. 1982.

L’Espressionista è un’azione che animava il ridotto del Teatro in Gran Serata Futurista 1909-1930,
nell’edizione al Teatro Olimpico di Roma del 1982. Un ragazzo in sci, vestito da sciatore d’epoca, si muove tra
il pubblico. A volte estrae matita e carta dalla tasca e disegna ciò che vede, abbandonando poi i suoi disegni
al pubblico. Dallo zaino spuntano xilografie di Heckel, Muller, e di altri giovani espressionisti.

Che cosa è la filosofia. Heidegger e la questione tedesca. Concerto da tavolo. 1989.

Attorno a un tavolo verde si svolge la simulazione di una festa privata, un rinfresco durante il quale vengono
serviti al pubblico e agli attori birra, wurstel e crauti. Gli attori discutono con i presenti. Il filosofo Giacomo
Marramao ricopre il ruolo del filosofo Martin Heidegger. Personaggio chiave della performance, Heidegger a
sua volta rappresenta il pensiero filosofico, la cultura e la lingua tedesca a confronto con il resto del mondo
all’avvento del nazismo. Le parole pronunciate dalle donne sono testi di poesia tedesca.
Durante la performance vengono suonati brani di Bach e Mozart; il solo elemento “diverso”, nel contesto
della festa privata, è dato dall’inserimento di una voce isolata che recita un brano tratto dal Processo di
Eichmann.
Alla fine della performance, Fabio Mauri legge il suo testo Che cosa è la filosofia. Heidegger e la questione
tedesca, dove riprende la tesi riguardante l’identità tra pensiero tedesco e pensiero europeo nel decennio
1930-40.
Intento della performance è far riflettere sull’esistenza, all’interno della cultura tedesca – e di conseguenza
europea – di un incolmabile dislivello tra la sfera più eccelsa del pensiero e dell’espressione umana e
l’abissale caduta di cui quella stessa società può essere capace.

Omaggio al Gutai. Avanguardia in concerto. 1990.

L’azione è stata realizzata per la prima ed unica volta nel salone centrale della Galleria d’Arte Moderna di
Roma per l’inaugurazione della mostra ‘Giappone all’avanguardia. Il gruppo Gutai negli anni 50’.
Nell’avvicendarsi di suoni e immagini, si impostano i termini di un’equazione tra cultura occidentale ed
orientale, con particolare riferimento agli elementi futuristi contenuti in entrambe; tramite un simile
impatto, il pubblico era in grado di accostarsi alla produzione del gruppo giapponese in modo più partecipe.

Il muro occidentale o del pianto. 1993.

In occasione della 45° biennale di Venezia del 1993 è stata riproposta Ebrea. Insieme all’allestimento storico,
composto da oggetti e di una performance, è stato costruito un muro del pianto, alto 4 metri, fatto di un’alta
catasta di vecchie valigie di cuoio, di varie forme e dimensioni, e percorsa da una pianta di edera
rampicante. Le valigie compongono una struttura architettonica armonica e regolare nel lato interno, verso
la sala di Ebrea, mentre nel lato esterno alla sala la struttura appare sconnessa, regolata sulle diverse
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dimensioni delle valigie, che sono tutte chiuse tranne una, dove compare l’immagine della prima performer
di Ebrea: Paola Montenero, fotografata da Elisabetta Catalano. Il muro è un esplicito riferimento al Muro del
Pianto di Gerusalemme, anche chiamato Muro Occidentale del Tempio di Salomone e diventa emblema
della divisione del mondo, dell’esilio e della fuga forzata. Quest’opera sviluppa la tematica di un precedente
lavoro intitolato Il Muro d’Europa, del 1979 con esplicita allusione al Muro di Berlino.

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